Viaggio nella piu grande riserva di petrolio d’italia - Il Texas italiano

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15.26 REPORTAGE Il Texas italiano, visto dai 1.725 metri del Sacro Monte di Viggiano, è di una bellezza che mette i brividi: boschi e monti e colli fin giù nella valle dove spicca, nota stonata tra tanto verde, il grigio metallico del Centro oli più grande d’Italia. Ovunque tu vada, in val d’Agri, non riesci a liberartene: la fiamma perennemente accesa a segnalarne la presenza, un rumore di sottofondo incessante come di lavori sempre in corso e le esalazioni di gas e zolfo. “Guarda, lo hanno costruito sulla traiettoria della Madonna”, esclama Salvatore Laurenzana, un fotografo locale che, con Mimmo Nardozza e Marcella di Palo, ha girato un breve documentario, Mal d’Agri, sugli effetti delle trivellazioni petrolifere in questo angolo di Basilicata. Per mostrarmelo lui e Nardozza mi hanno portato fin quassù, ai piedi del santuario più famoso della regione e ora, all’ombra di un faggio, ammiriamo un paesaggio da cartolina al centro del quale spicca questo monumento alla modernità, in linea d’aria perfettamente simmetrico al santuario della “patrona e regina della Lucania”, come fu incoronata da papa Leone XIII, nel 1890, la madonna dal volto del colore del bitume che qui in val d’Agri erutta naturalmente, al pari dell’acqua sorgiva. La Basilicata è la più grande riserva petrolifera d’Italia Ne rimasero colpiti pure alla grande esposizione universale di Parigi del 1878, quando di fronte all’ampolla d’oro nero arrivata dalla Lucania in molti rimasero stupiti quasi come davanti alla nuovissima tour Eiffel. Ma dovette passare ancora del tempo perché da quella “piccola sorgente di acqua mista a petrolio”, dove quest’ultimo “viene emesso in piccola quantità, ma in modo continuo sotto forma di viscide filacciche che vengono trascinate dalla corrente impeciando le sponde del ruscello e sprigionando un acuto odore caratteristico” e talvolta “anche delle bollicine gassose”, come si legge in un Bollettino della società geologica italiana datato 1902, si arrivasse all’estrazione vera e propria. Una colonizzazione vera e propria Viaggio nella più grande riserva di petrolio d’Italia Angelo Mastrandrea, giornalista

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15.26 REPORTAGE

Il Texas italiano, visto dai 1.725 metri del Sacro Monte di Viggiano, è di una bellezzache mette i brividi: boschi e monti e colli fin giù nella valle dove spicca, nota stonatatra tanto verde, il grigio metallico del Centro oli più grande d’Italia. Ovunque tu vada,in val d’Agri, non riesci a liberartene: la fiamma perennemente accesa a segnalarne lapresenza, un rumore di sottofondo incessante come di lavori sempre in corso e leesalazioni di gas e zolfo. “Guarda, lo hanno costruito sulla traiettoria della Madonna”,esclama Salvatore Laurenzana, un fotografo locale che, con Mimmo Nardozza eMarcella di Palo, ha girato un breve documentario, Mal d’Agri, sugli effetti delletrivellazioni petrolifere in questo angolo di Basilicata.

Per mostrarmelo lui e Nardozza mi hanno portato fin quassù, ai piedi del santuariopiù famoso della regione e ora, all’ombra di un faggio, ammiriamo un paesaggio dacartolina al centro del quale spicca questo monumento alla modernità, in linea d’ariaperfettamente simmetrico al santuario della “patrona e regina della Lucania”, come fuincoronata da papa Leone XIII, nel 1890, la madonna dal volto del colore del bitumeche qui in val d’Agri erutta naturalmente, al pari dell’acqua sorgiva.

La Basilicata è la più grande riserva petrolifera d’Italia

Ne rimasero colpiti pure alla grande esposizione universale di Parigi del 1878, quandodi fronte all’ampolla d’oro nero arrivata dalla Lucania in molti rimasero stupiti quasicome davanti alla nuovissima tour Eiffel.

Ma dovette passare ancora del tempo perché da quella “piccola sorgente di acquamista a petrolio”, dove quest’ultimo “viene emesso in piccola quantità, ma in modocontinuo sotto forma di viscide filacciche che vengono trascinate dalla correnteimpeciando le sponde del ruscello e sprigionando un acuto odore caratteristico” etalvolta “anche delle bollicine gassose”, come si legge in un Bollettino della societàgeologica italiana datato 1902, si arrivasse all’estrazione vera e propria.

Una colonizzazione vera e propria

Viaggio nella più grande riserva di petrolio d’Italia

Angelo Mastrandrea, giornalista 

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Tutto cominciò nella seconda metà degli anni trenta quando la neonata Agip cominciòa bucherellare il territorio senza che la “miseria contadina” descritta dall’economistaagrario e grandemeridionalista Manlio Rossi Doria, negli anni venti studente­ospite diun’azienda agricola e in seguito confinato dal fascismo proprio in val d’Agri, ne traessealcun beneficio.

Oggi la storia si ripete. La Basilicata è la più grande riserva petrolifera d’Italia: qui siestraggono il 70,6 per cento del petrolio e il 14 per cento del gas italiani.

Dalla terrazza naturale del Sacro Monte, Mimmo Nardozza indica i pozzi vecchi enuovi, a volte mimetizzati tra i boschi. L’umanità è rarefatta, da queste parti: perstrada si incontrano solo mezzi della statunitense Halliburton, tecnici della Totalfrancese o auto dei vigilantes locali, uno dei piccoli business fioriti attorno alleestrazioni.

Michele, un giovane del posto, fa eccezione: gli piace godersi la solitudine dellamontagna ed è salito quassù con la sua moto per cercare un po’ di refrigerio dallacanicola asfissiante del primo pomeriggio, lavora come elettricista per una ditta che hala sede nella zona industriale, vicino al Centro oli e per questo spesso è chiamato aeseguire lavoretti di manutenzione nei pozzi.

Racconta degli screzi tra gli operai che l’Eni ha fatto arrivare dalla Sicilia e quellilucani per uno sciopero al quale i primi non hanno aderito e non è contento del modoin cui sono trattati il territorio e la popolazione. “È una colonizzazione vera e propria”,afferma senza timori.

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Viggiano, 13 giugno 2015. (Andrea Sabbadini, Buenavista photo)

A Viggiano, poco più di tremila abitanti che affacciano sul Centro oli e su venti dei 27pozzi attivi in Val d’Agri, in molti hanno avuto o hanno a che fare con il petrolio: c’èchi ha preso soldi per un pezzo di terra espropriato, chi fa lavoretti occasionali e chi haun familiare impiegato, e tanto basta a far sì che dell’argomento in molti parlino pocovolentieri.

Ma la consapevolezza dei danni procurati all’ambiente è tanta, almeno a giudicaredalla conversazione con il mio occasionale interlocutore d’alta montagna, venuto acercare refrigerio in questo bosco incantevole dove ci si potrebbe pure abbeverare auna sorgente con annessa fontanella, se non fosse per una scritta, “acqua noncontrollata”. È stata messa lì dal comune che, nell’impossibilità di monitorarecostantemente le sorgenti, avverte gli assetati viandanti: se vi azzardate a bere, lo fatea vostro rischio e pericolo.

Il problema è reale: l’Acqua dell’abete, tra i boschi della vicina Calvello a 1.200 metrid’altitudine, è risultata inquinata, e anche questa potrebbe non essere limpida comeappare. “Ma i fedeli la bevono ugualmente perché pensano che è l’acqua dellaMadonna e non può far male”, spiega Michele.

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Viggiano è oggi la capitale del petrolio italiano. Nel suo comune ricadono venti dei 27pozzi della val d’Agri, nonché il Centro oli dove il gas viene separato dalla parte liquida(come pure lo zolfo), compresso e immesso nella rete distributiva della Snam. Ilgreggio, stabilizzato e stoccato, è invece spedito a Taranto, attraverso un oleodottolungo 136 chilometri, da dove prende soprattutto la via della Turchia.

Il paese è attraversato da una rete sotterranea di tubi che affluiscono dai pozzi verso ilCentro oli: ogni giorno nelle viscere del paesino lucano viaggiano 3,4 milioni di metricubi di gas e l’equivalente di 81.868 barili di petrolio (ogni barile contiene 159 litri).Sono queste cifre a fare di questa valle “il più grande giacimento onshore dell’Europaoccidentale”, come la definisce l’Eni.

Per paradosso, Viggiano è il comune petrolifero più ricco d’Europa in una delle regionipiù povere d’Italia. Accade per le royalty che puntualmente, dalla fine degli anninovanta, l’Ente nazionale idrocarburi versa nelle casse del comune: fino al 2010 sitrattava del 7 per cento del totale del petrolio estratto, poi è stato aumentato al 10 percento.

Nel loro immaginario la natura da fonte di vita si è trasformatain rischio di morte

L’Eni dichiara di aver pagato 1,16 miliardi di euro dal 1998 al 2013 (ultimo datodisponibile) e a Viggiano arrivano più di 11 milioni all’anno, così tanti chel’amministrazione ha perfino difficoltà a spenderli. “Ci finanziano sagre e feste estive,hanno messo fioriere dappertutto”, dice Nardozza, ma tutto ciò non basta a impedireche i giovani emigrino alla ricerca di fortuna altrove e in paese rimangano solo glianziani, come in molte aree interne del Mezzogiorno.

Nemmeno la presenza di tecnici e operai del Centro oli e delle aziende dell’indottopare aver modificato più di tanto lo stile di vita del paese. Alle due di pomeriggio,lungo il corso principale c’è una sorta di coprifuoco e all’unico bar aperto regnal’accidia mediterranea delle ore di fuoco.

A essere cambiato davvero, mi spiega Enzo Alliegro, è il rapporto della popolazionecon il territorio. Alliegro è un antropologo, insegna all’Università Federico II di Napolie ha dedicato alla questione del petrolio in Basilicata un libro, Il totem nero, nel qualeprova ad andare oltre la consueta critica ambientalista e ad analizzare le mutazioniantropologiche dettate dal cambiamento del rapporto tra la gente del luogo e lanatura.

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“La petrolizzazione ha danneggiato il territorio non solo sul piano ambientale epaesaggistico, ma pure su quello sanitario, identitario e della coesione”, sostiene. Valea dire? “Fino a ieri, per i lucani la terra era un elemento di identificazione culturale esociale. Nessuno dubitava dell’acqua e della salubrità dei prodotti locali. Ora invecepensano che le risorse naturali possano essere compromesse e questo cambiaprofondamente la loro identità. Nel loro immaginario la natura da fonte di vita si ètrasformata in rischio di morte”.

Sentirsi derubati

Un tempo gli eventi avversi erano eccezionali: un alluvione o un terremoto (qui lacultura popolare ancora porta la memoria di quello devastante del 1857, immortalatodal fotografo francese Alphonse Bernaud nel primo reportage fotografico di un sismadella storia del giornalismo). Oggi invece secondo Alliegro, grazie agli sconvolgimentiportati dalle trivelle, la natura è diventata perennemente matrigna.

Ma sono pure altri i sentimenti che agitano gli abitanti di queste terre: “Lapopolazione si sente derubata di una cosa che è sua e che dovrebbe rimanere a loro.Pensano, secondo me sbagliando, che il petrolio è lucano e ne debbano beneficiare gliabitanti del posto. In buona sostanza, ragionano in questo modo: ci avete derubato,messo a rischio e ora ci trattate come persone del terzo mondo. È uno schemainterpretativo al quale aderisce pure chi è a favore delle perforazioni”.

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La sorgente di Tramutola, il 13 giugno 2015. (Andrea Sabbadini, Buenavista photo)

Per addolcire la pillola ai suoi cittadini la regione Basilicata, dismessa ogni velleitàautarchica (qualche anno fa aveva minacciato di aderire autonomamente all’Opec,l’Organizzazione dei paesi produttori di petrolio), utilizza i proventi dell’oro nero perfinanziare lo stato sociale: tra i 20 e i 30 milioni al sistema sanitario, due milioni inborse di studio universitarie, 20 milioni in programmi di forestazione e per le vie blumarittime, 3,5 milioni in investimenti nella Società energetica lucana.

E ancora, dieci milioni all’anno vanno all’Università della Basilicata, altri soldi sonodestinati alla riduzione della bolletta energetica e del costo della benzina, nonché a unfondo di garanzia per le imprese.

In definitiva, il petrolio copre così tante spese culturali e sociali per i nemmeno600mila abitanti di una regione poco popolosa e priva di grandi città che la Cgil èarrivata a denunciare il rischio di una “dipendenza eccessiva dai diritti provenientidalle attività estrattive”. Cosa accadrà, lascia intendere il sindacato, se le royaltydovessero diminuire, come già potrebbe accadere quest’anno a causa del crollo deiprezzi del petrolio, o addirittura il giorno in cui tutto dovesse finire?

Cravatte al sole

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L’enorme giro d’affari attorno al business delle trivelle spiega perché, al di làdell’opposizione di facciata, nel mondo della politica locale al petrolio intendanorinunciare in pochi. Nel palazzo della regione a Potenza un tabellone segnalal’estrazione giornaliera come in un emirato arabo e attorno all’oro nero si gioca lastabilità di un sistema politico che non ha avuto grandi scossoni dai tempi della primarepubblica.

Ma l’opinione pubblica non è più la stessa che accettò senza battere ciglio le primeperforazioni negli anni novanta e i politici sono costretti a seguirne gli umori per nonperdere consensi. Le inchieste giudiziarie hanno fermato le nuove prospezionipetrolifere e la giunta regionale ha deciso di non concedere più nuovi permessi, ma lacorte costituzionale le ha dato torto e ora su tutta la regione incombono 18 nuoveistanze, firmate Shell e e Total, su una superficie di 3.896 chilometri quadrati e 95comuni interessati.

Nessuno pensa a uno stop al petrolio ma solo a comecompensarne gli effetti più deteriori

Lo sblocca Italia del governo Renzi, che qui considerano l’ultimo atto di unacolonizzazione cominciata con gli accordi del 1998 e proseguita con un successivoMemorandum, ha completato l’opera, scavalcando per legge gli enti locali eautorizzando trivellazioni un po’ ovunque, perfino di fronte alla costa di Policoro, sulmar Ionio, dove una decina di anni fa ci fu una vera e propria sommossa popolarecontro la proposta dell’allora governo Berlusconi di costruirvi il sito unico per le scorienucleari.

Nelle scorse settimane il governatore Marcello Pittella, fratello di Gianni –capogruppo dei socialisti al parlamento europeo – e figlio dell’ex senatore socialistaDomenico – che nel 1981 curò clandestinamente nella sua clinica di Lauria (sulversante tirrenico) la brigatista Natalia Ligas ferita in uno scontro a fuoco– si èpresentato a una manifestazione contro le previste perforazioni in mare, ma è statocontestato dai comitati No Triv: “Basta con le sfilate di cravatte al sole”, gli hannourlato.

Al presidente della regione viene imputata la debole opposizione allo sblocca Italia e lamancata impugnazione di un articolo, il 38, che secondo l’Organizzazioneambientalista lucana (Ola) regalerebbe alle compagnie petrolifere il 78 per cento delterritorio regionale. Ma non finisce qui. Secondo Nardozza “la Basilicata è destinata a

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diventare l’hub energetico più importante d’Italia”.

La nuova frontiera si chiama Tap (Trans­adriatic pipeline) ed è il gasdotto che dallafrontiera greco­turca porterà il gas del mar Caspio in Europa. Da Taranto la condottapasserà per la val d’Agri, facendo il percorso inverso a quello che fa oggi il gas estrattoda queste parti, e “il Centro oli è destinato a trasformarsi in un gigantesco deposito”.

Per capirne un po’ di più degli orientamenti politici me ne vado a un convegno sullasanità promosso dal Pd a Villa d’Agri, il capoluogo commerciale della valle, apochissimi chilometri dal Centro oli.

Prendono la parola esponenti della regione, sindaci e politici delle zone del petrolio. Siparla di ospedali ma il tema dominante è l’onnipresente petrolio. C’è allarme sullepatologie causate dall’inquinamento ambientale e nello stesso tempo bisogna farfronte ai tagli previsti dalla spending review del governo, e il leit motiv del convegno èla capacità o meno di spendere alcuni fondi europei.

In buona sostanza, nessuno pensa a uno stop al petrolio ma solo a come compensarnegli effetti più deteriori. Così vanno le cose nella “Basilicata Saudita”, come l’haefficacemente definita il segretario dei radicali lucani Maurizio Bolognetti, autore dinumerose denunce sui disastri ambientali provocati dalle perforazioni.

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Leonardo Fiore, ebanista, a Viggiano, il 13 giugno 2015. Fiore ha recuperato la tradizione delle“arpicedde”, le arpe a 34 corde. (Andrea Sabbadini, Buenavista photo)

Viggiano è la città della Madonna nera, del petrolio che ha lo stesso colore dellaVergine e di musicisti nomadi. A rammentarlo è un’insegna che accoglie i visitatoriall’ingresso del paese, appollaiato su una collina sovrastata dal Sacro Monte e a suavolta affacciato sul Centro oli. Molto prima che si cominciasse a estrarre l’oro nero, gliemigranti partivano in squadre da quattro, portandosi dietro i ferri del mestiere: unviolino, un flauto, un clarinetto e l’“arpicedda”, una particolare arpa con 34 corde,abbastanza maneggevole per essere trasportata da compagnie itineranti.

Leonardo Fiore è uno degli ultimi eredi di questa antica tradizione. Non sa suonarema ha recuperato un’attività artigianale che toccò il suo apice quando un emigranteviggianese, Nicola Reale, regalò uno strumento di sua fabbricazione (in realtà sitrattava di un violino e non di un’arpa) al presidente americano Richard Nixon.

Mi invita nel laboratorio in un vicoletto del centro storico per mostrarmi il suocapolavoro: un’arpa in legno di frassino, abete rosso della val di Fiemme e corde dibudello, appena ultimata dopo quattro anni di lavoro. È in vendita al prezzo di tremilaeuro.

Luoghi mitici

Per almeno un secolo e mezzo la musica ha dato da vivere a buona parte del paese,come si legge nel primo numero del periodicoL’arpa viggianese, datato 1873:“Viggiano proprio per l’arpa si ha mutato in casa ogni tugurio”. A questo giornale èlegato un aneddoto singolare:quando nel 1878 uscì il romanzo Sans famille di HectorMalot, in paese identificarono il personaggio di Vitali, che avvia a una vita da arpistagirovago il trovatello Remi, con un musicista del luogo, e si offesero terribilmenteperché Vitali era ritratto come uno sfruttatore del lavoro infantile, cosa che invece èstata edulcorata nel successivo cartone animato giapponese degli anni ottanta (il“dolce Remi, piccolo come sei, per il mondo tu vai” della sigla italiana firmata VinceTempera che vedranno milioni di bambini).

Diciamoci la verità: l’idea di coniugare ambiente e petrolio è unagrande cazzata

I redattori dell’Arpa viggianese (alcuni docenti ed esponenti del notabilato locale) sidiedero così l’obiettivo di “restituire la rettitudine morale e politica dei musicanti”,

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considerati alla stregua dei gitani di oggi e dunque vittime di razzismo. L’epopea degliarpisti zingari incise in profondità la cultura viggianese, al punto da ispirare alcunidetti: “Misurare l’Europa da un capo all’altro è affare da nulla per il viggianese”oppure “ogni luogo è teatro pel viggianese”.

Il poeta Pietro Paolo Parzanese declamò in versi, nel 1846: “Ho l’arpa al collo, sonviggianese, tutta la terra è il mio paese”. In una corrispondenza del 1884 GiovanniPascoli scrisse a Giosué Carducci che “gli arpeggiamenti per tutto il paese” facevanodel comune della val d’Agri l’Antissa della Lucania, paragonando il paesino in cui erastato inviato come commissario per gli esami scolastici al luogo mitico dell’isola diLesbo in cui nacque il poeta e suonatore di lira Terpandro, considerato il fondatoredella musica greca antica.

Alla fine di maggio è morto, alla veneranda età di 95 anni, l’ultimo grande esponentedi una lunghissima tradizione. Si chiamava Victor Salvi, aveva suonato nell’orchestrafilarmonica di New York e nella Nbc orchestra diretta da Arturo Toscanini, suo fratelloera stato a sua volta un arpista di livello mondiale (si esibì con EnricoCaruso, Beniamino Gigli e Tito Schipa, tra gli altri) e insieme avevano fondato la SalviHarps, tuttora un colosso del settore.

Ma questa storia a Viggiano pare rimossa, come se gli emigranti, lasciando il paese,avessero portato via pure la sua musica. Nonostante la buona volontà di qualcuno e lebuone potenzialità legate a un mercato di nicchia rispetto al quale potrebbero contaresu un know how plurisecolare, alle arpe si preferiscono le trivelle. Leonardo Fiore loammette sconsolato: “Oggi nessuno vuole fare più quest’attività, tutti voglionolavorare con il petrolio”.

Compensare i danni

A separare il pozzo Monte Alpi 1 dalle stalle dell’azienda agricola Sassano è unreticolato e null’altro. Ci arrivo passando per la sede della fondazione Enrico Mattei,che utilizza un bel convento restaurato e si premura di incentivare il turismosostenibile e di fare di Viggiano un albergo diffuso, nel tentativo di compensarel’impatto ambientale delle estrazioni.

Lungo una strada poderale, in un’area che dovrebbe essere espropriata per consentirel’apertura di una quinta linea del Centro oli, tra terreni coltivati e vecchie abitazioni inpietra, spunta un’antica sede sindacale della metà dell’ottocento, in una casa colonicaristrutturata.

Il proprietario dell’azienda, Gaetano, non c’è ma risponde al telefono, chiamato da un

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suo dipendente indiano: “Da quando sono spuntati i pozzi per me è stata la fine”, dice.Il vino che produce non lo vuole più nessuno e le mucche hanno cominciato a moriresenza motivo: “In meno di un mese ne ho seppellite quindici e nessuno sa darmi unaspiegazione”. Davanti all’azienda ce n’è una con una sorta di distrofia muscolare,scheletrica, separata dalle altre, gli occhi che paiono implorare aiuto. “Diciamoci laverità: l’idea di coniugare ambiente e petrolio è una grande cazzata”.

Il monumento commemorativo del terremoto del 1857 a Grumento Nova, il 13 giugno 2015. (AndreaSabbadini, Buenavista photo)

Nel centro di Grumento Nova incontro un simpatico personaggio che non vuole dire ilsuo nome ma è votato alla chiacchiera e incline alla citazione colta. È un professore diliceo in libera uscita estiva, tipica figura d’intellettuale magno­greco di paese e, da unapiazzetta affacciata sulla val d’Agri, sulla collina di fronte a quella su cui è costruitaViggiano, indica il Centro oli, la “cattedrale nel deserto”: “Una volta questa era unavalle bellissima, del vino di Grumentum”, l’antica città romana, una sorta di Pompeilucana oggi parco archeologico, “ne parla Tito Livio, ma ora arriva un olezzo…”.

La cittadina non beneficia di royalty milionarie come Viggiano ma risente degli effettipiù sgradevoli: il rumore, specie di notte quando tutto tace, le esalazioni che non

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deliziano l’olfatto, la moria di carpe nel lago Pertusillo, invaso artificiale che, volgendolo sguardo verso la sinistra da questo paese­terrazza, si estende a perdita d’occhiocircondato dai boschi.

Dovrebbe essere una riserva naturale, quest’ultimo, un’oasi nel verde che fornisce allaPuglia, attraverso una mastodontica diga alta cento metri, il 65 per cento del suofabbisogno di acqua potabile e per usi irrigui: 4.500litri al secondo, per una capacitàdi 155 milioni di metri cubi.

Da anni, invece, si susseguono denunce e controdenunce, analisi e controanalisi, inuna guerra di dati e notizie che servono solo a far confusione e a coprire di una spessacoltre di disinformazione l’intera questione.

Tre tipi di scienza a confronto

Da quando muoiono le carpe attorno al Pertusillo è accaduto di tutto: un tenente dellapolizia provinciale che aveva diffuso i dati sull’inquinamento è stato sospeso dalservizio, processato per rivelazione di segreto d’ufficio e poi definitivamente assolto,l’Arpa della Basilicata ha censito la presenza di ben 21 metalli pesanti nelle acque dellago, cinque dei quali passati indenni perfino agli impianti di potabilizzazione,l’Organizzazione lucana ambientalista ha denunciato concentrazioni di idrocarburisuperiori ai limiti legali nel 70 per cento dei campioni mandati ad analizzare, specie incoincidenza con la foce del fiume Agri che attraversa le terre del petrolio.

Sono finite sotto accusa le trivellazioni e i depuratori malfunzionanti, i cambiamenticlimatici e calamità naturali come la misteriosa comparsa di una devastante algarossa.

Da ultimo, un deputato lucano cinquestelle, Vito Petrocelli (con un passato recentenell’estrema sinistra dei Carc), ha presentato un dossier alla commissione ambientedel parlamento europeo sostenendo che l’inquinamento del Pertusillo è tutta colpa delfracking, la tecnica di fratturazione idraulica utilizzata dalla Halliburton per cercaregas e petrolio. Per dimostrarlo, ha fatto un parallelo con un analogo fenomenoavvenuto in un lago del Kentucky.

Il petrolio, da queste parti, viene fuori anche se nessuno lo cerca

Ma, come per la puzza e il rumore del Centro oli, nessuno è finora riuscito adimostrare un legame di causa­effetto e a stabilire responsabilità e pericoli per lasalute. E chi è stato chiamato a fornire un’analisi scientifica non ha contribuito a

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diradare le nebbie.

“Qui si scontrano la scienza di stato che fornisce una verità ufficiale, quella aziendaleche porta acqua al mulino dei petrolieri e un’altra di prossimità, fatta da medici,ingegneri, geologi ed esperti locali di vario genere che studiano il territorio e svolgonoun’importante opera di denuncia ed educazione delle popolazioni”, dice l’antropologoAlliegro.

Poi c’è quella che definisce “la scienza dei senza scienza”, vale a dire le conoscenzelegate alle esperienze sensoriali degli abitanti del luogo, che sono insofferenti airumori, soffrono per la puzza e si rendono conto che l’acqua non è più quella di unavolta. Di fronte a questa evidenza, non c’è soglia di legge o interpretazione che tenga:lo scienziato senza scienza, abitante e profondo conoscitore dei luoghi per esperienzadiretta, si rende conto che oggi in val d’Agri non si vive più come un tempo. Indefinitiva, per Alliegro esiste un danno percepito che è molto superiore a quellocertificato.

Assistenzialismo allo stato puro

Che non sia facile attribuire colpe è testimoniato pure da un’altra evidenza: il petrolio,da queste parti, viene fuori anche se nessuno lo cerca.

Ne ho la prova in un canyon di Tramutola: da una sorgente, a poca distanza da unparco acquatico che sfrutta le acque sulfuree del sottosuolo, sgorga l’oro nero diLucania, viscido e oleoso. Forma una sorta di ruscello nerastro e va poi a riversarsi inun torrente, il rio Cavolo. In qualche punto si addensa e si formano delle bollicine dimetano, mentre l’acqua sulfurea gli scorre addosso e scende a grande velocità verso ilrio, lasciando per strada molte impurità.

Mi dicono che è proprio da questa sorgente che nel 1878 fu riempita l’ampolla daportare all’Expo di Parigi ed è difficile credere che sia ancora viva in qualcuno laconvinzione che, come per l’acqua della Madonna sul Sacro Monte, il composto cherigurgita dalle viscere di Tramutola abbia effetti curativi.

Proseguendo oltre, si incontrano le vestigia dell’“eldorado nero” della seconda metàdegli anni trenta, come fu definito dagli amministratori dell’epoca. Si tratta di 47 pozzisvuotati e abbandonati, una sorta di avvertimento per quello che potrà accadere infuturo alle estrazioni di oggi.

Oggi il miraggio petrolifero si è spostato di poco, dalle gole di questo paesino lucanoall’altro capo della valle. Ha conquistato politici e gente comune, lasciando credere cheinsieme alle jeep e alle trivelle sarebbero arrivati soldi, benessere e lavoro per tutti.

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L’Eni fornisce qualche numero: 2.881 impiegati in Basilicata, di cui 348 direttamente(tra questi 206 lucani) e 2.553 (1.077 del luogo) nelle aziende dell’indotto o “nellacatena di fornitura di beni e servizi”. Davide Bubbico, sociologo all’università diSalerno e autore del dossier per la Cgil, puntualizza: “Si tratta in gran parte di attivitàa basso valore aggiunto”.

In buona sostanza, per i giovani del posto che non emigrano il petrolio rimane unmiraggio: si accontentano di mansioni poco qualificate, stipendi bassi e, almeno nellametà dei casi, di contratti a tempo determinato (spesso legati alla manutenzione degliimpianti o a esigenze particolari), mentre le vecchie arpe ereditate da genitori e nonnirimangono gelosamente sigillate in casa come pezzi d’antiquariato, senza che nessunodi loro sappia però più utilizzarle.

“Sono tutti lavoretti per far stare tranquilla la popolazione, i giovani sono impiegatisolo per pochi mesi, si tratta di assistenzialismo allo stato puro”, chiosa il professore diGrumento Nova, che azzarda un paragone con l’araba fenice, “che vi sia ciascun lodice, dove sia nessun lo sa”. Per l’anonimo erudito magno­greco “l’Eni ha portatoun’illusione di tipo foscoliano”: “Si tratta di una speranza che non arriva mai”, dice,anche se nessuno da queste parti vuole rinunciare a crederci.