La Ricetta della Notte Perfetta

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di Irene Pampanin, racconti fantasy L’autrice di “Rifugio Settimo Cielo” torna con una nuova raccolta di racconti dove è sempre più difficile distinguere la realtà quotidiana del vivere dal suo surreale evolversi in sogni. È lì, nel momento in cui l'inconscio prende il sopravvento e tutto diventa possibile, lì dove si annidano i sogni, ma anche gli incubi peggiori, che si va a scrutare. È nella natura di tutti noi. Come nell'opera precedente, il tema della fantasia quale mezzo per salvarsi dalla realtà rimane centrale, ma non sempre accessibile. Ecco dunque il vivere quotidiano intriso di gioie e incalzato da eventi talvolta drammatici, sentimenti in uno sciame di polvere di stelle, favole dove angeli e libellule danzano insieme sul lago delle Baste, la Natura che suona ne “L'orchestra del Silenzio”, i quadri di Magritte e Dalì ricolorati dalla fantasia, gli incontri surreali con Dino Buzzati, il tutto per lo più nelle Dolomiti, dove giganteggia il monte Pelmo. La Notte Perfetta reste

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IRENE PAMPANIN

La ricetta della Notte Perfetta

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LA RICETTA DELLA NOTTE PERFETTA Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-659-2 Copertina: “Lo stelliere” di Dolo-Mitico

Prima edizione Gennaio 2014 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

La presente raccolta di racconti è opera di pura fantasia.

O forse no?

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Come può un uomo misurare il suo posto nel mondo

se non trova mai il tempo di guardare il cielo? I.P.

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Introduzione Renato De Carlo, giornalista E... se non bastasse crescere diventando adulti tra gioie e difficoltà quotidiane? Se ci mettessimo un pizzico di sogni nelle cose che facciamo e vediamo, se le facessimo brillare come stelle nel grande universo della vita? Irene ci prova, seriamente, a giocare con fantasia e realtà, regalandoci nel libro LA RICETTA DELLA NOTTE PERFETTA piacevolissimi racconti dove le sue sensazioni, le sue esperienze, i suoi incontri con natura e uomini, diventano la pietra filosofale del vivere “bene” e del vivere “giovane”. C'è dentro in un quadro di sensazioni e colori la magia della Notte Perfetta, l'eterna sfida tra il Cacciatore e il Cervo, il dramma di Gaia e Francesco che hanno chiuso le porte al mondo, l'incontro sognato con Buzzati, i pochi secondi di libertà dell'Onda clandestina nell'Ora Dalì, la gioia della Salita al Pelmo zero metri sotto il cielo… Irene è osservatrice attenta, curiosa, sogna e trasfigura quel che basta prima che la realtà scompagini l'immaginario e ritornino i perché esistenziali. Il tutto con una freschezza di stile e di sentimenti che prende ed emoziona anche il lettore d'oggigiorno, sempre più impossibilitato a concedersi pause e godere di quanto ha intorno, a immaginare, a riflettere. Irene ti porta dentro il racconto quasi fosse una dimensione interattiva, un mondo dove hai dei riferimenti ma sei tu a navigare e a sceglierti il ruolo, immaginando e condividendo anche il non scritto. Questo è il risvolto forse più innovativo. Irene Pampanin, nata nel 1985, ama vivere nel paesino di Selva di Cadore ai piedi del maestoso Monte Pelmo, luoghi magici dei suoi racconti. Giornalista pubblicista, buona conoscitrice delle odierne

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tecniche di comunicazione multimediale, ha già pubblicato nel 2010 con la stessa Casa Editrice il primo libro di narrativa RIFUGIO SETTIMO CIELO, libro che ha riscosso buon successo. Scrive deliziosamente. Io ho avuto l'occasione di seguirla come giornalista al mensile Il Cadore che ho diretto (dove fra l'altro sono stati anticipati alcuni brani inseriti in questo libro) e sono onorato di presentare questo suo lavoro. Anche perché Irene rappresenta una generazione giovane e pulita, attiva e disincantata, talvolta intrappolata, per fortuna ancora ancorata ai luoghi dell'infanzia e alla sua gente, condizione questa che funziona da sfogo all'anima. Dolo-Mitico, illustratore È un viaggio strano quello che Irene mi ha invitato a fare, chiedendomi di illustrare il suo libro. Non c’è una traccia definita, un sentiero segnato da seguire, ma sta a chi legge trovare un filo conduttore nel cammino scandito da questi trentadue racconti. Così anch’io mi sono sentito sopraffarre da sensazioni sempre nuove, stimoli che racconto dopo racconto cambiano e che lasciano un segno emotivo sempre profondo. I disegni che si trovano in questo libro sono un invito a introdursi nell’atmosfera che all’interno si respira, ma chi li osserva è libero di non riconoscersi nelle mie impressioni, che sono frutto di un’emozione soggettiva e che vogliono lasciare a ciascuno la libertà di dare una propria definizione figurativa e cromatica. E così attraverso ambientazioni e racconti spesso surreali e sempre suggestivi, ciascuno troverà la propria strada per scoprire che in ogni notte, se si guarda bene, è nascosta la Notte Perfetta.

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Silenzio… Che cosa sentite?

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LA RICETTA DELLA NOTTE PERFETTA

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Nei pressi di Borca di Cadore un angelo aggrappato alla cima di un campanile guarda indisturbato il monte Pelmo e questa è cosa nota. Non tutti sanno però che quando cala la notte sull’acqua turchina, in una certa sera d’estate, l’angelo scuote le ali e, come se niente fosse, scende dal campanile. A dire il vero, non accade spesso: potrebbero passare millenni prima che qualcuno possa vedere una cosa simile. Serve infatti una Notte Perfetta e preparata con minuziosa cura. Oltre all’acqua turchina e la sera d’estate, prendete nota, ci vogliono: un bel pizzico di luna (possibilmente d’oro bianco e non del tutto piena), qualche grammo di nuvole (ben ammorbidite), dei fulmini tagliuzzati finemente a zig-zag, un milione di gocce di pioggia (da lasciar cadere poco alla volta e lentamente), una spruzzata di bosco e una spolverata di stelle. Mi raccomando però, quest’ultime tenetele da conto se avete la fortuna d’averle: a volte ne basta solamente una a rendere speciale la Notte Perfetta. Dopo di che, basta aggiungere un lago (in alternativa potete mettere uno sguardo, l’importante è che abbia la stessa profondità) e un filo di musica, di quella che cambia a seconda del cuore che l’ascolta. Ed ecco fatto: a questo punto non resta che mescolare il tutto. Affinché la Notte Perfetta riesca, non usate mestoli di legno: per impastare l’universo occorre un pennello che lasci un’impronta unica. Niente è dunque meglio del vostro dito. Immergetelo nell’impasto e mescolate, piano e in senso antiorario per diversi minuti (almeno fino a quando non sentite d’essere vicini all’infinito). Raccomando sempre, in questa fase, di chiudere gli occhi e immaginare d’essere seduti nell’anfiteatro del monte Pelmo ad applaudire lo spettacolo della Vita, ascoltando in silenzio il rumore che fa l’eco dell’Universo dentro di voi. In questo modo si creeranno sul vostro viso lacrime di malinconia (che però sono dolcissime, quindi ottime per le ricette) e un chilo di sorrisi a 3.168 emozioni che se dovessero cadere nell’impasto della Notte Perfetta, gli darebbero l’ingrediente più raro e ricercato: la magia (non reperibile in altro modo, se non perdendosi nelle lacrime e nei sorrisi di qualcun altro). Una volta raggiunta la giusta consistenza, ovvero quando tutto diventa troppo bello per essere contenuto solo nel vostro cuore, lasciate che la Notte Perfetta esploda: schizzerà via da sola verso l’angolo di cielo che avrete precedentemente svuotato e riposto nella vostra anima.

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Ed ecco che guardando verso il campanile di Borca di Cadore illuminato d’azzurro dalla luna, vedrete l’angelo stiracchiarsi, sbattere le ali e scendere sulla strada proprio accanto a voi. Peccato che, dopotutto, presi dagli affanni quotidiani, non ve ne accorgerete nemmeno…

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IL CERVO LO SAPEVA

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L’uomo, ben coperto e ben armato, avanzava deciso nel mistero del bosco. Sussurri di neve si facevano spazio tra i rami e il cacciatore tratteneva il fiato per non fare rumore. Con un cenno della mano invitava il suo bambino a seguirlo: era abbastanza grande da poter comprendere l’arte del mestiere. La barba dell’uomo raccontava il tempo trascorso e i suoi passi pesanti erano come piume nella neve che cominciava a cadere. Il figlioletto si dimostrava già abile ed esperto come uno gnomo: schivando sassi e tronchi caduti, saltellava dietro al padre in assoluto silenzio, respirando a fondo l’aria fresca dell’alba. Poco lontano il re della foresta alzava le corna alla luce del sole e con il muso spingeva il suo cucciolo fuori dalla tana. Le zampe del piccolo erano ormai abbastanza forti da poter correre abili nel bosco. Le innumerevoli punte sulle corna del cervo svelavano che l’animale doveva avere parecchi anni e la sua “corona” era destinata a passare sul capo del figlioletto. Il cucciolo, mentre varcava la soglia del suo castello di foglie, aveva gli occhi grandi e intimoriti. Le lunghe ciglia nere cominciavano a inumidirsi di neve e il piccolo assaporò per la prima volta l’immensità dello spazio intorno. Intanto l’uomo, seguito dal bambino, penetrava nel bosco. Da tempo aveva individuato la tana del cervo. Dopo innumerevoli tentativi falliti, questa volta sapeva esattamente dove aspettarlo. L’avrebbe preso alle spalle, la bestia non si sarebbe nemmeno accorta dello sparo. Già immaginava lo sguardo orgoglioso del figlio quando lo avrebbe accompagnato a toccare da vicino la preda ormai esanime. I suoi pensieri furono presto interrotti da un movimento tra i rami. Il cacciatore, certo che lì in mezzo ci fosse il re del bosco, tirò da una parte suo figlio, nascondendosi esattamente nel punto che aveva previsto. Nello stesso momento il cervo varcava le rive del bosco. Il cucciolo, ancora inesperto, era rimasto poco più indietro. Il re si avvicinò alle fresche acque del ruscello, aspettando ansioso che il suo piccino arrivasse accanto a lui per assaporare la dolcezza della sorgente. Già immaginava lo sguardo sorpreso del cucciolo nel vedersi per la prima volta riflesso nell’acqua, nel sentire la consistenza strana dell’acqua. I suoi pensieri furono interrotti da uno scricchiolio sospetto tra i rami.

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Era il cacciatore. Lo sapeva. Non era così stupido: l’uomo si era preparato, convinto di braccarlo ma il cervo lo sapeva. E anche lui si era preparato. Il cacciatore mirò dritto al collo dell’animale. Prese la mira. «Sta a vedere…», disse al bambino. Ficcò l’occhio nel mirino, sfiorò il grilletto e sgranò le pupille. “Ma che diavolo è quello?!” si chiese incredulo quando davanti a sé vide brillare qualcosa tra le zampe dell’animale. Il cervo estrasse un fucile che diligentemente aveva nascosto tra i sassi e mirò dritto al cuore del cacciatore nascosto tra i rami. L’uomo, ancora sbigottito, si rese conto appena in tempo di ciò che stava accadendo. Tornò in sé e senza esitare sparò dritto verso il re del bosco. Il sensibile udito del cervo sentì il grilletto del cacciatore piegarsi e senza altre alternative, sparò verso di lui. In quel momento uno stormo d’uccelli spiccò il volo verso il cielo. Poi, silenzio. Sull’orlo del torrente giacevano due corpi, quello di un uomo e quello di un cervo. Accanto a essi un cucciolo di capriolo si accasciava sul collo del re piangendo lacrime invisibili e un bambino disperato si buttava tra le braccia del padre ormai esanime. Un piccolo d’uomo e un piccolo d’animale condividevano in quel momento lo stesso destino. La caccia era finita. Bilancio: due morti e due orfani. «La caccia sarebbe uno sport bellissimo se anche gli animali avessero un fucile». G. MARX

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LA DANZA DELLE CIGLIA

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La guardo sospirare e non so più che cosa dire. Tiene le labbra serrate e si sforza di sorridere. Le tengo la mano e le sue dita si avvinghiano forte intorno alle mie. Non ha abbastanza forza per parlare, forse trattiene il fiato per il dolore. Nei suoi occhi leggo la preoccupazione per il momento che sta per arrivare. Le accarezzo la fronte: è caldissima. Lei chiude gli occhi e d’improvviso esplode in un grido lacerante. Io non posso più guardare. Mi dicono che posso restare ma mi consigliano di tenere gli occhi chiusi se non riesco a sopportare di vedere la mia ragazza soffrire. Mi fanno allontanare un po’ ma la sento ancora. Raccolgo il mio viso tra le braccia e abbasso le palpebre: il cuore mi palpita ovunque nel corpo. Cerco di stare calmo, di convincermi come nei film che “andrà tutto bene”. Le gambe però iniziano a tremarmi e sento il mio corpo afflosciarsi sulla sedia, come un orologio di Dalì. Lei è sdraiata su di un letto bianco. I capelli biondi, sparsi come raggi di Sole attorno al suo viso, profumano di pesca e di mandorle. Respira lentamente. Vorrei accarezzarle la fronte ma non posso. La guardo come se la incontrassi di nuovo per la prima volta: è sempre bellissima, anzi, lo è ancora di più… Ma dove sono i suoi occhi azzurri?… Rincorro con lo sguardo ogni piega del suo viso fino a raggiungere lo spazio immenso occupato dai suoi laghi ma, ahimè, sono scomparsi, coperti da dolci palpebre che forse ancora dormono. Qualcosa però si muove. Le ciglia tremano e la pelle comincia contorcersi. Le ciglia sbattono scontrandosi, si avvinghiano come due innamorati, strette tra di loro. Poi si mescolano, si muovono, danzano attorno ai suoi occhi serrati dal dolore. Quando sfregano una sull’altra, pare quasi di sentire il canto dei grilli che accoglie il battito profondo della vita. Poi la danza si ferma: una goccia di rugiada cola via dagli occhi di lei. Le ciglia si colorano di acqua e ricominciano a danzare insieme alla rugiada che pian piano fugge giù, verso le labbra. E da quelle labbra d’improvviso esplode un grido. Le gocce vibrano tra le ciglia. La danza si ferma. D’improvviso esplode un pianto… Balzo in piedi ancora un po’ barcollante dall’emozione. È nato il mio bambino.

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PUNTO D’INCIDENZA

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Gaia è felice: la sua nuova casa ha proprio il profumo che aveva immaginato. Il suo giovane sposo sta arrivando. Gaia scende le scale di corsa, questa volta i risultati delle analisi devono per forza essere positivi. La nausea che l’accompagna ormai da diverso tempo non le ha lasciato alcun dubbio: è incinta. Roberto scende dal bus, stanco dell’ennesima giornata passata sui libri dell’università. Va a prendere la sorellina al corso di danza e, tenendole la mano, la conduce insieme a lui verso l’ospedale. Ritira le analisi del padre, le getta distrattamente sul sedile e accompagna Margherita a casa. Poi sale in macchina e riparte di fretta. Suona il telefonino. Risponde. «Ciao papà, sono uscito, lo sapevi che sarei uscito. Ah, sì… Le analisi, sono qui». Roberto tiene la mano sinistra sul volante e con l’altra cerca di scartare la busta. «Dunque vediamo qui dice che…». Svolta a destra, senza mettere la freccia. Si ferma e rilegge i risultati. Deglutisce. «Beh, allora?», gli chiede il padre. «Stai benissimo papà, meglio di me…». «Due mesi, mi rimangono solo due mesi». Gaia guarda le analisi con gli occhi sbarrati, il cuore in gola, le mani poggiate sulla pancia, vuota. Il marito si tiene il viso tra le dita, sembra quasi volersi strappare i capelli. Il cuore gli batte forte, allora serra i denti per non lasciarlo uscire. Sua moglie è accanto a lui ma non sarà per sempre. La guarda piangere, composta ed educata, come sempre, mentre lui sta morendo dentro. E l’unica cosa che riesce a fare è allungare la mano e stringere Gaia forte tra le sue braccia. Roberto cambia strada. Torna in ospedale. Vuole parlare con qualcuno. Vuole conferme. Il medico gli dice che “non ci sono dubbi”, è proprio così: proprio così, a suo padre rimangono due mesi di vita. Forse. Il ragazzo strappa la busta e la getta nel cestino, chiama i suoi amici per avvisarli che non sarebbe arrivato. Poi risale in macchina e torna a casa. «Ciao papà, ho cambiato idea, stasera ceno a casa». «Quale onore!», risponde simpaticamente il buon Mario. «Le mie analisi?», chiede. «Accidenti, le avevo messe proprio qui in mezzo agli appunti ma non riesco più a trovarle», risponde impacciato Roberto. «Non fa niente figliolo, tanto vostro padre è sano come un pesce…», risponde Mario,

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imitando con la bocca un pesce rosso. Margherita ride, Roberto ride ma in realtà sta morendo dentro. Come avrebbero passato gli ultimi giorni prima della fine? Gaia e Francesco non escono più di casa. Vogliono solo starsene soli, sul divano, a guardarsi, a ricordarsi, ad attendere così il giorno maledetto. Non vogliono sprecare nemmeno un minuto di quei due mesi. Hanno chiuso le porte al mondo mentre Gaia non fa che chiedersi quanto male farà morire. Francesco cerca di distrarla ma non c’è altro pensiero nella sua mente. Forse non le avrebbe dovuto dire niente: ma come tenersi dentro un peso così grande? Mario gioca con la piccola Margherita, inconsapevole di tutto. È felice, come un bambino. Si rotola nel prato, rincorre la figlia, poi si sdraia sull’erba, sfinito dopo pochi secondi. Roberto guarda la scena, la vive fino in fondo. Vorrebbe piangere ma non può. Forse avrebbe dovuto dire la verità al padre: ma perché rovinargli gli ultimi giorni di vita? Così Roberto decide di tenere per sé un peso così grande…

* * * Due vite, distanti ma accumunate da uno stesso destino. Due rette sconosciute che piano si avvicinano fino a intersecarsi nell’unico possibile “punto d’incidenza”. Vite, illimitate. Rette che in qualsiasi direzione andranno, rimarranno pur sempre “infinite”.

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NOTTE DI CARTA

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Spengo la luce e spalanco la finestra. Una leggera brezza mi sfiora la pelle. Respiro un po’ d’aria fresca prima di sdraiarmi sul letto, già sicura di non chiudere occhio. Il caldo quasi mi soffoca, il termometro sopra la scrivania indica 28° nonostante sia notte fonda. Lascio le ciabatte sotto il davanzale e cammino scalza fino al letto, felice di sentire il pavimento freddo sotto i piedi. Chiudo gli occhi. Pochi istanti e il caldo già mi tormenta. Scalcio lontano il lenzuolo e mi giro dall’altra parte cercando con le braccia un angolo fresco sotto il cuscino. Intanto anche i pensieri più pesanti cominciano a farmi sudare. Cerco di rilassarmi ma ogni rumore raddoppia d’intensità quando si scontra con il mio orecchio. Sento le auto che passano, gli schiamazzi degli ubriachi sul marciapiede, le bottiglie che si infrangono sull’asfalto, le risate dei ragazzi ancora in giro. Più di tutto, sento il battito del mio cuore nello stomaco, fastidioso e impertinente, sempre più veloce e distruttivo. Mi butto a faccia in giù nel cuscino e guardo il cellulare sperando che qualcuno mi abbia scritto: non voglio passare un’altra notte insonne da sola. Passano i minuti, lenti, non ne perdo nemmeno uno… Sono le 24.35, le 24.36, le 24.37, le 24.38… Ho il viso rivolto verso l’alto. Le stelle si illuminano come schegge di neve sotto la luna. L’Orsa Maggiore spicca chiara nel cielo. I contorni scuri delle montagne stanno appesi come quadri alla volta celeste. La via Lattea indica sempre il sentiero che conduce all’infinito. Guardo incantata la parte di mondo che preferisco e sento il mio respiro diventare lento ed evanescente: entra bianco, esce nero. Sotto le stelle l’ombra scura diventa più nitida, i contorni della roccia sporgono dal cielo e la montagna lentamente si scopre mostrando la sua pelle. Riconosco ogni piega, ogni briciola di ghiaia, ogni schizzo di neve incastrato tra le fessure. Sento l’aria della mia valle lontana entrarmi nelle narici ed esplodere nel cuore. Allungo le dita verso la montagna accarezzandone i contorni inviolabili. Una forza invisibile si stacca dalla cima e mi sprofonda nell’anima: i miei capelli si muovono insieme alle nuvole, i miei occhi si riempiono di costellazioni. Rimango sospesa. La montagna sfiora il cielo e io sfioro la montagna. Non c’è più distanza. In un momento, lungo un attimo e profondo quanto l’eterno, sono di nuovo a casa, senza viaggiare, senza prendere alcun treno. Il silenzio intona la sua musica, i passi dei cervi scandiscono il ritmo del bosco e la terra si lascia sfuggire qualche nuovo fiore. Il

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ruscello, sfregandosi contro i sassi, produce il suono di violini ghiacciati. Come un’aquila, guardo dall’alto la mia valle: la vedo dormire e mi accorgo di quanto è bella, di una bellezza tale che mai avrei notato se non me ne fossi allontana. Vorrei rimanere… La montagna sembra volermi dire “ti aspetto”. «Aspettami», dico io, «torno presto». È quasi l’una di notte. Con lo sguardo all’insù fisso le stelle di carta appese al soffitto. Al buio sono talmente fluorescenti da sembrare quasi vere. Mi rendo conto di essermi nuovamente persa nel mio finto cielo. Chissà quale magia riesce a trasformare la stanza in un bosco, forse, nessuna magia. Quando un’emozione la porti nel cuore allora è tua per sempre. Quindi, quando ne hai bisogno, la puoi ritirare fuori e viverla nuovamente, forse non nella sua pienezza ma in modo abbastanza forte da rimanerne colpito ancora e ancora. E la nostalgia è un’emozione potente: attraverso una notte di carta sono tornata tra le mie montagne e ora non mi resta che chiudere velocemente gli occhi sperando che le immagini non svaniscano troppo in fretta. Con la voglia di sognare, getto un ultimo sguardo verso il soffitto e mi addormento così, felice di non dover aspettare la notte per poter vedere le stelle.

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SOGNO BUZZATI

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Trovandomi per caso a spasso con Dino Buzzati, mi sorprese alquanto vedere che mentre tutto splendeva di colori lucenti e quasi “dissolventi”, proprio lui, Buzzati, era in bianco e nero. Niente che stonasse, a dire il vero. Anzi: il suo bianco e nero spiccava in mezzo al paradisiaco dipinto fatto d’immensi prati senza fine. Camminando tra gli alti aghi dei fili d’erba che, come minimo, ci arrivavano alle ginocchia, arrivammo con la sua guida a una piccola radura incredibilmente verde. Il volto serio di Dino Buzzati che fino ad allora m’aveva seguita, guidandomi solo con la forza del pensiero, diventò d’improvviso felice. Mi passò accanto e cominciò a saltellare da un lato all’altro di un piccolo canale erboso, ridendo come un bambino. Che onore per me vederlo così divertito! Poi mi indicò il cielo oltre l’orizzonte e ancora con il pensiero, mi guidò verso un albero dalla forma strana, altissimo e diverso da tutti gli altri, verticale e ombroso, scuro ma vivo. Mi fece vedere come lui amava distendersi lì sotto, con le gambe accavallate e le braccia dietro la testa a fargli da cuscino. Sempre in modo “telepatico”, mi invitò a provare quel suo stesso letto e una volta sdraiata sotto l’albero di Buzzati, vidi quel che tanto meravigliava lui. Da quella posizione si vedeva perfettamente un quarto d’albero in primo piano e poi il Pelmo intero. Nessun’altra montagna sconfinava in quella strana cornice. Sopra il Pelmo, poi, nuvole fumose disegnavano forme indefinibili, dapprima magiche e poi quasi terribili. Una mano enorme sembrava avvolgere la cima innevata e io mi spaventai, tornando in piedi accanto a Dino Buzzati, domandandomi se anche lui in quelle montagne vedesse sia la parte magica che quella inquietante di un qualcosa che inghiottisce. Ci ritrovammo poi in una piccola (davvero piccola) conca, sempre all’ombra, fatta d’alberi e di sassi con nel mezzo un laghetto. Non tanto lago a dire il vero, era più che altro una pozza, tant’è vero che un uomo, dall’altra parte del boschetto, mi gridò che molti anni prima si ebbe un tale temporale che la pioggia riempì il lago fino a innalzarlo ai bordi della conca. Quell’uomo, con un rastrello in mano, con il barbone bianco, la salopette da contadino e il cappellino “alla francese”, non venni mai a sapere chi fosse. Comunque, Dino Buzzati che era accanto a me e questa volta mi pare non fosse nemmeno in bianco e nero (forse uno scherzo della luce ombrosa?), mi fece capire senza parlare che quel luogo era il luogo della sua ispirazione.

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Venne poi l’ora del pranzo o della cena. Si fece in me avanti la curiosità di chiedergli tante cose. Mentre con lo sguardo assente Dino Buzzati spezzava il pane con le mani e poi lo rispezzava in pezzettini più piccoli per metterselo in bocca, osai chiedergli, dandogli del “tu”, se avesse avuto figli. Mi rispose semplicemente che per scoprirlo avrei dovuto contare le onde del ghiaccio. Notate bene: non stavamo certo pranzando su di un tavolo normale o in una casa normale. Spiriti (o fantasmi) ci servivano le pietanze. Il tavolo di legno invecchiato era posato su di una sporgenza che con quasi totale certezza credo fosse parte di un sentiero di montagna. La sedia di Buzzati poggiava addirittura sulla roccia e dopo di noi cominciava una grotta buia. Il bello è che tutto intorno vi era dell’acqua, altissima, almeno quanto la montagna su cui stavamo mangiando e naturalmente, gelata, con tanto di ghiaccio a fare da barriera contro le rocce. Senza pensarci due volte, mi calai lentamente nell’acqua e con mia grande sorpresa mi accorsi di toccare il fondo con la punta dei piedi, il che fu una grande fortuna per me, non essendo affatto una brava nuotatrice. Badai bene, comunque, di tenere una mano ben salda al cornicione di roccia. Arrivata al ghiaccio mi voltai indietro: Dino Buzzati mi fecce un cenno di assenso con la testa, con un piccolo sorriso accennato sul volto. Cominciai allora a contare le onde del ghiaccio bianchissimo: una, due, tre, quattro, cinque, sei. Sei figli? Mi chiesi sorpresa. Non mi parve un numero umanamente possibile. Tornai indietro un po’ sgomenta con l’intenzione di chiedere conferma a Dino Buzzati. Aimè, era scomparso. Fine anteprima.Continua...