VentoVeneto 3 - Ronzani Editore...un’Isola in questo mondo I nostri vèci, pori superbi,...

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VentoVeneto 3

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VentoVeneto3

Ronz ani Editore · 2018

Pino Sbalchiero

C’era una volta un’IsolaStorie della pellagra

e altri racconti

Introduzione di Ilvo DiamantiDisegni di Vico Calabrò

© 2018 Ronzani Editore S.r.l. | Tutti i diritti riservatiViale del Progresso, 10 | 36010 Monticello Conte Otto (Vi)www.ronzanieditore.it | [email protected] 978-88-94911-27-5

Questo volume è pubblicato con il contributo di:

Comune di Isola Vicentina

Pro Loco di Isola Vicentina

Associazione consiglieri regionali

del Veneto

L’editore ringrazia i figli di Pino Sbalchiero per la gentile concessione dei diritti di pubblicazione dell’opera e di ri-produzione dei disegni di Vico Calabrò che la illustrano.

A mio padre, uno degli ultimi pellagrosi,

che a sessant’anni circamorì contento

perché non aveva visto gli uominiarrivare sulla luna

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C’era una volta un’Isola in questo mondo

I nostri vèci, pori superbi,magnandone i schèi

ne ga lassà i proverbi

Una volta a Isola, verso sera e per tutto il corso delle lunghissime notti fino a quando all ’alba il gallo non si metteva a cantare, dall ’alto del cielo, quasi sospeso sopra Monte Pulco e Vallugana, il Signore vegliava sul paese attraverso l’occhio luminoso e penetrante della Stella Boara. La Stella palpitava immobile e non cessava mai di agitare lunghissimi raggi per frugare tra le case silenti, ammassate e confuse nell’oscurità, alla continua ricerca di finestre senza balconi. Attra-verso le finestre nude, il suo chiarore penetrava nelle camere dei bambini angosciati e tremanti, che non ri-uscivano a dormire per paura della solitudine. E così si metteva a far compagnia a quei poveretti lasciati tutti soli dai grandi, intenti a consumare in posti remoti interminabili filò. La sua luce non era fredda come quella delle altre stelle: leniva le ansie e fugava i timo-ri. Infatti quasi sempre, dopo il suo arrivo, fuggivano le ombre misteriose che ogni sera s’annidavano tra le travi nere del soffitto e le parti remote delle lenzuola si intiepidivano rapidamente. A poco a poco i bambini cessavano di stare rannicchiati e tesi, stendevano le membra e si addormentavano in pace.

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Ma anche se i bambini dormivano, l’occhio del Signore continuava comunque a vegliare di lassù. Guardava altre finestre fiocamente illuminate, dove apparivano donne ancora affaccendate in minutissi-mi lavori. Osservava tutt’intorno le macchie distinte dei campi coltivati e, lungo bianche strade sinuose, le partenze dei carrettieri, il cui andare era tracciato dalla luce altalenante delle lanterne appese all’estremità po-steriore del carro. Quando la Stella Boara brillava viva nel cielo, il ladro non usciva mai strisciando all’aperto con il sacco sulle spalle per andare a rubare i pollastri nei punari incustoditi e, per muoversi, aspettava sem-pre che arrivassero le nuvole a nasconderla.

Senza testimoni in cielo, sulla terra può succedere di tutto. La Brentana, ad esempio, arrivava solo nel-le notti di tempesta ed era preceduta da sordi rumori, più cupi e terribili delle site, che sconvolgono le tene-bre rotte da s-ciantìsi acceccanti. La Giara ingrossata straripava ed il Timóncio rompeva gli argini. Allora dai due torrenti l’acqua furiosa si rovesciava nei campi travolgendo ogni cosa; raggiungeva le corti, le stalle e le case dei contadini portando melma e fango dappertutto, annegava animali e si ritirava a poco a poco lasciando solo carogne e distruzione.

Invece durante le notti serene neppure le cantilene stonate e cariche di malinconia dei nottambuli impe-nitenti riuscivano a rompere l’intima pace delle ore che scorrevano ordinate nella lunga attesa dell’alba.

Persino nel remoto cimitero attorniato da neri ci-pressi, quando su di esso si riflettevano i raggi della Stella Boara, la soéta addolciva il suo lugubre verso

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e gli spiriti dei morti, che uscivano dalle fosse sotto forma di fiochi lumicini, si allungavano esili e palpi-tanti fino a spegnersi, dopo brevi esitanti voli, contro le mura del recinto accarezzate dal vento.

Al sorgere del sole la Stella Boara, che aveva già vi-sto da un bel pezzo Nòbrio Campanaro attraversare il sagrato per entrare nel campanile e suonare il Padre-nostro, si ritirava discreta abbassandosi lentamente oltre il Monte di Priabona, proprio quando i falciatori si avviavano in processione con gli attrezzi sulle spal-le verso i campi ricchi di fieno e Ménego Manèa fer-mava il cavallo sull’argine ed iniziava a scarriolare la ghiaia nel letto quasi asciutto del torrente tra esigui rivoli chiari di acqua luccicante.

Tempo fa ero sul piccolo spiazzo del Santuario di S. Maria sovrastante il paese, mentre annottava. Il cielo era terso e le montagne nere chiudevano l’orizzonte lontano limitando lo sterminato spazio del cielo cari-co di stelle. Guardavo verso Monte Pulco e Vallugana, scrutavo tutto l’orizzonte occidentale ma non vedevo l’occhio del Signore, non ero in grado di fissare la Stel-la Boara. Son tornato altre sere e non l’ho più vista.

Dove sarà mai la Stella della mia infanzia? Si sarà trasformata in cometa errante alla ricerca di un altro paese, com’era Isola una volta? Non lo so. Ma mi do-mando anche cosa farebbe mai il vecchio caro astro ai nostri tempi. Boari che si alzino di notte per andare ad arare incitando i buoi non ce ne sono più, falciatori ‘segantini’ a contratto neppure, ladri di galline nean-che a sognarselo. Gli scarriolanti del Timonchio sono

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scomparsi da tempo immemorabile. E i bambini? Oh, i bambini in questi anni non vanno mai a letto presto! Stanno su a vedere la televisione con i grandi, anche perché il giorno dopo possono dormire quanto vogliono e mica devono alzarsi presto per accompa-gnare gli animali nei campi prima di andare a scuola.

E a scuola ci vanno con l’autobus, non a piedi per chilometri e chilometri, come una volta. Beati loro!

Così la Stella ha di sicuro tagliato la corda verso un altro mondo, perché non se la sentiva proprio di farsi inutilmente viva in cielo senza aver nessun rapporto con la gente della terra.

Sarà così. Però mi piacerebbe senz’altro sapere dov’è andata mai a finire adesso e come se la passa con altri boari, con altri segantini, con altri scarriolanti e, so-prattutto, se in quel mondo vicino o lontano ci sono bambini pieni di paura che hanno bisogno della sua presenza per addomentarsi in pace quando silenziosa scende la notte dai monti oscuri.

ILA VALLE DE LLA PE LLAGRA

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Mia nonna, la Neni, quando mi accompagnava in Vallugana, seguiva sempre, tra Belatesta e i Muri, una cavedagna che adesso più non ritrovo. Ma allora costituiva per me la parte più attraente della lunga passeggiata. Era fiancheggiata ai lati da contorti e nodosi morari e veniva spesso sol-cata dai brividi improvvisi dei ligaóri. Proprio lì le cicale, a luglio, sembravano darsi convegno da tutta la zona e il sórgo sigolava, nell’arsura dei meriggi, lungo le distese circostanti.

Prima di uscire nei pressi di una fonte, da cui ogni volta, quasi per rito, si attingeva dell’acqua (nonostante il ribrezzo provocato dai saltafossi e dagli insetti che stabilmente la occupavano) la nonna diceva, accennando con la scarna mano la catena dei monti vicini: «Quelli lassù, Pino, sono i Ròcoli del Signore!»

Di fianco al posto indicato scorgevo la Chiesa di Monte Pulco e, sotto, la Contrà Parigi, quasi sepol-ta tra il verde cangiante dei fagàri e delle càssie.

La nonna, vestita di nero in ogni stagione, mi fissava con i suoi occhi mobili e scuri, strana-

Preferire i nemissi ai mone zé na bona cosaperché i primi, almanco, ogni tanto i se riposa

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mente vivi in quel viso pallido, incorniciato da lunghi, stupendi capelli bianchi; e soggiungeva: «Proprio di lì passa la Pellagra, quando viene da noi, arrampicandosi dalla Valdilà».

Da tempo ormai io sapevo quasi tutto sulla Pel-lagra che arriva silenziosa nelle notti illuni e fa tornare le Anguane precipitosamente dentro le grotte profonde, mentre stanno facendo la lìssia nella Val de Sera ai vestiti del Salbanèlo. La Pella-gra è una nebbia tremenda mandata dal Diavolo. Prende uno, gli va dentro la pelle, lo fa diventare giallo e magro finché gli spuntano le piaghe un po’ dappertutto, ma specialmente tra le dita del-le mani. Contro la Pellagra non c’è niente da fare. Scappare è peggio.

Nane Obi, da piccolo, siccome era forte e velo-ce come un gatto nero, tornando a casa la sentì, senza vederla, sopra il Combinèlo. Se la dette a gambe, bestemmiando. Non fu raggiunto, ma per lo spavento rimase muto e scemo per tutta la vita. Forse il Crocifisso sulla porta di casa, le can-dele della Serióla e l’Olivo delle Palme bruciato durante le ‘tempora’ possono giovare. Ma se uno magari attacca il Crocifisso, oppure accende le candele o anche brucia l’olivo in peccato mortale, allora il Diavolo si gode lo stesso a far entrare la nebbia nella sua casa.

Invece il sale benedetto è un rimedio sicuro. Infatti, tanti parrocchiani ricordano che prima di abbattere la vecchia Chiesa ci fu una infezione fortissima a Isola. L’arciprete don Polacco benedì

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più di due quintali di sale e il Sindaco lo distri-buì alle famiglie colpite perché fosse messo, per devozione, nella polenta e sull’insalata. E la Pel-lagra sparì.

Certo, non tutti i discorsi sulla Pellagra, che sentivo ripetere spesso, mi facevano venire la pelle d’oca. Alcuni anzi erano assai divertenti. Solo alcune storie come quella dell’Orco, che mi raccontava Chéco Pase, non mi lasciavano dor-mire la notte. Una volta addirittura ci assicurò di aver visto, dopo il Concilio di Trento, un Orco enorme trasformarsi in cavallo bianco per an-dare a scalpitare sulla sommità delle mura del Barco. Gli zoccoli facevano fiamme e la luna, di-ventata rossa, si fermava immobile dietro il ca-stello diroccato, proprio sul poggio che sovrasta il paese.

Per fortuna le storie brutte, dalle nostre parti, si dimenticano presto e restano quasi sempre solo le storie allegre, a tener banco nelle sere d’inverno durante i lunghissimi filò.

Il sentiero di Vallugana era pieno di cégoli fran-tumati dal tempo, dagli uomini e dagli animali. Era, quello, un sentiero antichissimo. La nonna, agile nonostante gli anni ed esperta per antica necessità, mi trascinava verso la casa della zia Virginia esortandomi a non aver paura delle ande e dei carbonassi, che pigramente sostava-no attorcigliati a digerire nella calura estiva. Noi avevamo infatti mangiato il coessìno con la lin-

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gua nel giorno dell’Assénsa ed il serpe non pote-va beccarci mai.

Con tutta la fede nel coessino dell’Assénsa, io tremavo ugualmente. Ma lei procedeva imper-territa e, siccome vedevo le bisce scappare nel fosso al suo passaggio, pensavo che la nonna fos-se una santa e che pertanto bisognasse dar credi-to, senza discutere, a ogni sua parola.

E poi dalla zia c’erano frutti meravigliosi ad at-tendermi secondo le varie stagioni: dai malgara-gni ai fichi, dalle nasarèle ai nèspoli...

«Perché aver paura dei serpi?», mi chiedevo, «Avanti, avanti, Pino! Più presto si arriva, prima si mangia».

S’arrivava comunque a destinazione scavalcan-do una siepe di rovi, e puntualmente dalla Corte ci veniva incontro la cuginetta Carmela, dalle lunghe trecce castane. Ci annunciava imman-cabilmente che la zia, sapendo del nostro arrivo, aveva preparato la pinsa con il vino fràmbuo.

Dal portico, giocando con Carmela, potevo mirare la valle del passaggio obbligato della Pel-lagra, tutta intera, dalla Cogòla ai Castelari. Era, ed è ancora, una valle verde e declinante, ricca di vigneti, ricamata in alto da lussureggianti casta-gnari e vigilata sul crinale da due enormi cipres-si che fanno la guardia al terasso dei Brunèlo.

Mentre mangiavo la pinsa e aiutavo la cugi-netta a costruire con vecchi mattoni la casetta per la bambola, lasciavo andare lo sguardo al di là della vicina masièra.

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«Cosa c’è oltre la linea dei monti?», chiedevo a Carmela.

Lei rispondeva sempre che non sapeva niente. Io sapevo, invece. Al di là dei monti c’erano altri monti, che noi non vedevamo perché s’era più bassi, e poi altri monti ed altre valli ancora, e val-li e monti e campi fino al mare, fino al mare che non finisce mai.

A quei tempi ero uscito una volta sola dal pae-se per andare a Vicenza, col cavallo di Gelindo Binón.

Ero partito all’alba. Il cielo, verso Villaverla, era giallo oro e le séleghe saltellavano vispe sui cop-pi contorti del Palasso. Binón aveva messo sulla carretta un po’ di paglia e sopra la paglia delle vecchie coperte militari.

La Provinciale del Pasubio allora non era anco-ra asfaltata. Noi, Fanciulli cattolici, riusciti pri-mi a una gara diocesana, s’andava per premio a visitare la Madonna di Monte Berico. Ci fecero camminare da porta Santa Croce al Santuario e, salendo in processione, cantare ancor di più.

Quando ci condussero sul Piazzale della Vitto-ria, dopo le funzioni religiose, avevo lo sguardo annebbiato e mi sentivo morire dalla stanchez-za. Non guardai neppure, con il binocolo di don Antonio, il Grappa e l’Altopiano di Asiago che chiudevano, tra nebbie, l’orizzonte lontano. Mi accoccolai sul gradino vicino al palo di una ban-diera e sgranocchiai in silenzio quella poca roba

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che la mamma m’aveva rifilato impacchettata sotto il braccio, al mattino. E nel ritorno m’ad-dormentai.

Avevo visto dunque quasi niente fuori di Isola e Vallugana. Ma di Isola e Vallugana conoscevo ogni cosa, ogni persona, ogni siésa e ogni scùrso-lo. Non mi importava affatto di ignorare dove fosse il Buso della Rana, una caverna immensa con dentro laghi e barche, vista da Lino Rigoni verso Monte di Malo. Ninìn Dalbèn, poi, era andato a Cesuna, nella colonia del Fàssio e Pino Sassaro s’era spinto persino a Padova, dal Santo, con suo zio Nane. Io no, io conoscevo soltanto Isola e Vallugana: ma ero sicuro di conoscere il mondo!

Mia nonna, la Neni, morì di cancro dopo l’ulti-ma guerra, proprio in una tiepida sera di giu-gno, quando ancora in Vallugana, addossato alle mura della casa della zia Virginia, il vecchio mal-garagno offriva alla brezza, nell’ora del tramon-to, una nuvola di fiori rossi.

XIVLA DANDÈGA DE L GATO

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A San Vincenzo arrivava il gran freddo. La Giara era tutto un cróstolo di ghiaccio e le strade del paese si riducevano ad un unico interminabile slissego sopra il quale i ragazzi si divertivano un mondo, mentre invece le donne, dallo sbrìssio facile, finivano spesso con le gambe all’aria, sen-za neppure avere il tempo di nascondere ai pas-santi l’ingegnoso intreccio dei loro ligàmbi.

Quando le punte del gelo diventavano acutis-sime, nel profondo silenzio delle contrade s’udi-vano colpi secchi lungo i filari delle piante: sbre-ghi distinti ma subito assorbiti nell’immoto gri-giore della campagna, s-ciochi improvvisi che facevano balzare il cuore in gola ai rari passanti.

«Adesso s-ciòpano i morari e le visèle», sospi-rava mia nonna, la Neni, «quest’anno resteremo senza galéte e senza vino».

Mio padre per ore ed ore stava alla finestra del-la stalla, seduto su una delle seggiole sfondate (il careghéta veniva sempre tardi per impagliarle di nuovo) e ostiava all’indirizzo di mia madre, perché mia madre cantava sempre anche quan-

Chi che gà inventà el vin,se no l’è in Paradiso,

el ghe zé vissin

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do, come diceva lei, la caliverna brusava le bale alle statue del Palasso. Tanto cosa valeva ciapar-sela? Avrebbe fatto freddo lo stesso e sarebbero s-ciopati ugualmente sia i morari che le visèle.

Il peggio però veniva quando qualcuno di noi doveva recarsi per forza fuori a fare i suoi bisogni.

Il cesso si perdeva in mitiche lontananze, oltre la corte, dietro il luamaro, nel luogo più esposto al vento tagliente, senza neppure dei validi cana-ri protettivi.

La dura alternativa al cesso era l’orto attorno alla casa. Però lì non c’era riparo alcuno e chi sceglieva l’orto doveva per di più sottostare a norme precise. Nell’intento infatti di distribui-re razionalmente la concimazione naturale, gli zii avevano stabilito di non andare d’inverno sempre sullo stesso posto, ma di avanzare a fato, a macchia d’olio, partendo dalla mura e venen-do avanti. Ad ogni andata, dopo aver tirato su le braghe, bisognava spostare un vecchio carossólo che reggeva sulla cima uno straccio colorato e che stava già piantato sul punto dei precedenti impatti. E così dall’avanzare di quella specie di bandiera si poteva notare l’espandersi del terre-no trattato.

Io sceglievo quasi sempre l’orto, nonostante tutto. Aspettavo, stringendo i denti, gli ultimi istanti e poi, spalancata la porta, correvo velo-cissimo. Era questione di pochissimo tempo. Però, una volta imbottonate le tirache, provavo l’immensa soddisfazione di spostare il segnale.

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Mi sembrava così di ritrovarmi nel tepore del-la scuola, quando il maestro mi concedeva l’alto onore, nella mia qualità di capo squadra dei Ba-lilla Moschettieri, di mutar posizione sulla carta geografica dell’Abissinia agli spilli colorati, che indicavano l’avanzata delle nostre gloriose trup-pe verso Addis Abeba, in Africa Orientale.

San Vincenzo significava anche l’avvicinarsi di un importante ed atteso appuntamento: la ‘Dan-dèga del gato’.

In quei giorni, prima che i gatti andassero in amore, bisognava scegliere quello giusto, né troppo grasso né troppo magro. La selezione era lunga e faticosa: ma i momenti più impegnativi e duri erano quelli necessari a preparare l’aggua-to per la cattura e a scandire i tempi del sacrificio. Scegliere il sacco buono ed il passéto di róvere col gròpo giusto, escogitare poi il tranello adatto per insaccarlo, prendere inoltre per il collo l’ani-male inferocito e tenerlo fermo, stenderlo in se-guito sul sòco dove si spaccava la legna, tramor-tirlo prima e tagliargli infine la testa con una ca-lata precisa del menaròto: tutto questo non era affatto molto semplice, ma richiedeva anzi una consumata abilità di natura senza dubbio pro-fessionale.

Il rito vero e proprio della preparazione del gatto cominciava dopo avergli levato la pelle. Si prendeva allora un catino capace e lo si im-mergeva in una soluzione di acqua, sale e aceto.

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Quando calavano le tenebre della notte, la preda sacrificata veniva legata saldamente per le zam-pe posteriori sulla sommità di una làtola lunga e la si lasciava per tutta la notte in alto, fuori da una finestra esposta a tramontana. Al mattino seguente si ritirava dentro la carcassa ridotta dal gelo notturno a un pezzo di ghiaccio e la si rimetteva nella bacinella, dove s’era nel frattem-po rinnovata l’acqua, il sale e l’aceto. Bisognava ripetere la stessa cerimonia mattina e sera per sette giorni consecutivi perché il gatto doveva arrivare al momento della cottura preparato nel migliore dei modi.

Alla vigilia del giorno destinato alla cottura, nel cuor della notte, presso il focolare, si pre-parava in allegria lo spiedo unto a dovere. Si affettava anche il lardo e si sceglievano, sotto la paglia sparsa apposta sulle vanède dell’orto, le più fresche foglie di salvia. Tutto doveva essere pronto per il momento in cui, ritirata per l’ulti-ma volta la làtola e sciolti i gròpi, si sarebbe pro-ceduto allo spezzettamento del gatto e alla sua sistemazione sullo spiedo, dove avrebbe a lungo girato con fuoco lentissimo.

Il gatto avrebbe avuto come speciale contorno le vèrde composte e la polenta ónta. C’era anche chi durante la notte della vigilia si preoccupava, andando per le case dei futuri invitati, di fare una consistente incetta di fiaschi di vino. E final-mente, accompagnato da una bevuta generale, arrivava il momento dell’accensione dei fuochi.

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Qualcuno ricorda a Isola una progettata dan-dèga che non giunse, per un soffio, a compimen-to. La storia capitò a Ciano Falai e fu quasi una tragedia. Il Ciano aveva fatto tutto: scelto e preso il gatto, preparato il catino e la làtola, attaccato e staccato il morto per ben sette volte e persino unto alla vigilia lo spiedo.

Però quando, all’alba dell’ultimo giorno, tutto radioso in volto, s’accinse a ritirare la làtola, con gli occhi sbarrati per la disperazione notò sol-tanto i fili di gavetta tagliati di recente. Del gatto, neppure un pelo che fosse un pelo. Un ignoto, appoggiata la scala nel cuor della notte, aveva ag-guantato e trafugato la carcassa già pronta. Il po-veretto fu visto piangere e fu anche udito lancia-re dal ponte della Giara il tremendo anatema che per buona fortuna del nostro paese finora non ha mai attaccato. L’anatema, espresso con odio e furore, consiste nello spedire uno, conosciuto o no, dritto dritto alle sue autentiche origini con un urlo spietato e preciso: «In móna a to’ mare!»

COMMIATO:LA SERA DEI MORTI

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Tuto va e viéne gnénte se mantién

Stasera le campane straziano a lungo l’oscurità con lenti rintocchi perché devono annunziare che domani sarà il giorno dei morti. Nelle stalle la recita del terséto è obbligatoria e per intonar-lo si aspetta che arrivino anche tutti i morosi. Il coro inizia sommessamente e, trasformandosi prima in un brontolio accorato, si smorza poi a poco a poco entro la cortina di vapore emessa dalle vacche. I lumi, frattanto, contorcono la loro esile fiamma ora allungandola ora accorciandola e sembrano emanare pallide immagini di anime in pena.

«Santa Maria...».«Oraproèi!»«Santa deigènitri...».«Oraproèi!»«Januacèli…».«Oraproèi!»Sulle pareti umidicce, imbiancate di recente,

si fissano i fantasmi dei paesani morti.Quello è Bepi Siolàro che era ancor vivo duran-

te l’ultima estate: ma adesso scivola muto verso

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il buio, con occhi neri e fissi. Eppure come incan-tava con la sua voce, forte e dolce insieme, nella serenità delle chiare mattine d’agosto quando, cantinelando, annunciava il suo arrivo di con-trada in contrada:

«Dòne, siolàro! Dò-ne sio-là-ro!!!»Lo trovarono morto sotto il telo del suo carret-

to. Il cavallo, accortosi istintivamente di tutto, s’era messo di traverso sulla strada per costrin-gere i passanti a guardar dentro, tra le rèste di sióle ammucchiate. Era lì con la bocca semiaper-ta come tentasse di esprimere l’ultimo invito: lui così mite e buono come sono miti e buoni tutti quelli che vivono bevendo e cantando.

Anche Boccadoro non c’è più. Chi alleverà an-cora i conigli nella sua barchessa vuota, chi essic-cherà al sole le pelli morbide per fare manopole da bicicletta e colli per i paltò dei toséti?

Passa sul muro Boccadoro e passa anche Chéco Cantore, il basso più in gamba del coro paesano. In vita mangiava vèrde lesse e beveva brodo di vèrda non tanto, come voleva fra credere, per mantenere la voce nella giusta tonalità, ma per-ché aveva solo quel cibo a disposizione per mesi e mesi.

Ecco Toni dei Spaghi, caduto una sera dentro la Giara e morto per asfissia in due dita d’acqua. Non ha, naturalmente, appeso al braccio l’inse-parabile cestino in ferro con le baléte di naftali-na, perché il cestino è rimasto dimenticato tra i sassi del greto.

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Mantovan abitava la casa vicino al cimitero e talvolta qualcuno salutandolo diceva: «Eh!, caro Mantovan, tra poco tocarà anca a mi de vegnère a tèndarte i polastri».

Questa curiosa allusione alla morte non met-teva certo malinconia a nessuno: non è forse simpatico sognare di essere stesi sulla terra per sempre e, come mandriani, guardare distratta-mente non bestie rissose, ma placidi ruspanti accanto a siepi di glicine, sempre accarezzate dal vento?

Adesso anche Mantovan riposa nel cimitero e i suoi polastri se li tende da solo.

«Materinviolata...».«Oraproèi».«Materintemerata...».«Oraproèi!»Quella è la figura di Antèro, un giovane sem-

pre sorridente, che prima della guerra veniva ogni sera a chiaccherare sullo scalino del Pósso. Non voleva partire per il Fronte perché la sua Patria da difendere e da amare era soltanto Isola. Ma lo vestirono da alpino quando aveva appena vent’anni e lo mandarono in Russia.

Non tornò più. Forse adesso in quel lontano paese le betulle, piegandosi al vento della sera, lo stanno affiancando dolcemente mentre lui muto cammina e cammina verso i confini della steppa, dove nelle isbe stasera, come in ogni al-tra parte del mondo, molti pregano assieme per i vivi e per i morti.

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Il terséto finisce, arrivano i maróni brustolà, si mangia e si beve.

A letto, a letto, toséti!Domattina ci sarà una Messa speciale per voi

in Parrocchia: quella del pane dei morti.Sugli scalini dell’oratorio il Parroco benedirà

una cesta enorme ricolma di pane e tutti in fila passeranno davanti a prendersi il panetèlo. An-che domani, come sempre, Rolando e qualche altro tenteranno di fare i furbi, mettendosi una seconda volta in fila, dopo aver rovesciato i ta-barri e scambiato le baréte per ingannare gli oc-chi attenti di Bijo Sassàro e la guardia sospettosa di Tita Sacrestano nel tentativo di appropriarsi di un altro panetèlo.

Ma Bijo Sassàro e Tita Sacrestano vegliano da anni e non si faranno neppure stavolta ingan-nare dai soliti quattro furbi sempre pronti a tramare inganni. Quando Rolando e gli altri tor-neranno di nuovo mascherati a tendere la mano, invece del pane prenderanno una solenne pe-data. Ma non piangeranno: c’è sempre la Giara lì vicino ad aspettare invitante. Via tutti, allora: si potrà giocare a scaje. Nessuno resterà male, nessuno di certo si lamenterà. Infatti, di mattina bonóra, quando si ha in tasca un pezzo di pane bianco e caldo e la Giara tutta a disposizione, cosa si pretende di più dalla vita?

INDICE

L’isola che non c’è… più di Ilvo Diamanti

C’era una volta un’Isola in questo mondO

I. La valle della pellagraII. Il conte e i sovversiviIII. Il mato GhitanIV. Naneto JobeV.Il santo curatoVI. Piero BéloVII. La morte del mas-cioVIII. Il vivò marsoIX. Le racolade de la Settimana SantaX. Le rogazioniXI. Checo, l’eroico fanciuloXII. La mano della mortaXIII. Il parroco dei montiXIV. La dandèga del gatoXV. L’opra del compar d’anelo

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XVI. Un natale di Bepi TinassaXVII. Una sera di maggio a TorreselleXVIII. L’ora della soetaXIX. La gara dei mussiXX. I singani arrivavano di notte...XXI. Cencio scarparoXXII. Gli istruttori del possoXXIII. Quando d’autunno passano i tordiXXIV. Nane, il predicatoreXXV. Ninin FavaroXXVI. La polvere amica della VianovaXXVII. «Noi tireremo diritto»XXVIII. L’abbattimento della casa chiusaXXIX. L’orbo de monteXXX. Lo scopetÓn senza testaXXXI. I cacciatori di ciupinareCommiato: la sera dei morti

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C'era una volta un'IsolaStorie della pellagra e altri raccontidi Pino Sbalchiero

Progetto grafico : Alessandro CoruboloImpaginazione : Elsa ZaupaCorrezione delle bozze : Giovanni Stefano MessuriCarattere : Collis di Christoph NoordzijCarta : Lux Cream avorio - Stora EnsoStampa : Grafiche Antiga Spa (Crocetta del Montello, Treviso)Tiratura : 1500 copie

La Ronzani Editore

Società editrice: Giuseppe Cantele, Giovanna Cantele, Alberto Casarotto, Andrea Cortese, Fabio Cortese, Dario Dal Ferro, Lara Facci, Giuseppe La Scala, Romina Manzardo, Giovanni Stefano Messuri, Francesco Motterle, Claudio Rizzato, Pierantonio Rizzato.

Redazione: Giuseppe Cantele, Paolo Carta, Alessandro Corubolo, Maria Gregorio, Luisa Maistrello, Giovanni Stefano Messuri, Patrizia Pietribiasi, Claudio Rizzato, Giovanni Turria, Matteo Vercesi, Franco Zabagli, Elsa Zaupa.