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Tornando da scuola mi piaceva fare un salto alla banchina dove stavano i barconi  con la sabbia, le barche da cui uscivano delle passerelle che i renaioli percor revano trasportando con le carriole la sabbia bagnata tolta da enormi mucchi, co n le pale la caricavano con leggerezza, sembrava che sollevassero una lieve nuvo la friabile, che brillava al sole, perché ogni piccola pepita di sabbia giocava co n i colori dellarcobaleno. Una volta chiesi di poter riempire una carriola con la  sabbia che era venuta giù dalle montagne e, se non fosse stata dragata, l Elba lavre bbe certo sospinta fino ad Amburgo e poi al mare, ma, quando feci per alzare la pala, pensai dapprima di essermi incastrato nella parete della barca, dovetti af fondare nuovamente la pala bagnata nella montagna di sabbia e poi, a fatica, len tamente, come se la stessi estraendo dal catrame o dalla gomma arabica, sollevai  la pala sopra la passerella, ma a portarla fino alla carriola non ci riuscii, m i cadde di mano e i renaioli ridevano e io guardavo i loro toraci nudi, ogni ren aiolo aveva àncore e signorine tatuate sulle braccia, e uno di loro mi affascinò, su l petto aveva tatuata una barchetta, una piccola barca a vela, la guardavo e mi si riempirono gli occhi di lacrime, non è che piangessi, avevo capito, avevo cosci enza del fatto che dovevo farmi tatuare anch io una barchetta così sul petto, che se nza una barchetta come quella non potevo vivere, che quella barchetta doveva dar e calore, che era lemblema dellanima, e che anchio lavrei avuta. Quella barchetta lì s i può lavare?, faccio. Ma il renaiolo sollevava con leggerezza palate di dieci chi li e le lanciava nella carriola, ora aveva lanciato l ultima palata bagnata ed era  salito con un salto sulla passerella, scagliò la pala vuota lucente con tanta abi lità che andò a infiggersi nel mucchio di sabbia, quando si chinò potei quasi toccare la barchetta sul suo petto, lui correva allegro sulla passerella con i piedi nud i che spuntavano dai calzoni blu da lavoro, doveva prendere lo slancio per arriv are in cima dove finiva la passerella, là rovesciò la carriola e con la carriola vuo ta tornò indietro di corsa, si sedette sulla passerella accanto a me, accese una s igaretta e aspirò il fumo nei polmoni con tanta forza che la sigaretta quasi prese  fuoco, tanto la brace bruciò, e io guardavo la barchetta sul petto del renaiolo s ollevarsi mentre lui aspirava una lunga boccata, la barchetta quasi si muoveva, si faceva più grande, come se a vele spiegate si stesse avvicinando all attracco e po i il renaiolo mandò fuori il fumo e la barchetta si rimpiccioliva, si faceva più pic cola, come se stesse prendendo il largo, certo così sulle onde di continuo si alza va e si abbassava, come al ritmo del suo cuore, come col suo sangue pompato dal lavoro. «Ti piace proprio tanto?» si stupì il renaiolo quando vide le mie lacrime. «Sì» facc io io, «vorrei averla anchio, quanto costa una barchetta come questa?». E il renaiolo  si girò, mostrandomi una sirena che aveva tatuata sul braccio, e disse: «Per una bo ttiglia di rum me lhanno tatuata ad Amburgo». «Ma allora quella barchetta si fa solo ad Amburgo?» chiesi sgomento, ma il renaiolo rise e scosse la testa e insieme al f umo emise parole consolanti, disse che l àncora e il cuore trafitto glieli aveva tat uati Lojza, che di solito sta alla birreria Sotto il ponte, per un bicchierino d i rum. «E la tatuerebbe anche a me?». Il renaiolo balzò in piedi, si tirò su i calzoni c he gli scendevano, si tolse il berretto e disse: «Sì, anche a te», e asciugò il sudore d al berretto e io mi spaventai, il renaiolo era abbronzato come un indiano o la p ubblicità di una crema abbronzante, ma, dato che portava sempre il berretto per il  sole, aveva la fronte bianca, un cerchietto la separava dal resto del corpo, av eva la fronte bianca come laureola che portavano i martiri nella Cattedrale, una fronte che irradiava da tutte le parti, era come se la fronte del renaiolo fosse  uno specchio concavo e riflettesse il sole verso tutti i punti cardinali. E io corsi via, con le mani mi reggevo alle cinghie della cartella con i libri, nella  tela cerata blu della mia cartella era stampata una nave, correvo, il berretto da marinaio con il bordo nero e il doppio nastro dietro sobbalzava e il collo de lla giacca alla marinara era scappato fuori dalle cinghie della borsa con i libr i e i quaderni e svolazzava dietro di me, e il nastro nero a zigzag, al ritmo de lla corsa, dondolava di qua e di là come la campanella di una nave, come una boa, e io sapevo che presto avrei avuto anche una barchetta indelebile, tatuata sul p etto, una barca a cui sarei stato fedele, perché ormai non avrei più potuto essere a ltro che un marinaio. Il signor parroco Spurny a cui servivo la santa messa, fu il primo a cui volli confidare il mio desiderio di avere una barchetta tatuata s ul petto, perché lui pure, a dimostrazione della sua ubbidienza a Dio, si era fatt

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Tornando da scuola mi piaceva fare un salto alla banchina dove stavano i barconi con la sabbia, le barche da cui uscivano delle passerelle che i renaioli percorrevano trasportando con le carriole la sabbia bagnata tolta da enormi mucchi, con le pale la caricavano con leggerezza, sembrava che sollevassero una lieve nuvola friabile, che brillava al sole, perché ogni piccola pepita di sabbia giocava con i colori dellarcobaleno. Una volta chiesi di poter riempire una carriola con la sabbia che era venuta giù dalle montagne e, se non fosse stata dragata, lElba lavrebbe certo sospinta fino ad Amburgo e poi al mare, ma, quando feci per alzare lapala, pensai dapprima di essermi incastrato nella parete della barca, dovetti affondare nuovamente la pala bagnata nella montagna di sabbia e poi, a fatica, lentamente, come se la stessi estraendo dal catrame o dalla gomma arabica, sollevai la pala sopra la passerella, ma a portarla fino alla carriola non ci riuscii, mi cadde di mano e i renaioli ridevano e io guardavo i loro toraci nudi, ogni renaiolo aveva àncore e signorine tatuate sulle braccia, e uno di loro mi affascinò, sul petto aveva tatuata una barchetta, una piccola barca a vela, la guardavo e misi riempirono gli occhi di lacrime, non è che piangessi, avevo capito, avevo coscienza del fatto che dovevo farmi tatuare anchio una barchetta così sul petto, che senza una barchetta come quella non potevo vivere, che quella barchetta doveva dare calore, che era lemblema dellanima, e che anchio lavrei avuta. Quella barchetta li può lavare?, faccio. Ma il renaiolo sollevava con leggerezza palate di dieci chili e le lanciava nella carriola, ora aveva lanciato lultima palata bagnata ed era salito con un salto sulla passerella, scagliò la pala vuota lucente con tanta abilità che andò a infiggersi nel mucchio di sabbia, quando si chinò potei quasi toccarela barchetta sul suo petto, lui correva allegro sulla passerella con i piedi nud

i che spuntavano dai calzoni blu da lavoro, doveva prendere lo slancio per arrivare in cima dove finiva la passerella, là rovesciò la carriola e con la carriola vuota tornò indietro di corsa, si sedette sulla passerella accanto a me, accese una sigaretta e aspirò il fumo nei polmoni con tanta forza che la sigaretta quasi prese fuoco, tanto la brace bruciò, e io guardavo la barchetta sul petto del renaiolo sollevarsi mentre lui aspirava una lunga boccata, la barchetta quasi si muoveva,si faceva più grande, come se a vele spiegate si stesse avvicinando allattracco e poi il renaiolo mandò fuori il fumo e la barchetta si rimpiccioliva, si faceva più piccola, come se stesse prendendo il largo, certo così sulle onde di continuo si alzava e si abbassava, come al ritmo del suo cuore, come col suo sangue pompato dallavoro. «Ti piace proprio tanto?» si stupì il renaiolo quando vide le mie lacrime. «Sì»io io, «vorrei averla anchio, quanto costa una barchetta come questa?». E il renaiolo si girò, mostrandomi una sirena che aveva tatuata sul braccio, e disse: «Per una bo

ttiglia di rum me lhanno tatuata ad Amburgo». «Ma allora quella barchetta si fa soload Amburgo?» chiesi sgomento, ma il renaiolo rise e scosse la testa e insieme al fumo emise parole consolanti, disse che làncora e il cuore trafitto glieli aveva tatuati Lojza, che di solito sta alla birreria Sotto il ponte, per un bicchierino di rum. «E la tatuerebbe anche a me?». Il renaiolo balzò in piedi, si tirò su i calzoni he gli scendevano, si tolse il berretto e disse: «Sì, anche a te», e asciugò il sudore al berretto e io mi spaventai, il renaiolo era abbronzato come un indiano o la pubblicità di una crema abbronzante, ma, dato che portava sempre il berretto per il sole, aveva la fronte bianca, un cerchietto la separava dal resto del corpo, aveva la fronte bianca come laureola che portavano i martiri nella Cattedrale, unafronte che irradiava da tutte le parti, era come se la fronte del renaiolo fosse uno specchio concavo e riflettesse il sole verso tutti i punti cardinali. E iocorsi via, con le mani mi reggevo alle cinghie della cartella con i libri, nella

 tela cerata blu della mia cartella era stampata una nave, correvo, il berrettoda marinaio con il bordo nero e il doppio nastro dietro sobbalzava e il collo della giacca alla marinara era scappato fuori dalle cinghie della borsa con i libri e i quaderni e svolazzava dietro di me, e il nastro nero a zigzag, al ritmo della corsa, dondolava di qua e di là come la campanella di una nave, come una boa,e io sapevo che presto avrei avuto anche una barchetta indelebile, tatuata sul petto, una barca a cui sarei stato fedele, perché ormai non avrei più potuto essere altro che un marinaio. Il signor parroco Spurny a cui servivo la santa messa, fuil primo a cui volli confidare il mio desiderio di avere una barchetta tatuata sul petto, perché lui pure, a dimostrazione della sua ubbidienza a Dio, si era fatt

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o tagliar e i capelli, si era fatto radere un tondo sulla sommità della testa. E poi il signor parroco Spurny era una persona meravigliosa, parlava sempre quel suo dialetto della Slesia, secondo il signor parroco anche Dio parlava il dialetto slesiano, perché il nostro parroco parlava sempre con Dio, almeno così tuonava dalpulpito, la domenica diceva: «Spurny Spurny, buffalo pelato, io tho affidato dellepecorelle pure e tu conduci a me in cielo sti porci briaconi». Un parroco così, mi disi, se parla in questo modo sicuramente mi benedirà quando mi inginocchierò davantia lui con la cotta da chierichetto, giungerò le mani e chinerò il capo e gli dirò della barchetta pura. Ma il signor parroco aveva fretta, si tolse il piviale, bevvedel vermut, il signor parroco non beveva altro che vermut, anche quando andavamo a somministrare lestrema unzione nel cestino accanto allolio santo e alla patenadovevo portare con me una bottiglia di vermut quindi il signor parroco se ne andò e io mi tolsi la cotta e, inginocchiato davanti al tabernacolo, guardavo il Cristo dorato che spuntava dai fiori di peonia e di viburno e allimprovviso mi accorsi che anche lui aveva un cuore tatuato sul petto, un cuore circondato da una ghirlanda pungente di spine di rose selvatiche E allora, mentre svuotavo le cassettecon le elemosine per le riparazioni della chiesa, prima presi cinque corone, poi le restituii, ma poi le presi in prestito definitivamente, con la ferma convinzione che le avrei rimesse a posto, dissi anche al Cristo dorato in sagrestia: «Sullanima mia e parola donore, le prendo solo in prestito», e le mostrai a Gesù, perchésse che non stavo prendendo di più. Io ci parlavo spesso con Cristo, perché con Dionon ne avevo il coraggio, soprattutto da quando il contadino Farda, di cui si diceva che per notti intere litigava e gridava con Dio e Dio con lui, dunque questo contadino trasportava lultimo carico di fieno e io stavo proprio tornando da sc

uola e si avvicinava un temporale, Farda frustava il cavallo per riporre il fieno secco in solaio prima che si mettesse a piovere, allora sotto il ponte cominciarono a cadere dei goccioloni e poi scoppiò un acquazzone e venne giù un diluvio, eil contadino Farda prendeva manciate di fieno bagnato e le lanciava per aria, verso i cieli, e gridava a Dio: «To, ingozzati!». E Dio rispose con un lampo che spaccò n due il pioppo sullargine, e i cavalli tremavano e io pure tremavo e i clienti dellosteria Sotto il ponte, che guardavano da sotto la gronda, caddero in ginocchio, non davanti a Dio, il profumo del fulmine aveva fatto perdere loro conoscenza, perché il fulmine a palla correva lungo la strada sulla ringhiera del ponte come un gatto fiammeggiante. Oggi allosteria Sotto il ponte cera allegria. «Ma che bel marinaretto!» esclamò il signor Lojza quando fui davanti a lui con la giacca alla marinara e il berretto bianco da marinaio con il doppio nastro nero che dietro scendeva incrociato. «Fa vedere» disse il signor Lojza, e prese il mio berretto e lesse l

a scritta «Hamburg-Bremen» e se lo mise in testa e io ero felice e ridevo ed ero contento perché il signor Lojza era così caro con me. E il signor Lojza si era messo il berretto e faceva delle facce così terribili che io ridevo e poi urlavo ridendo di cuore come lintera tavolata, e mi misi in testa che quando sarei stato grande avrei considerato un onore stare anchio in birreria con lallegra gente del fiume. E poi al signor Lojza mancavano i denti e allora aveva messo il labbro inferioresopra a quello superiore, in modo che col labbro di sotto si copriva anche la punta del naso, e andava in giro così, e il suo tavolo di renaioli applaudiva, e qualcuno ordinò birra per tutti e, per di più, anche un giro di cognac. Se cè tanta allegia qui Sotto il ponte vicino al fiume, mi dissi, figuriamoci quanta allegria cè e quanta ce ne sarà quando sarò marinaio niente di meno che ad Amburgo. E dissi: «SignorLojza, questi sono per lei da parte mia per un rum come si deve!». E il signor Lojza mi piazzò il berretto in modo buffo sulle sopracciglia e, quando guardai verso

lalto, feci gli occhi strabici fissando il bordo del berretto, e intanto davo alsignor Lojza le cinque corone. «Dove hai preso questi soldi?» disse diffidente il signor Lojza. «Li ho presi in prestito dal Signore Iddio» dissi e annuii e il berretto mi scese sugli occhi, lo soffiai verso lalto e lintera tavolata si mise a rideree il signor Lojza disse: «Allora hai parlato con lui?». E tutti tacquero. «No» dico, «me li ha prestati suo figlio, il Signore Gesù in persona» dissi, e aggiunsi: «Ma, signor Alois, me li ha prestati perché lei mi tatuasse una bella barchetta, come quella che ha tatuato a quel signore laggiù, al signor» «Korecky» disse il renaiolo. «Sì» dinor Korecky». «Be, allora, se te lha ordinato il Signore Gesù in persona, vorrà dire o faremo. E quando, poi?». «Adesso, subito!» faccio io. «Cristo» disse il signor Lojza,

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io non ho con me gli aghi per tatuare, né il colore». «Allora vada a prenderli» dissi eil signor Alois corse via, così comera, in camicia, e i clienti del locale si misero a farmi domande sul signor parroco, se aveva sempre due cuoche o se adesso erano tre. E io, per mantenere tutta la tavolata in umore da tatuaggio, dissi: «Ma cosa dite, macché tre! Due, ma sono giovani giovani», e la tavolata Sotto il ponte vicino al fiume strepitava entusiasta e ripeteva dopo di me, come nelle litanie: «Tutte e due sono giovani giovani». «Sì» dissi, «e quando il signor parroco è di buon umore oca si siede su una sedia, lui si china, prende la sedia per una gamba, e hop! E solleva verso il soffitto la bella cuoca e le gonne gli sventolano intorno al volto». «Ooh!» gridava la birreria Sotto il ponte, «e le gonne gli sventolano intorno aolto». «Sì, e le solleva così una dopo laltra, e anche noi chierichetti, perché ha un enorme, sapete, sono sette fratelli e il loro papà era un tale gigante che quando schiacciavano le noci il papà del signor parroco metteva la mano sul tavolo e i bambini gli sollevavano un dito e ci mettevano sotto una noce e lasciavano andare il dito e crack! La noce andava in frantumi!». E gli avventori gridavano: «Oooh! ecrack! E la noce andava in frantumi!». «Sì, signori, ma erano così poveri che quando tuti si erano seduti a tavola la mamma metteva davanti a quei sette colossi una scodella con le patate, tutti tenevano i cucchiai pronti e la mamma metteva sul piano del tavolo la mano con le dita divaricate e picchiettava con le unghie sul tavolo e tutti i cucchiai si lanciavano sul cibo, e chi non si sbrigava aveva già finito di cenare, ma il signor parroco era il più debole della famiglia, allora si son detti -che cosa gli facciamo fare? Se fa il mugnaio quattro sacchi non li solleva, ne alza solo due di sacchi di farina da ottanta chili, allora lo mandiamoa fare il prete». Ed entrò il signor Lojza portando con sé una valigetta, come quella

he portano il barbiere Slavícek oppure il castraporci Salvet, e il signor Lojza chiuse la porta della mescita e mi fece un cenno e io mi tolsi la giacchetta allamarinara facendola passare per la testa e quando fui nuovamente alla luce il signor Lojza disse: «Ma, figliolo, io non so che tipo di barchetta desideri, un vascello? O un battello? O una iole? Un vascello a tre alberi, o un brigantino, oppure vuoi un piroscafo?». «Lei sa fare tutte le navi di tutti i tipi?» faccio io. Il signor Lojza annuì e allimprovviso smise di essere ubriaco, aveva unaria solenne, fece un cenno e il renaiolo seduto sullangolo della panca, non quello con cui avevo parlato ma quello che faceva il trasportatore con il cappello, si tolse il cappello per sfilarsi la camicia e il suo mezzo cranio brillò violentemente nel locale e dalla sua fronte la luce splendeva come da un faro bianco schermato per metà. E ilsuo corpo abbronzato entrò nella luce che pioveva dallalto e non cera un solo puntoche non fosse coperto di sirene e àncore e cuori e iniziali e navi e scene di due

persone nude e donne nude, io arrossii e il renaiolo si girò e sulla sua schiena scelsi una semplicissima barchetta da pescatori, come quelle che disegnano i bambini piccoli: «Mi tatui quella!» gli faccio. E il signor Lojza mi depose sui giornali stesi. «Farà male?» chiesi e mi sdraiai sulla schiena e fui completamente accecato dalla lampadina. «Non farà male, pungerà solo un pochino allora una barchetta?». «Una bata» sussurrai, e quasi mi addormentavo beatamente, e poi sentii le punture leggere dellago, poi mi sentii bagnare con uno straccetto freddo o col cotone e i clienti del locale erano intorno a me e io stavo sdraiato al centro come la pallina che corre nella roulette in mezzo ai giocatori e sentivo: «Quella ci avrà proprio una bella chiglia e fagliene due di vele. e una barca come si deve ha fianchi come si deve. e un canaletto profondo e un timone». E il signor Lojza mi sussurrava: «Non resprare, respira solo col naso». E così giacevo sulla schiena, le punture regolari dellao per tatuare mi svegliavano ma nelle pause dormivo beatamente. Poi il signor Lo

jza mi sussurrò che la barchetta era pronta, mi alzai, stavo seduto sul tavolo, tuttintorno a me non vedevo altro che boccali da mezzo litro e gli avventori brindavano alla mia, appoggiai il mento sul petto per guardare la barchetta, ma tuttii bicchieri brindando si scontrarono con la mia testa e tutti ridevano, e il signor Lojza mi tirò giù la camicia e poi anche la giacchetta e io mi ricordai che abitavo allaltro capo della città, che da casa ero lontano, così mi inchinai al signor Lojza e lui mi diede la mano e tutta la compagnia brindò alla mia salute cantando: «Evviva, evviiva, evviiivaa», e io in piedi facevo il saluto portando la mano al berretto da marinaio e poi corsi via nella sera. Correndo sul ponte mi ritrovai in una bufera, dai lampioni cadevano sul selciato del ponte e del marciapiede migliai

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a di effimere, si scivolava come quando è ghiacciato, ma le luci delle lampade sui pilastri splendevano senza pietà e dal fiume si alzavano in volo verso la luce turbini di effimere, dal nero del fiume si alzavano bianche farfalle alate, coleotteri con le ali, perché la luce che li attirava dal fiume li sbattesse poi sui marciapiedi e sulla carreggiata, dove le gomme delle auto slittavano e la gente cadeva come sul ghiaccio a S. Silvestro. Appoggiai una mano sul petto, respiravo esentivo che anche la barchetta si sollevava, come sul mare, e in quel momento non desideravo altro che mostrare la barchetta al signor parroco e alle sue due cuoche, mi allontanai dai lampioni affondando fino alle ginocchia nelle farfalle agonizzanti, raccogliendole nel palmo della mano sentivo che si muovevano, ma perdevano calore e si raffreddavano come il fiume serale, dal cui fondo senza sosta saliva una nuova tormenta di effimere, sempre più forte, scivolai, caddi e gridai: «Mi sono rotto la barchetta!». Ma la barchetta non era di carta, né di fil di ferro, né di legnetti, era ancorata solidamente in me e su di me, solo con un coltello sarebbe stato possibile tagliarla via, proprio come dal mio cuore, in cui mi eropromesso alle barchette e alle navi e ai vascelli. Silenziosamente aprii il cancello chiuso, dovetti infilare tutto il braccio per arrivare al paletto dallaltraparte, silenziosamente scivolai nel cortile della canonica, dalle due finestre della canonica si spandeva la luce e dal fiume volavano fin lì le effimere, si agitavano nelle finestre creando una tappezzeria, una sorta di disegno ornato di bianche lacrime in movimento, la vite si avvinghiava alle ringhiere e alle pergolesalendo fino al tetto, e i viticci si allungavano verso la luce, nella finestra, come nei volti delle giovani cuoche le ciocche dei capelli che si liberavano eloro continuamente se li infilavano ora dietro lorecchio, ora sotto la cuffia. Ch

issà cosa starà facendo il signor parroco, mi dissi, non volevo sorprenderlo, forsesta di nuovo sollevando le cuoche sulla sedia e le trasporta e loro disegnano coi capelli sulle travi del soffitto e strillano e dimenano i piedini nelle scarpe nere, e allora come su per una scala salii per i pioli e le assicelle delle ringhiere, facendomi strada tra i germogli della vite, finché arrivai a guardare allinterno della canonica e lì vidi unimmagine che mi entusiasmò, non avrei mai detto cheil signor parroco avesse tanta forza, allinizio pensai che il signor parroco avrebbe fatto lelevazione delle cuoche, che le avrebbe legate alla vita con la stola, si inginocchiò davanti a loro e con cura legò luna allaltra alla vita le sue cuochin, le legava con un lungo asciugamano, e le cuoche sapevano quanto me cosa sarebbe stato di loro, perché la sedia era piuttosto distante E il signor parroco dapprima sollevò le ragazze, tutte e due in una volta, non arrivavano a toccare terra e penzolavano come manichini e le loro fronti si scontravano, quelle si scansavano

e ridevano e scoprivano il viso del signor parroco, che sollevandole le annusava allaltezza del ventre, le annusava addirittura un po più in basso poi le mise giù e mise a ridere, di quella sua risata gioiosa, che faceva rizzare i capelli in testa ai buoni cristiani, come diceva il contadino Farda, poi si inginocchiò davanti alle ragazze e per un momento ebbi paura che stesse annusando loro il sedere, come fanno i cani o i gatti, ma allimprovviso accadde un miracolo, il signor parroco si alzò e reggeva le sue due cuoche con i denti, reggeva con i denti il robusto asciugamano e portava le ragazze in giro per la stanza tenendo le braccia distese come un vero artista, e le cuoche dimenavano le scarpine e le manine e ridevano, erano come gemelle siamesi attaccate luna allaltra dalla spina dorsale dellasciugamano, e i denti del signor parroco lo reggevano e lui lo muoveva con la sua forza e io immaginai quale sorpresa sarebbe stata a Cana in Galilea, e molto più grande del miracolo del vino, se Gesù Cristo avesse portato in questo modo la sposa

e Maria Maddalena in giro per la sala delle nozze, quale rafforzamento sarebbe stato per la fede cattolica, e in genere per tutte le persone che amano la religione, perché una forza così cara conquista non solo i cuoricini femminili, ma anche tutti i cuori degli uomini, soprattutto i cuori e le anime dei renaioli e dei marinai. E, quando si fu sfogato, il signor parroco mise giù le cuoche e si accasciò sdraiandosi nella poltrona, e aveva un occhio iniettato di sangue, come se qualcuno gli avesse dato un pugno, e aveva i capelli bagnati sulla fronte e la camiciaaperta e ai suoi lati stavano le cuoche, una in ginocchio gli offriva larrosto elaltra gli riempiva il calice di vermut E io bussai e le cuoche accorsero alla porta e io entrai vestito alla marinara e col berretto da marinaio con la scritta «Ha

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mburg-Bremen» e il signor parroco ebbe paura che dovessimo andare a somministrareunestrema unzione «Che cè?» disse. E bevve, beveva e aveva ancora le labbra nel caliando gli dissi che volevo solo mostrargli la cosa a cui quel giorno mi ero consacrato. Mi tolsi il berretto da marinaio, lo diedi in mano a una delle cuoche, poi mi levai la giacca e mi tirai su la camicia fino al mento, mi inginocchiai e pregai: «Reverendo Padre, beneditemi!». E le cuoche cacciarono uno strillo, e il signor parroco si mise dritto e guardava il mio petto, poi ci fu silenzio, si sentivano solo le effimere e le falene sbattere contro le finestre, e dopo un po il signor parroco mi accarezzò i capelli e disse: «Chi te lha fatto?». Risposi: «Il signor As alla birreria Sotto il ponte». «E cosa ti ha tatuato?», il signor parroco mi accarezzò di nuovo i capelli. «Una barchetta con làncora». Il signor parroco mi condusse dava allo specchio, mi prese piano piano sotto le ascelle e mi sollevò e io vidi tatuata sul mio petto una sirena con il ventre coperto di barba, con i seni e gli occhi grandi come torte, e quella sirena nuda mi sorrideva come la signorina del locale di Zofín, che rideva e mi mostrava sporcacciona la punta della lingua e poi mi faceva la linguaccia come il diavolo di S. Nicola.2.Quando papà vide la sirena tatuata per sempre sul mio petto, rimase per un po a fissarla, la guardò a lungo, non batté né un ciglio né laltro, come se stesse indagando atroso le circostanze che potessero spiegare quellindelebile segno marinaro E io ansimavo, il cuore mi batteva così forte che al ritmo del mio cuore la sirena chiudeva e socchiudeva gli occhi e io con la mano coprii quella donna nuda proprio come nel quadro sullaltare Adamo ed Eva si coprono il ventre Papà tuttavia si limitò a fre un gesto con la mano, perché dal cortile si levarono le urla dello zio, la voce

 gioiosa e penetrante dello zio Pepin, che, come diceva la mamma, era venuto danoi otto anni fa per una visita di due settimane ed era tuttora con noi. E lo zietto strillava: «Ma come si permette? Imbecille, secondo lei io sarei il tipo chepascola le capre? La schiaccio a terra come un maggiolino! La ficco nel marciapiede come un chiodo!». E papà tutte le volte che veniva preso alla sprovvista dallo zio Pepin, dalle sue urla, tutte le volte si fermava vicino ai fornelli, si versava del caffellatte nel bicchiere, si tagliava un pezzetto di pane e beveva il caffè e lo zio continuava a sbraitare e le sue urla penetravano come un coltello nel burro della luce gialla della nostra cucina: «Ma che cavolate va dicendo? Le caprette? Ma io non voglio nessuna capra e perciò neanche le caprette ma come si permette? Sa che succederebbe se io andavo al pascolo con le capre e mi incontrava il colonnello Zawada? Mi strillerebbe: Che ti venga un canchero, bastardo figlio di puttana!, e me le darebbe col frustino, perché un soldato austriaco non si può perme

ttere a portare le capre al guinzaglio! Una parola di più e la appiccico al muro che non la gratta più via nessuno!». E io mi abbottonai la camicia e mi sedetti vicino alla stufa su un piccolo sgabello e sul tavolino dei bambini misi libri e quaderni, intinsi la penna nellinchiostro, ma scrivere non potevo, tenevo solo il quaderno aperto e la penna sulla carta, se fosse entrata la mamma avrei fatto finta di scrivere e la cucina scintillava di rabbia e di patimento, da papà usciva sempre unaureola di sofferenza, sentivo delle mani invisibili che mi staccavano da papà, come anche dalla mamma, perché io volevo avere una mamma come quella che avevanogli altri ragazzi, una mamma di quel tipo, ma la mia mamma era sempre come una signorina, pensava sempre al teatro e ai divertimenti, era sempre inafferrabile,da me si divincolava sempre, tanto che non sono mai riuscito a stringermi contro di lei, troppo avrei dovuto dominarmi, con la mamma soffrivo sempre di rossorie vampate, come se fossi stato dietro un cespuglio di gelsomino in fiore allimbru

nire con Liduska Koprivová a sentire il profumo dei capelli ricciuti di lei, di Lidla. E anche quando la mamma cercava di calmare papà stando in piedi con lui sotto i pendagli della grande lampada, io stavo seduto sullo sgabello, tenevo la penna piazzata sulla riga del quaderno aperto, facevo finta di stare per scrivere ese qualcuno mi avesse guardato avrei iniziato a scrivere, ma se qualcuno avesseguardato cosa scrivevo avrebbe visto che erano cose senza senso, perché mi batteva il cuore per lagitazione, perché la mamma stava abbracciando papà e mi sentivo come e la mamma stesse spargendo biglietti da cento sulla piazza, come se stesse dando a bambini estranei lalbero di Natale con tutti i regali sotto E così me ne stavo di nuovo seduto sullo sgabello e la cosa che mi spaventava era che papà si terroriz

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zasse proprio quanto me perché invece della barca con làncora il signor Lojza mi aveva tatuato una sirena nuda, e allimprovviso sentii che quella signorina con la coda da pesce sul mio petto non era nulla in confronto alla tristezza che scorrevadentro papà e irradiava da tutto il suo corpo, come laureola a forma di spade doro si allargava intorno a tutto il corpo di S. Ignazio sullaltare laterale della nostra chiesa. Sentivo che papà soffriva tanto che avrebbe preferito andarsene, non in un posto preciso, ma così avrebbe camminato e camminato, continuamente, via da quella fabbrica di birra dove faceva lamministratore e in cui aveva anche la sua macchina, in cui aveva una bella casa e la mia bella mamma, in cui ero anche natoio la fabbrica di birra in cui lavorava suo fratello, lo zio Pepin, che amavo più di papà per le sue urla e i suoi balli, lo zio Pepin, che quando finiva di lavorare alla fabbrica di birra si metteva il berretto da ufficiale di marina, il berretto bianco da ammiraglio con la visiera nera e i cordoncini dorati e con unàncora dorata ricamata in campo blu sul davanti, il berretto ornato di bottoni dorati, il berretto che lo zio non faceva toccare a nessuno, solo alle belle signorine nei locali che frequentava tutti i giorni e io avrei tanto desiderato uscire sulla soglia e vedere con chi urlava tanto lo zio Pepin ma, per far piacere a papà almeno un po, rimasi lì seduto, con la penna intinta sul quaderno, così potevo cominciare a scrivere, se papà mi avesse guardato Ah come mi faceva soffrire la mia casa, comemi sentivo proiettato attraverso la finestra, anche chiusa, attraverso il muro fuori, solo fuori e fuori e fuori, da fuori mi salutavano dalla finestra i rami dei vecchi tigli e degli ippocastani, da fuori mi bussava la pioggia, da fuori mi chiamava il vento, che faceva tintinnare la finestra aperta della fabbrica di birra! E come papà continuamente chiedeva alla mamma di essere una donna per bene,

come a mia volta io volevo che la mamma fosse una mamma normale, così papà e la mamma volevano che io fossi un ragazzo a modo, e spesso mi rimproveravano perché mi lavavo poco, io però piangevo e giuravo che nello sporco mi sentivo bene e al calduccio, mi mostravano come si rivestono i sillabari e gli abachi, ma io ogni pagina che avevamo letto la strappavo, e allora S. Nicola mi portava sempre un libro di scuola nuovo e Gesù Bambino due. Papà voleva insegnarmi e inculcarmi lamore per ilgiardino, piantò cavoli e insalata e insegnandomi a sarchiare mi spiegava che bisogna estirpare le erbacce, così come è necessario sradicare le mie cattive qualità, inmodo che rimangano solo quelle buone, ma quando papà se ne andò io rimasi lì, tenevo il sarchiello e la vanga pronti e mi guardavo intorno, uccelli colorati ricamavano laria e il sole mi scaldava e il vento volava dai boschetti di pini subito dietro la fabbrica di birra e dal fiume si levavano le grida e le esclamazioni dei bambini e tuttintorno a me cerano e accadevano tante cose belle, ma io stavo lì, al c

entro del giardino, stavo in piedi in mezzo alle aiuole piene di erbacce e quando da qualche parte si apriva una finestra, o sentivo dei passi sul vialetto di cemento, subito prendevo il sarchiello che tenevo pronto e mi mettevo a sarchiare, ma, quando capivo che non erano né papà né la mamma, rimanevo lì con il sarchiello inmano, ma con la mente e tutti i desideri svincolato, da tuttaltra parte a un certo punto presi una decisione, in realtà non fu una decisione vera e propria, mi venne unidea, e sradicai e pulii tutta linsalata e tutti i cavoli, gettai tutto su unmucchio, aspettai che la verdura si seccasse e non fosse più possibile ripiantarla e col sarchiello in spalla andai da papà e dichiarai che avevo pulito tutto, e papà si meravigliò, ma io ero come la mamma, ero capace di sguardi così sinceri che papà i accarezzò e poi disse che potevo andare dove volevo, se però non avevo dei compiti da fare. E poi la sera papà stava in piedi sopra di me, teneva la cinghia in mano, poi si riallacciò la cinghia, poi andò nel corridoio, portò la pompa della biciclett

a e svitò il tubicino di gomma, ma, dopo aver riflettuto, si accorse che era poco, frustarmi col tubicino picchiarmi con la cinghia, per picchiarmi per bene tutto questo era poco, perché in me la cosa era radicata come nella mamma, che lui guardava con aria di rimprovero e altrettanto a lungo, anche se la mamma rideva e pregava, Franzin, prendila come una comica americana. Ma papà uscì di nuovo in giardino e di nuovo si mise a guardare i mucchi di verdura, appassita come uccelli verdi ammazzati, guardava lerbaccia zappata e fresca, che con la rugiada della sera si alzava rigogliosa in file regolari, e poi sollevò alcune piantine e impotente le lasciò cadere a terra e tornò in casa e io stavo seduto sullo sgabellino e concentrato intingevo nel calamaio e scrivevo sul quaderno, a lungo, finché mio padre si m

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ise a guardarmi e correndo avanti col pensiero immaginava al posto mio cosa sarà di me, proprio come stasera, verso sera, quando ho dovuto mostrargli la sirena, che spontaneamente non gli avrei mai mostrato ma ho dovuto farlo, perché papà laveva già saputo in città. Mi guardava, sentivo i suoi occhi e scrivevo e più era bella la mia grafia, tanta più cura ci mettevo, come se ogni singolo carattere della scrittura fosse la mia salvezza, e sentivo che papà provava a uccidermi prima con un pugno, ma mi sentii meglio quando voltai pagina e continuai a scrivere il compito a casa: La mia famiglia e continuavo a scrivere e poi rimasi paralizzato dal terrore al pensiero che papà mi avrebbe sgozzato, e, se si fosse ricordato, papà lavrebbe fatto, ma papà considerava poco anche questo, poi si alzò, prese un coltello, e io scrivevo e allimprovviso ebbi la sensazione che quella fosse lultima volta che scrivevo, lultimo compito a casa, che unicamente la scrittura mi avrebbe salvato dallamorte, che se avessi smesso di scrivere sarei morto, che unicamente scrivendo avrei potuto sviare la morte, e anche se papà mi taglierà la testa non lo saprò, perché cntinuerò sempre a scrivere e scrivere e così a lungo, che quando avrò smesso di scrivere non saprò più di essere esistito, e papà tirò fuori dallarmadietto la mola che usaver il rasolo e con cura diede il filo al coltello, arrotava, provava con il polpastrello se la lama era abbastanza affilata e io scrivevo e allimprovviso pensaia quando ero nel mio lettino ed è passato un sacco di tempo ormai e papà e la mammatornarono dal ballo e papà aveva lo smoking ed era bello e la mamma aveva un vestito rosa e un ventaglio e papà continuava a urlare qualcosa alla mamma e la mamma spaventatissima gridava: «No, no, Franzin, non è vero, no!». E papà gridava: «Taci, una na per bene non deve ballare in quelle posizioni! Sei sposata, sei madre.». E io ero a letto agghiacciato dal terrore e sentivo papà che apriva il cassettino dello

specchio ovale e la mamma che si aggrappava a papà, e io ero paralizzato dallo spavento, il grido di papà era come se venisse da lontano, papà sapeva urlare in qualche modo verso linterno, sottovoce, era un mormorio urlante, e la mamma pregava inginocchio: «Non mi sparare, Franzin! Per lamor di Dio! Per lamor di Dio!». E papà gria: «Devo farlo giura che tra voi non cè stato niente», e la mamma stava in ginocchiovestito rosa e per terra era aperto il ventaglio di piume di struzzo come un arcobaleno nel cielo dopo la pioggia e la mamma giungeva le mani e papà con il revolver puntato, in smoking, era bello, e la mamma crollò in lacrime e così comera si sparpagliò tutta sul tappeto, la sua gonna da ballo a pieghe si aprì sul tappeto proprio come il ventaglio di piume di struzzo e io ero agghiacciato dal terrore e facevo finta di dormire. Poi era buio da tempo e io guardavo nel buio con gli occhi aperti e ascoltavo chetarsi il pianto sommesso della mamma e papà eccitato continuare a parlare e sussurrare, parlando cercava di imporsi di entrare nellanima umili

ata della mamma, e poi allalba tutto tacque e io avevo bisogno di andare a fare la pipì, ma quella scena notturna dopo il ballo mi aveva paralizzato al punto che mi rigirai in silenzio e tra i letti pisciai e pisciai, fino a farla tutta, era come se avessi pianto tutto come se avessi orinato nellinterstizio tra i letti invece di piangere E ora scrivevo unaltra pagina del compito: La mia famiglia E papà sialzò col coltello affilato, lo mise sul tavolino dei bambini, in silenzio, come il signor parroco Spurny quando aveva aperto il tabernacolo e aveva scostato il piccolo sipario dorato papà mi scostò la camicia e si mise a guardare la sirena, vedevo le sue dita saltellare al ritmo del battito del mio cuore intinsi la punta della penna nellinchiostro e continuai a scrivere, fluiva da me quella scrittura, non sapevo nemmeno cosa scrivevo ma sentivo che scrivendo mi salvavo la vita, allimprovviso però ebbi limpressione che papà mi volesse tagliare via dalla pelle quella fanciulla, quella signorina del mare, mi sentivo come lo zio Pepin quando gli vol

evano prendere il suo berretto bianco da ufficiale di marina, quello che portava Hans Albers nel ruolo di capitano e smisi di scrivere, guardai papà negli occhi come non avevo fatto mai, nel mio sguardo cera tutto quello che gli avevo combinato, tutto, mi sentivo come la mamma, quando si era sdraiata e si era completamente arresa e aveva sparso il vestito e il ventaglio sul tappeto della camera da letto No, papà, vi prego, no, per la prima volta in vita mia alzai le dita per giurare, come Cristo stavo in piedi con la camicia strappata e un disegno sul cuore e con due dita alzate giuravo: «No, papà, vi giuro che volevo qui una piccola barchetta con làncora e il signor Lojza mi ha fatto questo!». E battei col dito della mano sinstra sulla signorina del mare e con la destra giuravo mostrando a papà i polpastre

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lli sporchi di inchiostro. E papà si alzò, si tagliò un fetta di pane e disse: «Sono cobinato così anchio, siamo nelle stesse condizioni». E con rabbia, ma neanche con rabbia, come quando non cè niente da fare, come quando andai con il signor parroco allestrema unzione, ma il signor Kurka morì mentre gli ungevo i piedi, allora a casa dei Kurka il signor parroco in persona andò ad aprire le finestre alla sera estiva,per dare sollievo allanima, perché lanima del signor Kurka volasse verso lalto come apore verso il cielo, così papà aprì le finestre e laria fresca entrò e lungo la fines passò il berretto bianco da ufficiale di marina dello zio Pepin, come se stesse navigando nellaria, spostandosi lungo il davanzale della finestra. E lo zio gridava, non più a qualcuno, ma così, solo per il piacere che gli dava, nellaria della sera che lo accompagnava in città appresso alle belle signorine: «Gloriosamente ho di nuovo vinto, sono un vincitore, io funziono proprio come il colonnello Zawada, quando nel giorno del Corpus Domini fece irruzione a cavallo in Premysl conquistata!». E papà andò a incastrarsi tra larmadio e la parete, con le mani giunte sussurravaon è vero niente, quando in guerra si sparava lui si sdraiava nel fossato e ci rimaneva finché tutto era finito!». Ma lo zio Pepin sbraitava: «Con me nessuno si deve permettere niente, sguaino subito il revolver e bang, bang! E sarà tutto un rotolarsi nel sangue!». E papà continuava a tenere le mani giunte e si torturava con la verità: «Ma se quello aveva sempre tanta paura che quando tornava dal lavoro dovevo andargli incontro, e aveva già venticinque anni e aveva tanta paura e dovunque andasse se ne stava seduto in un angolino!». E lo zio Pepin continuava a strillare: «Fuoridai piedi! Ai tempi dellAustria-Ungheria ero il più bello, le bellezze si sparavano per me. Il mio ritratto a Brno era appeso in Corso Cejl e le belle si davano di gomito intorno alla vetrina e una diceva allaltra: Quale ti piace di più? E tutte

indicavano questo qui. E attraverso il vetro bussavano al mio ritratto e io erodietro di loro e mi sentivo come se mi stavano ungendo il petto col grasso doca e me nandavo in giro tutto gonfio e tronfio!». La voce dello zio risuonava forte e allegra e papà continuava a stare a mani giunte tra la parete e larmadio e alzando gli occhi al cielo mormorava: «Questo poi non è affatto vero, perché fin da piccolino era pieno di pustole e a ventidue anni aveva il collo che era tutto un brufolo, se ne toglievano bende insanguinate». Ma dallufficio la voce dello zio saliva gioiosa come il fumo dellofferta di Abele su verso il cielo: «Al capitano Hovorka ci piaceva parlare sopra tutto con me, ero lattendente del capitano Tonser, che ci portavo la sciabola!». E la voce di papà, bassa e timida, strisciava e si spostava lentamente raso terra come il fumo dellofferta di Caino: «Questo non è affatto vero, in guerra lui di gradi non ne aveva, la fotografia che ha se lè fatta prestare e ci si è fatto fotografare sopra come furiere» si lamentava papà rivolgendosi al cielo, ma io s

apevo che il Signore non ama la verità, che ama i pazzi e la gente esaltata, comemio zio Pepin, che al Signore piace la menzogna ripetuta con fede, preferisce anzi una bugia esaltata alla secca verità con cui papà voleva sminuire lo zio ai mieiocchi, agli occhi della mia mamma, che con lo zio era capace di fare stupidaggini tali che piangevo e mi venivano i crampi per le risate e a volte mi dava di volta il cervello e anche gli occhi, perché avevo limpressione che nella nostra cucina sarebbe accaduto un miracolo e sarebbe apparso il S. Ilario della nostra piazza, il patrono delle sane risate. E dal portone della fabbrica di birra entrò il guardiano notturno Vanátko, non lo si vedeva ancora ma si sentiva la voce del suo fedele cagnolino Trik, si sentiva il tintinnio dei gavettini e delle torce elettriche e delle fibbie e dei bottoni che scintillavano e tintinnavano sulluniforme del signor Vanátko, che entrava in servizio sempre feldmasig, col fucile da messicanoa tracolla e colmo di allegra aspettativa qualcuno una buona volta avrebbe pur t

entato di rapinare la cassa o almeno di rubare le cinghie dalla capanna tra i montacarichi della ghiacciaia. «Halt!» urlò il signor Vanátko, e puntò il fucile messice non era mai carico, perché il suo ultimo proprietario aveva perso lotturatore. «!Wer da?» gridò il signor Vanátko, aspettandosi che una buona volta là nel buio ci fosse lcuno. Ma lo zio Pepin strillò: «Ruht, Jozip Pepin mledet sich gehorsamst!». E il sig Vanátko fece un passo avanti, inciampò e Trik gemette dal dolore, Vanátko aveva inciampato nel cagnolino e immediatamente, dato che aveva sofferto e continuava a soffrire di vampate per la malaria presa in guerra, prese il cagnolino e lo sbatté sul cemento e il cane emise pietosi guaiti e un gemito, ma Vanátko fece un passo avanti militaresco verso lo zio Pepin, adesso erano in piedi nella luce della fines

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tra della nostra cucina, si fecero il saluto entusiasti e il guardiano notturnoesclamò: «Signor Jozef, mi dia il cambio alla guardia del cancello, postazione numero uno, poiché devo andare a fare rapporto al signor amministratore». E lo zio fece il saluto portando la mano al bordo del berretto da ufficiale di marina, prese in consegna il fucile messicano e il signor Vanátko salì sulla panca, adesso era in piedi, terribile, con la barba e il berretto da autista tagliato dal nastro tricolore, con il cinturone dei soldati dellIntesa su cui brillavano sei torce elettriche, attraverso la finestra trasparente fece il saluto a papà e dichiarò: «Guardiano notturno Vanátko in servizio!». E papà agitava tutte e due le braccia come orecchie di elefante, allontanava da sé quellimmagine di guardiano notturno per lui così orribilee per me così preziosa, quello saltò giù come in un esercizio di riscaldamento, abbandonò il cerimoniale, sollevò Tricek dal cemento si mise a baciarlo e lo accarezzava e ce lo mostrava, il cagnolino che aveva pianto dal dolore, Vanátko dichiarava: «Questa è la mia bestia fedele, non lo darei via per nulla al mondo», e gli diede un bacio direttamente sul muso, e poi si tolse dalle spalle il vecchio pastrano arrotolato e lo stese sulla panchina sotto lufficio. Lo zio Pepin gridava eccitato: «Ecco comè che devessere, la disciplina austriaca è la più bella disciplina del più belleseel mondo». E dal buio si levavano allegri ordini alternati, si sentivano anche con le finestre chiuse, e in più papà aveva tirato le tende: «Zum Gebet! Marsch eins! Herestellt! Paradenmarsch!». E sul vialetto di cemento le scarpe battevano i passi diparata della marcia di parata, tintinnava il calcio del fucile messicano sbattuto per terra, risuonavano i dietro-front delle suole che pestavano. Non ci fu poi da meravigliarsi se verso mezzanotte si sentirono le grida e le urla del signor Vanátko «Aiuto, i rapinatori!». E il guardiano notturno soffiava nella tromba e papà p

ese il revolver, corsi fuori anchio con papà nella notte, e davanti allufficio papà cn la mano tremante puntò il revolver e urlò: «Arrenditi, furfante!». E Vanátko gridavaai lho preso, gli sto già mettendo i ferri!». E rovistava con il bastone nei cespuglidi uva spina, i rametti saltavano via come tagliati con la falciatrice, e di corsa arrivò il mastro meccanico facendo luce con la pila e alla luce della lampada si poté vedere solo un alberello di uva spina rotto, diviso a metà, e io esclamai, benché anchio, come Vanátko, non vedessi un bel niente: «Là, sta correndo, signor Vanátk insegua!». E Vanátko corse nel buio e tornò tutto affannato, felice: «Masnada di ladri a me non la fate! Io vigilo, io sorveglio, io li sorveglio gli obiettivi a me affidati». E papà si allontanava col revolver e il meccanico con la pila, in mutande,tremanti per il freddo della notte. Papà disse al mastro, prima che si separassero: «Lo scopo prefisso riduce la fatica». E, affaticati, ce ne andammo tutti a letto e io a letto dun tratto vidi me stesso vestito alla marinara che guardo dalla torr

e della cattedrale, mi schermo gli occhi e vedo le navi sul mare, le chiamo, levedo, come le vedo, anche se le navi e il mare non potevano essere in vista, proprio come nessuno quella notte aveva cercato di attaccare la cassa della fabbrica di birra, né il signor Vanátko, il guardiano notturno, che in due anni di servizio alla fabbrica di birra con il fucile messicano aveva fermato e consegnato allapolizia in tutto sei coppie di giovani che si baciavano vicino al muro della fabbrica di birra e tre passanti notturni, di cui due pisciavano nella notte contro langolo della fabbrica e uno faceva bisogni grossi, e Vanátko li aveva consegnatialla polizia così comerano, acciocché venisse effettuata uninchiesta giudiziaria, in uanto erano sospettati di voler rapinare la cassaforte della fabbrica di birra.3.Né a me, né a papà, e nemmeno alla mamma e, come a tutta la nostra famiglia, nemmeno allo zio Pepin piaceva molto stare a casa. Ci davamo troppo sui nervi, troppe sof

ferenze e troppi torti ci eravamo inflitti a vicenda, ci volevamo troppo bene, e quello stesso affetto ci portava ad allontanarci luno dallaltro, a scegliere di stare tra persone e cose diverse, in un altro ambiente. Papà, fino a quando abbiamo avuto lOrion, quella motocicletta impossibile che ogni volta che veniva usata doveva essere revisionata, dunque papà la smontava ogni sabato, ma mai da solo, cercava di iniziare anche me a quelloperazione, ma io ho smontato con papà solo una volta, perché non era come papà prometteva, che avremmo smontato solo per unoretta, la cosa andava avanti tutto il pomeriggio e poi tutta la sera e papà per tutto il tempo mi spiegava entusiasta gli inconvenienti di quella motocicletta marca Orion ecome papà si sarebbe spinto nelle sue viscere solo per eliminarne i difetti come u

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n esperto chirurgo. Ma io vicino allOrion ululavo come un cane vicino alla cuccia, ogni minuto per me era unora e ogni ora successiva lintera eternità, mi bastava poi solo vedere un qualche pezzo della moto per sentirmi proprio come il signor Dousa, che non sopportava la vista delle interiora, appena le vedeva vomitava, e io alle nove di sera, sabato, dopo che papà con grande cura aveva rimontato lo spinterogeno, lo aveva pulito accuratamente con un fazzoletto di batista e con immenso amore mi descriveva tutte le lamine e le vitine e la funzione dello spinterogeno, che era uguale alla funzione che nel corpo umano hanno le ghiandole, il pancreas, le surrenali, e io avevo la fronte contratta da un pentagramma di rughe e la fronte di papà splendeva di felicità, e quando vidi che avevamo ancora davanti il motore aperto, da cui spuntavano i cilindri neri e lalbero a camme, e sul banco cera il carburatore smontato, mi si rivoltò lo stomaco e, prima che papà potesse arretrare con lo spinterogeno, gli vomitai sopra una porzione abbondante di salamino, di salame stagionato, e papà si mise a urlarmi contro e a minacciarmi col martello, che per lui era lo stesso che se da chierichetto avessi preso il corpo di Cristo, lostia santa, e lavessi sputata sul pavimento, e io avevo avuto paura dello spinterogeno, che era panciuto come una gavetta al campeggio in colonia, una gavetta con una porzione doppia, io la prendo sempre, allimprovviso avevo avuto unilluminazione e avevo fatto una cosa che sul momento mi aveva distrutto e spaventato, anche se dopo ne sorridevo e sapevo sempre più fermamente che quello che avevo fatto, avevo fatto bene a farlo e papà correva col martello e, visto che non mi poteva uccidere, tirò fuori lorologio, lo mise sulla piccola incudine e con un colpolo mandò in frantumi, e unicamente così poté evitare di rompere la mia testa invece dellorologio e aprì la porta e puntando il dito mi cacciò dal suo paradiso e io mi ritr

vai nella notte stellata, le stelle sguainate come pugnali dargento tremolanti mi minacciavano taglienti nel cielo freddo e io me ne andai nel frutteto della fabbrica di birra e mi sdraiai sotto il vecchio filare di noci, mi strofinavo allaterra e col viso lambivo lerba e la prendevo in bocca e mi allungavo fino a contorcermi, finché a tratti dolcemente ululavo. A casa avevamo un gattino, si chiamava Macík, Micio, e una volta la mamma decise che il gatto la notte non sarebbe uscito, che sarebbe rimasto in casa, perché fuori cera fango e poi al mattino sarebbe saltato sul letto. Ma a mezzanotte con la zampetta Macík fece cadere prima una pentola e poi, visto che anche questo era stato inutile, con tutte le sue forze rovesciò la pesante sveglia austriaca facendola cadere dalla credenza, e papà si arrabbiò,prese Macík e lo mise sulla soglia, e, essendo assonnato, per prima cosa diede uncalcio alla sedia con lalluce nudo e poi con un altro calcio raggiunse Macík e lo sbatté fuori nella notte, e così il gattino si ritrovò per punizione là, dove per tutta

a sera aveva voluto e desiderato essere. Dunque nelle operazioni di smontaggio papà in due anni aveva coinvolto a turno tutti gli operai della fabbrica di birra,poi tutti i vicini che abitavano intorno al la fabbrica di birra e infine una buona metà degli abitanti della nostra cittadina. Chi non lo sapeva veniva colto alla sprovvista da papà il sabato mattina con la domanda: «Allora, che cosa facciamo oggi pomeriggio?». E chi non sospettava nulla rispondeva la verità, che nel pomeriggio era libero, e papà lo prendeva delicatamente per il gomito e con uno splendido sorriso pieno di mistero diceva entusiasta: «Allora, sa una cosa? Venga da noi allafabbrica di birra a tenermi il controdado, così, per unoretta». E tutti quelli che non sapevano niente ci andavano, senza sospettare che papà come al solito avrebbe smontato la testata del motore e poi il vicino gli avrebbe passato le chiavi e papàavrebbe continuato a infilarsi nel motore che batteva, seguendo un rumore che per quel motore era ereditario, era una specie di difetto cronico, come quando uno

 ha una gamba zoppa oppure balbetta. E papà riusciva a descrivere con tale passione la sua calata nelle viscere dellOrion che intanto a casa la moglie dellaiutantedi papà diventava matta, intanto lamante giurava che se non fosse arrivata a uccidere il suo amato lo avrebbe comunque piantato oppure sarebbe andata a letto con lamico di lui, così giovanotti e anziani vicini smontavano col papà e il tempo passava e si avvicinava la mezzanotte e poi cominciava ad albeggiare e papà decideva cheera ora di rimontare il motore, e che gioia sarà alle dieci di domenica mattina, quando cominceranno a suonare le campane, vuole scommettere, papà tendeva la mano,schiaccio una volta per prova e il motore si mette a rombare come le campane della domenica. E così avevano tutti smontato con papà una volta sola, si erano alterna

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ti tutti quelli che abitavano nei dintorni della fabbrica di birra e anche nella cittadina, e chiunque avesse già smontato una volta con papà, gli avesse tenuto ilcontrodado solo per unoretta il sabato, alla sua domanda melliflua chiunque avesse vissuto quellorrore già a distanza gli gridava: «Ma neanche per idea! Io oggi pomeriggio devo andare allospedale. Io devo andare al cimitero. Io devo stare a casa, èvenuta mia cognata. Io devo lavorare al bilancio. Io ho promesso a mio fratellodi aiutarlo a costruire la casa». E papà, malgrado ciò, diceva dolcemente: «Ma dovete onoscere che un motore così, marca Orion, è una vera meraviglia». E i vicini dicevano he infatti era una meraviglia, ma che loro non avevano tempo e tempo non ne avrebbero avuto mai più, perché se quella notte e quella mattinata lavessero passata in birreria o se ne fossero andati a spassarsela con delle sconosciute, sarebbe stata la stessa cosa, perché nessuna moglie, nessuna amante avrebbe loro creduto, anche se papà forniva una conferma scritta di ciò che era accaduto il sabato pomeriggio, la sera e la domenica mattina, il signor Jarmilka richiese addirittura un certificato del notaio, ma sua moglie non gli credette ugualmente, e così non rimase altro da fare che divorziare. Così ora, quando papà si dirigeva verso la città, la gente, appena lo scorgeva, lasciava in fretta di lavorare e di spazzare il vialetto e di zappare in giardino, come in una fiaba, appena vedevano papà venivano risucchiati nelle porte delle case e delle cantine e delle legnaie, per uscire nuovamente con cautela quando papà fosse passato, si guardavano intorno circospetti e poi continuavano a lavorare, ma la tranquillità e lallegria erano ormai solo un ricordo. Papà era arrivato al punto che quando arrivava in piazza le persone, non appena lo vedevano, fuggivano in fretta nelle viuzze laterali, entravano di corsa nellaCattedrale e si sedevano e, con la scusa di essere in meditazione, se ne stavano

 sulle panche con il viso tra le mani, perché papà non li riconoscesse. Alcuni cittadini il sabato mattina, e poi anche il venerdì appena vedevano papà che scrutava i visi della gente, preferivano entrare di corsa in casa di estranei e rimanere quindi per un pezzo vicino alla porta della cantina o nel cortile, per poi muoversi lentamente lungo il corridoio e, come detective che seguono un delinquente, guardare in strada sporgendo appena il profilo, per vedere se laria era pura. Il macellaio Burytek che doveva tenere il controdado a papà solo per un quarto dora, come papà gli aveva promesso, rientrò che era domenica e gli si era rovinata una tinozza piena, un calderone di minestra di trippa, perché la minestra di trippa mentre si raffredda va mescolata proprio come la minestra della maialatura, fino a che non è completamente fredda, allora il signor Burytek, il macellaio, quando vide papà in Corso Palacky si spaventò tanto che entrò nella cappelleria del signor Sisler e, dato che come tutti i macellai era terribilmente timido, il signor Sisler gli ven

dette un bel cappello, e il signor Burytek se lo provò a lungo e poi lo comprò e lacosa gli venne a costare di meno che se avesse tenuto il controdato a papà per una mezzoretta. Lo zietto Pepin aiutò papà solo una volta. Verso mezzanotte, quando lo zio Pepin già vedeva tutte le belle nelle birrerie con le chellerine guardare invano lorologio e poi la porta, in attesa di veder entrare il berretto bianco dunquelo zio Pepin picchiava con una mazza di quercia e papà reggeva lalbero motore, su cui con la mazza di legno -non sia mai col martello -stavano inserendo un cuscinetto nuovo, perché papà riteneva che quel cuscinetto e nientaltro avrebbe fatto sì che l motore si scaldasse arrivando in cima alla salita ed emettesse poi un tintinnio secco, come quando lasciate cadere un cucchiaino da caffè dopo laltro in un secchio di stagno. E così papà reggeva lalbero sulla pancia e teneva anche il cuscinetto e lo zio batteva con la mazza e papà allimprovviso si accorse che un altro colpo avrebbe spostato il cuscinetto più avanti di quanto non fosse necessario, che era pro

prio al punto giusto, e allora gridò: «Perdio, basta!». E avrebbe dovuto dire solo basta, quel perdio fece appunto in modo che lo zio Pepin assestasse il colpo di mazza successivo, ma papà aveva tirato via lalbero col cuscinetto appena inserito e lo zio diede a papà una mazzata nella pancia e papà crollò e quando lo zio Pepin lo rimise in piedi riuscì nonostante tutto a tenersi in piedi e poi prese il martello e colpì lo zio, papà in realtà non ha mai colpito nessuno, ma doveva fare qualcosa che equivalesse a colpire e così prese lorologio dello zio, un Patent Rosskop, lorologio austriaco a cipolla, lo mise sullincudine e, dopo che ebbe dato una martellata allorologio e le lancette e le molle e le vitine si furono sparse contro il muro, il colpo di mazza nella pancia smise di fargli male e papà cacciò via lo zio, e così que

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llo fece ancora in tempo a lavarsi e a mettersi il berretto da ufficiale di marina e a saltare lo steccato, perché il guardiano notturno Vanátko dopo mezzanotte dormiva così profondamente che nessuno osava svegliarlo, dormiva col cagnolino Trik sui piedi e non lo svegliava nemmeno il chiurlare degli assioli, dei chiurli e delle grosse civette, il guardiano notturno non si svegliò neppure quella volta chele donne lo legarono con la corda dei panni, il signor Vanátko continuò a dormire profondamente.4.Ogni tre mesi lo zio Pepin era dumore rivoluzionario, rifiutava che papà gli mettesse i risparmi sul libretto, rifiutava che papà gli desse dieci corone al giorno per le sigarette, rifiutava che la mamma si occupasse della sua biancheria, si rifiutava anche di prendere un pasto caldo da noi una volta al giorno Cominciava sempre allo stesso modo, lo zio Pepin si metteva a gridare e scostando il piatto con larrosto di filetto alla crema sbraitava: «Che razza di mangime cinese sarebbe questa roba? Mi si contorce lo stomaco!». Quando la mamma gli diede loca e gli chiese: «Allora, era buona?», lo zio Pepin fece un gesto con la mano e disse: «I crauti sì, ce erano buoni». E quando facemmo la maialatura e lo zio si fu saziato mangiando tutto quello che voleva, alla fine di proposito prese la coda del maiale, la guardava con avidità e poi tirava, teneva la coda tra i denti e tirava, e quando la coda gli sfuggì e lo zio sbatté la testa contro il muro vicino al quale era seduto, gridò: «Queste porcherie io non me le mangio! Quella cretina pensa che io sono un tontolone stupido, e poi la gente dice che mi rubate!». E papà si spaventò e col dito si mise a scrivere allo zio sul tavolo quanto gli dava per lorganizzazione e per le sigarette e quanto per la biancheria e cinque corone per la cena sempre calda, ma

lo zio Pepin ci guardava freddamente, con odio, allimprovviso ci odiava tutti, tutti noi eravamo per lo zio dei padroni, dei signori, salivamo tutti su per la scala, mentre lui, un operaio, camminava lungo una scala distesa senza avere mai alcuna opportunità se non quella in cui si trovava già e in cui sarebbe rimasto finoa quando non fosse morto o andato in pensione. Ogni anno in casa nostra cera lo sgomento per la rivoluzione dello zio, ogni anno, ma lo sgomento si affievoliva,perché la ripetizione porta la regola e lordine e i motivi ricorrenti attutiscono il colpo della prima sorpresa. Così papà diede allo zio tutti i contanti che Pepin gli aveva lasciato in custodia, gli diede i libretti di risparmio, perché lo zio non si lascia derubare di soldi guadagnati duramente, guadagnati con queste mani, lo zio dichiarò solennemente che ripudiava suo fratello, che era un tirapiedi dei capitalisti, rifiutò con un gesto la mano della mamma, che lei gli offriva per fare la pace, e se ne stava lì in piedi sulla porta, come se tutti noi lo avessimo off

eso, come se fosse colpa nostra se lui abitava nella stanza comune degli operai, mentre noi avevamo tre stanze e cucina, come se noi potessimo farci qualcosa se lui era operaio nella fabbrica di birra che amministrava suo fratello Franzin,mio padre, il marito della mamma. E poi, una volta fuori, lo zio sputò con gusto e allontanandosi strillava che i padroni bisogna acciuffarli e sbatterli tutti per terra E noi quella sera ci sentivamo piccolini, e ci sentivamo tutti vicini, papà se ne stava appeso alla mamma sotto il lampadario e lei lo accarezzava, e papà con una mano accarezzava la mamma e con laltra accarezzava me, anchio me ne stavo stretto ai miei genitori, perché non riuscivamo a capacitarci di quello che era successo. E così lo zio Pepin per prima cosa spese tutti i soldi che aveva in contanti, la seconda settimana spese i soldi che papà gli aveva messo da parte, e la terza settimana tra sabato e domenica spese i soldi dellacconto della paga e lunedì e martedì e mercoledì e giovedì se li fece anticipare sul conguaglio. E, malgrado ciò, quan

o lo zio Pepin si avviava verso la città le porte si aprivano e uscivano i vicinie le donne, si aprivano le finestre sotto cui lo zio Pepin passava col berrettoda ufficiale di marina, e chi poteva gli domandava delle belle signorine a cui andava appresso, e le donne gli domandavano se avrebbero recitato insieme, o quando lo zio avrebbe dato loro convegno nel boschetto già buio, quando le avrebbe portate a Vienna e a Budapest, le ragazze gli domandavano quando le avrebbe accompagnate sullIsola a ballare e si prenotavano per il ballo con la scelta alle dame che ci sarebbe stato in inverno, gli uomini con fiducia gli chiedevano informazioni sulle gambe delle donne nelle birrerie con le chellerine, su comerano i seni delle signorine e comerano i piumini nelle loro camere e lo zio nella prima casa c

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hiedeva dei fiori e li regalava alle donne delle case successive, dove chiedevaaltri fiori del giardino per regalarli alle belle affacciate alle finestre che si aprivano già sulle vie e sulla piazza. Così lo zio Pepin camminava e si inchinava, faceva il saluto e distribuiva baci e le sue risposte facevano scoppiare a ridere gruppi di gente e singole persone, e lo zio Pepin si allontanava accompagnato dalle risate come un trenino che marciando si lascia dietro il fumo E la sua prima stazione era subito la birreria con le chellerine di Zofin, appena lo zio fuentrato le signorine annoiate saltarono su e cominciarono ad accapigliarsi per il mazzo di fiori che lo zio regalava a una di loro, si minacciavano di cavarsi gli occhi, e poi lo zio si sedette e ordinò un caffè e la signorina Marta disse: «Eccoqui, maschio, ti offro una coppa di champagne, così hai qualcosa da pisciare». E Bobinka mise su un disco e il grammofono suonava O cimitero, o cimitero, la melodia de La Paloma Bobinka si mise a sedere sulle ginocchia dello zio e i clienti battevano le mani e schiamazzavano e in genere, dovunque comparisse, lo zio produceva eccitazione a volte mi portava con sé, stavo seduto in un angolino a bere una limonata, oppure le ragazze mi prendevano accanto a loro e io con loro ci stavo volentieri, perché mi piaceva lodore dei profumi da poco e mi piaceva vedere le sopracciglia dipinte e le guance imbellettate, quando si chinavano verso di me diventavo rosso, e loro per quei miei rossori mi accarezzavano i capelli e mi stringevano al seno e io chiudevo gli occhi, mentre lo zio Pepin infervorato predicava: «Ma,signore, signorine mie, bellezze mie, un mazzo di fiori come questo che vi ho portato lo recava solamente limperatore Cecco Beppe buonanima alla baronessa Schratt, larciduca Carlo alle signorine del casino degli ufficiali Allaquila rossa!». Bobinka sospirò dolcemente: «Ah, maestro, quando fissa i suoi occhi su di me, crollo anc

hio come la baronessa Schratt, se dovessimo sposarci, sarebbe la fine del mondo!Oppure prendo un coltello e zac! Fine! Oppure le sparerei!». Marta buttò giù Bobinka dalle gambe dello zio e si chinò sopra di lei gridando: «Gli occhi ti strappo, io, solo io ho diritto a Pipinek, se non sposi me, mi avveleno!». Lo zio Pepin era estasiato dallo sparo e dai veleni, bevve il caffè e dun tratto gridò: «Si avveleni, signorna, di slivovice!», e la birreria scoppiò a ridere e la signorina Marta disse: «Ma cosa dice in proposito, maestro il trattato del signor Batista?». Lo zio Pepin estrasse gli occhiali a stringinaso, se li mise e diede la mano alla signorina Marta,dicendo galante: «Si vede subito che lei è una signora, delicata come un piccolo Mozart, il professor Batista nel suo trattato sulligiene sessuale dice che un vero maschio deve avere un organo sessuale sviluppato come si deve, tale organo deve essere composto di un pene e deve essere provvisto di testicoli sviluppati come si deve». E Bobinka aggiunse ingenua: «E quando cè un solo testicolo?». E spalancò gli

verso lo zio. «Secondo il trattato del signor Batista quello è il cosiddetto monocoglione, ed è un mostro». E le signorine cominciarono a litigare e tiravano lo zio per le maniche e per le mani: «Be, noi non compreremo di certo a scatola chiusa! Faremo subito unispezione! Bisogna fare unispezione come si deve, maestro, la porteremo subito in camera!». Ma lo zio Pepin saltò su, si strappò alle signorine e comandò: «Mete su qualcosa di movimentato! E venite a ballare!». E lostessa aprì la porta e nel locale si infilò lentamente il vecchio San Bernardo, lo chiamavano Dedek, e lo zioPepin si mise a ballare con Bobinka, ma le altre signorine si intrufolavano perché volevano ballare pure loro, e lo zio decise: «Allora faremo un ballo con tre signorine, la cosiddetta trilogia!». E lo zio prese le ragazze per mano e le ragazze facevano quello che faceva lo zio, correvano nellangolo e una di fronte allaltra pungevano laria con le dita a tempo di musica e poi di nuovo con le dita puntate verso il soffitto annerito dal fumo, e i clienti del locale si misero in cerchio e

 lostessa col coltello stava il piedi a braccia conserte e rideva, scuoteva la testa ma rideva, sapeva che tra poco siniziava, e vino e liquori avrebbero cominciato a scorrere a fiumi, lo zio Pepin, il maestro, sapeva far sgorgare il divertimento, poi lo zio sollevò una gamba, la piegò e la lanciò in avanti tirando calci in aria e le signorine lo imitavano e morivano dalle risate, strillavano nel vedere quello che vedevano, poi lo zio accorse facendo degli affondi, sembrava un fantedi campanelli, e le ragazze lo imitavano e la polvere turbinava e lo zio saltò molto in alto, divaricò le gambe e ricadde a terra facendo la spaccata. Bobinka urlò: «Maestro, per carità, non si strappi il cavallo!» Marta gridò: «Maestro Pepin, attento a nn gonfiarsi i coglioni!». Solo Dasa arrossì e disse: «Ma come parlate ragazze? Gonfiar

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si i coglioni attento a non farti venire unernia allinguine, ragazzo!». E saltò su e mise a ballare il cancan e le ragazze alzavano le ginocchia e le gambe ballando il cancan e lo zio si chinò in ginocchio ricoperto dalla polvere che le gonne sollevavano. Poi il San Bernardo Dedek si alzò, si mise dritto e appoggiò le zampe sulle spalle dello zio facendolo cadere, ma lo zio si alzò, offrì il braccio a unaltra signorina e la sollevò, la lanciava verso lalto e faceva gli affondi con lei, le rovesciava le braccia allindietro e tenendola alla vita la piegava allindietro fino afarle spazzare il pavimento coi capelli a tempo di musica, e il San Bernardo Dedek buttò di nuovo lo zio per terra, lo zio giaceva sulla schiena e il San Bernardo gli ringhiava e gli sbavava sulla faccia e nella birreria risuonavano risate fragorose, clienti sconosciuti ordinavano bottiglie di vino e lostessa portava interi vassoi di bicchierini e lo zio si mise seduto e le ragazze lo tirarono su e lo fecero sedere su una se