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La tavola possiede, meglio, possedeva un grande ma-
gistero: oggi purtroppo per molti il cibo è diventato
un carburante e la tavola una mensola su cui posare
ciò che si consuma. Si mangia qualsiasi cosa, a qual-
siasi ora, in qualsiasi modo, accanto e non «insieme»
a chiunque e, possibilmente, in fretta.
Invece per me la tavola è stata sempre, e lo è tut-
tora, il luogo privilegiato per imparare, per ascoltare,
per umanizzarmi. Non è stato forse così fin dall’inizio
della vicenda umana? È quanto affermano gli antro-
pologi, ma è anche quello che verifichiamo noi stessi
se usiamo l’intelligenza per esercitarci alla consa-
pevolezza di quello che facciamo. L’umanizzazione
è passata principalmente attraverso la tavola, dalla
nutrizione alla gastronomia (...), dalla scoperta della
coltivazione all’adozione del piatto, all’uso della tavo-
la come luogo di incontro e di festa. L’uomo ha cessato
di essere un divoratore, un consumatore, frapponen-
do fra sé e il cibo riti di macellazione, tecniche di cot-
tura, maestria di miscelazioni, arte della presentazio-
ne dei piatti, del cibo e del vino: insomma, l’uomo ha
abbandonato l’atteggiamento dell’animale cacciatore
che mangia la sua preda per assumere quello di chi
crea un rapporto con il cibo. (...)
L’uomo è quel che mangia e il mondo è la sua tavo-
la universale, ma in questa operazione c’è lotta contro
ciò che è animalesco e c’è tragitto di cultura, di comu-
nicazione, in vista di una comunione non solo tra gli
esseri umani, ma tra l’umanità e il mondo.
Non posso dimenticare alcuni tratti dell’articolata
eppur essenziale operazione del «mangiare a tavola»,
così come li ho appresi dal vissuto quotidiano della
mia terra. La cucina, innanzitutto: un’autentica offi-
cina, anche nelle famiglie povere com’era la mia, in cui
si intrecciano acqua, fuochi, aromi, prodotti dell’orto
e della campagna, frutti del proprio lavoro ma anche
dello scambio con culture più lontane: l’olio, il sale, le
acciughe, il tonno ... Sì, la cucina è il luogo che pone
un salutare «frattempo» tra i prodotti e il loro con-
sumo, ma ha soprattutto il pregio di riunire ciò che
dalla natura giunge a noi separato e di trasformarlo
in modo che la natura sia intersecata dalla cultura. La
cucina è la palestra d’esercizio di tutti i sensi, perché
è soprattutto in essa che si impara fin da bambini a
Lett
ura
4AIntorno alla tavola
Il valore dell’epifania del convivio
Le pagine che seguono ci introducono in un ambiente, la cucina, e tra oggetti, i prodotti della terra, che – almeno sulle prime –
non sembrano intrattenere alcun rapporto con la pedagogia. Tra-dizionalmente e per il senso comune, la Pedagogia si occupa della testa; la cucina del corpo. La prima vola in alto, si occupa dei prin-cipi primi e dei fini ultimi, senza limiti di tempo e di spazio, perché guarda alla universalità. La seconda è terra terra, predispone i pasti nei tempi brevi del giorno, guarda alla particolarità, alla fame e al bisogno di soddisfarla.
Quello che è sorprendente, qui, è il rovesciamento della prospet-tiva di cui sopra, la «scoperta» di un valore, di un insieme di valori che credevamo scomparsi (e forse lo sono) dal nostro esistere attuale, dimenticati, lasciati perire insieme al tempo e al luogo in cui hanno avuto origine. Perché la «cucina» non esiste più come luogo centrale della casa, dei suoi riti culinari e di vita domestica. E la tavola si è fatta «mensola su cui appoggiare il carburante per sopravvivere».
g Carlo Petrini fondatore di Slow Food.
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carne di vitello o di maiale e, una volta che questa era
rosolata, ecco la «conserva» di pomodoro, preparata
d’estate e messa in bottiglie. A volte si innaffiava con
un buon vino rosso e si salava il tutto con molta at-
tenzione alla misura ... Tutto fatto? No, il ragù doveva
sobbollire lentamente per due o tre ore, finché si fosse
addensato e ricoperto di un velo scuro dato dai succhi
delle carni. E poi, la «salsa», il ragù non doveva mai
essere abbandonato a se stesso, in nessuna fase della
sua cottura: se non è sorvegliato, soffre! Nulla induce
alla riflessione come l’accudire a un ragù.
Che meraviglia! Prodotti che venivano dall’orto e
dal pollaio, ma anche l’olio che veniva dalla Liguria,
il sale dalla Sardegna, il pepe dal lontano Oriente ...
Alimenti convocati insieme da terre diverse per «fare
gusto» e per «fare festa»: sì, in un semplice ragù si
contempla la natura che diventa cultura, l’umile lo-
cale della cucina che si trasforma in laboratorio d’arte
che sforna profumi e sapori. Pochi ci pensano, ma il
cibo, come il linguaggio parlato, serve a comunicare,
a conoscere e scambiare le identità perché esprime sì
l’identità di una terra e della sua cultura, ma sa assu-
mere anche prodotti che vengono da altri lidi e altre
culture: anche il semplice aglio è tributario di regioni
così lontane...
Accanto all’officina della cucina c’e poi l’epifania
della tavola: lì la cultura spicca il volo, il mangiare di-
venta convivio, l’occasione quotidiana di comunica-
zione e di comunione. .
Davvero la cucina e la tavola sono l’epifania dei rap-
porti e della comunione. Del resto, il cibo è come la
sessualità: o è parlato oppure è aggressività, consumi-
smo; o è contemplato e ordinato oppure è animalesco;
o è esercizio in cui si tiene conto degli altri oppure è
cosificato e svilito; o è trasfigurato in modo estatico
oppure è condannato alla monotonia e alla banalità. Il
cibo cucinato e condiviso – il pasto – è allora luogo di
comunione, di incontro e di amicizia.
(E. Bianchi, Il pane di ieri, Einaudi, Torino, 2008)
distinguere il buono dal cattivo, il duro dal tenero, il
dolce dall’amaro: la prima esperienza che noi abbia-
mo fatto del buono e del cattivo è passata attraverso
il cibo, così che per tutta la vita usiamo queste due
categorie per definire persone e eventi; perfino nel
campo della morale il parametro con cui determina-
re ciò che è bene e ciò che è male si rifà alla distinzione
primordiale tra buono e cattivo. La «semantica» fon-
damentale l’abbiamo imparata con la bocca: ciò che
è commestibile e ciò che non lo è, ciò che possiamo
mettere dentro, mangiare, assimilare e ciò che assolu-
tamente deve restare fuori...
Io amo cucinare, e lo faccio in un grande silenzio
perché cucinare significa pensare, essere consapevo-
li, essere presenti e avere un senso forte della realtà e
degli altri per i quali si cucina. Cucinando si è obbli-
gati a una unificazione di aspetti molteplici: le leggi
culinarie, le attese di chi mangerà, la conoscenza dei
prodotti, l’esperienza del fuoco, dell’acqua, del tem-
po... Operazione straordinaria che rende intelligenti.
Si pensi, per esempio, a un’operazione che al tempo
della mia infanzia e adolescenza era quotidiana: pre-
parare la «salsa» per la pasta, quello che oggi si chiama
sugo o ragù. Al mattino presto la donna di casa, la ma-
dre di famiglia iniziava le operazioni: faceva un bat-
tuto di lardo e con la mezzaluna – questo essenziale
e glorioso arnese da cucina – tritava le cipolle bionde
e lo scalogno che poi lasciava soffriggere nel tegame
di terracotta senza che rosolassero; a un certo punto
aggiungeva sedano e carota tritati, rosmarino, salvia,
due foglie di lauro, un pizzico di pepe e continuava a
far cuocere il tutto a fuoco bassissimo (e anche questo
richiedeva non poca abilità, se si considera che non
si usavano i fornelli a gas, bensì la «cucina economi-
ca», sapiente trasformazione moderna dell’antico
focolare in un piano in ghisa con anelli concentrici
riscaldato dal sottostante fuoco a legna). Quindi si ag-
giungeva la carne a pezzetti: non sempre, dati i tempi
di miseria, ma ogniqualvolta bisognasse «segnare la
festa». Allora apparivano i fegatini di pollo, un po’ di
Lett
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1 Suggestioni/concettiIl convivio e la festa
C’è tutto un universo di «piccole cose» che ci sfuggono, che si fermano alle soglie della nostra coscienza, che
quasi non esistono per noi. Sono i prodotti della terra, che emergono nella loro piena consistenza solo se
riandiamo con la memoria alla «cucina antica», a quell’«officina» e «laboratorio d’arte», «di scienza» e «di
sapienza» che era l’antica cucina, in cui si intrecciavano acqua, fuochi, aromi, prodotti dell’orto e della cam-
pagna, frutti del lavoro ma anche dello scambio con culture più lontane: l’olio, il sale, le acciughe, il tonno. Lì,
in cucina, sono raccolti gli elementi primordiali: terra, acqua, fuoco, tempo, spazio (che, volendo sottilizzare,
furono gli «elementi primi» dei filosofi antichi); lì, in cucina, lo spazio è occupato dagli alimenti primi della
nostra sopravvivenza quotidiana, i prodotti dell’orto e della campagna; lì convergono prodotti da tutti gli spazi
del globo. La cucina è centro del mondo.
2 Applicazioni/verificheIl priore di Bose costruisce intorno alla cucina un mondo di cose corposamente materiali (lardo, cipolle, sca-
logno, sedano, carote, rosmarino, salvia, lauro, pepe...), è un mondo di colori, sapori, profumi che impregnano
l’aria e avvolgono i commensali; e questa corposità materiale è così consistente da fargli dire che «l’uomo è ciò
che mangia». Affermazione che fu di Feuerbach, materialista convinto. Ma che qui si introduce con leggerezza,
perché su questo mondo «naturale» si eleva un mondo che unisce natura e cultura, e si fa pienamente umano
intorno alla tavola: che è convivio, guardarsi in faccia, linguaggio, comunicazione e comunione, ospitalità e amici-
zia. Un universo su cui aleggia un profumo di eternità.
È la riproposizione di valori antichi che sembrano far convergere il mito della Grande Madre Terra, dispensa-
trice dei suoi frutti, e del Grande Padre Celeste. Una spiritualità che si è fatta carne e sangue. Umana, profon-
damente umana.
a. Richiamate almeno un passo che vi ha colpito, e chiarite le ragioni della vostra scelta.
b. Posto che il «convivio» e la «festa» non sono più riproponibili come eventi quotidiani, ritenete che possano
essere recuperati come momenti eccezionali ma ricorrenti nella vita familiare di oggi?
c. Dalle pagine che avete letto ritenete che emerga anche una lezione di pedagogia? Pedagogia come riscatto della
quotidianità e della banalità; come consapevolezza, sapienza e saggezza. Pedagogia come umanizzazione del
mondo, come cultura, comunicazione e dialogo.
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Quella settimana, tanti anni fa, pensavo che mia
madre e mio padre mi stessero avvelenando. Oggi,
vent’anni dopo, non sono certo che non lo abbiano
fatto davvero. Impossibile dirlo.
Tutto mi torna alla memoria con il semplice espe-
diente di un’ispezione a un baule in solaio. Stamane
ho aperto le serrature di ottone e ho sollevato il co-
perchio, e l’odore antico di naftalina impregnava le
scarpe da tennis consunte, le racchette senza corde,
i giocattoli rotti, i pattini a rotelle arrugginiti. Questi
strumenti di gioco, rivisti con occhi adulti, mi hanno
dato la sensazione che solo un’ora fa stessi rincasan-
do di corsa dal viale ombreggiato, tutto coperto di
sudore, un grido di gioia sulle labbra tremanti d’ec-
citazione.
Ero un ragazzo strano e ridicolo, allora, la testa pie-
na di curiose idee ossessionanti. Veleno e paura erano
molta parte di me in quegli anni. Avevo cominciato a
scrivere appunti su un diario con la costola di nickel
quando avevo solo dodici anni. Ho ancora oggi la
sensazione della matita fra le dita mentre scrivevo in
quelle mattine di primavera senza tempo.
Smisi un istante di scrivere per leccare la punta
della matita, pensoso. Ero seduto in camera mia al
piano di sopra, all’inizio di un’interminabile gior-
nata di sole, e fissavo con gli occhi semichiusi le rose
della tappezzeria, a piedi nudi, con i capelli tagliati a
spazzola, rifletttendo.
«Solo questa settimana mi sono reso conto di es-
sere malato» scrissi. «Sono malato da tanto tempo. Da
quando avevo dieci anni. Ne ho dodici ora».
Corrugai la fronte, mi morsicai le labbra a sangue,
abbassai lo sguardo sfocato sul diario. «Mamma e
papà mi hanno fatto ammalare. Anche gli insegnanti
a scuola mi hanno dato questo ...» Esitai. Poi scrissi:
«... morbo! Gli unici che non mi spaventano sono gli
altri ragazzi. Isabel Skelton, William Bowers e Claris-
sa Mellin. Loro non sono ancora molto malati. Ma io
sono davvero grave ...».
Posai la matita sul tavolo. Poi andai in bagno per
guardarmi allo specchio. Mi chiamò mia madre per
dirmi di scendere a far colazione. Avvicinai il viso
allo specchio respirando così forte che lasciai sul
vetro una chiazza di vapore umido. Vidi come stava
cambiando la mia faccia.
Le ossa del viso. Perfino gli occhi. I pori del naso.
Le orecchie. La fronte. I capelli. Tutte le cose che era-
no state me stesso per tanto tempo stavano diventando
qualcos’altro. Mentre mi lavavo rapidamente, vidi il
mio corpo galleggiare sotto di me. E io c’ero dentro.
Non potevo fuggire. Le ossa stavano facendo delle
cose, si spostavano, si mescolavano fra loro!
La trappola La distorsione del disgusto-«veleno»
Fino a questo momento abbiamo costruito le nostre diadi tra valori che entravano in rapporto per opposizione ma, ad un
tempo, per integrarsi: identità/differenza; impegno collettivo/responsabilità individuale; unità d’un popolo/consentire comu-nitario.
Qui istituiamo, invece, una relazione tra un valore e un dis-valore o, più precisamente, tra un valore e la sua deformazione psicologica come espressione della fatica di crescere. Il cibo come «veleno» che si oppone alla tavola «convito» e «festa» della let-tura precedente. Il cibo caricato dalla paura di crescere. Dal non voler crescere di un preadole-scente che non vuole abbandonare l’incantesimo dell’infanzia.
g Ray Bradbury, scrittore e sceneggiatore americano.
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Serrai la cinghia intorno ai libri e mi avviai alIa
porta. «Douglas, non mi hai dato il bacio» disse
mamma.
«Oh.» Tornai indietro a baciarla.
«Che cosa c’è che non va?» domandò.
«Niente. Ciao. Arrivederci, papà.»
Dissero tutti ciao. Mi incamminai verso la scuola,
rimuginando i pensieri più segreti nascosti dentro di
me. Era come gridare in un pozzo profondo e gelido.
Corsi giù per la scarpata e mi afferrai, dondolan-
domi, a un ramo di rampicante. Il terreno mi sfuggì
da sotto i piedi, odorai l’aria fresca del mattino, dolce
e inebriante, scoppiai a ridere, e il vento si portò via
tutti i pen sieri. Mi slanciai con una sforbiciata verso
il pendio e rotolai a valle mentre gli uccelli cantavano
per me e uno scoiattolo saltellava come un batuffolo
bruno sospinto dal vento lungo il tronco di un albe-
ro. Giù per il sentiero gli altri ragazzi scesero rotolan-
do come una valanga, gridando. Uno si percuoteva
il petto con i pugni, un altro faceva saltare i ciotoli
sull’acqua, un terzo affondava le mani per afferrare
un gambero. Il gambero scappò via in una scia di
spruzzi d’acqua. Insieme scoppiammo a ridere.
Sul ponticello di legno sopra di noi passò una ra-
gazza. Si chiamava Clarissa Mellin. Ci mettemmo
tutti a gridare, le dicemmo di andarsene, di andarse-
ne, non la volevamo con noi. Ma la voce mi si spezzò
in gola e la guardai in silenzio mentre si allontanava,
piano. Non distolsi lo sguardo finché non scompar-
ve.
Sentimmo in lontananza suonare la campanella
della scuola.
Ci precipitammo lungo sentieri che avevamo
tracciato in molte estati nel corso degli anni. L’erba vi
cresceva a stento; conoscevamo ogni sasso, ogni tana
di serpente, ogni albero, ogni liana, ogni cespuglio.
Dopo scuola avevamo costruito capanne sugli alberi,
alte sopra il ruscello scintillante, ci eravamo tuffati in
acqua nudi, avevamo disceso la scarpata fino al pun-
to in cui si immergeva solitaria e abbandonata nel
Cominciai a cantare e a fischiare a pieni polmo-
ni per impedirmi di pensarci, finché papà, bussando
all’uscio, venne a dirmi di stare zitto e di scendere a
mangiare.
Mi sedetti alla tavola apparecchiata per la cola-
zione. C’era una scatola gialla di cereali, una broc-
ca piena di latte bianco e freddo, cucchiai e coltelli
luccicanti, e uova fritte nella pancetta. Papà leggeva
il giornale, mamma si agitava in cucina. Annusai il
profumo. Sentii lo stomaco accucciarsi come un cane
bastonato.
«Cosa c’é che non va, figliolo?» Papà mi guardò
con aria svagata. «Non hai fame?»
«No.»
«Un ragazzo della tua età dovrebbe avere sempre
fame la mattina» disse papà.
«Sbrigati e mangia» intervenne mamma. «Su, in
fretta.»
Guardai le uova. Erano veleno. Guardai il burro.
Era veleno. Il latte era così bianco e cremoso nella
brocca, i cereali così bruni, croccanti e saporiti nella
tazza verde decorata di fiori rosa.
Veleno, tutto veleno! Il pensiero mi invase il cer-
vello come una fila di formiche a un picnic. Mi mor-
sicai la lingua.
«Eh?» disse papà guardandomi. «Hai detto?»
«Niente; tranne che non ho fame.» Non potevo
dire che ero malato e che era quel cibo a farmi am-
malare. Non potevo dire che erano stati i biscotti, le
torte, i cereali, le minestre, le verdure a far questo, po-
tevo dirlo? No, dovetti restarmene seduto, a inghiot-
tire nemmeno un boccone, col cuore che batteva
all’impazzata.
«Bevi almeno il latte, allora, e vai» disse mamma.
«Papà dagli dei soldi per comprarsi una buona co-
lazione a scuola. Succo d’arancia, carne e latte. Nien-
te caramelle.»
Non c’era bisogno che mi mettesse in guardia
contro le caramelle. Erano il veleno peggiore di tutti.
Non le avrei mai più toccate!
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sopra. Erano visibili le vene, blu, rosa e gialle, i capil-
lari, i muscoli, i tendini, gli organi interni, i polmoni,
le ossa, i tessuti adiposi.
Il signor Jordan fece un cenno verso la tavola. «C’è
una grande somiglianza nella riproduzione delle cel-
lule cancerose e delle cellule normali. Il cancro è sem-
plicemente il prodotto di una funzione impazzita. La
sovraproduzione di materiale cellulare...» .
Alzai la mano. «Il cibo come... voglio dire... che
cosa fa crescere il corpo?»
«Un’ottima domanda, Douglas.» Indicò la tavola
illustrata. «Il cibo, una volta entrato nel corpo, viene
assimilato, digerito, e...»
Ascoltando la spiegazione, capii che cosa stava
cercando di farmi il signor Jordan. Nella mia men-
te l’infanzia era come l’impronta di un fossile su una
pietra arenaria. Il signor Jordan stava cercando di
grattare via l’impronta. Alla fine sarebbe stato cancel-
lato tutto, le mie credenze e fantasticherie. Mia madre
mi trasformava il corpo con il cibo, il signor Jordan
lavorava sul mio cervello con le parole.
Cominciai così a disegnare figure su un foglio di
carta senza più ascoltare la lezione. Cantai canzonci-
ne a bocca chiusa, inventai un linguaggio tutto mio.
Per il resto della giornata non udii nulla. Resistetti
all’attacco, contrattaccai il veleno.
(R. Bradbury, Molto dopo mezzanotte, Ame, Roma, 1993)
gran blu del lago Michigan, vicino alla conceria, alla
fabbrica di amianto e ai magazzini portuali.
Ora, mentre risalivamo ansanti quel pendio, mi
fermai, di nuovo colto dalla paura. «Andate pure
avanti» dissi.
Suonò l’ultima campanella. I ragazzi si misero a
correre. Io guardai la scuola con la facciata coperta
di rampicanti. Udii le voci che venivano da dentro,
un gran rumore che si spargeva tutto intorno. Udii
tintinnare campanelle da tavolo e gli insegnanti ri-
chiamare i ragazzi all’ordine.
Veleno, pensai. Anche gli insegnanti! Vogliono che
mi ammali. Ti insegnano a stare sempre più male! E a
essere felice della malattia!
«Buon giorno, Douglas.»
Sentii il ticchettio di tacchi alti sulla passatoia di
cemento. La signorina Adams, la preside, con i suoi
occhiali a pincenez, la faccia larga e pallida, i capelli
scuri corti, era dietro di me.
«Svelto» mi disse, afferrandomi per una spalla.
«Sei in ritardo. Svelto.»
Mi accompagnò di sopra, uno-due, uno-due,
uno-due, su per le scale del mio destino...
Il signor Jordan era un uomo rubicondo con i ca-
pelli radi, uno sguardo serio negli occhi verdi e uno
strano modo di dondolarsi sui tacchi davanti alla la-
vagna. Quel giorno aveva appeso al muro una grande
tavola che illustrava il corpo umano, senza la pelle
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1 Suggestioni/concettiLa crisi di identità nell’età della preadolescenza
La preadolescenza è, a giudizio di numerosi studiosi, una fase di crisi dello sviluppo, caratterizzata dal suo stes-
so configurarsi come fase intermedia tra fanciullezza e adolescenza. Il preadolescente non è più un bambino e
non è ancora un giovane. E non di rado accade che – in questa fase di moratoria – incontri qualche difficoltà
a rimodulare il profilo della propria identità. La fatica di crescere può condurre a non voler crescere, a voler
restare bambino. Il racconto di Ray Bradbury è per noi interessante perché dà corpo ad una nozione psicologica
traducendola in una storia, in immagini.
2 Applicazioni / verificheI nostri giovani lettori hanno ormai superato da tempo la crisi di identità (se mai l’hanno conosciuta), e questa
loro condizione dovrebbe (o potrebbe) consentir loro di oggettivare e guardare con distacco il contenuto del
racconto qui riportato.
Una riflessione di adolescenti sull’adolescenza non può essere «guidata». Le esercitazioni si arrestano, pertanto,
a questo punto. Temi e problemi in materia dovranno scaturire direttamente dalle decisioni del gruppo classe.
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La festa del Ringraziamento agisce nell’immagina-
rio di April come momento di riconciliazione con la
famiglia, in particolare con la madre. Ma anche come
occasione di riscatto. Può dimostrare a tutta la fami-
glia che sa cavarsela da sola.
La cogliamo alle prese con un enorme tacchino
che deve rendere ripieno, come vuole la tradizione.
È, via via, sempre più sola. Il suo ragazzo compare di
tanto in tanto per le vie del quartiere, qualche giro
di telefono, niente più. È lei, e lei soltanto che deve
riscattarsi.
Il forno non funziona. È l’inizio per il tacchino (e
non solo) di una serie di peripezie che non sembra-
1 L’ambienteIl film è ambientato in un quartiere periferico piut-
tosto degradato di New York, all’interno di un pic-
colo appartamento, in un condominio multietnico.
Si apre anche a qualche squarcio della provincia
americana, evitando per questa via una connota-
zione sociologica troppo ristretta che risulterebbe
fuorviante.
2 La storiaL’avvio della storia si snoda su sequenze parallele:
– April, la protagonista, uscita di casa e in dissidio
con la famiglia, indaffarata in cucina nel suo pic-
colo appartamento newyorkese;
– la famiglia d’origine, padre, madre, due fratelli e
la nonna, in macchina, sulla via che dalla Pen-
sylvania deve condurli all’appuntamento per il
pranzo nel giorno del Ringraziamento.
Il parallelismo delle immagini sottolinea una
frattura profonda. Il richiamo della festa ne sugge-
risce il superamento. Storia semplice, dunque; senza
colpi di scena.
Il nostro interesse (come sempre) va in ogni caso
alla psicologia dei personaggi, e soprattutto al «si-
gnificato» che nelle storie personali dei protagonisti
assume l’evento che tutti li coinvolge.
Schegge di April
Titolo originale Pieces of AprilLingua originale inglese Paese U.S.A. Anno 2003Colore coloreGenere commediaSoggetto Peter Hedges Sceneggiatura Peter HedgesRegia Peter Hedges
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1 Provvedete alla ricerca del significato che ha il Giorno del Ringraziamento nella cultura americana.
2 Seguite via via la mamma di April nel lungo percorso verso New York, e ricavatene, attraverso i dialoghi con i
membri della famiglia, il ritratto psicologico e umano (è ammalata di cancro). All’interno di quel profilo psico-
logico, cercate di definire la natura dei suoi rapporti con la figlia. Rispondete, infine, alla seguente domanda:
Secondo voi, la signora Joe si sarebbe messa in viaggio in ogni caso per far visita alla figlia, oppure la ricorrenza
del «Ringraziamento» ha giocato un peso determinante nella sua scelta?
3 Per April, la festa del Ringraziamento è un’occasione per ricomporre l’unità della famiglia e per riscattare la
propria immagine. Ritenete che il suo gesto trovi qui tutte le sue motivazioni, oppure ritenete che occorra risa-
lire ancora più a monte, ad una motivazione più decisiva?
4 Il film entra in dialogo con il brano di Enzo Bianchi. Quali elementi in comune, e quali differenze rilevate tra i
due riti conviviali?
Prima di rispondere, chiedetevi, tra l’altro, se il «convivio» di cui dice Bianchi abbia i caratteri della ecceziona-
lità o della quotidianità, se si sostenga sulla ufficialità di una festa o sia festa di per sé.
5 Richiamate alcuni contenuti simbolici del vostro immaginario che sono dei valori per voi, o della vostra fami-
glia, o del nostro Paese (il palloncino chiama-feste del vostro compleanno? La festa del patrono? La bandiera
nazionale?...)
spunti di riflessione
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cine
ma
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ruotano intorno al tacchino ma, soprattutto, che
scendono nella profondità delle anime.
April trova inizialmente la collaborazione di
una coppia afroamericana che si fa carico di una
«prima» cottura: è la festa del «Ringraziamento», e
sollecita la disponibilità; Ma... è anche la festa della
«famiglia»,... e i due debbono riservarsi un proprio
tempo per il forno, quello finale.
Il soccorso successivo viene da una famiglia asia-
tica che nulla sa della festa e nulla del ringraziamen-
to; ma proprio per questo viene coinvolta, con iro-
nia, e non senza una nota di tenera partecipazione.
Il pranzo finale, con tutta la famiglia unita in-
torno al tavolo, completa così un rituale che è ini-
ziato molto prima, e che ha finito per coinvolgere
una piccola comunità. A sottolineare il valore di cui
i «simboli» sono portatori. Simboli che popolano
l’immaginario collettivo e danno un senso a mo-
menti o ad attimi fugaci, ma di particolare rilevanza
per noi.
no avere termine. Alla fine, la cottura riuscirà mi-
racolosamente alla perfezione, somma di tre forni
diversi.
Qui si insinuano, sia pure nella leggerezza di un
racconto spedito, alcuni motivi di umanità e coin-
volgimento profondi. In un condominio anonimo
di anonimi inquilini, che non si conoscono e non
hanno nulla in comune, avvengono «miracoli» che
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