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Taranto tra storia leggende e tradizioni ( quinta parte fino al poeta Orazio Flacco)

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Tarantotra storia leggende e tradizioni ( quinta parte fino al poeta Orazio Flacco)

a cura di nonna Serena

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TARANTO E LE GUERRE PUNICHE

Nel 272 a.C. Taranto diventò dominio di Roma, pur mantenendo una certa autonomia interna. Roma aveva tutto l’interesse a mantenere buoni rapporti con la città che era riuscita ad estendere i suoi domini sulla Magna Grecia e che, per la sua posizione privilegiata nel mar Mediterraneo, le consentiva di commerciare facilmente con gli altri paesi. Quindi i Romani, dopo aver mandato in ostaggio a Roma un centinaio di giovani tarantini, assicurò a Taranto un periodo di

di pace, preoccupandosi anche di fortificarla adeguatamente per difendersi da possibili offensive nemiche. Proprio in quegli anni, però, scoppiò il conflitto tra Roma e Cartagine.

Quest’ultima era una città dell’Africa settentrionale fondata, secondo una leggenda, nell’ 814 a.C. da alcuni coloni fenici guidati dalla regina Didone. Divenuta una grande e potente città, decise di scontrarsi prima con i Siracusani e poi con i Romani per il dominio del Mediterraneo.

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Nel 264 a.C. scoppiò tra Roma e Cartagine la prima guerra punica, durante la quale Taranto fornì un leale contributo a Roma, concedendole denaro ed un contingente di uomini. La guerra durò ventitrè anni, tanti ne impiegarono i Romani per vincerla, perché, al contrario dei Cartaginesi, abili costruttori di navi ed esperti marinai, erano abituati a combattere sulla terra ferma e dovettero chiedere aiuto ai popoli alleati che vivevano sulle coste. Questi costruirono delle navi dotate di un congegno speciale chiamato ” corvo” che agganciava

le navi nemiche, formando un ponte levatoio che permetteva ai Romani di combattere come sulla terra ferma.

Questa strategia( così racconta Giacinto Peluso nella sua Storia di Taranto), permise al console romano Caio Duilio di riportare numerose vittorie e di mettere fine alla guerra nel 241 a.C.

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ANNIBALE

Dal 241 a.C. al 218 a.C. anno dell’inizio della seconda guerra punica, Taranto continuò a subire il dominio di Roma, rimpiangendo la propria indipendenza e la passata grandezza e covando un vecchio rancore per gli ostaggi portati a Roma e mai più restituiti. I Tarantini cominciarono, perciò, a seguire con interesse le imprese di un giovane condottiero cartaginese: Annibale.

Nato nel 247 a.C., Annibale era figlio di Amilcare Barca ( il significato di Barca era folgore o lampo) che aveva inculcato nei figli Annibale, Asdrubale e Magone l’odio verso i Romani. Nella sua rubrica Taranto Taranto mia sul Corriere del Giorno del 1980 Dino Primo ( pseudonimo del giornalista Clemente Salvaggio) parla in maniera ampia e particolareggiata del personaggio di Annibale che gli storici hanno descritto come uno dei più luminosi geni militari dell’antichità di volta in volta pieno di umanità o crudele e senza scrupoli.

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Dopo la sconfitta subita dai Romani nel 241 a.C., i Cartaginesi rivolsero le loro attenzioni alla Penisola iberica che fu conquistata dal generale Amilcare Barca. Alla sua morte, il figlio Annibale, valoroso guerriero, nominato generale sul campo dai suoi soldati, decise di proseguire nella politica di conquista del padre. A Cartagine nessuno aveva intenzione di cominciare una nuova guerra contro i Romani, perciò Annibale decise di provocarla occupando Sagunto, una città loro alleata. Immediata fu la protesta di Roma che chiese

la liberazione della città e la resa di Annibale. Queste condizioni vennero respinte ed anzi Annibale, lasciato il fratello Asdrubale a difendere Sagunto, si affrettò ad attraversare l’Ebro con un esercito numeroso e trenta elefanti. Ebbe inizio così nel 218 a.C. la seconda guerra punica. L’esercito cartaginese, guidato e spronato da un genio militare quale era Annibale, varcò i Pirenei e poi le Alpi, sopportando il freddo e la scarsità di cibo, ricevendo, però l’aiuto del popolo dei Galli, nemici dei Romani.

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Questi disorientati, mandarono a fermarlo un esercito guidato da Publio Cornelio Scipione che, però, fu sconfitto sul Ticino e poi sulla Trebbia, nei pressi di Piacenza. Venne la primavera ed Annibale attraversò l’Appennino per accamparsi nei pressi del lago Trasimeno. A questo punto Roma decise di attaccare ed inviò un esercito di circa trentamila uomini guidato dal console Caio Flaminio che promise di tornare vincitore e con Annibale prigioniero. Ma l’esito della battaglia fu favorevole ai

maggior parte dei soldati nemici compreso il console che li guidava. Dopo la vittoria del Trasimeno, Annibale dovette prendere una decisione: puntare sul Lazio e poi direttamente su Roma o cercare un’alleanza da parte dei popoli italici che erano sempre stati nemici dei Romani. Alla fine il generale cartaginese optò per la seconda soluzione, quindi proseguì sulla fascia adriatica giungendo fino all’Apulia. Nel 216 a.C., a Canne, nei pressi del fiume Ofanto

Cartaginesi che uccisero la

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si svolse una delle più gigantesche battaglie dell’antichità che vide Annibale vittorioso sul più numeroso esercito romano. I Cartaginesi si mostrarono benevoli verso i prigionieri e li colmarono anche di doni. Così fecero anche con i Tarantini che tornarono a Taranto magnificando la bravura di Annibale, nonché la sua generosità e saggezza, cercando di convincere il resto della popolazione ad allearsi con i Cartaginesi per liberarsi dai Romani. La decisione fu rinviata anche perché le truppe romane occupavano ancora la città.

Roma, intanto,dopo la sconfitta di Canne, temeva un attacco diretto alla città da parte dei vincitori, ma ancora una volta Annibale preferì attendere. Si avvicinò fino a pochi chilometri dalla città, occupando Capua, alleata di Roma, che aprì le porte al nemico, offrendogli ospitalità e possibilità di riposarsi. Così Annibale ed il suo esercito cominciarono ad oziare tanto da rendere famosa la città con la frase “ gli ozi di Capua”. Nel frattempo Roma riorganizzava il suo esercito ed i Tarantini erano sempre più indecisi sul da farsi:

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continuare a subire il dominio dei Romani o accettare l’offerta di Annibale di consegnargli la città per cacciare la guarnigione romana. Non avendo risposta, il condottiero cartaginese decise di avvicinarsi a Taranto e così fece, sistemando il suo accampamento nei pressi del fiume Galeso. E attese.

I Romani, preoccupati, inviarono a Taranto dei rinforzi per fortificare maggiormente la città ed impedire che i Cartaginesi potessero usare il porto di Taranto come approdo per le navi di approvvigionamento. A questo punto, fortemente deluso dalle incertezze dei Tarantini, Annibale decise di togliere gli accampamenti dal Galeso, ma avvenne un fatto inaspettato… Un certo Filea di Taranto fu inviato a Roma per parlare con gli ostaggi tarantini concentrati nel Tempio della Libertà.

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Filea convinse alcuni giovani prigionieri tarantini a fuggire da Roma per tornare a Taranto. Furono corrotte alcune guardie ed organizzata la fuga che, però, si interruppe a Terracina. I giovani furono riportati a Roma, torturati e fatti precipitare dalla Rupe Tarpea, la scarpata nei pressi del Campidoglio, dalla quale venivano gettati i colpevoli di reato contro lo Stato.

Quando la notizia giunse a Taranto, grande fu lo sdegno delle famiglie dei giovani uccisi che spinsero i cittadini a decidersi a cacciare i Romani dalla città, alleandosi con Annibale. Filomene, Nicone e Tragisco, tre dei genitori che avevano avuto i figli uccisi dai Romani, ordirono una congiura. Andarono a parlare con Annibale che promise di aiutarli ed assicurò che tutti i cittadini tarantini sarebbero stati rispettati e liberi di governarsi autonomamente. In cambio i Cartaginesi avrebbero tenuto per loro le case ed i beni dei Romani.

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Annibale, a questo punto, mise in moto tutta la sua astuzia consigliando i congiurati di fissare una data per l’assalto alla città e di preparare per quel giorno una grande festa a cui avrebbero dovuto partecipare le più alte cariche romane, compreso il pretore Marco Livio che governava la città. Nel giorno stabilito, le truppe cartaginesi si avvicinarono alle porte della città e, durante la notte, mentre tutti banchettavano o dormivano, i tre congiurati uccisero le sentinelle, aprirono i principali accessi - la porta Temenide e la porta Rinopila- e diedero il segnale di via

libera convenuto con Annibale che irruppe nella città uccidendo tutti i Romani che incontrava. Il pretore Marco Livio riuscì a fuggire con la sua famiglia rifugiandosi nella Rocca( l’attuale città vecchia) dove si trovava il presidio militare. Così nel 213 a.C. Annibale realizzò il suo sogno di conquistare Taranto ed il suo porto, senza, però riuscire a cacciare definitivamente i Romani, ben asserragliati nella Rocca. L’assedio continuò e giunse l’inverno e Annibale si allontanò da Taranto, lasciandovi un presidio militare.

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Lo storico Tito Livio racconta che dopo l’assedio di un anno, Roma, approfittando dell’assenza di Annibale, decise di mandare un convoglio di navi, guidato da Decio Quinzio con rinforzi e rifornimenti. Ma anche i Tarantini avevano preparato una loro flotta comandata dal praefectus (ammiraglio) Democrate. Lo scontro fra le due flotte avvenne nei pressi di Sacriporto (l’attuale Porto Saturo) e le prime due navi che si affrontarono furono quelle comandate da Decio Quinzio e da Nicone. La vittoria arrise ai

Tarantini e lo stesso ammiraglio romano venne ucciso. La morte di Decio Quinzio provocò angoscia e scompiglio tra i Romani, mentre galvanizzò i marinai tarantini che riuscirono a catturare le navi nemiche. Era il 210 a.C. e Taranto, piena di entusiasmo si affrettò a festeggiare Democrate, l’eroe del momento dedicandogli un’iscrizione nel Tempio di Nettuno ed istituendo la festa della Vittoria per ringraziare gli dei. Questa vittoria però non risolse i problemi di Annibale e fu anche l’ultima della flotta tarantina. Infatti, nel 209 a.C. Roma elesse

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console per la quinta volta Fabio Massimo, conosciuto anche come il Temporeggiatore, per la sua tattica di combattimento (seguiva sempre il nemico, senza mai attaccarlo per primo) ed a lui fu affidato il comando della regione tarantina. I Romani si avvicinarono a Taranto, ma, poiché non era facile attaccare una città molto ben fortificata, fu necessario avvalersi dell’astuzia e del tradimento. Fu proprio per il tradimento dei Bruzi ( popolo alleato di Annibale che era stato lasciato a sorvegliare la città) che

Fabio Massimo riuscì ad entrare a Taranto dalla parte della Rocca, poi mosse all’assalto dal mare, dove si trovava il Praefectus Democrate con le sue navi. Questa volta però l’ammiraglio tarantino fu sconfitto ed ucciso ed i Romani ebbero così libero accesso alla città. I legionari romani misero a sacco Taranto depredandola di tutti i suoi beni. Dalla città furono portati via schiavi, lingotti d’oro ed opere d’arte tra cui la Nike e la statua del dio Eracle, opera di Lisippo.

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I Romani, dopo aver confiscato tutti beni dei Tarantini, proibirono di coniare monete, ma non privarono la città della sua autonomia. Intanto Annibale che aveva seguito la resa di Taranto da lontano, si trovava sempre più in difficoltà, tanto che il fratello Asdrubale decise di abbandonare la Spagna per accorrere in suo aiuto, ma, nel 207 a.C. fu sconfitto e ucciso sul fiume Metauro.

Con la morte di Asdrubale, Annibale venne privato di ogni possibilità di aiuto, era ormai solo. Nel 206 a.C. Publio Cornelio Scipione, ( chiamato in seguito l’Africano) a soli ventiquattro anni, ebbe il comando dell’esercito romano in Spagna che riuscì a riconquistare attaccando Cadice, poi decise di passare ad una guerra offensiva, preparando lo sbarco in Africa. Quindi nel 204 a.C. le legioni romane sbarcarono in terra africana senza incontrare alcuna resistenza.

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I Cartaginesi, impreparati all’offensiva romana, chiamarono in aiuto Annibale che decise di abbandonare l’Italia per tornare in patria, ma subì una decisiva sconfitta da parte di Publio Scipione a Zama. Era il 202 a.C. e terminava la seconda guerra punica ed anche il sogno di Annibale di distruggere Roma.

Scipione, comunque, fu generoso con Annibale e lo lasciò libero a Cartagine dove tentò di riorganizzare lo Stato, restaurando le finanze e suscitando, però, molte ostilità. Costretto a fuggire, si rifugiò presso Antioco III di Siria, spingendolo ad una guerra contro Roma.Quando anche questa impresa fallì chiese asilo a Prusia, re di Bitinia. Nel 183 a.C. quando Annibale seppe che i Romani ne pretendevano la consegna, preferì suicidarsi con il veleno piuttosto che arrendersi.

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TARANTO SOTTO IL DOMINIO DI ROMA

Dopo la distruzione di Taranto da parte di Fabio Massimo, i Romani cercarono di ripopolare e ricostruire la città per sfruttarne il porto, in posizione strategica sul Mediterraneo. Ma questo avvenne molto lentamente, mentre si perdevano i contatti commerciali con gli altri paesi e l’artigianato, un tempo così affermato a Taranto, decadeva sempre più rapidamente. Nel 123 a.C. il tribuno della plebe Caio Sempronio Gracco tentò di istituire

anche a Taranto una colonia formata da contadini a cui veniva affidato un pezzo di terreno da coltivare. La colonia venne chiamata Neptunia, in onore del dio del mare e lo scopo era quello di rendere produttivo un terreno confiscato dallo Stato romano, ma anche di tentare di ripopolare la città. Nell’89 a.C. Roma dichiarò Taranto Municipium, concedendo ai suoi cittadini gli stessi diritti e privilegi dei cittadini romani perdendo però la loro autonomia culturale e linguistica. La città, gradatamente, si trasformò: le abitazioni furono costruite nella zona

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ora chiamata Borgo, mentre la necropoli si estendeva là dove oggi sorge l’Arsenale fino a piazza Marconi. I nobili e ricchi romani, stanchi della vita frenetica di Roma, si facevano costruire grandi case” domus” dotate di ogni comodità, dove trascorrevano gran parte dell’anno, attirati anche dal clima mite e dalle bellezze del paesaggio. Già nel 130 a.C scelse di passare gli ultimi anni della sua lunga vita a Taranto il poeta Marco Pacuvio che, prima di morire, fece incidere sulla sua lapide un suo testo, di dubbia autenticità:

“ Anche se vai di fretta, giovane, questo sasso ti implora di guardarlo, e che tu legga cosa c’è scritto sopra. Qui riposano le ossa del poeta Marco Pacuvio. Non volevo che lo ignorassi. Addio.” Si dice cha anche Giulio Cesare abbia soggiornato per qualche giorno a Taranto con Cleopatra nel 47 a.C., mentre è certo che Antonio e Ottaviano Augusto nel 37 a.C. conclusero un trattato di pace a Taranto, presso il fiume Tara, grazie all’intercessione di Ottavia, sorella di Ottaviano e moglie di Antonio.

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In occasione di quello storico avvenimento la città fu dotata di un anfiteatro e si diede inizio alla costruzione’dell’acquedotto. Questo è alimentato dalle sorgenti del Triglio che scaturiscono dal monte Crispiano nei pressi del comune di Statte Le acque si raccolgono in cunicoli sotterranei che convergono in un serbatoio. I resti dell’acquedotto si possono ancora ammirare sulla strada che da Statte porta a Taranto.

IL GALESO

Il fiume Galeso è un piccolo corso d’acqua, lungo solo 900 metri che riversa le sue acque nel mar Piccolo di Taranto. L’origine del nome è incerta, ma il poeta greco Polibio racconta che ai tarantini piaceva chiamarlo Eurota come il fiume che scorreva a Sparta.

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Questo piccolo fiume, tanto amato dagli abitanti di Taranto è stato raccontato e decantato da numerosi personaggi, ma soprattutto due grandi poeti latini che soggiornarono a Taranto ne parlarono nelle loro liriche.

Il mantovano Publio Virgilio Marone nel IV libro delle Georgiche così scrive:”…e infatti

sotto le torri, ricordo, della rocca ebalia, ove cupo irriga biondeggianti coltivi il Galeso,

un vecchio conobbi di Corico, che aveva pochi iugeri di un terreno abbandonato da altri… eppure costui, era il primo a cogliere la rosa in primavera, ma anche i frutti in autunno; e quando un fiero inverno ancora col gelo i sassi spezzava, e il ghiaccio arrestava i corsi d’acqua, egli la chioma del delicato giacinto già recideva, insultando la stagione per la sua lentezza e gli zefiri per il loro indugio.”

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Il poeta venosino Quinto Orazio Flacco nel II libro dell’ode A Settimio all’incirca nel 20 a.C. canta:” …e se il destino avverso mi terrà lontano ( da Tivoli), allora cercherò le dolci acque del Galeso caro alle pecore avvolte nelle pelli, e gli ubertosi campi che un dì furono di Fàlanto lo Spartano. Quell’angolo di mondo più d’ogni altro m’allieta, là dove i mieli a gara con quelli del monte Imetto fanno e le olive quelle della virente Venafro eguagliano …e dove Aulone, caro pure a Bacco che tutto feconda, il

il liquor d’uva dei vitigni di Falerno non invidia affatto. Quel luogo e le liete colline Te chiedono accanto a Me; dove tu lacrime spargerai, come l’affetto tuo esige nei confronti miei, sulla cenere ancòra calda dell’amico tuo poeta.”