Storie Vere

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Uno spaccato vivo e pulsante della Sicilia nella seconda metà del secolo. Testimonianse concrete del nostro più immediato passato.

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Vincenzo Portella

Storie vereDai lupi

alla bomba atomica

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In memoria di mia madre

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Il premIo

Alla fine della seconda guerra mondiale la mia famiglia ot­tenne da un grosso feudatario del paese un vasto terreno agri­colo da coltivare a mezzadria con annessa casa colonica da abitare. Io che allora ero soltanto un ragazzino avevo dovuto lasciare la scuola per aiutare mio padre e i miei fratelli nel fati­coso e interminabile lavoro dei campi, ma riuscivo sempre nel pomeriggio a svignarmela per andare a giocare un po’ col mio amico Giovanni a catturare lucertole, uccellini, a rubare le uova dai nidi per aprirle e vedere cosa c’era dentro, a salire sugli alberi da frutto per mangiarne i succulenti doni fino a scoppiare.

Un pomeriggio in cui Giovanni tardava ad arrivare al no­stro appuntamento sotto il carrubo decisi di andargli incontro, e così m’incamminai lungo il sentiero che portava verso il po­dere contiguo al mio che la famiglia di Giovanni aveva preso in affitto anch’esso con relativa casa colonica. Calpestando for­miche, calciando sassi e inseguendo farfalle arrivai in un batti­baleno alla casa del mio amico e non vedendo anima viva nel­l’aia antistante l’abitazione raggiunsi la porta d’ingresso che, data la bella stagione, era completamente spalancata.

«Sei Enzo, vero?» chiese una voce femminile.Abbagliato dal fulgore adamantino della luce estiva in cui

ero stato immerso fino a quel momento non riuscivo a distin­guere niente all’interno della stanza se non una vaga e fresca penombra.

«Sì,» risposi aguzzando la vista «c’è Giovanni?»«Sono qui, vieni! Entra!» esclamò la voce dell’amico e io

mi feci avanti mentre i miei occhi cominciavano ad abituarsi all’oscurità di quell’ambiente. Notai allora che la superficie esterna della porta d’ingresso era rovinata da lunghe e profon­de scalfitture parallele fra loro che s’intersecavano in più punti formando tanti reticoli irregolari e confusi.

Non avevo mai visto niente di simile. Le case coloniche in cui vivevamo non erano certo delle regge, anzi: si trattava di

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misere casupole con il solo pianterreno e la stalla sul retro dove tutto era grezzo, sporco, fatiscente, ma una porta così malcon­cia era veramente troppo anche per noi contadini. C’era qual­cosa di strano in quella porta, qualcosa che non mi convinceva...

«Accomodati, Enzo» sollecitò la prima voce; io staccai lo sguardo dalla porta e vidi proprio di fronte a me una donna di mezz’età, la madre di Giovanni, seduta su una sedia bassa. Reg geva sulle ginocchia una lastra di pietra e un sasso con la mano destra; con la sinistra prendeva una mandorla da una cesta appoggiata a terra e stringendola fra il pollice e l’indice la po sizionava sulla lastra di pietra, quindi la schiacciava col sasso lasciando poi cadere il tutto in un’altra cesta appoggiata an ch’essa a terra davanti a sé.

A quei tempi le donne passavano molte ore a svolgere que­sto lavoro sia per la famiglia che per conto terzi; le mandorle, ancora più preziose del grano, si vendevano poi ai grossisti mentre i gusci servivano per alimentare il fuoco del forno: nul­la veniva sprecato nelle nostre famiglie che erano unità pro­duttive e non, come oggi, unità di consumo.

«Giovanni è là» indicò la madre con un impercettibile cen­no del capo e io lo vidi sdraiato su un pagliericcio in fondo alla stanza.

«Cosa ti è successo?» domandai dispiaciuto.«No, non è niente. Stavo salendo sul mandorlo per racco­

gliere un po’ di resina quando il ramo su cui mi trovavo si è spezzato e sono piombato a terra. Adesso mi fa male una gam­ba, è un po’ gonfia, ma mi è andata bene: potevo rompermi l’osso del collo!» rispose il mio amico contento per lo scampato pericolo.

Raccogliere la resina che stillava dal mandorlo (solo dal man­dorlo) e venderla allo speziale che la utilizzava per preparare le medicine era per noi ragazzi un modo semplice, anche se al quanto rischioso, di procurarci dei soldi che spendevamo per andare al cinema, per comprare le sigarette, il gelato e tutte quelle cose superflue che le nostre povere famiglie non poteva­no concederci.

«Ma... la tua porta... È stata una bomba?» Ero divorato dal­la curiosità; durante l’avanzata degli anglo­americani aveva­

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mo subito parecchi bombardamenti per cui la mia ipotesi po­teva essere del tutto plausibile.

«Macché bomba e bomba!» scoppiò a ridere Giovanni. «E che, non lo sai ? Questa era la casa di Cosimo Cremoni!»

«E chi era ‘sto Cosimo Cremoni?» chiesi stupito.«Ma come, non conosci la storia di Cosimo Cremoni?!»

gridò Giovanni.«Mai sentito nominare.»«Mamma,» disse allora Giovanni «raccontaci la storia di

Cosimo: Enzo non l’ha mai sentita!»La madre smise per un momento di schiacciare le mandor­

le, ci guardò, ci sorrise, poi riprese il suo lavoro e lo scroscio regolare dei gusci che si frantumavano sotto la pietra fu la co­lonna sonora del seguente racconto.

Agli albori del ventesimo secolo la stragrande maggioranza della popolazione di quei luoghi viveva di agricoltura e di pa­storizia, le attività dell’uomo più antiche ma anche le più dure e faticose, e ciò comportava una sempre maggiore necessità di terre da coltivare e pascoli per il bestiame. I contadini conti­nuando gradualmente a sottrarre spazio alla vegetazione spon­tanea e agli animali selvatici erano arrivati molto lontano dai paesi, e non potendo tornare a casa tutte le sere vivevano per lunghi periodi soli in aperta campagna.

Nonostante i loro sforzi però i raccolti rendevano poco per­ché spesso e volentieri danneggiati dalle intemperie o dai pa­rassiti e per riuscire a sbarcare il lunario dovettero adattarsi a diventare anche allevatori di animali: cavalli, muli, asini, maia li, agnelli, capre, pollame, conigli, porcellini d’India che in parte utilizzavano per la loro tavola e in parte vendevano aggiun­gendo così un’ulteriore possibilità di reddito per le loro magre finanze famigliari.

La stessa vita solitaria in campagna, come tutti sanno, la facevano anche i pastori sempre alla ricerca di pascoli nuovi e freschi per le loro greggi; delle pecore, unico loro cespite, ven­devano la lana, la pelle, formaggi e ricotta ricavati dal latte, la carne e perfino lo sterco che veniva acquistato dagli ortolani per concimare i vivai. A sera contadini e pastori dopo una mas­sacrante giornata di lavoro non potevano neppure dormire sonni

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tranquilli perché i loro animali, sia quelli piccoli che quelli gran­di, rischiavano perennemente di essere rubati da immancabili ladri di bestiame o sbranati dalle bestie selvatiche sempre affa­mate.

Galline e conigli, chiusi in rustiche gabbie, erano vittime delle talpe e dei topi mentre gli armenti, ammassati in recinti delimitati da staccionate di legno o da muretti fatti di pietre poste a secco l’una sull’altra (in entrambi i casi l’altezza non superava il metro), erano sempre più spesso prede dei lupi. Eh sì, i lupi! Essi specialmente d’inverno piombavano a branchi sul bestiame causando ai poveri contadini e pastori, impotenti perché soli, danni incalcolabili.

I malcapitati si erano provvisti spendendo molti soldi di cani addestrati ad affrontare e mettere in fuga i lupi, di fucili, con cui ogni tanto sparavano dei colpi nel buio per spaventare le belve, mantenevano fuochi accesi per intere nottate sperando che fossero sufficienti a tenerle lontane, approntavano trappo­le di tutti i generi, ma ogni loro contromisura era vana. I lupi diventavano sempre più numerosi e temerari tanto da sferrare i loro assalti anche in pieno giorno mentre il bestiame era al pa­scolo, sotto gli occhi atterriti del povero pastore che non pote­va fare altro che invocare aiuto nella speranza che qualcuno glielo recasse al più presto possibile.

I contadini, i cacciatori e tutti coloro che si trovavano nelle vicinanze udendo le grida del pastore, lo strepito indiavolato degli armenti terrorizzati e gli ululati dei lupi accorrevano sul luogo della strage ma quando arrivavano era sempre troppo tardi: le belve, fulminee, avevano già terminato la loro ennesi­ma carneficina. La situazione era diventata insostenibile per gli sfortunati contadini e pastori, ma le autorità dei paesi della zona si convinsero a prendere provvedimenti solo quando fu evidente che i lupi si avvicinavano sempre più ai centri abitati.

Allora anche chi non era pastore o contadino cominciò ad avere paura, la popolazione insorse contro le forze dell’ordine che non la proteggevano da un così grave pericolo e le autorità decise a estirpare quel problema alla radice istituirono un co­spicuo premio in denaro per ogni lupo vivo o morto, cucciolo o adulto consegnato alla locale caserma dei carabinieri.

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Nonostante fosse al novanta per cento analfabeta la gente sapeva però far di conto e raddoppiando il premio per due lupi catturati, triplicandolo per tre, quadruplicandolo per quattro intuì con chiarezza che quella era un’occasione più unica che rara di migliorare enormemente il proprio tenore di vita: ba­stava solo ammazzare qualche lupo! Non doveva essere poi molto difficile dato l’alto numero di esemplari che infestavano quei territori! E così tutti, ma proprio tutti gli uomini di quelle zone, anche chi come i commercianti e gli artigiani non aveva niente a che fare con la campagna e i lupi, si armarono di fucili e cani comprati a caro prezzo, e spesso firmando cambiali da pagare alla riscossione del premio, per buttarsi a capofitto in quello strano safari tanto altamente patrocinato quanto lauta­mente ricompensato.

Anche Cosimo Cremoni avrebbe voluto catturare almeno un lupo, ma s’era messo l’anima in pace: questa volta la fortu­na non era stata dalla sua parte. Aveva sprecato tanto tempo, tanta fatica, perso tanto sonno, spesi tanti soldi per cartucce da sparare, ma niente, niente di niente, anzi: peggio di niente per­ché un colpo di doppietta vagante gli aveva ammazzato il cane che era costato anch’esso un bel po’ di quattrini. Eppure egli era un bravo cacciatore, aveva una mira infallibile, ma quando ci si mette di mezzo la scalogna...

Se fosse riuscito ad acchiappare almeno un lupo, col relati vo premio e gli esigui risparmi di due anni di duro lavoro avreb­be potuto finalmente comprarsi un cavallo: era stanco di cam­minare appresso alla sua vecchia asina, Affunzina, tanto maci­lenta da costringerlo a diminuirle ogni giorno il carico se non voleva che essa si buttasse a terra per rialzarsi solo dopo essere stata completamente liberata dal peso che le spezzava la schie­na. Cosimo infatti faceva l’ortolano; aveva preso in affitto un podere in una zona semicollinare a circa dieci chilometri dal paese (lo stesso in cui si trovavano ora il mio amico Giovanni e la sua famiglia) dove viveva stentatamente con la moglie e il figlioletto di tre anni.

Da pochi e spelacchiati ulivi traeva l’olio per il suo fabbiso­gno alimentare annuale e per le lampade a olio, da uno scam­polo di terreno seminativo ricavava quando l’annata era buona

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il frumento sufficiente per fare il pane e la pasta per sei mesi, doveva curare a dovere vari alberi da frutto e un discreto aran­ceto per conto del proprietario del fondo che ne incamerava interamente la rendita, e infine se voleva guadagnare qualcosa doveva coltivare a ortaggi un lembo di terra pianeggiante fa­cilmente irrigabile grazie a un fontanile la cui acqua veniva raccolta in un’ampia vasca di pietra.

Ogni mattina quindi Cosimo caricava Affunzina di verdure per andare a venderle in paese, ma non ne poteva più di fare così tanti chilometri a piedi oltre il lavoro sfibrante della terra; un cavallo gli avrebbe fatto molto comodo non solo perché avrebbe potuto caricarlo di una soma maggiore e avere così più roba da vendere al mercato, ma anche perché, cosa ancora più importante, poteva cavalcarlo e ciò avrebbe significato ri posarsi mentre percorreva la strada in un tempo più breve. Sarebbe bastato un lupo, uno solo, per avere quel cavallo!

Quasi tutti i suoi compaesani avevano già incassato almeno un premio; ovviamente le cose non erano andate sempre lisce: per catturare le belve essi avevano spesso messo a repentaglio la loro stessa vita, avevano subito terribili spaventi, rischiato di essere impallinati al posto dei lupi (diversi furono i cacciatori ammazzati per sbaglio da loro colleghi mai identificati), ma alla fine erano riusciti nel loro intento e avevano portato a casa trionfanti il tanto agognato premio. Solo lui, Cosimo, non c’era riuscito: che figura ci faceva, oltretutto, nei confronti di quei fortunati compaesani?

Tali mortificanti considerazioni l’avevano depresso; ripose il pane, il coltello, la salvietta nella bisaccia (quando la moglie e il figlio erano in paese lui a mezzogiorno mangiava qualcosa al sacco seduto sotto il grande noce del cortile della casa) e l’appese a un ramo dell’albero, quindi raccolse da terra l’inse­parabile doppietta coi due colpi sempre in canna che in quei luoghi isolati significava coraggio, sicurezza, incolumità, auto­difesa, si allacciò alla vita la cartucciera e cominciò a risalire il pendio della collina per procurarsi un po’ di asparagi per la sera e magari, se era fortunato, anche una bella lepre.

Egli conosceva quelle zone come le sue tasche, sapeva dove trovare gli asparagi e infatti in meno di mezz’ora ne aveva già

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fatto un bel mazzo legato con dei fili di giunco che portava inseriti tra la cintura e i pantaloni, ma se voleva riuscire a pren dere una lepre senza l’aiuto del cane doveva ampliare il suo raggio d’azione. Battendo il terreno di cespuglio in cespuglio, di radura in radura s’inoltrò nella vasta area boschiva che rico priva la metà superiore della collina e all’improvviso si accorse di non udire più l’allegro brusio degli uomini al lavoro giù nel la vallata né il rumore dei loro attrezzi in funzione. Alle sue orecchie giungeva ora solo una sgradevole accozzaglia di versi di animali di tutti i tipi, frullii di ali di volatili che sfrecciavano bassi, ronzii di un’infinita varietà d’insetti mentre i raggi del sole, schermati dal fitto intrico di foglie e rami degli alberi d’al to fusto, illuminavano debolmente l’umido sottobosco su cui strisciavano, frusciando, serpenti che anche se non velenosi, erano però in grado di mettere in seria difficoltà un uomo strin gendolo fra le loro spire.

L’atmosfera non era delle più allegre, ma Cosimo non ave va certo paura! Lui era nato e cresciuto in campagna, era abi tuato a tutto e poi era armato della sua doppietta: cosa mai avrebbe dovuto temere? A un tratto in quel caotico frastuono che lo circondava riconobbe un rumore familiare: ‘La lepre!’ Cosimo imbracciò immediatamente il fucile pronto a far fuo co. ‘Ma... cos’è?!’

La bestiola che aveva appena intravisto scappargli davanti non era affatto una lepre!

‘Sembra un cucciolo di cane’ suppose Cosimo abbassando l’arma. Deciso a catturarlo perché di un cane aveva giusto bi­sogno cominciò a inseguirlo sicuro che l’animaletto si sarebbe presto stancato di correre e allora egli avrebbe potuto agevol­mente raggiungerlo e prenderlo con sé. Cosimo guardava di­vertito lo zampettare incerto della bestiola, il suo incespicare e ruzzolare a ogni sasso o radice che ostacolasse la sua corsa, la tenera goffaggine con la quale si nascondeva dietro a un ce­spuglio credendo di aver seminato il suo persecutore per poi saltarne fuori con un guaito quando si accorgeva che egli si stava avvicinando troppo.

Dopo aver così braccato il cucciolo per circa dieci minuti a Cosimo cadde di botto il velo dagli occhi: ‘Ma quello non è un

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cane, è un lupo!’ Come aveva fatto a non accorgersene prima?! Infuriato con se stesso per essersi quasi lasciato sfuggire il tan­to sospirato premio spianò ancora il fucile, mirò, ma il lupetto era già sparito tra un groviglio di rovi posti alla base di una vecchia quercia dal possente tronco squarciato da un fulmine.

‘Vuoi vedere che quella è la sua tana?’ si disse Cosimo e incurante del pericolo che stava correndo, accecato dal mirag­gio del premio si avvicinò all’albero, s’inginocchiò e cominciò a scavare con le mani nel punto in cui aveva visto sparire l’ani­male. Dopo diverse manciate di terra, foglie secche e ciuffi di pelo il buco fu abbastanza largo da guardarci dentro. Rischian­do di appiccare il fuoco a tutto il bosco accese un fiammifero e... meraviglia! Acquattati nel fondo della lupaia tre cuccioli stretti l’uno all’altro lo guardavano con gli occhioni sgranati tremando e guaiolando pietosamente.

Era veramente una fortuna insperata! Non un lupo, ma tre in una sola volta!

Immediatamente infilò tutto il braccio nella tana e senza badare ai rovi che gli graffiavano la faccia estrasse a uno a uno i tre lupacchiotti legando loro le zampine anteriori con altret­tante strisce di stoffa ottenute strappando il fazzoletto coi den ti. Si alzò quindi in piedi, si tolse la giacca, la stese a terra, vi adagiò sopra i tre cuccioli, ne annodò le maniche a formare un fagotto e prese la via del ritorno pregustando la gioia che avreb­be provato l’indomani nell’incassare il triplice premio. Nessu­no era riuscito a tanto! Tre lupi in un colpo solo! Cosimo era gonfio d’orgoglio: l’avrebbe fatta vedere lui ai compaesani chi era il cacciatore più bravo della zona!

‘Signore ti ringrazio! Adesso potrò comprare un cavallo, un terreno e mantenere mio figlio agli studi: lui non dovrà fare la vita da schiavo che ho fatto io! Questa volta ce l’ho fatta... sì... ce l’ho fatta, ce l’ho fatta!’

Arrivò a casa felice come una pasqua. Sistemò i cuccioli in una cesta di vimini e la chiuse in alto con una coperta che assicurò con una corda alle pareti della cesta stessa affinché i lupetti non potessero uscirne; poi gli sovvenne che era ora di andare nell’orto a raccogliere la verdura da vendere la mattina dopo al mercato, ma ciò voleva dire assentarsi da casa per al­

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meno due ore: e se qualcuno gli avesse nel frattempo rubato il suo tesoro?

‘Io da qui non mi muovo, al diavolo la verdura! Ho ben altro da portare domani in paese!’ Tuttavia ad Affunzina, pove­ra bestia, bisognava pur dare da mangiare. Cosimo ispezionò con attenzione ogni angolo della casa per assicurarsi che non ci fosse nessuno nascosto da qualche parte pronto a fregargli il premio, tese l’orecchio per captare il più piccolo rumore so­spetto e quando si convinse che lì dentro c’erano solo i lupac­chiotti che guaivano sommessamente afferrò la falce e corse fuori a mietere in fretta un po’ d’erba per l’asina.

Con la gola serrata dall’ansia di rientrare mise l’erba nella mangiatoia, andò a prendere l’asina che era legata a un albero del cortile e la portò nella stalla, la legò alla mangiatoia, le allargò sotto un po’ di strame sistemandola definitivamente per la notte e finalmente si chiuse in casa sprangando la porta con un robusto paletto d’ulivo stagionato inserito in due appositi fori scavati negli stipiti: un dispositivo di sicurezza rudimentale ma pratico ed efficace, molto in uso a quell’epoca nelle misere case di campagna.

Ma ora il tempo non passava mai; era inquieto, Cosimo, smaniava, malediva il sole che non si decideva a tramontare e a lasciare il campo alla notte cui avrebbe fatto seguito il fanta­stico giorno della riscossione del premio. Camminava su e giù per la stanza, poi si sedeva per un po’ a contemplare la cesta dei suoi sogni da cui provenivano i deboli mugolii delle bestiole affamate, poi si rialzava e andava a guardare fuori dalla fine­stra per accertarsi che non ci fossero ladri di lupetti nei parag gi, quindi riprendeva il suo ossessivo periplo della stanza fin ché si accorse che era ormai scesa la sera. Allora accese la lam pada a olio che teneva sempre pronta all’uso sul vecchissimo tavolo sgangherato e la fiammella proiettò la sua ombra sulla parete.

Ebbe un tuffo al cuore: gli era parso di vedere qualcuno in casa! ‘Che stupido’ brontolò fra sé e sé, e non perché avesse fame (come poteva averne in quel frangente?) ma solo per cer­care di far passare meglio il tempo si dedicò alla preparazione della cena. Lavò e cucinò un po’ di cavoli che aveva in casa

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(gli asparagi raccolti poco prima non sapeva più che fine aves­sero fatto), li condì con un filo d’olio di sua produzione e li buttò giù insieme a due fette di pane raffermo; finito di man­giare mise a posto pentola, piatto e posata, appese la doppietta (sempre con i due colpi in canna) e la cartucciera a due chiodi infissi nel muro, chiuse gli scuri della finestra e si accinse ad andare a dormire.

Sotto la finestra contro la parete a distanza di circa due me­tri l’uno dall’altro c’erano due trespoli su cui erano appoggiate delle tavole di legno per una larghezza totale intorno al metro e venti; su di esse a rao’ di materasso un sacco pieno di paglia coperto da una pelle di pecora e per ripararsi dal fresco della notte due logori drappi di lana grezza. Cosimo spense la lam­pada e, come si usava a quei tempi, si tolse solo le scarpe cori­candosi con i vestiti che aveva indossato per tutto il giorno e che portava già da diversi giorni. Cullato dai fievoli guaiti dei lupacchiotti, musica celestiale per le sue orecchie, sperava di addormentarsi subito perché l’alba potesse arrivare più in fret­ta, ma una ridda di pensieri, ricordi, progetti per il futuro tur­binava incontrollabile nella sua testa impedendogli di chiudere occhio.

Continuò per diverso tempo a girarsi e rigirarsi su quel pun­gente giaciglio, e quando sentì lo stimolo di un piccolo biso­gno fisiologico dovendo alzarsi per soddisfarlo ne approfittò per rendersi conto di che ora fosse.

Aprì la finestra: la luna si stagliava alta e piena nel cielo notturno punteggiato da così tante stelle da sembrare un pavé di brillanti e zaffiri blu. Cosimo come tutti coloro che vivevano in aperta campagna dalla posizione degli astri riusciva a stabi­lire l’ora esatta o quasi.

‘Saranno le due’ pensò ‘è ancora presto.’ Richiuse la fine­stra e tornò a letto. Con suo grande sollievo sentiva già le pal­pebre pesanti quando un lontano, cupo, lungo e indefinibile urlo gli fece di nuovo sbarrare gli occhi.‘Cosa può essere?’ si chiese sconcertato: non aveva mai udi to un suono del genere, non sembrava un verso dei soliti ani­mali della campagna cui era abituato. Tese l’orecchio: nulla. Cercò di riappisolarsi e poco dopo lo strano urlo si ripetè,

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ma più vicino. Un brivido freddo gli serpeggiò lungo la schie­na; non era certo paura, lui non aveva paura di niente e di nes­suno, ma solo un po’ di quella giustificata apprensione che tut ti noi sperimentiamo quando ci troviamo di fronte qualcosa che non riusciamo a comprendere.

‘Non può essere un uomo, nessuno va in giro a quest’ora di notte lamentandosi così! Non sarà il lupo mannaro? Dicono che esca solo dopo la mezzanotte.’ Cosimo aveva tanto sentito parlare dei lupi mannari ma non gli era mai capitato di udirne o vederne uno. L’urlo si ripetè ancora più vicino e questa volta Cosimo non ebbe dubbi: era un lupo! Balzò in piedi sul letto e aprì la finestra per guardare fuori: la lattea luce siderale per­meava della sua ancestrale fissità ogni foglia, ogni sasso, ogni filo d’erba.

‘Scommetto l’osso del collo che è la lupa che viene a cerca­re i suoi piccoli! Come dice il proverbio? Non c’è due senza tre, e io dico non c’è tre senza quattro! Vieni, vieni ti farò secca con un colpo solo e così il premio sarà quadruplicato! Che fortuna! Chi poteva immaginare che ci fossero dei lupi a due passi da casa, ed è probabile che ce ne siano degli altri! Adesso che ho scoperto il posto andrò a stanarli, sarà una vera cuccagna, c’è da fare i soldi a palate!’ pensava Cosimo seduto sul letto con la doppietta in mano pronto a far fuoco.

Ma non dovette aspettare molto. Un ululato agghiacciante, fortissimo, il rotolio delle pietre smosse sul viottolo sassoso che portava alla casa e un tremendo urto contro la porta d’ingresso che per fortuna resse all’impatto.

A Cosimo si rizzarono tutti i capelli in testa per lo spavento: e se la porta avesse ceduto?! Chi mai avrebbe potuto prevedere una mossa tanto intelligente da parte di un animale selvatico? Udì dei rumori contro la porta e la lupa che ululava furibonda mentre i cuccioli sentita la vicinanza della madre strillavano a più non posso cercando di uscire dalla cesta che traballava come una nave in balia del mare in tempesta. Affunzina, a sua volta, terrorizzata dalla vicinanza della belva lanciava altissime grida e scalpitava a tutta forza per rompere la corda che la legava alla mangiatoia e scappar via. Gli asini infatti a differenza dei cavalli e dei muli che si difendono con calci e morsi, quando

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vengono aggrediti dal lupo si bloccano per la paura dando così a esso la possibilità di sbranarli con tutta calma.

Cosimo sommerso da quel gran putiferio annaspava rintro­nato per la stanza non sapendo cosa fare e a quale santo votar­si, ma ritrovò ben presto il suo sangue freddo: aveva o non aveva la sua miracolosa doppietta? Non c’era nulla da temere! Salì sul letto, si sporse dalla finestra con l’arma in pugno fin quasi alla vita e la vide bene: ritta sulle zampe posteriori con quelle anteriori raspava furiosamente la porta, il crudele osta­colo che le impediva di ricongiungersi ai suoi piccoli, latrando, guaiolando, ululando, gemendo in un modo tale che avrebbe commosso anche un sasso se non ci fossero stati di mezzo la sopravvivenza dell’uno piuttosto che dell’altra e, soprattutto, il premio.

«Ora ti sistemo io, diavola d’una lupa!» imprecò Cosimo e sparò uno dietro l’altro i due proiettili pronti in canna, ma for se a causa della scomoda posizione cui era costretto mancò il bersaglio e mamma lupa impaurita fuggì rifugiandosi nei ce spugli più vicini. La finestra infatti si trovava sullo stesso muro della porta e Cosimo per mirare alla belva doveva stare in pie di sul letto, contro la parete, e ruotare il busto tutto a destra col fucile in mano, manovra piuttosto difficile.

«Accidenti!» sacramentò iroso. «Come ho fatto a mancar­la?!» Convinto che la lupa sarebbe ritornata di lì a poco Cosi­mo cercando di controllare l’ansia che sentiva crescergli den­tro ricaricò l’arma e aspettò.

Torse l’ho ferita e non tornerà più.’Un altro agghiacciante ululato, un altro poderoso colpo alla

porta, la lupa che raspava freneticamente con uno spaventevo le stridore delle unghie sul legno, i cuccioli e l’asina che ripren­devano a strepitare peggio di prima. Cosimo si sporse ancora dalla finestra, sparò altre due cartucce e ancora una volta la lupa si eclissò: aveva di nuovo fatto cilecca! Cosimo comincia­va a innervosirsi: che cavolo gli era preso? Non era più capace di sparare?! E intanto essa era ricomparsa, si scagliava ancora contro la porta e l’infernale scena ricominciava. Con le mani tremanti, i movimenti scoordinati, a scatti, spesso a vuoto, con il cuore che gli galoppava in petto cercò di ricaricare più in

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fretta possibile la doppietta e sparò, ricaricò e sparò, ricaricò e sparò!

Cosimo era sconvolto: la lupa era sempre lì, viva e vegeta, scappava e tornava, scappava e tornava, voleva i suoi piccoli a tutti i costi e a lui non erano rimaste che due cartucce! Tutto il suo coraggio, la sua sicurezza, il suo valore erano ridotti a quei due piccoli involucri di metallo e cartone imbottiti di polvere da sparo e piombo perduti i quali egli non avrebbe mai potuto difendersi da una belva tanto feroce l’indomani quando fosse uscito di casa per recarsi al paese.

Per un attimo gli balenò l’idea di buttare i tre lupacchiotti fuori dalla finestra e restituirli alla madre, ma questo significa­va rinunciare al premio e al roseo futuro che egli si era già prefigurato nei minimi particolari.

«Nooo!» echeggiò in tutto il suo essere. «Con questi due colpi la devo ammazzare, o la va o la spacca! Se sbaglierò an­cora vorrà dire che è giunta la mia ora e che questo è il mio destino!»

Prese disperatamente la mira con tutta la concentrazione di cui era capace, strinse bene l’arma, trattenne il fiato, sparò e la lupa cadde a terra immobile.

Impietrito dal terrore, attonito, indifferente all’aria fredda che lo investiva, come sprofondato in un incubo da cui non riusciva a svegliarsi, col fucile caldo ancora in mano Cosimo fissava la sagoma scura della belva abbattuta quando essa, in domita, si rialzò come un fulmine da terra e si lanciò ancora verso la porta con le fauci spalancate. Cosimo sparò il suo ulti mo colpo. La lupa rotolò a terra con un atroce lamento e si fermò pochi metri più in là. Atterrito Cosimo tremava come una foglia, non riusciva a spostarsi da quella finestra, lo sguar do calamitato dalla belva riversa a terra.

Ed ecco che incredibilmente essa ricomincia a muoversi: gemendo per il dolore lentamente si solleva sulle zampe ante­riori e trascinando penosamente la parte posteriore del corpo paralizzata pian piano si allontana sparendo finalmente nel fol­to della vegetazione spontanea. I deboli ululati, gli strazianti guaiti, i singhiozzi quasi umani della lupa ferita che doveva fatalmente rinunciare ai suoi piccoli lacerarono ancora per qual­

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che minuto l’immoto velo bianco che copriva la notte; poi più nulla.

Cosimo aveva vinto, tuttavia era impossibile ormai per lui prendere sonno: lo spavento subito l’aveva talmente scombus­solato che ogni fibra del suo corpo vibrava come se lì dentro ci fossero stati dieci gradi sotto zero. Accese un po’ di fuoco e vi rimase seduto accanto per il resto della notte immobile fuori e burrascosamente agitato dentro, la mente bloccata gonfia del l’immagine alla lupa inferocita che raspava la porta con le fau ci spalancate.

L’indomani sul far del giorno Cosimo uscì guardingo dalla casa: la belva era sicuramente ferita ma poteva essere vicina e, ostinata com’era, avrebbe anche potuto cimentarsi in un altro assalto; lui privo di munizioni era completamente inerme. Con grande circospezione scrutò con lo sguardo i dintorni e visto che tutto era tranquillo corse nella stalla a slegare l’asina, le mise il basto, la portò davanti alla porta d’ingresso e la legò a un anello di ferro attaccato al muro, entrò in casa a prendere la cesta contenente i lupacchiotti e nel caricarla sul basto si rese conto che mancava il contrappeso di cui, causa l’angoscia che lo consumava, si era completamente scordato.

Bestemmiando come un turco per quella perdita di tempo prese un’altra cesta, vi buttò dentro le prime cianfrusaglie che gli capitarono sottomano e la sistemò dall’altra parte del basto, chiuse la porta, appese la grossa chiave di ferro alla cintura dei pantaloni e andò a slegare l’asina per prendere finalmente la via del paese.

Affunzina però recalcitrava infastidita dall’odore dei lupet­ti che portava sulla schiena, non ne voleva sapere di obbedire agli ordini del padrone e Cosimo spazientito e con una voglia matta di andarsene subito da lì le assestò un calcio nella pan­cia. L’asina si calmò un poco e Cosimo potè iniziare il viaggio verso il paese che si rivelò fin dai primi passi una vera e propria via crucis. Nel lasciare il cortile, col cuore in gola e il tremore della notte che non gli dava tregua, continuava a voltarsi indie­tro perché aveva la netta sensazione di essere seguito dalla lupa; lungo la mulattiera e poi la strada trasaliva impaurito a ogni stormir di fronda, a ogni più lieve fruscio dell’erba accarezzata

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dal venticello mattutino; da dietro ogni albero, ogni roccia, da sotto ogni cespuglio, sopra ogni altura che lo sovrastava egli vedeva apparire la lupa con le fauci spalancate pronta ad ag­gredirlo. Benché avesse visto con i suoi stessi occhi che la lupa era semiparalizzata e quindi in condizioni di non nuocere tut­tavia non riusciva a calmarsi, il fiato grosso, le mani e i piedi di ghiaccio, la testa rovente. Era sicuro che la vista delle prime case del paese lo avrebbe tranquillizzato un po’, ma si sbaglia­va; certamente il ricco premio che stava per incassare gli avrebbe fatto dimenticare quella brutta avventura.

Nel frattempo Calogero, un ragazzo di vent’anni che lavo­rava come buttero in uno dei tanti feudi della zona, s’era an­ch’egli messo in cammino verso il paese lungo lo stesso itinera­rio percorso da Cosimo. A terra gocce di sangue. A quei tempi era facile imbattersi in un fondo stradale macchiato di sangue perché i pastori la mattina presto sgozzavano e sventravano gli agnellini, li legavano in fasci di quattro o cinque unità, li cari­cavano a testa in giù sulle bestie da soma e li portavano in pa­ese per venderli ai macellai. Strada facendo dalle bestiole ucci se colava il sangue residuo che disegnava a terra due linee qua si parallele di gocce rosse.

Calogero era stato convocato per le otto e mezza dal mare­sciallo dei carabinieri, ma questo non gl’impediva di attardarsi a raccogliere qualche erba selvatica che cresceva ai bordi della mulattiera conservandola poi nel sacchetto di tela olona che portava a tracolla: per mezzogiorno sua madre gliel’avrebbe amorevolmente cucinata. Fu così che notò vicino a una pianti na di asparagi delle gocce di sangue che spiccavano sulla pol vere secca e biancastra della mulattiera.

Incuriosito osservò meglio quelle gocce e si avvide che si trattava di un’unica fila discontinua che non procedeva dritta, ma a tratti a zig­zag da un margine all’altro della mulattiera stessa. Da questo particolare egli dedusse che quel sangue non poteva essere quello degli agnellini scannati dai pastori. La mulattiera sfociava nella strada principale di quelle contrade che portava al paese.

Fangosa quando pioveva, arida e polverosa quando il tem­po era bello essa si snodava impervia su salite e discese, curve

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e strettoie, fra fitte boscaglie e spoglie radure. Anche qui il san­gue era presente; le gocce erano più distanziate le une dalle altre e di tanto in tanto c’erano delle piccole pozze di sangue più scuro, quasi secco. Calogero cominciò a preoccuparsi: for­se nei paraggi c’era un uomo gravemente ferito che barcollava qua e là in cerca d’aiuto? All’epoca succedeva spesso che qualcuno venisse impalli nato o accoltellato per i più disparati motivi. Ma non c’era nessuno, anzi: adesso le gocce erano diventate così rade e pic cole che non si vedevano quasi più. Calogero stava per rasse gnarsi all’imperscrutabilità di quel mistero quando dopo una curva a una cinquantina di passi da lui e a pochi metri dalle prime case del paese vide una massa scura a terra, sulla strada. La raggiunse e: ‘Meno male, era solo un cane.’ Guardò meglio: era una cagna che stava allattando, infatti aveva le mammelle gonfie di latte, tutta sporca di sangue rag­grumato nella parte posteriore del corpo.

«Che bella bestia! Chissà perché le avranno sparato...» Ma le orecchie, la coda, il muso appuntito... Era un lupo! Eccitato dall’inimmaginabile scoperta Calogero si fiondò ver­so le case gridando: «Aiuto! Venite! C’è una lupa morta! C’è una lupa morta!» Subito i paesani accorsero a vedere la belva; arrivarono anche i carabinieri che riconobbero in essa la lupa ferita da Cosimo il quale aveva già consegnato loro i tre cuc­cioli e raccontato fremendo d’emozione la spaventosa disav­ventura notturna. Benché la gente odiasse i lupi per il pericolo e il danno che rappresentavano tuttavia il sacrificio di questa madre che era venuta a morire alle porte del paese cercando fino all’ultimo respiro, fino all’ultima goccia del suo sangue di riprendersi i piccoli che le erano stati rapiti impressionò così profondamente la sensibilità popolare che da allora la storia si tramanda di generazione in generazione come monito per tut te le donne ad amare i propri figli, a non maltrattarli o abban­donarli come purtroppo spesso succede.

Quando Cosimo seppe che la lupa ferita e sanguinante l’ave­va strenuamente inseguito addirittura fino alle porte del paese per poco non fu colto da infarto: aveva rischiato realmente di essere a ogni passo aggredito e sbranato! Ma la riscossione del

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premio quadruplicato lo ricompensò di tutte le sue sofferenze: era al settimo cielo, non era mai stato così felice in vita sua. Elogiato dalle autorità per il suo coraggio e festeggiato da tutto il paese visse un giorno da eroe, un giorno unico e irripetibile tale e quale se l’era immaginato.

Neanche quella sera Cosimo riusciva a prendere sonno. Continuava a pensare suo malgrado alle vicende delle ultime trentasei ore rivivendo con la stessa intensità le emozioni che gli avevano sconquassato il corpo e l’anima. Sentì una doloro­sa fitta all’addome. Era nel bosco, aveva trovato i lupetti, era tornato a casa e la notte... Ah, che notte! Gli parve di udire distintamente l’ululato della lupa e tutte le sue viscere sussulta­rono per lo spavento. Ma la lupa era morta e poi lui si trovava nella sua casa in paese: lì non c’erano lupi.

Aveva incassato il premio, che soddisfazione! Un’altra fitta alla pancia e l’ululato della lupa che rimbombava nella stanza. Cosimo credeva di liquefarsi dalla paura. Avrebbe voluto ac­cendere la candela sul comodino, ma le sue membra non ri­spondevano ai comandi, voleva chiamare la moglie che gli dor­miva accanto, ma dalla sua gola strozzata non usciva alcun suono. Ai piedi del letto un ectoplasma biancastro si andava materializzando nel buio davanti ai suoi occhi spiritati. Con indicibile orrore Cosimo riconobbe la metallica lucentezza dei canini della lupa che era lì e stava per sbranarlo.

Il progressivo disfacimento delle budella causato da ricor­renti quanto incurabili allucinazioni portò Cosimo alla morte dopo meno di sei mesi dalla riscossione del premio.

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Quaranta lIre e Quattro ceffonI

APRILE 1945

Avevo tredici anni e frequentavo con grande profitto la se­conda media inferiore. Nel piccolo paese dell’entroterra sici­liano in cui vivevo tutti erano a conoscenza della mia brillante carriera scolastica perché non accadeva spesso che un figlio di contadini fosse, a detta degli stessi insegnanti, lo studente più bravo di tutta la scuola. In realtà studiare non mi costava nes­suna fatica essendo stato dotato da Madre Natura di una me­moria prodigiosa che mi facilitava enormemente l’apprendi­mento di ogni sapere, ed era quindi giocoforza che nelle pagel le io avessi ‘Lodevole’, il massimo dei voti, in tutte le materie. A quell’epoca la maggior parte dei bambini già a sette, otto anni lasciava la scuola per andare a fare il pastore o il brac­ciante restando così semianalfabeta, e io che a tredici anni an­cora studiavo e non sapevo cosa fosse il lavoro avrei dovuto ritenermi molto fortunato. E invece no. Io invidiavo i miei co­etanei lavoratori, che incontravo sempre dopo cena all’angolo di una certa strada per passare insieme la serata, che erano tanto più maturi di me sia negli atteggiamenti che nel fisico!

Tozzi e robusti quanto io minuto e gracile mi trattavano con sufficienza mostrandomi con vanto i calli alle mani e il guada­gno della giornata di lavoro: ben duecento lire, come ragazzi diciottenni, mentre a diciannove anni si era considerati uomini e la paga saliva a quattrocento lire al giorno.

Quanto mi sarebbe piaciuto essere come loro, così adulti e con tutti quei soldi in tasca! Quanto mi sentivo piccolo e ina­deguato! Ero pervaso da un opprimente senso d’inferiorità che avvelenava financo i miei successi scolastici diventati per me sempre meno importanti e meritori; mia madre predicava che se avessi avuto pazienza e avessi continuato gli studi certa­mente il mio futuro sarebbe stato migliore di quello dei miei amici e avrei guadagnato molto, molto di più di qualsiasi per­

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sona di nostra conoscenza, ma le sue parole invece di consolar­mi aumentavano a dismisura la mia angoscia e la mia impa­zienza: quanti anni dovevo aspettare per poter competere con i miei compagni? Per quanto tempo ancora subire il loro com­patimento?

Ma quella mia insopportabile e beata infanzia stava per fi­nire.

La guerra, che aveva già inflitto alla mia famiglia un grave danno perché arruolando tre dei miei fratelli maggiori aveva sottratto braccia valide al nostro lavoro di contadini, ci aveva ridotto ben presto sul lastrico e in quell’Aprile 1945 io dovetti lasciare la scuola per andare a lavorare. Prima ancora che in famiglia si decidesse cosa fare di me Tommaso, uno degli ami­ci con cui mi ritrovavo tutte le sere, saputo che cercavo lavoro mi propose subito di andare con lui l’indomani stesso a ‘intir­rari lavuri’ cioè a rincalzare le piantine di grano che in quel periodo dell’anno erano alte circa quaranta centimetri.

Le piantine erano disposte in lunghe file parallele e ogni fila era separata dall’altra da una scanalatura del terreno larga cir­ca quindici centimetri. Il lavoro consisteva in questo: bisogna­va appoggiare i piedi su due scanalature vicine in modo da avere fra le gambe le piantine di grano, poi con un’apposita zappetta dalla lama larga quanto la scanalatura bisognava zap­pettare quest’ultima sia per rompere la crosta secca della terra, favorendo così la penetrazione delle sporadiche piogge prima­verili, sia per estirpare le erbacce selvatiche; la terra che veni­va così rimossa si accumulava alla base delle piantine di grano per sostenerle mentre le erbacce si lasciavano nella scanalatu­ra: ci avrebbe pensato il sole torrido a disseccarle in breve tem­po. Le erbacce che si trovavano fra le piantine di grano invece dovevano essere estirpate con le mani ed era necessario cono­scerle molto bene perché quando erano ancora piccole somi­gliavano moltissimo al grano e non era facile distinguerle da quest’ultimo.

Tommaso, che aveva sedici anni e faceva il bracciante da sei, nel suo slancio generoso d’essermi d’aiuto non considerò neppure per un momento che io non avendo mai lavorato non potevo avere nessuna conoscenza in fatto di grano ed erbacce

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mentre io, dal canto mio, pur non avendo la minima idea di cosa si trattasse accettai con entusiasmo la sua offerta, felice solo di poter avere le mie duecento lire a fine giornata cometutti i miei amici.

Detto fatto ci accordammo per trovarci la mattina dopo alle sei e mezza nella piazza del paese dove Tommaso aveva già appuntamento col nostro principale nonché proprietario del terreno da zappettare. Costui aveva incaricato Tommaso di reclutare cinque ragazzi spiegando loro che c’era lavoro per tre settimane, che la paga di duecento lire sarebbe stata corri­sposta puntualmente tutte le sere e soprattutto che lui, il datore di lavoro, avrebbe procurato quotidianamente companatico buono e abbondante per tutti. Erano veramente delle ottimecondizioni di lavoro!

Esaltato da questo inaspettato colpo di fortuna, tornando a casa pregustavo la soddisfazione con la quale fra solo ventiquattr’ore avrei messo sotto il naso dei miei familiari le due cento lire guadagnate da me con un lavoro che mi ero procura to da solo: non ero più un bambino e potevo contribuire valida mente anch’io alle necessità economiche della mia famiglia. Ma doveva essere una sorpresa per tutti, nessuno doveva sape re niente fino all’indomani sera.

Il mio paese s’inerpicava su una collina; le strade si snoda­vano su livelli diversi man mano che dal basso si saliva verso l’alto e spesso le case erano a due piani: il primo piano a livello della strada inferiore e il secondo piano a livello di quella im­mediatamente superiore. Tale era la mia casa. Il secondo pia no comprendeva due camere: il soggiorno con la porta d’in gresso, una botola sul pavimento per scendere al primo piano, l’alcova delimitata e nascosta da pesanti tende di cretonne, e la cucina che si trovava in fondo al soggiorno di fronte alla portad’ingresso.

Al primo piano c’era il “catojo” cioè uno spazio grande quanto le due camere superiori messe insieme adibito alle più diverse funzioni. Per prima cosa c’era la stalla con l’ingresso per le bestie poi delimitati da appositi tramezzi il deposito per la legna necessaria alla cucina, quello per le scorte di paglia e fieno delle bestie, per i vari attrezzi da lavoro, per la pila di

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cemento in cui lavare i panni, e disseminati alla rinfusa da tutte le parti mucchi di masserizie e oggetti in disuso. In questo “ca­tojo” proprio sopra la stalla era stato ricavato “u minzalino” (un soppalco) di circa sedici metri quadrati che fungeva sia da granaio per conservare i diversi cereali che si accumulavano di volta in volta a seconda delle stagioni e dei raccolti (fave, ave­na, grano, eccetera), sia da camera da letto per me e i miei tre fratelli più piccoli.

La rete del nostro letto era costituita da alcune assi di legno lunghe circa due metri che da una parte appoggiavano su un cavalletto di ferro addossato al muro portante e dall’altra su un tramezzo alto una settantina di centimetri che delimitava il gra­naio vero e proprio. Sopra le assi di legno venivano sistemati due materassi imbottiti di “aria” (giunco rupestre essiccato) sui quali noi dormivamo, e sotto i cereali da conservare con tutto il loro corredo di parassiti e insetti vari che la notte ci tenevano buona compagnia.

Tra il letto e il soffitto del “catojo”, che corrispondeva al pavimento del piano superiore, c’era uno spazio di circa mez zo metro soltanto per cui io e i miei fratelli eravamo costretti sia quando si andava a dormire che quando ci si alzava a pie garci in due se non volevamo picchiare dolorosamente la testa, cosa che succedeva quasi tutti i giorni.

Quella sera quindi rientrato a casa dopo gli accordi presi con Tommaso prima di andare a dormire pensai bene di prepa­rare subito ciò che avrei dovuto portarmi appresso sul lavoro la mattina dopo e... lampo di genio! Scoprii che per zappettare il terreno occorreva la zappa! Sennonché io la zappa non l’ave vo: dovevo assolutamente procurarmene una.

Scesi allora nel “catojo” e cominciai a rovistare dappertut­to. Appese al muro c’erano tre zappe lucide e invitanti, ma appartenevano ai miei fratelli maggiori e guai a me se le avessi toccate! Mi cadde l’occhio su un mucchio di cianfrusaglie ac­catastate da una parte: corsi subito a cercare anche lì e... che fortuna! Da tutto quel ciarpame inservibile salta fuori una zap­pa! Certo era arrugginita, non lucida come quella dei miei fra­telli; il manico era rotto quindi molto più corto di quanto avreb­be dovuto essere e per giunta ruvido e nodoso, ma giudicai che

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faceva al caso mio e che quel problema l’avevo risolto.Ora non mi restava che procurarmi “a sacchina” (tascapa ne)

dove riporre il pane sufficiente per l’intera giornata di lavo ro. Continuai a cercare nella stalla e finalmente sotto la man­giatoia dei cavalli, spazio utilizzato come pollaio, ne trovai una. Certo era alquanto sporca di sterco di gallina e altro ma non era il caso di farne una tragedia: la strofinai ben bene fra le mani, la sbattei in po’ contro la mangiatoia per far cadere la polvere, le piume e la biada che vi erano appiccicate e tutto contento la deposi in un angolo nascosto insieme alla zappa. Approfittando del fatto che mia madre e mia sorella dormiva­no (mio padre e i miei fratelli maggiori erano assenti perché uscivano sempre dopo cena e rientravano molto tardi) andai furtivamente in cucina a prelevare una “guastedda” (pagnotta di circa un chilo e mezzo), l’avvolsi in una salvietta, ridiscesi nella stalla, infilai la “guastedda” nella “sacchina” e felice e gongolante come se mi fossi preparato per una bella scampa­gnata mi coricai col cuore gonfio delle più rosee aspettative.

La mattina dopo verso le tre e mezza sentii come sempre il primo fratello che si alzava per andare al lavoro (i miei fratelli maggiori e mia sorella dormivano in brandine singole sistema­te alcune nel soggiorno altre in cucina), dopo circa mezz’ora il secondo, poi il terzo e i miei genitori chiedere loro di volta in volta dove e con chi andassero a lavorare. Alle sei anch’io mi alzai sperando che nel frattempo i miei si fossero riaddormen­tati per non dover dare spiegazioni sulla mia uscita così mattu­tina; scesi nel “catojo” a prendere i miei attrezzi da lavoro, piano piano risalii verso la botola, l’aprii con grande cautela ed entrai nel soggiorno, la richiusi con ancora più attenzione per non fare rumore e in punta di piedi mi diressi verso la portad’ingresso.Avevo già appoggiato la mano sulla maniglia quando: «Chiesce a quest’ora?» Mia madre contrariamente a quan to previsto non dormiva affatto. A causa delle tende dell’alco va non poteva vedere chi si aggirasse per la stanza e quindichiedeva spiegazioni.«Sono io, mamma,» risposi «vado con amici a raccogliere finocchietti e asparagi selvatici; tornerò per l’ora di cena.» Senza

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darle il tempo di ribattere nulla infilai la porta e la richiusi su­bito alle mie spalle correndo baldanzoso verso il mio primo giorno di lavoro.

Che strana sensazione percorrere con “a sacchina” e la zap­pa a tracolla quella stessa strada che soltanto pochi giorni pri­ma mi aveva visto camminare con libri e quaderni sottobrac­cio! Guardai il cielo: il sole, già alto, allagava di luce le case e le strade brulicanti di uomini e animali che transitavano in tutte le direzioni ciascuno verso il proprio luogo di lavoro mentre le rondini, unico neo di quella splendente mattina di primavera, volteggiavano garrendo giocose nell’aria scintillante di miriadi di paillettes turchine e d’oro.

Fu con tale predisposizione d’animo, poetico e idillico in­sieme, che mi presentai all’appuntamento con Tommaso e il resto della squadra di lavoro, quattro ragazzi robusti e aitanti che cominciarono a guardarmi dall’alto in basso beffardi, con aria di compatimento, scambiandosi oblique occhiate d’intesa e mal celate risatine sardoniche. Uno di essi mi chiese con sar­casmo come mai lo studente più bravo del paese avesse lascia to la scuola, ma non ebbi il tempo di rispondere.

«Ci siamo tutti?» urla un signore con una barba nera nera, vestito tutto di nero coppola compresa, a cavallo di una mula anch’essa nera nera con la quale ci aveva appena raggiunti.

«Sì, ci siamo tutti!» risponde prontamente Tommaso.«Questo qui viene con noi?» chiede il signore in nero squa­

drandomi dall’alto in basso con aria poco convinta.«Sì viene con noi, è un mio amico, lo conosco bene!» ga­

rantisce per me Tommaso.Il signore in nero che altri non è se non il nostro principale

mi osserva ancora qualche attimo con i suoi occhi piccoli, luci di ma buoni e languidi come quelli di un vecchio spinone, so spira profondamente e poi ordina: «Allora andiamo!»

E così partimmo: il principale davanti sulla mula e noi sei ragazzi appresso a piedi, in fila indiana. Percorremmo un trat­to di strada provinciale asfaltata, poi la lasciammo per prende­re una larga strada ghiaiosa che portava verso le campagne. Tale strada andava progressivamente restringendosi fino a di­ventare una semplice mulattiera; da questa si dipartivano di­

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versi viottoli strettissimi che s’inoltravano nei seminati delimi­tando i vari appezzamenti di terreno e che era necessario per­correre per raggiungere il proprio luogo di lavoro.

Dopo aver camminato per circa due chilometri, quindi, im boccammo uno di questi viottoli quasi nascosto dal fitto intrico di erbacce selvatiche alte mezzo metro che crescevano lungo i bordi. La mula che procedeva per prima faceva strada rompen do quel verde groviglio col suo grande corpo, ma le erbacce pur così violentemente scosse non lasciavano cadere tutta la rugiada di cui erano intrise e ne riversavano perciò una buona parte su di noi che seguivamo. Dopo aver percorso in queste condizioni altri due chilometri arrivammo finalmente sul luo go di lavoro coi pantaloni bagnati fino alle ginocchia.

I miei compagni non sembrano dar peso alla cosa, proba­bilmente ci sono abituati, invece io facendo in modo che nes­suno se ne accorga batto i denti per il gran freddo che mi ha assalito, sento tremare tutte le viscere, il peso della “sacchina” e della zappa mi ha procurato un tale dolore alla spalla destra che mi pare debba staccarsi e cadere a terra da un momento all’altro. Ho una gran voglia di piangere e di tornare a casa.

II mio datore di lavoro si accorse subito del mio malessere e molto umanamente mi propose di riportarmi a casa sulla mula perché poteva capitare a tutti di stare poco bene e non poterlavorare.

Quanto rimpiansi di non aver accettato quella generosa of ferta! Mi trattenne l’orgoglio di non mostrarmi debole agli oc chi degli altri ragazzi e il sogno, che sentivo ormai quasi realiz zato, delle duecento lire a fine giornata da portare trionfal mente in famiglia. Rimasi quindi in silenzio, con gli occhi bas si, combattuto tra il desiderio di andarmene e la necessità di restare per dimostrare a tutti che anch’io sapevo lavorare.

«Vossia vedrà che appena comincia a zappare si riprende subito» interviene Tommaso in mio soccorso.

«Sì, sì, appena si mette a zappare starà subito meglio!» in calzano gli altri ma in tono ben diverso da quello del mio ami co Tommaso.

Il principale allora visto che io continuavo a tacere desistet­te dal suo proposito e cominciò a liberare la mula dalla soma.

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Scaricò la zappa, un sacco di paglia, “li viertuli” (bisaccia) con una sacca piena del suo pane per l’intera giornata e il compa­natico per tutti, e l’altra contenente “a quartara” (grossa brocca di terracotta) colma d’acqua da bere, sempre per tutti, siste­mando ogni cosa su un piccolo prato lasciato incolto apposta per tale incombenza.

A circa cinquanta passi da lì iniziava un terreno lasciato a maggese: il principale conficcò nel suolo un paletto di legno appuntito e vi legò la mula aggiungendo alla cavezza un altro pezzo di corda per darle maggiore libertà di movimento per il pascolo, quindi tornò da noi che nel frattempo avevamo ap­poggiato a “li viertuli” le nostre “sacchine” e con la zappa in mano aspettavamo il via al lavoro.

«Allora, siamo pronti?» chiese il padrone afferrando la sua zappa.

«Prontissimi!» risposero in coro i miei compagni. Io no. An­che se il sole mi aveva un poco riscaldato e il dolore alla spalla si era leggermente attenuato non ero per niente in forma, anzi: ero così stordito che fissavo imbambolato le zappe dei miei compagni chiedendomi scioccamente perché quelle erano così lucide e la mia tanto arrugginita.

Il principale prese posizione: appoggiò i piedi su due scana­lature (il grano gli arrivava fin sopra il ginocchio), si chinò in avanti, alzò la zappa verso destra allungando le braccia il più possibile, l’affondò nel terreno e se la tirò fino alla punta della scarpa destra; poi ripeté l’operazione a sinistra e così un colpo a destra e uno a sinistra a ogni passo cominciò ad addentrarsi nel seminato.

Di tanto in tanto mentre con una mano reggeva la zappa con l’altra strappava le erbacce che crescevano fra la piantine di grano, le sbatteva contro la zappa per liberarne dalla terra le radici (che così scoperte sarebbero seccate più alla svelta) e le buttava sulla terra smossa della scanalatura. Dopo che il pa­drone ebbe fatto i primi quattro passi (distanza necessaria per poter manovrare liberamente la zappa) partì alla sua destra il primo ragazzo appoggiando i piedi sulle due scanalature vici­ne a quelle da cui era partito il padrone; dopo altri quattro passi partì il secondo ragazzo a destra del primo formando così

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una diagonale che procedeva veloce in perfetta sincronia.Osservando i primi compagni in azione il lavoro mi appar­

ve facilissimo, un vero gioco da bambini! Entusiasmato da tale piacevole scoperta feci per partire, ma Tommaso mi bloccò: io dovevo restare per ultimo, dietro di lui, affinché potesse tener­mi d’occhio.

Finalmente toccò a me. Avendo una zappa col manico mon­co ero costretto a piegare di più la schiena per dare la zappata ed essendo alto sì e no centoquaranta centimetri le piantine, sia quelle buone che quelle cattive, mi sommergevano completa­mente scaricandomi addosso la rugiada della notte. Nel giro di pochi minuti ero tutto bagnato. Rabbrividivo per il gran fred do, ma mi facevo coraggio e continuavo il mio lavoro con tutta l’energia di cui potevo disporre menando zappate a destra e a manca, strappando “all’urvina” (alla cieca: non avevo infatti nessuna cognizione del lavoro) manate d’erba che sbattevo contro la zappa e poi buttavo nella scanalatura esattamente, secondo me, come facevano tutti gli altri.

Dopo venti minuti ero già distrutto: avevo due punteruoli conficcati nei reni, le spalle mi dolevano come se mi avessero riempito di bastonate, le palme delle mani mi bruciavano come fuoco, su ciascuna scarpa si erano attaccati quattro chili di fan­go e sollevare i piedi per camminare mi costava atroci dolori alle cosce. Tuttavia dovevo non solo continuare fino all’estre­mità opposta del seminato (lungo circa cento passi), ma anche mantenere costante la distanza da Tommaso il quale ogni tanto si voltava a guardarmi per vedere se reggevo il giusto ritmo dilavoro.

Il primo ad arrivare all’estremità opposta del seminato (“uscita”) fu ovviamente il principale perché era partito per primo. Soddisfatto si drizzò, si mise in spalla la zappa e cam­minando lungo una delle due scanalature che avrebbe lavora to subito dopo tornò all’estremità di partenza seguito dopo due minuti dal primo ragazzo, poi dal secondo e così via, tutti in buon ordine e a intervalli regolari, ciascuno per ricominciare a zappettare altre due scanalature.

Zoppicando, ansimando, scosso da violenti brividi di fred­do che neanche quell’intensa attività fisica riusciva a neutra­

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lizzare arrivai finalmente anch’io alla mia “uscita”. Come tutti gli altri adesso dovevo drizzarmi e tornare indietro. Più facile a dirsi che a farsi! Rimasi per qualche istante piegato in due, ad angolo retto, immobile. Mi pareva di avere un elefante sulla schiena! Provai a drizzarmi: i punteruoli che avevo conficcati nei reni penetrarono fin dentro la pancia. Mi fermai a mez­z’aria gemendo per il dolore; aspettai ancora un momento e poi, sopportando con stoicismo i tremendi spasmi dei muscoli contratti piano piano riuscii a riconquistare la posizione eretta. Ora non mi restava che tornare indietro sennonché non solo il mio corpo sofferente non rispondeva ai comandi, ma per giun ta la vista mi si era offuscata; il sole che soltanto due ore prima avevo contemplato quale bellezza suprema che tutto vivifica ora mi accecava costringendomi a tenere il capo chino, a striz­zare gli occhi e a tenerli rivolti verso il basso dove vedevo tante stelline rosse e blu danzare lievi come fiocchi di neve.

Con uno sforzo sovrumano cominciai a incamminarmi va­cillando lungo la mia scanalatura di ritorno quando mi trovai all’improvviso davanti il padrone. Era stravolto, mi guardava inferocito e indicando con il dito il mio operato urlò: «Hai vi­sto cosa hai fatto?! Invece di strappare le erbacce hai strappato tanta grazia di Dio!! Se vai avanti così mi rovini tutto il raccol­to, mi rovini!!»

Intontito dai dolori, dalla fatica, dal freddo io non riuscivo proprio a capire di cosa stesse parlando e rimasi in silenzio, il mento appiccicato al petto, sollevato da quell’inaspettata in terruzione del ritmo di lavoro. Mosso a compassione dal mise revole aspetto che dovevo avere in quel momento il principale cercò di calmarsi, tacque alcuni istanti e poi con tono di voce più basso ma che lasciava trapelare l’ira repressa continuò: «Dì la verità: tu le erbe le conosci o no? Hai mai fatto questo lavoro prima d’ora?»

Io rimasi muto, nella stessa posizione di prima; cominciai a rendermi conto di quello che stava succedendo e mi sentii av­vampare di vergogna.

Allora il padrone spazientito strappò con rabbia un ciuffo d’erba dal terreno, me la mise sotto il naso e con un misto di collera e commiserazione mi chiese: «Sai perché l’ho strappata?»

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Alzai lentamente la testa tenendo lo sguardo fisso sull’erba, senza osare di guardarlo in faccia, e lui spiegò:

«Perché è un’erba dannosa! Guardala, guardala bene: vedi com’è diversa dal grano? Osserva bene il colore, la forma delle foglie, la peluria e la ruvidezza del gambo, non ci vuole “arti di pinna” (grande scienza) per riconoscerla! Si chiama “Ina”! Hai capito? “Ina, ina!” Guardala bene! “Ina, ina!”.»

Questa imprevista lavata di capo mi paralizzò del tutto; ri­masi a fissare il vuoto davanti a me, muto, mentre lui andava a prendere tra le piantine di grano un’altra manata di erbacce e me le mostrava dicendo: «Questa invece si chiama “mazzulina”: vedi com’è scura e minuta? Non si può confonderla “c’u lavuri” (col grano)! E un’erbaccia pericolosissima! Bisogna fare attenzione a non lasciarne neanche un filo perché è infestante come la gramigna e va a soffocare il grano, bisogna assoluta­mente strapparla tutta, tutta, capisci?!»

Poi il mio principale e maestro passò a indicarmi con il dito, senza più strapparle perché così diverse dal grano che, a suo giudizio, non era il caso di mettermele sotto il naso a una a una, altre erbacce pronunciandone i rispettivi nomi quali “mussu di piecura”, “treu”, “panicavudu”, “papalina” e concluse la sua lezione con quest’ordine:

«E meglio che tu prenda posizione dietro di me e zappetti una sola scanalatura in modo da poter riconoscere con calma le erbacce e fare il lavoro come va fatto; io di tanto in tanto ti darò un’occhiata. Su andiamo, c’è il tempo di fare un’altra “uscita” prima di “mangiatamatina” (prima colazione che si consumava verso le nove).»

Così lui avanti e io appresso come un cucciolo dalle zam­pette ancora tenere e tremolanti che muove i primi passi dietro mamma cagna tornammo all’estremità di partenza dove i miei compagni che avevano assistito alla scena mi guardavano di­vertiti, con un maligno sorrisetto sulle labbra mentre Tommaso responsabile di me nei confronti del padrone era serio e preoc­cupato.

Ma il nostro comprensivo datore di lavoro non gli disse nien­te; prese posizione sulle due nuove scanalature da zappettare, mi fece cenno di portarmi nella scanalatura alla sua sinistra

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(gli altri ragazzi, come prima, avrebbero lavorato alla sua de­stra), e partimmo.

Per me cominciò il calvario. I dolori e il freddo mi tormen­tavano, anche le ultime forze mi abbandonavano, la zappa, di­ventata sempre più pesante, mi spellava le mani e una volta conficcata nel terreno non ne voleva più sapere di venir fuori. Ero talmente stremato che ogni tanto nello strappare qualche ciuffo d’erbaccia con le radici particolarmente robuste perde­vo l’equilibrio per il contraccolpo, barcollavo e andavo a cal­pestare le vicine piantine di grano. Intanto il principale e i ra­gazzi freschi come rose erano arrivati alla seconda “uscita” men tre io ero ancora a metà del mio percorso. Fortunatamente era l’ora della “mangiatamatina”: potevo sospendere il lavoro e riposarmi un po’.

A un cenno del principale deponemmo le zappe e correm­mo verso il fazzoletto di terra dove avevamo lasciato le nostre cose. Prendemmo le “sacchine”, ne estraemmo il pane, le ap­poggiammo sull’erba ancora bagnata di rugiada e vi sedemmo sopra il più comodamente possibile formando un cerchio. Il principale prese il sacco di paglia, lo svuotò al centro del no­stro cerchio e gli dette fuoco; tossendo a più non posso per il fumo che si era venuto a creare prese la sua bisaccia e ne cavò fuori il suo pane e il companatico per tutti: “sardi salati” (sardi­ne sotto sale), “avulivi niuri” (olive nere), “’cchiappiteddi” ( pomodori secchi conditi con olio, aglio, basilico, peperoncino) accomodandosi fra di noi per la prima colazione.

Con gli occhi che lacrimavano a causa del fumo tutti man­giavano in fretta e avidamente riempiendosi la bocca fino qua si a non poter masticare, ingoiando il cibo quasi intero come se qualcuno avesse potuto sottrarglielo da un momento all’altro. Io no. Dopo qualche lento e forzato boccone smisi di mangia­re: i dolori avevano sconfitto l’appetito. I miei commensali al­l’unisono mi esortavano a continuare; il capo mi ricordò che “u saccu vacanti nun po’ stari addritta” (il sacco vuoto non sta in piedi), ma io avrei voluto solo distendermi supino sull’erba, chiudere gli occhi e restare così all’infinito.

Dopo meno di mezz’ora la prima colazione era terminata: il principale si alzò per primo seguito a ruota dai ragazzi, rimise­

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ro a posto la propria roba e si avviarono veloci a riprendere il lavoro. Il principale ordinò ai miei compagni di cominciare, aspettò che si allontanassero di qualche metro e poi con un cenno del capo mi fece capire che dovevo seguirlo.

Mi accompagnò in un appezzamento di terreno adiacente a quello che si stava zappettando e là in tono bonario, paterno, guardandomi commiserevole disse: «“Vidi figghiu miu” (vedi figlio mio) tu neanche con una sola scanalatura riesci a mante­nere il nostro ritmo di lavoro facendo “u sirbizzu” (il lavoro) a regola d’arte. Perciò è meglio che ti metti a fare qualcosa qui per conto tuo. Lascia perdere la zappa, strappa solo le erbacce con le mani, fai quello che puoi, ormai sei qui e devi restare fino a stasera, però mi raccomando: non strapparmi il grano!»

Terminato il discorso il capo tornò al suo lavoro lasciando mi finalmente solo. Che liberazione, che sollievo! Invece di sen­tirmi offeso per essere stato isolato dagli altri mi sembrava di rinascere! Adesso però dovevo darmi da fare e con tutta la mia buona volontà cominciai a strappare erbacce. Dopo nemme no cinque minuti che ero curvo sul mio lavoro il mal di schiena divenne così lancinante che dovetti lasciar perdere tutto per raddrizzarmi, operazione oltremodo difficile e dolorosa. Una volta eretto mi riposai due minuti, immobile, poi ripresi il lavo­ro per interromperlo nuovamente subito dopo; mi raddrizzai e riposai ancora, poi ripresi a lavorare e via così per circa un’ora e mezza sempre con la paura che il principale vedendomi più dritto che curvo capisse che stavo combinando ben poco.

A un certo punto sentii la necessità di evacuare e decisi di andare a liberarmi nel terreno contiguo distante solo pochi passi dalla mia scanalatura. Mi guardai intorno: non c’era nessuno, il principale e i miei compagni erano intenti al loro lavoro e non badavano a me. Immediatamente attraverso il cordone di erbacce largo circa cinquanta centimetri che segna il confine tra le due proprietà, mi slaccio alla svelta i pantaloni, mi acco­vaccio e... Che sensazione fantastica! Quel banale bisogno fi­siologico si rivelò il più delizioso dei riposini! In quella posi­zione, con le tenere foglioline che mi accarezzavano le carni nude i dolori si dileguarono quasi del tutto e io godetti qualche minuto di celestiale rilassamento. Ancora oggi non so cosa scat­

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tò nel mio cervello, forse un inconscio meccanismo di difesa dal dolore, o nel mio intestino, forse danneggiato dal gran freddo patito; fatto sta che da quel momento e per tutta quella intermi­nabile giornata (tranne il tempo impiegato per il pranzo duran te il quale non mi fu possibile ingoiare niente) io dovetti eva cuare ogni mezz’ora arrivando a sera disidratato, sfinito e in capace di reggermi in piedi.

Avrei voluto fare come gli asini che quando crollano a terra sotto l’eccessiva soma non si rialzano nemmeno a suon di le­gnate se prima non vengono liberati dal peso che li schiaccia, e invece dovevo ancora caricarmi la zappa e la “sacchina” (ri­masta quasi piena) e farmi altri quattro chilometri a piedi per tornare in paese.

Mentre mi accingevo a prendere la mia roba, i miei compa­gni erano già pronti per partire, il principale guardandomi con compassione mi tolse le mie cose dalle mani e le sistemò sulla mula, poi mi sollevò di peso mettendomi sulla groppa dell’ani­male, quindi anch’egli montò a cavallo davanti a me sul basto raccomandandomi di aggrapparmi saldamente alla sua vita perché se fossi caduto a terra avrei potuto rompermi qualche osso e lui non voleva una simile responsabilità.

La via del ritorno era tutta in salita; la mula procedeva a fatica incespicando spesso e ciò suscitava le ire del padrone che per spronarla la batteva energicamente bestemmiando come un turco; dietro di noi c’era Tommaso taciturno e pensieroso, poi gli altri ragazzi che ridevano e scherzavano rumorosamen te, non sembravano stanchi, sghignazzando alle mie spalle.

Giunti alle porte del paese io e il capo smontammo da ca­vallo perché dovevamo imboccare il corso principale che oltre a essere in discesa era anche lastricato di lava nera sulla quale l’animale avrebbe potuto facilmente scivolare; bisognava pro­seguire a piedi.

Premurosamente Tommaso venne ancora in mio soccorso prendendomi sottobraccio con attenzione e tenerezza come avrebbe potuto fare con la sua fidanzata e mi mollò solo quan­do arrivammo davanti alla casa del nostro datore di lavoro.

Ma... che sorpresa! Si trattava della “putia dà za Tresa” (la bottega della signora Teresa) dove mia madre mi mandava spes­

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so a comprare pasta, zucchero, sapone, verdure, “sardi salati”, “tumazzu” (formaggio) e altro ancora.

Ma allora il nostro principale altri non era che il marito della “za Tresa”, “u zu Peppi Sinappi” che io conoscevo solo di nome e non avevo mai visto prima!

“U zu Peppi Sinappi”, quindi, ci fece entrare nella bottega e ci disse di aspettare un momento: il tempo di scaricare la mula, sistemarla nella stalla e salire in camera a prendere i sol di. Tommaso andò con lui per aiutarlo e tornò poco dopo con la mia zappa e la mia “sacchina”, me li consegnò e rimase con noi ad aspettare.

Nell’attesa gli altri quattro ragazzi continuavano a scher­nirmi ma io stavo troppo male per poter avere una qualsiasi reazione; feci finta di niente, come se la cosa non mi riguardas­se affatto fissando con ansia la porta della bottega da cui sareb­be entrato “u zu Peppi” con i soldi. Le mie duecento lire! Solo quel miraggio riusciva ormai a tenermi in piedi.

Dopo circa un quarto d’ora tornò il principale, si appartò nel retrobottega e da lì ci chiamò a uno a uno per pagarci; io e Tommaso fummo lasciati per ultimi e convocati insieme. En trammo nella piccola stanza ammuffita, senza finestre, ove sta gnava un tremendo fetore prodotto dalla mescolanza degli odori delle più diverse merci immagazzinate alla beli’e meglio da tutte le parti; un tumultuoso torrente d’acqua stigia mi riempì le viscere per risalire su per lo stomaco, l’esofago, la bocca... Ma nulla potè fuoriuscire da quel mio corpo vuoto. Mi appog giai a Tommaso; egli subito mi prese energicamente sottobrac cio e strettamente avvinti l’uno all’altro ci avvicinammo a “u zu Peppi Sinappi” che se ne stava seduto nel mezzo del retro bottega con grande compiacimento come se si fosse trovato nel più elegante dei salotti.

Senza parlare il nostro principale infilò la mano nella tasca destra della giacca, cavò fuori due bei bigliettoni da cento lire e li porse a Tommaso; io seguii ipnotizzato la traiettoria di quel le banconote, l’eccitazione mi serrava la gola, nel cuore risuo nava l’eco lontana della mattutina baldanza con la quale ero partito per il mio primo giorno di lavoro: finalmente le mie duecento lire!

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Ora toccava a me. “U zu Peppi” infilò la mano nella tasca sinistra, estrasse un mazzo di banconote spiegazzate di piccolo taglio, ne scelse quattro da dieci lire l’una e me le allungò di­cendo:

«Se io fossi un’altra persona non ti darei neanche queste, anzi: dovresti essere tu a risarcirmi dei danni che hai causato oggi al mio seminato, ma siccome sono una persona onesta, di “bon cori” (buon cuore) e conosco molto bene tuo padre e i tuoi fratelli non me la sento di farti tornare a casa a mani vuo­te: considerali una buona mancia. Devi però dire ai tuoi fami­liari da parte mia che t’insegnino a lavorare prima di mandarti “a jurnata sutta patruni” (a giornata sotto padrone, cioè come bracciante). Capito? E ora va, Tommaso ti accompagnerà fino a casa e non preoccuparti: hai tutto il tempo per imparare a lavorare, hai tutta la vita davanti a te e sono sicuro che divente rai un bravo ometto.» Poi si alzò dalla seggiola, rivolto a Tom maso: «Noi ci vediamo domani mattina al solito posto, alla stessa ora!» e lentamente ci accompagnò alla porta.

Quaranta lire! Non potevo crederci! Non era possibile! Stre­mato, torturato dai dolori, debilitato dal digiuno non potevo incassare impassibile una delusione tanto spaventosa! Tremando come una foglia mi aggrappai al mio amico Tommaso e affon­dai nel suo braccio la mia faccia contratta dallo sforzo sovru­mano di non piangere; egli mi sostenne in silenzio, partecipe del mio strazio, aspettando pazientemente che mi calmassi un po’ prima di avviarci verso casa. Sotto il cielo bruno ancora macchiato qua e là di rosso e azzurro in cui apparivano le pri me stelle io e Tommaso camminavamo piano piano, a braccet to, muti. Non saprò mai perché giunti davanti a casa mia Tom maso subito dopo avermi chiesto: «Vuoi che venga a parlare con tua madre?» mi piantò in asso e scappò via lasciandomi solo ad affrontare la mia famiglia.

Ma forse la risposta è la più semplice: anche se lavorava come un uomo Tommaso era pur sempre un ragazzo incapace, in quanto tale, di assumersi le proprie responsabilità, caratteri­stica specifica della persona adulta, e per tutto quello che ac­cadde, e ancora doveva accadere, durante quel mio indimenti­cabile primo giorno di lavoro io non gli serbo alcun rancore.

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La porta di casa mia era socchiusa (nel mio paese si usava lasciare aperte le porte d’ingresso non appena la temperatura esterna lo permetteva); una sottile lama di luce aranciata ne usciva squagliando mollemente sulla terra battuta della strada; arguii che nel soggiorno non c’era nessuno e che mia madre e mia sorella, come al solito, preparavano la cena nella cucina illuminata dall’allegro fuoco della legna che ardeva scoppiet­tando sotto il pentolone pieno di minestra.

Entrai di soppiatto senza far rumore; l’odore dolce e spesso delle fave e delle altre verdure selvatiche bollite, che avevo tro­vato sempre stuzzicante e appetitoso, mi awolse come una nube tossica che mozza il fiato e disfa le budella. Boccheggiando rag­giunsi la botola e lentissimamente a causa dei dolori che non mi davano tregua scesi lungo la scala di pietra fino al “catojo”: dovevo in tutti i modi evitare che i miei familiari si accorgesse ro di quello che avevo fatto, altro che mettergli sotto gli occhi le duecento lire come avevo sognato!

Prima di tutto bisognava far sparire il corpo del reato: presi la zappa e la “sacchina” e li riposi esattamente nei punti in cui li avevo trovati; poi era indispensabile pulire le scarpe ricoper­te da diversi centimetri di fango secco e le sfregai energica­mente con un vecchio sacco di canapa trovato fra l’accozzaglia di roba in disuso; lo straccio era più sporco delle scarpe ma queste ora almeno nelle parti più in vista avevano un aspetto decente. Adesso toccava alle mani: ah, le mani! Andai a lavarle nella pila di cemento che come al solito era piena di panni spor­chi in ammollo; provai ad aprire il rubinetto ma l’acqua non scendeva (l’acqua veniva erogata ogni tre giorni e solo per due o tre ore) per cui dovetti accontentarmi di sciacquarle nell’ac­qua nera dell’ammollo.

Le asciugai accuratamente sui pantaloni luridi che avevo addosso e le guardai. Gonfie, rosse, spellate: come avrei potuto nasconderle a tavola usando le posate, il bicchiere, spezzando il pane e altro ancora? I miei famigliari le avrebbero notate e chiesto spiegazioni.

A casa mia vigeva la regola che a cena bisognava essere assolutamente presenti perciò non potevo esimermi dal sedere a tavola con tutti gli altri; decisi allora di non mangiare nulla in

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modo da poter tenere nascoste le mani sotto il tavolo (col mal di pancia che avevo non sarebbe stato certo un sacrificio!) e se qualcuno mi avesse chiesto ragioni della mia inappetenza avrei risposto che durante il giorno in campagna con i miei amici avevo mangiato così tanto da essere ancora sazio.

Mentre rimuginavo tali pensieri sentii sulla mia testa un gran tramestio di passi e sedie spostate: mio padre e i miei fratelli rientravano a casa, si lavavano le mani e sedevano al loro posto a tavola. La cena era pronta. Risalii le scale con estrema pre­cauzione: a ogni gradino il dolore alle gambe si acuiva e teme­vo di ruzzolare giù dabbasso da un momento all’altro; per mia fortuna la botola era aperta perché non sarei mai riuscito a sollevarla, uscii nel soggiorno e vidi la mia famiglia al comple­to schierata a tavola. Sforzandomi di assumere un atteggia­mento quanto più possibile normale guadagnai il mio posto e quando mia madre terminò di dispensare la minestra col vec­chio mestolo di legno ci facemmo tutti il segno della croce; poi noi figli recitammo in coro : «“Sabanadica papà, sabanadica marna” (beneditemi papà, beneditemi mamma)» e i genitori di rimando: «Santi e ricchi.»

La cena poteva ora avere inizio. Io desideravo solo andare a letto e dormire. Per cercare di tenermi sveglio osservavo mio padre e i miei fratelli che famelici, la faccia quasi dentro il loro “fangotto” (grande piatto fondo di terracotta smaltata del dia­metro di circa cinquanta centimetri), soffiavano sul cucchiaio colmo di minestra bollente e ne succhiavano poi rumorosa­mente il contenuto gareggiando fra loro a chi mangiava più alla svelta mentre mia madre e mia sorella li guardavano ingo­iando lentamente e di malavoglia il cibo che si portavano pi­gramente alla bocca. In meno di tre minuti i “fangotti” furo no svuotati; le donne li sostituirono con piatti puliti su cui ven ne servito il secondo: due forchettate di verdura lessata condita con sale e puro olio d’oliva; pane e vino erano in tavola.

Per fortuna nessuno badava a me, nessuno mi diceva nien­te; mi sentivo più tranquillo: fra pochissimo la cena sarebbe terminata, io sarei andato a dormire e tutto sarebbe finito. E infatti dopo pochi minuti mio padre si alzò da tavola; ruttando sonoramente, le mani appoggiate con grande soddisfazione sul

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ventre prominente, raggiunse il comodino accanto all’alcova su cui aveva lasciato la coppola, se la calcò sulla testa, si rimirò allo specchio del canterano e senza dire né a né bah, se ne andò per i fatti suoi seguito subito dopo dai miei fratelli.

Era ora! Adesso potevo andare a dormire. Ridiscesi con cau­tela nella botola, mi sfilai le scarpe, i pantaloni, salii in ginoc­chio sul letto facendo attenzione a non picchiare la testa contro il soffitto ed ecco finalmente il tanto sospirato riposo! Ma an­che lì i dolori mi torturavano impedendomi di prendere sonno, e me ne stavo con gli occhi chiusi e il cervello inerte quando sentii qualcuno entrare in casa.

Era il mio fratello maggiore Luigi, lo riconobbi dalla voce. Discuteva concitatamente con mia madre; io non riuscivo a capire una sola parola di quello che dicevano ma non me ne importava un bel nulla, stavo così male!

«Enzo!» La voce terribile di mio fratello che mi chiamava mi gelò il sangue nelle vene. Feci finta di niente, come se non avessi udito.«Enzo!» ruggì ancora Luigi. Stavolta dovevo rispondere.

«Che c’è?» pigolai atterrito. Un orribile presentimento mi squarciò il petto.

«Vieni immediatamente su!» ordinò minacciosamente mio fratello. Se ne avessi avuto la forza sarei sceso di corsa giù nella stalla e attraverso l’uscita delle bestie sarei scappato a casa dei miei nonni dove avrei certamente trovato conforto e protezio­ne, ma ero troppo malridotto per poter mettere in atto una simile impresa. Rassegnato al mio destino mi rivestii più in fretta possibile e salii in soggiorno.

A quei tempi nelle famiglie numerose come la mia spesso il fratello maggiore coadiuvava il padre nell’educazione dei fra­telli minori ed era chiamato “papà picciddu” (papà piccolo): tale era per noi Luigi.

Egli a modo suo ci voleva bene, s’interessava a noi molto più di nostro padre che invece pensava solo a se stesso, c’inse­gnava tante cose, ma da rude contadino qual era condiva il tutto con frequenti busse che avevano originato in noi fratelli più piccoli un sacro terrore nei suoi confronti. E facile quindi immaginare con quale stato d’animo io affrontai mio fratello.

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Lo trovai in piedi appoggiato al canterano, la coppola ab bassata sugli occhi, le mani in tasca. Mi guardava truce; para lizzato dalla paura, come succede a volte alla gazzella insegui ta dal leone, aspettavo. Mi ordinò di avvicinarmi a lui e io come un automa lo raggiunsi; di scatto mi afferrò per un braccio e mi assestò quattro “timpulati” (ceffoni) così violenti che quasi mi staccò la testa dal collo. Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Cominciai a piangere tutte le lacrime che avevo trattenu to durante il giorno, mi coprii la faccia con le mani scorticate e barcollando, la testa strappata, andai a nascondermi contro il muro mentre mio fratello cominciava l’interrogatorio: «Dim mi un po’: dove sei stato oggi? Eh? Dove sei stato? A raccoglie re verdure selvatiche con i tuoi amici? Non è questo che hai detto stamattina alla mamma?»

Sopraffatto dai singhiozzi non risposi schiantato da quel­l’ennesima tortura di quell’infausto giorno! «Non rispondi? Hai paura di dire dove sei stato brutto “sbrigogna patruni c’un si atru!” (vergogna della famiglia che non sei altro!) Parla... ri spondi! Che bella figura ci hai fatto fare! Ora lo saprà tutto il paese che invece di strappare l’erbaccia hai strappato il grano come se fossi stato figlio di un ciabattino! Che non sei stato capace di mantenere il ritmo di lavoro degli altri ragazzi nem­meno con una sola scanalatura! Ppù...» Mio fratello sputò a terra. «“Brutta cosa fitusa!” (brutto fetente!) Eri un morto di fame per non poter aspettare d’imparare il lavoro? Ti manca­va forse la fetta di pane? Non ti permettere mai più di fare una cosa simile o quelle che hai buscato stasera saranno state solo una caparra! Adesso vattene a dormire; domani ti porterò con me, ti farò pascolare il cavallo per tutto il giorno... Ci penserò io a insegnarti a lavorare e vedrai che imparerai subito... Im parerai. .. “a furia di timpulati macari!” (anche a suon di ceffo ni)!»

Piangendo a dirotto, le guance in fiamme, fremendo di ver gogna e umiliazione, trascinando a fatica il corpo offeso fuggii da quel supplizio perdendo pezzi di anima a ogni passo. Mi misi a letto; non riuscivo a smettere di piangere.

Mia madre che aveva assistito muta e impotente a quell’odio­sa scena appena mio fratello di lì a poco riuscì di casa venne da

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me. Ignara com’era di tutto mi chiese dolcemente di raccon­tarle come avevo trascorso la giornata e io, fra i singhiozzi, le rivelai ogni cosa; alla fine presi le quaranta lire che avevo na­scosto sotto il cuscino e gliele consegnai timoroso e avvilito. Il suo sguardo si posò sulle mie mani martoriate e vi rimase in­collato; sotto le ciglia abbassate tremolava un acquoso lucci­chio.

Un lungo e desolato silenzio cadde fra noi. Poi mia madre con la stessa delicatezza con la quale si coglie la rosa più bella del proprio giardino mi tolse i soldi dalle mani, li ripose nella tasca del grembiule e accarezzandomi le guance ancora arros­sate dai colpi mormorò sforzandosi di sorridere: «Domani com­preremo un bel paio di scarpe nuove; adesso dormi.» Mi diede il bacio della buonanotte e tornò di sopra.

Rimasto solo continuai a piangere amaramente a lungo fin­ché Morfeo, pietoso, mi accolse fra le sue braccia ponendo fi­nalmente termine a quel mio primo giorno di lavoro di cui ancora oggi, dopo sessant’anni, conservo intatti il ricordo e la pena.

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“lI carrIagregnI”

(I portatorI dI covonI)

Cantavano a squarciagola alcuni braccianti della squadra “carriagregni” della trebbia che in quegli ultimi giorni del mese di giugno si stava svolgendo nel feudo Arcieri. Si trattava di un vasto territorio esteso per chilometri in lungo e in largo nei comprensori di tre paesini della Sicilia centro occidentale inte­ramente adibito alla coltivazione di cereali; verdeggiante in primavera quando le piantine erano in fase di crescita, ora in piena estate e a raccolto finito le stoppie bruciate dal sole tropi­cale trasformavano quella terra in un desolato mare giallo e incandescente dov’era impossibile trovare un po’ d’ombra per l’assoluta mancanza di qualsiasi tipo di albero o cespuglio.

Il proprietario del feudo era un certo don Peppi Bartuni succeduto allo zio don Cocò Bartuni morto pochi anni prima in circostanze alquanto misteriose. Correva voce infatti che don Cocò scapolo e senza figli avesse intenzione di legittimare come tali quelli della sua amante e che per questo motivo una sera nel solito bicchiere d’acqua non fu disciolta la solita medicina ma un potentissimo veleno; stramazzato al suolo, si contorce­va dilaniato dagli atroci spasimi degli intestini bucati sotto gli occhi compiaciuti dei due senatori addetti alla sua persona i quali, dopo la morte di don Cocò, entrarono subito a servizio da don Peppi.

Cantavano i “carriagregni” più forte che potevano, paro­diando un popolare inno alla Madonna, affinché chi di dovere potesse udir bene:

Prega p ‘u ranciu picca (prega per il rancio insufficiente) pi lì particularutani (per i favoritismi) pi l’acqua c’unn’arriva (per l’acqua che non arriva) pu vinu c’un si po’ biviri... (per il vino imbevibile...)

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Cantavano sotto il solleone mentre prelevavano il pesante covone di grano (“gregna”) “d’u burgiu” (mucchio di covoni, bica), se lo appoggiavano sulla testa e lo trasportavano fino alla trebbiatrice che era situata nel centro di un’area disseminata di biche per un raggio di diverse centinaia di metri tutt’attorno.

I “carriagregni” esaurita una bica passavano alla successiva percorrendo così nell’intera giornata di lavoro diversi chilo metri col pesante fardello sulla testa. Una volta giunti alla treb biatrice i “carriagregni” porgevano il loro covone all’imboccatore il quale lo slegava e lo lasciava scivolare attraverso l’ap posita apertura nelle viscere della macchina in pasto agli in granaggi messi in funzione dalla grossa puleggia collegata con una cinghia a quella del grande trattore a cingoli. Il covo ne veniva tritato e diviso in paglia, pulviscolo e frumento; que­st’ultimo sgorgava dalla macchina, come acqua dalla roccia, direttamente nel sacco di tela olona e veniva poi ripartito tra il proprietario del feudo e i mezzadri. Il proprietario del feudo dovendo pagare l’affitto della trebbiatrice esigeva che la mac­china funzionasse a pieno regime senza mai girare a vuoto e per questo motivo i “carriagregni” dovevano correre, sbrigar­si; ed essi correvano sotto il loro carico mentre il sudore che scendeva dai capelli impastati di polvere e sozzura fresca e stantia bagnava la fronte, gli occhi e scendeva giù per le guan­ce fino al collo andando a congiungersi con quello scaturito dalla schiena e dal petto solcando con rivoli serpentini lo spes­sore di sporcizia di cui era incrostata la pelle.

Ma i “carriagregni” cantavano ugualmente fino a sera inol­trata quando lo stridulo suono di una campanella annunciava la chiusura della giornata lavorativa: “u burgiu” era finito. Can tavano dopo aver mangiato un tozzo di pane raffermo, un pez zo di formaggio maleodorante e aver bevuto qualche sorso di vino che sapeva di aceto ed era più caldo del brodo appena scodellato. Cantavano mentre per quelle poche ore di riposo notturno andavano a distendersi così vestiti com’erano sopra i cumuli di paglia prodotti dalla trebbiatrice, all’aperto, toglien dosi solo le scarpe e buttandosi addosso per difendersi dalla frescura della notte qualche sgualcita coperta da campo o qual che vecchio sacco di canapa ormai in disuso. Cantavano ai

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primi albori della nuova e interminabile giornata di lavoro quando per soddisfare i propri bisogni corporali essi s’inoltra­vano nelle stoppie alte oltre il ginocchio le cui estremità irte e appuntite dal colpo di falce costituivano un reale pericolo di procurarsi ferite da taglio, cosa che succedeva spesso e volen­tieri.

Cantavano fino alla “mangiatamatina” (prima colazione): in un quarto d’ora dovevano ingollare il solito pezzo di pane col solito companatico e col solito imbevibile vino. Acqua ce n’era poca. La sorgente più vicina era a molti chilometri di distanza; ogni giorno un uomo veniva mandato con un mulo a fare provvista d’acqua che si utilizzava prima di tutto per cuci­nare ed abbeverare muli, cavalli e buoi: quella che avanzava era destinata a dissetare i “carriagregni”. Nonostante tutto essi cantavano lo stesso fino all’ora di pranzo “mangiatamenzior­nu”: sotto il sole cocente, con una temperatura di quarantacin­que gradi essi, sempre cantando, si mettevano in fila indiana “c’ù portapranzu” d’alluminio in mano davanti alla tenda sot­to la quale era allestita una parvenza di cucina e, con una fame da lupi, aspettavano pazientemente il loro turno.

L’addetto alla distribuzione del vitto era un vecchio cieco che nonostante la grave menomazione e la triste sorte di dover continuare a lavorare anche in tarda età per sopravvivere, svol­geva tuttavia quel suo malpagato incarico con un certo orgo glio che gli derivava dal privilegio di poter disporre dei viveri per conto del padrone del feudo. Benché i braccianti della treb bia fossero sempre gli stessi e non si potesse trovare altro essere umano per molti chilometri intorno, il vecchio, maestosamen­te seduto su un ceppo davanti a un tavolo costituito da un’asse di legno sostenuta alle estremità da altri due ceppi, accoglieva il lavoratore che quotidianamente entrava nella tenda per ri­scuotere il rancio sempre con la stessa ossessiva domanda for­mulata col tono solenne e perentorio del giudice che interroghi l’imputato: «Come ti chiami tu?»

Il bracciante declinava le proprie generalità e il vecchio, riconosciutolo formalmente come componente della squadra della trebbiatura e quindi avente diritto al pasto, si piegava len­tamente verso sinistra, prelevava una pagnotta dalla grossa ce­

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sta appoggiata a terra e gliela porgeva con quel fare esitante e impreciso tipico dei ciechi; poi con le dita sporche tastava la superficie della forma di formaggio che era direttamente ap­poggiata sul legno per misurare il pezzo che doveva tagliare, affondava il coltello nel punto giusto e staccata la porzione regolamentare porgeva anche quella all’interessato con grande degnazione.

Concluse queste due operazioni il vecchio ruotando imper cettibilmente la testa verso destra ordinava con piglio fiero e autoritario: «‘Nà razione!» e il cuciniere che stava alle sue spalle davanti al pentolone pieno di minestra versava due mestoli di pappa nel “portapranzu” del lavoratore. Così rifornito questi andava a sedersi su un covone o su un fascio di “liami” (corde per legare i covoni) e, sempre sotto il solleone, mescolava in un unico pasto cibo, polvere e sudore.

Avevano ragione i “carriagregni” di cantare!Per un bracciante un simile posto di lavoro era il massimo

che si potesse sperare! Grazie allo straordinario raccolto di quell’anno (era l’Anno Santo 1950) un posto di lavoro come quello voleva dire farsi dai trenta ai quaranta giorni alla treb bia con una paga maggiore rispetto agli altri lavori della cam pagna: cinquecento lire al giorno più un litro di vino, ‘”na gua­stedda” (una pagnotta), un pezzo di formaggio pecorino o ri cotta salata e la pasta a mezzogiorno. Solo che la pasta si per deva nella brodaglia di patate e cipolle, ‘”a guastedda” diven tava sempre più piccola, i formaggi erano solitamente stantii e pieni di vermi, il vino sempre imbevibile e sempre distribuito in ritardo mentre l’acqua andava a gocce ed era così calda da far venire il voltastomaco. Reclamare apertamente significava perdere irrimediabilmente il lavoro e via un bracciante ce n’era no altri cento pronti a prendere il suo posto. Per di più tra essi c’era sempre qualche leccapiedi che riusciva col suo servilismo a entrare nella manica dei capi della trebbia che erano il mec canico e il soprastante; il ruffiano riusciva così non solo a pro curarsi cibo migliore e a dormire la notte sotto la tenda che fungeva da cucina con il meccanico e i suoi aiutanti, ma anche a imboscarsi nei lavori più inutili e sporadici costringendo gli altri “carriagregni”, dei quali percepiva la stessa retribuzione,

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a sobbarcarsi la sua parte di trasporto dei covoni.E così si lavorava in quel modo bestiale per sedici ore al

giorno con due sole pause per mettere in pancia il necessario per sopravvivere, e così per settimane e settimane, domeniche comprese. Chi mai avrebbe potuto sostenere un simile ritmo di lavoro? Non certo i “carriagregni” che un giorno sì e uno no ponevano in essere uno stratagemma per ritagliarsi qualche ora di legittimo e umano riposo.

Siccome l’ingegno è figlio del bisogno ecco l’idea scaturita da una mente stanca alla guida di un corpo esausto: in man­canza dell’acqua necessaria quattro o cinque “carriagregni” a turno dovevano pisciare più volte sullo stesso covone di grano per inumidirlo a puntino; poi, complice l’imboccatore, il covo ne veniva introdotto nella trebbiatrice e questa, come d’incan to, si bloccava.

Il meccanico e i suoi aiutanti, che mai e poi mai avrebbero potuto immaginare un simile atto di sabotaggio, si spremevano le meningi per capire cosa succedeva a quel maledetto motore e, non riuscendovi, bestemmiavano come turchi affaccendan­dosi affannosamente attorno alla macchina per rimetterla in funzione il più presto possibile sotto lo sguardo indagatore del soprastante. Macché! Nonostante tutti gli sforzi e i tentativi per aggiustarla almeno per tre ore la macchina non dava segni di vita e i “carriagregni”, contenti e spaparanzati a pancia in giù con le spalle al sole, assaporavano con voluttà quelle ma­gnifiche ore di riposo e soprattutto l’inutile sbattimento del meccanico e dei suoi aiutanti.

«Lavorate, lavorate voi ora brutti schifosi che sdraiati al l’ombra del trattore o della tenda godete un mondo nel vederci sudare e sgobbare come bestie! Su... su... sbrigatevi ad aggiu starla, fate presto luridi ruffiani del padrone, tanto provvedere mo noi a farla ingolfare di nuovo molto prima di quanto non pensiate!»

Era quasi buio. L’ennesima lunga e torrida giornata di la­voro stava per concludersi quando giunse al galoppo don Pep­pi Bartuni in persona. Fece fermare le macchine, attese che i “carriagregni” fossero tutti riuniti vicino alla trebbiatrice e ad alta voce, senza smontare da cavallo, con un atteggiamento

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autoritario che non ammetteva repliche ordinò:«Picciotti, c’è un nostro mezzadro che non può aspettare

fino a domani: i suoi covoni devono essere macinati questa sera stessa.» Qualcuno si azzardò a fargli osservare che era ormai troppo tardi e che era anche ora di mangiare, ma don Peppi:

«Mangerete dopo. Avrete tutta la nottata per mangiare» e senza attendere risposta spronò il cavallo andandosene di cor­sa com’era venuto. Nessuno osò pensare neanche per un mo­mento di disattendere l’ordine appena ricevuto; immediata­mente sui due punti più alti della trebbiatrice furono sistemati due grossi lumi ad acetilene che illuminavano a giorno “ù bur­giu di trentacincu mazza di gregni” (un mazzo corrispondeva a venti covoni) del mezzadro che non poteva aspettare e i due­cento passi che li separavano dalla trebbiatrice.

I “carriagregni” ripresero il lavoro e quando dopo circa tre ore ebbero finito, era ormai da un pezzo passata la mezzanot­te, erano stremati a tal punto da aver perso anche la voglia di mangiare. Digiuni si buttarono sulla paglia come rifiuti in pat­tumiera senza nemmeno togliersi le scarpe: non ne avevano più la forza. Caddero in un sonno letargico e ristettero immo­bili anche quando, ancor prima che il nuovo giorno nascesse, alcune lodolette più coraggiose e audaci andarono a cinguetta re e a saltar loro addosso.

Spuntava l’alba. I “carriagregni” furono svegliati dal rom­bo di un motore: le macchine erano già in funzione. Si levaro no svelti dal loro giaciglio, corsero fra le stoppie a liberarsi da gli escrementi e poi via, subito a “li gregni”.

Sorgeva il sole del quinto giorno del mese di luglio.

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l’uffIcIale sIculo-amerIcano

luglIo 1943

Le truppe fasciste, tedesche e del regio esercito che per tan to tempo erano rimaste accampate nelle campagne circostanti il paese nascoste all’aviazione nemica dalle fronde degli albe ri, nell’arco di tre giorni si erano dileguate. La radio parlava di un probabile sbarco degli americani a Gela; una miscela di incredulità e speranza sobbolliva nei nostri cuori esalando un pungente profumo di pace che ci faceva star male come l’affa­mato che sente l’odore del cibo e non può mangiarlo.

Di punto in bianco il cielo si vestì di grigio ferro. Dalla mat­tina alla sera e dalla sera alla mattina con un rombo assordante centinaia di aerei passavano sopra le nostre teste e noi col naso all’insù storditi, memori dei due bombardamenti che avevamo già subito negli anni precedenti da parte degli alleati guardava­mo preoccupati e nello stesso tempo speranzosi quel metallico stormo tanto fitto da oscurare il sole. Cosa stava accadendo? Dopo cinque giorni di angosciosa incertezza la radio ci infor­mò che gli aerei alleati nell’intento di distruggere eventuali postazioni militari nemiche avevano bombardato numerosi centri abitati causando centinaia di morti e feriti tra i civili.

A questa notizia molti paesani, terrorizzati, prelevarono dalle loro case tutto ciò che poterono e nottetempo sotto l’incessante frastuono degli aerei corsero a nascondersi in campagna; i for­tunati che possedevano un casolare, anche se mezzo diroccato, riuscirono bene o male a sistemarsi al coperto mentre gli altri dovettero adattarsi a vivere all’addiaccio proprio come bestie selvatiche. Io e la mia famiglia, con mio zio e la sua famiglia e alcuni nostri conoscenti per un totale di trenta persone raggiun­gemmo i miei nonni che in quel periodo dell’anno per motivi di lavoro vivevano già nella casetta di un podere distante pochi chilometri dal paese.

La notte seguente dormivamo tutti ammassati sul pavimen­

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to di ciottoli coperto da un sottile strato di stoppie secche quando una tremenda deflagrazione ci fece svegliare di soprassalto. Su­bito le donne cominciarono a gridare invocando la Madonna e tutti i santi, i bambini a piangere con acuti strilli, gli uomini a discutere animatamente sul da farsi mentre fuori gli scoppi delle bombe e il crepitare delle mitragliatrici s’intensificavano sem­pre più. Atterrito, accucciato nel mio angolo potevo vedere quella massa disperata e gesticolante grazie alla luce dei ben­gala che penetrava nella casa attraverso la finestra, le fessure della vecchia porta, i buchi che si erano prodotti fra le canne secche del tetto. Tutti volevano uscire, scappare a nascondersi sotto gli alberi, ma mio padre appoggiate le spalle alla porta d’ingresso le braccia allargate, urlava minaccioso: «Guai a chi esce da qui! Gli spacco la testa! Se usciamo ci falciano tutti con le mitragliatrici! State calmi e vedrete che non ci accadrà nulla!»

«Ma non vedi che la casa sta per caderci addosso col solo spostamento d’aria? Se non usciamo subito faremo la fine del topo!» urlava ancor di più mio zio per superare lo strepito delle donne e dei bambini.

All’improvviso un terrificante sibilo proprio sopra di noi, uno scoppio infernale, la casa che traballa, i detriti del tetto frantumato che ci piovono sulla testa. Un unico urlo, disuma­no, indescrivibile si levò dalla casetta fortunosamente rimasta in piedi. Mi coprii le orecchie con le mani, la fronte appoggiata alle ginocchia, e piangendo cominciai a pregare perché tutto finisse al più presto, al più presto, al più presto!! Ma intanto era calato su di noi un silenzio di tomba: l’agghiacciante con­sapevolezza di essere vivi per miracolo aveva paralizzato ogni nostra funzione vitale, misere statue scolpite nel nulla, e per alcuni minuti non si udì altro che il fragore della guerra intorno a noi. Tuttavia di lì a poco sembrò che esso si allontanasse... Sì... si allontana! Si allontana!!

La mattina alle prime luci dell’alba uscimmo dalla casetta allarmati da alte grida e lamenti provenienti dall’esterno. Tra i covoni di grano inceneriti e ancora fumanti, le macerie delle casupole distrutte, le buche delle bombe inesplose, gli scheletri degli alberi bruciati sagome umane erano a terra curve su muc­chietti di materia informe che solo la logica ci faceva ricono­

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scere come cadaveri. I bengala avevano illuminato a giorno le nostre povere casette di campagna e i nostri covoni di grano, frutto di un anno di duro lavoro, e i piloti americani li avevano scambiati per fortilizi nemici; coloro da cui aspettavamo la tanto sospirata pace avevano così bombardato tutta la zona abbat­tendo con le mitragliatrici, come mio padre aveva previsto, le persone che erano uscite dalle casette per nascondersi sotto gli alberi.

Mentre contemplavamo afflitti tale finimondo arrivò sul suo morello il campiere della contrada che ci disse con voce rotta dall’emozione: «Gli anglo­americani sono sbarcati stanotte a Gela! Non hanno incontrato alcuna resistenza... Avanzano in­disturbati... Tra un paio d’ore potrebbero essere già qui... ci sono stati più morti nelle nostre campagne che al fronte, ma per fortuna il paese non è stato toccato... possiamo tornare a casa... non c’è più pericolo... i tedeschi sono scomparsi... fi­nalmente siamo salvi! La guerra è finita! È finita!!» Due gros­se lacrime gli rigano il viso riarso dal sole, se le asciuga in fretta col dorso della mano, rimonta a cavallo e riparte al ga­loppo per continuare a diffondere la straordinaria notizia in tutto il territorio.

Bastarono quelle poche, magiche parole perché l’inenarra­bile sofferenza della notte appena trascorsa e l’amarezza del presente svanissero di colpo. La pace! Felici ci guardavamo l’un l’altro trasognati, ci scambiavamo larghi e beati sorrisi e chissà per quanto tempo saremmo rimasti lì, immobili, a goderci lo storico momento se mio padre ripresosi per primo da quella sorta di estasi mistica non avesse sollecitato tutti i presenti a tornare in paese alle proprie case. E così fu fatto. Io preferii restare con i nonni.

Mio nonno è andato a fare rifornimento d’acqua, mia non­na Java la biancheria nella pila di legno sotto il fico, io sono in casa e sto rovistando dappertutto per trovare la forma di ricotta salata che la nonna ha nascosto da qualche parte per sottrarla alla mia voracità.

Da lontano un rombo di motori si fa progressivamente sem­pre più forte: si avvicina! Spaventato mi precipito fuori come un fulmine e laggiù, lungo lo stradone per Gela, carri armati e

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autoveicoli di vario genere procedono lentamente tra due co­lonne laterali di soldati a piedi. I miei timori si trasformano immediatamente in salti di gioia: sono gli americani! Entusia­smato da tale spettacolo corro a gambe levate per raggiungere l’esercito salvatore e osservarlo più da vicino; come me centi­naia di persone sono venute a festeggiare i nostri liberatori che sorridenti distribuiscono a piene mani cioccolato, biscotti, si­garette, scatolette di carne.

Io ne approfittai subito per fare un po’ di provviste alimen­tari e carico di ogni ben di Dio tornai dai nonni con i quali consumai un succulento pranzo a base di carne in scatola ame­ricana; più tardi essi si abbandonarono a una gustosa penni­chella distesi l’uno dietro l’altro nella mangiatoia e io, sfac­cendato, presi a gironzolare pigramente intorno alla casa fin­ché mi venne la felice idea di andare a trovare mio zio Salvato­re che viveva nel suo bel villino a due chilometri di distanza dove fino a pochi giorni prima c’era stato il comando ufficiali e il magazzino vestiario delle truppe italiane accampate nei din­torni. Chissà se il villino era stato distrutto dal bombardamen­to della notte precedente; no, era intatto. Io e mio zio chiac­chieravamo tranquillamente seduti all’ombra del gigantesco noce accanto alla grande vasca di pietra (destinata alla raccol ta dell’acqua sorgiva utilizzata per l’irrigazione) da cui scatu riva una paradisiaca frescura quando al nostro orecchio giunse uno sferragliante fracasso che ci fece balzare in piedi terroriz zati.

Un carro armato solitario aveva lasciato lo stradone per im­boccare il sentiero ghiaioso che conduceva dritto dritto a noi. Tutte le nostre povere membra tremavano scompostamente come fossimo marionette impazzite, avremmo voluto scappa­re ma la paura era colla che c’inchiodava al terreno. Il mostro di ferro si fermò a pochi passi dalla vasca di pietra, i motori si spensero e in quell’irreale silenzio dalla sua pancia sbucarono fuori cinque militari con la stessa uniforme dei soldati ameri­cani che avevo visto poche ore prima, solo il berretto era diver­so; la cosa mi rincuorò un poco.

I militari ci rivolsero un cenno di saluto poi l’unico bianco del gruppo, gli altri avevano la pelle nera e liscia come quella

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delle foche, indicando la vasca ci chiese in perfetto italiano: «Quest’acqua è buona da bere?» Io e mio zio tirammo un so­spiro di sollievo e rispondemmo che l’acqua era ottima sia per bere che per cucinare.

L’ufficiale bianco parlottò per qualche istante con i suoi com­militoni in una lingua sconosciuta, poi rivolto ancora a noi: «Non si fidano, temono che possiate avvelenarli; dovete berne prima un po’ voi.» Così dicendo tese il suo gavettino allo zio il quale lo prese, lo immerse nella vasca, lo riempì ben bene, tran­gugiò diverse sorsate di quell’acqua frizzante e amarognola e poi lo porse a me che feci altrettanto. Rassicurati, ringrazian­doci con ampi gesti e sorrisi i cinque soldati americani si mise ro in fila davanti alla vasca di pietra uno dietro l’altro, l’ufficia­le per primo; bevvero abbondantemente, riempirono le loro borracce e le depositarono all’interno del cingolato, poi men­tre i quattro soldati negri andavano a sedersi all’ombra di un albero l’ufficiale ci raggiunse.

«Il prossimo paese è Mazzarino?» Lo zio rispose affermati­vamente. L’ufficiale continuò: «Ci risulta che è pieno di forze tedesche e per questo noi abbiamo l’ordine di attaccarlo con le nostre artiglierie, carri armati e, se necessario, con bombarda­menti aerei a tappeto. Ci dispiace per la popolazione civile, ma dobbiamo farlo a meno che non riusciate a dimostrarci che le nostre informazioni sono sbagliate.»

A queste parole io e mio zio ci sentimmo svenire per lo scon­forto. Il ricordo del bombardamento della notte precedente, che avevamo prontamente rimosso alla vista mattutina delle truppe americane, esplose nelle nostre teste in tutta la sua atro­cità; avremmo dunque dovuto subire ancora morte, terrore, distruzione da parte di coloro che avrebbero dovuto portarci la pace? Che beffa del destino era mai questa?

«Nooo!!» gridò mio zio sopraffatto dallo sgomento e dal pianto. «Non è vero! Non è vero!! A Mazzarino non c’è alcun soldato tedesco né italiano! Ve lo garantisco io! È tanto tempo che vi aspettiamo a braccia aperte, noi siamo vostri amici! In paese troverete solo gente festosa e ospitale, è la pura verità, dovete credermi, dovete credermi!!»

Ma l’ufficiale sembrava molto perplesso; poi dalla borsa di

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cuoio che portava a tracolla estrasse un grande foglio di carta, lo dispiegò per bene sul terreno e in ginocchio appoggiando l’indice ora su un punto ora sull’altro della carta topografica spiegò a mio zio: «Vedete: a noi risulta che qui e qui sono piaz zati pezzi di artiglieria tedesca, qui e qui due battaglioni di fanteria con mitragliatrici e armi anticarro. Vedete? Guardate voi stesso, è segnato tutto qui.» Ma il mio povero zio Salvatore essendo analfabeta non poteva capire niente di carte topogra­fiche e l’ufficiale americano se ne accorse subito. Con espres­sione contrariata cominciò a ripiegare il foglio mentre mio zio lo implorava di non distruggere il paese perché lì non c’erano nemici ma solo brava gente che non desiderava altro che la pace. Allora l’ufficiale americano impietosito disse a mio zio: «Io vorrei tanto potervi credere, buon uomo, ma capirete che è necessario che quanto asserite mi sia confermato da un’autori­tà locale; è passibile parlare con un’autorità del paese?»

«Certo!» esclamò con enfasi mio zio. «Datemi mezz’ora di tempo e io porterò qui la persona di cui avete bisogno!» L’uffi ciale gli concesse un’ora di tempo ammonendolo che se non avesse mantenuto la parola data egli sarebbe stato costretto a eseguire gli ordini del suo comando superiore che erano esat tamente quelli di cui ci aveva parlato poco prima.

Mio zio inforcò il cavallo e partì di gran carriera verso il paese; l’ufficiale si sedette a terra, m’invitò ad accomodarmi accanto a lui e cominciò a chiedere di me e della mia famiglia; quindi mi raccontò di essere nato a Palermo ventisette anni prima, che a dodici anni con la madre e i fratelli aveva rag­giunto il padre negli usa dove aveva potuto crescere bene, stu diare, ma che era sempre rimasto affezionato alla sua terra natale e gli dispiaceva moltissimo doverla oggi combattere. Chissà di quante altre cose mi avrebbe parlato ancora se mio zio Salvatore non fosse tornato, puntualissimo dopo meno di un’ora, con un prete (il preside della mia scuola) sistemato die tro di lui sulla groppa del cavallo.

L’ufficiale siculo­americano scattò in piedi. Il prete, smon­tato energicamente da cavallo, senza por tempo in mezzo gli si parò dinnanzi e con la mano destra appoggiata sul cuore pro­nunciò solennemente le seguenti parole: «In qualità di servo di

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Dio prima e di vice podestà del paese dopo, a nome di tutta la cittadinanza io vi giuro che fra noi non c’è alcun nemico e che la popolazione, già provata da tante disgrazie e tribolazioni, non desidera altro che la pace. Per dimostrarvi che quanto dico è vero io mi offro come ostaggio: mi prenderete con voi e se giunti in paese sarete colpiti anche da un solo proiettile nemico voi m’impiccherete al campanile più alto che potrete trovare; non sono in grado di darvi ulteriori garanzie.»

L’ufficiale siculo­americano e il prete si guardarono a lungo negli occhi, in silenzio. Il prete con piglio austero, fiero e grave aspettava la risposta che avrebbe determinato la sorte del no stro paese; l’ufficiale visibilmente combattuto tra il senso del dovere e il timore di causare un’inutile strage fra i suoi conter ranei restava muto, pensoso finché, presa finalmente una deci sione, disse al prete: «E va bene, vi credo, potete tornare alla vostra chiesa; se il giuramento che mi avete fatto è vero avrete salvato il vostro paese dalla distruzione, altrimenti lo avrete sottoposto a una ben più vasta e orrenda carneficina. E triste dover dire queste cose, ma purtroppo la guerra è la guerra!»

Il prete afferrò con veemenza la mano destra dell’ufficiale siculo­americano e gliela strinse fervidamente sussurrando con la voce strozzata dalla terribile ansia patita: «Che Dio vi bene dica!» Andò a stringere la mano agli altri quattro soldati negri, rimontò a cavallo con mio zio e insieme ripartirono alla volta del paese.

L’ufficiale siculo­americano rimase a guardarli meditabon­do fino a quando furono inghiottiti dalle scintillanti fauci del­l’assolato orizzonte estivo; poi mi sorrise e allungandomi un pacco di biscotti mi salutò: «Ciao, arrivederci a presto.» Fece un cenno con la mano ai suoi commilitoni e tutti entrarono nel carro armato; il motore si accese e il mostro di ferro sollevando una gran nuvola di polvere bianca cominciò ad allontanarsi col solito rombo assordante di guerra che adesso, con mio grande stupore, non mi terrorizzava più.

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FlNUZZEDDA

(la pIccola stefanIa)

Nonostante abitasse da sempre vicino a casa mia io Finuz­zedda non l’avevo mai vista né a scuola, né per la strada gioca re con gli altri bambini, né alla messa, né alle feste del paese, né alle processioni religiose, né al mercato, mai.

Un giorno captando casualmente un discorso fra mia ma­dre e mia sorella scoprii che Finuzzedda era affetta da una gra­ve cardiopatia congenita, che i suoi genitori non avevano i sol­di per curarla e che poteva morire dall’oggi al domani. Ecco perché non l’avevo mai vista! Ai tempi in cui ero ragazzo, cor­revano gli anni quaranta del secolo scorso, nei ceti meno ab­bienti la malattia veniva considerata una vergogna, un disono re non solo per l’ammalato ma per tutta la sua famiglia; i con­giunti di un ammalato quindi per non essere scansati ed emar­ginati dal vicinato, sempre morbosamente attento alle disgra­zie altrui, cercavano di nascondere l’onta chiudendo in casa l’ammalato e proibendogli ogni contatto col mondo esterno, preoccupandosi più della loro reputazione che delle sofferenze inflitte al povero infelice non solo dalla malattia, ma anche dal vivere segregato nella più triste e sconfinata solitudine.

Incuriosito da quanto avevo così fortuitamente appreso co­minciai a osservare con attenzione la casa di Finuzzedda nella speranza di poterla vedere. La casa, bassa, stretta, piccola, non aveva finestre e l’unica apertura da cui filtravano l’aria e la luce era la porta d’ingresso, ma questa, contrariamente all’usan­za del mio paese che prevedeva che le porte d’ingresso fossero sempre spalancate, era perennemente appena socchiusa perché nessuno potesse guardare dentro e accorgersi della nociva esi­stenza di Finuzzedda, la sepolta \iva.

Appuntai allora il mio sguardo su quella porta e ben presto dal buio spiraglio che ne usciva vidi emergere qualcosa. Prima una gambetta sinistra bianca e ossuta poi, più su, un indefini­

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bile e sbavato colore verde e poi, ancora più su, un’altra mac­chia bianca e indistinta, il mezzo viso di qualcuno che appog­giato con la metà destra del corpo allo stipite interno della porta spiava malinconicamente i bambini che in quel momento sta­vano giocando sulla strada: le femmine con ancora addosso la divisa della scuola (fiocco in testa e grembiulino bianco) si di­vertivano a moscacieca, a nascondino, al salto con la corda mentre i maschi per farsi notare da loro abbandonati i giochi abituali delle piastrelle, del calcio con la palla fatta di stracci e spago, a prendersi, correvano e saltavano disordinatamente di qua e di là come puledri scavezzati.

Era Finuzzedda! Senza pensarci due volte in quattro e quat tri otto le fui di fronte.

«Ciao, io sono Enzo, come ti chiami?» La bambina mi chiuse subito la porta in faccia, ma io non gettai la spugna e nei giorni seguenti perseverai nel mio approccio fino a quando ella, sem­pre seminascosta dalla porta, mi rispose.

«Sai cos’è successo oggi a scuola?» esordii con disinvoltura come se ci conoscessimo da lunga data, e cominciai a narrarle uno dei tanti episodi spassosi che avevano per protagonisti i miei compagni di classe. Man mano che il racconto procedeva la porta si apriva sempre di più e finalmente potei contemplare Finuzzedda in tutta la sua misera interezza. L’informe vestito verde, liso e macchiato, le penzolava addosso come se fosse stato appeso a una gruccia tanto il suo corpo era magro e piat­to, le gambe sembravano due manici di scopa, i piedi nudi cal­zavano vecchi zoccoli dalla suola sbeccata e la tomaia sdrucita, le braccia, tutte pelle e ossa, terminavano con due manine mi­nuscole come le zampette di una gattina.

La testa piccola e ovale, molto simile a un grosso limone, incorniciata da capelli neri, lisci, lunghi fino alle spalle, era sor­retta da un esile collo sottile come quello di una gallinella, il nasino dritto e ben fatto presentava sulla radice un’azzurra venuzza orizzontale che arrivava quasi fino agli occhi. Che occhi! Grandi, celesti, lucenti mi guardavano divertiti e incre­duli mentre le sue labbra color del fegato, che risaltavano sgra­devolmente sul pallore cadaverico del viso, si schiudevano sui piccoli denti gialli e irregolari.

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Com’era contenta di ascoltarmi, non le sembrava vero che qualcuno le rivolgesse la parola e mostrasse interesse per la sua persona! Da quella volta non passava giorno che nel tornare a casa da scuola io non mi fermassi a chiacchierare un po’ con lei lì sulla porta d’ingresso; le parlavo della scuola, le recitavo le poesie, le raccontavo le marachelle che combinavo ai danni di grandi e piccini e lei rideva, sfortunata creatura, e l’allegria disegnava sulle sue ceree guance una tenue ragnatela rosa. Com’era bello vederla ridere, com’ero orgoglioso di essere di­ventato il suo unico amico, come mi sentivo importante quan­do lei, pendendo dalle mie labbra, mi guardava estasiata con gli occhi sfavillanti di gioia!

Ormai preferivo chiacchierare con Finuzzedda che giocare con i miei compagni. Un giorno notai con disappunto che Fi­nuzzedda non era seminascosta dietro la porta d’ingresso ad aspettarmi per la quotidiana conversazione, così volendo sco­prire il motivo di tale defezione cominciai a sbirciare dalla por ta stessa, sempre appena socchiusa, l’interno della casa. Ma non vedevo niente, il buio regnava sovrano.

«Enzo... Enzo... cosa fai lì sulla porta... entra, non aver paura... sono sola...» Incoraggiato da quelle parole entrai e il raggio di sole che mi seguì mi fece scorgere Finuzzedda corica­ta in una brandina appoggiata alla parete destra della stanza; i capelli neri sparpagliati sul cuscino sembravano i lunghi artigli con i quali la tenebra circostante stava per ghermire quel visi­no più bianco delle lenzuola che ora per la gioia della mia pre­senza si andava rianimando predisponendosi alla giornaliera dose di buonumore.

In quel momento benché distesa nel suo letto d’ammalata sola, dimenticata da tutti Finuzzedda emanava dal volto una tale luminosa beatitudine che mi parve di vedere la Madonna in persona.

«Siediti... cosa fai lì in piedi?» bisbigliò affannosamente in dicandomi una sedia coi begli occhi chiari e penetranti, ma io mi avvicinai al suo capezzale: «Perché sei a letto? Non stai bene?» chiesi con apprensione.

«No... no... è... la solita crisi... che mi viene ogni tanto... non ti preoccupare... adesso mi passa... ma siediti, fammi un

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po’ di compagnia... raccontami qualcosa... sai raccontare così bene!... Racconta... racconta!» Per accontentarla iniziai a de­scrivere la zuffa avvenuta di recente tra due miei conoscenti e lei sulle prime ascoltava sorridendo fissandomi intensamente con quegli occhi sempre più grandi; poi piano piano le labbra color del fegato cominciarono a chiudersi, le palpebre ad ab­bassarsi e io pensai che si fosse stancata.

«Finuzze’, t’è venuto sonno?» Ella sbarrò subito gli occhi, divenuti stranamente opachi, e con lo sguardo perduto chissà dove rispose flebilmente:

«No... no... sono sveglia... ti sento, ti sento... continua a parlare, Enzo... è così bello sentirti parlare!»

Ripresi il mio racconto per interromperlo subito dopo: Fi­nuzzedda aveva chiuso completamente gli occhi e il suo facci­no, divenuto ancor più bianco, pur conservando un’espressio­ne lieta non sorrideva più.

«Finuzze’, mi senti?» chiesi a bassa voce convinto che si fosse addormentata.

«Sì... ti... sento... par... la... non... te... ne... andare... En... zo... par... la... par... la... non... te... ne... an... da... re...» aveva implorato impercettibilmente, con grande fatica. Ma io restai in silenzio perché non volevo disturbare il suo riposo e quando dopo pochi minuti mi sincerai che lei, immo bile e serena, dormiva profondamente me ne andai soddisfatto di essere riuscito a conciliarle il sonno ristoratore.

Ero da poco tornato a casa mia quando dalla strada si leva rono altissime grida: «Finuzzedda! Finuzzedda!! Povera figlia mia! Ci hai lasciati! Rispondi! Rispondi!!» Io, i miei familiari e tutti gli abitanti del quartiere corremmo fuori per sapere cosa fosse successo.

Finuzzedda era morta. Sua madre e le sue sorelle, le prime ad averle negato perfino la libertà di respirare una boccata d’aria fresca, conformandosi all’usanza del paese ora si disperavano, urlavano, piangevano la cara estinta quando io sapevo benissi­mo che non speravano altro che morisse il più presto possibile. Non ebbi però il tempo di amareggiarmi per tanta ipocrisia perché subito una folgorante certezza mi rimescolò il sangue: venti minuti fa ascoltando la mia esilarante storiella Finuzzed­

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da si era sì addormentata, ma per sempre! Lassù era scritto che dovevo essere proprio io, il suo unico amico, a porgere il brac­cio a Finuzzedda mentre varcava finalmente quella porta d’in­gresso e, ormai libera, a portarla a spasso per il paese mostran­dole tutto ciò che non aveva mai visto: le chiese, i palazzi, i giardini, la gente. Poi arrivati sulla strada maestra lei aveva lasciato il mio puntello perché adesso era in grado di prosegui­re il viaggio da sola, e nell’awiarsi felice verso la sua meta mi aveva regalato l’ultimo, indimenticabile sorriso.

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le scarpe nuove

Quel pomeriggio del 24 dicembre 1942 Diego, alunno di terza elementare, si recava a scuola per la recita di Natale.

La maestra aveva esaminato accuratamente oltre cinquan­ta candidati per selezionare i dodici bambini che avrebbero par­tecipato allo spettacolo. Di questi, che per più di un mese do­vettero studiare, provare e riprovare le loro parti, ben undici appartenevano a famiglie della borghesia medio­alta del paese mentre uno solo, Diego, proveniva da una famiglia di contadi ni. La maestra tuttavia aveva scelto proprio lui come protago nista principale della recita per le sue prodigiose doti mnemo niche e interpretative: era in tal modo certa di realizzare uno spettacolo veramente ben costruito, cosa che le stava molto a cuore data la particolarità della situazione.

Quell’anno infatti ad assistere alla recita di Natale non ci sarebbero stati, come sempre, solo gli insegnanti e i parenti degli scolari, ma anche gli ufficiali e i sottufficiali delle truppe fasciste, dell’esercito regolare e del contingente tedesco che in­sieme presidiavano il paese accampati nelle campagne circo­stanti. Per quei militari infatti, cui il povero angolo di Sicilia che occupavano non concedeva alcun diversivo alla loro pre­caria e tetra esistenza, quella semplice recita scolastica rappre­sentava già un’occasione mondana da non perdere, la possibi­lità di dimenticare, anche se per poco tempo, le tristi vicende della guerra e vivere qualche ora immersi nella tanto sospirata e rimpianta normalità.

Quando si diffuse la notizia che gli ufficiali sarebbero stati presenti allo spettacolo, le massime autorità locali informaro­no la direttrice della scuola che avrebbero fatto altrettanto co­sicché l’evento si preannunciava storico e degno di essere regi­strato negli annali del paese.

La maestra, che insieme alla direttrice della scuola ebbe in seguito seri problemi a causa dei genitori degli altri undici bam­bini che trovavano inammissibile che i propri figli fossero stati

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posti in secondo piano nei confronti di un contadino, aveva perciò raccomandato a Diego di indossare quel fatidico giorno degli abiti nuovi o quanto meno il più possibile puliti e in ordi­ne non solo per non essere da meno dei suoi compagni che appartenendo a famiglie facoltose sarebbero stati sicuramente molto ben vestiti ma anche perché intendeva presentarlo ad alcune alte personalità militari e civili che avrebbero assistito alla rappresentazione teatrale quali il podestà, il vescovo, il colonnello della Milizia Nazionale Fascista detto anche “Con­sole”, il tenente colonnello della Cavalleria, e altri ancora.

Con il cuore gonfio d’orgoglio e d’entusiasmo Diego quindi si era preparato con cura prima di uscire di casa: aveva indos­sato la camicia, il maglione e i pantaloncini nuovi che la mam ma gli aveva cucito con le proprie mani, si era pettinato e infi ne aveva calzato quelle magnifiche scarpe nuove che desidera­va da così tanto tempo. Oh... quanto le aveva desiderate! Le aveva ammirate ai piedi dei ragazzi come lui nei giorni di festa, le aveva a lungo contemplate schiacciando il naso contro le vetrine dei negozi, le aveva persino sognate! Ma adesso erano sue e non vedeva l’ora di uscire per la strada affinché tutti po­tessero vedergliele.

Si guardò allo specchio: com’era bello con quegli abiti nuo­vi e soprattutto con quelle scarpe nuove! Si chinò per toccarle. Sì, non era un’allucinazione: erano realmente delle bellissime scarpe nuove, calde, lucide, morbide e comode quali non ave va mai avuto prima e che di colpo mutavano quel giorno nel più felice della sua vita.

Camminando verso la scuola nel mite pomeriggio inverna­le egli osservava con infinita beatitudine la foglia raggrinzita ancora strenuamente attaccata al proprio ramo, il fumo denso e biancastro che usciva dai comignoli disperdendosi nell’im­menso, il passerotto affamato che cinguettando saltellava qua e là in cerca di cibo. S’imbattè in alcuni ragazzi che, come lui aveva sempre fatto fino a quel momento, scalzi o con zoccoli di legno calciavano una rudimentale palla fatta di stracci e spago e sentì di essere il bambino più fortunato del mondo perché adesso possedeva quelle bellissime scarpe nuove e mai più avreb be giocato a pallone a piedi nudi.

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Lungo il corso centrale del paese donne impellicciate e in­gioiellate passeggiavano col cane al guinzaglio mentre un gran baccano proveniva dalle osterie dove i soldati della Milizia Na­zionale Fascista litigavano perennemente con quelli dell’Eser­cito Regolare con conseguenti scazzottate e lanci di bicchieri e bottiglie.

Nonostante la guerra in corso e le terribili notizie che giun­gevano dai vari fronti, in tutto il paese si respirava la più festo sa atmosfera natalizia con le vetrine dei negozi sfavillanti di luci, i fragranti odori di dolci che dalle case si diffondevano nelle strade, le cappelle della Madonna e dei santi ornate per la lieta ricorrenza da profumati rami d’arancio e cipresso.

Com’era bello tutto questo! Diego pervaso dalla gioia per le splendide scarpe nuove che poteva finalmente sfoggiare con vanto per tutto il paese e colmo delle più rosee aspettative per l’imminente recita a cui doveva partecipare procedeva svelto verso la scuola. Un solo neo andava a intaccare la felicità di quel giorno: nessuno dei suoi famigliari sarebbe stato presente allo spettacolo. Suo padre e i suoi due fratelli maggiori erano sotto le armi a combattere per la Patria e altri due fratelli, di diciassette e quindici anni, erano in campagna a lavorare. Le due sorelle sposate avendo i mariti al fronte non potevano usci­re da casa se non per gravissimi motivi mentre la sorella di dodici anni doveva sbrigare le faccende domestiche e, se le fos­se rimasto del tempo, fare anche i compiti della scuola. Diego avrebbe tanto desiderato che almeno sua madre andasse a ve derlo recitare, ma ella non poteva lasciare neanche per un momento l’ultimo figlioletto di due anni e mezzo gravemente ammalato di cuore, ed egli capì solo più tardi che il vero moti­vo per cui sua madre non era venuta allo spettacolo fu che non possedeva un abito adatto all’occasione. Di tutti gli altri paren ti, circa una quarantina tra zii e cugini vari, soltanto i nonni e uno zio materni sarebbero andati a vederlo, ma era sempre meglio di niente e Diego aveva deciso in cuor suo che sarebbe ro stati sufficienti perché quel giorno continuasse a essere il più bello della sua vita.

Quando arrivò a scuola il grande salone in cui doveva svol­gersi la recita, appositamente addobbato con variopinte luci

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intermittenti e manifesti augurali alle pareti, era già affollato da persone elegantemente vestite e militari in alta uniforme che comodamente seduti sulle panche nuove procurate appo­sta per quello spettacolo chiacchieravano fra loro.

Diego rabbrividì. Col cuore in gola per l’emozione sgatta­iolò in fondo al salone dove era stato allestito il palcoscenico e raggiunse il piccolo locale laterale che fungeva da camerino. Mano a mano che indossava insieme ai suoi due compagni i costumi di scena, semplici abiti da pastore, la sicurezza e la baldanza di pochi minuti prima lasciavano il posto a un nervo­sismo e a un’irrequietezza sempre crescenti, le gambe gli tre­mavano, e quando prese posto sul palcoscenico insieme agli altri due pastori era certo di aver dimenticato tutto quello che aveva studiato con tanto impegno per oltre un mese. Immobi­le, lo sguardo fisso sul sipario che lo divideva dalla platea, aspettò che tutto cominciasse.

Si spensero le luci, il sommesso brusio del pubblico trasco­lorò nel più opprimente silenzio. Si alzò il sipario.

Nell’oscurità della grande sala brulicante di centinaia d’in­visibili occhi attenti i tre attori scorgevano soltanto brillare qua e là come lucciole nel buio della notte i gioielli, le stellette, i fasci, le mostrine, le strisce d’oro e d’argento indossate dagli spettatori. Intimiditi e col volto arrossato dall’emozione i due compagni di Diego guardavano le punte delle proprie scarpe, anch’esse nuove di zecca per l’eccezionale circostanza, men­tre egli aspettava con impazienza che la direttrice gli desse il segnale d’inizio.

Dopo pochi ma eterni istanti di spasmodica attesa ecco che da dietro le quinte laterali si accende la piccola lampada rossa, la direttrice mormora: «Attacca!» e Diego può finalmente co­minciare a recitare.

«Le mie vecchie ossa son tutte dolori.Da quanti anni veglio la notteaccanto al fuocoper difendere il greggedai lupi e dai ladri...... neppure io lo so!»

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Le parole che temeva di aver dimenticato escono ora dalle sue labbra con una facilità e una naturalezza tali che lo fanno veramente sembrare un vecchio pastore moribondo.

«Ormai sono stanco.Vorrei proprio riposare.Eppure...Mi spiacerebbemorire cosisenza aver vistoil Salvatore... »

A questo punto il pubblico esplode in un applauso scro­sciante e interminabile. Sopraffatto dalla commozione e dalla gioia Diego sta per mettersi a piangere mentre dal suo nascon­diglio la direttrice gli sussurra: «Bravo... bravo... bravissimo... bravissimo!»

Tornato il silenzio Diego riprese a recitare. Le gambe non gli tremavano più, anzi: si sentiva più forte e sicuro che mai su quel palcoscenico che gli sembrava aver calcato da sempre. Continuamente interrotto dagli applausi e dalle ovazioni del pubblico Diego terminò la sua parte e i tre pastori uscirono di scena. Lo spettacolo continuò con l’esibizione degli altri scola ri fino ad arrivare all’ultima canzone, cantata in coro da tutti i bambini che avevano partecipato alla recita, inneggiante l’im mancabile vittoria foriera della tanta agognata pace.

Dopo l’ultimo, prolungato applauso cominciarono a fioc­care le congratulazioni, i baci, i regali. Diego entusiasticamen­te presentato dalla direttrice della scuola a varie personalità presenti in sala ricevette da queste matite, quaderni, segnali­bri, dolci oltre a un’infinità di lusinghieri complimenti mentre la maestra che con tanta cura l’aveva preparato alla recita l’ab bracciò con le lacrime agli occhi promettendogli che si sareb be recata da sua madre per congratularsi con lei.

Diego era al settimo cielo: quanto era accaduto andava al di là di ogni sua più ottimistica previsione. Euforico e carico di regali tornò a casa coi nonni e lo zio i quali non erano mai stati a teatro in vita loro. La nuova esperienza fatta quel giorno li

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aveva veramente incantati, appassionati ed erano rimasti ol­tremodo sbalorditi e compiaciuti insieme dal successo di quel nipote il cui futuro li preoccupava tanto. Essi pensavano infatti che essendo Diego minuto e gracile non avrebbe mai potuto sopportare i pesanti lavori manuali da sempre esercitati da tut ti gli altri componenti la loro numerosa famiglia, e soltanto grazie a quella recita di Natale essi avevano con grande sollie­vo risolto il grave problema: Diego doveva assolutamente stu diare o fare l’artista.

Con grande eccitazione quindi interrompendosi e correg­gendosi a \icenda, facendo a gara a chi ricordava più partico­lari e a chi li declamava con voce più alta raccontarono alla stupefatta madre come si era svolto lo spettacolo, le acclama­zioni e le lodi che Diego aveva ricevuto e a quali personalità era stato presentato. La madre ascoltando commossa tali esal­tanti notizie baciava e accarezzava il figlio, se lo stringeva al petto, lo allontanava da sé per contemplarlo meglio e poi lo riabbracciava rammaricandosi amaramente di non aver potu­to assistere a quella memorabile recita di Natale. I suoi occhi umidi avevano un’espressione indefinibile che Diego non le conosceva, tenera e fiera allo stesso tempo, mentre i nonni le dicevano che il bambino doveva a tutti i costi continuare la scuola, perché era portato per gli studi e sarebbe stato un vero peccato se avesse dovuto interromperli per andare a fare il brac ciante come suo padre e i suoi fratelli maggiori, anche per il fatto che non aveva il fisico abbastanza robusto per reggere tali fatiche. Con queste raccomandazioni i nonni e lo zio finalmente se ne andarono, era ormai sopraggiunta la sera, lasciando ma dre e figlio da soli a rimirare trasognati tutti i regali della recita allineati per bene sul comò.

Bussano alla porta d’ingresso. La madre trasale.«Vado io, tu aspetta qui» ordina al figlio con improvvisa

ruvidezza.Perduto nella dolce eco delle meravigliose sensazioni che

quell’indimenticabile giorno gli aveva regalato Diego non si accorge del repentino cambiamento d’umore della madre, e mentre ella si allontana, si guarda ancora allo specchio come aveva già fatto nel pomeriggio appena trascorso. Ora si vede

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ancora più bello di prima nei suoi abiti nuovi, con quelle fanta­stiche scarpe nuove, con gli occhi che splendono come gemme e illuminano tutto il suo viso di una luce mai rista fino ad allora.

La madre intanto ha fatto entrare il ragazzo che aveva bus­sato alla porta, gli ha detto di aspettare un momento ed è torna­ta da Diego.

Egli la vede avanzare col capo chino e le braccia conserte, suo atteggiamento tipico di quando aveva qualche preoccupa­zione o dispiacere, e fermarsi a un passo da lui. Qualche atti mo per raccogliere tutte le sue forze e poi la madre, senza tut tavia riuscire a guardarlo in faccia, bisbiglia con voce tremante:

«È Tano. È venuto... a riprendersi le scarpe. Sai... non mi è stato possibile comprartele e così ... gliele ho chieste in presti to per farti fare bella figura alla recita.»

Diego fissa la madre con gli occhi sbarrati e la bocca aperta.«Come?... Cosa?...» balbetta istupidito sentendosi mancare.Trattenendo a stento le lacrime la madre ripete quanto ave­

va già detto.Annientato dalla crudele rivelazione Diego si accascia sul

letto, l’esile schiena curva sotto il peso di un dolore tanto ingiu­sto, immeritato, che nulla di quel radioso giorno aveva lasciato presagire e che quindi maggiormente lo colpiva a tradimento e lo coglieva impreparato a difendersi o a reagire in qualche modo. Rimane lì, impietrito, senza neanche la forza di respira­re mentre precipita vorticosamente nel nero baratro che si è aperto nel suo cuore.

«Tano... sta aspettando.» La fioca voce della madre sem bra provenire da un altro mondo.

Diego si scuote. Lentamente con le mani tremanti si sfila le bellissime scarpe nuove che con tanta gioia si era illuso fosse ro sue e, col capo reclinato sul petto, le porge alla madre.

Finiva così, stritolato da un atroce disinganno, il giorno più felice della vita di Diego. Il suo trionfo alla recita di Natale, l’orgoglio, gli applausi, le lodi, le indescrivibili emozioni e i so gni di gloria a cui si era abbandonato, tutto svaniva misera mente insieme alle bellissime scarpe nuove che a sua insaputa gli erano soltanto state date in prestito.

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la bomba atomIca

So che a molti di voi, specialmente i più giovani, sembrerà incredibile, ma io e i miei compaesani già nell’agosto del 1943 (due anni prima che scoppiasse su Hiroshima) sapevamo con esattezza che la famosa arma segreta che Hitler e Mussolini stavano mettendo a punto per vincere la guerra e dominare il mondo era nientedimeno che la bomba atomica.

Sì, avete capito bene: la bomba atomica! Come lo sapeva­mo? Grazie ai giornali e alla radio attraverso i quali la propa­ganda fascista cercava di rimediare con roboanti parole e apo calittiche minacce planetarie al pessimo andamento della guerra.

Dopo aver subito per tre anni occupazioni e bombardamen ti da parte di vari eserciti noi paesani avevamo ormai una vasta cultura in fatto di bombe, italiane, tedesche, americane, ingle si, bombe a mano, bombe incendiarie, bombe da cannone, bom be da mortaio, mine antiuomo, mine anticarro e chi più ne ha più ne metta.

Era perfino successo che un contadino avendo trovato nel suo podere quella che riteneva essere una scatoletta di carne americana tutto contento l’aveva portata a casa sua in paese per farsi una pantagruelica mangiata con la famiglia. Mentre armeggiava vigorosamente col coltello per cercare di aprire quell’ostinato forziere l’edificio saltò in aria: lui morì e la ma­dre, le sorelle e alcune vicine di casa che in quel momento, com’era consuetudine d’estate, si trovavano sedute fuori sulla strada davanti ai propri usci rimasero gravemente ferite.

Un’altra volta accadde che io e due miei amici giocando in un campo alle porte del paese incappammo in una scatoletta rossa che occhieggiava civettuola da un cespuglio di palma nana. Io, fifone per natura, appena vidi quell’inconsueto oggetto non identificato fuggii immediatamente il più lontano possibile in­seguito dalle risate sarcastiche degli altri due ragazzi che inve­ce, decisi ad aprire a tutti i costi quel recipiente per scoprirne il contenuto, cominciarono a percuoterlo con un sasso finché esso

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esplose riducendoli a brandelli.Un’altra volta ancora tre fratellini di sette, nove e undici

anni che erano andati in campagna a raccogliere lumache no­tarono nell’alveo di un torrente in secca un oggetto dalla stra­na forma di grossa clavetta. Incuriositi lo raggiunsero e inizia­rono a farlo rotolare per gioco sulle pietre fin quando esso es sendo una bomba da mortaio deflagrò spargendo intorno pezzi dei loro corpicini per un raggio di alcuni metri.Anche in questi modi purtroppo imparammo a conoscere le bombe! Ma questa tanto strombazzata bomba atomica cosa mai poteva essere? Cosa significava “atomica”? Ovviamente nessuno lo sapeva, ma volendo ciascun paesano dimostrare di essere più intelligente e informato degli altri si assistette allo sciorinamento di diecine quanto pittoresche descrizioni della fantomatica arma segreta e dei suoi effetti. «E piccola come una noce!» diceva uno. «No, è grande come una botte e può distruggere l’intero paese!» ribatteva un altro.

«No, è come un uovo e può disintegrare l’intera Sicilia!» sentenziava un terzo.

«Quando avremo la bomba atomica quegli ubriaconi degli americani ce li fumeremo tutti nella pipa!»

«Macché fumare e fumare! Ce la faranno vedere loro inve­ce la bomba atomica!» e via fantasticando di questo passo per­ché ormai l’arma segreta era l’argomento del giorno che ci ter rorizzava e affascinava nello stesso tempo.

Quella mattina di Agosto io mi godevo le vacanze scolasti­che seduto sui gradini esterni di casa mia; illanguidito dal dol­ce far niente e intorpidito dal calore estivo distrattamente la­sciavo che le cose che mi circondavano, desiderose di conqui­starsi l’immortalità, attraversassero in fila indiana, come tanti soldatini, le mie pupille per disporsi in ranghi ordinati su quel­la tabula quasi rasa che era a quel tempo la mia memoria di fanciullo.

Fossi pittore potrei riprodurre fin nei minimi particolari le case di pietra basse, cubiche, attaccate lateralmente l’una al­l’altra, gli usci spalancati su altrettanti buchi neri e davanti a ciascuno di essi l’immancabile mucchio di pietre che servivano

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a costruire a secco un focolare cilindrico in cui si bruciavano i malli delle mandorle allo scopo di utilizzarne la cenere per fare la liscivia da bucato. Sulla strada sterrata, secca e polverosa giocavano inconsapevoli bambini sporchi, scalzi, seminudi dei quali i più piccoli indossavano un modello di pantalone vera mente molto, molto esclusivo: un calzoncino corto, sotto cui non s’indossava nulla, col cavallo scucito per un ampio tratto centrale. Ciò consentiva al bambino ancora incapace di con trollare i propri sfinteri di soddisfare liberamente i suoi bisogni fisiologici senza sporcare l’indumento mentre giocava, man giava, o era in tutt’altre faccende affaccendato. I frutti del suo pancino cadevano quindi a terra andando a mescolarsi con quelli degli animali, cavalli, muli, asini, capre, eccetera, che a quei tempi transitavano regolarmente per il paese e la strada così abbondantemente decorata e profumata diventava una meta irresistibile per ogni tipo d’insetto. Anche in fatto di in­setti avevamo tutti una vasta cultura! Ma forse è meglio che io prosegua il mio racconto.

Quella mattina di Agosto, quindi, rimbalzando da un muro all’altro un urlo si propagò lungo tutta la mia via.

«Comare Vicenza! Comare Vicenza!! Non fate uscire in stra da i vostri figli stamattina! Non fateli uscire!!»

«Ma perché, che succede?» chiese Vicenza ‘a Sicca tran­quillamente seduta davanti alla porta di casa.

«Proprio qui in mezzo alla nostra strada ci hanno messo una cosa spaventosa, una cosa micidiale! Oh mamma mia, come dobbiamo fare? Proprio qui, davanti a casa nostra dovevano venire a buttarla! Per farci schiattare di spavento! Ne è morta già abbastanza di gente per colpa di queste maledette bombe inesplose, non se ne può più! Non se ne può più!! Madonna Santa aiutateci voi!» si lamentava angosciata Ciccina ‘a Pazza mentre raggiungeva trafelata comare Vicenza. Nel giro di po­chi minuti tutte le casalinghe della strada, una ventina, allar­mate da quelle grida avevano circondato Ciccina ‘a Pazza per saperne di più.

«Ma come, non vi siete accorte? Non la vedete?! È là, in mezzo alla strada! Non vedete come luccica?! Dobbiamo stare chiuse in casa con i nostri figli così anche se scoppia non am­

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mazza nessuno e restiamo tutti vivi!» consigliava terrorizzata Ciccina ‘a Pazza indicando con l’indice della mano destra il punto in cui si trovava l’orribile ordigno.

Anch’io come le spaventatissime donne presenti guardai in quella direzione: qualcosa di apparentemente non più grande di un’arancia affiorava dalla superficie della strada; colpito dai raggi solari li rifrangeva in stellati sinistri bagliori iridati che suscitarono in noi una grande costernazione. Per di più pro prio in quel momento vedemmo in fondo alla strada una mac chiolina nera che si andava rapidamente ingrandendo: era un uomo che avanzava verso di noi e che avrebbe potuto facil­mente calpestare la bomba provocando una vera carneficina! Allora le donne fuori di sé per la paura cominciarono a urlare e a sbracciarsi freneticamente per attrarre l’attenzione dell’in­cauto viandante, e siccome quello dava mostra di non accor­gersi di nulla e continuava a camminare imperterrito caddero in preda al panico.

Vedendosi ormai perdute si abbandonarono ai pianti più disperati, si strappavano i capelli, si coprivano il volto con i grembiuli per non vedere ciò che stava per accadere, quando Nina ‘a Maccarruna prese il coraggio a due mani e rasentando i muri delle case onde aggirare il terribile ostacolo raggiunse di corsa l’ignaro passante e lo bloccò mettendolo subito al cor­rente della catastrofe che incombeva su tutti noi.

Era costui Caloriu Stazzuni, un uomo di circa trentacinque anni che era riuscito, non si sa come, a non andare in guerra e che di mestiere faceva il campiere, cioè controllava per conto del latifondista che i braccianti e i mezzadri coltivassero le ter re secondo regola e non si appropriassero indebitamente di quote di prodotto di sua spettanza. Inflessibile e spietato con quei lavoratori sottraeva poi lui un mucchio di roba al padrone e per questo credeva di essere l’uomo più furbo della Sicilia, ma il marchio dell’infamia che contraddistingueva le sue azioni se lo portava scritto in faccia sotto forma di lunghe cicatrici che erano state altrettante coltellate infertegli da chi aveva dovuto subire inerme i suoi soprusi.

Tutti in paese lo disprezzavano profondamente, eppure in quel rischioso frangente la presenza di un uomo vero (perché

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gli altri erano sotto le armi) rincuorò almeno un poco le donne, i vecchi e i ragazzi accorsi numerosi anche dalle strade vicine per vedere la causa di tanto clamore. Già come al solito fiocca­vano numerose le ipotesi su quale tipo di bomba fosse l’ordi­gno misterioso, una bomba a mano italiana, una bomba in­cendiaria americana, una mina tedesca, quando Caloriu Staz­zuni che fino a quel momento si era limitato a scuotere la testa dubbioso con l’aria di chi la sa lunga prese autorevolmente la parola:

«No, vi sbagliate: questa è senz’altro la bomba atomica! Ma non preoccupatevi!» aggiunse subito poiché gli astanti aveva­no cominciato in coro a gridare per lo spavento «basta farla scoppiare e non ci sarà più pericolo per nessuno! Ci penso io! Tornate tutti a casa!» ordinò imperiosamente «donne chiudete­vi dentro con i vostri figli, sprangate porte e finestre e state tranquille perché fra poco tutto sarà finito!»

La piccola folla obbediente si disperse all’istante e Caloriu Stazzuni che aveva imposto alla mia dirimpettaia di lasciare l’uscio aperto perché proprio da quella postazione avrebbe messo in atto il suo piano strategico si sfilò il fucile dalla spal­la, lo appoggiò al muro e si diede a raccogliere le pietre che erano ammucchiate lì davanti guardandosi intorno continua­mente per accertarsi che i suoi ordini fossero stati eseguiti alla lettera. E infatti la strada era deserta e silenziosa. Anch’io ter­rorizzato mi ero rintanato in casa, ma come tutti gli altri spiavo dalla finestra socchiusa ogni movimento del nostro salvatore. Lo vidi raccogliere tante pietre quante poteva sorreggerne col braccio attaccato al petto, salire sul terzo e ultimo gradino di quella casa guadagnando l’uscio prescelto, scagliare con forza la prima pietra contro la bomba atomica per farla brillare riti­randosi poi fulmineamente all’interno del locale onde garan­tirsi l’incolumità, ma ahimè sbagliò la mira e non accadde nulla.

Dopo aver aspettato qualche secondo Caloriu Stazzuni spor se guardingo la testa dalla porta e accortosi che il sasso era caduto molto lontano dalla bomba atomica ebbe un moto di stizza, le sue labbra mormorarono qualcosa e io allora comin­ciai a ridere, a ridere, a ridere così tanto da dovermi tenere la pancia con le mani per il male che mi faceva mentre egli lan­

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ciava una seconda pietra, una terza, una quarta e ogni volta che mancava il bersaglio s’innervosiva sempre più, proferiva bestemmie con voce sempre più alta e in numero sempre mag­giore, il suo volto deturpato dalle cicatrici diventava sempre più paonazzo, i baffi sempre più irti e tremanti per lo scorno subito davanti ai paesani che, ne era certo, lo stavano osservan­do da ogni fessura o buco delle case.

Esaurite le pietre della mia dirimpettaia senza nulla di fatto Caloriu Stazzuni, risoluto a dimostrare a tutti quanti che lui era capacissimo di far scoppiare la bomba atomica come aveva promesso, attraversò la strada e con mio sommo divertimento cominciò a scagliare pure le pietre di casa mia. Finite infrut­tuosamente anche quelle si fermò sconfitto a guardare torva­mente, le mani sui fianchi, sudato, ansante, quella dannata bomba atomica che da laggiù, piccola e immobile, sembrava deriderlo per la sua imperizia nel tirassegno. Intanto la gente non udendo più né i tonfi dei sassi né il botto liberatore della bomba si riversava nuovamente sulla strada con l’angoscia nel cuore per il permanere di quella terribile situazione.

«Chi vi ha detto di uscire?» la rimproverò aspramente Ca­loriu Stazzuni «tornate subito dentro e restateci fino al mio ri torno! Io vado a chiamare gli artificieri: loro sanno meglio di me come si fa a far scoppiare la bomba atomica!»

Anche questa volta le direttive di Caloriu furono immedia­tamente rispettate mentre lui con passo marziale si allontana va lasciandoci sconsolatamente soli col micidiale ordigno da vanti casa. Dopo circa mezz’ora egli tornò con due carabinieri uno dei quali reggeva un cercamine: puntandolo alternativa mente di qua e di là sul terreno avanzavano tutti e tre con pru denza verso la bomba seguiti furtivamente dagli abitanti della strada che, rinfrancati dalla presenza degli artificieri, non resi stendo alla curiosità di vedere da vicino la tanto esaltata arma segreta avevano ancora lasciato le loro abitazioni senza la ne cessaria autorizzazione.

La piccola processione si muoveva lenta e muta, la tensione era altissima, i cuori battevano all’impazzata e perfino io che fino a quel momento mi ero tanto divertito adesso ero serio serio e tenendomi a debita distanza scrutavo preoccupato lo

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svolgersi delle operazioni belliche.Finalmente il carabiniere posizionò il cercamine proprio al

di sopra della bomba e siccome non si manifestava alcun se­gnale d’allarme Caloriu Stazzuni si chinò per liberare l’ogget­to dalla terra che lo imprigionava, poi si rizzò e lo sollevò con entrambe le mani al di sopra della sua testa con la stessa espres­sione mistica del prete quando durante la Santa Messa mostra ai fedeli l’ostia consacrata miracolosamente transustanziata nel corpo e sangue di Cristo.

Per qualche minuto gli abitanti della strada guardarono a bocca aperta stupiti e increduli quel pezzo di tolla ammaccata che continuava a luccicare al sole; i loro nervi e i loro muscoli irrigiditi dall’ansia e dalla paura di colpo divennero mosci come fiori appassiti e stancamente, il capo chino, fecero dietro front per tornare a casa delusi, in fondo, di non aver potuto essere i primi in paese, e forse in tutta la Sicilia, a vedere di persona la tanto famosa bomba atomica.

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IndIce

9 II premio26 Quaranta lire e quattro ceffoni. Aprile 194547 “Li carriagregni” (I portatori di covoni)53 L’ufficiale siculo­americano. Luglio 194360 Finuzzedda (La piccola Stefania)65 Le scarpe nuove72 La bomba atomica