Riassunto Storie permesse storie proibite, di Valeria Ugazio

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STORIE PERMESSE STORIE PROIBITE Riassunto (cap. 3-7) della nuova edizione ampliata, aggiornata e rivista (2012) Cap. 3 La semantica della libertà e i disturbi fobici 3.I Una conversazione dominata dalla semantica della libertà I soggetti fobici si sentono sull’orlo di un baratro pauroso. La sensazione di allarme di fronte a un futuro segnato dal presentimento di accadimenti che si sentono inadeguati ad affrontare, li accompagna costantemente. Per questo è così importante per loro disporre di punti di riferimento: un matrimonio, un genitore, la routine di un lavoro, le convenzioni sociali. Tuttavia i punti di riferimento, per quanto rassicuranti, sono vissuti come barriere. Un soggetto con organizzazione fobica desidera saltare oltre il limite, andare fuori da un dentro costruito come limitante. La compresenza della paura di fronte a un mondo costruito come pericoloso e del desiderio di disfarsi di ancoraggi e nicchie protettive, così caratteristica delle organizzazioni fobiche, ha una storia ed è fatto di un particolare positioning in una conversazione familiare in cui è dominante un insieme coerente di polarità chiamate “semantica della libertà”. Le polarità principali di questa semantica sono “libertà-dipendenza” e “esplorazione- attaccamento”, e le emozioni che le alimentano sono paura/coraggio. Libertà e indipendenza sono intese in questa forma semantica come libertà e indipendenza dalla relazione e dai suoi vincoli. In virtù della rilevanza di questa semantica, la conversazione in queste famiglie si organizza preferibilmente attorno a episodi dove la paura, il coraggio, il bisogno di protezione e il desiderio di esplorazione e indipendenza svolgono un ruolo centrale. Il mondo è visto come minaccioso, la stessa espressione delle emozioni è considerata fonte di pericolo. L’esito dei processi conversazionali di queste famiglie è che i loro membri si sentiranno, e verranno definiti, timorosi, cauti o al contrario, coraggiosi, addirittura temerari. L’ammirazione, il disprezzo, i conflitti, le alleanze, l’amore, l’odio si giocheranno su temi di libertà/indipendenza. Tanto più questa semantica dominerà la conversazione, tanto più probabili saranno i processi che Bateson ha chiamato schismogenetici. I genitori delle persone con organizzazione fobica presentano ai figli il mondo esterno come pericoloso, sono iperprotettivi e limitano la libertà della prole. La semantica di queste famiglie esprime un ordine morale in cui libertà, indipendenza ed esplorazione sono costruiti come valori, mentre i legami di attaccamento, la compagnia dell’altro sono sentiti come espressione del bisogno di protezione da un mondo “pericoloso”, e di conseguenza sono associati a un certo grado di avvilente dipendenza. I membri di queste famiglie sentono l’amicizia, l’amore e le altre forme di attaccamento in termini parzialmente negativi perchè le costruiscono come forme di dipendenza. Gli episodi in cui l'individuo riesce a far fronte da solo alle circostanze sono invece avvertiti come manifestazioni di libertà e indipendenza. Soprattutto coloro che si pongono nel polo valorizzato sono ammirati, a volte odiati, ma sembrano appartenere, agli occhi dei pazienti agorafobici, ad altre dimensioni dell'essere: il mondo di questi membri della famiglia non ha nulla da spartire con il loro, sono ontologicamente diversi, quasi fossero semidei.

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Riassunto (cap. 3-7) della nuova edizione ampliata, aggiornata e rivista

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STORIE PERMESSESTORIE PROIBITE

Riassunto (cap. 3-7) della nuova edizione ampliata, aggiornata e rivista (2012)

Cap. 3La semantica della libertà e i disturbi fobici

3.I Una conversazione dominata dalla semantica della libertà

I soggetti fobici si sentono sull’orlo di un baratro pauroso. La sensazione di allarme di fronte a un futuro segnato dal presentimento di accadimenti che si sentono inadeguati ad affrontare, li accompagna costantemente. Per questo è così importante per loro disporre di punti di riferimento: un matrimonio, un genitore, la routine di un lavoro, le convenzioni sociali. Tuttavia i punti di riferimento, per quanto rassicuranti, sono vissuti come barriere. Un soggetto con organizzazione fobica desidera saltare oltre il limite, andare fuori da un dentro costruito come limitante.La compresenza della paura di fronte a un mondo costruito come pericoloso e del desiderio di disfarsi di ancoraggi e nicchie protettive, così caratteristica delle organizzazioni fobiche, ha una storia ed è fatto di un particolare positioning in una conversazione familiare in cui è dominante un insieme coerente di polarità chiamate “semantica della libertà”. Le polarità principali di questa semantica sono “libertà-dipendenza” e “esplorazione-attaccamento”, e le emozioni che le alimentano sono paura/coraggio. Libertà e indipendenza sono intese in questa forma semantica come libertà e indipendenza dalla relazione e dai suoi vincoli.

In virtù della rilevanza di questa semantica, la conversazione in queste famiglie si organizza preferibilmente attorno a episodi dove la paura, il coraggio, il bisogno di protezione e il desiderio di esplorazione e indipendenza svolgono un ruolo centrale.Il mondo è visto come minaccioso, la stessa espressione delle emozioni è considerata fonte di pericolo. L’esito dei processi conversazionali di queste famiglie è che i loro membri si sentiranno, e verranno definiti, timorosi, cauti o al contrario, coraggiosi, addirittura temerari. L’ammirazione, il disprezzo, i conflitti, le alleanze, l’amore, l’odio si giocheranno su temi di libertà/indipendenza. Tanto più questa semantica dominerà la conversazione, tanto più probabili saranno i processi che Bateson ha chiamato schismogenetici.

I genitori delle persone con organizzazione fobica presentano ai figli il mondo esterno come pericoloso, sono iperprotettivi e limitano la libertà della prole. La semantica di queste famiglie esprime un ordine morale in cui libertà, indipendenza ed esplorazione sono costruiti come valori, mentre i legami di attaccamento, la compagnia dell’altro sono sentiti come espressione del bisogno di protezione da un mondo “pericoloso”, e di conseguenza sono associati a un certo grado di avvilente dipendenza. I membri di queste famiglie sentono l’amicizia, l’amore e le altre forme di attaccamento in termini parzialmente negativi perchè le costruiscono come forme di dipendenza. Gli episodi in cui l'individuo riesce a far fronte da solo alle circostanze sono invece avvertiti come manifestazioni di libertà e indipendenza. Soprattutto coloro che si pongono nel polo valorizzato sono ammirati, a volte odiati, ma sembrano appartenere, agli occhi dei pazienti agorafobici, ad altre dimensioni dell'essere: il mondo di questi membri della famiglia non ha nulla da spartire con il loro, sono ontologicamente diversi, quasi fossero semidei.

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Anche se costruita e resa dominante con il concorso di tutti i partner conversazionali, questa semantica non riveste per tutti la stessa importanza. Per alcuni membri della famiglia altre semantiche saranno altrettanto o più importanti.

3.2. Un dilemma che minaccia una trama narrativa

La presenza della semantica della libertà è una sorta di condizione necessaria, ma non sufficiente della psicopatologia fobica. Tutti i membri della famiglia contribuiscono a costruire nella conversazione la semantica della libertà, ma soltanto uno, di regola, sviluppa un’organizzazione fobica. E’ il positioning che i soggetti assumono dentro questo semantica a contribuire in modo decisivo allo sviluppo della psicopatologia. La semplice partecipazione a una conversazione in cui domina la semantica della libertà non sembra sufficiente a spiegare lo sviluppo di un’organizzazione fobica. La posizione del paziente nella semantica della libertà è una posizione relativa alla cui costruzione concorrono, oltre al soggetto fobico, altri membri della famiglia. La narrazione del paziente tende a centrare l'attenzione su se stesso, sottovalutando la natura relativa del proprio positioning.

In accordo con Guidano e altri cognitivisti, il soggetto fobico tenta di trovare un equilibrio tra due esigenze ugualmente irrinunciabili: il bisogno di protezione da un mondo percepito come pericoloso e il bisogno di libertà e indipendenza. Trovare una mediazione fra queste due esigenze è per lui difficile. Attaccamento ed esplorazione vengono infatti, sentiti come inconciliabili. Poiché il soggetto costruisce la realtà come minacciosa e se stesso come affetto da qualche forma di debolezza psicologica o fisica, non può fare a meno della relazione con figure rassicuranti. Ogni allontanamento fisico o psicologico da tali figure lo pone di fronte al rischio di trovarsi in balia della propria fragilità e debolezza. D’altra parte il mantenimento di una relazione stretta con figure protettive si accompagna a un senso penoso di costrizione e limitazione. Alla base dei problemi del paziente vi è il seguente dilemma: esplorare liberamente trovandosi soli, in balia di pericoli che non si è in grado di affrontare, oppure essere soffocati dalla protezione rassicurante della famiglia o di altre nicchie protettive. Detto nei termini dei conflitti implicativi, il costrutto “libero”, comporta quello “solo”, mentre il costrutto “protetto” implica “dipendente”.Questo dilemma, che gli autori cognitivisti precedentemente citati considerano, e con ragione, l’elemento caratterizzante l’organizzazione fobica, condivide le caratteristiche di un circuito riflessivo bizzarro che investe i livelli del sé e della relazione. Per questa organizzazione non è problematico soltanto l’aspetto protettivo della relazione; la stessa possibilità di costruire e mantenere legami affettivi è avvertita come limitante. Il soggetto fobico sente, l’amore, l’amicizia e tutti i legami come forme di dipendenza. La relazione, in quanto tale, diventa, almeno in parte, intransitiva con l’autostima. Disporre di una relazione coinvolgente e appagante significa, per il soggetto, essere protetto, poter confidare sulla vicinanza di qualcuno che l’aiuta a far fronte alla paura, ma si traduce in un’avvilente dipendenza che restituisce al soggetto un’immagine negativa di sé. D’altra parte, acquisire un’immagine positiva di sé richiede essere autonomo, indipendente dagli altri, solo. Un’impresa impossibile per chi è cresciuto entro la premessa che il mondo è pericoloso e la convinzione di essere debole.

Quando episodi e situazioni interpersonali specifici rendono massima la riflessività del circuito bizzarro, il soggetto non ha più una trama narrativa entro la quale “con-porsi”: la sua posizione è intrappolata in una serie di prospettive inconciliabili e slittanti. Se il soggetto cerca di mantenere la relazione e quindi si sente protetto, è soffocato da un'avvilente dipendenza; se cerca di raggiungere l'autonomia, e di conseguenza il rispetto di se stesso, è sopraffatto dalla paura perchè si sente solo in balia di un mondo pericoloso.Nel momento di massima riflessività del circuito bizzarro sperimentano la depersonalizzazione.

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Quando la riflessività del circuito bizzarro raggiunge livelli elevati, l’insorgere della tradizionale sintomatologia fobica consente di ridurre la riflessività entro limiti accettabili, tali comunque da non richiedere il ricorso a meccanismi così drammatici come la depersonalizzazione. Con lo sviluppo dei sintomi, l’individuo mantiene la relazione protettiva, ma ciò non costituisce più un attacco inaccettabile all’autostima. La dipendenza dalla relazione è ora giustificata da un evento esterno, non voluto e incontrollabile: la “malattia”.La sintomatologia rende il soggetto meno insofferente ai vincoli che gli impone la famiglia, ora deve accettarli perché ora non è più autosufficiente. La tendenza dei soggetti fobici è di avvertire le sensazioni e le emozioni come se fossero eventi esterni al sé (Guidano).

Per Guidano e gli altri autori cognitivisti questa tendenza è una conseguenza dell’abitudine a controllare esageratamente le proprie emozioni e i propri stati interni.

Per Ugazio essa consente anche ai soggetti fobici di attribuire la propria esigenza di legami protettivi a ragioni esterne – oggettive – e ineludibili: gli accadimenti somatici, tra cui rientrano emozioni e sensazioni di regola costruite dai soggetti fobici come eventi fisici. Trattandosi di forze esterne e ineludibili, l’autostima ne risulta meno intaccata.La costruzione di emozioni e sensazioni come eventi esterni al sé facilita il controllo esasperato delle relazioni interpersonali, caratteristico di questa organizzazione. Per contenere il grado di riflessività del circuito bizzarro il soggetto ha bisogno di mantenere la relazione, ma nello stesso tempo deve sentirsi libero da legami: tentare di esercitare un controllo unidirezionale sull’altro, date queste premesse, è una necessità. Tutta la strategia interpersonale fobica è manipolatoria perché è un tentativo occulto – forse in parte intenzionale – di indurre l’altro a coinvolgersi e a essere sempre disponibile, senza che il soggetto s’impegni a sua volta nella relazione. Per questo le persone con questa organizzazione prediligono, nella definizione delle relazioni, gli aspetti non verbali, tra i quali rientrano i sintomi.

3.3. Storie permesse e storie proibite

E’ possibile ricondurre la gamma dei modi di funzionamento precedenti l’esordio sintomatico a un continuum con agli estremi due strategie.

1. Strategia del distanziamento emotivo – frequente nei soggetti con sintomi claustrofobici;2. Strategia della vicinanza limitante – frequente nei soggetti con sintomi agorafobici.

(1) I soggetti con strategia da distanziamento emotivo si sentivano, ed erano considerati dagli altri, persone libere, indipendenti, capaci di cavarsela da sole. Prima dell’esordio sintomatico si collocavano nel polo positivo della semantica della libertà e sembravano avere un’autostima piuttosto alta. Per mantenere questa posizione avevano escluso, o contenuto il più possibile, negli anni precedenti lo scoppio della sintomatologia, i comportamenti emotivi ed espansivi. Il timore sottostante era che il coinvolgimento emotivo li avrebbe condotti a percepirsi come dipendenti dagli altri, e a perdere di conseguenza la valutazione positiva di sé. Autostima ed equilibrio sembravano mantenuti al prezzo di evitare il coinvolgimento emotivo, avvertito come distruttivo e limitante le capacità di funzionamento individuale. L'intimità suscitava in loro emozioni positive ed era avvertita come gratificante; i legami emotivi erano tuttavia sentiti, anche prima dell'esprdio sntomatico, come disturbanti il proprio funzionamento e quindi l'autostima.

Le persone con questa strategia non risultavano mai del tutto prive di legami. Di regola, disponevano, di diverse relazioni affettive “tenute a distanza”. Vi è la tendenza, fra queszti soggetti, ad avere molte storie brevi e superficiali. Oppure il partner, sposato in età matura, era già stato “scelto” dieci o quindici anni prima, ma la relazione era stata

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mantenuta in una sorta di limbo, anche se il futuro compagno non era stato mai completamente perso di vista.Essi hanno così paura dei legami perché per loro, come per i soggetti con strategia opposta, i legami sono irrevocabili.Una relazione stretta non comporta solo il rischio di perdere la propria autonomia e indipendenza su cui si fonda in modo cruciale la loro autostima. Lo stringersi di un legame risulta ancora più inquietante per l’estrema difficoltà a romperlo: una volta stabilita una relazione significativa, è difficile per loro uscirne emotivamente.La tendenza a non rompere i legami importanti riguarda l’organizzazione fobica nella sua globalità, non solo i soggetti con questa strategia. Trasformare la natura delle relazioni è invece una storia permessa: l’ex partner diventerà ad esempio un amico, una sorta di parente con cui non ha più né coinvolgimento sentimentale, né progetti comuni, ma con il quale rimane un attaccamento.Nei soggetti con strategia del distanziamento emotivo questa tendenza, comune all'intera organizzazione fobica , acuisce la paura di coinvolgersi entro una relazione perchè genera il terrore di cadere in balia dell'altro e non essere più in grado di uscire dalla gabbia che il legame ha creato. Di qui la tendenza a scegliere partner più coinvolti e dipendenti dal legame di quanto lo siano loro.

(2) Le persone con strategia della vicinanza limitante, di regola agorafobici, si collocavano, anche prima dell’esordio sintomatico, nel polo svalutato della semantica della libertà.Molte di queste persone erano rimaste tutta la vita là dove erano nate, passando da un attaccamento molto intenso, esclusivo, con uno dei genitori a un legame altrettanto ravvicinato con il partner. Altrettanto caratteristica, era la tendenza a controllare le figure di riferimento, a sottoporre la relazione a continue verifiche e a soffrire per distacchi e allontanamenti fisici o psicologici anche temporanei. Queste persone davano la priorità alla vita di relazione e alle sue esigenze. Sebbene si collocassero anche prima dello scoppio della psicopatologia entro i poli “dipendenza, attaccamento”, valorizzavano “libertà, indipendenza”: erano quello che erano a causa di qualche costrizione esterna.La tendenza a ricercare legami protettivi era attribuita a cause specifiche inibenti la loro “vera” natura: erano deboli di salute, non erano abili nel controllare le emozioni, avevano alle spalle una storia che li aveva limitati. Proprio a motivo della loro scarsa indipendenza e autonomia, avevano già prima dello sviluppo della sintomatologia un'autostima mortificata: non erano quelli che avrebbero dovuto essere. La valutazione negativa del sé non riguardava di regola la propria amabilità e piacevolezza, ma la sfera dell'autonomia personale e delle relazioni connesse.

Si riscontra la presenza di forte gelosia nei partner (siano essi mariti o mogli) dei soggetti agorafobici. La gelosia sembrerebbe una risposta appropriata alle fantasie di liberazione di fuga dal matrimonio, spesso presenti anche nei soggetti con strategia della vicinanza limitante. Di regola non le realizzano, ma sono presenti (insoddisfazione del matrimonio con fantasia di una separazione liberatoria ma temuta per paura della solitudine).In realtà, più nel dettaglio, ciò è dovuto al fatto che le persone con questa strategia tendono inconsapevolmente, attraverso comportamenti non verbali indicanti desideri di fuga, a sollecitare la gelosia e il controllo del partner perché temono, se lasciate libere, di perdere il controllo delle proprie emozioni. L'agorafobia è un sintomo della paura della propria libertà.

Entrambe le strategie illustrate permettono di superare il dilemma, caratteristico di questa organizzazione: la riflessività del circuito ricorsivo bizzarro viene contenuta. L’una ottiene questo scopo privilegiando il sé a danno della relazione. Nell’altra è la relazione a essere anteposta al sé.

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3.4. Il contesto intersoggettivo nel momento presente: un “positioning” in equilibrio precario tra due sottosistemi

Fino agli ultimi vent'anni, i clinici hanno abbracciato l'ipotesi di una complementarità patologica tra il paziente agorafobico e il suo partner.Ma questa ipotesi è poco specifica perchè la condizione descritta può, in verità, essere essere estesa anche ad altre condizioni patologiche.L'attenzione alla sola coppia coniugale è il limite principale di questi modelli. Questa scelta risulta particolarmente inopportuna in un’organizzazione come quella fobica che privilegia le relazioni verticali rispetto a quelle orizzontali.

I soggetti con organizzazione fobica (come i giapponesi) antepongono al rapporto coniugale le relazioni con i genitori, e spesso con i figli. Le relazioni verticali sono più sicure di quelle orizzontali. La percezione della vulnerabilità della condizione umana, la costruzione del mondo come pericoloso e le credenze catastrofiche introducono i soggetti fobici a mantenere molto a lungo i legami protettivi con i genitori e la famiglia di origine. Quando questi non sono più in grado di fungere da base sicura altri sistemi di relazione li sostituiscono. E’ comunque molto difficile che il soggetto fobico si consegni totalmente alla relazione coniugale come accade ad altre organizzazioni. Il mondo è troppo pericoloso per confidare in una sola relazione. Persino una relazione extraconiugale può salvare la persona fobica dal sentirsi in balia di un legame esclusivo.Le dinamiche relazionali che precedono e accompagnano l'esordio sintomatico negli adulti normalmente non sono estranee alla relazione coniugale.Di regola la situazione relazione che conduce all’esordio sintomatico rompe la complementarietà fra la relazione coniugale e un altro sistema di relazioni, altrettanto vitale per il soggetto quanto la relazione per il partner.Rotture, minacce di separazioni, lo stringersi di una relazione, la nascita di un figlio, e tutti gli altri eventi che innescano l’esordio sintomatico negli adulti, diventano critici perché alterano la posizione del soggetto fobico nella semantica della libertà in equilibrio precario fra perlomeno due sistemi di relazioni altrettanto importanti. Di questi almeno uno è rappresentato da relazioni verticali. E spesso l’esordio sintomatico produce l’effetto pragmatico di consentire al paziente di mantenere relazioni strette con entrambi i sistemi da cui dipende, evitando la minaccia che l’uno esclude e ridimensioni troppo l’altro.

Il paziente è in una posizione dipendente e si sente umiliato per questo. Il partner può avere due positioning molto diversi: Può essere libero, indipendente e fuggitivo, come sono spesso i partner soggetti agorafobici. Oltre a essere stimato, ammirato, questo tipo di coniuge consente al paziente di sentirsi libero, ma non fornisce protezione e guida. Per quanto i sintomi possano ridurre la sua indipendenza, questo coniuge non fornirà mai la garanzia di essere presente quando il paziente ne ha bisogno. E’ nella sostanza inaffidabile. Il partner può invece essere una persona protettiva proprio perché autonoma, forte e assertiva: a lui o a lei è possibile appoggiarsi, la sua presenza è tutelante. Un coniuge protettivo finisce però per essere limitante, fonte di costrizioni poco tollerabili, che abbassano l’autostima. Sovente, accade che la scelta dei soggetti claustrofobici cada su un partner debole, dipendente e insicuro. Il paziente in questo terzo scenario, domina la relazione coniugale e aiutando il partner, acquista sicurezza, ma se si destabilizza non può contare sul partner.

In tutti i casi la relazione coniugale e la sua dinamica interna è complementare a un’altra relazione o fascio di relazioni, se non più importanti, ugualmente fondamentali per il soggetto fobico.

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La scelta di un partner fuggitivo consente e rende necessario alla persona con organizzazione fobica il mantenimento di legami forti con la famiglia di origine, dove perlomeno un membro continua ad assumere con il paziente una posizione protettiva. In una cultura come quella italiana dove i legami con la famiglia di origine si mantengono stretti durante tutta la vita questa è la situazione più frequente. La posizione protettiva può essere tuttavia assunta da un figlio, specialmente quando il soggetto fobico è in età matura, oppure da un datore di lavoro, un amico molto stretto o anche una relazione extraconiugale stabile.

L’esordio sintomatico negli adulti sembra essere l’esito di cambiamenti che alterano l’equilibrio fra i due sistemi di relazione entro cui il soggetto componendosi contiene la riflessività del circuito riflessivo.

Come spesso accade quando il partner è in posizione protettiva, e quindi si propone come possibile sostituto di relazioni verticali protettive, l’esordio sintomatico neutralizza, il rischio che la relazione coniugale allontani troppo la persona con organizzazione fobica dal legame protettivo con la famiglia di origine. Grazie ai sintomi il paziente riesce spesso a mantenere un legame altrettanto stretto con entrambi i sistemi di relazione. La malattia non lo consegna inerme nelle mani di nessuno dei due sistemi.

3.5. Il contesto intersoggettivo originario: cosa raccontano i pazienti ai terapeuti sistemici

Principale riferimento dei modelli che hanno cercato di individuare le origini relazionali di questa psicopatologia è Bowlby, che riconduce la psicopatologia fobica a specifici pattern d’interazione familiare.B. individua quattro situazioni prototipiche diverse ma con un esito comune: generare un attaccamento del bambino ai genitori così insicuro e ansioso da non consentirgli il normale distacco richiesto dalla frequenza scolastica. Due di queste situazioni sono una conseguenza diretta del comportamento di uno dei genitori che trattiene a casa il bambino.

Il genitore (iperprotettivo) teme per il bambino il gentiore ha bisogno della compagnia del bambino

Il ruolo dei genitori è invece indiretto nelle altre due situazioni: il bambino teme per la madre/il padre il bambino ha paura di allontanarsi da casa perchè non la sente “base sicura” a seguito di

minacce di abbandono.È quindi un discorso di ansia da separazione a causa di pattern di attaccamento ansioso.

Secondo Guidano alla base dell’organizzazione fobica vi è una limitazione, perlopiù indiretta, del comportamento esplorativo del bambino da parte della figura di attaccamento principale. Guidano individua due pattern di attaccamento disfunzionali.

o il normale interesse esplorativo del bambino è impedito da un comportamento iperprotettivo della figura principale di riferimento.

o l’inibizione dell’esplorazione avviene attraverso un comportamento rifiutante dei genitori (minacce di abbandono)

→ Il contesto fobico sembrerebbe violare i bisogni biologici di esplorazione del bambino.

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Questa spiegazione è in contrasto con i presupposti su cui si fondano le psicoterapie sistemiche. Per l’approccio sistemico e per il costruzionismo, i bisogni sono socialmente definiti e le deprivazioni sempre relative. La loro percezione dipende più che da condizioni “oggettive” e assolute, dal confronto sociale e dai criteri che tale confronto mette in gioco. Il far appello a limiti biologici, astorici, immutabili per un comportamento come quello esplorativo, che presenta differenze così profonde nelle varie culture, credo sollevi perplessità anche in chi è lontano dal costruzionismo.Le ragioni d'insoddisfazione verso il modello cognitivista biologico sono:

1. Il modello non è specifico; esperienze memorizzate di attaccamento ansioso caratterizzano non soltanto l’agorafobia e gli altri disturbi delle spettro fobico, ma anche altre psicopatologie, dai disturbi post-traumatici da stress ai disturbi ossessivo-compulsivi, dalla depressione ai disturbi borderline.

2. Il modello non rende ragione del bisogno di libertà e indipendenza caratteristico dell’organizzazione fobica. Anche chi soffre di agorafobia, pur legandosi in modo irrevocabile a una figura di attaccamento, mantiene nella fantasia costanti desideri di evasione e fuga.

Il modello di Bowlby non rende conto della strategia adattiva del distanziamento emotivo. Esso rende conto solo dell’intenso bisogno di protezione da un mondo percepito come pericoloso, ma trascura la specificità dell’organizzazione fobica, in cui il bisogno di attaccamento è vissuto in antagonismo con il desiderio, altrettanto intenso, di libertà e indipendenza. B. prende in considerazione soltanto l’agorafobia.

La presenza di bisogni antagonisti è invece pienamente riconosciuta da Guidano e altri autori cognitivisti, ma il loro modello eziopatogenetico come quello di B. spiega soltanto l’inibizione del comportamento esplorativo, che è presente nell’organizzazione fobica, ma anche in altre condizioni patologiche.

Il modello di Ugazio è capace di dare ragione di ciò che più caratterizza l’organizzazione fobica: la costruzione di attaccamento ed esplorazione come reciprocamente escludentesi. L’approccio sistemico permette di contestualizzare la relazione diadica adulto-bambino all’interno della rete di relazioni che i membri di questa coppia intrattengono con altre figure significative.La dinamica delle interazioni triadiche svolge un ruolo centrale. L’utilizzo di schemi esplicativi perlomeno triadici è uno dei tratti tipici delle terapie sistemiche, estranea a B. e ai cognitivisti che invece li usano diadici.

Il modello sistemico di Ugazio convalida l’ipotesi che il bambino abbia una relazione di attaccamento preferenziale con un membro della famiglia (che per comodità identificheremo con la madre), come nel modello di B. e cognitivisti, ma il punto è che questo adulto è coinvolto in un legame affettivo particolarmente intenso con un membro della famiglia che si colloca nel polo “libertà-indipendenza” della semantica critica. Può essere il marito, talvolta un altro figlio o anche un genitore. Si tratta del familiare con cui la madre ha il legame più intenso. Di regola questa persona è coinvolta nella relazione meno di quanto la madre desidererebbe: è “fuggitiva” a livelli e in misura variabili, tale comunque da generare nella madre sentimenti di insicurezza e di pesanti critiche a motivo di acuta sofferenza, tuttavia l’autonomia e l’indipendenza che esprime sono ammirate, in taluni casi invidiate, dalla madre e dagli altri membri della famiglia che condividono la valorizzazione del polo “libertà-indipendenza”.Man mano che il bambino percepisce la propria situazione relazionale nei termini descritti, costruisce progressivamente il proprio desiderio di legami affettivi intensi e il bisogno di libertà come reciprocamente escludentisi. La relazione nella quale è coinvolto con la madre prevede una drastica riduzione dei comportamenti

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esplorativi, ma questi stessi comportamenti, che la madre scoraggia in lui, sono invece caratteristici della figura emotivamente più importante per lei.Mantenere la relazione con la madre significa quindi per il bambino ricevere una definizione negativa di sé, dove la negatività di tale definizione è data dal fatto che la madre valorizza un membro della famiglia che ha un comportamento opposto a quello sollecitato nel bambino. Frequentemente inoltre, il bambino si trova a svolgere un ruolo consolatorio per la madre.Accade semplicemente che la madre, essendo fortemente coinvolta in una relazione affettiva con un partner indipendente e spesso fuggitivo sviluppi sentimenti di insicurezza e desideri di rassicurazione. Il bambino, che è organizzato in modo da adattarsi all’adulto che si prende cura di lui, percepisce questo stato emotivo della madre e sviluppa comportamenti a esso complementari.

1.6. Una premessa culturale patogena?

Molte persone pur non avendo un orientamento fobico, sperimentano lo stringersi di un legame come minacciante la loro autonomia. E’ infatti presente nella nostra cultura un certo grado di intransitività fra il mantenimento dei legami, il riconoscimento che l’altro ci è necessario e l’autostima che riponiamo in noi stessi in quanto soggetti autonomi e indipendenti.Perché si strutturi un positioning come quello del soggetto con organizzazione fobica è necessaria una storia familiare che, per motivi diversi, renda centrale e schismogenetica la dimensione semantica “dipendenza, bisogno di protezione-libertà, indipendenza”, così come è necessario che si crei uno specifico contesto intersoggettivo. Il soggetto fobico porta alle estreme conseguenze una premessa che trova nel più vasto mondo che lo circonda: l’idea di libertà come assoluta e solitaria indipendenza dalle relazioni. Né la libertà, né la sua assenza, conducono il soggetto fobico nel vicolo cieco di una patologia conclamata, ma l’idea di libertà come emancipazione dalla relazione e dai suoi vincoli.Questa idea di libertà è un concetto squisitamente moderno tipicamente occidentale e non ha nulla a che fare con quell'indipendenza (autarcheia) che era il risultato di un buon governo di tutte le relazioni entro le quali un uomo si trovava inserito e senza le quali non poteva neppure essere detto uomo, ma bestia o dio.L’idea di libertà che ritroviamo nelle strategie fobiche si collega a una visione del singolo disconnesso dal gruppo, come un piccolo mondo a sé che esiste indipendentemente dal più vasto mondo. In questa prospettiva, la società è “un ammasso di monadi senza finestre”. Nell’autocoscienza questa idea si presenta come una sensazione che il vero, la propria essenza, sia qualcosa di interno, di separato da tutti gli altri uomini e cose “all’esterno”. E’ l’homo clausus, per lui l’io è una gabbia o una nicchia: qualsiasi altro uomo gli appare ugualmente un homo clausus, anche il suo nocciolo, il suo effettivo, sembra qualcosa che, al suo interno, è separato mediante un muro invisibile da tutto ciò che sta fuori, e quindi anche da tutti gli altri uomini.Ciò che importa sottolineare è che l’idea di libertà come indipendenza dalle relazioni trova le sue radici in questa concezione che attribuisce all’uomo un’esistenza separata dalla natura e dal mondo sociale. Bateson aveva contrapposto a questa visione della mente, frutto dell’orgoglio simmetrico (hybris), l’epistemologia della teoria dei sistemi. Per quest’ultima l’individuo e i suoi processi mentali non esistono se non in connessione con il contesto di cui sono parte.

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Cap. 4Tra bene e male: i disturbi ossessivi

4.I Quando la vita sta dalla parte del male

Nelle famiglie al cui interno si sviluppano le organizzazioni ossessivo-compulsive, al centro della dinamica emotiva vi è la contrapposizione fra bene e male. La polarità semantica critica è “buono-cattivo”. L’importanza che questa semantica assume fa sì che la conversazione in queste famiglie si organizzi preferibilmente intorno a episodi che mettono in gioco la deliberata volontà di fare il male, egoismo, avidità, godimento colpevole dei sensi, ma anche bontà, purezza, innocenza, ascesi, così come sacrificio e abnegazione.

Incontreranno persone che li salveranno, li eleveranno o, al contrario, che li inizieranno al vizio, li indurranno a comportamenti di cui potranno poi sentirsi colpevoli. Sposeranno persone capaci di abnegazione, innocenti, pure o, invece, crudeli, egoiste che approfitteranno di loro.

Specialmente nelle famiglie dove questa polarità domina la conversazione da diverse generazioni ci sarà chi ha dato prova di particolare abnegazione tanto da sembrare un asceta e chi ha espresso i propri impulsi in modo così egoista da essere considerato malvagio.

Valori:Bene(astinente)/MaleCastità/VizioSacrificio/EgoismoSantità/Empietà

Emozioni:Innocenza/ColpaDisgusto/Godimento

La contrapposizione fra bene e male che domina la conversazione in queste famiglie è opposta a quella agostiniana. Per Agostino le tenebre sono mancanza di luce, così che il male non avrebbe realtà propria, ma sarebbe soltanto privazione del bene, un non-essere.

Per le famiglie di cui ci stiamo occupando, al contrario, è il bene a essere una privazione di male. La bontà che ritroviamo in alcuni di loro è “astinente”, perché non è altro che un’assenza di male. Buono è chi rinuncia all’espressione dei propri desideri e alla difesa dei propri interessi, chi si sacrifica, chi si allontana dalla dinamica “pulsionale”, e non chi è disponibile, accogliente, garbato e generoso verso gli altri. Cattivo è chi esprime la propria sessualità e le proprie “pulsioni” aggressive. In queste famiglie, a causa di eventi drammatici (quali vessazioni, stupri, maltrattamenti, imbrogli o altre nefandezze) di cui, in un passato più o meno remoto, alcuni di loro sono stati vittime o protagonisti, sessualità e affermazione di sé sono di fatto espresse in modo quanto meno egoista.

Un certo pathos tragico è presente perché la polarità critica s’intreccia in queste famiglie con vita e morte e la vita sta dalla parte del male.

Le istanze vitali – sessualità, affermazione di sé, investimenti su persone e cose – sono il luogo in cui si esplica il male, mentre sacrificio, rinuncia e ascesi vengono identificati con il bene.

A causa della concezione “astinente” – o se preferite “sottrattiva” – della bontà tipica di queste famiglie, le polarità “puro/impuro” o “puro/vizioso” esprimono forse meglio di bene e male il tratto

Bene MaleMorte VitaRinuncia Godimento

Il sacrificio è Il godimento è purezza. egoismo violenza, sopraffazione.

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centrale della semantica della bontà. Queste polarità richiamano però la sessualità che non sempre è al centro della conversazione di queste famiglie.

Le emozioni che stanno alla base di questa semantica sono colpa/innocenza e disgusto/gradimento dei sensi. Proprio perché la sessualità e l’affermazione personale sono congiunte a violenza, sopraffazione, la loro espressione genera senso di colpa e disgusto, mentre la rinuncia pulsionale, l’abnegazione, è associata a purezza e innocenza.

La cultura di molte famiglie in cui si sviluppano organizzazioni ossessive è impregnata di valori religiosi, in altre prevale l’adesione a principi universalisti come il socialismo o ideologie che prevedono il sacrificio dei bisogni individuali a favore di istanze ideali, comunque in tutte queste famiglie è presente una concezione sottrattiva della bontà, non sempre sono gli impulsi sessuali a dover essere trascesi, a volte ad essere assimilati al male sono il denaro, il desiderio di emergere di affermare la propria personalità, le attività imprenditoriali e finanziarie.

In queste famiglie, accanto a persone che contengono le emozioni, e che sono connotate positivamente, ci sono figure che vivono emozioni, passioni, impulsi fortissimi.

Il punto è che si tratta di impulsi colpevoli, egoisti, a volte perversi o malvagi, ma che esercitano sul nucleo familiare un evidente fascino: in essi scorre la vita.Il problema di questi contesti familiari non è quindi la carenza di emotività, è se mai il modo prepotente, aggressivo, a volte perverso, che accompagna le emozioni laddove e quando sono espresse.

Un copione che si ripete nella storia di molti pazienti vede il genitore “pulsionale” esteriorizzare i propri impulsi colpevoli – perlopiù prepotenza, aggressività, a volte anche sadismo – verso il partner “astinente”, e secondariamente verso il futuro paziente ossessivo.

4.2 Alle origini del dubbio

Nei soggetti ossessivi la fluttuazione, esito del circuito riflessivo bizzarro, è interna al sé: il soggetto, entrando in relazioni significative, diventa preda di percezioni di se sesso discrepanti. Il coinvolgimento erotico, ma anche l’investimento su persone o progetti finalizzati alla propria affermazione personale, rompono il sentimento di unità del sé, perché generano percezioni antitetiche, ovvero creano una scissione tra una parte buona, giusta, e una cattiva, sbagliata. Quando la riflessività è massima il soggetto oscilla tra percezioni di se stesso totalmente dicotomiche, il coinvolgimento erotico e l’affermazione personale diventano intransitivi con una percezione unitaria di sé.Il soggetto avverte una scissione interna, una contrapposizione fra due percezioni di sé antitetiche: una parte giusta e buona, che deve essere confermata, e una parte sbagliata e cattiva che deve essere controllata, combattuta o addirittura soppressa.

Cosa induce il paziente a sperimentare la scissione nel qui e ora? Le immagini dicotomiche che scandiscono il circuito bizzarro derivano da due alternative altrettanto inaccettabili:

a) La prima è di essere coinvolti in relazioni gratificanti, esteriorizzarsi, affermare se stessi entrando in relazioni “pulsionali” con il mondo. Per le persone con organizzazione ossessiva questo significa “sporcare”o “sporcarsi”, infettare o essere infettati; implica diventare cattivi, corrotti, disgustosi, e di conseguenza esporsi al rischio sia di perdere le relazioni di attaccamento più significative, sia di essere puniti. Di qui l’importanza che il tabù del contatto riveste nei disturbi ossessivi. Come sottolineato da Freud, il contatto corporeo esprime simbolicamente il coinvolgimento, sia esso di natura erotica o aggressiva; per questo diventa nelle organizzazioni ossessive il punto centrale di un sistema di proibizioni.

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b) Nella seconda alternativa, comunque inaccettabile per gli ossessivi, rispettare il tabù del contatto, essere puri, significa essere amabili, ma richiede il ritiro, la rinuncia ad ogni coinvolgimento gratificante con gli altri, e conseguentemente il sacrificio di sé.

→ Esprimere la propria aggressività e sessualità, ricercare la propria affermazione personale, coinvolgersi in relazioni appaganti, ricercare la propria affermazione personale, coinvolgersi in relazioni appaganti, significa quindi essere cattivi e indegni d’amore; mentre essere amabili, degni di amore, richiede l’annullamento, il sacrificio si sé. Di qui l’oscillazione continua fra un’immagine di sé buona, ma sacrificale, in ultima istanza mortifera, e una vita, ma intrinsecamente malvagia, che conduce al rifiuto, alla reiezione.

Questo dilemma mette in gioco vita e morte, perché essere buoni significa fare un passo indietro rispetto alla vita, morire, ma vivere equivale a diventare malvagi, e quindi esporsi al pericolo di essere rifiutati, e essere bersaglio di vendette.Di fronte ad un alternativa tanto radicale, il dubbio, la ricerca di certezza e la conseguente paralisi decisionale, che spesso funesta la vita degli ossessivi, si rivelano strategie intelligenti di sopravvivenza.(Eppure gli altri membri della famiglia sono in grado di fronteggiare questo dilemma insito nella semantica della bontà, posizionandosi fra gli “astinenti” o tra i “pulsionali”. Rinunciano, fanno un passo indietro rispetto alla vita o si immergono in essa accettando la connotazione negativa che ne deriva e gli eventuali sensi di colpa).

Due condizioni emotive rendono impossibile alle organizzazioni ossessive, posizionarsi con gli uni o con gli altri o collocarsi serenamente in posizione mediana: una è segnata da paura/angoscia, l'altra da mortificazione/avvilimento.

La paura viene di regola sperimentata quando entrano nella vita, esprimono i propri impulsi e si sentono di conseguenza cattivi. Più che di paura vera e propria, si tratta spesso di angoscia. La paura è sempre paura di qualcosa di determinato, mentre l'angoscia non si riferisce a nulla di preciso. Il soggetto ossessivo, quando si coinvolge in relazioni gratificanti, si sente in pericolo, e gli è spesso difficile circoscrivere la fonte del suo stato di allerta.

Mortificazione e avvilimento sono invece avvertite quando rinuncia: sentirsi puro, corretto, significa per queste persone essere sopraffatti da sentimenti di mortificazione e di annullamento che, a loro volta, sono generativi di rabbia e di rancore.

Sono questi due stati emotivi (paura/angoscia e mortificazione/avvilimento) a impedire al soggetto di collocarsi nell'uno o nell'altro polo e a consegnarlo a un'oscillazione continua e quando la riflessività raggiunge il suo acme, il soggetto viene fatto rimbalzare tra due immagini di sé antitetiche, perché il sé cattivo generando paura e angoscia deve essere rapidamente abbandonata, il sé buono creando avvilimento non può essere mantenuto. Il soggetto con organizzazione ossessiva è l’unico all’interno della propria famiglia, a sperimentare, in modo sistematico, in questi contesti, queste condizioni emotive.

Alla base della paura e dell’angoscia degli ossessivi vi sono pericoli ben precisi: perdere i legami con le figure principali di attaccamento rischio di punizioni e di rappresaglie alla propria integrità fisica (Freud e i cognitivisti

riconducono questo rischio al complesso edipico)I sentimenti di mortificazione e avvilimento derivano invece dalla rinuncia ai propri desideri e impulsi.

Per il soggetto ossessivo, astenersi dal coinvolgimento pulsionale significa annientarsi. Quando la riflessività del circuito è massima, la rinuncia viene vissuta come un’intollerabile mortificazione, che genera rabbia e risentimento.

Diversamente dagli psicanalisti, Ugazio ritiene che proprio la mortificazione, e l’avvilimento, che di regola vengono nascosti, ma al contrario sono esternati dal tono della voce, dallo sguardo, dalla

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mimica facciale, dalla postura, danno la misura di quanto pesi la rinuncia al piacere delle persone con questa organizzazione. Un sentimento così acuto di privazione non sarebbe presente se il desiderio non fosse perentorio, se la volontà di affermazione non fosse prepotente.

Il soggetto con organizzazione ossessiva non si costruisce né all’interno della polarità “bontà/purezza”, né all’estremo opposto cattiveria/vizio: si mantiene in posizione mediana, anche se generalmente in una posizione più prossima all’estremo purezza/bontà/ascesi, ma sempre mantenendosi entro la posizione di mezzo e riducendo la riflessività del circuito attraverso operazioni di bilanciamento e sbilanciamento verso i due estremi. Le emozioni caratteristiche sono esperite sistematicamente anche quando la riflessività del circuito è contenuta. Quando la riflessività del circuito diventa massima, qualsiasi oscillazione verso l’uno o l’altro degli estremi, per quanto bilanciata, risulta inaccettabile. Il soggetto entra così nella zona di naufragio della posizione di mezzo. I processi di esteriorizzazione anche se parziali, lasciano il posto ai processi implogenetici, l’individuo tenta sempre più di non definirsi rispetto agli estremi, facendo seguire a ogni spostamento verso un estremo un altro di segno opposto. L’arco di tempo dell’oscillazione diventa di conseguenza così breve che il soggetto si trova in balia di percezioni di sé totalmente dicotomiche. E’ a questo punto che il dubbio, la ricerca di certezze e la conseguente paralisi decisionale diventano invasivi.

Di fronte all’impossibilità di trovare un positioning accettabile, l’ossessivo come un pendolo che abbia ridotto progressivamente il proprio arco di oscillazione fino a fermarsi, si attesta caparbiamente sulla propria immobilità. La funzione primaria dei dubbi è di paralizzarlo. Si guardano bene dal raccogliere informazioni cruciali per sciogliere i dubbi che li assillano, anche perché il paziente ossessivo diffida, soprattutto di sé.Grazie a questi dubbi, la persona con organizzazione ossessiva rende a se stesso più difficilmente praticabili sia la strada del vizio sia quella della virtù, contenendo così paura/angoscia e mortificazione/avvilimento. Ma è la paralisi. Nella posizione di mezzo il soggetto rischia l'implosione. E’ a questo punto che compaiono i sintomi, diventati ormai gli unici sentimenti vitali, ovvero le ossessioni e compulsioni.

– In genere le ossessioni esprimono gli impulsi proibiti (pensieri, immagini sessuali, impulsi aggressivi).

– le compulsioni sono comportamenti ripetitivi, finalizzati a placare la paura e l’angoscia che le ossessioni suscitano.

Con lo sviluppo dei sintomi il paziente continua a fare quello che faceva prima: si bilancia fra i due estremi. Il bilanciamento avviene ora però in modo egodistonico: non è più il soggetto a decidere, sono i sintomi a imporsi contro la sua volontà. Il soggetto non è responsabile delle ossessioni anche se sono produzioni della sua mente, non ne è responsabile, perché le subisce come eventi esterni ai quali può sottrarsi.

Di fatto grazie al ricorso ai sintomi, la riflessività del circuito è contenuta e il soggetto evita sia la punizione incombente sia la rinuncia totale. Il circuito riflessivo bizzarro contribuisce a spiegare anche l’ambivalenza e la mancanza di spontaneità, due tratti dei soggetti con organizzazione ossessiva non meno caratteristici del dubbio della ricerca di certezze.

L’ambivalenza che accompagna tutte le relazioni affettive (“pulsioni[+] proibite[-]” o “ascesi[+] mortificante[-]”), spiega anche il ricorso degli ossessivi alle pratiche superstiziose. Attraverso di esse gli ossessivi cercano di proteggersi dalla colpa di desiderare la morte delle persone amate e dalla vendetta del Fato.

La mancanza di naturalezza e di spontaneità è invece da attribuire alla posizione mediana. Tale collocazione richiede di per sé un controllo dei propri comportamenti più elevato rispetto a quello richiesto dalle posizioni agli estremi: l’individuo in posizione mediana bilanciandosi continuamente, mantenere un’attenzione privilegiata sul proprio comportamento. Le persone con questa organizzazione esprimono l’assenza di naturalezza nella postura, nel linguaggio sorvegliato, nello stile di pensiero e in ogni altra manifestazione.

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4.3 La vita: una storia proibita?

Semplificando molto, è possibile ricondurre a due la gamma di strategie con le quali i soggetti, con organizzazione ossessivo compulsiva tentano, prima dell’esordio sintomatico, di contenere la riflessività del circuito bizzarro. Chiamerò queste due forme di funzionamento di a) strategia della purezza e b) strategia della gerarchizzazione del male.Esse vanno concepite come estremi di un continuum di strategie di funzionamento individuale quanto mai varie. a) Attraverso la strategia della “purezza” il soggetto cerca di evitare la percezione dicotomica di sé, cerca strenuamente di mantenere un’immagine positiva di sé che, coerentemente con la semantica critica, s’identifica con il sentirsi e con l’essere considerati persone buone, pure corrette. La minaccia che emerga una percezione dicotomica di sé è tenuta lontano attraverso un coinvolgimento prevalente (a volte totalizzante) in aree che implicano un distanziamento dall’interazione e che, nello stesso tempo, sono prestigiose (religione, la scienza, la legge, la politica, l’arte…). Il lavoro intellettuale in tutte le sue forme può diventare centrale perché promuove lo sviluppo di interessi e capacità che non hanno a che fare direttamente con l’aggressività e la sessualità.Le persone con questa strategia presentano un certo grado di coartazione delle emozioni.L’intimità è avvertita dai soggetti con questa organizzazione come gratificante ed è intensamente desiderata. Tuttavia i legami emotivi sono sentiti come pericolosi perché li inducono a percepirsi come cattivi, indegni. Per questo le persone con questa strategia controllano e contengono l'espressione dell'affettività, sviluppando a volte una dedizione esclusiva al lavoro intellettuale. La maggior parte delle aree hanno una valenza etica, e molte persone con questa strategia presentano una tensione etica spiccata. Tuttavia la sensibilità etica non è una conditio sine qua non di questa strategia. A volte è assente. Molte volte non sembrano consapevoli di aver rinunciato a tutti i coinvolgimenti emotivi più importanti; sono invece orgogliosi della loro superiorità intellettuale. C'è chi si convince che disinteressandosi di tutto e di tutti, tranne che della propria area intellettuale, abbia goduto di una posizione di assoluto privilegio.

Per questa strategia è essenziale che l'area “pulsionale” spoglia su cui il soggetto canalizza le sue energie sia prestigiosa, mentre non è indispensabile che abbia una natura etica. Attraverso il suo investimento nella scienza, nell’arte o in un’altra attività intellettuale, il soggetto acquista una superiorità. La componente essenziale di questa strategia è proprio la superiorità: se non morale, intellettuale. Le persone con questa strategia spesso manifestano orgoglio e alterigia, a volte possono essere arroganti e supponenti. Il sentimento della loro superiorità, fondata sulla natura prestigiosa delle aree oggetto di investimento, permette loro di contenere mortificazione e avvilimento, sempre incombenti. Per la verità, la neutralità di tali aree fa da schermo al soddisfacimento di molti impulsi proibiti. Per esempio il magistrato può dare sfogo attraverso il giudizio alla sua crudeltà. O ancora il confessore, che nel nome di Dio può soddisfare curiosità morbose. Il soddisfacimento degli impulsi che questa strategia consente è comunque indiretto: i desideri originari sono mortificati, inibiti nella meta. Si aggiunga che il soggetto con questa strategia difficilmente ottiene l'affermazione di sé, il successo nell'attività artistica e scientifica, il riconoscimento della propria leadership se è un politico o della propria autorià morale se è un religioso. Queste persone rimangono spesso nella posizione di collaboratori, di “eterni secondi” rispetto a personalità pienamente espanse, che raggiungono le mete a loro proibite.Anche la scelta del partner rispecchia frequentemente questo schema interattivo. I soggetti con questa strategia, dovendo limitare drasticamente l'espressione della sessualità e dell'aggressività, contengono il sentimento incombente di avvilimento e mortificazione scegliendo partner ambiziosi, aggressivi o sessualmente trasgressivi. Attraverso la relazione con il partner possono così vivere in modo vicario quanto a loro è proibito, brillare di luce riflessa senza esporsi a troppi rischi, e naturalmente combattere la negatività del loro compagno, rieducandolo, castigandolo e così via.

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Questo schema è tale da stimolare l’ambivalenza. Poiché chi sviluppa questa strategia non mette a profitto le proprie capacità e competenze, l’altro è indotto a utilizzarle a proprio vantaggio. Spesso è il soggetto stesso a fornire gli appoggi e gli aiuti necessari affinchè il partner si affermi; ciò nondimeno, quando vengono attribuiti al compagno i riconoscimenti che a lui sono negati, cova rabbia, risentimento, invidia e rancore.

b) La strategia della “gerarchizzazione del male” è “etica” nella sua essenza.Anche queste persone danno la priorità, nel proprio itinerario di vita, ad aree “neutre”, che presentano un distanziamento dall’interazione, ma queste aree devono avere una rilevanza etica. Ciò che è essenziale per queste persone è disporre di principi che consentano loro di segmentare “giustamente” il mondo in buoni e cattivi. L’individuo, disponendo di principi etici sicuri che gli consentono di dividere, con “giustizia”, il mondo in buoni e cattivi, può esprimere odio, avidità, sadismo verso la parte del mondo identificata come ignobile, cattiva. Le persone che sviluppano questa strategia inibiscono meno gli implusi proibiti, sopratuttutto l'odio, l'aggressività, la rabbia, il risentimento, il sadismo. Proprio per questo riconoscono in sé e accettano le componenti cattive, infide o addirittura malvage. La riflessività del circuito viene contenuta sottomettendo tali impulsi a una visione etica: il “sé cattivo” viene gerarchizzato dal “sé buono”; il secondo indica al primo persone e situazioni nei confronti della quali può, legittimamente esprimersi. La gerarchizzazione su cui si fonda questa strategia è esterna e rigida. Il soggetto non valuta via via cosa è male e cosa è bene, masi affida a princìpi,a idee codificate, e sterne a lui e comunque vissute come tali o a istituzioni (la chiesa, il parito, ecc..).A causa della riflessività del circuito bizzarro il soggetto diffida di sé: per vitare l’incertezza, deve quindi affidarsi a principi e ad autorità esterni. Questi principi di regola incarnati da persone ben precise che gli forniscono una guida morale; si tratta spesso di sostituti della figura di attaccamento originaria, e il soggetto a volte, ne è consapevole.

Queste due strategie – della purezza e della gerarchizzazione del male – tendono a essere messe in crisi da eventi abbastanza diversi.a) La prima da episodi che rendono obbligatoria l'espressione dei sentimenti proibiti.b) La seconda da tutte quelle situazioni che mettono in crisi i princìpi che consentono al soggetto di segmentare il mondo in buoni o cattivi, e conseguentemente di esprimere i propri impulsi cattivi, sottomettendoli al “sè buono”.Spesso non sono i principi in sé a deludere o a vacillare, ma le persone che li incarnano. L’esito è comunque lo stesso: l’individuo perde il punto di vista esterno attraverso il quale aveva gerarchizzato il “sé buono” e il “sé cattivo” per contenereì la riflessività del circuito bizzarro. Si ritrova così in balìa di se stesso e dei suoi dubbi.

4.4 Il triangolo originario e la sua ricostruzione nelle terapie sistemiche

La tesi che i disturbi ossessivi siano connessi a specifici pattern di relazione madre-figlio e più in generale alle relazioni intra-familiari è stata avanzata da molti psicoanalisti e terapeuti di orientamento psicodinamico tra gli anni cinquanta e settanta. Secondo costoro, i genitori dei bambini ossessivi sono profondamente ambivalenti verso i figli e ne svalutano e disapprovano gli impulsi sessuali e aggressivi. Inoltre sviluppano pratiche educative fondate su un’osservanza delle regole sociali, rigida e sproporzionata all’età. I genitori sono determinati a ottenere un’ubbidienza automatica, senza rispetto per ciò che il bambino sente e comprende. Rigidi, a loro volta coartati, spesso intellettualizzanti, sono incapaci di assumere il punto di vista del bambino e di adeguare le loro richieste all'età del piccolo.Tra i bambini ossessivi erano numerosi i professorini e le teste d’uovo. Erano caricature di adulti pieni di scrupoli, ipercorretti all’esterno, ma pieni di un profondo risentimento e odio sotto la superficie.

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La connotazione negativa, da parte dei genitori, di sessualità e aggressività è stata confermata anche da Guidano e altri cognitivisti, ma è stata vista come parte di un pattern più generale di svalutazione dei comportamenti emotivi, espansivi e spontanei, a vantaggio di atteggiamenti pseudo-maturi. La variabile però cruciale nella genesi delle organizzazioni ossessivo-compulsive è la contraddittorietà del comportamento della figura principale di attaccamento. Il comportamento parentale di almeno uno dei due genitori è caratterizzato da sentimenti ambivalenti e antitetici nei confronti del bambino. Un atteggiamento ostile e rifiutante nascosto e camuffato da una facciata esterna di estrema dedizione e interessamento. La simultaneità di questi due aspetti contraddittori del comportamento parentale sembra essere un prerequisito essenziale per un itinerario di sviluppo ossessivo.

Il quadro fornito dagli psicoterapeuti psicodinamici e cognitivisti citati non consente di spiegare adeguatamente il dilemma dei soggetti ossessivi, con la sua drammatica oscillazione fra paura/angoscia e mortificazione/avvilimento.

Il ruolo dei fattori genetici, per quanto consistente, non è certo tale da oscurare l’influenza dell’ambiente.

Ugazio limita la loro validità alla figura principale di attaccamento. La loro analisi è di fatto diadica, perché non differenzia la posizione dei due genitori. Per Ugazio, entrambi i genitori sono essenziali per la comprensione di questa organizzazione. L’altro genitore non è affatto marginale, come presume ad esempio Giudano. E’ sicuramente meno importante emotivamente, ma ai fini della posizione del bambino nella semantica critica e della sua identità, è fondamentale quanto la figura principale di attaccamento.Dalla casistica di Ugazio emerge un contesto intersoggettivo triadico qui esposto:

Padre e madre si trovano ai due estremi della semantica critica, e la relazione della coppia è caratterizzata da processi schismogenetici complementari che rendono il conflitto acuto, talvolta lacerante. Spesso la madre, in concordanza con gli stereotipi culturali, era nella posizione sacrificale, mentre il padre era identificato come “cattivo”. Il contesto intersoggettivo originario non mette necessariamente in gioco entrambi i genitori ma può riguardare anche altri membri della famiglia, uno dei quali funge da figura principale di attaccamento.

La figura principale di attaccamento del soggetto che svilupperà un’organizzazione ossessivo-compulsiva si colloca di regola nell’estremo “bontà, purezza” (genitore astinente). Questa figura offre al bambino, in contesti importanti, una posizione di parità o di superiorità rispetto all’altro genitore e ad altri membri della famiglia di livello gerarchico superiore.La barriera generazionale è così infranta. La lettura che il bambino dà all’offerta è quella di un segno di preferenza. La figura principale di attaccamento ponendolo in quella posizione sembra anteporlo al partner e/o ad altri membri della famiglia della sua stessa generazione.

La posizione di superiorità che gli è attribuita stimola il bambino al confronto e alla competizione con l’altro genitore. Proprio perché questo è indotto a pretendere per sé, dalla figura di attaccamento lo stesso trattamento, gli stessi favori che sono concessi al genitore pulsionale. Il genitore pulsionale da di regole un’interpretazione malevola dei comportamenti del bambino. Il genitore pulsionale, essendo percepito e percependosi come cattivo, non può che fornire interpretazioni malevole. Inoltre, la sua malevolenza è acuita dalla gelosia e dall’irritazione per la posizione di superiorità che il partner accorda al figlio. Questi aspetti contribuiscono tutti a indurre il bambino a percepire in sé “pulsioni” sessuali e/o aggressive.

Il dramma nasce non appena il bambino tenta di esprimere le “pulsioni”. Il genitore “astinente” che è la sua figura principale di attaccamento, lo rifiuta perché vede in lui i comportamenti odiati nel coniuge. Si tratta di un rifiuto astioso e violento. Il genitore astinente, che sopporta i

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comportamenti egoisti o “cattivi” del partner “pulsionale”, anche perché spesso ambiguamente lo ammira e ne è attratto, non è certo disposto a subire analoghi comportamenti da parte di un bambino. (Se la madre, per compiacere il marito, sopporta la sua sessualità egoista, reagirà invece come disgusto non appena il bambino, come tutti i bambini, manifesterà il suo affetto con comportamenti erotici o leggibili come tali). La ripulsa della figura principale di attaccamento ferisce in modo particolare il bambino, per più di un motivo:

a) è carica di un astio sproporzionato al geto che l’ha suscitata . E’ incomprensibile per il bambino. La violenza della ripulsa non trova infatti ragioni nella relazione con il bambino, ma ha la sua origine nella relazione con il coniuge;

b) esprime disgusto per il fatto che il bambino provi impulsi colpevoli . Non si tratta di un rifiuto di cert comportamenti del bambino, ma di una ripulsa del bambino come persona.

c) riporta il bambino, improvvisamente e incomprensibilmente, in una posizione gerarchica inferiore.

→ Come risultato di questa configurazione relazionale, per il bambino mantenere la propria posizione di privilegio nei confronti della figura principale di attaccamento significa disconoscere in sé, negare, quegli impulsi che proprio il confronto paritario con l’altro genitore, prodotto dalla posizione di privilegio, alimenta e rende ineludibili.Questa configurazione spiega perché al futuro ossessivo la via dell’ascesi e quella dell’espressione degli impulsi siano, nello stesso tempo, ineludibili e bloccate. Il confronto paritario col genitore pulsionale e l'interpretazione malevola che questi dà del suo attaccamento al genitore preferito inducono il bambino a riconoscere e sperimentare in sé desideri colpevoli. Non gli è quindi possibile collocarsi nella stessa polarità del genitore preferito e seguirne la via della bontà astinente, senza sperimentare intollerabili sentimenti di mortificazione. Tuttavia anche l'espressione degli impulsi genera nel futuro ossessivo livelli di angoscia inaccettabili.Il soggetto impara rapidamente che, esprimendo le proprie pulsioni, si scontra con le rappresaglie del genitore pulsionale, e soprattutto con la ripulsa del genitore preferito.

Il contesto intersoggettivo triangolare presentato è ben più complesso della costellazione interpersonale di tipo edipico.Nella costellazione edipica la gerarchia fra le generazioni è minacciata dai desideri sessuali del bambino verso il genitore del sesso opposto. Al contrario, nella configurazione triangolare qui descritta i desideri edipici minacciano di ristabilire, in modo drammatico e per iniziativa del genitore preferito, il confine tra le generazioni, togliendo al bambino la posizione di privilegio di cui gode.

Le differenze tra i contesti ossessivo e fobico prevalgono sulle analogie. Il soggetto fobico sa che la figura principale di attaccamento gli antepone un altro membro della famiglia. Il futuro paziente fobico non gode di alcuna posizione di superiorità. Al contrario, con il suo ruolo di partner consolatorio è in una posizione di totale svantaggio rispetto alla persona verso cui la madre mantiene coinvolgimento emotivo prioritario. Qui il confine generazionale è rigidamente mantenuto. Le configurazioni triadiche che accompagnano lo sviluppo delle organizzazioni fobiche e ossessive presentano un’importante analogia: tutte stimolano nel bambino l’ambivalenza verso la figura principale di attaccamento, anche se le ragioni che sostengono l’ambivalenza sono diverse.

La collera, la rabbia che il futuro paziente fobico sviluppa verso l’adulto con cui ha il legame preferenziale, e i sentimenti di colpa che, di conseguenza, lo affliggono derivano dalle frustrazioni e dall’impotenza che il bambino esperisce nel suo ruolo di partner consolatorio: la madre non si consola. Il bambino non è in grado di colmare i vuoti e le sofferenze prodotti dal partner “fuggitivo”.

Anche il futuro paziente ossessivo può vivere la frustrazione di non poter difendere il genitore preferito dalla violenza del partner “pulsionale”, ma ciò che scatena in lui odio e aggressività verso la

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figura principale di attaccamento sono le rinunce a cui deve sottostare per essere approvato e amato da questa figura, e soprattutto le invalidanti ripulse di cui è oggetto non appena esprime le proprie pulsioni.

Il genitore preferito dai soggetti fobici è spesso molto affettuoso ed empatico, mentre nel caso degli ossessivi è una figura meno espansiva, ma capace di tenerezza e benevolenza.

4.7 L’idea di bontà astinente è entrata in psicologia?

Anche alla base delle organizzazioni ossessive vi è una premessa presente nella nostra cultura. Si tratta dell’idea che il bene sia privazione di male. Questa idea non appartiene soltanto a una micro-cultura familiare, quella in cui si sviluppano i disturbi ossessivi. Non è neppure appannaggio esclusivo di alcune religioni. Essa è parte della nostra cultura, persino, per la psicoanalisi freudiana. In “Il mondo come volontà e rappresentazione” di Schopenhauer viene espressa nel modo più radicale l’idea di bontà astinente, in quest’opera è possibile ritrovare le radici culturali dei disturbi ossessivi. Condannati alla vita, l’infelicità è la regola. Il dolore e la tragedia non sono soltanto l’essenza della vita dei singoli, ma anche di quella dei popoli. Proprio come nelle organizzazioni ossessiva, l’istinto sessuale e l’affermazione di sé sono considerati da Schopenhauer come intrinsecamente malvagi.

La lotta senza tregua, che si manifesta a ogni livello dell’essere, culmina nel mondo umano con la cruda contrapposizione di egoismo a egoismo. Quest’ultimo è per S. la forma stessa della volontà di vivere, che nell’uomo trova la sua massima espressione. E la società è contrapposizione brutale di egoismi: “E raggiunge la sua massima evidenza quando una folla si scatena violando ogni legge e ogni principio d’ordine, mettendo in chiara luce il bellum omniun contra omnes di cui Hobbes tracciò un quadro così ammirevole nel I capitolo del suo De cive. Ciascuno, allora, tenta di strappare all’altro ciò che desidera per sé: non solo, ma spesso, per accrescere di un nonnulla il proprio benessere, non ha il minimo scrupolo di distruggere l’intera felicità e la vita dei propri simili.

La prima manifestazione della volontà di vivere, la più semplice e la più diretta è l’istinto sessuale. Avendo assimilato la vita con il male, S. deve necessariamente operare un’identificazione speculare del bene con ciò che trascende o nega la volontà di vivere. Per S. la volontà di vivere, e quindi il male, possono essere superati attraverso l’arte e l’ascesi.

L’arte è liberatrice perché ci porta a fuori dal mondo delle pulsioni. Essa redime per le stesse ragioni per cui le aree “pulsionalmente” neutre degli ossessivi riducono il dilemma: perché allontana dalla vita, intesa come coinvolgimento con gli altri. Con il termine ascesi S. intende quell’annientamento intenzionale della volontà , che si ottiene rinunziando ai piaceri, e andando in cerca delle sofferenze: cioè la pratica volontaria di una vita di penitenza e di macerazioni, fatta in vista di una costante mortificazione del volere.

La voluntas diventa noluntas: castità, che libera l’uomo dalla più primitiva e fondamentale realizzazione della volontà di vivere.

Per Agostino e Tommaso -> il bene è tutto e il male è soltanto mancanza di bene.Per Schopenhauer -> il bene è l’assenza di male.

La natura sociale dell’uomo è completamente negata da S. per lui l’uomo, nella sua più vera essenza, è un solitario e feroce “animale da preda”. S. fonda la sua etica sulla pietà. Giustizia e carità, così come l’ascesi, nascono infatti dalla pietà, che libera l’uomo dall’illusione di sentirsi separato dagli altri. Non si tratta però del riconoscimento che gli altri ci sono necessari, della consapevolezza che non c’è un io senza un tu. Attraverso la pietà l’uomo abbatte le differenze perché comprende che, pur solo e separato da tutti gli altri, in sé autosufficiente, condivide con gli altri lo stesso destino di sofferenza e dolore. La socievolezza non è quindi costitutiva

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dell’uomo, ma è frutto di una comprensione e identificazione con il dolore universale: l’altro può sottrarsi al nostro odio e disprezzo, non perché ne abbiamo bisogno per completarci, ma perché in lui ritroviamo l’identica tragedia che rinveniamo in noi stessi.

Anche la psicoanalisi classica non riconosce, come S., l’altruismo, l’empatia, e più in generale i comportamenti prosociali che si legano ai nostri simili. Questi comportamenti e sentimenti sono ricondotti a sublimazioni, razionalizzazioni. Per questo A. Freud, riferendosi ai disturbi ossessivi, in perfetto accordo con il padre, che “nessun altro fenomeno mentale esprime con uguale chiarezza il dilemma umano della spietata e incessante battaglia tra gli impulsi innati e gli obblighi morali acquisiti”.

La tesi che ho sostenuto in questo capitolo prevede invece che il dilemma degli ossessivi sia frutto del loro particolare positioning all’interno di una semantica familiare – quella della bontà – che domina la conversazione nelle loro famiglie, ma non in altre. L’idea di bontà “astinente”, così come quella di “libertà come solitaria indipendenza dalle relazioni”, derivano dalla stessa matrice: l’individualismo. Ma hanno conosciuto nella nostra cultura una storia e uno sviluppo diversi.

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Cap. 5La semantica del potere:

anoressia, bulimia e altri affanni alimentari.

5.1 Più o meno

Il contesto familiare in cui si sviluppano anoressia e gli altri disturbi alimentari psicogeni (bulimia e obesità, attualmente esclusa dalla nosografia del DSM IV – diversamente dal DSM IV riserverò il termine anoressia per i casi in cui la magrezza è raggiunta con il solo digiuno), è caratterizzato da una conversazione in cui domina la semantica del potere, dove c'è chi vince e c'è chi perde, chi ha successo, chi sa imporsi in famiglia e nella comunità e chi invece si arrende. Accanto a “vincente/perdente”, un'altra polarità caratterizza queste famiglie: “volontà/arrendevolezza”. Questa seconda polarità è subordinata gerarchicamente alla prima secondo un rapporto mezzo-fine: si è vincenti perchè si è volitivi, determinati, efficienti, mentre si è perdenti perchè si è passivi, arrendevoli, in balia delle sopraffazioni degli altri. La binarietà, l'accondiscendenza, l'accettazione della definizione che l'altro dà della relazione sono costruite entro queste famiglie come passività imbelle, inettitudine. “Vincente/perdente”, la dimensione semantica primaria e fondamentale delle famiglie in cui si sviluppano i disturbi alimentari, ha una peculiarità che la distingue dalle polarità di cui ci siamo occupati finora: il suo contenuto è puramente relazionale. E’ possibile considerarsi vincenti o perdenti soltanto rispetto ad altri. E’ l’esito di un confronto.

Il confronto, con i criteri di riuscita e i conflitti competitivi che ne conseguono, guida sia le relazioni interne al nucleo, sia quelle con la parentela.La ragione dell’attenzione selettiva che queste famiglie attribuiscono alla semantica del potere va spesso ascritta a una storia di caduta e di riscatto sociale o a differenze di “rango” tra le famiglie di provenienza.In altre situazioni è l'appartenenza a clan familiari e a “famiglie-azienda”, dove affetti, affari e prestigio economico sono strettamente connessi, ad aver reso tanto centrale una semantica così sensibile ai criteri di status.

Poiché la polarità che è al centro della semantica di queste famiglie è puramente relazionale, la relazione con l’altro è percepita, in ogni momento e in ogni circostanza, come centrale per la definizione del proprio sé. Tutti in queste famiglie sono attenti al giudizio degli altri, ai criteri di riuscita sociale, alle apparenze sociali. Questa attenzione all'altro e al suo giudizio rende i membri di queste famiglie in prevalenza etero-attributori; essi tendono cioè ad attribuire la causa dei propri comportamenti agli altri, o meglio considerano i propri comportamenti come una risposta a quelli degli altri. Questa tendenza è massima nell'anoressia-bulimia.La lotta per la definizione della relazione è argomento costante della conversazione di queste famiglie. L’oggetto del contendere, i “contenuti” del conflitto sono di regola irrilevanti, mentre chi abbia la supremazia è ciò che conta. La hybris simmetrica domina le interazioni.

Poichè i membri di queste famiglie costruiscono la realtà attraverso la semantica del potere, il conflitto competitivo all’interno del nucleo, con le famiglie estese, e anche con i terapeuti o altri personaggi che occasionalmente entrino nella scena familiare, è la regola. I processi schismogenetici, le escalation simmetriche, le laceranti competizioni non lasciano tregua ai membri di queste famiglie. C’è chi riesce e chi soccombe, chi ha successo e chi è sconfitto. E c’è sempre “chi è più” e “chi è meno”. Nessuno sfugge al confronto e di conseguenza nessuno può adagiarsi nella propria posizione.Proprio perché il confronto competitivo regola le relazioni, la definizione delle relazioni tra i membri della famiglia è instabile, e di conseguenza le identità dei membri sono insicure.

Nelle famiglie in cui si sviluppano i disturbi alimentari chi è nella posizione “perdente” non accetta la resa. La ragione è che nessuno può accettare che lo scacco definisca la propria identità. Accettare la propria posizione, per chi si colloca nella polarità “perdente”, equivarrebbe ad

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ammettere: “Io sono la mia sconfitta”. Per questo coloro che si trovano in questa posizione, se non hanno concrete possibilità di scalzare i vincenti, quanto meno ridefiniscono la propria sconfitta come sacrificio, sviluppando con coloro che si collocano nella stessa polarità e con gli stessi “vincenti”, per le ragioni che vedremo fra breve, delle escalation sacrificali.

Proprio perchè i perdenti non possono accettare la propria sconfitta, i vincenti non possono mai cessare di lavorare alla conservazione della propria superiorità. Tutte le loro energie saranno dedicate a mantenere e a esibire i segni e i simboli che li rendono superiori. Soprattutto in famiglia, dove far accettare la propria superiorità è particolarmente difficile, la via seguita dai vincenti consiste spesso nel presentare se stessi e i comportamenti che li rendono superiori in termini di oblatività: lavorano tutto il giorno per il bene della famiglia (non per il successo), sono attivi nella comunità, mantengono contatti sociali e amicizie per aiutare la carrieria di altri membri della famiglia (non perchè lusingati dall'essere al centro dell'attenzione), sono efficienti, ben organizzati, determinati per compensare chi purtroppo non è in grado di esserlo e così via. Naturalmente, nessuno in famiglia crede a queste buone intenzioni, neppure chi le sbandieria: i “vincenti”, proprio perché condividono con gli altri membri del nucleo la semantica critica, sono i primi a dubitare di se stessi, a sospettare che la loro oblatività, sia uno strumento per avere la meglio, sugli altri. Per questo, le loro esibite buone intenzioni, tradiscono spesso un tono falso e manipolativo.

La gamma degli stati emotivi alla base della polarità critica, sperimentati in modo caratteristico dai membri di queste famiglie, comprende vanto, senso di efficacia e competenza personale, padronanza, dominio, fiducia in se stessi, di contro a vergogna, umiliazione, impotenza, inadeguatezza. Naturalmente anche gelosia, invidia e rivalità fanno parte dell’esperienza emotiva quotidiana.

Le persone che appartengono a queste famiglie, desiderano differenziarsi dagli altri. Il processo di esteriorizzazione delle caratteristiche individuali risulta tuttavia ostacolato. Poiché ogni definizione di sé è connotata in termini di più e meno + e – e da luogo a una superiorità o a un’inferiorità rispetto agli altri, le differenze sono immediatamente colte, ma temute, negate, osteggiate, spesso ritenute illegittime. Le differenze non sono infatti al servizio della cooperazione. Al contrario, servono all’affermazione della propria superiorità di contro agli altri membri del nucleo, alla prevaricazione, o sono un indizio del proprio scacco, della propria disfatta.

“Invischiamento” è il termine usato per descrivere la dinamica familiare di questi contesti, che ostacola l’emergere del sentimento di essere separati, favorendo una scarsa demarcazione fra sé e gli altri. La specificità individuale è sacrificata a vantaggio dell’uniformità. Il senso della famiglia come gruppo interdipendente è infatti così preminente da mettere in secondo piano i gusti dei singoli, si tende a stare tutti insieme in una covata. Per Guidano tutto ciò è riassumibile nello slogan: “E' condividendo le stesse opinioni che ci accorgiamo di amarci l’un l’altro”.

Quando la competizione raggiunge livelli estremi, le differenze individuali scatenano escalation competitive e quindi devono essere ostacolate, o quanto meno, contenute, perché rappresentano una minaccia alla coesione e alla continuità del gruppo. La rilevanza che assume in questa famiglia la semantica del potere spiega anche un aspetto caratteristico della comunicazione di questi nuclei: l’elevatissima frequenza dei rifiuti. Ben raramente un membro conferma quanto l’altro sta dicendo, e come si definisce nella relazione. Solitamente lo contraddice. Tale rifiuto non riguarda perciò l'invito generico a comunicare, il quale è positivamente accolto e ricambiato. Il rifiuto colpisce il messaggio in sé, sia nel suo livello di contenuto che in quello di definizione della relazione.

Tutti in queste famiglie temono il rifiuto come la peggiore invalidazione e ambiscono alla conferma più che a ogni altro bene. Ma, in un contesto in cui le differenze sono declinate in termini di superiorità e inferiorità, confermare la definizione che l'altro propone significherebbe esporre se stessi al rischio di perdere la propria posizione vincente o equivarrebbe a confermare il proprio scacco.L’attenzione selettiva alla definizione della relazione rende difficile anche il costituirsi nella famiglia di una leadership funzionale. La paralisi decisionale è totale: anche le scelte più banali risultano impossibili.

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Frequentemente l’anoressica con la sua emaciazione consente alla famiglia di trovare una leadership: la malattia rappresenta un potere più grande in grado di governare finalmente la famiglia.

Le escalation simmetriche tra i genitori, sono presenti anche nelle famiglie con gli altri disturbi alimentari psicogeni. Anche quando i genitori si collocano su polarità opposte – uno è vincente, attivo, affermato socialmente, mentre l’altro è perdente, incapace di far fronte alle sfide, passivo – la schismogenesi non è mai complementare, ma simmetrica. La superiorità del coniuge “vincente”, attribuita dalla comunità e/o dalla parentela, non è di regola riconosciuta dal coniuge perdente, per il quale si tratta di una superiorità illegittima. I successi del partner non sono negati, ma destituiti di valore: chi è vincente lo è perchè ha trascurato completamente la famiglia, perchè è furbo, perchè sa acquisire la benevolenza dei potenti, oppure è abile nel prevaricare gli altri, perchè vive soltanto per il successo, non ha hobby, non ha sentimenti. Il partner in posizione perdente fa spesso appello a un ordine morale che sovverte i valori centrali della semantica che domina la conversazione in queste famiglie: introducono nella conversazione valori di autenticità e anticonformismo che contrappongono a successo e potere.

5.2 Il dilemma e le trame narrative permesse

In queste faliglie il circuito riflessivo bizzarro (il dilemma) coinvolge i livelli del sé e della relazione. Tuttavia il dilemma non prefigura, neppure ipoteticamente, come nelle organizzazioni fobiche, l’eventualità di un’indipendenza dalla relazione. Né lascia aperta la possibilità, come nelle organizzazioni ossessivo-compulsive, di investimenti sostitutivi su dimensioni svincolate dalla relazione come l’arte, la religione, la letteratura.

Per questo le persone con questa organizzazione meno frequentemente figurano tra coloro che forniscono contributi rilevanti allo sviluppo delle scienze e delle arti. Un impegno in questo capo richiede la capacità di staccarsi, seppur transitoriamente, dal qui e ora della relazione. Non è così per danza, recitazione e canto in cui l’artista è sempre accompagnato dallo sguardo del pubblico o del maestro. E in queste manifestazioni le organizzazioni tipiche dei disturbi alimentari eccellono.Per loro la relazione in corso con le persone significative contestualizza, nel qui e ora, il sé e non viceversa. Per esistere bisogna essere in relazione. L’anoressica e la bulimica sono di regola giovani e, rispettivamente, nel 90% e nell’80% dei casi, sono donne. L’obesità presenta una distribuzione fra i sessi più equilibrata. La relazione contestualizza il sé in tutti i membri di questi nuclei, non soltanto in chi soffre di disturbi alimentari. Per questo l’esordio sintomatico del paziente con disturbi alimentari è perlopiù preceduto da un disagio generalizzato e da una sofferenza diffusa in tutto il nucleo. Anoressiche, bulimiche e obesi sperimentano un sentimento di devastante inconsistenza di fronte alla perdita di relazioni da cui ricevono approvazione e conferme. La disapprovazione, persino di persone poco significative, innesca una percezione di sé a tal punto intollerabile da produrre un senso di disorientamento totale (Guidano).Anche gli obesi presentano stati emotivi analoghi di fronte alle critiche.

Non è possibile comprendere il dilemma in cui si trovano quando le incontriamo nella pratica clinica senza tener conto dell’importanza fondamentale che il giudizio e lo sguardo dell’altro rivestono per loro. Il loro dilemma mette in gioco la modalità privilegiata di posi in relazione di questi soggetti: “adeguarsi/opporsi”. “Adeguarsi/opporsi” risulta cruciale soprattutto per coloro il cui positioning dipende maggiormente dai membri adulti del gruppo, come le adolescenti e le giovani che rappresentano la netta maggioranza delle pazienti anoressiche e bulimiche. Chi desidera mantenere la propria supposta o reale superiorità, o migliorare il proprio positioning, sente di doversi adeguare a comunità; chi invece è perdente, e non individua possibilità di migliorare il proprio status, si oppone ai vincenti cercando di

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delegittimarne la superiorità.Il dilemma diviene circuito riflessivo bizzarro quando sia adeguarsi sia opporsi diventano

inconciliabili con il mantenimento di una percezione definita di sé. Uniformarsi alle aspettative degli altri significa, per la persona che sperimenta il dilemma, essere passivo, perdente, sentirsi intruso e di conseguenza sopraffatto. Opporsi comporta recuperare un senso di efficacia personale, ma equivale a essere rifiutati, e quindi implica perdere la conferma dell’altro e con essa il sentimento della propria individualità.Quando la riflessività del circuito è massima l’individuo oscilla tra adeguarsi e opporsi senza trovare una validazione del proprio sé. Adeguarsi equivale a essere sopraffatti, umiliati, ma opporsi significa privarsi della conferma delle figure di riferimento, essenziale per il mantenimento dell’integrità del proprio sé.Attraverso il digiuno e il vomito, le anoressiche e le bulimiche si oppongono alle figure principali di attaccamento intensificandone comtemporaneamente il rapporto. A prescindere dalla loro intenzionalità e dai loro significati simbolici, vomito e digiuno rappresentano una sfida ai genitori perché questo è il significato attribuito loro dalle famiglie in cui si manifestano i disturbi alimentari. I genitori si sentono di regola messi in discussione, colpevolizzati, umiliati anche pubblicamente da anoressia e obesità.Proprio in virtù della semantica del potere, il disturbo del figlio è vissuto dai genitori come una sconfitta personale. Per quanto a disagio, difficilmente, si disimpegnano. La drammaticità della sua condizione riporta soprattutto l’anoressica nel ruolo di figlia e la coppia in quello dei genitori anche se la ragazza è in una fase del ciclo di vita nella quale la relazione con i genitori dovrebbe ridefinirsi in un modo paritario e allentarsi per lasciare spazio alla costruzione di nuovi legami.

Poiché i loro contesti sono avari di conferme, le anoressiche sono perfezioniste: attraverso un’esecuzione perfetta del compito sperano di essere approvate. Il coinvolgimento emotivo e sessuale è in genere temuto. Accettarlo significherebbe essere in balia dell’altro, esporsi, al rischio di diventare perdenti. Per questo motivo queste donne difficilmente raggiungono l'orgasmo. Tuttavia, poiché l’identità in tutti i suoi aspetti – e, a maggior ragione, l’identità sessuale – dipende dall’altro, di regola sentono come prioritaria l’esigenza di un partner stabile e il compagno, una volta scelto, diventa il centro delle loro attenzioni. L’anticonformismo caratterizza lo stile di adattamento opposto, che ho frequentemente riscontrato negli obesi, anche prima dell’esordio sintomatico. Ipercritici con chi s’impegna in obiettivi socialmente apprezzati, tendono a mascherare coloro che si trovano in posizione superiore.Con un’autostima generalmente bassa, sembrano mantenere i residui d’identità positiva abbassando gli altri o smascherando la loro supposta positività e superiorità.Non hanno perlopiù difficoltà a raggiungere l’orgasmo, tuttavia, la paura di confrontarsi con l’altro entro una relazione sessuale è a volte maggiore di quella delle persone con lo stile di adattamento opposto, molto spesso scelgono, più che partner veri e propri, persone che hanno bisogno di loro e del loro aiuto. Capita spesso, infatti, che le relazioni si concludano quando il loro aiuto non è più necessario.Questi stili di adattamento sono spesso la prosecuzione di comportamenti e atteggiamenti emersi nell'adolescenza.

5.3 L’adolescenza: un periodo critico

L’infanzia nella maggioranza delle anoressiche e delle bulimiche, ma anche degli obesi, non sembra essere stata teatro di tensioni e conflitti che posano essere letti come precursori della psicopatologia successiva. Il dilemma emerge nell’adolescenza o, al più presto, nella pre-adolescenza.

Un bambino che partecipi a una conversazione di questo tipo sarà più vulnerabile di un adulto: il suo sé risulterà particolarmente insicuro e bisognoso delle conferme dell’altro. Inoltre l’attenzione selettiva alla definizione delle relazioni indurrà soprattutto i bambini a restringere la gamma dei

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possibili modi di con-porsi con gli altri a quelli caratteristici della semantica del potere. Tuttavia il bambino finché rimane tale non sperimenta il dilemma. Il suo positioning non appare problematico nell’infanzia. Se è attivo, determinato, volitivo, se s’identifica nei valori di successo del suo gruppo – come accade alle future anoressiche e bulimiche – cercherà di eccellere nelle prestazioni scolastiche e sportive, sarà disciplinato e si sforzerà di non deludere le aspettative dei genitori. La tendenza a competere sarà circoscritta ai fratelli e ai coetanei.Non gli mancheranno conferme e apprezzamenti da Un bambino, per quanto attraente e brillante, difficilmente viene percepito come minacciante dagli adulti. Se è più vicino ai “perdenti”, come di regola accade ai futuri obesi, sarà un bambino incostante nel rendimento scolastico, indisciplinato, poco incline a ubbidire sia ai genitori che agli insegnanti. Potrà essere esuberante e ribelle oppure assente, a volte indolente e passivo. Perlopiù sarà un bambino che ama il gioco e ha buone relazioni con i coetanei. Non essendo competitivo con amici e compagni di scuola, difficilmente sarà isolato, come invece spesso accade alle future anoressiche.

Con la pre-adolescenza e con l’adolescenza un equilibrio si rompe. Coloro che si collocano nel polo vincente, per mantenere la loro posizione si trovano ora a competere con le stesse figure della cui conferma hanno costantemente bisogno. Inoltre i genitori, come accade nella maggior parte delle famiglie con adolescenti, controllano le frequentazioni dei figli per tutelarli, in particolare quelle delle figlie, così come pongono limit alle loro richieste di libertà.Controlli e limiti risultano alle figlie fastidiosi per il fatto che sono interpretati come sopraffazioni. Accettare coi genitori una relazione complementare, continuando ad attribuire loro la posizione di chi guida, viene sentito come passività e asservimento, e quindi comporta un certo grado di intransitività con il mantenimento di un’immagine positiva di sé. D’altra parte opporsi significa perdere le conferme che l’insicurezza della propria identità rende indispensabili.

L’adolescenza è un periodo difficile per coloro che si “con-pongono” tra i perdenti, come accade ai futuri obesi. Questa fase del ciclo di vita non è però così critica come per chi si colloca nel polo valorizzato nella sematica. Anche per questi ragazzi controlli e limiti posti dagli adulti sono comportamenti prevaricatori, ma il conflitto con gli adulti in posizione autorevole non è per loro così destabilizzante perché proprio opponendosi a queste figure definiscono la propria individualità. Ma poiché rischiano di diventare ricettacolo dei rifiuti di coloro che sono in posizione vincente, anche per loro la modalità preferita di “con-porsi”, che diventa nell’adolescenza opporsi, può diventare intransitiva con il sé. In un contesto dove i rifiuti tendono a essere frequenti, sollecitarli attivamente con condotte con condotte provocatorie espone questi adolescenti al pericolo di ritrovarsi con una percezione di sé così negativa da risultare inaccettabile. Questo rischio è mitigato da due aspetti dei loro positioning. - Non sono minaccianti: non ambiscono a ottenere un posto tra i vincenti, né di regola eccellono nelle qualità apprezzate dai membri di queste famiglie.- Intensificano il conflitto con gli adulti in posizione vincente ma non perdono il legame con le figure principali di attaccamento collocate di regola nel polo perdente. → Il dilemma caratteristico di delinea nell’adolescenza o nella pre-adolescenza. L’adolescenza con i normali compiti evolutivi che la caratterizzano e gli inevitabili cambiamenti nella relazione genitori/figli è tale da alimentare i conflitti fra sé e relazione tipici del circuito bizzarro descritto.

Questi conflitti, sperimentati soprattutto dagli adolescenti che si collocano ai due estremi delle polarità critiche, diventano dirompenti per chi come le anoressiche e le bulimiche si collocano nel polo valorizzato. La lotta per la definizione della relazione con i vincenti minaccia di privarli dell’ancoraggio che stabilizza la loro identità, inducendole ad adottare comportamenti oppositivi che mettono in pericolo la propria collocazione nella famiglia e nella comunità e sono in antagonismo con i valori di successo e di potere perseguiti. Queste ragioni contribuiscono a spiegare come mai anoressia e bulimia insorgano più frequentemente nell’adolescenza di quanto accade per l’obesità.

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5.4 Il contesto intersoggettivo nel momento presente: un’istigazione e una doppia delusione.

Le persone con organizzazione tipica dei disturbi alimentari di regola sono in grado di elaborare in modo adattivo il dilemma, se possono fare affidamento su una figura di attaccamento che funga da contesto per la definizione dei confini del loro sé. Chiamiamo questo legame confermante “attaccamento preferenziale”.Finché quindi la configurazione relazionale consente il mantenimento di almeno un legame confermante, la riflessività del circuito bizzarro si mantiene entro limiti tali da evitare slittamenti psicopatologici.Gli eventi che accompagnano l’esordio vedono il paziente al centro di quello che possiamo definire un processo istigatorio il cui esito è una doppia delusione: sia la figura bersaglio dell’istigazione, sia con le sue critiche ha indotto il paziente ad allontanarsi da questa figura deludono. Il paziente si trova così solo, senza legami in grado di fornire conferme per la validazione del suo sé. - La figura confermante delle anoressiche e delle bulimiche a peso ideale si colloca di regola nella polarità vincente e coincide perlopiù con la madre o con un altro membro della famiglia con funzioni accudenti. - Per le bulimiche questa funzione confermante è assunta più frequentemente dal padre, o da un altro familiare che non svolge funzioni accudenti. - L’adulto che garantisce ai futuri obesi il legame confermante è invece in posizione perdente. Questa figura spesso non ha un ruolo di accudimento, tuttavia fornisce al soggetto il supporto emotivo e l’alleanza necessari per fronteggiare i rischi a cui è esposto a causa della sua posizione di “oppositore”.

Il processo interattivo che conduce alla psicopatologia conclamata può essere segmentato in 5 fasi:1. Il bersaglio dell’”istigazione” è di regola un genitore collocato in posizione vincente, quindi

attivo e determinato. Per le anoressiche e per le bulimiche a peso ideale coincide con “il legame confermante”. Il futuro paziente viene istigato contro questo genitore da familiari in posizione perdente. Può accadere che questo ruolo sia svolto anche da persone esterne alla famiglia, accreditate dal genitore “confermante”.

2. Nel corso dell’istigazione, il futuro paziente diventa un “interlocutore privilegiato” per “l’istigatore” e spesso anche per il più ampio schieramento dei perdenti. questi si trovano al centro di attenzioni e di un interesse a cui non erano avvezzi, ma anche il futuro paziente, specialmente se adolescente, è lusingato dalla nuova posizione che viene loro attribuita quale interlocutore privilegiato: l'istigatore, anche se è un perdente, è pur sempre un adulto o un fratello maggiore. La sua amicizia gratifica quindi l'adolescente che è così predisposto ad accogliere (in parte o totalmente) le sue ragioni e a dar credito a critiche e ad attacchi contro il genitore vincente. In questa fase il soggetto riceve conferme da entrambi gli schieramenti.

3. L’istigatore non coincide, di regola, con uno dei genitori. Gli attacchi del futuro paziente al genitore vincente, sono spesso sostenuti, indirettamente o palesemente dall’altro genitore. Quest’ultimo svolge così nel processo una funzione di appoggio all’istigazione.

4. L’”istigazione” trova terreno facile perché il genitore che ne è il bersaglio conferma le critiche che gli vengono rivolte con la sua intolleranza verso gli attacchi del figlio, o con atteggiamenti sopraffattori, oppure semplicemente mostrandosi infastidito di fronte al tentativo del figlio di ridefinire in modo più prioritario la relazione.

5. Il soggetto, che ormai in questa fase del processo è un paziente, viene deluso dal nuovo alleato e da tutto lo schieramento dei perdenti. Le ragioni possono essere diverse: il paziente si accorge del malanimo dell' “istigatore”, oppure scopre di essere stato usato strumentalmente contro il genitore oggetto delle critiche, o altro ancora. L’esito è univoco: il paziente si allontana dai nuovi alleati ed è ora solo, avendo subito una delusione da entrambi gli schieramenti. E’ a questo punto che la riflessività del circuito bizzarro diventa massima.Il paziente, dalla condizione iniziale in cui riceveva conferma da membri di entrambi gli schieramenti, è precipitato in una situazione in cui la sua esperienza non può più essere attendibilmente validata da alcuna relazione.

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ANORESSIA (Fase 4) → in questo caso è centrale la fase 4 in cui la paziente è delusa dal genitore vincente. Il fatto che l'istigatore e l'opposto schieramento deludano a loro volta (fase 5) è emotivamente meno devastante. La disillusione nei confronti del genitore vincente è invece atroce. Quel genitore, che di regola è la madre, è stato un esempio su cui la ragazza ha modellato la propria personalità e organizzato il suo universo morale. Quel genitore è stato un punto di riferimento costante che ha accompagnato la sua vita ogni giorno, fornendole accudimento e guida. L’emaciazione allude a quanto sia centrale per l’anoressica la relazione con la madre: a lei si oppone, ne rifiuta il cibo, ma nello stesso tempo, attraverso la sua incapacità ad alimentarsi, la invita ad assumere verso di lei un ruolo accudente. Nonostante sia stata disillusa, continua a rimanere ancorata ai comportamenti e ai valori dei vincenti. L’imperativo sociale che impone a tutti l’ideale della magrezza viene dall’anoressica iper-rispettato in una sorta di reductio ad absurdum perché, a prescindere dalle intenzioni che la muovono, mostra entro quali tristi abissi possono condurre controllo, determinazione e volitività.

BULIMIA (Fase 4=5) → per le bulimiche sia la disillusione del genitore confermante che è di solito il padre (o un’altra figura vincente che non ha funzioni accudenti), sia quella successiva degli “istigatori” hanno spesso una risonanza emotiva ugualmente forte.L'allontanamento dal padre le aveva frequentemente portate a riavvicinarsi alla madre o alle altre figure che nell'infanzia hanno svolto un ruolo accudente, che si collocano in posizione perdente.Come accade alle anoressiche, l’esordio sintomatico le riporta nel positioning originario. Il loro sintomo esprime un disagio più contenuto: rifiutano il cibo, ma di regola non mettono a repentaglio la propria vita. Tentando di mantenere il loro corpo in un'eterna adolescenza, respingono l’identificazione con la madre: loro non si lasciano andare come la loro madre, non si rassegnano alle prevaricazioni, non cedono alla propria passività, ma lottano strenuamente contro la propria debolezza e arrendevolezza.

OBESITA' (Fase 5)→ per gli obesi la fase emotivamente più destabilizzante del processo interattivo è la fase 5 perché priva del legame confermante. L’obesità è una resa ai vincenti. Con il suo grasso, l’obeso riconosce di essere dalla parte sbagliata: la passività, il lasciarsi andare agli impulsi, la mancanza di autocontrollo sono autodistruttivi. L’obesità è anche una difesa: mettendo tra sé e gli altri una spessa coltre di grasso, l’obeso si preclude una normale vita sentimentale, proteggendosi così da coinvolgimenti emotivi intensi che potrebbero ancora una volta deluderlo.

Le modalità attraverso le quali, nel corso del processo istigatorio, si consuma la delusione verso l’adulto confermante e preferito sono diversi in anoressia/bulimia rispetto all’obesità. Ugazio conferma le osservazioni di Guidano:

anoressica e bulimica mettono alla prova il genitore preferito, verificano o tentano di verificare le critiche che gli istigatori (in modo esplicito o indiretto) suggeriscono loro. (→ Entrambe provocano attivamente la delusione mettendo in atto comportamenti che inducono il genitore oggetto di critiche a uscire allo scoperto)

Al contrario, gli obesi non provocano la delusione dei nuovi alleati e tanto meno dell’adulto confermante e preferito. L’inaffidabilità di questa figura e la conseguente delusione che il processo istigatorio mette in luce sono costruite, agli occhi del soggetto, come eventi esterni annientanti. L’obeso non ha avuto, né dal suo punto di vista avrebbe potuto avere, alcun controllo su tali eventi.

L’ipotesi qui avanzata conferma l’importanza attribuita da alcuni terapeuti cognitivisti alla delusione nelle patologie tipiche dei disturbi alimentari. Ma a differenza di questi autori, Ugazio ipotizza che la delusione sia parte di un processo istigatorio al cui centro il soggetto viene a trovarsi. In un universo scandito dalla polarità vincente/perdente, l'istigazione appare una mossa inevitabile. Ma queste famiglie non attrezzano i propri componenti a far fronte a uno degli esiti più frequenti della dinamica istigatoria: la perdita di legami confermanti.

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In un contesto in cui la dimensione semantica critica è puramente relazionale, la scoperta dell'inaffidabilità e inattendibilità delle persone in cui il soggetto riponeva la propria fiducia, e modellava i propri stati interni, è particolarmente destabilizzante.[→ E' l'istigazione a essere cruciale (Ugazio), non la delusione (Guidano) che ne è solo conseguenza].

5.6 L’idea di uguaglianza come abbattimento delle differenze

I disturbi alimentari sono stati ignorati o inesistenti prima della seconda guerra mondiale. La loro diffusione tanto rapida (Europa 25% popolazione, USA 43%) in un arco temporale relativamente breve rende evidente il nesso fra premesse culturali e disturbi mentali che la psichiatria biologica vorrebbe oscurare. L’obesità continua a crescere. L’anoressia e la bulimia si sono invece stabilizzate e hanno raggiunto il loro acme rispettivamente negli anni settanta-ottanta.La netta prevalenza femminile di anoressia e la loro repentina diffusione fra le giovani donne in un periodo storico limitato sembra connessa ad aspetti critici della posizione della donna nella società occidentale,

Riprendendo “La cibernetica dell’Io” di Bateson, l’anoressica esprimerebbe uno degli errori epistemologici caratteristici delle civiltà occidentali: la convinzione che esista un “sé” capace di trascendere il sistema dei rapporti di cui fa parte e quindi di disporre del controllo unilaterale del sistema. Si tratta dell’idea di potere e controllo. L’anoressica è preda di una dicotomia cartesiana particolarmente disastrosa: credere che la propria mente trascenda il corpo e che ciò le garantisca un potere illimitato sul comportamento proprio e degli altri. Ne conseguono una reificazione del “sé” e l’errata convinzione che la paziente sia impegnata in una vittoriosa battaglia su due fronti: 1. Contro il proprio corpo 2. Contro il sistema familiare.

L’ipotesi che l’idea di potere e controllo inchiodi il paziente e la sua famiglia nella spirale dell’anoressia-bulimia è stata più volte ripresa dalla letteratura. Così come si deve convenire che questa patologia è tipica di una società dove il cibo è offerto in abbondanza. Nei paesi in via di sviluppo, dove il cibo è scarso e insufficiente, anoressia e bulimia sono pressochè inesistenti. Nelle società pre-industriali e pre-moderne, dove l’infanzia e le funzioni tutorie non sono, di regola, oggetto di valorizzazione, una psicopatologia che metta in discussione la funzione dei genitori difficilmente sarà diffusa. Solo nella società dove il figlio assume un ruolo centrale e l’adulto acquista valore in rapporto al suo ruolo di genitore, il rifiuto del cibo diventa un comportamento provvisto di senso. La transizione da una cultura agricolo-patriarcale a una urbana riguardò gli anni Cinquanta, quando si era ancora agli esordi della diffusione dei disturbi alimentari. Il fenomeno assunse dimensioni allarmanti più tardi – a partire dagli anni Settanta – proprio con il radicarsi sempre più capillare delle cultura urbana e dei suoi valori. I disturbi alimentari cominciarono a dilagare proprio quando i conflitti nella coppia furono discussi sempre più apertamente, senza timori o pudori, la donna entrò nel mondo del lavoro e la parità fra i sessi fece progressi, dando vita a forme di “con-posizione familiare” molto diverse da quelle tradizionali. L’acme della diffusione avviene in concomitanza con gli anni in cui l’Occidente (metà anni ’60 fino a metà ’90) è teatro di un cambiamento radicale dei rapporti intra-familiari. Non solo la relazione uomo-donna viene ridefinita in tutti i ceti sociali, ma anche quella fra adulto e bambino, fra insegnante e allievo, medico e paziente. Persino la relazione con gli animali domestici muta. Tutte queste relazioni diventano meno gerarchiche.

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L’anoressia e gli altri disturbi alimentari psicogeni si sviluppano in contesti dove la gerarchia e le differenze sono vissute come illegittime, frutto di un potere ingiusto e arbitrario, soprattutto le differenze che regolano i rapporti tra uomo e donna che sono concepite come sopraffattorie. Da qui trae origine il rifiuto delle aspettative di genere.L’identità sessuale, la differenza basilare, è negata sia dall’anoressica sia dall’obesa quando la loro patologia diventa grave. Uno scheletro non ha identità sessuale e anche una massa informe di grasso non è sessuata.La bulimica, cercando di mantere il corpo in un'eterna adolescenza, non rifiuta, ma contiene la differenziazione sessuale. La difficoltà a comporre le differenze è estrema perchè ogni differenza è letta nei termini di una superiorità/inferiorità che, non fondandosi su valori condivisi, è avvertita come violenta e ingiusta. Per questa ragione le famiglie in cui si sviluppano le patologie alimentari sono teatro di laceranti conflitti di potere. Quando le differenze sono vissute come illeggittime non resta che la battaglia per il potere, intesa come “lotta di tutti contro tutti”.

Nei disturbi alimentari il conflitto è portato all’estreme conseguenze e riguarda il radicarsi dell’ Idea di uguaglianza come abbattimento delle differenze. La diffusione, a partire dagli anni settante, delle patologie alimentari è concomitante con il radicarsi nella vita quotidiana dell’ideologia egualitaria, e sono le donne ad aver vissuto in maniera crescente le ambiguità e le contraddizioni sottese al concetto di uguaglianza. (Proprio per il ruolo fondante che riveste e per il consenso da cui è circondata, l’uguaglianza nelle culture occidentali è anche un tabù. Anzi, è forse l'ultimo tabù in una cultura che è restia ad attribuire sacralità ad alcuna idea. Anche il suo opposto, il concetto di gerarchia, per ragioni speculari rimane sostanzialmente indiscusso: l’avversione che suscita in tutti, tendono a sottrarlo all’analisi critica.)Nell'uguagliaza, il tutto, rispetto al quale l'uomo si era collocato come un elemento, diventa un ammasso indistinto.Riportando il pensiero di Biral, ciò che accomuna gli uomini e li porta a fare comunanze o associazioni, sono sempre e solo le differenze specifiche; non vi è associazione senza la disuguaglianza. Se gli uomini sono uguali e, perciò, indifferenti, essi non troveranno mai qualcosa che sia loro comune, e tra loro non può distendersi comunanza o comunicazione. La società costruita a partire dall'uguaglianza non sarà un'associazione. Di consguenza, ciascun uomo si presenterà come un tutto irrelato, che non ha bisogno di alcuna integrazione, e si protenderà a un'incondizionata autonomia, a un'incondizionata libertà.Questo tipo di uguaglianza è un aspetto dell’individualismo. Essa ha portato all’idea di “libertà dalla relazione e dai suoi vincoli”.

La riforma luterana e calvinista fu una tappa fondamentale di questo processo. Ma fu la Rivoluzione Francese a segnare lo spartiacque: l’uguaglianza, da attributo dell’”individuo fuori dal mondo”, diventò uguaglianza politica.La famiglia, che da sempre era stato luogo di incontro delle differenze più basilari – uomo/donna, vecchi/giovani, sani/malati – viene “sconvolta” dall'uguaglianza che dopo la Seconda guerra mondiale viene imposta, prima nei ceti più colti e successivamente alla popolazione nel suo insieme, come principio normativo di tutti i rapporti della vita quotidiana, anche di quelli privati. Ma in questo contesto, la metafora del potere acquisisce una paurosa rilevanza: una volta che gli uomini si considerano uguali, senza differenze e deficienze che li inducano a completarsi reciprocamente, la relazione con l'altro sarà inevitabilmente percepita attraverso la metafora del potere.Il disconoscimento della natura sociale dell'uomo e delle profonde differenze che derivano dalla partecipazione a gruppi culturali diversi crea inoltre un pauroso silenzio fra il soggetto e la specie. Non c'è più differenza fra individuo e specie, se non un grande vuoto. Stradicate le differenze che derivano dalle molteplici forme di comunanza tra gli uomini, rischiano di restare soltanto le differenze biologiche. Il vuoto che si viene a creare fra individuo e specie ci induce nel secondo azzardo a cui conduce il concetto di uguaglianza quando tenta di annientare il suo opposto polare: la gerarchia; i

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valori vengono ridotti a semplice preferenza individuale, del tutto arbitraria. Accordare importanza a un'idea, attribuirle valore, significa gerarchizzarla.Dietro alla sensazione di vacuità che suscitano i valori, c'è la distinzione, tutta moderna, fra fatti e valori. Il concetto di gerarchia viene espulso dai “fatti”, la dimensione più importante dell'essere per le società moderne, quella di cui si occupa la scienza. I valori vengono relegati a una dimensione esangue, accessoria e marginale. Ma le persone non si limitano a pensare, agiscono; non possono quindi prescindere da idee che guidino la loro azione. Se i valori vengono fatti ammutolire, l'agire risulta ancorato a quella “lotta di tutti contro tutti” così inquietantemente diffusa a livello di senso comune, “una sorta di luogo comune dell'incultura”, con la sua desolata deriva di scetticismo, disincanto e cinismo. Rispetto alle altre polarità semantiche, quella del “vincente/perdente” è semanticamente povera, per via dell'assenza di rimandi ad alcun valore.La semantica della libertà saliente nei contesti in cui si sviluppano le organizzazioni fobiche, e la semantica della bontà tipica delle famiglie con organizzazione ossessivo-compulsiva, rimandano rispettivamente all'idea di libertà e di bontà astinente. Queste idee, proprio perchè guidano l'azione, sono anche valori. Per i DAP, il “bene” si identifica con la superiorità in quanto tale e con la volitività che coincide con la determinazione nel raggiungere una preminenza disancorata dai contenuti.Non stupisce quindi che i disturbi alimentari si siano diffusi negli ultimi anni, via via che i valori venivano relegati a una dimensione accessoria.MA proprio questa dissoluzione dei valori, espressione dell'individualismo, che rende centrale anche nel nucleo primario di rapporti la polarità vincente/perdente e più in generale la semantica del potere, lega nella stessa catena i membri della famiglia. Ciascuno, dovendosi definire entro polarità puramente relazionali e comparative, è imprigionato al giudizio dell’altro. La definizione del proprio sé dipende in ogni momento e in ogni circostanza da una conferma che l'altro non può dare, pena la sua consegna alla sconfitta.La lotta per la definizione della relazione che ne scaturisce è espressione degli equivoci a cui dà luogo il concetto di uguaglianza. Se intesa come identità o abbattimento delle differenze, l’uguaglianza si rovescia nel suo opposto: tutti sono condannati alla più frustrante e vincolante comunanza. Gli anelli della catena non giacciono più separati, sono di nuovo uniti uno all’altro, ma la catena non riesce a comporsi in un disegno, perché tutti aspirano a essere uguali e di conseguenza faticano a trovare il proprio posto.

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Cap. 6La depressione:

un problema di appartenenza negata.

6.1 Quello che la serotonina non spiega

Sono molti gli interrogativi che la depressione solleva. Perchè ad esempio è ciclica? Com'è noto, questa psicopatologia tende a risolversi autonomamente e a ripresentarsi, quando diventa cronica, dopo un periodo di totale o parziale remissione.La depressione è caratterizzata da un pattern on-off. La depressione c’è o non c’è. Spesso i pazienti descrivono sia l’uscita che l’ingresso nella “malattia” come eventi improvvisi, a volte inaspettati. È una singolarità della depressione.Per gran parte del cognitivismo, ciò che contraddistingue le persone vulnerabili alla depressione è una triplice visione negativa: di se stessi, del mondo e del futuro.

L’idea che la causa della depressione risiederebbe in uno squilibrio biochimico endogeno, derivante da carenze di serotonina, ha dominato in modo pressoché incontrastato la psichiatria nel corso degli anni novanta e, seppur con cautele e defezioni, viene ancora oggi sostenuta dalla psichiatria biologica.Circa il 25% dei pazienti depressi presenta livelli bassi di serotonina o di norepinefrina, ma i bassi livelli di serotonina riscontrati in questi pazienti possono essere la conseguenza anziché la causa della depressione. Nessuna evidenza empirica ha dimostrato che lo squilibrio chimico sia la causa della depressione.

Un neuroendocrinologo ha riscontrato in babbuini in condizioni di libertà che la posizione di subordinazione cronica produce quantitativi elevati di ormoni dello stress, similia quelli riscontrati nelle persone depresse.Queste ricerche hanno accertato che i livelli di serotonina, e di altri correlati neurochimici della depressione, variano in funzione dei cambiamenti di status sociale delle scimmie.

Anche l'inquietante incremento della depressione su cui sociologi, psicologi, filosofi e persino economisti si sono interrogati risulta fallace. Non sono aumentate le persone depresse ma le diagnosi e i trattamenti farmacologici per questa psicopatologia, perchè sono cambiati i criteri diagnostici.Il DSM III, a partire dalla sua edizione del 1980, ha introdotto criteri così poco discriminativi e decontestualizzati per la diagnosi di “depressione maggiore” che confluiscono in questa categoria diagnostica tanto persone normalmente tristi a causa di eventi negativi, quanto pazienti affetti da depressione clinica.Più di 20 anni di incontrastato dominio della psichiatria biologica su questa psicopatologia ci lascia una pesante eredità: l’assenza di criteri diagnostici condivisi e addirittura di categorie diagnostiche che permettano di distinguere la depressione della tristezza.

Devo quindi chiarire, per quanto possibile in assenza di criteri orientativi condivisi, a quale realtà clinica si riferiscono le tesi che avanzerò. Esser derivano da una casistica di trattamenti esplicitamente richiesti per la depressione del paziente come unico problema o congiuntamente ad altri. Si tratta di casi gravi che presentavano oltre all’umore depresso, anedonia, ideazioni suicidarie e/o tentati suicidi e insonnia persistente, perlopiù mattutina, i sintomi che meglio distinguono la depressione dalla tristezza.

6.2 Una conversazione dove c’è chi appartiene e chi è escluso

Nelle famiglie da cui provengono le persone con organizzazione depressiva la conversazione rende saliente quella che ho chiamato “semantica dell’appartenenza”. I significati centrali fanno capo a due polarità: inclusione/esclusione, onore/onta e sono alimentati da gioia/allegria – rabbia/disperazione, le emozioni caratterizzanti questa semantica.

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L’essere incluso nella famiglia, nella parentela, è per i membri di queste famiglie la cosa più importante proprio perché nello stesso nucleo c’è chi è escluso, emarginato, reietto. L’espulsione dal gruppo, sono vissute dai membri di questi nuclei come un’onta irreparabile, mentre il bene più grande è essere radicati e onorati dentro i propri gruppi di appartenenza, dalla famiglia alla comunità. Tuttavia è spesso in nome della dignità che avvengono fratture definitive. L’onore è quindi in queste famiglie un valore altrettanto fondamentale quanto l’appartenenza.

In queste famiglie, spesso ci si imbatte in persone diseredate, defraudate del patrimonio o private nelle proprie radici come spesso accade nelle nascite illegittime o ai figli abbandonati dai genitori. Non mancano di regola membri della famiglia segregati in manicomio, viene richiuso chi e ritenuto o a ragione, indegno di far parte della comunità a cui dovrebbe appartenere. Non manca mai la contrapposizione fra chi è al centro del proprio mondo e chi invece è solo, isolato. ..oppure persone che mentalmente vivono nel mondo di un qualche parente (genitore..), mondi che l'hanno sempre respinto. La centralità di cui il parente godeva, così come accade di regola ai membri amati della famiglia, non è frutto, perlomeno agli occhi del paziente con organizzazione depressiva, di impegno e fatica: naturalmente amabili e degni di essere onorati, questi individui sembrano eletti dalla grazia divina che li ha colmati di molti doni. Un destino ben diverso da quello del paziente depresso che, se conquista qualcosa, lo ottiene impegnandosi fino al punto da rischiare la salute.Quando, nella famiglia, la semantica dell'appartenenza ha una storia antica in cui sono coinvolte più generazioni, percore nere, rinnegati, defraudati e dimenticati si “con-pongono” con individui onorati, degni di essere ricordati per le loro azioni, o semplicemente perchè il capriccio divino li ha inclusi fra gli eletti.Con qualcuno la vita sembra essersi accanita, mentre con altri è stata particolarmente generosa.Qualche membro della famiglia è adorato, ammirato, mentre altri sono ignorati o oggetto di aggressività e violenza.

6.3 Il dilemma e la funzione adattiva della depressione

Nel suo positioning, il paziente sperimenta il seguente dilemma:appartenere equivale a essere indegni di rispetto e di stima, ma essere esclusi, soli, significa rinunciare allo statuto di esseri umani. Due dimensioni irrinunciabili dell’esistenza – l’appartenenza e la propria dignità – rischiano di escludersi reciprocamente.Le emozioni che scandiscono questo dilemma sono gioia/gratitudine e rabbia/disperazione.L'appartenenza genera, perlomeno inizialmente, gioia e gratitudine. Le persone con organizzazione depressiva conoscono queste emozioni positive anche se le sperimentano per periodi brevi. Capaci di coinvolgimenti emotivi intensi, innamorarsi è per loro una storia permessa; sanno gioire per l'appagamento e la condivisione offerti da un amore o da un'amicizia profonda. L'aprirsi, ad esempio, di unanuova storia sentimentale chiude di regola una depressione clinica. Anche una gravidanza può avere lo stesso effetto: durante l'attesa si è finalmente in due. Appartenendo, le perdone con organizzazione depressiva si trovano finalmente nella posizione, sempre bramata, di chi è incluso, riconosciuto come membro del gruppo. Di fatto finiscono presto per sentirsi indegne proprio a causa dell'agognata appartenenza. La gioia si converte in rabbia e risentimento che rischiano di degenerare in episodi di violenza verbale o fisica o in grado di minacciare e di distruggere proprio le relazioni interpersonali che garantiscono loro l'inclusione. Il prezzo pagato al mantenimento dell'appartenenza è infatti altissimo: la propria onorabilità. Quando il dilemma raggiunge il suo acme, il soggetto oscilla fra due alternative altrettanto inaccettabili: continuare a mantenere la relazione equivale a essere spregevole, romperla significa uscire dal consorzio umano. Solitamente comportamenti aggressivi, spesso descritti dal paziente come acting out, provocano lacerazioni e rotture della relazione ma allentano la riflessività del circuito. Il soggetto rischia di perdere tutto ciò che aveva, ma la riflessività del circuito si è ridotta perché il paziente ha perlomeno salvato la propria onorabilità. Sfortunatamente, non appena la rabbia si

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stempera, la disperazione per la perdita e la conseguente solitudine irrompono.Per il depresso la solitudine è una condanna, uno stigma. I soggetti inclini alla depressione

soffrono terribilmente per il loro isolamento affettivo. Riuscire a stare da soli non è una conquista ma una triste necessità. Finché comunque il soggetto riesce, nel momento in cui sperimenta la disperazione, a mettere in atto comportamenti di riparazione, che gli consentono di ristabilire le relazioni capaci di assicurargli un sentimento d’inclusione, oppure è in grado di trovare altre appartenenze, non si ha lo sviluppo di una depressione clinica.

Appartenenze diverse possono innescare il dilemma: la propria famiglia di origine, la famiglia nucleare, la parentela, il contesto lavorativo, i rapporti di amicizia. Quando il dilemma coinvolge il partner, le emozioni diventano incandescenti. La regola che la relazione con il partner è in grado di attivare le emozioni più dirompenti è particolarmente vera per le organizzazioni depressive. Situazioni che alimentano il dilemma possono essere la gelosia e/o il denaro.- Gelosia__Questi tradimenti, reali o immaginari che siano, hanno un esito comune: il soggetto si sente scartato, abbandonato, e vive il mantenimento della relazione come un’onta. - Denaro__ Anche il denaro innesca il dilemma. Se benestanti, queste persone si sentono di regola sfruttate; se in condizioni disagiate ritengono di essere state depredate. Spesso i pazienti depressi sono generosi. Convinti di non essere amabili, consapevoli della distruttività dei loro attacchi, elargiscono denaro o servizi al partner e ad altri familiari per non perderli. Ma proprio per questo si sentivano indegni: un “mendicante d’amore”. Altri, per le stesse ragioni, tiranneggiavano i familiari.Tra i pazienti che si ritengono defraudati, l’imputata più frequente è la famiglia di origine che avrebbe negato quanto sarebbe spettato loro di diritto.

La forte presenza nella dinamica emotiva dei soggetti depressi di un’emozione attiva come la rabbia contribuisce a spiegare perché è difficile che le persone con organizzazione depressiva siano palesemente tristi e avvilite nel periodo pre-morboso o, nelle depressioni croniche, durante le remissioni. Ritroviamo di regola questo tipo di atteggiamento, corrispondente all'ide a di una persone incline alla depressione propria nel senso comune, nelle persone con organizzazione ossessiva nella fase in cui rinunciano alle proprie pulsioni.Al contrario, le persone di cui qui ci occupiamo sono di regola attive, energiche, con molti interessi. A volte sono vulcaniche, brillanti, provocatorie, capaci di tenere banco. Naturalmente, quando la depressione irrompe, la disperazione non emerge in momenti circoscritti, ma prende l’intera scena. Tutto cade come una castello di carta e le persone con organizzazione depressiva, diventate ormai pazienti, sono così disperate che non riescono neppure ad alzarsi dal letto.

L’esordio sintomatico avviene di regola a seguito di rotture, separazioni dal partner o fallimenti lavorativi. A volte la risposta depressiva è immediata, più spesso insorge più tardi, quando la rabbia si stempera e la disperazione non basta a ristabilire l’appartenenza perduta perché il partner non intende coinvolgersi nuovamente. Altre volte il soggetto stesso non viene indotto dalla disperazione a più miti consigli: il senso della propria dignità personale non gli permette una riconciliazione.Rabbia e comportamenti aggressivi provocano nel mondo relazionale del depresso conflitti, rotture e allontanamenti da relazioni significative. L’effetto pragmatico della depressione nella mia casistica era riconnettere il paziente agli altri e farlo uscire dall’isolamento. Poiché si trattava di avvicinamenti, richiesti dalla condizione di malattia, la sua dignità poteva essere preservata.Naturalmente il prezzo pagato era il perdurare di una sofferenza devastante. La depressione conclamata inibisce i comportamenti interpersonali distruttivi e spesso avvia meccanismi di riconciliazione.L'ipotesi che la depressione faciliti il ristabilimento di rapporti interpersonali lacerati dai conflitti spiega come mai questa patologia sia ciclica.

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6.4 Il contesto intersoggettivo nel momento presente

I pazienti depressi adulti si trovano in una situazione relazionale analoga: emotivamente distanti dalla propria famiglia di origine, con cui a volte avevano interrotto ogni frequentazione, - o erano coinvolti in una relazione fortemente conflittuale con il partner - o erano reduci da una rottura sentimentale recente.Sebbene avessero spesso una vita centrata sul lavoro, sul denaro, sul potere, sulla creatività , quello che bramavano era una relazione affettiva profonda, coinvolgente fusionale, entro la quale essere riconosciuti come uomo o come donna. Difficilmente erano riusciti a crearla, mai a mantenerla. Anche se lontana dalle aspettative, la relazione di coppia entro cui erano coinvolti e il conflitto che la attraversava erano di regola centro del loro universo emotivo. Nell'organizzazione depressiva,vi è la presenza della relazione significativa tra depressione e conflitto coniugale. I conflitti interpersonali che l’insorgere della depressione arresta riguardano di regola la relazione di coppia, ma è una semplificazione inaccettabile presumere che il conflitto coniugale sia causa della depressione o viceversa.Il partner può essere estremamente valorizzato, perlomeno nella fase inziale della loro relazione, l'ha adorato, idealizzato, amato e ha cercato di essere contraccambiato, dedicandogli tempo, risorse, attenzioni.Quando il partner è idealizzato o lo è stato più facilmente la relazione diventa esplosiva, a volte violenta. Alcuni dei miei pazienti avevano iniziato la terapia proprio per controllare l’aggressività verso il partner.Altrettanto frequenti sono i partner svalutati ontologicamente. Si tratta di una scelta sbagliata in origine, perlomeno agli occhi del paziente. Sono persone non degne, con cui il paziente sembra essersi coinvolto pur di non rimanere solo. Mantenere la relazione con loro contribuisce a far sentire il paziente indegno e a escluderlo dal mondo a cui sarebbe stato destinato.La relazione con questi partner è generalmente meno conflittuale, perchè possessività e gelosia sono meno acute. Sebbene oggetto di radicale svalutazione e di critiche, raramente i pazienti pensanodi lasciarli. L'ostacolo è spesso la gratitudine – il compagno è stato loro fedele, li ha salvati dalla disperazione – oppure mancanza di stima in se stessi: “in fondo non penso di meritarmi tanto di più”.Qualche volta il paziente s'identificava nel partner palesemente inadeguato difendendolo con veemenza. Era tuttavia convinto che il mantenimento della relazione aumentasse la sua emarginazione anche se gli consentiva di scaricare sul partner la responsabilità di un'esclusione di cui sarebbe comunque stato oggetto.

2 configurazioni relazionali prima dell'esordio del sintomo:Tra i pazienti della mia casistica che si erano costruiti una propria famiglia o un rapporto di

coppia consolidato, due configurazioni relazionali risultavano ricorrenti nel periodo precedente l’esordio sintomatico.

1^ Configurazione → vede il paziente in una posizione di esclusione mentre il partner è al centro di tutte le relazioni. Questa configurazione, più frequentemente quando il compagno è valorizzato, è l’esito di un processo conversazionale a volte lungo a cui il paziente contribuisce con l’aspettativa di una relazione totalizzante con il partner e la conseguente gelosia e possessività ( → Il desiderio di un rapporto di coppia fusionale). Figli, parenti e amici sono infatti avvertiti come minaccianti.Sentendo il futuro depresso distante o apertamente ostile, i figli sviluppano un attaccamento intenso con l'altro genitore, generalmente più disponibile verso di loro.Gli amici si legano di più al partner in genere più accogliente e desideroso di stimoli esterni.I parenti del compagno rimangono lontani e mantengono rapporti individuali con il proprio congiunto anziché con la coppia.

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La delusione per l’incapacità del coniuge di corrisponder alle sue aspettative totalizzanti, e la reale marginalità in cui si trova nella famiglia, rendono il soggetto con organizzazione depressiva aggressivo e provocatorio di regola verso il partner e solo secondariamente verso i figli. Quando, perlopiù a causa dei suoi comportamenti aggressivi, s’incrina la relazione di coppia, il soggetto con organizzazione depressiva si ritrova completamente solo. Il suo mondo relazionale risulta desertificato perché era connesso agli altri attraverso il partner.Anche per questo le persone con questa organizzazione, sebbene capaci di rompere le relazioni, sono riluttanti a chiudere la relazione di coppia e accettano a lungo una situazione che alimenta rabbia e li fa sentire indegni. Si sentono emarginati, esclusi, respinti da coloro che mantengono. Ignorati, sopportati da un partner che ha acquistato sicurezza e centralità proprio grazie alle loro attenzioni esclusive.

2^ Configurazione → il futuro depresso non soltanto è nella posizione di chi si trova escluso nella propria famiglia nucleare, ma assiste contemporaneamente all’inclusione del proprio partner nella propria famiglia di origine, inclusione della quale (come vedremo nel prossimo paragrafo) non ha mai potuto fruire. Generalmente il compagno non ha intenzionalmente cercato di conquistarsi la famiglia del partner, ciò nondimeno il paziente si sente da questi depredato della sua stessa famiglia di origine.

Queste due configurazioni, così come l’acuto conflitto di coppia che di regola precede l’esordio sintomatico depressivo, possono essere meglio comprese se lette alla luce della frattura del soggetto con organizzazione depressiva con la sua famiglia di origine.Alcuni dei pazienti non avevano interrotto la frequentazione con la famiglia, ma i rapporti erano formali. Altri erano nella posizione di pecora nera, perché avevano messo in atto comportamenti censurati dal nucleo originario.

La distanza emotiva del paziente dalla sua famiglia di origine, a prescindere dalla storia che l’ha creata, contribuisce a spiegare il conflitto di coppia. Apre infatti un vuoto affettivo che alimenta aspettative e richieste totalizzanti verso il partner. Gli fa temere l’abbandono perché non ha una famiglia di origine che lo accolga. Per di più, per molti pazienti il partner rappresenta l'unica relazione interpersonale in cui sono emotivamente coinvolti.Questo spiega perchè le persone inclini alla depressione mantengono a lungo una relazione di coppia anche se si sentono per questo indegni.

6.5 La ricostruzione del triangolo originario in terapia (contesto relazionale originario)

Esiste un sostanziale accordo da parte dei clinici e dei ricercatori che l’esperienza relazionale delle persone con grave depressione sia segnata da un fallimento nelle relazioni primarie. Dalle ricerche di Brown era emerso che la perdita o la separazione dalla madre prima degli undici anni aumenta il rischio di depressione in età adulta. Successive ricerche di Brown hanno permesso di chiarire che in realtà la variabile cruciale non è tanto la perdita della madre quanto la qualità delle cure successive. Abbandono e abuso prima dei diciassette anni duplicano il rischio depressivo in età adulta.L'ipotesi quindi che pattern di attaccamento mancato o evitante siano all'origine delle depressioni croniche (Bowlby, 1980) è sicuramente condivisibile. Tuttavia è aspecifica e non spiega come mai i depressi possiedono una capacità di sviluppare le relazioni sentimentali, sconosciuta ai disturbi di personalità narcisistici, e superiore a tutte le altre gravi psicopatologie.

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In realtà, la configurazione di rapporti entro la quale aveva preso forma il positioning dei pazienti durante gli stadi maturativi ha messo in evidenza una configurazione complessa caratterizzata da tre componenti. 1. Il contesto familiare del futuro depresso sembra essere caratterizzato da una coppia che non lascia spazio alle relazioni verticali genitore-figlio.Nella dinamica familiare in cui si sviluppano le organizzazioni depressive, il figlio, futuro paziente, non solo non è in alcun modo triangolato dai genitori, ma si sente sostanzalmente ignorato.- La coppia dei genitori può essere coesa e ben funzionante. In questo caso i suoi confini sono troppo rigidi per lasciare spazio al figlio che non trova un positioning di qualche rilievo fra i genitori.- Più spesso la coppia non è affatto unita. In questi casi un partner frustrante – spesso una personalità narcisistica – monopolizza totalmente le attenzioni del coniuge a volte adorante. Il genitore frustrato potrebbe, in teoria, essere disponibile per il figlio. Di fatto non lo è o non è percepito come tale: le difficoltà della relazione di coppia assorbono tutta la sua emotività o le capacità relazionali residue sono rivolte ad altri figli. L’esito è che il futuro depresso non trova spazi per sé.In sintesi: la dinamica emotiva della famiglia era centrata sulla relazione di coppia – coesa o conflittuale che fosse – e il figlio che sarebbe diventato depresso ne era escluso.2. Tutto ciò genera nel figlio rivalità, gelosia e invidia verso uno o entrambi i genitori. Questi sentimenti, sperimentati in modo violento dai pazienti della mia casistica, non sono ai loro occhi giustificati perché i genitori non mettono perlopiù in atto comportamenti ostili o persecutori verso di loro, se mai verso il coniuge.Il futuro depresso è quindi indotto da queste emozioni a sviluppare una percezione di sé negativa.3. In questa situazione relazionale si apre di fronte al futuro depresso, durante l’infanzia, l’adolescenza o anche la giovinezza, la possibilità di prendere posto tra gli eletti. Stabilire una relazione potenzialmente esclusiva e gratificante con uno dei genitori, o con un altro membro importante della famiglia, sembra finalmente possibile al futuro depresso, che naturalmente sarebbe ben felice di passare al positioning di escluso a quello di accolto, scelto. La risposta ricevuta dall’adulto presso cui ricerca l’inclusione è invece una ripulsa indignata. L’offerta relazionale del bambino è censurata: usurpa una posizione che non gli appartiene. A volte il bambino non riesce neppure a proporsi al genitore nella posizione di eletto perché l’altro genitore blocca sul nascere il movimento relazionale censurandolo come indegno. In alcuni casi è il bambino stesso che si nega la possibilità di un’inclusione fra gli eletti, convinto che una mossa di questo tipo getti nella disperazione uno dei genitori.

→ In tutte le situazioni menzionate il futuro depresso si trova in una posizione relazionale che gli restituisce un’immagine di sé negativa: mantenere una posizione di esclusione significa infatti sperimentare sentimenti di rivalità, invidia e gelosia verso una coppia incapace di offrire momenti di condivisione. Tentare di spostare il proprio positioning tra coloro che sono amati, onorati, inclusi, comporta essere indegno, ignobile.

La morte di un genitore crea una situazione relazionale che si presta in modo singolare a creare una situazione relazionale con gli ingredienti descritti.

6.7 Le risorse delle organizzazioni depressive

La persona con organizzazione depressiva costruisce la propria esclusione dal gruppo (reale o supposta) come un'onta, una danno irrevocabile che lede la propria dignità, come un sovvertimento di un ordine naturale che incrina definitivamente il proprio destino. Proprio l'esclusione sperimentata nella famiglia di origine permette alle persone con questa organizzazione di vivere spesso un'adolescenza e una giovinezza meno problematiche dell'infanzia. Nelle situazioni meno patologiche, l'apertura di mondi esterni alla famiglia offre al soggetto la possibilità di appartenere che gli era stata negata nella famiglia di origine. Crescere, e crescere in

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fretta, per queste persone è spesso una storia ambita. Non avendo avuto stretti legami, né triangolazioni, lo svincolo dalla famiglia di origine che nell'adolescenza e nella giovinezza è necessario è per loro una storia permessa e spesso esaltante.

Naturalmente questa disponibilità a coinvolgersi in contesti esterni alla famiglia può rivelarsi pericolosa. Il soggetto può, ad esempio, finire per dipendere emotivamente dal gruppo di amici fino a compiere azioni autolesive per assicurarsi l’appartenenza o può sviluppare relazioni sentimentali precoci dannose. I rischi sono naturalmente molti ma il vuoti affettivo che i soggetti con questa organizzazione si lasciano alle spalle una spinta potente a costruire nuove realtà conversazionali.Ciò che soprattutto il giovane con questa organizzazione cerca di creare è una coppia.L'amore romantico, fusionale, così come l'intendiamo noi moderni, dove ciascun partner è il centro dell'universo emotivo dell'altro, è senz'altro una dimensione tipica delle organizzazioni depressive.Naturalmente le aspettative totalizzanti del futuro depresso nei confronti della coppia, la difficile storia relazionale con la famiglia di origine candidano la coppia nata su queste premesse al naufragio. L’esito è spesso una relazione con il partner conflittuale. Tuttavia l’interesse che il depresso ha per la relazione di coppia e la sua capacità di fusionalità e di intimità costituiscono risorse preziose. Prima di tutto per loro stessi: anche pazienti gravi sono frequentemente capaci di costruire e mantenere la relazione di coppia. Ma anche per la terapia il coniuge è di regola una risorsa fondamentale nel processo terapeutico e a rinegoziare col paziente depresso un diverso positioning, il coniuge è di regola una risorsa fondamentale nel processo terapeutico perchè emotivamente legato al paziente.

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Cap. 7Semantica familiare relazione terapeutica

7.1 E il terapeuta dove si posiziona?

Il terapeuta e la stessa esperienza terapeutica finiscono per con-porsi nella semantica dominante nella conversazione familiare. Non avremo un unico modo di costruire la relazione terapeutica ma tanti modi diversi quante sono le semantiche. Anche i pazienti con psicopatologie diverse dalle 4 su cui si siamo aoffermati, o con problemi esistenziali, se appartengono a contesti conversazionali dove domina una delle quattro semantiche descritte, sviluppano la relazione terapeutica in modo analogo.La variabile cruciale che modella la relazione terapeutica non è la psicopatologia, ma la semantica dominante nei contesti conversazionali del paziente.

LA TERAPIA FRA ESPLORAZIONE E PROTEZIONESemantica della libertà → il terapeuta soprattutto all’inizio del trattamento, si troverà

collocato nel polo della “libertà”. Volente o nolente, finirà nella posizione di chi, ad esempio, stimola il paziente a emanciparsi da legami soffocanti o a superare limiti angusti. Proprio per questo dovrà confrontarsi con la paura del paziente della terapia. Come conseguenza di queste preoccupazioni, la richiesta avanzata dal paziente di un percorso terapeutico individuale si configura di regola come una cauta esplorazione, spesso seguita da un rapido allontanamento. Il paziente ritorna dopo qualche mese. Non credo sia casuale che molti dei pazienti non sapessero, nel momento in cui chiesero la terapia, che ne sarebbe stato del loro futuro. Alcuni erano in procinto di andare all'estero per motivi di lavoro o di studio, altri stavano per trasferirsi in un'altra città o, dovendo cambiare lavoro e mansioni, non sapevano se avrebbero potuto assentarsi dal lavoro per le sedute. Tutte situazioni che limitavano l'intervento a una consultazione, in attesa che il paziente si facesse un'idea più chiara del suo destino.Gli obbiettivi terapeutici dovevano essere circoscritti: i limiti di tempo non consentivano di poter fare di più.Spesse volte, ancora più destabilizzante è la pura di poter essere cambiati, trasformati. È una paura che ritroviamo in molte persone abituate comporsi in contesti dove prevale la semntica della libertà. Rimasti troppo a lungo nella nicchia di legami protettivi, si sentono spesso individui non completamente sviluppati, passibili quindi di venir trasformati dall'incontro con persone che diventano per loro essenziali.Per i pazienti in cui domina la semantica della libertà la terapia può iniziare soltanto quando il terapeuta funge da “base sicura” a cui potersi avvicinare e allontanare con una certa libertà.La collocazione del terapeuta nel polo “protezione”, che si verifica di regola nelle fasi avanzate del processo terapeutico, ci fa capire come il paziente non abbia torto nel temere l’esperienza terapeutica. Una volta che il terapeuta è diventato un affidabile punto di riferimento, le sue aspettative diventano difficilmente eludibili per il paziente che non può perderne la guida. Sebbene siano atterriti dall'esperienza terapeutica, le persone provenienti da contesti conversazionali in cui prevale la semantica della libertà difficilmente accettano di portare la propria famiglia in terapia, spacialmente in prima battuta. Coinvolgere la famiglia d'origine o il partner in un'esperienza su cui non possono esercitare alcun controllo è per loro più pericoloso che avventurarsi da soli. Bene o male se sono da soli possono sempre chiudere l’esperienza senza compromettere le relazioni da cui sentono di dipendere così tanto. Soltanto dopo aver conosciuto il terapeuta possono condividere con il partner o con la propria famiglia di origine l’esperienza terapeutica.

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IL TERAPEUTA TRA ANTAGONISTA E ALLEATOSemantica del potere → Difficilmente, quando essa domina la conversazione, il terapeuta è

sentito come una persona intenta a trova insieme al paziente e alla sua famiglia una via di uscita. L’ostacolo è rappresentato dall’asimmetria che caratterizza la relazione paziente-terapeuta, che viene letta attraverso la metafora del potere. La relazione terapeutica è congruentemente sentita come umiliante. La stessa definizione del giorno e dell’orario dell’appuntamento può essere problematica.È evidente che, agli occhi del paziente, la terapeuta approfitta del suo bisogno per umiliarla facendole provare imbarazzo e vergogna. E la paziente deve adeguarsi fintanto che ha raggiuntoi suoi obietivi.Le pazienti obese spesso ridicolizzano con il terapeuta in pectore le esperienze precedenti con altri curanti. Ne escono racconti che sono avvertimenti per il candidato terapeuta.Sviluppare l’alleanza terapeutica con questi pazienti è un’impresa ardua. Quando la conversazione è dominata dalla semantica del potere, i tentativi del terapeuta di risolvere il problema sono di regola visti come plot per ottenere una posizione di superiorità nella relazione terapeutica. Stimolano quindi opposizioni dirette – il paziente si rifiuta di fare quello che il terapeuta suggerisce ingaggiando con lui una battaglia a viso aperto – o indirette – il paziente mostra di fare quello che il terapeuta suggerisce mettendolo di fronte al suo insuccesso: il problema non si modifica di una virgola. Questo perchè le pratiche interpretative venivano accolte dai pazienti con i disturbi alimentari come “intrusioni minaccianti”.

Non soltanto la psicoanalisi, ma tutti gli approcci terapeutici individuali, soprattutto se centrati sulla soggettività del paziente, incontrano numerose difficoltà quando prevale la semantica del potere. A causa del prevalere nella conversazione familiare di una polarità puramente relazionale come vincente/perdente e delle conseguenze dinamiche competitive, l'interesse di quanti si compongono entro questa semantica è selettivamente rivolto agli altri con cui costantemente si confrontano, a cui oppongono o si adeguano, che cercano di dominare, conquistare, superare o che imitano. Le emozioni che sentono, le loro stesse capacità e risorse individuali, il loro mondo interiore sono trascurati sia da loro stessi sia dagli altri membri della famiglia. Focalizzando l’attenzione sulla loro soggettività, lo psicoanalista, ma anche gli altri psicoterapeuti con impostazione intra-psichica, aggravano quel sentimento d’impotenza contro il quale soprattutto le persone con disturbi alimentari psicogeni combattono strenuamente. Il confronto diretto con la propria soggettività fa sentire questi pazienti perdenti, perché li conduce entro un mondo che non padroneggiano. La terapia della famiglia ha elaborato nel corso della storia una serie di tecniche strategiche meta-complementari per neutralizzare la simmetria tra paziente e terapeuta o per sfruttare a fini terapeutici la posizione di antagonista del terapeuta.Molti degli interventi paradossali utilizzavano la sfida come strumento terapeutico. Provocazioni e sfide sono comunque strumenti delicati, di cui anche in passato la terapia familiare ha fatto uso quando le altre possibilità sembravano impraticabili.Accanto alla posizione di antagonista, necessariamente da combattere, si apre per il terapeuta quella più promettente di alleato. Il paziente è anche disposto ad accettare una relazione che in quanto asimmetrica gli è sgradita pur di conquistare un alleato. Chi telefona è di regola chi si sente perdente e proprio per questo offre spesso già nel colloquio telefonico la propria alleanza al terapeuta. Sfortunatamente si tratta di un’alleanza molto diversa da quella che ricerca il terapeuta perché è un alleanza contro qualcun altro. Una coalizione.

La terapia della famiglia è spesso l’unico trattamento che il paziente cresciuto nella semantica del potere è disposto ad accettare proprio perché responsabilizza del problema tutta la famiglia. Il coinvolgimento di tutti, coerentemente con la semantica di questi nuclei, è visto dal paziente come un riconoscimento che i genitori e gli altri membri della famiglia sono quanto meno corresponsabili del problema.Anche quando gli incontri coinvolgono tutti, i genitori vivono il terapeuta come un adulto competitivo che li destituisce di ogni autorevolezza e li prevarica sostituendosi a loro nella guida dei figli e proponendosi come un modello alternativo.

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Una situazione che irrita soprattutto chi dei genitori è in posizione vincente.L'altro, che non ha mai avuto o ha già perso una posizione di leadership verso i figli, spesso vede qualcosa da guadagnare dalla terapia: quantomeno può veder ridimensionato il partner.Da questo modo di leggere la relazione terapeutica non si sottraggono i figli e sopratutto il paziente, che spesso assume un ruolo attivo in questa dinamica contrapponendo il terapeuta ai genitori. Non è un caso che molte anoressiche e bulimiche si iscrivano durante la terapia a Psicologia o dichiarino ai genitori di volerlo fare. Una scelta particolarmente irritante per i genitori che amiscono a porsi come modello per i loro figli. Ma i follow up dimostrano come l’esperienza terapeutica non abbia sollecitato la nascita di una vocazione: quando la terapia finisce, queste giovani passano ad altro corso di studi o, se non si erano ancora iscritte a psicologia, cambiano idea.Naturalmente lo sforzo del terapeuta è di trasformare l’alleanza “contro” in un’alleanza “per”. Se la semantica del potere continua a dominare la conversazione, e altre semantiche non ne relativizzano l’importanza, il trattamento sarà necessariamente breve (è comunque raccomandato di rientrare entro le 20 sedute, anche se in questi casi è una scelta coatta).Non appena il paziente abbandona il sintomo, i genitori di regola mettono fine alla terapia, spesso festeggiando la fine di un'esperienza avvertita come pesante.Questa dinamica, di certo frustrante per i terapueti, è anche una formidabile risorsa. Spesso i genitori, per porre termine all'eperienza terapeutica e recuperare la leadership perduta, sono in grado di fare notevoli cambiamenti e di diventare così preziosi co-terapeuti. Naturalmente anche il perapeuta ha una o più semnatiche prevalenti che contribuiscono alla creazione della relazione terapeutica. Tuutavia tende a prevalere nella conversazione terapeutica, sopratutto inizialmente, la semantica del paziente.

7.2 Tante terapie diverse quante sono le semantiche?

Sebbene i principali indirizzi clinici, in teoria, si occupino di tutte le forme di disagio psichico, in pratica ciascuno di essi si è centrato, nel corso della sua storia, solo su alcune psicopatologie, e di conseguenza solo su alcune semantiche.

È stato il behaviorismo prima e il cognitivismo poi a fare delle fobie il proprio campo d'indagine privilegiato.

La nevrosi ossessivo compulsiva, così come l’isteria, sono un prodotto della psicoanalisi, e nello stesso tempo hanno avuto un ruolo cruciale nella costruzione dell’edificio psicoanalitico.

Le psicopatologie alimentari costituiscono invece le psicopatologie di elezione delle psicoterapie familiari. Un tratto caratteristico di queste psicopatologie è di essere rivelate singolarmente inadatte a essere comprese e trattate entro schemi rigidamente intrapsichici.

E’ forse superfluo aggiungere che negli ultimi vent’anni la depressione è stata la patologia di elezione della psichiatria biologica. L’ipotesi che la depressione fosse una malattia del cervello è stata, come si è visto, accettata in modo pressoché incontrastato negli anni novanta. Soltanto a partire dal novo millennio le critiche all’impostazione biologica si sono fatte progressivamente più stringenti e documentate, così come è stata dimostrata la scarsa efficacia dei serotoninenrgici che avrebbero dovuto curarla.

La consonanza fra la semantica del paziente e quella del modello del terapeuta rende sicuramente più facile la creazione della relazione terapeutica, senza la quale è impossibile la terapia.Tuttavia la consonanza può rappresentare un ostacolo al cambiamento terapeutico. Le psicoterapie sistemiche hanno sostenuto che il cambiamento è connesso in modo cruciale alla capacità di costruire assieme al paziente e alla sua famiglia nuovi significati.Tuttavia la condivisione della semantica può essere limitante per il terapeuta. Una volta che l’alleanza terapeutica è costruita il terapeuta deve cercare di rendere salienti anche altre semantiche relativizzando quella critica.

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Il concetto di polarità semantiche familiari, che è alla base del modello psicopatologico che ho presentato, prevede che le organizzazioni del significato siano sistemi aperti passibili di modificazioni. In tutte le famiglie vi sono più semantiche salienti. I processi schismogenetici tendono a ridurre la varietà delle semantiche attorno alle quali si organizza la conversazione, ma non la eliminano. La posizione rende sempre accessibili storie diverse da quelle generate dalla posizione stessa rispetto alla semantica critica. Anche per un inquadramento diagnostico è necessario definire la posizione del paziente e delle persone per lui significative rispetto a più semantiche. Ma è sopratutto in relazione al processo di cambiamento che è necessario tenere presente che il paziente ha costruito la propria storia in rapporto a più semantiche e che proprio per questo dispone di modalità di organizzare l’esperienza più ampie di quelle generate dalla semantica critica. Il terapeuta deve infatti contrastare un processo di amplificazione della rilevanza della semantica critica innescato dall’esordio sintomatico.La terapia contribuisce di regola a questo processo di amplificazione della semantica familiare critica.