Gloria a Dio in cielo! Pace in terra: Dio ama gli uomini!2005 Dicembre 329PERIODICO MENSILE - Anno...

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2005 Dicembre 329 PERIODICO MENSILE - Anno XXXI Poste Italiane Spa - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2, DCB Bergamo Gloria a Dio in cielo! NATALE 2005 Pace in terra: Dio ama gli uomini!

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PERIODICO MENSILE - Anno XXXIPoste Italiane Spa - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003(conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2, DCB Bergamo

Gloria a Dio in cielo!

NATALE 2005

Pace in terra: Dio ama gli uomini!

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Per Natale ci regaliamo questa “Adorazione dei pastori”, o meglioun lumino per guardarla. E’ vero: c’è tanta luce e c’è tanta notte inquesta grande tela, ma c’è il rischio che noi non le vediamo. Anchese l’esperto ci viene a dire che questa è opera dello spagnolo Fran-cisco de Zurbarán (1598-1664), che in essa arriva anche l’onda lun-ga della luce caravaggesca e che qui ci troviamo davanti a un gran-de esempio di misticismo spagnolo, a noi non basta. A noi occorreanche un lumino, quel lumino che si accende in chiesa a partire dal-la Messa di mezzanotte, quel lumino che sembriamo aver tutti inmano in questi giorni, e quello… segreto, che non pensavamo ditrovare acceso nel nostro cuore. A Natale, nonostante tutto sia di-ventato troppo rumoroso, veloce e colorato, un sussurro arriva alnostro cuore: ”Coraggio, in fondo la vita non è poi così brutta!”. E’un sussurro che sa di fiamma tremula. Lo stiamo sentendo tutti. Cista riscaldando tutti. E viene da lontano. Questa è luce buona perguardare il quadro. Ciò che subito ci colpisce è il realismo. I reci-pienti di terracotta, le uova, il lanoso manto dell’agnello, il lenzuo-lino, il drappo ruvido e variopinto che gli sta sotto… sono tutti og-getti che di per sé invitano a mantenere la distanza tipica dell’os-servatore incuriosito. Sono così belli e veri che tu vorresti guardar-li a lungo, con lo stupore di chi sembra vederli per la prima volta.Quei gusci di uova sono così duri e così fragili che a te verrebbe vo-glia di guardarli con la lente di ingrandimento per cogliere il segre-to di questa “presenza”. Ma tu di qua e loro di là. E invece ti troviin ginocchio in quello spazio vuoto che sta tra l’agnello e le terre-cotte. Perché? Perché il vecchio pastore sta pregando a mani giun-te, perché Giuseppe sta sopra il Bambino con le mani incrociate sulpetto, perché gli angeli cantano, perchè gli angeli dietro Maria e icontadini dietro san Giuseppe formano una “V” che raccoglie tuttal’oscurità del mondo per andare a finire sul Bambino sostanziato diluce… Qui la preghiera ha la stessa realtà e consistenza della lanadell’agnello, in più punti aggrovigliata e infangata. Come puoi toc-care questa, puoi toccare anche quella. Il cielo e la terra, il mondosensibile e quello soprasensibile, il mondo interno e quello esternoin questo quadro sono del medesimo impasto di luce e di colore. E’questa una religiosità intensa e immaginifica, che sa ridurre verità,eventi e sentimenti ineffabili a messaggio comprensibile e popola-re. Essa sa sostanziare dell’indicibile e dell’inimmaginabile ciò cheprima stava muto e opaco sotto i nostri occhi. Nelle “visioni” igrandi mistici non perdono il senso della realtà, anzi lo potenzianoal punto che una tazza o un vaso diventano preghiere pietrificate.In pittura, il mistico (e Zurbarán lo è) non ha bisogno di inventarsiazioni, movimenti o storie. Bastano le donne e gli uomini del paesee bastano quei due o tre oggetti semplici del vivere quotidiano peravvertire che “Dio va anche tra le pentole della cucina” (Teresad’Avila). Tutto è così familiare, tutto è così cielo-terra che anche lapresenza di numerosi angeli non ha niente di straordinario. Il Con-cilio di Trento e la predicazione dei Gesuiti avevano raccomandatodi invocarli (in particolare uno: l’Angelo custode) nella lotta contro

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il male. Ora essi ci sono, li puoi vedere e toccare. Con i loro compa-gni rimasti lassù, o meglio sopra, pronti a darsi il cambio, essi for-mano uno stesso coro. Ma non è la musica a prevalere. Più forte dilei è il silenzio. Quello di Maria: umile ragazza che con gesto sa-cerdotale, trattenuto e quasi fermo, stende la bianca tovaglia. Quel-lo del vecchio pastore: mani giunte, sguardo intenso, cranio cottodal sole e dal lavoro. Quello di san Giuseppe: santo finalmente gio-vane, finalmente “presente” al punto da somigliare al Cristo. E’contemplando Gesù che il nostro volto va trasformandosi nel suo.Sempre più. Soprattutto questo avverrà per ciascuno in un mo-mento particolare: quello della morte. Dal Concilio di Trento in poiS. Giuseppe è invocato come il protettore della buona morte. Chiu-dono il cerchio del silenzio un angelo e un ragazzo, quello che si èportato la sorella. Questa è l’enigmatica ragazza che sta in primopiano sulla sinistra. Quanti anni ha? Perché il fratello le tiene la ma-no sulla spalla? Ha qualche problema psicologico? Di sicuro non èbella, neanche della bellezza della concentrazione che rende tuttigli altri solenni e amabili. Ma lei ha qualcosa in più. Sorride perchéle uova le ha portate lei e ne è molto contenta. Sorride perché sta in-vitando noi e vede che accettiamo il suo invito: “Venite, è propriolui! C’è posto anche per voi”. Sorride perchè non l’ha spaventatal’agnello legato. Anzi, lei ha fretta di dirci: “Quell’agnello è Gesù a

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Francisco de Zurbarán nasce nel 1598 aFuente, modesto centro agricolo di sette-cento abitanti, situato vicino a Siviglia,città che dà i natali, sedici anni dopo, an-che a Diego Velasquez. A Siviglia Zur-barán si afferma come grande pittore diarte sacra lavorando soprattutto per i con-venti. Il fervore mistico dell’epoca è con-diviso da tutti gli Ordini religiosi e dallostesso pittore, che riesce a regalare all’im-maginario cristiano originali e profondeinterpretazioni delle esperienze estatiche,quali l’Agnello di Dio, la Sacra Famiglia,Gesù fanciullo che si punge con la coronadi spine, Cristo che porta la croce, S. Fran-cesco. La sua luce, pur non essendo di di-retta derivazione dal Caravaggio, rispon-de alle stesse esigenze: tradurre visiva-mente il tema sacro con un realismo che ètanto più intenso quanto più profondo è ilprocesso di interiorizzazione. Zurbaránmuore a Madrid nel 1664.

Zurbarán: Adorazione dei pastori, 1638.

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Pasqua!”. Come possa dire certe cose, proprio lei che non sembradel tutto “arrivata”, bisognerebbe chiederlo proprio al Gesù adulto.E probabilmente lui ci direbbe che lei sorride perché solo lei ha losguardo del bambino. Non possiamo però entrare nel silenzioorante senza prima decifrare anche i due che stanno alle spalle diGiuseppe e del vecchio pastore. Uno dei due ha portato l’altro. “Ve-di? Anche tu ora sei contento come me!”. Ambedue sono, con Giu-seppe e la donna-bambina, la diagonale che, incrociando quella for-mata dall’angelo cantore, da Maria e dall’agnello, ha come puntod’incrocio il Bambino, mentre il fratello della donna-bambina e ilvecchio a mani giunte sono la prima delle tre orizzontali (le altresono la cresta del paesaggio e il coro celeste) che bloccano ogni mo-vimento e trattengono la pace che finalmente regna su questa terra:“Nada te turbe/ Nada te espante/ Todo se pasa/ Dios no se muda”.Parole di Teresa d’Avila che sono diventate nostre, perché per unattimo anche a noi, uomini del frammento e della dispersione, èstato concesso di vedere e di toccare, circondati dalle cose umili diogni giorno, che “Dio è la luce del sole nel corpo del mondo” (pa-role di un mistico). Chissà perché, ma gli uomini che hanno il co-raggio di non dimenticare la morte, la notte, la malattia sono anchecoloro che cantano la luce, che ti mettono la mano sulla spalla e chesi stupiscono davanti al riflesso lucido dell’orlo di una brocca, comefosse un miracolo venuto a trovarli. Ma il miracolo più intrigante èsempre il volto dell’uomo. Non possiamo distaccarci da questoquadro senza regalarci una carrellata sui volti. Non per spiegarli.Ma per guardarli a lungo, uno per uno. Per sentirli anche nostri.Siamo noi quella Maria e quel Giuseppe e quei pastori… “Ma staischerzando? Non hai mai visto l’urlo di Munch, le bocche spalan-cate di Bacon, il tragico sguardo di Van Gogh…?”. Sì. E’ vero, anchequelli siamo noi. Il nostro è un volto che va configurandosi. Chi sia-mo, che cosa aspettiamo, lo stiamo decifrando giorno per giorno. Eci stiamo anche dicendo che cosa succede quando la luce ci dà fa-stidio, quando la luce muore, quando non abbiamo quasi più il co-raggio del volto. Forse ci siamo infastiditi dei volti falsi e ritoccati,sia di quelli visti in chiesa, sia fuori. Ci sembrano più veri quelli checonfessano fatica e paura. Ma appena si accende un lumino… comeè bello l’uomo, pur malato, inquieto e impaurito! Quel lumino, chetemevamo potesse spegnersi da un momento all’altro, quel luminoche ci ha consentito anche di sostare calmi di fronte a questo qua-dro, in realtà l’aveva in mano Lui: “Io sto alla porta e busso. Se qual-cuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, ceneròcon lui ed egli con me” (Ap. 3,20). La Cena sarà a Pasqua. E alla fi-ne sarà quella della Gerusalemme celeste. Ora mi accontento delmiracolo di sentirmi vivo nella notte e di vedere il mio volto nelsuo, come fa san Giuseppe, che come tutti è investito della luce delBambino.

DON GIUSEPPE SALA

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Redonauna grande foto di gruppo

Quest’anno possiamo fare gli auguri a tutticoloro che abitano con noi nel nostro quar-tiere in maniera originale, grazie a unlavoro paziente e intelligente che ha recatoa tutti noi di Redona un bellissimo regalo:un album fotografico del quartiere che rac-conta la storia di un secolo. La trasforma-zione del paesaggio, delle case, dei volti edelle attività umane, fotografa alcune tappedella nostra storia e i cambiamenti di unaciviltà; e suggerisce, insieme, alcuni trattidell’avventura umana lungo le età dellavita, dalla nascita alla morte, e delle diversecomponenti che la costituiscono: il territo-rio, la famiglia, il lavoro, la politica, lo sport,la religione. Guardare un “album di fami-glia” è sfogliare un tratto dell’avventuradell’uomo e del mondo.

Le foto sono tratte, pergentile concessione, dalcatalogo della Mostrafotografica che si è te-nuta presso la ex scuolamaterna di via Burattidal 17 al 25 settembre2005, “Una storia perimmagini” Redona1887-1980, ed. Sestan-te, a cura di Giulio Ora-zio Bravi, Silvano Mar-cassoli, Beppe Corna,Fabrizio Rota Nodari.

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il territorio nascere

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Via Mascheroni,attuale via Grismondi.Anno 1911

Uno dei primidistributori di benzina diBergamo

Redona da sud-ovest.

Anno 1935

Massiccioinsediamento

industriale a Redona.Anni 1950

Famiglia contadina. Anno 1913

All’uscita della chiesa, via Leone XIII.Anno 1947

Bimbi dell’asilo “Tito Legrenzi”. Anno 1938

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la famiglia educare

Ritratto di famiglia.Anno 1919

Famigliadella levatricecomunale.Anno 1926

Contadinimezzadri.Anno 1934

Classe prima elementare. Anno 1924

Padre con figlio. Anno 1933

Operai giovanissimi della ditta Remuzzi. Anno 1925

Il parroco e il curato al Santuario della Cornabusa. Anno 1935

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il lavoro diventare grandi

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Contadini allavendemmia, in via Bianzana.Anno 1926

La fabbricaReggiani. Anno 1964

Artigiani eartisti tra cui

Marigliani,Arzuffi,

Bonfanti.

La fabbricaO.T.E.

Anno 1974

Classe quinta elementare. Anno 1934

Coscritti. Anno 1933

Giovane donna che suona il violino.Anno 1928

Ragazzo in tuta di lavoro. Anno 1938

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la politica sposarsi

Combattenti e Reduci. Anno 1930

Galimberti partigiano.Anno 1944

Alpini alla leva.

Anno 1933

Le spoglie del partigiano Galimberti. Anno 1945

In ricordo del giorno di nozze. Anno 1934

Rito del matrimonio celebrato dal parroco don Guerinoni. Anno 1949

Banchetto nuziale. Anno 1951

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lo sport l’età forte

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Squadra di tiro alla fune. Anno 1926

In gita a Selvino. Anno 1926

Rappresentazione teatrale. Anno 1926

Al Luna Park. Anno 1950

Parenti immigrati in Francia. Anno 1953

Amici in festa. Anno 1949

Squadra di tamburello. Anno 1929

Squadra di calcio. Anno 1939

Squadra ciclistica. Anno 1955

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la religione morire

Corteo funebre in via Leone XIII. Anno 1950

Corteo funebre in via Papa Ratti. Anno 1950

Prima Comunione. Anno 1967

La Madonna Pellegrina in uno stabilimento. Anno 1949

Corteo funebre di Guido Galimberti.Anno 1945

Il cimitero. Anno 1950

Uomini illustri con il redonese Daniele Turani. Anno 1953

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un po’ di orgoglio perché stavamo diffondendo ilvangelo e facendo del bene a tanta povera gente.

Un finimondoPoi… è successo il finimondo. Letteralmente: è fini-to un mondo e ne è apparso un altro. Un salto di ci-viltà ci ha sbalzati via da quel piccolo oblò dal qua-le osservavamo il mondo. Uno di quei tornanti epo-cali che riorientano la storia umana. A provocarequesto sconvolgimento una serie di fattori: unostraordinario balzo demografico che ripopola laterra in maniera nuova e tumultuosa; una prodigio-sa spinta economica sostenuta dal progetto scienti-fico-tecnico; un’inimmaginabile potere di comuni-cazione che ha cambiato la rete delle relazioni uma-ne. Il “fenomeno umano” si mondializza o globaliz-za: il mondo tende a diventare un unico, immensovillaggio, e il suo destino viene messo a nudo: è unagrande possibilità, un balzo in avanti dell’unità edella solidarietà umana? O è scontro delle diversità,cancellazione delle particolarità, invasione del caose della violenza? I popoli si spostano, si rimescola-no, si rinnovano; si incontrano e si scontrano, por-tando cultura e ricchezze, ma anche fame e violen-ze. Riprendono slancio le grandi migrazioni chehanno sempre scosso e fecondato la storia, hannorecato con sé vita e distruzione. Le identità vengo-no scosse, le tradizioni cancellate, le nazioni e i po-poli si rifanno, diventano incerti. Riviviamo unadelle grandi avventure della storia. E rimettiamo ingioco i grandi ingredienti della civiltà: il lavoro, ilcommercio, la lingua, la cultura, la guerra e le al-

Il mese di ottobre, mese missionario, è stato dedicato inmaniera particolare ad alcuni aspetti del problemadell’immigrazione. La rassegna “Il Lontano Presente”al Qoelet ha proposto un percorso, organizzato insiemecon persone e associazioni dell’America Latina, diattenzione all’arrivo della seconda generazione di immi-grati e alla ricomposizione familiare. Nella giornatamissionaria, in tutte le assemblee eucaristiche, oltre chedare alcune indicazioni di lettura sul problema, si èriproposto il tema nella predicazione. Di quella predicariportiamo alcuni passaggi.

La giornata missionariaCome è cambiata la nostra giornata missionaria!Ricordate? Partivamo dalle nostre terre cristiane edal nostro mondo, che ci sembrava l’unico veromondo; certo, vedevamo i limiti e le sofferenze diquesto nostro mondo, i guasti e gli errori che com-mettevamo, ma era il mondo vero, quello volutoda Dio, in cui Dio era venuto, e ci chiedeva di por-tarlo ad altri più sfortunati, rimasti ai margini delvero mondo. Andavamo, allora; qualcuno di noipartiva in missione, con l’aura un po’ eroica di chiandava ad annunciare il vangelo, a battezzare e acostruire giovani comunità cristiane e a sollevare,insieme, le condizioni umane e civili di quellepopolazioni, costruendo scuole e ospedali.Quando i missionari tornavano entrava nellenostre chiese – soprattutto in occasione della gior-nata missionaria – quell’aria un po’ eroica ed eso-tica che suscitava la nostra ammirazione ed anche

STORIE DI IMMIGRAZIONE E DI UMANITÀ

Il lontano si è fatto vicino

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non è più solo portatrice di bisogni primari – cibo,vestito, casa –, più facili tutto sommato da soddi-sfare; essa reca ormai richieste più complesse, pro-blemi e sfide più impegnativi. Questi immigrati so-no un laboratorio formidabile di intercultura e an-ticipatori della nuova cultura che si va formandotra noi. Essi sono nel guado, sospesi tra la stabilitàdella cultura della famiglia e della terra da cui pro-vengono e la complessità e labilità della cultura incui arrivano, la nostra modernità occidentale. Han-no, come tutti i ragazzi e gli adolescenti, i problemidella crescita e dell’educazione, in situazioni fami-liari particolarmente complicate e stravolte; si mi-surano con la scuola, non più solo in termini di lin-gua, ma di cultura e di visione del mondo. Sono de-gli acceleratori sociali e culturali formidabili: a li-vello di linguaggio, di mobilità, di internazionaliz-zazione dei gusti, di sincretismo religioso, di sradi-camento da regole e schemi. Sono gli interpreti pri-vilegiati della più grande sfida che oggi abbiamo difronte: il rapporto tra una globalizzazione che scio-glie e relativizza ogni cultura e gli individui nelleloro particolarità culturali che rischiano di naufra-gare e andare alla deriva. Questi giovani immigraticorrono il pericolo di veder semplicemente cancel-lata la loro cultura – che era una maniera di viverealcune dimensioni fondamentali dell’avventuraumana – e di non trovare nella nostra una vera “ca-sa”, perché la nostra cultura è troppo complessa edominata da un individualismo libertario incapacedi indicare le condizioni antropologiche che sor-reggono ogni vera cultura. Bisogna trovare – noi eloro – di fronte a una modernità che ha notevolimezzi economici e tecnici, ma fragile nel suo asset-to antropologico, un alfabeto comune riguardantele grandi esperienze umane che rivelano i significa-ti e i legami più profondi a proposito del nascere,dell’educare, dello sposarsi, del fondare un patto disolidarietà sociale, dell’aiutarsi nei momenti di de-bolezza.

Una grande occasioneL’arrivo di queste nuove generazioni e la ricompo-sizione familiare degli stranieri venuti tra noi – e laprovocazione alla nostra cultura a mettersi in di-scussione – è una grande occasione per riprenderein mano tutti insieme le fondamenta della nostra ci-viltà e le ragioni decisive del nostro vivere insieme.

Questo apre anche un nuovo versante alla mis-sione. Come è cambiata la nostra giornata missio-naria! Senza mettere in discussione l’impegno chele nostre comunità hanno di portare lontano l’an-nuncio del vangelo, dobbiamo prendere atto chequei popoli lontani ai quali pensavamo di portare ilmessaggio cristiano e la civiltà sono qui; e ci chie-dono di riprendere insieme in mano la costruzionedella civiltà e in qualche modo della “creazione”; eci provocano a dire che cosa abbiamo da proporre eda portare come cristiani a questa grande comuneavventura. E’ l’occasione di riproporre a un mondoche cambia una nuova evangelizzazione.

leanze, il sesso e la famiglia, la fame e l’occupazio-ne, le tradizioni e le saggezze, le religioni…

Il lontano si è fatto vicinoIl fenomeno è così globalizzato che è arrivato anchequi tra noi, in un piccolo quartiere come Redona. E’arrivato come un modo di pensare e stile di vivere,portato dalla televisione, dall’euro e da internet.Ma è arrivato anche come presenza sorprendente erapidissima di stranieri giunti tra noi dalle diverseparti del mondo. I popoli lontani che qualcuno dinoi andava ad evangelizzare e a civilizzare vengo-no da noi: il lontano è presente. Questo movimentoè spinto fondamentalmente da due fattori: la ric-chezza economica e la povertà demografica del no-stro mondo e la ricchezza demografica e la povertàeconomica degli altri mondi. Il fenomeno è impres-sionante, anche visto da un piccolo quartiere. Per larapidità: in pochi anni gli stranieri sono diventatiuna percentuale significativa della nostra popola-zione. E per la complessità: abbiamo visto, attoniti,nel giro di pochi anni, africani, slavi, rumeni, asia-tici, boliviani, peruviani, equadoregni arrivare quinel nostro quartiere in diverse maniere: ammassatie riparati in qualche modo negli hangar delle caser-me dismesse, ghettizzati in campi profughi, a chie-dere aiuto alle porte, ma anche inseriti in molti no-stri lavori, introdotti nelle nostre case ad assistere inostri bambini e soprattutto i nostri vecchi. Di fron-te all’urgenza e alla drammaticità delle situazioni inostri discorsi e le nostre attenzioni si sono soprat-tutto allarmati e hanno invocato provvedimenti, re-gole, per arginare il fenomeno. Le questioni eranosoprattutto quelle “primarie”, riguardanti il lavoro,la casa e la legalità.

Una nuova faseRecentemente si sta verificando un fenomenonuovo: l’arrivo dei coniugi e dei figli che vengonoa ricongiungersi con le persone venute in avansco-perta; e la nascita qui tra noi di figli degli stranieri.Si ricompongono alcuni legami fondamentali dipersone arrivate sole e spesso allo sbaraglio in unaterra straniera. Avviene, in condizioni difficili ecomplicate, una ricomposizione familiare. E, so-prattutto, si impone la presenza delle nuove gene-razioni, dei figli e dei ragazzi, che sono creatori dialleanze e di nuove sintesi culturali. Qualcuno hadetto: abbiamo accolto e cercato inizialmente brac-cia di lavoro; sono arrivati uomini e donne, con leloro storie e i loro legami. Ci siamo accorti – comesiamo stati sbadati! E poi è vero che ci siamoaccorti? – che gli immigrati non sono solo produt-tori, ma riproduttori, anzi pro-creatori: fanno figlie i figli sono ponti gettati nella storia, sono attorisociali formidabili.

Proprio su questa seconda generazione di immi-grati ci stiamo impegnando anche noi in comunità;non solo aiutando l’integrazione effettiva di questiragazzi e delle loro famiglie, ma anche riflettendo ecercando di capire. Questa seconda generazione

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mamma, che era molto arrabbiata e delusa. Sen-za papà non avevamo un lavoro sicuro: la mam-ma lavorava in un negozio ma non bastavano isoldi per tutto. Un’amica le ha proposto di veni-re in Italia a lavorare per gli anziani, per i nonni,perché qui da voi sono molto soli. La mammaera indecisa: come fare a lasciare me e i miei trefatelli? Eravamo in quattro e la nonna non erapiù giovane ma era disponibile a occuparsi dinoi. Perché succede così da noi: molti dei ragaz-zi stranieri, che voi vedete qui, sono cresciutigrazie ai nostri nonni che ci aiutano moltissimo.E’ un modo diverso di crescere, divisi tra la man-canza dei nostri genitori e la vicinanza dei nostricari che restano con noi: soprattutto i nostri fra-telli più grandi che di colpo diventano adulti.Poi finalmente è arrivata la telefonata che aspet-tavamo. C’era posto per noi e potevamo rag-giungere la mamma in Italia e precisamente aBergamo. Potete immaginare la grande gioia diriabbracciarla e la sorpresa per lei di vederci co-sì grandi e cresciuti: una festa indescrivibile! Mainsieme noi provavamo anche la sorpresa di ve-dere un nuovo paese e un altro modo di vivere,di mangiare, di giocare. Le strade da voi non so-no piene di bambini che giocano a tutte le oredel giorno: era strano vedere i bambini insiemesolo in certi momenti, soprattutto a scuola e alparco. Poi, rispetto al nostro paese, voi bambinisiete pochi. I nostri quartieri sono invasi dallegrida e dalle voci dei bambini, un po’ abbando-nati e un po’ cresciuti da soli tra loro. Più tardi,ho scoperto due cose che mi hanno fatto soffrire:innanzitutto il lavoro della mamma che la occu-pa ventiquattro ore per sei giorni e così noi la ve-diamo una volta alla settimana. Infine, la nostracasa a Bergamo non è come le vostre: noi abitia-mo in 8 in un piccolo appartamento e io e mieifratelli rimaniamo con un’amica della mamma,che resta con noi mentre lei lavora. Non è facilevivere così! Ma intanto stiamo facendo tutto ilpossibile per stare bene ed essere contenti. Nonvoglio dare un dispiacere alla mamma, che tor-na la domenica molto affaticata e ha bisogno an-che lei di tranquillità.

Nella stessa giornata missionaria tra i ragazziriuniti nella Messa si sono lette alcune lettereche raccolgono storie di ragazzi stranieri.

Caro oratorio,sono un ragazzo che viene da molto lontano,sono venuto tra voi da pochi mesi: vengo dallaBolivia, un grande paese che anche voidell’oratorio avete scoperto durante il Redone-state. Io sono arrivato tra voi proprio in quelperiodo: eravate tantissimi e, tra voi, alcunibambini della Bolivia mi hanno fatto da inter-prete quando non capivo cosa stavate dicendo.Mi sono sentito subito a casa: tanto tempo pergiocare e tante cose per noi bambini. In queigiorni ero proprio contento, perché finalmenteavevo potuto rivedere mia mamma, dopo circadue anni da quando ci eravamo separati. Erasuccesso tutto così in fretta: lei aveva deciso dipartire e di venire in Italia per lavorare. Con meerano rimasti papà e la nonna Rosaria. Ma misentivo solo, mi mancava la mamma! Nei primimesi ero molto arrabbiato, mi sentivo abbando-nato. Non potete immaginare la gioia di riab-bracciarla! Sono stato fortunato, perché miamamma aveva trovato un bel lavoro ed era riu-scita ad affittare una casa bella e spaziosa.

Ma i problemi non sono mai finiti: da alcunigiorni, papà, che mi aveva accompagnato, hadeciso di tornare in Bolivia, perché qui non hatrovato lavoro. Ho paura e mi manca tanto espero che venga il giorno in cui riusciremo aricostruire la nostra famiglia. Per il momento losento al telefono una volta alla settimana e unavolta al mese facciamo una video chiamata,così possiamo almeno vederci.

Cari ragazzi,io nel mio paese vivevo in una bellissima villet-ta e non avevo nessun problema: eravamo con-tenti perché la mia famiglia stava bene ed eraunita. Un giorno, però, papà se ne è andato dicasa e ci ha abbandonati per andare con un'altradonna. Sì proprio così: papà ci ha abbandonati!Sono stati giorni duri, per me ma anche per la

Ragazzi nel guado

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cose non stavano andando per il verso giusto, einfine in Italia dove il lavoro sembrava sicuro.Non avevo mai sentito parlare di questo paese,se non per il calcio, ma non avrei mai pensatodi abitare qui. Così quattro anni fa i miei geni-tori decisero di partire, di affidarci alla nonna ea Luis il mio fratello maggiore che dovevaessere il nostro “papà”. Non è stato un belmomento, perché ero nel pieno della mia ado-lescenza, avevo ancora bisogno soprattuttodella mamma. Ho pianto di nascosto e non hocondiviso questa decisione che ci arricchivama ci divideva per tanto tempo. Dopo alcunesettimane arrivarono le prime telefonate: nonera tutto così facile in Italia! Loro due dovevanocercare casa, lavoro e poi ci raccontavano deiproblemi con i permessi e le lunghe codedavanti alla questura per avere un riconosci-mento. Queste cose le capimmo meglio unavolta arrivati in Italia, quando anche noi siamodovuti andare a fare i documenti per il ricon-giungimento familiare e per la carta d’identità.

Nel frattempo, a casa nostra si erano creatinuovi ruoli: la nonna faceva la mamma e Juan,da quando i nostri genitori erano partiti, nonusciva così spesso a giocare e rimaneva tantocon noi. Frequentavamo tutti le scuole supe-riori, le migliori della città, scuole private chepapà e mamma ci pagavano con il loro lavoro.Dopo due anni in cui avevamo trovato il nostroequilibrio, i nostri genitori fecero venire in ItaliaLuis: fortunato lui, ma per noi fu una grandetragedia. Perdevamo di colpo un altro riferi-mento e in me nasceva un senso di rabbia e digelosia verso la mamma: perché lui e non io?Forse lei non si occupava di noi allo stessomodo. Ero geloso. Per alcuni mesi non volliparlare al telefono con loro due. Era troppogrande il dolore. Dopo un anno venne il nostroturno: per me e per mio fratello. Mia sorella hapreferito restare in Bolivia per completare glistudi. Non so dirvi se sono contento di starequi! Ho riabbracciato volentieri i miei genitorima il primo anno è stato un inferno: non riu-scivo ad adattarmi al clima, alla nuova casapiccola e umida e soprattutto non avevo perdo-nato ai miei genitori quello che era accaduto inquesti anni. Ho provato a inserirmi in unascuola superiore: ma non c’ero con la testa,rimpiangevo i miei amici e la mia terra. Solonegli ultimi mesi le cose vanno un po’ meglio:abbiamo cambiato casa, ho parlato con i mieigenitori e ho trovato una scuola più adatta ame. Spero di farcela e di ricominciare.

Cari amici,io sono venuto in Italia in un modo strano per-ché, per uscire dal mio paese, un bambinodeve essere accompagnato da almeno uno deidue genitori, per evitare che i bambini venganovenduti o portati fuori illegalmente. Così peruscire mi hanno cambiato nome e mia zia èdiventata mia mamma e per alcuni mesi sonostato nel vostro paese con un altro nome. Nonè stato immediato rispondere a un nome nuovoe accettare di far finta. Ma la mamma pertelefono mi aveva spiegato ogni cosa e miaveva fatto capire che era importante la miacollaborazione soprattutto all’aeroporto e alledogane. Tutto è filato liscio, ma avevo il cuorein gola per la paura: ero al mio primo viaggio inaereo e soprattutto entravo con una nuovaidentità. La mamma era in Italia da almeno treanni e mi chiamava una volta alla settimana: ilsabato! Era la cosa più bella della settimana e ogni mese arrivavano alla zia e alla nonna isoldi che lei mandava per noi. Sceso dall’aereo,sono rimasto a bocca aperta quando ho visto ilcolore della vostra pelle: siete tutti bianchi esiete in tanti così! Mia mamma mi aveva rac-contato molte cose dell’Italia, ma non mi avevapresentato questo aspetto che per me era straor-dinario! Io con la pelle scura in mezzo a voibianchi!

Ma all’aeroporto c’era lei, la mamma, chenon era cambiata tanto: aveva un bellissimosorriso e non riusciva a trattenere le lacrime!Finalmente ero con lei. Ma sapete cosa è statala cosa più difficile che abbiamo dovuto affron-tare? Imparare a stare insieme dopo tantotempo. Lei ha dovuto imparare a fare di nuovola mamma, dopo aver vissuto da sola; io,invece, ho dovuto riabituarmi ai suoi rimproverie alla sua presenza, perché per molti mesi nondico di essere stato autonomo ma avevo impa-rato in Bolivia a cavarmela anche da solo.

Cari ragazzi,noi siamo in sette in famiglia: mamma, papà, ioe tre fratelli e la nonna. Noi vivevamo in unacittà molto ricca della Bolivia. I nostri genitoridecisero di comprare una bella casa e dipagarla mediante un prestito molto grande chepensavano di saldare con il loro lavoro. Manegli ultimi anni nel nostro paese sono aumen-tati i problemi e il lavoro non è così sicuro. Difronte a queste difficoltà, in casa incominciò acircolare l’idea di andare all’estero a lavorare:prima in Brasile o in Argentina, ma anche lì le

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Nel corso del mese di settembre L’Ecodi Bergamo ha dedicato diversi articoliad un tema che riteneva essere digrande attualità: l’immigrazione boli-viana nella città di Bergamo. Il dossier,che probabilmente si proponeva di evi-denziare la straordinaria complessitàdi quanto sta accadendo dentro eattorno ai processi relativi alla immi-grazione boliviana e di approfondirnealcuni aspetti in particolare, ha avutosenza dubbio i l merito di portarel’attenzione su un fenomeno significa-tivo. Si tratta di “un fenomeno che stafacendo di Bergamo un caso nazio-nale, se non addirittura europeo”,viene ripetuto più volte. E tale feno-meno sembrerebbe consistere nelfatto che da una specifica città dellaBolivia, Cochabamba, le persone sistiano trasferendo massicciamente inun’unica città dell’Italia, la nostra. Leragioni sono individuate sostanzial-mente nel fatto che a Cochabambaormai da 42 anni operano i missionaribergamaschi e che per la gente diquella città l’Italia coincide di fatto conBergamo.

A nostro parere il taglio dato al dos-sier ha sottovalutato alcune questioniimportanti e mostra problematicità sucui ci preme ritornare, proprio in nomedell’importanza del tema oltre chedell’affetto che ci lega a molte personecittadine della Bolivia che abbiamoconosciuto e con cui abbiamo condi-viso pezzi di storia.

Siamo consapevoli che non tutto fanotizia e che per produrre un buon arti-colo giornalistico è necessario sondarela capacità di un evento di diventare no-

tizia interessante e, quindi, è necessa-rio ritagliare una porzione limitata, cir-coscritta e significativa della realtà. È lalegge stessa del raccontare che esigequest’opera di selezione! Non tutto sipuò raccontare, vuoi perché non c’è ab-bastanza materiale, vuoi perché il de-stinatario non ne sarebbe interessato,vuoi perché lo spazio a disposizioneper raccontare non sarebbe sufficien-te… Si tratta di una sorta di “distorsioneinconsapevole dei fatti” che in un certosenso è inseparabile dall’operazionegiornalistica stessa. È inevitabile. Tut-tavia, se la strutturale divaricazione trala molteplice e complessa realtà storicae l’orizzonte determinato dall’insiemedelle notizie è coessenziale all’organiz-zazione dell’apparato informativo, rite-niamo pericoloso – soprattutto quandoci sono in gioco questioni delicate comequella dell’immigrazione – non farsi ca-rico fino in fondo del proprio dovere dioffrire una visione il più possibile varie-gata e completa della storia che scorreattorno a noi. Lo stesso console Alvarodel Portillo, più volte citato nel dossier,avrebbe voluto emergesse anche l’altrolato del fenomeno: “Vorrei che i berga-maschi guardassero i boliviani sottoquesta luce: persone con dignità, ugua-le dignità di quelli che servono; loro,che fanno i servitori, sono qui a lavora-re per mantenere le loro famiglie, perfar crescere i loro figli, per avere un fu-turo..” (L’Eco 27/9/05). Purtroppo que-sto lato, quello di persone “con il volto”,di persone che fanno sacrifici, lottano eottengono anche qualcosa di importan-te per sé e per le loro famiglie – pur es-sendo presente – emerge molto poco

dal dossier. Come soffocato da altro.Dall’oscillazione continua tra un chiaroallarmismo e uno strisciante pietismo,forse. Oppure da scelte di prospettiva,tono e linguaggio non sufficientementeavveduti.

Se guardiamo anche solo i titoli e/oi sottotitoli (e non consideriamo ladiversa lunghezza dei diversi articoliné il tono di fondo di alcuni di essi) –dato che non è una novità il fatto chela maggioranza della gente legga sola-mente quelli – ci rendiamo conto dicome a fare notizia siano soprattutto iproblemi e come si rischi di alimentareun clima di paura e diffidenza nei con-fronti degli stranieri, peraltro già cosìdiffuso: “Regolari 1200, senza volto 10mila. I dati ufficiali sottostimano di diecivolte i sudamericani in città. Un feno-meno quasi unico. Arrivano con il vistoturistico poi non ripartono. E c’è chi suquesti immigrati ha creato un busi-ness” (15/9), “I missionari: i governiintervengano per bloccare il feno-meno” (15/9), “Ci indebitiamo per lavo-rare in nero. Gli immigrati senza volto:da noi c’è miseria, qui almeno ledonne fanno le badanti, gli uomini imuratori. E c’è chi resta vittima dellosfruttamento dei connazionali” (16/9),“Bolivia, dove si sopravvive coi soldidegli emigranti” (16/9), “Offriamolavoro: la truffa delle agenzie” (19/9),“L’allarme del giornalista: è un’emorra-gia, siamo a 2 milioni di emigrati”(19/9), “Un lavoro? Dammi il tuo primostipendio. Allarme tra i boliviani senzavolto: i connazionali chiedono la tan-gente in cambio di un impiego” (20/9),“La nuova vita di Antonia: da infer-miera ad angelo dei campesinos”(20/9), “La storia di Maria. Ho dato1000 euro” (20/9), “Una solidarietà apagamento” (20/9), “Grazie, da voi cisiamo realizzati. Parlano gli immigratiche ce l’hanno fatta: storie di rinuncema anche di amore e altruismo” (27/9),“La legge sui migranti è una vergogna:questa gente viene a servire” (27/9), “Ilconsole: rispetto per i loro sacrifici”(27/9), “Tra i senza volto sale l’allarmecrimine. La denuncia dei migranti: vistialla Malpensata i Rojos, l’incubo diCochabamba. Si teme il narcotraffico.Dalla Caritas segnalazioni alle forzedell’ordine: casi di prostituzione tra leragazze” (28/9), “La cultura andinaentra nelle scuole: così si favorisce ildialogo” (28/9), “Urge un consolato quiin città” (28/9), “Il dramma delle donne:2 aborti ogni parto” (29/9), “Il filo direttodel Celim: rientri con sostegni econo-mici e incentivi alle attività artigianali”(29/9), “La Caritas: aiutiamo i minori:sono l’iceberg dell’emergenza” (29/9),“Redona, parlano i migranti” (29/9).

Espressioni come “boliviani senzavolto” o, nel testo, “sono tre dellemigliaia di boliviane senza volto”, o “unesercito di persone senza permesso disoggiorno” tradiscono una certavisione del problema e contribuisconoad alimentare un modo di vedere larealtà. Chi non ha il permesso di sog-

Un dibattito su “L’Eco di Bergamo”

Sul nostro quotidiano cittadino sono apparsi, congrande evidenza, una serie di articoli sull’immigra-zione boliviana a Bergamo. Qualcuno di noi havoluto entrare in dialogo e in dibattito su questioniche ci toccano tanto da vicino. Riportiamo tre puntidi vista: uno cerca di valutare complessivamentel’operazione giornalistica fatta da “L’Eco di Ber-gamo”; gli altri due esprimono due reazioni a caldo,una di un italiano che lavora nel problema dell’inte-grazione e una di una signora boliviana che cerca didire soprattutto quello che mancava in quegli articoli.

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giorno non è senza volto, non è unfantasma né un incappucciato minac-cioso, non è privo di identità: è senzaun documento. E le persone che, en-trate regolarmente, si fermano senzaregolarizzare la loro posizione (senzaottenere un permesso di soggiorno)“entrando così nella clandestinità” nonhanno intenzioni belliche, non sono unesercito. Potrebbe anche darsi che leparole usate non siano scelte una aduna, ma proprio questo è pericoloso.Attingere a parole tratte da areesemantiche vicine alla guerra significainterpretare in un certo senso un feno-meno e non assumersi la funzione cri-tica necessaria rispetto alla cultura incui si è immersi.

Frasi come: “il grande mercato dellosfruttamento a opera di boliviani adanno di boliviani” (15/9), “trovano quialtri boliviani che sulle loro condizionidi bisogno hanno creato occasioni perlucrare” (15/9), ”una volta a Bergamosi ritrovano spesso sfruttati dai conna-zionali” (16/9), “la truffa delle agenzie”(19/9)…”accanto all’ondata di immigra-zione fisiologica sta affluendo anche lamalavita” (28/9)… comunicano l’ideache molti boliviani siano sfruttatori emalavitosi. Non comunicano l’ideadella fatica di ogni progetto migratorioe delle difficoltà e dei fallimenti a cuimolti migranti vanno incontro e delledifficoltà ad inserirsi e, quindi, dellepossibili derive che un percorso puòprendere. I boliviani senza volto sonopericolosi. Per i loro connazionali inprimo luogo. Ma perché non per tutti?E il timido tentativo di spiegare perchéper tanti di loro sembra normale doverpagare questa “solidarietà” è pococonvinto e quindi poco convincente.

Anche sull’uso dei numeri bisogne-rebbe riflettere. “Regolari 1200, senzavolto 10 mila”. Titolo allarmistico. Si so-no infiltrati quasi nove mila bolivianisenza volto a nostra insaputa nelle no-stre strade. Che fare ora? E altrove siscrive: “E ora con 12 mila boliviani, lamaggior parte clandestini, che gravitanosu Bergamo, il flusso migratorio è diven-tato emergenza, mentre le continuecondizioni di clandestinità alimentanosituazioni ‘border line’ dal punto di vistadell’ordine pubblico, della salute, dell’oc-cupazione, della tutela dei minori e del-le famiglie” (15/9). Un vero disastro le-gato ad un’invasione di boliviani! L’usodei numeri non è neutro né univoco. Inumeri sono sempre da contestualizza-re con precisione, da interpretare conchiarezza, da rendere comprensibili, al-trimenti rischiano di essere inutili o an-cor peggio fuorvianti. Di per sé sono al-tamente manipolabili. Dodici mila boli-viani: sono tanti? Rispetto a cosa? C’èuna soglia di accettabilità? Sono tutti inBergamo città? E in percentuale rispet-to agli immigrati del comune? Dodicimi-la di cui solo un dodicesimo o poco piùsono “cosiddetti” regolari? Gli altri tutticlandestini. O, sarebbe meglio, “cosid-detti” clandestini. Ma la questione realesarebbe capire chi, a parte forse i Centri

d’ascolto della Caritas, si è reso contodel “pericolo” che stiamo correndo.

Come abbiamo già lasciato inten-dere, crediamo che i media faccianoparte della realtà nel duplice – e ovvio– senso che, da un lato, sono espres-sione del contesto culturale in cui pro-ducono informazione e, dall’altro lato,partecipano alla creazione dell’oriz-zonte culturale e sociale stesso entrocui gli uomini abitualmente agiscono,pensano, comprendono, scelgono,desiderano, e quindi crediamo cheanche un giornale di provincia come ilnostro L’Eco collabori attivamente adeterminare le coordinate culturalidella società, il modo di ciascuno diorganizzare la propria idea di mondo.Pertanto crediamo abbia una respon-sabilità forte da esercitare. Rispetto aduna fase storica in cui gli italiani sem-brano avere dimenticato il loro passatoda emigranti e incominciano ad averepaura dell’arrivo degli stranieri e si tro-vano, per scelta o per inerzia, ad ali-mentare i propri pregiudizi e a vivereforme di razzismo a volte preoccu-panti; in un contesto politico e legisla-tivo ancora oggi non capace di decodi-ficare il fenomeno nella sua dimen-sione strutturale e concentrato inscelte di restrizione e di chiusura inca-paci di modificare i processi in atto,riteniamo fosse importante assumersiquesto ruolo di dare rilievo soprattuttoalla “normalità”, alla ricchezza e allainevitabilità di un fenomeno migratoriodi così vasta portata. Il giornalistaEdwin Perez Uberhuaga, boliviano inSvizzera, afferma infatti che “siamoormai ad un’emorragia preoccupanteperché sono almeno due milioni i boli-viani che hanno lasciato la loro patriaper raggiungere l’estero, quasi sempreil vecchio continente, quasi semprel’Italia, o meglio Bergamo, per inse-guire un sogno di benessere. E peravere l’idea di quanto sia grave questaemorragia si deve considerare che intutta la Bolivia gli abitanti sono pocopiù di 8 milioni” (L’Eco 19/9). Dunque ilfenomeno è rilevante e non contin-gente. Allora sarebbe stato importantescegliere con accuratezza il taglio dadare. In un dossier ci sarebbe statobene un articolo che aiutasse il lettoread inquadrare gli eventi in una cornicenon allarmistica ma consapevole dellacomplessità di un fenomeno umanoche esiste da quando esiste l’uomo eche, certo, va governato ma non puòessere arrestato. Una lettura dei flussimigratori oggi o un riferimento allacombinazione di fattori d’espulsione edi fattori d’attrazione e alla catenamigratoria. Un riferimento all’invecchia-mento della popolazione europea ealla decadenza demografica dellenostre società e una spiegazione dellafase storica in cui ci troviamo in riferi-mento alla strutturalizzazione del feno-meno migratorio in Italia. Probabil-mente con coordinate di questogenere sarebbe stato possibile collo-care meglio – come già accennato –

anche i numeri costantemente ripetutinel dossier che, per quanto si sia spie-gato da dove sono stati ricavati, risul-tano poco afferrabili. E si sarebbeforse riusciti a far sentire l’immigra-zione, anche quella boliviana, come unprocesso, senza dubbio difficile, com-plesso e per molti versi problematico,ma umano. Profondamente umano.

Un’ultima cosa colpisce di questodossier. Sono stati fatti parlare, a parte ilconsole, sacerdoti ex missionari, sacer-doti missionari, vescovi e volontari, oltreche qualche boliviano scelto. Sono statiinoltre citati spesso i Centri di primoascolto e la Caritas in collaborazionecon il Celim. Al punto che, nella mentedi un lettore qualsiasi, la visione del fe-nomeno che emerge da questi scritti fi-nisce con l’essere associata facilmenteproprio alla Chiesa. Forse che il dossiersia stato commissionato dalla Chiesa?Forse che davvero la Chiesa di Berga-mo abbia una visione così angusta eprovinciale di un fenomeno umano tan-to grande e prorompente? Se, appenadopo aver letto il dossier de L’Eco, si hal’occasione di prendere tra le mani ilDossier Statistico 2005 sull’Immigrazio-ne XV Rapporto, prodotto dalla CaritasItaliana del bergamasco don VittorioNozza in collaborazione con la Fonda-zione Migrantes, si rischia di restaresbaloriditi da come in questo testo di500 pagine si respiri un’aria completa-mente diversa. Le questioni problemati-che sono affrontate, certo, ma il respiroè quello di chi guarda la realtà con lun-gimiranza e piena consapevolezza. Ci-tiamo direttamente dall’Introduzione“Immigrazione è globalizzazione” ancheper concludere il nostro scritto con unrespiro di fiducia: “Chi si sposta ha con-frontato il suo paese con gli altri, è inte-ressato a migliorare la sua condizioneeconomica, è spinto spesso anche danuovi orizzonti sociali, culturali e religio-si, è portatore di un progetto di crescitanon solo personale ma anche di am-biente. L’immigrazione così considerataè una potente molla dello sviluppo delmondo, anche quando è offuscata dalviso emaciato delle persone appenasbarcate, dai lavori umili svolti daglistranieri nella fase del primo inserimen-to… Non devono trarre in inganno né ilcolore della pelle né gli altri tratti soma-tici differenti e neppure le ristrette condi-zioni economiche dei nuovi venuti: sonoin buona parte persone istruite, anzi losono in media più di noi; sono personeche hanno avuto il coraggio di lasciarela propria terra, spesso accettando con-dizioni durissime; sono persone deter-minate a vincere la loro sfida, quella diriuscire. Anche per noi che li accoglia-mo l’immigrazione è una grande oppor-tunità. L’Italia è un paese in decadenzadal punto di vista demografico…”.

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Il pensiero va subito alla mia cara Bolivia che lo scor-so mese di settembre L’Eco di Bergamo ha presentatodandone un’immagine parziale dell’immigrazione bo-liviana a Bergamo.

Innanzi tutto credo fosse necessario cercare di spie-gare come si è prodotta questa concentrazione d’im-migrati boliviani a Bergamo. Si potevano affrontare igrossi problemi che una persona immigrata vive, con-testualizzandoli in modo più preciso (le leggi in vigo-re, un sistema politico sociale globale, le regole del gio-co della globalizzazione…), per capire la gravità dellasituazione e cercare di evidenziare dove sono le di-sfunzioni… Capire cosa succede in ambito europeo,italiano e poi bergamasco, per riuscire a dare il giustosignificato a questo movimento umano di massa, dalSud del mondo verso il Nord. Ricordo che, nei mieiprimi anni di università nel corso di economia politi-ca, il docente presentava spesso l’immagine della ric-chezza mondiale come una torta che per tre quarti vie-ne mangiata dal Nord ed il restante rimane al Sud delmondo. Sarebbe stato un modo molto semplice per in-quadrare il problema.

Per entrare nel merito delle difficoltà che affronta-no i miei connazionali, singoli e famiglie, mi chiedo co-me mai non sia stato fatto niente per controllare que-sto fenomeno, sia qui in Italia sia nel mio Paese, men-tre nel tempo si sono lasciate andare avanti le cose co-sì, fino ad arrivare alle dimensioni riportate dal gior-nale. Mi chiedo se non ci sia qualche interesse nasco-sto.

Vorrei analizzare alcuni punti che, a mio avviso, so-no cruciali:Il lavoro: la precarietà che si vive in questo momentola sentiamo e percepiamo tutti: basta vedere la lun-ghezza delle liste all’ufficio di collocamento; il lavoronero: va avanti da sempre, oggi ancora di più per viadella manodopera economica costituita dai giovani im-migrati. Stiamo assistendo ad una guerra tra poveri.Molti italiani, superata l’età dei 50 anni, non sono più

Molteplici sono state le reazioni a caldo nel vedereprima sulle locandine “strillo” e poi nelle pagine deL’Eco di Bergamo (anche sulla prima) raccontata l’immi-grazione dei boliviani a Bergamo. E queste reazioni sonostate quasi tutte “negative”: rabbia, disgusto, dissocia-zione. Perché questa realtà è stata presentata in questomodo? Perché “gettare fango” (questo mi è sembratol’effetto collaterale!) su un’intera popolazione, quella chesi riconosce nel titolo di “cittadino della Bolivia”? Perchédefinire questi immigrati come “senza volto”, sfruttatori,approfittatori delle difficoltà degli altri, strozzini, specu-latori, truffatori, tangentisti, donne che abortiscono (emagari anche un po’ prostitute), ecc.?

Questi articoli mi sono sembrati una reazione sconsi-derata a qualcosa che ha destabilizzato la nostra società.Ma cosa?

Mi sono chiesto cosa rappresenti, per Bergamo e per ibergamaschi, la Bolivia. Bolivia è terra di missione, terradi conquista e quindi terra affascinante perché povera,lontana, magica, la terra delle Ande, dei campesinos,della musica tradizionale suonata con il charango e il“flauto de pan”... Meta dei nostri preti diocesani in mis-sione, dei preti e dei volontari del Patronato San Vin-cenzo, dei progetti di cooperazione del Celim, di tantigiovani alla ricerca di esperienze estive alternative e gio-vevoli alla propria crescita perché ci si sente utili… Maqui a Bergamo non vediamo niente di tutto ciò: questitratti “belli” di un popolo e di una cultura forse valgonosolo fino a che sono lontani, raggiungibili – quando neabbiamo voglia – con le nostre vacanze organizzate.Qui a Bergamo, assieme ai pregi – che non vediamo –sono arrivati anche i naturali difetti di persone “normali”e del loro bagaglio culturale, difetti spesso accentuati edistorti dalle fatiche dell’emigrare.

È come se la logica dell’“Aiutiamoli a casa loro” fossestata disattesa, sfrontatamente ignorata. “E questo è il

la mia Bergamo la mia Bolivia

REAZIONI

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considerati forza lavoro e sono preferiti a loro i giova-ni immigrati, che producono di più e costano di meno.In questo modo ci offuscano la vista, per confondere leidee, presentando l’immigrato come il capro espiatoriodi turno, colui il quale ruba lavoro, senza spiegare chele ragioni sono altre. Il problema dell’abitare: ci stiamo rendendo conto cheil panorama abitativo è mutato e che siamo in baliadelle agenzie immobiliari dove ognuna detta le sue re-gole, con costi altissimi che non trovano correlazionecon gli stipendi ed il costo della vita attuale? Anchequi siamo tutti vittime, italiani e boliviani, rumeni, se-negalesi, …… tutti quanti. Quale risposta dobbiamodare per quelle donne che lavorano, giorno e notte, co-me assistenza anziani (badanti), che perdono il lavoroin seguito al decesso dell’anziano assistito e si ritrova-no contemporaneamente (vista l’assenza della rete pa-rentale) anche senza un posto per dormire? Di frontea tutto questo, nell’emergenza, si accettano situazionidi precarietà e di sfruttamento che magari attentanola dignità e l’integrità fisica della donna. Il sub-affitto:la solidarietà interessata che è menzionata dal giorna-le nasce in questo contesto particolare ed in questecircostanze.I problemi legati alla maternità: la precarietà affettiva,lavorativa ed alloggiativa condiziona notevolmente ildiritto delle donne a portare avanti una gravidanza.Spesso sono costrette a scelte che si ripercuotonosull’equilibrio della persona dovuto al rinvio continuoo alla negazione di una maternità per paura di perde-re il posto di lavoro; per qualcun’altra, irregolare, èmolto più difficile portare a termine la gravidanza, op-tando, in alcune situazioni estreme, più traumatica-mente, a scegliere di abortire. Forse, a questo proposi-to, c’è poca informazione concernente la possibilità,stabilita dalla legge, di tutelare la donna incinta e delsuo nascituro fino ai 6 mesi di vita grazie al rilascio diun Permesso di Soggiorno per motivi di Salute. Ma peril dopo sembra che le autorità non si rendano contoche non esiste una bacchetta magica capace di faresparire madre e figlio dopo i sei mesi.Il problema del ricongiungimento familiare: è un dram-ma vissuto da chi è solo, lontano dai propri affetti paren-tali e familiari. Molti di loro sono nuclei familiari mono-parentali che devono subire le imposizioni di una leggedisumana, dove la tutela del diritto a vivere in famiglia èmessa pesantemente a rischio. Uno dei requisiti neces-sari è quello dell’idoneità alloggiativa: con le recenti mo-difiche “restrittive” apportate al rapportometrature/persone della normativa regionale, è diven-tato praticamente impossibile il ricongiungimento di ungruppo familiare composto di 4 o più figli. Allora si parladi ricongiungimento “a puntate”, prima uno e poi l’al-tro, facendo una selezione tra i figli, con evidenti conse-guenze traumatizzanti che li segneranno per tutta la vi-ta.Il bisogno della gestione delle persone anziane: moltefamiglie italiane non sanno come affrontare questa si-tuazione determinata dall’attuale fase strutturale chela società italiana sta vivendo. Molte donne immigrateassumono questo tipo di lavoro, spesso con una pro-fessionalità acquisita nel Paese d’origine (titolo di stu-dio, laurea, esperienza lavorativa …). Qui notiamo co-me l’emigrazione di chi lascia il proprio Paese nonsempre rappresenta salire nella scala sociale, ma piùspesso scendere, adattandosi ai lavori più umili. A se-guito di quest’esperienza lavorativa, sono nate molterelazioni connotate da affetto e legami. Da evidenziarel’altruismo delle persone bergamasche che con la lorosemplicità e dedizione hanno contribuito ad influirepositivamente sulla qualità di queste relazioni: pacate,rispettose, di mutuo aiuto… tutte qualità lodabili, su-

loro ringraziamento?”. E allora diventa un: “Ma voglionoessere aiutati qui?!”. Queste persone vengono lette sem-pre come soggetti bisognosi di aiuto, mai come risorsaper tante (10.000? forse poco meno) persone anziane oammalate bisognose di un aiuto costante in casa.

Il pensiero si è spostato poi dal giornale allo spot delCentro Missionario Diocesano, spesso trasmesso dalla TVlocale. Questo spot ci fa vedere della nazione Bolivia so-lo immagini di “povertà”, mirate a smuovere il nostro“buon” cuore e di riflesso il portafoglio a sostegno dellemissioni. Ma cosa ci impedisce di considerare le migliaiadi boliviani che sono qui (unitamente alle centinaia di mi-gliaia sparsi nel mondo) come un sostegno al lavoro deinostri missionari e ai fondi che mandiamo tramite il Cen-tro Missionario, il Patronato S. Vincenzo?... Consideran-doli addirittura aiuti migliori perché non frutto di possibi-le “carità pelosa” e perché direttamente destinati a chi neha bisogno (con i bisogni letti e interpretati da qualcunocompetente: un membro della famiglia)?

Forse dovremmo riuscire a ricordare la situazionedell’Italia di fine Ottocento e dopo le Guerre Mondiali ecapire che per il popolo boliviano oggi – come per noiallora – l’emigrazione è diventata una delle pochissimefonti di sopravvivenza per ciascuna famiglia e perl’intera nazione. Se riuscissimo a recuperare questamemoria storica, forse rispetteremmo di più coloro che,pur sapendo che il percorso verso l’Italia (come quelloverso qualsiasi altro Paese di immigrazione) è ricco ditrappole, trabocchetti e approfittatori (più che di angelicustodi), scelgono questa strada – già di per sé faticosa edolorosa – come quella migliore per loro e per la lorofamiglia. E forse allora riusciremmo anche ad esseremeno superficiali e a capire che non basta arrivare nelpaese d’immigrazione per avere vita semplice e priva disofferenze. Molte sono – e saranno ancora – le faticheche tutte queste persone devono sopportare. Faticherelative ai processi di integrazione, ai conflitti intergene-razionali (che saranno anche “interculturali”) tra genitorie figli, alla gestione del rapporto con le proprie radici, lafamiglia, la madrepatria…

In ogni caso, non credo sia corretto sindacare, entrarenel merito, giudicare le scelte che, partendo da dimen-sioni di bisogno, le persone fanno. Ritengo sempre unpeccato (anche nel senso di colpevolezza, di mancanza)non riuscire ad avere un approccio empatico con chi èimmigrato. Riuscire, magari anche per poco, a sintoniz-zarsi sulle fatiche e le sofferenze che egli prova, cambie-rebbe lo scenario. Una volta mi è successo di incontrareuna signora boliviana che, dopo anni di “solitudine”familiare e di lavoro come badante, era riuscita ad otte-nere il ricongiungimento familiare del marito e dei figli.Mi sono congratulato con lei: da donna, era riuscita alasciare (chissà con quale strazio e rimorsi di coscienza)i propri cari e a spostarsi in un Paese straniero, freddo(come clima e come umanità), ad un oceano di distanzadalle sue radici e dai suoi affetti e pian piano a maturarele condizioni (in termini di lavoro e di casa) necessarieper poter effettuare il regolare iter previsto per il ricon-giungimento familiare. Nello stesso momento in cui micongratulavo mi sono immaginato le ire o lo sconfortodell’insegnante che – ad anno scolastico inoltrato –avrebbe dovuto curare l’inserimento scolastico dei suoifigli e avrebbe sicuramente fatto fatica a vedere la gran-dezza insita in questo arrivo perché troppo preso dalproblema dell’alfabetizzazione.

Prima di concludere questa riflessione nata sull’ondadi forti emozioni, mi sento di dover dire anche che hol’impressione che nello scattare e sviluppare questa foto-

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perando un facile assistenzialismo e buonismo chenon aiuta a crescere, anzi aumenta l’asimmetria nellarelazione. È un rapporto rispettoso, una crescita reci-proca, interculturale, che con molta fatica si sta intra-prendendo per valorizzare sempre di più le risorse chel’incontro di due persone portatrici di culture possonoscambiarsi.

Il modo con il quale l’inchiesta promossa dal gior-nale è stata fatta, come si è visto, mette sotto i rifletto-ri solo una parte dei problemi, ma non le cause. Forsenon ci si è resi conto che, indirettamente, in questamaniera è stata colpita la dignità di un popolo, nonaiutando così né chi, giorno per giorno, a fatica, lavo-ra onestamente nel rispetto delle leggi vigenti, né chi,pur clandestino, cerca un inserimento nella dignitàdella persona umana con un volto, una storia eun’identità culturale.

I bambini e gli adolescenti vivono con molta fatical’inserimento in questa nuova società: la difficoltà lin-guistica, l’adattamento ad un nuovo tempo e spazio geo-grafico, le attese nei confronti della scuola (e quelle del-la scuola nei loro confronti), la situazione economico-la-vorativa e quella abitativa… In questi termini si può par-lare di “disagio cumulativo”, iniziato prima della par-tenza con il distacco da uno o entrambi i genitori e conti-nuato con l’arrivo in terra di immigrazione. Rispetto aqueste questioni, mi piacerebbe che il giornale dedicassealtre cinque puntate dell’inchiesta alla conoscenza del-la Bolivia, in modo che questi ragazzi possano far vederenelle scuole che frequentano il proprio spazio geografi-co, la flora, la fauna, i rapporti tra le persone, i principa-li valori di quella cultura… Mi piacerebbe che un ragaz-zo boliviano potesse spiegare al suo amico italiano che lesue origini fanno riferimento a grandi civiltà!

Credo che la relazione interculturale passi attraver-so l’incontro tra persone portatrici di cultura e che dauna logica compensativa, fortemente utilizzata da isti-tuzioni e associazioni locali, sia giunto il tempo di pas-sare ad una filosofia del riconoscimento. È ora di pas-sare, come dicevo molti anni fa, dal “regalare il paccodi caffè” al “bere il caffè insieme”, guardandoci negliocchi per scoprire l’umanità che c’è in ognuno di noi.Costruiamo insieme una vita migliore per i figli del fu-turo, boliviani, italiani, rumeni, americani che siano!

Per concludere vorrei che questo mio contributopotesse aiutare noi boliviani a riflettere sul nostro vi-vere qui a Bergamo e quello che implica integrarsi inuna nuova società, assumendoci le nostre responsabi-lità in prima persona e ricordando che uno dei fattoridell’immigrazione è quello “di migliorare il futuro deipropri figli”, a partire dagli insegnamenti e dai valoriche abbiamo ereditato come quelli dell’accoglienza,dell’ospitalità, il saluto, il rispetto alla natura, allamadre terra “Pachamama”, il ringraziamento ai geni-tori per il cibo, frutto del sacrificio e del lavoro……

Chiediamoci allora come mai, a forza di affermareche “il tempo è denaro”, cambiamo e abbandoniamoquesti semplici ma forti valori. L’immigrazione ha uncosto sociale molto alto, in particolare per i minori: ri-cordiamoci che siamo modelli per i bambini che imita-no i nostri comportamenti. Penso che dobbiamo indi-viduare percorsi dove poter camminare e poter co-struire relazioni e suscitare possibilità autenticamen-te dialogali fra le persone portatrici di culture, tali daconsentire l’apertura alle altre identità senza cancel-lare la propria.

BERHA BAYON

grafia “strana” di Bergamo non si sia tenuto conto di unaserie di aspetti “tipici” del fenomeno migratorio chehanno portato a quella che per me risulta essere unadistorsione della fotografia stessa.• Caratteristica di tutti i flussi migratori è quella di averea che fare con corridoi e con catene che hanno l’effettodi “guidare” il migrante di turno, spesso ignaro del suodestino e della sua destinazione. Una serie di condizionihanno portato molti boliviani a concentrarsi nella città diBergamo, più o meno le stesse (cambiano solo alcuniparticolari) che hanno portato i senegalesi nel BassoSebino, gli egiziani a Milano, gli equadoregni a Genova,i turchi in Germania, gli italiani in… • L’immigrazione è fatta anche di tappe e di fasi, anchequeste più o meno simili in tutte le migrazioni economi-che “moderne”. Caratteristica endemica dell’Italia è quel-la che vede lo status di irregolarità come una di questetappe (lo dimostrano i numeri: i tre quarti del totaledell’immigrazione regolare è diventata tale grazie ad unalegge sanatoria del periodo di clandestinità). Qui l’impu-tato è – ad essere onesti – il sistema legislativo italiano,concentrato sul passato e incapace di governare il futuro.Conseguenza di questa miopia è che l’irregolarità diventauna fase “normale” del processo di inserimento, quindi i“senza volto” di oggi sono i cittadini di domani, coloroche, oltre a respirare lo stesso tasso di polveri sottili, con-tribuiranno allo sviluppo sociale, culturale, economico epolitico della nostra città. E poi vai a sapere come mai traItalia e Bolivia c’è un accordo che esenta reciprocamentedall’obbligo di visto di uscita dal Paese…• Ogni fenomeno migratorio è quasi sempre il risultatodell’intrecciarsi tra fattori di espulsione dal proprio Paesee di fattori di attrazione dal Paese di destinazione. Sedell’immigrazione boliviana si parla persino in Brasile,Paese confinante ma non certo membro del G8, significache la Bolivia è fortemente colpita dall’emigrazione. Pro-prio come per l’Italia di fine Ottocento e dopo le GuerreMondiali, anche per il popolo boliviano l’emigrazione èdiventata una delle pochissime fonti di sopravvivenzaper ciascuna famiglia (e per l’intera nazione). Una per-sona non abbandona la propria terra – che, pur se diven-tata economicamente, ecologicamente o politicamenteinospitale, è sempre la “madre patria”, la casa dei propriaffetti – per andare a vivere in condizioni peggiori in unaterra fredda e relazionalmente inospitale. Significa che laprospettiva di un lavoro nel nostro mercato, assetato dimanodopera a basso costo e flessibile, è alta, in partico-lare in un settore nuovo e ancora deregolamentato comequello delle “badanti”.

Fatte queste considerazioni, mi trovo a chiedermi: chiè vittima e chi è carnefice? Chi è buono (i nostri volontarilà, dipinti come “angeli”!) e chi è “cattivo”? Rispetto adun rapporto di lavoro “in nero”, tra il datore di lavoro edil lavoratore immigrato non in regola, chi è nel giusto echi nel torto? Tra queste opzioni divergenti che, rispetto altema in questione, hanno entrambe una legittimità in ter-mini d’argomentazione, andrebbe promossa una debitacontroversia. Limitante e impoverente sarebbe optare cie-camente solo per uno dei due opposti. Il nostro modo divedere il mondo passa attraverso dei filtri, composti an-che da omissioni: senza che ce ne accorgiamo, censuria-mo parte della realtà in modo da non alterare troppoquella che già conosciamo e con la quale abbiamo ap-preso a convivere. Bisogna imparare a diffidare da questenostre modalità di comprensione della realtà e a farci ul-teriori domande. A maggior ragione di fronte a fenomenicosì delicati e complessi.

GIANCARLO DOMENGHINI

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sono differenti modelli di ‘uomo individuale’. Vi èl’individuo razionale e calcolatore che ritiene degnodi attenzione solo ciò che risponde ai propri obiettivi:è l’uomo caratterizzato dalla passione per tutto ciòche rientra nella categoria dell’utile ed è disposto adentrare in competizione e conflitto con il prossimopur di raggiungere l’obiettivo prefissato. Vi è l’indi-viduo che coltiva l’ideale della moderazione nei com-portamenti e negli atteggiamenti verso gli altri everso le cose ed è attento alla propria interiorità: è lafigura umana tesa alla ricerca dell’equilibrio e del-l’impassibilità nelle varie sollecitazioni e tensionidella vita; egli ritiene importante non cambiare lecose esterne ma custodire e far crescere la sapienzainteriore. Al dire di M. de Montaigne, nei suoi Saggipubblicati nel 1588: Comporre i nostri costumi è il nostro compito, non com-porre dei libri e conquistare non battaglie e province, mal’ordine e la tranquillità alla nostra vita. Il nostro grande eglorioso capolavoro è vivere come si deve. Tutte le altrecose, regnare, ammassare tesori, costruire, non sono per lopiù che appendici e ammennicoli. La grandezza d’animonon è tanto andare in alto e in avanti, quanto sapersi limi-tare e circoscrivere. Essa ritiene grande tutto ciò che è suf-ficiente, e dimostra la sua elevatezza nell’amare più le cosemedie di quelle eminenti.

Vi è poi l’individualismo postmoderno e contem-poraneo tipico dell’uomo democratico nel quale, innome degli ideali di eguaglianza e di libertà, siritiene tutto equivalente ed egualmente accessibile atutti. Secondo un recente saggio sulle diverse forme emodelli di individualismo nella modernità e postmo-dernità (E. Pulcini: L’individuo senza passioni. Indivi-dualismo moderno e perdita del legame sociale, BollatiBoringhieri, 2001, p.16): L’ambivalenza dell’individuo moderno subisce nell’homodemocraticus una radicalizzazione che muta profonda-mente la forma dell’individualismo: non più aggressivo econflittuale, ma debole e apatico, indifferente e delegante.Allo scenario conflittuale di nemici e rivali, peculiare delmodello liberale, subentra lo scenario democratico di atomiirrelati, incapaci persino di riconoscere il loro stesso auten-tico interesse; al legame puramente strumentale dellaprima modernità, subentra un’assenza di legame prodottada una desostanzializzazione della figura dell’altro che tra-sforma il conflitto in indifferenza.

Questi passaggi sembrano gradualmente metterein discussione il legame sociale, cioè le ragioni, leregole e le forme culturali dello stare insieme delle

Vedo una folla innumerevole di individui simili ed egualiche non fanno che ruotare su se stessi, per procurarsi pic-coli e volgari piaceri con cui saziano il loro animo. Cia-scuno di questi uomini vive per conto suo ed è come estra-neo al destino di tutti gli altri: i figli e gli amici costitui-scono per lui tutta la razza umana; quanto al resto deiconcittadini, egli vive al loro fianco ma non li vede; li toccama non li sente; non esiste che in se stesso e per se stesso,e se ancora possiede una famiglia, si può dire per lo menoche non ha più patria.

Con questo tono un po’ pessimista dipingeval’evoluzione della società americana A. de Tocque-ville, intellettuale francese della prima metà delsecolo XIX nella seconda parte della sua nota opera,La Democrazia in America, pubblicata nel 1840. Certoquesta lettura della società democratica da parte delsociologo francese può apparire troppo esasperatanell’indicare le linee di tendenza delle societàmoderne e potrebbe far pensare al rimpianto nostal-gico di una società premoderna, che vede nellamodernità solo una deriva individualista e un mododi vivere sociale privo di spessore morale.

In realtà questa visione dice con acutezza il trattoqualificante della società nella quale viviamo: la cen-tralità dell’individuo e la prevalenza di atteggiamentia lui funzionali. E’ l’individualismo moderno, realtàche non va subito intesa come un atteggiamentomorale di egoismo, bensì come una qualitàdell’uomo della cultura occidentale che si percepiscesecondo il modello democratico. La nostra societàrifiuta allora ogni legame sociale e ogni rapporto direciprocità? L’enfasi sull’individuo libero ed egualeporta a cancellare ogni apertura ed esigenza etico-sociale? Siamo in una società di egoisti a fronte diuna società solidale come quella del passato? D’altraparte chi fornisce una risposta positiva e netta a que-sti interrogativi non rischia forse di cadere in valuta-zioni troppo semplicistiche della complessità sociale,forse più funzionali ai propri bisogni che corrispon-denti alla realtà effettiva?

Quale individuo oggiPrima di tutto quando si parla di individualismo aproposito della società moderna occorrerebbe faredelle distinzioni. Il passaggio dalle società premo-derne a quelle moderne, come è noto, è caratterizzatodal venir meno di una ‘passione’ per il gruppo e pertutto ciò che lo esalta, a vantaggio di una ‘passione’per l’io e per tutto ciò che lo realizza. Nondimeno ci

INDIVIDUO E LEGAMI SOCIALIUno spunto di lettura dell’oggi

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senza gli altri, siano essi ‘oggetto’ di imitazione o dicompetizione. Le stesse forme di identità collettivache fanno appello al territorio, le forme quasi arcai-che dello stare insieme o del rivendicare apparte-nenze comuni e separanti, al di là delle innegabiliragioni legate ad interessi economici, presentanotratti che denotano una ricerca di socialità e di comu-nanza. Al dire di qualche sociologo, magari in formaprovocatoria come è il caso di M. Maffesoli (Il tempodelle tribù. Il declino dell’individualismo nelle societàpostmoderne, Guerini Studio, 2004, p. 15), si potrebbecaratterizzare la postmodernità attraverso il ritorno esa-cerbato dell’arcaismo. Certamente ciò sciocca al massimola sensibilità progressista degli osservatori sociali. Al pro-gresso lineare e assicurato, causa ed effetto di un evidentebenessere sociale, si sta sostituendo una sorta di regresso,che caratterizza ‘il tempo delle tribù’. Entrare senza pro-gredire: ecco ciò che mi sembra essere in gioco per le nostretribù contemporanee. Esse non sanno che farsene del fineda raggiungere, del progetto – economico, politico, sociale– da realizzare; esse preferiscono «entrare nel» piacere diessere insieme, «entrare nell’» intensità del momento,«entrare nella» gioia di questo mondo come è.

Anche nella ambiguità di una socialità vitalisticanon si nasconde forse un desiderio profondo divalori condivisi e relazioni comuni? E’ possibile dun-que parlare di un legame invisibile ma non assente?Certo è che questo legame chiede di essere esplicita-mente riconosciuto e deciso nelle sue espressioni piùvere affinché l’uomo di oggi possa ritrovare la suaautenticità del vivere umano assieme agli altri.

All’inizio dell’individuo: il legame socialeForse si tratta di scoprire che nelle relazioni affettivevissute dal soggetto individuale vi è sempre unaanteriorità dei legami alla identità del soggettostesso. In altre parole, ciò che noi siamo, anche perl’individuo di oggi, porta dentro di sé una qualitàrelazionale, anche nella forma della cultura, delcostume, delle tradizioni, delle esperienze passate evissute da altri che ci dicono come noi ‘dipendiamo’dagli altri e non solo per le necessità e i bisogni, maper la possibilità stessa di dar un senso buono allavita, di impegnare la nostra libertà per qualcosa diautenticamente umano. Le istituzioni dentro le qualinasciamo, viviamo, incontriamo e realizziamo noistessi anticipano la nostra identità, la rendono possi-bile; esse non sono solo, o prima di tutto, un mezzoper soddisfare necessità o dei limiti da cui proteg-gersi, bensì condizioni che rendono sensata la vita ela libertà; sono il luogo di un reciproco e pubblicoriconoscimento. I legami con gli altri non sonosegnati solo da rapporti strumentali o da pura effer-vescenza vitalistica e collettiva: piuttosto sono ancheluogo di uno scambio simbolico, di gratuità, di dedi-zione di sé che trova nel dono una sua espressionesignificativa. Da questo punto di vista pensare ad unindividuo libero e sovrano nella sua razionalità oanche a una soggettività spontaneamente autenticanei suoi desideri ed emozioni è quanto meno unaingenuità sulla quale giocano volentieri da una parteil potere seducente del consumismo e dall’altra laconcezione individualista dell’uomo che presume di‘essersi fatto da sé’.

persone. Il grosso problema delle nostre società sem-bra essere proprio questo: come garantire il massimopossibile di diritti individuali e insieme il senso dellaconvivenza e i vincoli dell’associarsi. Sembra cheoggi la bilancia penda verso il primo piatto a scapitodelle ragioni del vivere comune.

Il paradosso modernoD’altra parte sorge un paradosso: il problema della so-cietà entra a toccare direttamente la dimensione inte-riore dell’individuo stesso. Per lo meno tre sono le for-me nelle quali si manifesta questo paradosso. In pri-mo luogo, la compresenza di un forte senso di indi-pendenza e di fragilità allo stesso tempo. Indipenden-za consiste nel ritenere di dovere scegliere e decidereda sé, essere autonomi nell’agire e nel pensare met-tendo in questione ogni norma e autorità che non ri-spondono alle proprie ragioni e ai propri convinci-menti; fragilità significa non sentirsi mai sicuri di ciòche si è scelto o agito, e dunque ricerca di protezione,conservazione e conferma attraverso i comportamenticollettivi di massa. In secondo luogo, la presenza diun fenomeno come la crescita di occasioni di incontro,di scambio, di aggregazioni sociali, ma allo stessotempo la notevole fatica a vivere tutto questo comeopportunità di relazioni significative e come appelloalla propria libertà. Infine, un incremento di possibi-lità ma perciò stesso un aumento quasi esponenzialedi frustrazioni perché ovviamente si percepisce l’esi-stenza di un limite alla realizzazione di queste possi-bilità e perché c’è sempre qualcuno che rimane fuoridal gioco. Una dinamica sociale di questo tipo nonsembra certo favorire il senso di appartenenza e l’af-fermarsi di un legame sociale.

Un individuo senza legami?In realtà se la società funziona e se gli uomini conti-nuano a stare insieme, nonostante tutto, anche oggi,significa che un legame sociale esiste pur nella formapiù ambigua e variegata. Ciò vuol dire che nellasocietà e nelle sue ‘offerte’ si cerca non solo l’utile ociò che risponde ai propri bisogni e calcoli, ma ancheun certo riconoscimento e una identità sia purnell’ambiguità dei comportamenti e di atteggiamenticonsumistici. Da un osservatorio (Note e CommentiCensis, 4/2005, p. 35) attento alle dinamiche sociali,magari non così evidenti ma tuttavia reali, si fanotare chesarà pure un momento di flebile crescita dei consumi e dicontenuto ottimismo verso il futuro, ma i processi di spesain Italia sembrano conformarsi a tre inarrestabili assi diprogressione: una sempre più forte responsabilizzazione dicomportamenti e di decisioni individuali e familiari; untendenziale ma forte orientamento alla sobrietà ed allaqualificazione dei consumi, quasi una filosofia della qualitàdella vita ispirata alla ‘medietà’; l’irrefrenabile tentativo diesperire la quotidianità e il tempo libero secondo l’idea delvivere bene, seguendo stili improntati al salutismo, all’ideadi benessere, al tentativo di elevare la qualità della vita.

La presenza di atteggiamenti conformistici einsieme di differenziazione, ma anche di imitazione,dice certo in forma materiale il bisogno di essere congli altri e il non poter percepire la propria identità

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Feste e Ricordi

Periodico mensile - Anno XXXI - Poste Italiane Spa - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2, DCB Bergamo - N. 329 - Dicembre 2005 - Autorizz.del tribunale di Bergamo, N. 8 dell'8-6-1974 - Direzione: don Sergio Colombo (responsabile), Franco Pizzolato - Redazione: Roberto Alfieri, Marta Antoniolli, Arturo Bonomi, don Lino Casati, don Michele Chio-da, don Sergio Colombo, Stefano Fojadelli, don Tino Galizzi, Sandro Lorenzi, don Patrizio Moioli, Andreina Paris, Serena Paris, Filippo Pizzolato, Franco Pizzolato, Stefania Ravasio, Claudio Salvetti, Pro-prietà: Parrocchia di S. Lorenzo Martire - Quartiere di Redona (Bg) - sede: via Leone XIII, 15 - Bergamo - Tel. 035/341545 - Fotocomposizione e stampa: ditta Quadrifolio (Azzano S. Paolo - Bergamo)

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REMOLUCCA† 6-1-2003S. Messaalle ore 18.30del 7-1-2006

CARLATIRABOSCHIMAESTRINI† 31-12-1984S. Mesaalle ore 18.30del 30-12-2005

TERESASALVI† 29-12-1990S. Messaalle ore 8del 29-12-2005

ORNELLACASATI† 30-12-1995S. Messaalle ore 18.30del 30-12-2005

TERESACORTESIGALIMBERTI† 24-12-1979S. Messaalle ore 18.30del 23-12-2005

FRANCESCOGALIMBERTI† 2-3-1949S. Messaalle ore 18.30del 23-12-2005

ERNESTOMONTI† 22-12-1998S. Messaalle ore 18.30del 22-12-2005

LUCIANODARIBONANOMI† 28-12-2002S. Messaalle ore 18.30del 28-12-2005

ALBINACONSONNI† 17-12-2004S. Messaalle ore 18.30del 17-12-2005

VALERIATROVESIZONCA(di anni 91)† 8-11-2005

SERAFINOLUSINI(di anni 90)† 11-11-2005

ADACORTINOVISARIZZI(di anni 63)† 29-10-2005

Defunti

Anniversari

BattesimiCristian Lozza di Roberto e Barbara RoccaFrancesco Galbiati di Stefano e Dorina BelottiFrancesco Stiz di Giovanni e Cinzia InvernizziViola Palmiero di Giovanni e Serenella CortiAlessandra Giupponi di Donato e Roberta BoffelliLaura Baldissera di Marco e Franca MazzucotelliMario Lanteri di Davide e Cristiana Denti

MatrimoniLuigi Caffù con Elisabetta Tedesco

NATALE 2005

Confessione comunitariagiovedì 22 dicembre, ore 20,45

Confessionisabato 24 dicembre, ore 9-12 e 15-19

Natalesabato 24 dicembre, ore 23,30 vegliae Messa di mezzanottedomenica 25 dicembre: Messe comedi domenica

Ultimo dell’Annosabato 31 dicembre, ore 18,30: Messae Te Deum

Epifania venerdì 6 gennaioore 9,30 - I ragazzi si trovano in Ora-torio per il paneore 10 - S. Messaore 10-10,30 - Ritrovo bambini 0-6 anni in Chiesa minoreore 11 - Ricongiungimento in Chiesamaggiore: bacio al Bambino e bene-dizione del pane.

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Un grazie di tutta la comunità alle Suore Sacramentine per la presenza preziosa e generosa tra noi che dura da 100 anni. Esse sono presenti a Redona dal dicembre 1905.

Bimbi dell'asilo “Tito Legrenzi”. Anno 1925

L'asilo “Tito Legrenzi”. Anno 1936

Ricreazione di bambini. Anno 1956

Centenario Suore Sacramentine