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Sara Aldegheri

LA COLLINA PIÙ ALTA

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LA COLLINA PIÙ ALTA Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2011 Sara Mafficini ISBN: 978-88-6307-008-8

In copertina: Immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Marzo 2011 da Logo srl

Borgoricco - Padova

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A Te, che ci hai creduto

fino in fondo

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CAPITOLO UNO Isherwood, 14 agosto 1768 “At lovers’ perjuries, They say, Jove laughs.” Così diceva il genio innato di Shakespeare, ma non è il caso di Elaine. Lei è veramente innamorata. Ieri è stato celebrato il suo matrimonio con il signor Thomas Gainsbo-rough e nella tarda serata gli sposi sono partiti per Parigi, dove hanno deciso di stabilirsi. Non ho mai visto coppia più felice, e credo proprio che non ne vedrò altre simili. Non lo dico solo perché lei è mia sorella. Il giuramento che si sono scambiati è stato vero: Giove non riderà di loro. Chi oserebbe mettere in dubbio un sentimento come quello? Non è l’unica cosa che invidio a Elaine, comunque. Non è l’amore in sé, o almeno non solo. Lei ha la possibilità, ora, di allontanarsi per sempre dalla snervante quotidianità di Isherwood. Tu lo sai bene, diario: ciò non è affatto poco… «Jane! Jane!» La voce della signora Leighton si spandeva per la casa portando con sé una forte nota d’impazienza. Jane chiuse il quaderno, riassettò la gonna e si alzò velocemente dallo scrittoio per scendere subito. Regola fondamentale di casa Leighton: mai fare aspettare la mamma. Poteva rivelarsi distruttivo per tutti i membri della famiglia. «Arrivo!» le urlò dalla botola della soffitta, ma prima di incunearsi per scendere diede una veloce occhiata allo specchio di fronte a lei, quello con bordatura in ottone che era stato di sua nonna, e che ora chissà per-ché si trovava lì sopra a ricoprirsi di polvere. Eccola di nuovo faccia a faccia con se stessa. Jane Leighton: un insigni-ficante esemplare della gioventù del Kent. Altro che grandi dame, conti, marchesi o altro. Lei era figlia di un borghese, e nessuno per strada si

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sarebbe mai voltato a guardarla. Altro che sua sorella Elaine, con quei riccioli biondi che avrebbero fatto invidia alla regina in persona. No, il buon Dio l’aveva fornita soltanto di comunissimi capelli castani, di cui non sapeva che fare a parte lasciarli crescere come qualsiasi ragazza as-sennata avrebbe fatto, di due altrettanto comunissimi occhi castani, che trovavano posto in un viso assolutamente ordinario, senza grandi prete-se di originalità. Unico piccolo vanto: una carnagione sufficientemente chiara da non richiedere sotterfugi. Ma neanche quello, alla fin fine, le impediva di giungere a un'unica, innegabile conclusione: nulla di tutto ciò poteva essere oggetto di un benché minimo interesse. Lei era nor-male. Come qualche milione di ragazze inglesi sue coetanee. Possibilità di distinguersi da loro: nessuna. Perlomeno, non dal punto di vista fisi-co, ovvero l’unico che contasse realmente per ottenere qualcosa di buo-no dalla vita, visto che la Sorte non le aveva concesso il privilegio di nascere maschio. Le possibilità che aveva, a quel punto, erano due: numero uno, sposarsi con un essere insipido di sesso opposto al suo che con tutta probabilità non l’avrebbe mai considerata degna di attenzione, fuorché per preoc-cuparsi di eventuali eredi. Ovvero, quello che sua madre chiamava “un buon matrimonio”. Numero due: non accontentarsi della mediocrità e ricercare qualcuno che destasse il suo interesse. Ovvero, rimanere da sola per tutta la vita. Decise che avrebbe scelto la seconda. Per scrupolo, passò in rassegna mentalmente tutte le sue conoscenze per capire se mai di qualcuno avrebbe potuto innamorarsi. Ma le aveva già scartate tutte quando arrivò al cospetto di sua madre. «Eccomi». «Buon Dio, dove ti eri cacciata? Guarda come mi hai ridotta. Per chia-marti, ho messo a dura prova la mia povera gola». Jane sorrise di sottecchi mentre osservava la madre sistemarsi il bustino con aria stravolta. «Perdonatemi». Chinò il capo. «Non avevo sentito». «Se è tua abitudine non prestare attenzione alle parole di tua madre, sei pregata di migliorare questa tua mancanza. A ogni modo, nel salone c’è Primrose che ti attende. Temo che vogliate andare a cavalcare, e la cosa mi infastidisce, ma so che hai il permesso di tuo padre. Per cui va’, io sono stanca e credo che andrò a sdraiarmi un po’». «Non angustiatevi, mamma. Staremo attente. Riposate serena». La madre la guardò ancora per qualche secondo con una forte disappro-vazione negli occhi, poi sospirò e si ritirò nella sua stanza.

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Primrose Cobbet era la sua migliore amica. Nonché unica. Abitava nella tenuta vicino alla loro, a Harewood. Fin dall’infanzia le due ragazze erano state abituate a giocare insieme e crescendo, per il naturale corso degli eventi, avevano stretto un forte ed esclusivo legame di amicizia che, pur unendole, metteva spesso in risalto i loro differenti caratteri. Primrose rimproverava a Jane di essere troppo viziosa nelle sue abitu-dini, di non pensare abbastanza alla felicità della propria famiglia e di non tenere mai in considerazione il parere delle persone care quando doveva prendere una decisione. Jane rimproverava a Primrose di preoccuparsi troppo di quello che di-cevano i suoi genitori, di non ascoltarla abbastanza e di non darle mai ragione. «Nessuna novità da raccontarmi, Rose?» «Niente di nuovo. La vita qui è una noia mortale. A parte il nuovo rice-vimento che mamma ha deciso di fissare per la settimana prossima». Jane roteò gli occhi. Un’altra cosa che rimproverava all’amica era quel-la di non imporsi mai abbastanza con sua madre, la signora Cobbet, per impedirle di ostentare la propria ricchezza con continui ricevimenti. Impugnò più saldamente le redini di Bianca, la sua puledra, per svoltare verso il fiume. «Qual è il pretesto, questa volta?» «Il ritorno di Dunstan dal college». «Ha già finito?» L’amica la guardò perplessa. «Sono passati sei lunghi anni da quando ha lasciato casa nostra per trasferirsi a Cambridge. Era ora che si laure-asse». «Così tanto?» «Se invece di pensare solo alle tue faccende ti preoccupassi, qualche volta, di sapere come va il mondo, te ne saresti accorta». «Giuro che non credevo fosse passato tutto questo tempo». «Non giurare». Primrose si fece il segno della croce. «Il Signore l’ha proibito». Jane tacque. Se c’era una cosa che aveva imparato, era che non biso-gnava mai contraddire Primrose in ambito di fede. Poteva offendersi moltissimo. «Mamma ha invitato un sacco di gente» continuò l’amica. «Tutti quelli della contea, praticamente. Molte persone le conosciamo solo di vista. Ti confesso che anch’io, per certi versi, ritengo uno spreco questa sua

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mania delle feste, ma perlomeno questa volta il motivo è valido. Il suo cuore di madre ha… Ma Jane, mi stai ascoltando?» L’amica aveva preso a fissare con ostinazione l’orizzonte, schermando-si gli occhi con una mano per proteggerli dal sole. «Jane?» «Che cosa… che cosa vedi laggiù, Rose?» Entrambe fissarono il loro sguardo più avanti, sulla riva del fiume, dove due cani guaivano con ostinazione ai piedi di un albero, rivolti verso le sue fronde, forse per non perdere di vista una preda. Cercavano anche di arrampicarsi, continuando ad abbaiare. Primrose non aveva ancora capito cosa stesse succedendo, quando l’amica spronò il suo cavallo per andare a controllare. Subito tentò di seguirla, offesa per non essere stata attesa, ma dopo un centinaio di me-tri capì che non ci teneva a scompigliarsi tutti i capelli nel tentativo di raggiungerla: proseguì quindi al trotto, limitandosi a tenerla d’occhio. La vide fermarsi sotto l’albero e cacciare i cani, per poi scendere da ca-vallo e iniziare l’arrampicata. Quando arrivò all’albero, Jane era già in cima. «Tutto bene?» chiamò Primrose avvicinandosi. «Sì, non temere!» La testa della ragazza sbucò dall’alto di una fronda, e vicino alla sua un’altra testa più piccola fece capolino. «Meg è stata spaventata dai cani e si è rifugiata quassù. Ora scendiamo». Primrose era senza parole. Osservò l’amica scendere piano con una bambina che non doveva avere più di dieci anni, e scrutò con premuro-sa attenzione il suo viso arrossato e la sua acconciatura distrutta. «Sei un disastro» le disse in tono di rimprovero, senza badare più di tanto alla piccola. «Se non fossimo intervenute sarebbe rimasta lassù per chissà quanto tempo» continuò Jane. «Fossimo?» ripeté incredula l’altra. «Per l’amor del Cielo, Jane, non tentare di coinvolgermi. Non mi sono arrampicata con te su quell’albero, e questa è la versione che dovrai ripetere quando ti chiede-ranno come hai fatto a conciarti in questo modo. Spero solo che tu non abbia strappato anche il vestito». La prese per le spalle e la voltò. «Fammi controllare». «No, tranquilla, sono stata attenta». Guardò la bambina. «Dov’è la tua casa, Meg?» «Non penserai di prenderti cura di una sconosciuta? Guarda com’è ri-dotta, deve essere una vagabonda». La bambina fece una smorfia al di là del ciuffo rossiccio che le ricadeva

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sul viso. «Non sono una vagabonda. Abito nella tenuta del signor Hench». Jane guardò Primrose, che in queste cose era molto più ferrata di lei. «Highmore Hill» chiarì lei con aria esperta. «È una tenuta al di là di queste colline, il proprietario è un conoscente di mio fratello, un tipo piuttosto scorbutico a quanto ne so. L’ho visto una sola volta». «Fai parte della famiglia del signor Hench?» chiese Jane alla piccola, guadagnandosi uno sguardo di rimprovero da parte di Primrose. «La mia mamma lavora per lui» spiegò Meg. «Jane, mi fai preoccupare. Non riconosci nemmeno una serva» la rim-beccò sottovoce l’amica, prima di rivolgersi apertamente alla bambina. «Ora, Meg, puoi tornare a casa. Immagino che tu conosca la strada». «Aspetta, Rose. Non credi che dovremmo riportarla noi alla tenuta?» «No, perché se è arrivata fin qui saprà di certo come tornare indietro». La successiva risposta di Jane fu coperta da un altro rumore. Alcuni ca-valli stavano giungendo molto velocemente nella loro direzione. Li vi-dero non appena essi svoltarono la collina. «Siamo nei territori di sua proprietà? Com’è possibile?» si chiese Prim-rose con aria preoccupata, fissando il signor Hench e un altro signore dirigersi verso di loro. «Di che parli, Rose?» «Di quell’uomo. Il padrone di queste terre e di questa bambina» rispose lei amaramente, mentre guardava la piccola che correva a nascondersi dietro la gonna di Jane. I cavalli si fermarono di fronte a loro, con un grande strepitìo di zocco-li. «Ah, l’avete presa. Molto bene. Vi sono obbligato» disse uno dei due signori. «Prego?» Jane non capiva. A parlare era stato un individuo dall’aria distinta e dal portamento si-gnorile; tuttavia, il suo viso aveva tratti rudi che, pensò Jane, stonavano molto con l’eleganza del vestito che indossava. I folti capelli neri erano raccolti all’indietro ma alcune ciocche sfuggivano dalla costrizione ri-cadendo parzialmente sul volto corrucciato: al di là di due robuste so-pracciglia scure, gli occhi non avevano nulla di affabile, e anche gli zi-gomi, alti e fieri, contribuivano a conferire al suo aspetto, nel comples-so, una grottesca alterigia. «La ragazzina» intervenne l’altro signore, che sembrava essere un po’ più anziano e aveva lineamenti più gentili «ha rubato delle monete a un fattore della tenuta». Primrose sbiancò, Jane rimase interdetta per qualche secondo ma poi si

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riprese. «E quindi siete stati voi ad aizzarle contro i cani. Come avete potuto? È una bambina indifesa!» «Indifesa?» disse il primo, sprezzante «Per rubare quei soldi ha quasi accecato il loro legittimo proprietario». Scese da cavallo. «Scatenargli i cani contro era il minimo». «E poche monete vi sembrano un tesoro così prezioso da mettere in pe-ricolo la salute di…» «Jane, per l’amor di Dio». Primrose era pallida come un cencio. «Non insistere». Anche il secondo signore scese, e con forza afferrò la piccola per un braccio, trascinandola con sé prima che Jane potesse muoversi e scate-nando in lei grandi grida d’offesa. «La sentite? Sta dicendo che è innocente!» «Ci sono quattro testimoni» disse ancora il primo, mentre frugava con poca delicatezza nelle tasche della bambina fino a ritrovare le prove del furto «e poi la conosciamo bene. È avvezza a questo genere di cose. Comunque sia, vi ringrazio per averla fermata». Lo sguardo di Jane era indignato. «Non l’abbiamo fermata. Abbiamo solo impedito che la vostra scelleratezza portasse a conclusioni ignobi-li». Guardò l’amica accorgendosi che quella la stava implorando con lo sguardo. «Mi correggo, sono stata io. Rose era più indietro». Hench la squadrò da capo a piedi notando, con evidente perplessità, lo stato dei suoi capelli. «E sembra che ci sia voluto tutto il vostro impe-gno per riuscirci». Primrose si sentì in dovere di intervenire immediatamente per inter-rompere quello scambio di scortesie. «Signor Hench, siamo spiacenti per ciò che vi è capitato e felici per esservi state d’aiuto» proclamò. L’uomo si rabbuiò ulteriormente. «Ci conosciamo?» Primrose fece un gran sorriso. «Sono Primrose Cobbet, di Harewood. Sono sicura che rammentate il nome di mio fratello, Dunstan, che vi ha conosciuto quest’inverno. Lui vi ricorda con molto affetto». Hench la guardò distrattamente. «Portate i miei saluti a Dunstan». Poi spostò di nuovo gli occhi su Jane. «E voi?» «Dovreste essere voi il primo a presentarvi, signore». «Non ne vedo il motivo: conoscete già il mio nome». «Conosco la vostra indelicatezza, al momento. Ma nessun nome». Primrose prese l’amica per un braccio. «Oh, Jane, non essere arrabbiata ancora. Dovete scusarla, signor Hench, stavamo discutendo animata-mente prima che voi arrivaste e la mia amica è ancora molto scossa, non intende certo mancarvi di rispetto e…»

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Lo sguardo dell’uomo, se possibile più autoritario di prima, la gelò, im-ponendole di non proseguire oltre con le scuse. «Wendell Hench» annunciò, rivolto a Jane. «Jane Leighton» disse lei, soddisfatta. «Vedete, non è difficile fare quello che è giusto». «Ancora con questo bisogno di giustizia. È proprio uno dei vostri pen-sieri fissi». «Cosa intendete dire?» «Prima sottolineavate come non fosse giusto comportarsi in questo mo-do con la bambina, poi mi avete velatamente rimproverato per non aver fatto le giuste presentazioni. Non posso fare a meno di concludere che il pensiero della giustizia vi tormenti». Salì a cavallo senza lasciarle il tempo di replicare. «Ora ditemi, trovate giusto il fatto che questa ragaz-zina venga punita per ciò che ha fatto?» Jane era allibita. «Non…» «Non datevi la pena di rispondere. Ho già la risposta, ed è affermativa. Con permesso». Spronò il cavallo in direzione della sua tenuta, e il suo amico, dopo un breve cenno di saluto alle due signorine, lo seguì portando in groppa al suo cavallo anche la piccola ladra. «Se non inizierai a comportarti come si deve sarai la nostra rovina» dis-se la signora Leighton, suonando il campanellino per chiamare la do-mestica affinché portasse il pranzo. Jane, seduta di fronte a lei dall’altro capo del tavolo, non la guardò su-bito in volto. Lanciò prima una rapida occhiata al padre, il quale fece il possibile per evitare di incrociare il suo sguardo. Poi cercò gli occhi di Emma, la sorella più piccola, che stava piluccando una fetta di pane con la massima attenzione. Anche lei, constatò Jane, non aveva alcuna in-tenzione di farsi coinvolgere. «Non credo di aver mancato in qualcosa. Quell’uomo stava…» «Si stava riprendendo ciò che gli appartiene. Non vedo cosa ci sia di disprezzabile in tutto ciò». «Il modo con cui l’ha fatto. Non era necessario far uscire i cani da cac-cia, una bambina non è una lepre». Le labbra della signora Leighton si contrassero di fronte al tono conci-tato della figlia. «Faresti meglio a moderare il tuo linguaggio». Jane abbassò la voce. «Volevo solo spiegare le mie ragioni. Se ritenete che il mio comportamento con quegli uomini sia stato scorretto…»

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«Indecoroso» precisò subito la signora. «Indecoroso è la parola adatta. Non ti ho insegnato a comportarti così. Nessuno ti ha insegnato a man-care di rispetto a un uomo, tantomeno più… più… più…» «Più ricco?» suggerì Emma sardonica. «Ebbene sì. Più ricco di noi. Né io né tuo padre abbiamo mai…» «Ora non mi chiamare in causa» replicò l’uomo con aria stanca, ma ciò non bastò a fermare i lamenti della moglie. «Il mondo sta veramente cambiando. Alla tua età io non mi sarei mai sognata di contraddire anche solo per un istante qualcuno del calibro del signor Hench. Mai! Mi chiedo dove andremo a finire». «Va bene, va bene» il padre intervenne nuovamente. «Jane ha sbagliato, lo riconosce, non lo farà più. Ora passiamoci sopra e continuiamo con calma il pranzo». «E tu! Sempre con questa inutile diplomazia». La signora Leighton pa-reva veramente maldisposta, quel giorno. «Mai una volta che tu prenda una posizione! E dove sei stato questa mattina, eh?» «Un po’ in giro». «Un po’ in giro? Eh? Un po’ in giro?!» «Mamma, adesso calmati» provò Jane, ma sapeva bene che non ci sa-rebbe stato verso di fermarla, non a quel punto. «I tuoi affari stanno colando a picco, e tu te ne vai in giro! Siamo co-stretti a vendere i nostri gioielli, e tu te ne vai in giro! Te ne andrai an-che quando saremo ridotti sul lastrico?» La voce della donna diventò stridula. «Sto cercando un modo per evitarlo. Stai tranquilla». «Oh, lo spero bene! Ma non credere che andare a giocare ai dadi mi-gliori le cose! Ci sei andato anche stamattina, eh? Eh?!» L’uomo non rispose. Tutta la sua concentrazione era assorbita dal pran-zo, ora. La moglie si portò una mano alla fronte, traendo un profondo respiro, come accorgendosi solo in quel momento di essersi innervosita. Poi guardò verso Emma e allungò l’altra mano per farle una carezza. «Me-no male che ho ancora te, figlia mia». Jane s’impose di continuare a mangiare in silenzio. La situazione della famiglia Leighton non era delle migliori, ormai era chiaro a tutti. Nonostante in pubblico essi apparissero sempre al meglio delle loro possibilità, nessuno di loro poteva negare che il tenore di vita a cui si stavano abituando fosse molto diverso rispetto agli anni prece-denti. Alcuni cattivi affari del capofamiglia, oltre a portare a un prolun-gato periodo di ristrettezze economiche, avevano incrinato il rapporto

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tra i due coniugi, e tra essi e le figlie. Queste ultime si erano presto rese conto delle innegabili debolezze di entrambi i genitori: quella del signor Leighton si chiamava, più propriamente, “gioco d’azzardo”; la moglie, invece, soffriva di una sorta di mal di vivere, che manifestava con con-tinui accenni a improbabili sofferenze corporali, molto spesso ingiganti-te ad arte. A Elaine, Jane ed Emma non era rimasto che tentare di arginare queste avversità. Impotenti, in quanto donne, di fronte alle abitudini del padre, cercavano perlomeno di minimizzare le lamentele della madre, speran-do che con la calma e la pacatezza queste si sarebbero prima o poi tra-mutate in banali constatazioni. Elaine, a dirla tutta, si era allontanata da casa non appena ne aveva avuto la possibilità. Jane sognava ancora il suo turno. E per Emma… per sua sfortuna, era semplicemente troppo presto. La settimana successiva, come preannunciato da Primrose, i due coniu-gi e le due figlie nubili si recarono al ricevimento in onore del ritorno di Dunstan Cobbet. Gli invitati iniziarono ad arrivare alle otto in punto. Jane osservava in-disturbata la scena dall’angolino più remoto del salone, il suo preferito, quello tra l’angolo del tavolo e la coda del pianoforte, dove aveva impa-rato a rifugiarsi per passare inosservata. Tra i primi ad arrivare vi furono i Gladstone, che venivano direttamente da Dover per onorare il loro amico Dunstan e la sua famiglia. Oltre al padre, alla madre e a un insignificante fratello maggiore in procinto di sposarsi con una donnina dall’aspetto noioso, Jane ebbe modo di notare la figlia minore, che si diceva fosse una delle donne più belle del Kent. Non che lei se ne intendesse molto, ma le parve che effettivamente que-sta signorina, che rispondeva al nome di Virginia Gladstone e che da piccola era anche stata una sua conoscente, corrispondesse perfettamen-te ai canoni di bellezza del suo tempo. Alta, formosa, aggraziata, con un visetto perfettamente rotondo incorniciato da due occhi gentili e ridenti, chiari, così come i capelli, il cui biondo certamente splendeva sotto gli sguardi di tutti gli uomini della sala. Dopo averla osservata per un po’, Jane concluse che sì, la fanciulla era degna della sua fama. Almeno nello stesso modo in cui io sono degna della fama di… beh, di nessuna fama, a dir la verità. «Jane, non penserai di stare qui in disparte per tutta la sera, vero?» le si avvicinò Primrose, interrompendo il flusso dei suoi pensieri. «Hai indovinato esattamente quello che pensavo di fare». «Perché è quello che hai fatto anche l’ultima volta».

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«Davvero?» replicò sarcastica, senza distogliere gli occhi da Virginia. «Sei insopportabile. E si può sapere cosa stai guardando?» Jane si costrinse a spostare gli occhi sul viso dell’amica. «Che tipo è, quella Virginia?» le domandò. «Una principessa tutta miele fuori e tutta veleno dentro. Sembra tanto carina ma stalle alla larga se puoi: è una calcolatrice. Sarebbe capace di vendere sua madre per ottenere qualcosa». Jane ridacchiò. In mancanza d’altro, questo aveva dato un po’ di conso-lazione al suo orgoglio ferito dal confronto di qualche istante prima. «Come mai me lo chiedi?» «Curiosità». «Se la tua curiosità ti facesse fare qualche passo in più, invece di qual-che domanda, ne sarei molto felice». Rose prese un bicchiere di Borgo-gna dal vassoio del cameriere che stava passando e fece per andarsene. «Tra poco si balla. Ti prego, non fare tappezzeria». Jane borbottò qualcosa e si voltò. A lei piaceva ballare, e anche molto, ma non con quei bei giovanotti robusti con cui sua madre si augurava ogni giorno di vederla accasata. Per questo, quando la musica iniziò, fece modo di camuffarsi ben bene nel suo angolino, fingendosi assorta nella contemplazione del giardino esterno, finché tutte le coppie non furono formate. Solo a quel punto si concesse una sbirciatina. Primrose era stata invitata da un damerino giunto da Londra, molto ac-cattivante nell’aspetto e nei modi, di cui anche lei – strano a dirsi – a-veva spesso sentito parlare. Si trattava del signor Barclay e sembrava proprio che, come nel caso di Virginia, mezza sala avesse preso una sbandata per lui. La metà femminile, ovviamente. Represse un’esclamazione poco elegante quando vide con chi stava bal-lando Virginia. Anche se l’aveva visto una volta sola, ricordava bene quell’aria scomposta e truce. Il signor Hench, senza dubbio. Virginia volteggiava sorridente tra le braccia dell’uomo. C’era però un particolare che sviliva le tinte rosee di quel quadro: ai sorrisi ripetuti e alle chiacchiere della ragazza, il signor Hench rispondeva con qualche asciutto monosillabo, e in ogni caso non sembrava avere la benché mi-nima intenzione di sorridere. Fu raggiunta di nuovo da Primrose, quando il ballo terminò. «Quel Bar-clay è così affascinante!» esordì l’amica «L’hai visto?» «Sì, certo. Molto carino». «Mi ha fatto diverse domande. Sulla mia famiglia, sulle nostre prospet-tive, sullo stato delle campagne qui intorno… Credi sia un buon se-gno?»

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«Per cosa?» Primrose arrossì, facendo uno strano sorrisino, di fronte al quale Jane cambiò immediatamente espressione. «No, Rose, almeno tu, ti prego». «Che intendi?» «Almeno tu lascia stare quei bellimbusti della città, non portano nulla di buono». Primrose si ritrasse un po’, quasi offesa. «Il signor Barclay non è un bellimbusto. Al contrario, è un uomo molto saggio. E anche molto gen-tile. Al contrario di quel… Hench, che pare stia dando il peggio di sé anche questa sera. L’ho presentato a mia madre, prima. È stato glaciale, quasi gli stessimo facendo un torto». Si avvicinò a lei, come per farle una confidenza, anche se in realtà non abbassò il volume della voce. «Il signor Barclay mi ha detto che anche il signor Hench ha vissuto a Lon-dra fino a poco tempo fa». «Il signor Hench un londinese?» Jane era ancora più perplessa di prima. «Non è di Londra quell’aria arcigna» ironizzò. «I londinesi sono tutti boriosi ed eccentrici. E in realtà il signor Hench un po’ eccentrico lo è, ma un uomo educato a Londra non si comporterebbe mai come lui». «In effetti non sono stato educato a Londra, signorina Leighton». La voce era giunta dalle sue spalle. Jane non trovò il coraggio di voltar-si subito, ben sapendo chi era stato a pronunciare quelle parole. In fian-co a lei, un braccio posò un bicchiere sul tavolo. Jane seguì con gli oc-chi una linea immaginaria dalla mano, che ora si stava ritirando, al braccio, alla spalla, e all’inizio di qualche ciocca scura ai lati di un viso. Dopo di che, gli occhi si rifiutarono di proseguire. «E vi prego di non fare più osservazioni infondate sul mio conto» con-tinuò la voce, che questa volta risuonò diversa perché l’uomo si stava voltando per andarsene. «È il vostro comportamento a costringermi a farle, signore». Si girò, infine, e se lo trovò di fronte, l’irrispettoso signor Hench. Con il suo volto rude e i suoi occhi neri, come due voragini dell’Inferno, che gelavano qualsiasi cosa sulla quale si posassero. Primrose iniziò a farsi aria col ventaglio. «Cosa vi può mai costringere a scagliarvi contro qualcuno che non co-noscete?» domandò lui. «È sufficiente vedere come questo qualcuno tratta i suoi simili». «Dunque voi giudicate le persone per come esse interagiscono in socie-tà?» «Non io, ma chiunque lo fa. E voi dovreste saperlo anche meglio di me».

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A quel punto Primrose le strinse forte il braccio. «Oh, ma non è davve-ro il caso di preoccuparsi! Era un discorso fatto alla leggera, signor Hench. È ovvio che noi non vi conosciamo, e che non ci permetterem-mo mai di giudicarvi». Fece un breve inchino. «Vi chiediamo scusa se vi abbiamo offeso… ma credete, l’abbiamo fatto involontariamente». Tuttavia Hench non la stava guardando. I suoi occhi erano fissi su Jane, e sembravano ardere di collera, seppure il suo contegno fosse impecca-bile. «Conosco molto bene i criteri di giudizio della società. Tuttavia, non conosco precisamente il vostro criterio. Potete illuminarmi in merito?» Jane deglutì, prima di rispondere. «Il mio criterio si basa sull’osservazione dei fatti. Quando un gentiluomo fa rincorrere una bambina da quattro cani da caccia e in seguito l’affligge con una puni-zione impietosa, e tutto questo per un peccato infantile, non può essere considerato un gentiluomo». Il suo interlocutore aggrottò le sopracciglia. «Questa punizione impie-tosa di cui parlate, certamente, fa parte della vostra immaginazione. O forse avete le prove di ciò che state dicendo?» le chiese ancora, mentre indietreggiava di un paio di passi. Jane non riuscì a trovare una risposta veloce e sicura. Hench la guardò per qualche secondo, quindi si voltò e lasciò entrambe senza congedar-si. Qualche giorno più tardi, mentre Jane stava cercando di insegnare a cu-cire a una Emma non troppo bendisposta, la signora Leighton comparve tutta trafelata sulla porta. «Emma!» richiamò la figlia più piccola con tono autoritario «Lasciaci sole qualche minuto, cara» le ordinò, tentando di mitigarsi sul finire della frase. Emma capì che stava per succedere qualcosa di molto interessante, e obbedì in silenzio. Uscì in fretta, chiudendosi diligentemente la porta alle spalle, per poi fermarsi a origliare al di là di essa. Jane continuò a cucire con tranquillità, pur immaginandosi l’esatta posizione della so-rella in quel momento. «Jane, non hai qualcosa da dirmi?» iniziò vaga la madre, sedendosi a sua volta. La ragazza alzò un attimo gli occhi dal lavoro per rivolgerle un’espressione innocente. «Non credo, mamma. C’è qualcosa che vi turba?»

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«Sì, c’è qualcosa che mi turba, oltre alla tua poca sincerità nei miei con-fronti». La signora si accomodò meglio sulla poltrona. «Non mi hai det-to nulla riguardo il calore e le attenzioni che Dunstan ti ha rivolto, du-rante i festeggiamenti per il suo ritorno». Jane capì ed evitò di guardarla. «No, mamma. Non l’ho ritenuto un ar-gomento di sufficiente importanza per potervelo comunicare». «E hai fatto male. Ha un enorme importanza. Oggi ho parlato con sua madre, l’adorata signora Cobbet, ed ella mi ha riferito che durante il ballo sei stata molto scortese con lui, che pure ti riempiva di mille at-tenzioni». «Non è stato per scortesia se mi sono rifiutata di accettare i suoi inviti a ballare. L’ho fatto solo per non alimentare delle predisposizioni da par-te sua che poi si rivelerebbero dannose per entrambi». La madre assunse un’espressione che era a metà tra lo stupito e l’indignato. «Dannose? Ma come potrebbe mai essere dannoso un ma-trimonio con Dunstan Cobbet, un uomo così ben voluto in società che magari in futuro potrebbe avvalersi del titolo di Sir e che ti renderebbe una delle donne più ricche della contea?» La sua voce s’incrinò verso la fine della frase, che evidentemente le era costata molti sforzi. Jane tentò di mantenere la calma. «Trovo un po’ prematuro parlare di matrimonio quando in gioco c’è solo un interesse sorto da poco. Ma an-che se fosse, non bisognerebbe essere d’accordo entrambi?» «Ma tu sei d’accordo, Jane. Non posso nemmeno pensare che tu non lo sia. Sei sciocca e perennemente con la testa in un tuo mondo immagina-rio, ma non sei avventata fino a questo punto. Sono sicura che anche tu capirai l’importanza di incoraggiare un sentimento come questo». «La capisco, mamma. Ma non la posso condividere. Cercate di com-prendermi, non provo nessun interesse per Dunstan. E non lo proverò mai, ne sono certa». La madre non rispose e iniziò a fissare l’altro lato della stanza. Dopo parecchi secondi di silenzio, Jane si vide costretta a incoraggiarla. «Mamma?» «Ho sentito tante cose in quest’ultimo minuto: il cinguettare degli uc-celli fuori dalla finestra, il rintocco della pendola, e i vari rumori dentro e fuori da questa casa. Ma mi sono rifiutata di sentir pronunciare una scempiaggine» rispose. «Per cui ti prego di ritornare sui tuoi passi e formulare di nuovo la tua risposta. La domanda era: accetterai di com-portanti in modo accondiscendente con Dunstan, cosicché le sue genti-lezze non accadano invano?» La ragazza tornò a guardare la stoffa che teneva tra le mani. Conosceva

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benissimo la risposta che, se avesse potuto, avrebbe formulato in un “no” secco. Ma conosceva anche il carattere di sua madre, capace di serbare rancore per settimane e settimane se in gioco c’erano argomenti come questi. La Fortuna la salvò, facendo entrare nella stanza, in quel preciso istan-te, suo padre. «Ho visto Emma in fermento qua fuori» si giustificò l’uomo, dopo aver osservato per qualche secondo il silenzio di entrambe. «Cosa sta succe-dendo?» «Tua figlia non vuole incoraggiare il corteggiamento del caro Dun-stan!» denunciò subito la signora Leighton «Sto cercando di convincer-la, ma Nostro Signore le ha dato una testaccia troppo dura». Il padre fissò lo sguardo su Jane, che tirò un sospiro di sollievo quando vide che la sua espressione benevola non era cambiata. «Non vi trovo niente di male» si rivolse quindi alla moglie, di nuovo. «Ha bisogno di un po’ di tempo per rendersi conto di cosa sta succe-dendo. Sono sicuro che quando si accorgerà di quanto sia bello ricevere delle attenzioni, farà in modo di non respingerle». Non era esattamente quello che Jane avrebbe voluto sentirsi dire, ma era abbastanza. Significava almeno che la questione sarebbe stata di-scussa più avanti. Dal giorno del ballo si era domandata spesso come mai, con tutte le graziose signorine che aveva conosciuto a Cambridge, Dunstan avesse finito per mettere gli occhi su un’insignificante giovane campagnola, per quanto educata e, forse, gentile – perché lo era stata, finché non si era accorta di questa sua predilezione. In realtà, non riusciva a capire cosa avesse trovato Dunstan in lei: di certo non la bellezza, e nemmeno un patrimonio invidiabile, soprattutto se messo a confronto con quello della famiglia Cobbet. Gli inviti ricevuti al ballo l’avevano messa profondamente in imbaraz-zo. Per non parlare degli sguardi continui che lui le aveva lanciato. Era impossibile fingere di non essersene accorta. Ma se era riuscita a passare l’argomento sotto silenzio per molti giorni, esso diventò davvero scottante quando la famiglia Cobbet venne invita-ta a pranzo, la domenica successiva. L’umore di Jane era davvero tetro. Per sua fortuna, nonostante la madre si fosse prodigata più o meno discretamente per mettere lei e Dunstan a sedere vicini, Jane era riuscita ad accomodarsi dall’altra parte del tavo-lo, sufficientemente a distanza. «Quali sono i tuoi progetti futuri, caro?» aveva chiesto la signora Lei-

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ghton all’interessato, con tono dolciastro, all’improvviso. Jane, che sa-peva a cosa mirasse la madre, iniziò a impallidire. Quello si toccò con noncuranza la barba sul mento, aspettando che ci fosse un adeguato silenzio prima di rispondere. «Al momento ho alcune trattative in corso per un posto di avvocato a Dover». «Oh, ma è meraviglioso!» La signora Leighton allargò un sorriso che forse non aveva mai tentato in tutta la sua vita. «Questo comporterà un nuovo trasferimento in città!» «Esattamente. Ormai è questione di settimane». «Ma non potrai andare da solo! Senza amici, senza un punto di riferi-mento…!» La signora Cobbet capì e intervenne per dare manforte all’amica. «Ma certamente! Nei progetti di Dunstan non c’è solo il lavoro!» A Jane si contorse lo stomaco. «Come tutti gli uomini della mia generazione, vorrei trovare una donna che sappia stare al mio fianco» proclamò il ragazzo «che rispetti il mio lavoro e il mio status, e che sappia capire le mie esigenze». Emma, seduta al fianco di Jane, le tirò un calcetto da sotto il tavolo, sorridendo sorniona. «Ammetto di avere già qualche idea sul nome della fortunata, ma que-ste sono cose che vanno trattate con la massima cautela, perché solo la calma può porre ottime basi per il futuro» continuò il ragazzo. «Hai perfettamente ragione!» concordò la signora Leighton, senza tut-tavia aver compreso il senso di quella frase «Questo sì che è un ottimo pensiero. Non sei d’accordo, Jane?» squittì, guardando la figlia perfet-tamente immobile davanti a lei. La ragazza trattenne il respiro per alcuni istanti, sentendo le guance di-ventare pericolosamente calde. Annuì velocemente, senza alzare gli oc-chi. «Sì, è esattamente la filosofia che bisogna tenere» intervenne ancora la signora Cobbet. «Mai avere fretta! La pazienza è la virtù dei forti». Incapace di sostenere oltre tutte quelle allusioni, Jane alzò prudente-mente un occhio per vedere cosa stesse facendo Primrose in quel mo-mento. Incrociò il suo sguardo, che era severamente fisso su di lei, e le chiese tacitamente aiuto. La ragazza la rassicurò con un silenzioso movimento delle sopracciglia. Poi si sporse un po’ in avanti sul tavolo per inserirsi nella conversazio-ne. «Sapete chi si sposa, il mese prossimo? Il cugino del signor Barclay, con la sorella dello stesso. Si trasferiranno proprio a Londra!» L’annuncio suscitò una lunga serie di esclamazioni e di commenti, ru-

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morosi a sufficienza per permettere a Jane di tirare il fiato e di soprav-vivere fino alla fine del pranzo. Pensava anche di essersela cavata con poco, tutto sommato, almeno per il momento. Ma sbagliava. Qualche giorno più tardi, mentre stava scrivendo il quotidiano resocon-to sul diario, fu interrotta da Emma senza molte cerimonie. «Vai giù! Ti vogliono!» le disse la sorella, affacciandosi dalla botola della soffitta. «Chi? Cosa?» chiese Jane distrattamente, terminando una frase, salvo poi accorgersi che la sorella, compiuta l’ambasciata, aveva già provve-duto a sparire. Con una smorfia chiuse il diario e si calò distrattamente nel corridoio del primo piano, per imboccare altrettanto distrattamente la scalinata che portava al salone. La distrazione però cessò di colpo quando la ra-gazza si accorse della figura che la stava attendendo ai piedi della scali-nata. Si irrigidì, riconoscendo le fattezze di Dunstan, che appena la vide ten-tennare si affrettò a incoraggiarla. «Signorina Leighton» la richiamò «mi sono permesso di aspettarla qui. Le devo parlare». Fu costretta a terminare la discesa, pur desiderando di essere da tutt’altra parte, in quel momento. «Non mi giudichi scortese, cara signorina, se vengo da lei senza preav-viso. Il fatto è che mi hanno comunicato d’urgenza che devo essere a Dover entro stasera, e mi preme chiarire con lei una determinata fac-cenda, prima di mettermi in viaggio». Jane annuì. «Capisco». «D’altronde, l’argomento di cui intendo discutere con lei è talmente importante che prima sarà discusso meglio starò» sorrise. Jane annuì ancora, mentre il timore cresceva di pari passo con la spe-ranza che quel dialogo finisse al più presto. «Gentile signorina, lei sa che presto diventerò avvocato e mi trasferirò a Dover. E sa anche che intendo prender presto moglie, anche prima di incominciare la mia attività». Jane annuì per la terza volta. Ma dov’erano finiti tutti i propositi di pa-zienza, del saper aspettare, e tutte quelle altre idee di cui si erano riem-piti la bocca, lui e sua madre, pochi giorni prima a pranzo? «Mi trovo perciò qui davanti a lei, facendo appello alla sua bontà, e ri-cordandole, senza voler essere futile, cosa potrebbe portarle di vantag-gioso una vita come mia moglie: una dimora signorile, un’ottima repu-tazione e un’eterna tranquillità e soddisfazione, che sono sicuro prove-remo entrambi. È per queste ragioni che le chiedo formalmente di di-

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ventarlo». La proposta era stata fatta in un modo così sbrigativo e indistinto che per poco Jane non rischiò di fraintenderla e annuire per una quarta vol-ta. Fortunatamente se ne accorse in tempo. «Dunstan… Cioè, signor Cobbet…» iniziò. «No, la prego, mi chiami Dunstan». «Come preferisce… la sua proposta è… certamente un onore, per me… voglio dire… insomma, sa cosa voglio dire… tuttavia, quello che vo-glio dire… e che le sto per dire… è che…» balbettò, e tentò per la pri-ma volta di guardarlo in faccia. Ciò che vide rischiò seriamente di farla scoppiare a ridere. L’espressione dell’uomo che aveva davanti non era semplicemente con-fusa, era oltremodo perplessa. Egli era completamente chinato verso di lei nel tentativo di captarne le parole, dal momento che il suo imbarazzo gliele faceva pronunciare in un tono scarsamente udibile. Jane stessa, da parte sua, stava mettendo insieme tutti i vocaboli che le venivano in mente, pronunciandoli prima ancora di aver deciso che po-sto dovessero occupare esattamente nella frase che stava pensando. D’un tratto si stancò di quel siparietto. «Insomma, signor Dunstan, la ringrazio ma non posso e non voglio accettare». Ecco, l’aveva detto. «Lei… mi sta rifiutando?» sbottò quello, con un cipiglio indignato e confuso. «Non la prenda sul personale. Comunque sì». «Lei sta rifiutando un’esistenza serena, felice e agiata come quella che le potrei offrire?» «Ecco, ha detto la parola giusta. Rinuncio a un’esistenza, esattamente». Dunstan le voltò bruscamente le spalle e iniziò a camminare su e giù per la stretta anticamera in cui si trovavano. Dal modo con cui aveva contratto le sopracciglia e serrato le labbra, sembrava aver appena assi-stito alla proclamazione ufficiale di un’eresia. «La prego, non si adiri. Il motivo per cui rifiuto è che ho altri progetti per la mia vita, e parlo di vita. Capisce cosa voglio dire?» L’uomo rallentò un attimo, guardandola sbalordito. «Vuole forse intra-prendere la strada della monacazione?» «No!» Jane cercò con tutta se stessa di trattenere una risata, ma la suc-cessiva espressione del suo interlocutore le impedì di riuscirci. «Vedo bene l’importanza che ho per lei, se reagisce ridendo al mio do-lore». «Io non…»

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«Stia zitta. La sua impertinenza accresce ogni secondo di più il mio ma-lumore, e rende poca giustizia a un sentimento che le ho proposto con così tanta umiltà». Sentimento? Umiltà? Jane iniziava a pensare di essersi persa qualche passaggio del discorso. «Lei ha fatto una proposta più che conveniente, e lo riconosco. Ma non l’ho sentita prendere in considerazione i senti-menti, nel farla». «Si sta prendendo gioco di me?» Le si avvicinò bruscamente, puntando-le un dito contro. «Me lo dica chiaramente, se è così!» «No. Non oserei mai». «Eppure osa ridere, di fronte al mio dolore!» «Non rido di lei. È questa situazione che è…». Una nuova risata. Fu troppo, per Dunstan. Spalancò la bocca per indignarsi ancora, ma non uscì alcun suono. Le sue spalle si afflosciarono, e un secondo dopo stava già uscendo dalla porta d’ingresso, senza aggiungere altro alla sua indignazione. Jane rimase immobile qualche minuto, tormentandosi le mani e l’anima. Aveva sbagliato a trattarlo così? Doveva rispondere con più gentilezza? Ma non l’avrebbe illuso, in quel modo? No, aveva fatto ciò che era in suo potere. Se ne convinse ampiamente, prima di lasciare l’anticamera per entrare in salotto. Dove trovò sua madre in febbricitante attesa. «Hai acconsentito, vero? Vero, Jane?» le chiese quella, venendole in-contro. Lo sguardo della figlia fece crollare ben presto le sue speranze. La guardò in viso, scrutando nei suoi occhi che erano rimasti impassibili, prima di mettersi le mani nei capelli. «Non è possibile. Dimmi che non l’hai fatto». «Ve l’avevo preannunciato, mamma. E l’ho fatto». La donna emise una specie di rantolo e si coprì la bocca con le mani. «Scellerata! Scellerata figlia! Ma quale figlia… scellerato essere im-mondo che trova rifugio in casa mia! Come hai potuto? Con che corag-gio potrò ancora guardare i Cobbet negli occhi?» «Mamma, non…» «No! Non chiamarmi con quel nome!» La madre strinse la mascella in un’espressione severa. «Non finché non sarai perdonata». «Dovete perdonarmi… per aver rifiutato di sposarlo?» «Non io! È il Signore che ti deve perdonare, per la tremenda scellera-tezza che hai compiuto». «Non credo che…»

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«Con quale educazione ti ho allevata? Chi ti ha mai dato il permesso di porre dei freni alla Provvidenza?» «Non era la Provvidenza, mamma. Era Dunstan». «Sacrilega! Scellerata e sacrilega!» La donna si gettò sul divano, con una mano sugli occhi. «Cosa ne sarà di noi?» «Mamma, non cambierà nulla. Sono sicura che il signor Dunstan saprà mantenere con noi un ottimo rapporto» cercò di convincerla, sapendo benissimo che ciò che diceva non corrispondeva alla verità. Se se ne era andato in quel modo sarebbe ritornato con difficoltà, o forse non sareb-be ritornato mai più. Non doveva partire per Dover? Era un ottimo mo-tivo per non farsi mai più vedere. «Tu non capisci, sciocca ragazza. Dunstan è un uomo di buona fami-glia, che ti assicurerebbe una vita agiata e sicura. Cosa pensi di fare senza di lui, ora che anche la nostra famiglia non può più godere della stabilità del denaro…?» Jane agrottò la fronte. «Sì, lo so che abbiamo diverse difficoltà. Ma la nostra è davvero una situazione così disperata da costringermi al ma-trimonio con un uomo che non amo?» «Lo sarebbe, se tu non fossi così egoista. La casa in cui viviamo è la nostra unica ricchezza, come pensi che potremo provvedere al matri-monio tuo e di Emma se anche voi ragazze non ci darete una mano? Forza, figlia mia, forse siamo ancora in tempo per rimediare! Lo faccio richiamare, e tu gli dirai di sì». «No, non voglio commettere errori di cui poi potrei pentirmi per tutta la vita!» La madre la fissò implacabile. «Un errore del genere l’hai già commes-so». «Sono convinta di essere nel giusto. Vedrete che tornerà tutto come prima. La famiglia Cobbet ci sarà sempre vicina e… chissà, magari in futuro ci sarà Emma alle prese con un’occasione allettante come la mia». «Augurati di avere ragione. O capirai cosa vuol dire essere la rovina della casa». La minaccia non le piacque, ma decise di non badarci. Forse, lasciando-la sbollire qualche settimana, sua madre se ne sarebbe addirittura di-menticata. Il pensiero le sembrò completamente impossibile nel momento stesso in cui lo formulò, e i giorni successivi le fecero capire che dalla vita aveva ancora molto da imparare. I Cobbet iniziarono a evitare la compagnia dei Leighton, di qualsiasi

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membro della famiglia e anche dei servitori, arrivando a proibire a Rose di scrivere a Jane e di incontrarla. Quando quest’ultima si recò a casa dell’amica per sentirsi dire in faccia quale fosse il motivo di tutto quel silenzio, nessuno le aprì. Anzi, scese una cameriera a informarla, senza tanti convenevoli, che le sue visite non erano più gradite. Arrivò l’autunno anche nelle campagne del Kent. Gli alberi comincia-rono a dipingersi dei toni del tramonto, stillando a terra le loro foglie in un pianto continuo. La terra s’induriva poco a poco sotto le prime gela-te notturne. L’unica cosa che non sembrava voler mutare era l’umore della signora Leighton. Non smise mai di ricordare alla figlia, attraver-so allusioni più o meno velate e sguardi irosi, che la considerava re-sponsabile per tutto quanto era accaduto coi Cobbet. E quando il marito si ammalò di una forte tosse secca, nonostante il dottore dicesse che si trattava di un semplice raffreddamento, la donna pensò che fosse l’ennesima disgrazia che Jane, col suo comportamento, aveva attirato sulla famiglia. Non fu la settimana di reclusione prescritta dal medico a migliorare la salute del signor Leighton. Non fu nemmeno il mese successivo che passò in casa, spesse volte a letto senza voglia di muoversi. Quando sul suo fazzoletto comparvero delle macchie di sangue, il dottore fu co-stretto a dare una diagnosi più grave delle precedenti: il capofamiglia sembrava affetto da tisi. Le cure successive non migliorarono la sua salute e il suo umore, e ver-so la fine di novembre egli era notevolmente dimagrito a causa dei con-tinui salassi, del cessato appetito e delle giornate passate immobile, mentre la pelle del suo viso sembrava ingrigirsi e invecchiare di pari passo col cielo. «Un foglio di carta e il pennino» ordinò al soffitto una mattina, mentre Jane era nella sua stanza per fargli un po’ di compagnia. La ragazza lo guardò a lungo, prima di obbedire. «Che ne dovete fare?» Lo sguardo dell’uomo si oscurò, la bocca si contrasse, e in breve fu colpito da un altro attacco di tosse sanguinolenta. «Non vivrò abbastan-za per rimediare» disse, tra un colpo e l’altro. Jane non era sicura di aver capito bene. «Rimediare a cosa?» gli chiese, dandogli dell’acqua. Il padre deglutì a fatica qualche sorso, poi sospirò ancora. «È troppo tardi ormai. Ora scriverò tutto quello che voi donne dovrete sapere quando sarò… quando me ne andrò». Respirava con evidenti difficoltà.

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«Dovrete prendere sul serio tutto quello che troverete scritto. Non si scrivono menzogne di fronte alla morte». Jane sentì un forte dolore al petto. Suo padre la stava guardando in un modo che non avrebbe mai dimenticato. In quegli istanti, di fronte a lui nella camera da letto, le sembrò che suo padre fosse contento di morire. E per una frazione di secondo, troppo breve per poterlo dire con certez-za o poterlo pensare ancora nei giorni seguenti, lesse nel suo sguardo un’ombra di colpevolezza infinita. La notte tra il 29 e il 30 novembre 1768, verso le tre del mattino, il si-gnor Leighton emise una specie di rantolo nel sonno. La moglie, che era vicino a lui nel dormiveglia, si destò bruscamente e, guardandolo, si accorse di come i suoi lineamenti si fossero improvvisamente distesi, allungati e addolciti, nella pallida luce della candela che stava sul co-modino. Si avvicinò al suo viso e lo chiamò un paio di volte. Il suo successivo silenzio le fece capire che qualcosa non andava. Allora si ricordò di co-sa le aveva detto Wanda, una delle cameriere, qualche giorno prima. Per togliersi ogni dubbio, doveva mettere uno specchietto sotto le sue narici: se questo si appannava, poteva stare tranquilla, altrimenti la do-veva chiamare immediatamente. La signora Leighton eseguì le istruzioni: prese lo specchietto da toeletta del marito, lo tenne fermo sul suo viso per una manciata di secondi e attese. Non si appannava. Corse subito fuori dalla stanza chiamando a gran voce i nomi delle fi-glie e di tutte le cameriere. E fu quello l’inizio della fine. 7 dicembre 1768 Lo smarrimento è forse una delle più brutte sensazioni che possa pro-vare l’uomo, ed è la condizione terribile in cui ci siamo trovate dopo la morte di papà. Quando ancora non avevamo finito di asciugarci le lacrime, la mamma si è fatta avanti con un foglio vergato con la grafia di nostro padre. L’ho riconosciuto subito: ero stata io a darglielo. Se avessi saputo cosa intendeva scrivere, non sarei stata così servizievole. Non dovrei provare rancore nei confronti di un uomo morto, che per di più mi ha dato la vita. Ma cosa devo provare quindi dopo aver letto le

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sue parole? Esse rivelano che qualche anno fa, per rimediare a una sconfitta al gioco d’azzardo in quel di Londra, nostro padre ha ceduto la nostra casa. Non riesco a non provare disprezzo. Come ha potuto? Finirò all’Inferno per tutto quello che sto pensando. E sia, allora. A questo punto, cosa conta più? La nostra casa è stata concessa a un uomo di cui conosciamo solo il nome, e che giungerà domani mattina da Londra per prenderne possesso. Infatti, l’unica clausola di quella bieca promessa, era che il nuovo proprietario dovesse aspettare la morte di papà per insediarsi. Non sono valsi a nulla gli sforzi miei e della mamma per evitare lo sfratto. Abbiamo scritto due lettere a questo signore che verrà domani, chiedendogli di prorogare l’acquisizione o di lasciarci vivere qui, pro-mettendogli che l’avremmo ripagato in qualche modo, prima o poi. Le risposte sono state negative e inamovibili. Il signor Brown è in posses-so di un regolare atto di cessione, firmato da nostro padre il 12 luglio 1760. Senza più un soldo, non ci possiamo permettere nemmeno un av-vocato. Tutto ciò che ci rimaneva, ovvero la somma rimanente dal do-vario della mamma, l’abbiamo speso per il funerale. Alla cerimonia c’erano tutti i nostri conoscenti. Anche i Cobbet e tutte le altre famiglie del vicinato. Non so come, ma la voce dei debiti di pa-pà si era già sparsa. Al di là del “Requiem aeternam” intonato dal pa-store, potevo sentire un irritante bisbiglìo alle mie spalle, e non era dif-ficile indovinarne l’oggetto. Non posso dimenticare la voce affettata della signora Cobbet che, dopo aver fatto le condoglianze a mia madre, le ha detto: “Ora, Helen, devi pensare a un modo per sopravvivere con ciò che resta della tua famiglia. Vendi ciò che ti rimane e comprati una casa in città: lì tu e le tue figlie potrete pensare al vostro sostentamen-to”. Non si è piegata a offrirsi di aiutarci, memore dell’offesa subita con Dunstan. Tutto quello che ha saputo dirci è che avrebbe messo una buona parola per noi presso qualche artigiano di Dover, se avessimo deciso di andarci. Ha fatto il nome di un professionista che avrebbe po-tuto dare a me e a Emma, se avessimo voluto, un contratto in qualità di operatrici tessili. Mamma ha preso in seria considerazione l’ipotesi Dover, tanto da ven-dere anche la sua vecchia dote per procurarsi un appartamento in quella città. Lei ed Emma partiranno questa sera. È una soluzione tem-poranea, o almeno così sembra. Non siamo ancora riuscite a metterci in contatto con Elaine, ma anche se lei offrisse rifugio nella sua casa, non potremmo comunque permetterci un viaggio in nave. Quindi Emma

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e la mamma, per il momento, andranno a Dover. Per quanto riguarda me, invece, la faccenda è più complessa. “Visto che tu sei la causa principale della nostra povertà, penseremo a un buon lavoro che tu possa condurre per sostentarci”, mi ha detto la mamma. Inizialmente avrei dovuto fare l’operatrice tessile come ci era stato suggerito dalla signora Cobbet. Ma ieri pomeriggio è arrivato qui a casa un biglietto indirizzato alla nostra famiglia, proveniente da Hi-ghmore Hill. Lo trascrivo fedelmente: “Mi è giunta voce delle difficoltà economiche della Vostra famiglia. Dal momento che nella mia tenuta noto il bisogno di assumere un’altra cameriera, mi offro di prendere a servizio Vostra figlia Jane. Attendo conferma o diniego. In fede, Wendell Hench”. Taglierò corto, perché è tardi e tra un po’ devo partire. Sì, abbiamo accettato l’offerta del signor Hench, e anche se l’idea di diventare una cameriera non mi entusiasma, la paragono a un imminente trasferi-mento in città e a un lavoro infamante come quello dell’operatrice tes-sile, e vedo bene che la differenza non è molta. Qui, se non altro, non sarò molto lontana da casa. Forse questa è davvero una soluzione temporanea. Forse c’è un’altra via d’uscita. Ma sono troppo stanca per cercarla ora. Non ho voglia di pensare. Non ho la forza, adesso. E devo andare. La carrozza del signor Hench è già sulla strada.

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CAPITOLO DUE Erano ormai le cinque del pomeriggio quando Jane, dopo aver salutato la madre ed Emma che erano in procinto di salire sulla carrozza diretta a Dover, salì sulla sua, mandata dal signor Hench, per essere condotta a Highmore Hill. Il viaggio fu breve. Il cocchiere, un uomo anziano e silenzioso, le porse il suo unico bagaglio facendole cenno di scendere. «Siamo arrivati» le disse, guardandola appena. Erano le uniche parole che aveva pronuncia-to da quando erano partiti da Isherwood. «Grazie» rispose Jane con altrettanto distacco, prendendo il suo baga-glio. Quindi alzò gli occhi sulla tenuta che le stava davanti, e che entro breve, attraverso un viale circondato da basse siepi a cespuglio, avrebbe raggiunto. A prima vista le sembrò un’enorme massa scura dai contorni indefiniti. Poi, mettendo a fuoco l’immagine, ne notò la perfetta forma rettangola-re, squadrata, del corpo centrale, e i due avancorpi laterali, più scompo-sti e asimmetrici, che parevano gettarsi incontro ai visitatori come a-vrebbe fatto una fiera per balzare addosso alla sua preda. L’estremo ri-gore della facciata, perfettamente compatta, contrastava con l’irregolarità del tetto, dal quale sembravano balzar fuori punte acumi-nate, che immaginò essere delle stravaganti torri. Forse era l’oscurità a renderla così, o forse si stava facendo condiziona-re da ciò che sapeva del carattere del suo nuovo padrone, ma quella ca-sa le sembrava assolutamente tetra e inospitale. Non c’erano luci alle finestre, fuorché qualcuna al pianterreno, ma soprattutto nell’aria aleg-giava un così profondo silenzio da farle temere di essere giunta niente-meno che alle porte dello Stige. Si guardò intorno aspettandosi di veder spuntare, da un momento all’altro, dal basso di una siepe, Caronte in persona. O forse era proprio il suo accompagnatore a farne le veci. «Il signor Hench è in casa?» gli chiese. «L’aspetta» fu la sua parca risposta. Gli venne dietro docilmente, portando da sola il suo baule, e osservando curiosa i dettagli del nuovo ambiente. Che fosse maestosa, questa tenu-

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ta, non lo si poteva negare. Era molto più grande di Isherwood, in ac-cordo con la situazione finanziaria del suo proprietario, e molto più ar-ticolata. Ma era anche maestosamente spettrale. Il vento muoveva i ra-mi rinsecchiti degli alberi intorno, e le poche foglie che ancora non era-no cadute: eppure non si sentiva quasi nessun suono, al di là dei loro passi sul viale. Il portone d’ingresso, di legno massiccio, era sprangato dall’interno, e il cocchiere dovette bussare almeno quattro volte prima che una voce ri-spondesse: «Chi è?» Era una voce di donna. «La signorina Leighton» rispose il suo accompagnatore. Si sentì una specie di scardinamento provenire dall’altra parte, e il por-tone si aprì. Comparve una signora matura, grassoccia, con due spalle robuste e ampie e due occhietti infossati che si puntarono subito su Ja-ne. «È questa qui?» domandò. L’uomo la scostò con un braccio per entrare. «Sì. Fammi passare. Fa un freddo dannato». La donna prese Jane per un braccio e la tirò all’interno, spingendola di lato con poca delicatezza, quindi sprangò di nuovo il portone. «Venga dentro anche lei, è congelata. Se vuole può togliersi subito il cappotto, ma non glielo consiglio, se ci tiene a scaldarsi». «Sto benissimo, grazie» rispose Jane, e senza perdere tempo inziò a guardarsi intorno. Si trovava in una hall molto spaziosa, e illuminata da una calda luce soffusa. C’era un divano davanti a lei, di un porpora sanguigno con cuscini in tinta, e alcuni mobili in legno, e un tappeto sotto i suoi piedi, anch’esso sulle tinte del rosso, e alle pareti molti qua-dri raffiguranti paesaggi, vedute di città, e anche un… «Mi segua» disse la donna, prendendola di nuovo per un braccio, e nel giro di pochi passi ebbe modo di farsi venire in mente una fila di do-mande. «Quanti anni ha? Ha mai lavorato? Conosce il padrone? Abita nelle vicinanze?» Jane inciampò sull’angolo del tappeto. «Venti. No. Sì. E… ancora sì». La donna si fermò davanti a lei, scrutandola da capo a piedi. «È un po’ gracilina, ma vedremo di rimediare. La porto dal padrone, che ha chie-sto espressamente di vederla non appena fosse arrivata». La precedette su per una scalinata dalle dimensioni enormi, di fronte alla quale Jane rimase profondamente sorpresa. La casa era molto bella, all’interno. Molto calda e spaziosa. Chi l’avrebbe mai detto, vedendo il grigiore e la freddezza delle pareti esterne? «Il mio nome è Teresa Gable. Mi chiami signora Gable, finché non sa-

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remo in confidenza. Sono la governante». Saliva gli scalini con compo-stezza e senza un minimo di fatica. Probabilmente li aveva percorsi talmente tante volte da non prestare più caso al loro numero imponente. «Il padrone è un uomo molto corretto. Sono certa che le spiegherà bene in cosa consiste il suo nuovo lavoro. In caso ci fossero dubbi, glieli chiarirò io». Jane affrettò il passo e si affiancò a lei nella salita, finché giunsero al pianerottolo, dove la donna svoltò bruscamente a destra. La guardava apertamente, camminando. «Ha un viso assai pallido. Si sente bene?» «Sì, grazie. Deve essere il freddo». «Più tardi, dopo il colloquio col padrone, può venire in cucina a scal-darsi. Abbiamo un camino molto grande, e ci riuniamo tutti là alla sera, quando abbiamo terminato le nostre faccende. Vuole venire anche lei, sì?» La ragazza annuì, riconoscente. Il fuoco era ciò che più desiderava, al momento. «Le fornirò i grembiuli e tutto l’occorrente. La taglia più piccola, im-magino. Lei è così minuta. La nutrivano abbastanza, a casa sua?» Jane sorrise nella penombra. «La taglia più piccola andrà bene». La signora Gable aveva un fare burbero e uno sguardo fuggente, ma non c’era ostilità nella sua voce: solo la consapevolezza di avere un po-sto di comando fra tutti i servitori del padrone. Se prima l’aveva accolta con curiosità sbrigativa, ora pareva invece seriamente interessata alle condizioni fisiche della sua nuova sottoposta. «Il padrone è qui». Le indicò una porta davanti a sé. «Quando ha finito, mi raggiunga al piano di sotto. Si ricorda la strada?» Jane annuì. «Grazie» disse piano, mentre la donna spariva di nuovo nel-la penombra. Quindi bussò senza indugiare, perché sapeva che se aves-se atteso anche solo qualche secondo, sarebbe stato tutto più difficile. «Avanti» disse una voce maschile al di là della porta. La riconobbe senza esitazioni. L’aveva sentita due volte, e ciò le era bastato per imprimersela a caratteri indelebili nella memoria. Aprì piano la porta e fece un piccolo passo all’interno: davanti a lei si svelò un mondo che le sarebbe diventato molto familiare, nei mesi a venire. Si trattava di uno studio, piuttosto arioso anche se, come il resto della casa, non illuminato a sufficienza. La prima cosa che notò fu l’abbondanza di mobili e di oggetti di arredamento, che a una seconda occhiata giudicò sfarzosi e opulenti, in perfetto stile Luigi XIV. Tre so-fà al centro della stanza, disposti a ferro di cavallo, circondavano un

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basso tavolino intarsiato con piano in marmo, e lasciavano aperto il passaggio verso un ampio scrittoio collocato vicino alle finestre della parete di fondo, le quali si aprivano spaziose sull’imponenza del giardi-no attraverso pesanti tendaggi color avorio. Le altre pareti offrivano l’appoggio a numerosi armadi e stipi in legno. La scarsa illuminazione non le impedì di notare l’incredibile abbondanza di dipinti alle pareti e, in ultimo ma non per splendore, l’imponente affresco che ricopriva tut-to il soffitto, con una scena che non le fu permesso di riconoscere. Mentre stava col naso all’insù, infatti, la stessa voce di prima le ricordò che tra tutte le cose non aveva ancora individuato dove fosse il signor Hench. «Apprezzate l’arte, signorina Leighton?» disse la voce, questa volta molto vicina. Si voltò immediatamente e se lo trovò lì, a due soli passi, con gli occhi scuri puntati nei suoi. «Ve lo chiedo perché non posso non notare l’interesse che traspare dal vostro volto nell’osservare questo luogo per voi sconosciuto». A Jane tornò in mente l’ultima occasione in cui aveva parlato con lui, al modo con cui l’aveva insultato. Non riuscì a tenere salda la voce. «Sì. Per mia fortuna sono riuscita a studiare qualcosa, quand’ero a Isherwo-od». Pronunciare il nome di quella che era stata la sua casa per vent’anni e che non avrebbe più potuto chiamare “sua” fu ciò che di più sbagliato potesse fare. La stanchezza e la commozione l’assalirono, bloccando del tutto i suoi già deboli tentativi di fare una tranquilla conversazione. Il signor Hench mosse qualche passo nella stanza, come per studiare la prossima frase da dire. Jane non trovò nulla di meglio da fare che rima-nersene lì, immobile e silenziosa vicino alla porta, quasi sperando di essere dimenticata. «Avete freddo? Volete che faccia accendere il camino?» chiese lui do-po un po’. Jane scosse la testa. Non aveva nemmeno notato che ci fosse un camino in quella stanza. Poi lo riconobbe, in un posto dove non aveva fatto in tempo a guardare. «Vi confesso che non pensavo accettaste l’offerta». Qualcosa nel tono del suo interlocutore le fece riprendere un po’ del suo coraggio. «Sono stata costretta. Non l’avrei scelto se fosse dipeso da me». Il signor Hench si affacciò alla finestra e le diede le spalle, senza dire altro, come in attesa di ulteriori parole da parte della ragazza. Attese

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almeno un minuto, incurante del silenzio. Infine si decise a riprendere il discorso. «Bene, allora inizierò a esporvi le regole per lavorare qui. Prima di tut-to, i miei ordini non si discutono. Secondo, dopo di me dovete obbedire alla signora Gable, che avete già conosciuto. Terzo, non dovete fare di testa vostra. Pensate di riuscirci?» Jane si prese qualche secondo di riflessione, prima di rispondere. «Non lo so. Non sono abituata a prendere ordini». «Vi abituerete». «E nel frattempo?» Il signor Hench si voltò. «Sarà meglio per voi se vi abituerete in fretta». I suoi occhi erano nascosti in due pozze scure create dall’ombra, e a Ja-ne parve più grottesco di quello che ricordava. «Se non avete altro posso andare» concluse, spinta da una improvvisa e pressante voglia di sparire dalla sua vista. «Non volete discutere del compenso?» «Riguardo quello, mi affido a voi e agli accordi che avete preso con mia madre». «Questa vostra fiducia nei miei confronti mi sorprende». «Sorprende anche me, ma le emozioni di questi giorni stanno comin-ciando a rendermi instabile e vorrei ritirarmi». «Siete sicura di non voler interporre un altro po’ di tempo tra la vostra condizione attuale e l’inizio del vostro nuovo lavoro? Perché non appe-na uscirete da quella porta abbandonerete il vostro passato e inizierete a essere una cameriera a tutti gli effetti». «È un passo che prima o poi dovrò compiere e preferisco farlo avvenire subito». Il signor Hench la fissava senza scomporsi. «Come volete. Andate pure. Comincerete domani mattina, quando vi sarete riposata». Jane non se lo fece ripetere. «Con permesso». Sgusciò fuori dalla stanza con più impellenza di quella che avrebbe voluto mostrare, fermandosi solo un istante per chiudere la porta alle proprie spalle. La signora Gable le mostrò la camera che avrebbe occupato, un piccolo stanzino nel corridoio dei domestici con il minimo mobilio indispensa-bile – un letto, un armadio, uno scrittoio e un comodino – e le diede tut-to il corredo da domestica: due grembiuli, due cuffiette, due abiti sem-plici da indossare tutti i giorni e uno più discreto per i giorni di festa. Le mostrò il catino e gli spazi dove poteva posare i suoi effetti personali, e

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infine la lasciò, dopo aver acceso un altro candelabro nella stanza e a-verle chiesto per l’ennesima volta se proprio non voleva scendere a ce-nare con loro. «Grazie, no. Non mi sento molto bene, preferirei coricarmi». «Come desideri. Allora presentati puntuale domani mattina alle sette in cucina, per la colazione e la divisione dei compiti». Come aveva predetto il signor Hench, nell’istante in cui era uscita da quella porta, aveva smesso di essere la signorina Leighton per diventare semplicemente Jane, la domestica. E nel momento in cui aveva incon-trato di nuovo la signora Gable, quella aveva iniziato a trattarla come tale. «Puntuale vuol dire puntuale, mi raccomando». «Sarò puntuale. Buonanotte» le rispose, e la donna uscì senza tanti con-venevoli, lasciandola sola a guardarsi intorno, alla ricerca di qualcosa di familiare in quello che ormai era il suo unico spazio privato. Dopo aver indugiato per un po’, indecisa sul da farsi, ritenne buona co-sa quella di svuotare il suo baule e sistemare ciò che si era portata da casa: alcuni vestiti, che aveva la ferma intenzione di indossare al posto di quelli ricevuti dalla signora Gable, alcuni dei suoi libri più preziosi, dai quali non si sarebbe mai separata, i suoi oggetti da toeletta e infine il suo diario. Lo buttò sullo scrittoio, provando una sensazione scono-sciuta: la totale indifferenza verso la scrittura. Capì solo in quel momento, grazie a quel dettaglio, di essere nauseata e confusa oltremisura. Fu ben felice di non aver accettato di cenare con gli altri domestici: probabilmente non sarebbe stata capace di mandare giù un boccone. Si spogliò, si lavò, si rivestì con la camicia da notte ed entrò nel letto, mantenendo la propria mente in uno stato di apatia assoluta. Soffiò sul candelabro e si abbandonò sul cuscino, e solo allora si concesse il lusso di versare qualche lacrima di stanchezza e di rancore. Dopo di che, sprofondò nel sonno. La mattina dopo fu svegliata dal suono di una campanella. La prima co-sa che vide, aprendo gli occhi, fu l'oscurità totale, e per un attimo pensò di essere morta. Poi ricordò gli avvenimenti della giornata precedente e si alzò di scatto. «Puntuale» ripeté tra sé e sé, mentre pensava che forse, se fosse morta veramente, non si sarebbe sentita così uno straccio. Nel buio, cercando il catino e la brocca dell’acqua per lavarsi, scoprì di essere ancora più nauseata della sera precedente, e la sensazione non mutò mentre si ve-stiva con uno dei suoi vestiti portati da casa, entrava mestamente in cor-ridoio e scendeva le scale per raggiungere la cucina. Entrandovi, però,

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con il profumo di caffelatte che l’accolse stuzzicandole le narici, qual-cosa nel suo umore migliorò. «Buongiorno. Fai colazione e poi sali dal signor Hench» le disse la si-gnora Gable, appena la vide. «Ha chiesto che sia tu a portargliela questa settimana». Jane si guardò intorno. C’erano almeno una ventina di persone in quella stanza, e la maggior parte di esse era in cerchio vicino al camino. Tutti avevano una tazza in mano, e alcuni di essi stavano masticando qualco-sa. Il clima era rumoroso e festoso, come in una di quelle giornate in famiglia durante le vacanze di Natale. «Mi hai sentito?» la richiamò la signora Gable, attendendo una risposta. «Sì» Jane la guardò un po’ indispettita. La donna le porse una tazza di caffelatte. «Tieni, mangia, che fai spa-vento. E quando rispondi, devi dire “sì signora Gable”. E lo stesso vale col padrone. Hai capito?» Jane annuì. La donna continuò a fissarla. «Non hai capito». Jane si riscosse. «Sì, signora Gable». «Ecco!» La donna tirò su col naso e tornò alle sue faccende. Mentre mangiava, Jane iniziò a osservare l’arredamento della stanza. Attaccate alle pareti, pronte all’uso, stavano diverse pentole di ferro e rame, mentre su un tavolo appoggiato alla parete erano disposte, in di-sordine, diverse stoviglie di terracotta, coltelli, cucchiai e boccali in le-gno, e qualche piatto di peltro. In fianco a esso, una zangola per il bur-ro, un grosso contenitore per l’acqua, un ceppo per lavorare la carne e infine, immancabile in un mese freddo come quello, una catasta di le-gna da ardere. Ebbe appena il tempo di deglutire il caffelatte e di mandare giù qualche boccone di pane, che la signora Gable era già di ritorno con un vassoio ricco di prelibatezze. «Sei ancora lì? Sono le sette e mezza, dovresti già essere nello studio del padrone. Chiudo un occhio solo perché è il tuo primo giorno, ma domani se non sarai puntuale prenderò provvedimen-ti!» Non ebbe il tempo di chiedersi a quali provvedimenti stesse facendo riferimento, perché il vassoio le fu messo bruscamente in mano e venne spinta fuori dalla stanza da una mano che non riconobbe. Privata del calore del camino e del profumo della colazione, non le ri-mase che eseguire l’ordine, anche se il suo stomaco aveva iniziato a brontolare indignato. Prima di quel caffelatte, era rimasta a digiuno per un giorno intero e ora cominciava veramente a sentire il peso della de-

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nutrizione. Quando arrivò alla stanza del padrone bussò senza indugia-re, seguendo la tattica che il giorno precedente aveva funzionato piutto-sto bene. «Avanti» la voce fin troppo nota rispose dall’interno. Sforzandosi di non pensare, entrò. La stanza era più luminosa della sera prima, nono-stante il sole non fosse ancora spuntato del tutto, perché le tende erano già state completamente aperte. «Buongiorno, signor Hench. La colazione» annunciò con tono piatto, senza nemmeno guardare dove fosse il padrone. Andò al tavolino, lo posò e si voltò per andarsene. Evidentemente al signor Hench piaceva coglierla di sorpresa, o forse era lei a non stare mai abbastanza attenta, perché anche quella volta se lo trovò davanti e rischiò di andare a sbatterci contro. Si fermò appena in tempo. «Ho chiesto alla signora Gable di mandarvi da me stamattina. Ero cu-rioso di sapere se il malessere di ieri sera fosse migliorato». «Sì, grazie». «Se vi sentite bene, potete rimanere qui ancora un po’, allora». «Credo di avere qualche mansione da svolgere, a dir la verità». «Ve l’ha ordinato la signora Gable?» «Sì» mentì. «Poco male, le mie disposizioni valgono più delle sue. Quindi restate». Hench si sedette sul divano e iniziò a fare colazione davanti ai suoi oc-chi, partendo col versare il caffè e lo zucchero nella tazza di latte bol-lente, per poi mescolarne lentamente il contenuto con il cucchiaino d’argento. Lo stomaco di Jane cominciava a non poterne più di quella tortura. Prima i profumi che salivano dal vassoio, poi la vicinanza a quella sce-na… Brontolò rumorosamente, senza che lei potesse farci nulla. Il padrone non si scompose. «Avete fatto colazione?» domandò con aria vaga. «Sì, signore». «E avete mangiato a sufficienza?» «Sì, certamente, signore». «Non volete quindi farmi compagnia?» Fece un rapido cenno, indican-dole il sofà alla sua sinistra. «Sedetevi». «Sto bene, grazie». «Voi, forse. Il vostro stomaco non è d’accordo, a quanto pare». «Sto bene, signore. Grazie» ripeté. Hench alzò gli occhi su di lei. «Sapete, non è per voi. Piuttosto, temo di

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essere accusato di affamare le mie dipendenti. Quindi sedetevi, è un or-dine». Jane fu allibita dal modo disinvolto con cui quell’uomo lanciava ordini uno dietro l’altro, ma sedette. Da quella posizione, la visuale sul padro-ne che in quel momento stava spalmando della marmellata su una fetta di pane caldo era fin troppo crudele. Distolse lo sguardo. «Jane…» la richiamò lui, dopo un po’. Si voltò e vide che il padrone stava protendendo la medesima fetta ver-so di lei. «Prendetela» le disse. «Grazie, sto bene». «Conoscete solo queste tre parole?» Sarebbe sembrata una risposta scherzosa, se lui non l’avesse pronuncia-ta senza un minimo accenno di sorriso. «Prendetela. Si tratta sempre di un ordine». «Conosco anche altre parole, signore. Due fanno, più o meno: lasciate-mi stare». Gli occhi di Hench si fecero di ghiaccio. «Molto bene. Allora uscite, anch’io voglio essere lasciato stare». Jane si alzò. «Buon appetito». Sbatté la porta dietro di sé e si allontanò a grandi passi per il corridoio, prima di accorgersi di avergli mancato di rispetto per l'ennesima volta. Durante la mattinata, la signora Gable le fece visitare l’intera tenuta per spiegarle meglio quali fossero i suoi compiti. La casa aveva tre piani, ciascuno attraversato da un lungo corridoio centrale che andava da un’estremità all’altra: il pianterreno era occupato dalle stanze “pubbli-che” – dove il signor Hench si intratteneva con gli ospiti e dava ricevi-menti – tra le quali figuravano tre salotti, la cucina, una maestosa sala da pranzo che avrebbe potuto ospitare un reggimento, una sala da pran-zo più piccola e una grande biblioteca. Quando Jane entrò in quest’ultima, sentì un sobbalzo al cuore: non aveva mai visto così tanti libri in una volta. La giudicò magnifica. Salirono quindi al primo piano, dove oltre alle stanze degli ospiti si tro-vavano anche la camera da letto del padrone e il suo studio. Come in tutti i palazzi della nobilità infatti, gli alloggi della servitù erano collo-cati nel piano più alto, il più freddo d’inverno e il più caldo d’estate. «Ma noi non ci possiamo lamentare, Jane» disse la signora Gable, scendendo con lei le scale per tornare di sotto «perché il padrone non ci tratta mai male. Conosco dimore in cui la servitù è relegata nelle soffit-te, e ti assicuro che è molto peggio di così. D’estate il caldo toglie il re-

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spiro». Si spostarono in giardino, dove la governante ebbe la premura di chia-rirle che non sarebbe stato compito suo occuparsi della vegetazione, dal momento che la tenuta aveva i suoi ottimi giardinieri, i suoi fattori e i suoi stallieri, e che le domestiche si occupavano solamente della casa al suo interno. Jane fu contenta di questo, perché lo spazio esterno era davvero molto: oltre al parco antistante la casa, che si perdeva a vista d’occhio, poté vedere sul retro diversi edifici di lavoro come il granaio, un deposito per i raccolti, la rimessa per le carrozze, le scuderie, la can-tina, le stalle. Rientrate in cucina, Jane aiutò le donne che si occupavano di preparare il pranzo. Erano tutte molto più grandi di lei, anche se quella mattina ricordava di aver visto anche qualche ragazza giovane vicino al fuoco. Forse, pensò, le più giovani erano proprio le cameriere. Ne ebbe la conferma al momento di sedersi a tavola con tutta la servitù: dapprima Jane fu strabiliata dal gran numero di persone che vivevano alle dipendenze del signor Hench, e riuscì a sedersi in un angolino solo dopo che le fu espressamente ordinato dalla signora Gable. Quindi, con il piatto nella mano sinistra e il cucchiaio di legno nella destra, dimenti-cò persino di avere una gran fame e si concesse almeno un paio di mi-nuti per osservare le figure che le stavano intorno. C’erano tre, quattro, cinque ragazze che portavano il suo stesso grem-biule; le tre signore che si occupavano della cucina; la signora Gable; otto uomini vestiti molto rozzamente, forse giardinieri o stallieri, o for-se fattori. Anzi no, non potevano essere fattori perché la signora Gable le aveva detto che quelli vivevano tutti in una casa propria, nei campi intorno alla tenuta. «Se non mangi, ti si fredda» disse una voce alla sua sinistra. Si voltò lentamente e vide un uomo, di cui avvertiva distitamente l’odore di terra fresca e di erba, rivolgerle un mezzo sorriso sdentato. Aveva i capelli tagliati corti, già parzialmente bianchi e coperti da un cappello di feltro, e un grosso naso rotondo. «Sì» rispose semplicemente, e iniziò a mangiare tenendo gli occhi fissi sul piatto. Ogni tanto lanciava qualche occhiata alle ragazze più giovani, quelle col suo stesso grembiule. Per quanto si sforzasse di ascoltare la loro conversazione, non riuscì però a capire come si chiamassero. C’era una tale confusione di voci e di nomi in quel posto… Kathy, Edwin, Ma-ria… Per un attimo le parve persino di aver sentito “Rose”, ma si con-vinse subito di aver avuto un’allucinazione.

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«Sei quella venduta da suo padre? » disse ancora l’uomo alla sua sini-stra. Jane chiuse gli occhi e respirò profondamente. «Si sbaglia». «Certo che sei tu. La voce è giunta fino qui, sai. Dì un po’, perché ti ha venduta? Tutto il denaro della tua famiglia dov’è finito?» Jane si alzò di scatto per trascinare se stessa e il suo piatto dall’altra parte della stanza, ignorando del tutto i successivi commenti dell’uomo. Si rintanò in un angolino, in piedi, ma prima che potesse riprendere a mangiare fu notata da una delle ragazze. «Ehi! Sei Jane, giusto?» le gridò una brunetta col viso cosparso di lentiggini. Improvvisamente in tutta la stanza cadde un silenzio innaturale. «Sì» rispose, mescolando il contenuto del suo piatto con molta concen-trazione. «Io sono Maria!» «E io Kathleen» disse la sua vicina, un’altra brunetta, senza lentiggini però. «Buone voi» intervenne la signora Gable. «Jane, vieni a sederti qui, de-vo assegnarti le tue mansioni». Gradualmente la stanza si riempì di nuovo del cicaleccio di routine, mentre Jane si accomodava silenziosa nel cerchio delle cameriere. Fu deciso che per quella settimana si sarebbe occupata di pulire a fondo le stanze degli ospiti del primo piano, e fu preciso desiderio della signo-ra Gable che cominciasse il pomeriggio stesso. Armata di tutto l’occorrente, Jane accolse l’ordine come un regalo, perché le avrebbe permesso di stare un po’ da sola. La solitudine, in quei pochi giorni, si era trasformata per lei da piacevole abitudine a esigenza impellente. Subito non fu facile abituarsi all’idea di dover far lavorare le braccia, anche se non era certo estranea alle faccende domestiche, visto che spesso sua madre la mandava a dar manforte alla servitù di Isherwood. La pesantezza che le opprimeva il petto, però, non era dovuta al fatto di essere costretta a lavorare, ma alla prospettiva di doverlo fare a servizio di qualcun altro, per una famiglia che non era la propria, per un padro-ne. Non era libera. Nei suoi pensieri febbricitanti, mentre lavava pavi-menti e spolverava oggetti d’antiquariato, la figura del signor Hench si sovrapponeva a quella di suo padre, colpevoli entrambi di averle rubato la sua vita, costringendola a cambiare identità e pensieri in una settima-na. Era stato come una sorta di lavaggio del cervello. E, quel che era peggio, Jane non aveva la minima forza di riprendere le fila della sua

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esistenza ribellandosi alle costrizioni imposte, né aveva il desiderio di farlo. Aveva scoperto in sé quella pigrizia di chi si accorge per la prima volta della comodità di non dover decidere per se stesso. Il giorno dopo, quando aprì gli occhi al suono della ormai familiare campanella, scoprì che il sonno l’aveva un po’ rinfrancata. Il dover ab-bandonare il letto caldo per iniziare una giornata di lavoro non le parve così infernale come la mattina precedente. Si lavò, si vestì, si pettinò e uscì velocemente, raggiungendo la cucina prima che si riempisse di gente. Accettò con un accenno di sorriso la tazza che la signora Gable le porse. «Ti lascio la colazione del padrone qui sul tavolo» le disse la donna. «Ricordati di portargliela per le sette e mezza». «Sì, signora Gable». La donna la scrutò in volto, quasi stupita. «Ti vedo meglio. Stai meglio, sì?» Stava meglio. Anche se il pensiero di dover rivedere il signor Hench le toglieva ogni briciola di buoni sentimenti, sentiva di poter affrontare la giornata con più determinazione, o almeno di poter sopravvivere inden-ne fino al momento in cui avrebbe di nuovo toccato il letto. Raggiunse lo studio del padrone e questa volta, entrando, si ricordò di individuare prima di tutto dove egli fosse, per non rivivere le brutte sorprese dei giorni precedenti. Era seduto allo scrittoio, intento a scrive-re una missiva. Jane non lo disturbò parlando. Appoggiò semplicemente il vassoio sul tavolino per andarsene il prima possibile. «Ebbene, Jane, vi hanno tagliato la lingua?» le chiese lui freddamente, senza alzare gli occhi dalla lettera che stava terminando. «So che le chiacchiere non giovano alla concentrazione» rispose. Solo allora si rammentò di come si era concluso il loro ultimo incontro, per la verità non molto diversamente da come erano terminati gli incontri precedenti, e si ritenne fortunata a non averci pensato prima, altrimenti l’imbarazzo le avrebbe di certo reso molto difficile il bussare a quella porta. «Vi ho portato la colazione» tentò allora. Quindi indietreggiò fino all’uscio che era rimasto socchiuso. «Vi auguro una buona giornata» salutò. «Non vi ho detto di uscire» la fermò lui. «Ho terminato. Chiudete la porta» le comandò. «E venite qui». Jane chiuse la porta, ma non tornò verso lo scrittoio. «Non avete sentito?» disse quindi il signor Hench, alzandosi. Jane fece qualche passo e si fermò vicino al sofà. Egli le venne vicino,

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bloccandosi a mezzo metro di distanza dalle sue braccia abbandonate lungo i fianchi per guardare con interesse la parete alle sue spalle. La ragazza finse di non accorgersene, ma quando vide che il tempo passa-va e che egli ancora fissava qualcosa dietro la sua schiena, fu vinta dal-la curiosità e si girò per guardare a sua volta cosa ci fosse di così stra-ordinario su quella parete. Di fronte a lei stava il dipinto di una donna, completamente nuda, diste-sa su un divanetto di velluto in una posizione languida, con la pelle chiara della schiena e delle gambe esposta agli sguardi di qualsiasi os-servatore. Studiò con attenzione le forme morbide di quel corpo, che pareva plasmato con una mistura di latte e petali di rosa, e i delicati ri-flessi dei capelli, appuntati sofficemente in alto con un fermaglio verde giada. L'istinto le suggerì un moto di ritrosia che per poco non tramutò in un brusco passo indietro: quella scena era troppo, troppo impudica per poter essere osservata così da vicino. «L’ho comprato da un amico a Parigi, qualche anno fa» le spiegò il si-gnor Hench, continuando a fissare il quadro. «Il pittore è un certo Bou-cher, molto in voga tra la nobiltà parigina e molto richiesto anche a cor-te. Quando l’ho conosciuto era già abbastanza anziano, e non so nem-meno se sia ancora in vita attualmente». Jane avrebbe voluto scostarsi, come per non essere contaminata da quella scena, ma era senza dubbio affascinata dal tenue erotismo che emanava quel corpo. «Chi è questa donna?» chiese, in un sussurro. «Una fantasia, probabilmente. Cosa ne pensate?» le domandò voltando-si verso di lei. Jane abbassò velocemente gli occhi prima che quelli del suo oppositore potessero leggervi dentro. «Non è compito mio il giudicare un’opera d’arte». «Ve lo chiedo, provateci». Con questo decreto, il signor Hench si sedet-te sul sofà e iniziò finalmente la sua colazione. «Un minimo di istruzio-ne mi avete detto di averla ricevuta». «Non su questo genere di pitture». «L’arte è comunque arte, qualsiasi soggetto ritragga». Jane non commentò. L’uomo bevve un sorso di caffè nero. «D’accordo, partiamo dal princi-pio. Secondo voi è arte, questa?» «Immagino che lo sia, visto che la tenete nel vostro studio». «Non eludete le mie domande. Vi ho chiesto se per voi è arte. È il vo-stro pensiero che voglio sentire». Jane non poté fare a meno di notare come gli occhi del padrone, dopo

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aver osservato il quadro, avessero un po’ placato la loro freddezza, e come la sua voce fosse diventata più neutra, meno tagliente. Si chiese se questo potesse essere un effetto dell’arte. «L’arte deve ritrarre la bellezza» rifletté poi. «E questa secondo voi è bellezza?» Arrossì appena. «Sì». «Non lo dite con convinzione». «Non sono abituata a giudicare la bellezza secondo questi canoni». «Quali canoni?» «Questa… sensualità. La vedo per la prima volta. Comunque credo che lo sia». Hench la guardò di sfuggita, continuando la sua colazione con serafica disinvoltura. «In base a cosa lo dite?» «Ho visto le conseguenze che ha avuto su di voi. Intendo dire, l’avete guardata come una bellezza». «Fatemi capire, Jane. In che modo l’ho guardata? E la ragione di quel mio sguardo è stata la bellezza, o qualcos’altro?» «La bellezza… credo. Comunque, signore, questa mattina ho molto da fare. Vi chiedo il permesso di andare». «No, Jane. Prima rispondete alla mia domanda». «Ho risposto». Il signor Hench si alzò, avvicinandosi di nuovo al quadro. «Venite qui» le disse «e guardatela. Se voi doveste ritrarre l’essenza della bellezza, dipingereste questo?» Jane si concentrò ancora sui morbidi passaggi tonali che modellavano il corpo di quella fanciulla, e più la guardava, più sentiva qualcosa di scomposto dentro di sé. «No, per nulla. Questo è solo un aspetto della bellezza. È riduttivo. La bellezza… è qualcosa di più vasto». «Cosa, ad esempio?» Hench sorseggiava il caffè con aria estremamente riflessiva. «Non so, non sono una pittrice». «Non è necessario esserlo per avere sensibilità estetica. Che cosa pensa-te che sia la bellezza?» Jane strinse le braccia al petto. «Non… non credo di essere tenuta a ri-ferirvi anche i miei pensieri, signore». «Certo che sì. Essendo alle mie dipendenze, mi appartenete integral-mente, pensieri compresi. Le vostre riflessioni sono anche mie, come mio è tutto ciò che vi riguarda». Jane esitò. «Questa è l’idea di dipendenza più assurda che abbia mai sentito».

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L’uomo puntò gli occhi nei suoi, non senza causarle un certo fastidio. Lo sguardo del signor Hench era decisamente singolare. Metteva in soggezione, tanta era l’intensità con cui egli rimaneva assorto. Sembra-va voler guardare oltre la pelle, direttamente all’interno del corpo del suo interlocutore, dietro agli occhi, dentro l’animo. Jane indietreggiò di un paio di passi. «Devo andare, ora. Ho davvero molto da fare». «Quindi mi sfidate così apertamente, rifiutando di eseguire un mio or-dine?» «Ho solo detto che ho molto da fare». «E che il mio ordine era assurdo. Certo, avete detto anche questo. E su-bito dopo avete deciso di andarvene. Le azioni sono talvolta più elo-quenti delle parole». «Non era una sfida, o almeno non voleva esserlo. Credo solo che non sia opportuno dirvi quanto stavo pensando, ecco tutto» sbottò. «Opportuno? Per voi o per me?» «Per me». Il signor Hench annuì lentamente. «Ecco la verità». «Volevate sentire questo?» «Non volevo sentire nulla di particolare, se non la verità. Dunque prefe-rite mantenere il riserbo. Non mi volete esporre i vostri pensieri. Ma un giorno lo farete». «Non lo credo possibile, signore. Questo è il mio carattere». «Allora il vostro carattere va cambiato». «Il carattere non si può cambiare». «Solo gli stolti non cambiano». Il signor Hench attese qualche secondo, ma non vi fu risposta da parte di Jane, che aveva ripreso a guardare il quadro. Allora si diresse allo scrittoio, si sedette e ricominciò a scrivere quel che aveva interrotto po-co prima. Dopo un minuto che le parve interminabile, Jane tornò di nuovo alla porta. Egli non aveva ancora alzato gli occhi. «Arrivederci» gli disse quindi. Non le fu dato alcun congedo. Uscì lo stesso, senza attendere oltre. Quando, il mattino dopo, la signora Gable le comunicò che non ci sa-rebbe stata nessuna colazione da portare, quel giorno, perché il padrone era partito la notte stessa e sarebbe stato via qualche giorno, Jane provò un profondo sollievo. Un’intera giornata da sola nelle camere degli o-spiti le sembrava già un dono dal Cielo – nessuno a cui dovesse una ri-sposta, nessuna spiegazione da dare, nessuna conversazione imprevedi-

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bile – ma una giornata senza la prospettiva di vedere il signor Hench le parve davvero il massimo. Rintanata in un angolino, mentre si dedicava con più calma al proprio caffellatte, ascoltò distrattamente uno scambio di battute tra Maria e Kathleen, sedute davanti a lei. «Ogni tanto lo fa, non c’è da preoccuparsi» stava dicendo Maria. «Ma succede spesso?» «No, qualche volta. Nessuno ha mai capito cosa faccia, in realtà. Di punto in bianco dice che deve partire e ci lascia tutti qui, a gestirci da soli». «È meglio così, no? Non ci controlla poi più di tanto». «No, infatti. Pensa che io sono qui da undici mesi e non ci ho quasi mai parlato. Anzi, non gli ho proprio detto nulla a parte “sì, signore”». L’altra ragazza rise dicendo che per lei era la stessa cosa. Stavano par-lando del padrone? A Jane sembrava di sì. Se avessero chiesto il suo parere, di certo non avrebbe potuto rispondere la stessa cosa. Con lei aveva parlato. Di arte, di bellezza, anche se Jane non poteva certo dire che fosse stata una chiacchierata piacevole. Ma era successo. Forse per-ché in qualche modo si erano conosciuti, prima che morisse suo padre? «Che sia scorbutico, comunque, è un dato di fatto» continuò Maria. «L’unica persona a cui dice qualcosa è la signora Gable, e si tratta per-lopiù di ordini». «E cosa ti aspetti? Che si abbassi così tanto da mettersi a conversare con delle cameriere?» l’altra ragazza rise ancora. Jane abbassò gli occhi quando si accorse che Maria la stava guardando. Non voleva essere costretta a dire la sua opinione, non avrebbe potuto spiegare la diversità con cui era stata trattata. Sempre che di effettiva diversità si trattasse. I giorni successivi passarono senza infamia né lode. Nella sua solitudi-ne laboriosa, Jane non pensò più al padrone, almeno per i primi due giorni. Il terzo però, vedendo che la signora Gable non le dava ancora nessuna colazione da portare, s’incuriosì. «Non è ancora tornato il signor Hench?» le chiese. «No. Il Signore sia benedetto, se fosse già tornato avrebbe trovato anco-ra molti dei suoi ordini non eseguiti» rispose la donna, senza interrom-pere il suo primo pasto quotidiano. «Purtroppo entro domani sarà qui. Questo vuol dire che tutti noi, te compresa ragazza mia, dobbiamo sbri-garci. A che punto sei con le stanze degli ospiti?» «Ho quasi finito» mentì. In realtà si era mossa con estrema lentezza, nel tentativo di prolungare il più possibile quel periodo di pace. «Bene. Appena finirai potrai occuparti della biblioteca».

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Improvvisamente il mondo le sembrò più amichevole. La biblioteca! «Sì, signora Gable» sorrise. Il resto del lavoro lo terminò in poco più di due ore. A metà mattinata era già in biblioteca e all’ora di pranzo non sentì nemmeno la campanella, oltre che la fame. Kathleen fu costretta a chiamarla di persona, e le tolse pure un libro dalle mani prima di spin-gerla fuori dalla biblioteca in direzione della cucina. Quel giorno, Jane chiese alla signora Gable di mandare qualcun’altra a portare la colazio-ne al padrone, per essere completamente dedita ai libri. Il suo sogno si concretizzò. Un’infinità di volumi passavano dalle sue mani: dopo averli estratti e spolverati e aver capito di cosa trattassero, li apriva a caso e ne sfiorava appena la carta per conoscerne anche il grado di ruvidità, quindi annu-sava tra i fogli per assaporarne l’odore, e infine si concedeva il privile-gio di leggere qualche riga, anche se l’argomento non le interessava. C’erano libri di letteratura, antica e moderna, di botanica, di diritto, di geometria, molti trattati di filosofia e anche qualche volume di tecniche artistiche. Se fosse stato per lei, si sarebbe impadronita di almeno la metà di essi. Apriva e chiudeva copertine come se stesse maneggiando tesori prezio-si di una qualche civiltà del passato, soffermandosi a sospirare sulle lo-ro intestazioni come un’innamorata. Con questo ritmo di lavoro, il tempo si dilatò enormemente, tanto che, quella domenica mattina, dopo aver ascoltato insieme a tutti gli altri servitori la Santa Messa nella cappelletta della tenuta, Jane comunicò alla signora Gable che aveva bisogno di un'altra mezza giornata in bi-blioteca per terminare le ultime cose. «Quel posto non si pulisce in più di una giornata!» s’indignò la donna. «Vorrei fare un lavoro scrupoloso, signora». «Era proprio quello che intendevo. Ci si impiega una giornata per un lavoro scrupoloso. Tu sei lì da tre giorni pieni. Non sei pagata per ozia-re!» le disse, e la smorfia sul suo volto si allargò ulteriormente. Tuttavi-a, il permesso le fu accordato comunque. Jane era raggiante, ma quando raggiunse nuovamente la biblioteca, quella stessa mattina, il suo sorriso svanì del tutto: la porta era accosta-ta. La sera prima l’aveva chiusa bene prima di andare a cena, se lo ri-cordava chiaramente, e una sola persona, oltre alla signora Gable, pos-sedeva le chiavi di quella serratura. Aprì lentamente la porta. Era lì, seduto su una delle poltroncine al cen-tro della stanza, e stava sfogliando un volumetto dalla copertina scura. «Buongiorno, signor Hench» salutò.

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«Buongiorno, Jane» egli alzò appena gli occhi per poi riabbassarli sulla pagina. «Sono di passaggio, starò qui poco, proseguite pure col vostro lavoro». Non sembrava avere intenzione di disturbarla. Si era rimesso a leggere come se lei non ci fosse. Jane salì quindi sullo sgabellino che le sarebbe servito per riordinare gli ultimi due scaffali che le mancavano e iniziò a spolverare in silenzio. Ogni tanto lo guardava di sfuggita: era sempre nella stessa posizione, con la testa china, sorretta dalla mano sinistra, che usava per spostarsi ripetutamente un ciuffo di capelli dalla fronte. Leggeva, con la massima concentrazione possibile. Meglio così. Prese una collana di poesie italiane del Cinquecento e iniziò a riordinar-la per annate. Primi tre decenni… Pietro Bembo… Metà secolo… Gio-vanni della Casa, Luigi Tansillo... Anni sessanta… Michelangelo Buo-narroti... «Jane, è arrivata una lettera di vostra madre stamattina». Si bloccò. Posò subito i libri, con cautela, in attesa. «Era indirizzata a me, e mi chiedeva se stavate bene e per quale motivo non le avevate ancora scritto». «Non ho avuto molto tempo, purtroppo» si giustificò «ma lo farò pre-sto». «Non ce ne sarà bisogno. Le scriverò io, oggi stesso». «Vi ringrazio, ma posso farlo anch’io» rispose indispettita. Il signor Hench scrivere a sua madre? No di certo. «Ho visto che Kathleen vi ha sostituito per la colazione. Siete molto impegnata, in questi giorni, a quanto pare. Quindi lo farò io, le scriverò che vi siete ambientata e che state bene». Jane fece un profondo respiro. «Come desiderate. Le scriverò anch’io, comunque. Una di queste sere dopo il lavoro. Se non vi causa disturbo, metteteci anche questo nella lettera». «Non mancherò». Quindi Jane tacque, e allo stesso modo si comportò il signor Hench. Passò un po’ di tempo che alla ragazza parve infinito, senza che egli si decidesse ad andare. «Scusate» gli disse ad un certo punto «ma non eravate soltanto di pas-saggio?» «Vi disturbo, Jane?» «Per nulla. Lo dicevo per voi». «Ancora con queste docili menzogne…» Jane lo fissò. Fingeva di essere concentrato sul libro ma, ci avrebbe

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scommesso la testa, si stava divertendo un mondo a farla innervosire. «D’accordo, facciamo come volete voi. Sì, mi state disturbando. Mi ir-ritate. Siete tra i piedi. Vorrei che spariste immediatamente dalla mia vista». Solo allora egli alzò gli occhi. «State migliorando» commentò, senza tuttavia alzarsi dalla poltrona. «Ancora un po’ di questo allenamento e diventerete la migliore dipendente che io abbia mai avuto». «Non sarò mai una vera cameriera, lo sapete bene». «Perché no? L’uomo è l’unica creatura capace di diventare ciò che de-sidera». «È infatti un ostacolo insormontabile per me essere ciò che non deside-ro». «Solo perché non vi sforzate a volerlo». «Cosa mi potrà mai portare di buono?» Il signor Hench si alzò e andò a riportare il libro nel suo scaffale. «Un’esistenza tranquilla per voi e per vostra madre». «Un’esistenza tranquilla non è quello che voglio dalla mia vita». Jane scese lentamente dallo sgabello e si fermò, a braccia conserte, di fronte a lui. «E cosa volete?» «Essere libera. Non vedervi più, signore. Non dover più dipendere da voi». Il signor Hench tacque, fissando un punto nel vuoto. Impossibile capire cosa stesse pensando. «Jane…» le disse, dopo un po’ «se foste libera cosa fareste?» La domanda la spiazzò non poco. Ci sarebbero state un milione di cose da fare, avendo la libertà in tasca. Viaggiare, per prima cosa, magari fa-re un Grand Tour come tutti i rampolli delle famiglie nobili, o sempli-cemente raccogliere poche cose e partire verso l’orizzonte, senza meta. Oppure starsene per giorni in riva a un lago, gettando sassi nell’acqua senza pensare assolutamente a nulla, ascoltando solo i suoni della natu-ra. Oppure cavalcare senza sosta, raggiungere il mare e da lì imbarcarsi per la Francia, visitare Parigi e fare una sorpresa a Elaine. Non aveva ancora ricevuto sue notizie, dopo la morte di papà. «Per prima cosa, me ne andrei di qui» iniziò. Hench la guardava, inte-ressato. Non c'era alcuna durezza nel suo sguardo, bensì una profonda attenzione. Questo la rese un attimo esitante. «Dopo di che, comincerei una vita a modo mio». «E vostra madre?» «La farei lavorare».

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L'uomo alzò appena le sopracciglia. «Siete la prima figlia che avrebbe l'ardire di far lavorare la madre». «Beh, magari trovandomi di fronte a lei mi passerebbe questa ispirazio-ne». Si strinse nelle braccia. «Mia madre ha la straordinaria capacità di far cambiare idea alla gente». «È una dote di pochi eletti» commentò lui. «Per fortuna» Jane tornò ai volumi che stava riordinando. «Sapete cosa farei anche?» «No, cosa?» «Mi comprerei una biblioteca come questa. A costo di lavorare tutta la vita per riuscirci». «Se questo è un vostro progetto, allora, non vi converrebbe andare via da questa casa e perdere il lavoro». «Potrei trovarne un altro». «Non lo credo. Vostra madre, nella lettera, mi ha ringraziato con fervo-re per avervi preso in casa mia perché, stando a quanto dice, non è mol-to semplice la vita a Dover per una vedova con alle spalle un marito su cui girano molte malelingue. Credo che la difficoltà sarebbe la stessa anche per voi». Jane strinse con forza lo straccio e si morse le labbra. Non aveva una risposta. Non sapeva nemmeno se fosse vero. «Non avrei ragione di mentirvi» continuò Hench, come se le leggesse nel pensiero «vi riferisco quel che ho letto. Anzi, se volete vi posso por-tare la lettera stessa». «Non ce n'è bisogno. So che la mia famiglia non ha più una buona re-putazione, dopo il fatto di mio padre. Ma voi pensate seriamente che non troverò lavoro da nessun'altra parte?» «Non conveniente come questo, almeno». «Dipende dal significato che vogliamo dare alla parola "conveniente"». «Jane, da qualsiasi parte la vogliate vedere, la vostra situazione non cambia. Questo lavoro è il migliore che potreste avere. Il più sicuro. Il più stabile». «Baratterei volentieri sicurezza e stabilità con un pizzico di felicità in più». Il signor Hench non rispose. Guardandolo un attimo, Jane vide che sta-va fermo, appoggiato alla poltrona, grattandosi il mento. «O perlomeno, con la possibilità di avere un futuro diverso» aggiunse. «È proprio un lavoro come questo che ve la potrebbe dare. O, per dirlo con altre parole, sono io a potervelo offrire». Jane deglutì. Non era sicura di aver inteso il senso della frase. Preferì

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salvarsi col distacco. «Animo magnanimo, il vostro. Avrete un posto presso Dio» constatò, riprendendo a far lavorare lo straccio in maniera quasi forsennata. «Vi lascio al vostro lavoro, Jane» le disse lui, e uscì. «Buona giornata, signore». Highmore Hill, 26 dicembre 1768 Mio gentile diario, ti riprendo in mano dopo molto tempo. Ciò che mi è successo mi ha staccato da te, dalla scrittura e da tutti i ricordi che voglio fissare nella mia mente. Forse perché, in queste prime settimane in veste di camerie-ra, ho trovato ben poco da fissare. Ma mi sto abituando. La mia ricetta di sopravvivenza è: pensare solo a me stessa. E funziona nella maggior parte dei casi, salvo quando sono costretta a parlare con gli altri dipendenti, durante i pranzi, o quando la signora Gable mi scruta per leggere nei miei occhi se ho la coscien-za a posto per aver fatto un buon lavoro, o se so di aver avuto qualche mancanza. Molti diffidano di me. Prima ancora che arrivassi, giravano fantasiose malelingue sul mio conto. Si diceva che mia madre avesse lasciato mo-rire mio padre per vendicarsi della casa… Divertente, a ben pensarci. Se mia madre avesse saputo prima cosa aveva fatto mio padre, non si sarebbe mostrata così premurosa nei confronti della sua malattia, que-sto è sicuro. Ma nemmeno io l’avrei fatto, lo dico senza vergogna alcu-na. Non riesco ancora a perdonarlo, e forse non ci riuscirò mai. Ieri era Natale. Abbiamo ascoltato la messa nella cappelletta, che più che una cappelletta sembra una stalla, con quel soffitto di legno e le panche a muro, e poi ognuno è tornato al suo lavoro. Non me ne sono neanche accorta che era festa. Ho mandato un biglietto di auguri alla mamma e a Elaine, e ne ho ricevuto uno scritto personalmente da Em-ma. Tutte le persone che conoscevo prima della morte di papà – non amici, certo, ma conoscenti comunque – non si sono degnati di scrivere nulla. Del resto, nemmeno io ho scritto loro. Ho un unico rimpianto. Quello di non aver detto alla signora Cobbet cosa pensavo di lei e della sua stupida vanità, prima di andarmene. Così facendo non avrei di certo recuperato Primrose, ma almeno mi sarei sfogata. Per colpa del suo orgoglio ho perso l’unica amica che mi importasse avere. Lavorando qui non ho molto tempo per pensare a lei,

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non ne ho nemmeno per pensare alla mia famiglia, ma sento che la mia coscienza ha bisogno di sfogarsi, o forse solo di chiarire. Non perché io ci soffra, sia chiaro. Ho imparato ad aspettare: non andrà sempre così, arriverà anche il momento per il mio riscatto, anche se non so quanto dovrò attendere. Per ora cerco di pensare solo al lavoro, lascio che la mia mente vaghi libera e che le mie mani si concentrino solo su quello che devono fare. Il resto, è tutto superfluo. Pensavo che stare alle dipendenze di un padrone fosse più impegnativo, comunque. O forse è solo perché il signor Hench non si fa quasi mai vedere. È partito una settimana fa per un viaggio non so dove, forse in Italia ma nessuno lo sa bene. È tornato questo pomeriggio, e non l’ho ancora visto. A meno che lui stesso non richieda espressamente di ve-dermi, posso ancora stare tranquilla per un po’. Avevano ragione le ragazze, quel giorno: è bello avere un padrone così. È un po’ come non averlo.

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CAPITOLO TRE «Jane, fermati un secondo dopo la colazione» comandò la signora Ga-ble, un mattino. La ragazza le fu quasi riconoscente: aspettare un po’ equivaleva a stare ancora per qualche minuto davanti al calore del camino, e in quella mattina così frigida e cupa era la cosa più bella che le potesse capitare. Si accoccolò sullo scalino di fronte alla fiamma, e sorseggiò in pace il fondo del caffelatte guardando tutti gli altri andarsene. Le ragazze erano infreddolite e silenziose almeno quanto lei, e come lei sembravano sen-tire la neve di quel Natale sul proprio corpo. Si consolò al pensiero di questo male comune, e ancor di più la consolò il fuocherello allegro che aveva di fronte a sé. Il calore si adagiava come un guanto sulle sue ma-ni, riportandole in vita. Sentì il sangue circolarle meglio nelle vene, e le dita scaldarsi una per una. Le stava giusto massaggiando quando la si-gnora Gable si sedette in fianco a lei. «Jane, oggi vieni in cucina una mezzoretta prima dell’ora del pranzo» le disse. «Maria non sta bene, non può servire il padrone a pranzo, quindi lo farai tu». La parola “padrone” le provocò un certo brivido che non si aspettava. Istintivamente, avvicinò ancora di più le mani al fuoco. «Si tratta solo di portargli un vassoio con le portate, riprendendolo quando ha finito. Non ci vorrà molto, il padrone mangia in fretta. Quando sarai tornata con le stoviglie vuote potrai mangiare anche tu». «Gliele devo portare in sala da pranzo?» La signora Gable la guardò vagamente divertita. «Sei ammattita? Lì ci entra solo per i ricevimenti. Pranza sempre nello studio». Iniziò a lavare il pentolone dove poco prima era stato scaldato il latte. «Quando è alla tenuta, ci sono solo tre posti che frequenta: la camera da letto, lo studio e i boschi vicino al fiume, dove va a caccia» spiegò. «Per il resto, è co-me se non fosse neanche roba sua». Sbuffò un po’, e Jane non rispose. Mise la ciotola del latte nel secchiaio e lasciò la donna al suo lavoro, tornando subito a pensare al proprio. A pranzo fece come le era stato chiesto. Raggiunse il padrone nello stu-

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dio e gli sistemò sul tavolino il vassoio con le portate. Egli era accomo-dato su uno dei sofà, immerso ancora in qualche ignota lettura, ma alzò gli occhi prontamente quando si accorse che la cameriera che era entra-ta non era Maria. Jane lo guardò a sua volta. «Bentornato, signore. Avete fatto buon vi-aggio?» Egli la stava scrutando con particolare attenzione, specialmente in viso, cosa che la imbarazzò non poco. «Vi trovo bene, Jane» le disse, termi-nata l’ispezione «e sì, ho fatto buon viaggio». «Posso andare, finché mangiate?» tentò lei. Egli lesse ancora qualche riga e poi chiuse il libro. «Assolutamente no. Mi dovete raccontare come mai vi siete ripresa così bene. Forse la si-gnora Gable vi ha diminuito il carico di lavoro?» «No, per nulla». «Allora è passata la tristezza per aver lasciato la vostra casa?» «Nemmeno, signore». «Allora siete innamorata». Lo disse con uno sguardo così significativo che Jane si sentì schernita. «Anche in questo caso sbagliate. Piuttosto, credo sia la vostra lontanan-za a giovarmi» gli rispose senza riguardi. Il signor Hench sorrise, iniziando a mangiare. Tagliò con cura la carne, staccandola dall’osso, e la portò lentamente alla bocca, gustandone il sapore a occhi chiusi. «Sapete cosa stavo leggendo, poco fa?» «Ovviamente no, signore». «Alcuni scritti di un grande pensatore francese, Denis Diderot. Ne avete mai sentito parlare?» «Mai, signore». «Vi farò avere uno dei suoi volumi. Dovreste leggelo». «Per quale motivo?» «Vi sarebbe utile. In alcuni scritti tratta di ciò che l’uomo considera o-nore e decoro, e li vede sotto un'altra luce rispetto al comune pensiero. So che voi avete a cuore questi argomenti, o almeno, per quel poco che vi conosco. Ve lo consiglio: il suo è un pensiero capace di sconvolgere la forma mentis di chi sta leggendo». «E vi piacerebbe se sconvolgesse anche la mia». «Non lo nego. Potrebbe farvi bene, e sarebbe comunque interessante, qualsiasi effetto avesse». «Apprezzo la vostra premura, ma non sento la necessità di informarmi su cosa siano onore e decoro. Ho già una teoria personale al riguardo». «Che certamente sarà notevole. Permettetemi di verificarlo». Si alzò in

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piedi e iniziò a camminare lungo il divanetto, con le mani dietro la schiena e gli occhi puntati sui propri passi. «Secondo voi… chi ha più onore, un uomo che vede un suo simile morire e tenta di salvarlo, al-lungando in questo modo la sua sofferenza ma con la speranza di poter-vi porre fine, prima o poi… o colui che accetta di essere dannato dagli uomini e pone fine per sua mano ai tormenti del morente?» Jane fissò a sua volta il pavimento, in riflessione. «Non farei distinzioni simili, signore» rispose dopo un po’. «Il secondo uomo ne dimostra di certo accettando le conseguenze del suo atto. Ma il primo dimostra spe-ranza e carità scegliendo la vita. Forse, l’unico discrimine potrebbe es-sere il divieto, per chiunque, di privare della vita un essere umano». «Voi mettete la vita, dunque, al di sopra di tutto. Dico bene?» «Sì» fu la risposta, un po’ insicura. «E che cos’è dunque “vita”? Forse, in questo caso, il puro atto di respi-rare?» Jane cambiò piede d’appoggio. Perché mai ogni colloquio con quell’uomo doveva trasformarsi in un interrogatorio? «Non ve lo so dire» ammise. «Non avete riflettuto su questo?» «Temo di no». «Volete leggere Diderot, per saggiare il suo pensiero e trovarne uno vo-stro?» Jane scosse la testa. «Non potete davvero vivere in quest’ignoranza. La vita, Jane… la vita è una delle prime questioni a cui è necessario dare una risposta. Come potete essere certa di vivere davvero se non sapete dare una ragione alla vita?» Jane provò vergogna. Non aveva nessuna risposta da dare. Lo sguardo deluso con cui egli sembrava ora volerla mettere alla prova la mortificò. «Proseguite… proseguite pure con il pranzo, signore» disse quindi, ma fu più un sussurro. Egli, quasi ricordandosi solo allora di avere delle vivande in attesa sul tavolino, si sedette e riprese a mangiare in silenzio. Jane, senza più guardarlo, attese di poter riprendere il vassoio e se ne andò compita-mente, senza peraltro essere fermata. Ma quella conversazione la tormentò per tutta la giornata. Proprio non riusciva ad accettare il fatto che un uomo come il signor Hench, che considerava abietto dal punto di vista morale e umano, potesse saperne più di lei in quanto a vita, onore e via discorrendo. Meditò più e più volte di tornare da lui per proseguire il discorso, ma sarebbe stato umi-

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liante dimostrargli che ciò di cui avevano parlato aveva destato la sua attenzione, e che le sue parole erano state capaci di farla sentire inferio-re a lui. Aveva bisogno di saperne di più, di istruirsi… Per poi potergli rispondere a tono, la volta successiva. Pensò alla biblioteca. Che cosa poteva aiutarla meglio che un buon li-bro sull’argomento? Tra tutti quei volumi ce ne doveva sicuramente es-sere qualcuno che facesse al caso suo. Non ricordava se ci fossero scrit-ti di quel… Come Diavolo si chiamava? Diderot, o qualcosa del genere… ma di sicuro, cercando, qualcosa di simile poteva trovarlo. Così facendo, dopo aver preso – rubato – e stu-diato quel che le serviva, avrebbe potuto trovare dei degni argomenti per non doversi più rifugiare nel silenzio come le era accaduto. Un ottimo piano. O meglio, un ottimo piano era quello che adesso le serviva: sarebbe sta-to necessario agire di notte, ovviamente, e al buio. Non si poteva ri-schiare di svegliare qualcuno accendendo anche solo una candela. E la chiave? Come poteva procurarsela? La signora Gable ne aveva una co-pia, e la teneva sempre con sé. L’originale era in possesso del signor Hench, e non aveva idea di dove la tenesse. Non aveva nemmeno idea di quante chiavi avesse, forse talmente tante che per lei sarebbe stato impossibile trovare quella giusta. Il piano cominciava a contare troppe difficoltà. Si sentì scoraggiata, mentre andava a cena. Accostandosi alla signora Gable per prendere la sua parte, l’occhio le cadde sulla tasca del grembiule, quella destra, che sporgeva vistosamente a causa del suo contenuto: il fatidico mazzo di chiavi. Sentì la sua mano sinistra pronta ad afferrare l’oggetto, e la mosse appena. «Bontà divina!» sbuffò la donna «Sono finite le patate». Si voltò bru-scamente e incontrò gli occhi di Jane, prontamente rialzati dalla tasca. «Vai tu. Vai in dispensa a prenderle». «Sì, signora». Jane fece due passi verso la porta. Poi si bloccò, e i nervi del suo corpo si tesero all’unisono. «Signora, le chiavi» tentò. La donna la guardò stralunata. «Ma cosa dici? È già aperta la dispensa, l’apro io tutte le sante mattine!» «Per sicurezza, signora. A volte può succedere che le correnti d’aria facciano sbattere il cancello, e che questo si chiuda». La voce le trema-va appena. «Non vorrei fare un giro per niente, mi capisca». La signora Gable guardò le mani della ragazza, che si stringevano fra di loro in un gesto nervoso. Poi scrollò le spalle. «Va bene, ma non le per-

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dere» le disse, prendendo il mazzo dalla tasca. A Jane quasi cedettero le gambe. Lo afferrò e corse subito alla bibliote-ca. Riconosceva la chiave, l’aveva usata per aprire e chiudere quella stessa porta, due settimane prima. La scelse fra tutte e aprì la serratura con facilità. Fatto ciò, senza perdere un secondo, richiuse subito la por-ta dalla maniglia, e tutto sembrò esattamente identico a com’era poco prima. Quindi si diresse in dispensa a eseguire l’ordine della signora Gable. Quella notte, nel silenzio e nel buio, sarebbe entrata in biblioteca a prendersi ciò che desiderava. Mezzanotte. Jane se ne stava seduta alla scrivania, con lo scialle stretto attorno alle spalle e una discreta agitazione nel corpo. Con una gamba scalciava nervosamente l’aria di fronte a sé, in attesa del momento giusto per an-dare. A mezzanotte nessuno si aggirava più per la tenuta, anche i cani dormivano, e anche – soprattutto – la signora Gable. L’unica candela che aveva tenuto accesa, sulla scrivania, stava ormai per consumarsi del tutto. Guardò la fiamma debole agitarsi per non ve-nire risucchiata nella cera fusa. Era l’ora. Soffiò sul mozzicone ormai quasi spento e, nel buio più totale, si alzò. Procedette a tentoni fino a raggiungere la porta. Aveva già pianificato tutto. Doveva tenersi rasente ai muri, che l’avrebbero guidata fino alle scale, scendere al primo piano, raggiungere la biblioteca con lo stesso metodo, entrare, estrarre dal vestito la piccola candela che aveva preso con sé, accenderla e… semplicemente cercare. Abbassò la maniglia con la massima delicatezza possibile, e non appena la porta fu aperta, la sua missione notturna iniziò. Aderì al muro, riappoggiando la porta dietro le sue spalle, e iniziò a camminare verso le scale. La casa era perfettamente silenziosa, proprio come se l’era immaginata nelle ore precedenti. Ecco le scale, buie anch’esse. Si sorresse grazie allo scorrimano e iniziò la discesa. Piano, incredibilmente piano. I suoi piedi nudi, sul pavimento ricoperto di tap-peti, non facevano alcun rumore. Stava andando tutto alla perfezione, ma quando arrivò al primo pianerottolo, si bloccò raggelandosi. Passi. Sentiva dei passi provenire dal fondo del corridoio alla sua sinistra. Scrutò nell’oscurità. Una luce.

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C’era qualcuno laggiù! Con il cuore in tumulto si addentrò nel corridoio buio, nascondendosi dentro lo stipite della prima porta che trovò. Chiunque fosse, non dove-va vederla. Con sua grande sorpresa, si accorse che la luce non rimaneva ferma ad altezza d’uomo. Sembrava salire, quasi ruotando su se stessa. Ricordò solo in quel momento che là, proprio dove ora stava la luce, c’era una scala a chiocciola. La signora Gable, il primo giorno, le aveva detto che laggiù c’era l’accesso a uno dei torrioni, ma non gliel’aveva mostrato, ritenendolo forse poco importante. “Nessuno va mai lassù”, le aveva detto. Ma allora chi era quella perso-na che stava salendo? Vincendo la paura, si costrinse ad avvicinarsi un poco, rimanendo ra-sente al muro. Mentre avanzava, la figura davanti a lei si faceva sempre più nitida, finché la riconobbe. Hench. Ancora lui. L’uomo era quasi arrivato alla sommità della scala. Quando vi giunse, si fermò davanti a un pesante portone serrato. Si sentì il rumore di una chiave che girava nella toppa, e il portone si aprì. Jane rimase ferma nella sua posizione, appoggiata al muro, con gli oc-chi incollati a quella porta, che non era stata richiusa quando il padrone era entrato. Vedendo che egli non sembrava voler tornare subito, fece qualche altro passo, tentando di guardare all’interno. Ma era troppo in alto, troppo nel buio. La luna stava uscendo dalle nuvole, e il corridoio era già più illuminato di prima, ma non abbastanza per rivelarle quel che avrebbe desiderato sapere. Cosa c’era dietro quella porta? Improvvisamente, la candela riemerse dal pesante portone e, dietro di lei, la figura del signor Hench. Jane fece una brusca ritirata verso il fondo del corridoio. Velocemente e, suo malgrado, anche in modo mal-destro. Lui stava già scendendo le scale. Non si era fermato a chiudere la porta. Imboccò il corridoio, entro breve sarebbe passato dal punto in cui lei si trovava in quel momento. Era troppo tardi per fuggire. Jane si ficcò di nuovo in uno stipite, schiacciandosi contro di esso. Era abbastanza grande per camuffare il suo corpo minuto, ma non per na-sconderlo in totalità. Tuttavia, doveva tentare. Il cuore le batteva pazzamente nel petto. Ferma. Immobile. Sbirciò ap-pena verso il signor Hench. Era vicino. Non più di quindici passi.

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Quattordici. Tredici. Lo vide portarsi la candela vicino alla faccia. Dodici. Undici. Egli soffiò sulla candela e la spense. Dieci. Nove. Otto. Era vicino, troppo vicino ormai! Sette. Sei. Perché aveva spento la candela? Cinque. Quattro. L’aveva vista? Tre. Trattenne il respiro e implorò Dio. Non doveva averla vista. Due. Non doveva vederla! Uno. L’ombra del signor Hench fu davanti a lei. Subito sembrò voler prose-guire nel corridoio, ma non fu così. Di scatto, egli si voltò nella dire-zione di Jane e le portò una mano alla gola, schiacciandola ancora di più addosso alla porta. Con l’altra mano le bloccò un braccio all’esterno, impedendole di spostarsi. Jane rantolò. La luna uscì dalle nuvole in quel momento e rischiarò ancor di più il corridoio. Jane vide le due pozze scure del padrone a pochi centimetri dal suo viso, i suoi ciuffi sciolti, e la sua mente fu completamente presa da quella mano che le stringeva la gola, impedendole di respirare. «Jane…!» La luce della luna aveva illuminato anche i tratti della ragaz-za, ed Hench l’aveva riconosciuta. «Cosa fate qui?» Jane rantolò di nuovo, portando la mano libera alla gola. Stava soffo-cando. L’uomo non si staccò. Allentò solo un po’ la presa sul suo collo, ma non si spostò di un millimetro. «Cosa fate qui?» le chiese ancora. «Ho… volevo…» Tossì. La cassa toracica le era stata schiacciata pesantemente, e faceva fatica a respirare. L’unica cosa che distingueva, in quel momento, era un forte dolore al petto e la sensazione del contatto con il corpo del pa-drone, che la premeva addosso alla porta con ben poco tatto. Tentò di divincolarsi. «Lasciatemi…» «Cosa volevate fare?» «Mi fate male…» FINE ANTEPRIMACONTINUA...

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