Ramacca notizie n 2

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Organo ufficiale del Comune, rassegna aperiodica, serie II, n° 2, I Parte,Maggio 2014 I PARTE

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Ramacca notizie serie II n. 2

Transcript of Ramacca notizie n 2

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I PARTE

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Lettera del Sindaco

COMUNE DI RAMACCA

(Provincia di Catania)

Cari Concittadini,

il “Ramacca Notizie” di questa serie è giunto alla seconda pubblicazione online.

Si tratta di un’edizione che abbiamo voluto dedicare al nostro concittadino Vito

Tartaro deceduto il 12 febbraio 2014, innamorato di Ramacca e della Sicilia,

cultore appassionato della propria terra.

Poeta, scrittore, scrupoloso ricercatore della lingua dialettale siciliana,

Vito ha fatto parte di quella categoria di scrittori che provenivano dalla terra e che

parlavano della terra.

Poeta, studioso di dialetto e letterato usava la lingua siciliana come il suo

principale linguaggio, tanto che i suoi scritti, apprezzati da molti, hanno fatto

conoscere Ramacca fuori dal suo territorio, facendo amare quella Sicilia letteraria

dialettale che sta via via scomparendo.

La purezza della poesia e della scrittura scorreva nelle vene di Vito Tartaro

come la passione per lo studio del dialetto, non solo siciliano, ma soprattutto per

la parlata ramacchese.

Vito Tartaro ha saputo interpretare, come pochi altri, quel filone letterario

che attinge al dialetto ma che in mano loro diventa “minna di matri”, e pertanto la

sua scomparsa ha lasciato non soltanto un incolmabile vuoto tra parenti ed amici,

ma ha rappresentato una grave perdita per la Sicilia tutta.

Il Sindaco

Avv. Francesco Zappalà

RAMACCA NOTIZIE

RIVISTA ON-LINE

Direttore:

FRANCESCO ZAPPALÀ

SINDACO

Coordinatore di redazione:

ANTONINO CUCUZZA

Comitato di redazione:

FLORIANA SAPUPPO

DANIELA SCIAROTTA

LIDIA SCORNAVACCHE

Supporto informatico:

SALVATORE SOTTOSANTI

Hanno collaborato:

NINO CUCUZZA

SALVATORE CURELLO

MARIO DI MAURO

NINO FRACCAVENTO

CARMELO GIANNÌ

SENZIO MAZZA

RENATO PENNISI

NINO PICCIONE

ENRICO PROCELLI

FLORA RESTIVO

GIUSEPPE SAMPERI

DANIELA SCIAROTTA

MARIA CONCETTA SOTTOSANTI

MARIA TURCO

Foto di:

ANTONINO CUCUZZA

FLORIANA SAPUPPO

LAURA SAPUPPO

LIDIA SCORNAVACCHE

Le poesie di Vito Tartaro

sono state scelte dalla Redazione.

Direzione, redazione e

amministrazione:

Sede Municipale

95040 Ramacca (CT) -

Piazza Umberto, 12

WWW.COMUNE.RAMACCA.CT.IT

Contatto email:

[email protected]

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Caro Vito (di Daniela Sciarotta)………………………….p. 3

Tre pensieri per Vito (di Giuseppe Samperi)……………..p. 5

Si è spento (di Mario Di Mauro)…………………………. p. 6

CIAO POETA

È da tempo che volevo scriverti (di Nino Cucuzza)…….p. 8

Il ricordo di un amico (di Salvatore Curello)…………….p. 11

Ricordo ancora quelle mattine (di Nino Fraccavento)…...p. 14

L’amoureux des amandes (di Carmelo Giannì)………….p. 16

Iò non ti cianci (di Senzio Mazza)……………………………p. 21

Ringraziando Vito (di Renato Pennisi)…………………. p. 22

La schiettezza e la passione (di Nino Piccione)………… p. 23

In attesa della prossima poesia (di Enrico Procelli)……..p. 24

La sua scorza rude (di Flora Restivo)…………………...p. 25

PPi Vitu sti pinzeri (di Giuseppe Samperi)………………….p. 27

“ôn patri ‘i littra” (di Cettina Sottosanti) …………………...p. 30

Ho imparato da Vito (di Maria Turco)……………….….p. 32

I PARTE

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Caro Vito,

il dodici febbraio 2014 ti sei spento, circondato dall’affetto dei tuoi familiari e dell’intero paese.

In questo scritto, penso di parlare a nome di tutti i cittadini di Ramacca.

Vito, sei stato uno di noi ma anche un uomo con qualcosa di speciale. Un impiegato comunale, un ramacchese genuino, legato alla Terra e

alla Natura ma anche complicato e deciso nella tua visione della Vita, della Morte e della Libertà. Hai studiato, scandagliato e narrato la tua

Ramacca con affetto e al tempo stesso con pungente ironia; cantato la storia della nostra magica e mitica Montagna. Hai parlato una lingua

“straniera” (come tu stesso la definivi): il dialetto siciliano, da te tanto amato e del quale sfruttavi tutte le sfumature musicali e di significato per

esprimere immagini, luoghi e riflessioni.

Con te è andato via un pezzetto di noi ma hai anche lasciato una grande impronta.

Potrei continuare a parlare di te ma saranno le pagine successive a commemorarti. Anche se, in situazioni come queste, si ha sempre la

sensazione che le parole siano vuote e che non possano esprimere appieno la persona che siamo qui a ricordare. Eppure, parlare di quella persona,

non solo serve a salutarla ringraziandola per essere stata con noi ma serve anche a onorarla per ciò che di estremamente positivo ci ha lasciato.

Ti abbiamo dedicato un’edizione speciale del Ramacca Notizie, giornale che conoscevi molto bene. Non c’è numero, della vecchia serie

cartacea, nel quale non si trovi un tuo verso o pensiero.

Daniela Sciarotta

Da quaggiù, regno delle immagini e della voce, noi lo abbiamo fatto:

ricordarti com’eri in vita, nei tuoi momenti di soddisfazione, di gioia e riflessione.

Questo è il nostro più grande regalo che possiamo farti.

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Quando ti abbiamo informato che il Ramacca Notizie sarebbe rinato hai subito mostrato grande entusiasmo, anche se non hai nascosto le tue

perplessità sulla novità di internet. Hai detto: “sì certo, scriverò qualcosa” ma forse il destino aveva già deliberato il suo veto.

Per questo numero del giornale, sono stati contattati i tuoi amici e figli spirituali, così tanti che non è stato facile informarli tutti e forse (ci

scusiamo) ne abbiamo dimenticato qualcuno.

Tutti hanno partecipato dimostrandoti grandissimo affetto. Per loro, la tua partenza significa solo non vederti più con gli occhi del corpo ma

non con quelli della mente e del cuore.

Tra queste pagine, abbiamo inserito anche foto, scritti, recensioni, insomma buona parte della tua eredità materiale e spirituale. Purtroppo ciò

ha richiesto del tempo, rispetto alle previsioni, ritardando così l’uscita on line del giornale. Ma alla fine, eccolo qui il Ramacca notizie on line

dedicatu a Vitu.

Il tuo dolce ricordo rimarrà tra noi e nella nostra memoria.

Mi piace, ancor oggi, immaginarti, nell’aria tersa del mattino, seduto su una roccia della Montagna, a scrivere i tuoi versi, guardando con

animo fiducioso la tua amata Ramacca.

Con immutato affetto

Daniela Sciarotta

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10 Febbraio 2014

TRE PENSIERI PER VITO

Sta per morire un poeta. Sta per morire un grande e solidale Amico. Gli ultimi respiri di un poeta. Ultimi affanni di un Amico.

Forse ne parlerà qualche giornale locale, mi sembra giusto l'omaggio della propria terra. La vita è fatta anche di piccole accortezze. Sta per

morire, non gli è mai importato di paradisi e similari, muore in pace col nulla eterno e/o con l'eterno divenire.

Scavava nelle parole come nella terra, nel dialetto come nell'orto. Archeologia della parola. E neologismi, e moderno sentire, e tensione

stilistica mai ricercata, germogliata dal cuore e dalla mente.

Oggi, forse domani, non ci sarà più. Ciò che rimarrà è ciò che rimane.

*

Mi diceva, mentre andavamo verso Palermo o chissà, mi diceva che i poeti siamo tutti brutta gente. Vanitosi. Invidiosi. Egoisti. Per ogni

aggettivo una pausa. Mi diceva che i poeti siamo troppo umani, vivi, sconci, di razza selvatica.

Gli dicevo che ero d'accordo, accendevamo una sigaretta, guardavamo la strada, mi narrava del poeta Tizio e del Caio, di quanto basti una sola

parola ad esprimere il tutto.

Parola dialettale, s'intende, scherzosamente parlava dell'italiano come di “lingua straniera”.

*

Sta per morire un poeta. Per un istante sarebbe bello pensare che stia morendo la poesia. Ogni poeta che muore, ogni vero poeta, è un respiro in

meno alla poesia.

Sta per morire un amico. Per ogni amico che muore, un autentico amico, è un respiro in meno alla vita che resta.

12 Febbraio 2014

Stamattina si è spento Vito Tartaro. Poeta e scrittore di Ramacca, autore di poesie e narrativa in dialetto siciliano (variante etnea), uno dei

maggiori e più apprezzati poeti isolani per il dialetto.

Mio amico sincero, come pochi nella vita.

Fonte www.telliusfolio.it

Giuseppe Samperi

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Si è spento nella sua Ramacca, vegliato dall’affetto di un intero paese, il nostro caro Vito Tartaro, poeta civile e Maestro di

Libertà, Indipendentista siciliano e Internazionalista sociale.

Il suo viaggio di conoscenza su questa Terra cominciò il 3 Ottobre dell’anno 1938.

Lo “Sciamano di Palikè”, il cantore della nostra “Montagna Salvata”, lascia, insieme a tantissimi figli naturali e spirituali,

una eredità culturale extra-ordinaria.

E’ difficile spiegare, in questo momento, quanto importante sia stata la sua presenza –(a volte critica ma sempre affettuosa,

attiva e operativa, da “portiere esperto”)- anche in tanti momenti del Cammino della Fratellanza “Terra e LiberAzione”.

Perdiamo, tutti, un vero Poeta Militante. Se ne incontrano pochi nella Vita, perché ne nascono pochi, uno ogni tanto.

Buon Viaggio, Vito!

Sul Grande Libro della Lotta per la Verità Siciliana, da geniale autodidatta, hai scritto, con la tua Vita, una pagina

immortale: “alla faccia dei siculicani!”. Ne avremo cura. Te lo giuriamo col nostro arcaico “Beddha Matri, ass’annurbari!”.

Grazie di tutto, Poeta e Amico Vero.

Re Sesan Ires!.

@ Catania, 12 Febbraio 2014. Mario Di Mauro, per la Fratellanza “Terra e LiberAzione”

Mario Di Mauro

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Caro Vito,

è da tempo che volevo scriverti, primo perché certe cose non è facile a dirsele di presenza e poi perché le nostre frequentazioni erano spesso

costellate di lunghi silenzi o se vuoi di lunghi ascolti.

Per prima cose ti devo dire che nonostante tutto non avuto ancora il coraggio di cancellare il tuo numero dal mio telefonino come se fosse ancora

possibile un ulteriore contatto (il cervello fa strani scherzi).

Ogni volta che scendo dal viale guardo inconsciamente laggiù dove molte mattine, dai primi giorni di primavera agl’ultimi giorni di novembre, ti

vedevo, con il tascapane uscire per andare a farti la passeggiata in campagna, a raccogliere frutti ormai abbandonati, a ripercorrere le vie dell’infanzia, dei

momenti spensierati della caccia.

Passo ogni giorno sotto casa tua e scruto il balcone dove sedevi d’estate a leggere o a scrivere a cercare parole quasi morte e riportarle in vita.

E che gioia quando riuscivi, durante un discorso tra viddani, a rubare, come se fosse un tesoro, una parola persa nel labirinto della modernità, la

scrivevi, la studiavi, la vivisezionavi e iniziavi ad usarla. Spuntavi a casa mia per scartabellare vocabolari antichi e moderni per capire le varie sfumature,

contentissimo se a Ramacca si dava un significato originale non riscontrabile in nessun altro paese della Sicilia.

Solo ora mi sono accorto che sono passati più di trent’anni quando ci siamo conosciuti, tu conosciutissimo impiegato del comune, io appena

arrivato da Palagonia. Era il 1979.

La comune passione per la storia e l’archeologia ci aveva fatto incontrare, la mia necessità di attingere alla tua biblioteca ed esperienza ci ha fatto

frequentare, il desiderio di portare a compimento il tuo primo libro a proseguire la conoscenza.

Caro Vito, ho tentato a ricostruire tutti i passi ma ti devo dire che non mi è affatto facile e tento di dare la colpa all’età.

La prima cosa che mi viene in mente è la passione sfrenata per la politica e l’adesione giovanile al Partito Comunista sulla scia di tuo padre; alla tua

andata in Russia, alla sconforto per i cambiamenti degli anni Novanta e la delusione per l’abbandono della falce e martello. La grande speranza per

l’ascesa di Gorbaciov tanto da chiamare Michele il tuo cirneco in suo onore e della successiva disillusione.

Nino Cucuzza

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Quando penso a te penso all’ammirazione che avevi per tuo padre Filippo che fu uno dei protagonisti delle lotte degli anni cinquanta per la

conquista delle terre, più volte ricercato dai carabinieri per essere arrestato e delle sue fughe nelle grotte del Vannuto e la paura quando di notte dovevi

portare a truscia con il mangiare percorrendo la strada di Setteteste al buio con i rumori del paese sempre più lontani. I rapporti conflittuali per i modi

troppo bruschi con tua madre ma al lungo pianto composto ma disperato per la sua morte e il rapporto non sempre idilliaco con i fratelli.

Quando penso a te mi sovvengono il gioco del bigliardo con sfide all’ultimo birillo, il gioco delle carte soprattutto in periodo natalizio, i racconti dei

personaggi incontrati ogni giorno; la frequentazioni dei circoli catanesi di poesia; l’entusiasmo dei contatti con Salvatore Camilleri, Renato Pennisi, Flora

Restivo, Antonino Cremona, Salvo Basso e decine di altri con cui intrattenevi contatti epistolari; il partecipare ai concorsi di poesia per il “vil denaro”

(i figghi su tanti e i sordi nun ci nnè); l’abbonamento a riviste letterarie, a fuitina, l’ateismo e a tantissime altre cose troppe per elencarle tutte.

Penso alle auto, le 500, 127, Opel Corsa, Panda distrutte per percorrere strade impossibili anche per un fuoristrada.

Quando penso a te penso ai discorsi sulla campagna, alle coltivazioni, all’orto. La piantumazione delle pianticelle e il vederle crescere, l’offerta agli

amici, al recente commercio delle mandorle e al progetto di recupero di alcune varietà antiche di frutti ormai introvabili, alla raccolte delle noci e

ficubifiri nelle colline intorno a Monte Frasca, la cicoria di Borgo Lupo, gli asparagi de valanchi o Zottu, l’origano da Muntagna, arance do zzu stranu, i

pricoca, i cutugni, i finucchieddi rizzi, i pruna e pira raccolti unni cci n’erunu.

Penso alla crisi della metà degli anni Ottanta che ti fece abbandonare le ricerche di archeologia per tornare al vecchio amore: la Poesia. Passione

frequentata nella prima giovinezza e abbandonata per le vicissitudini della vita, la fuitina giovanissimo, la famiglia divenuta presto numerosa, il lavoro

saltuario degli inizi. Ricordo che mi dicevi che erano poesie acerbe ma che ancora conservavi e che a distanza di anni recitavi a memoria come ai bei

tempi.

Penso al dispiacere della pensione anticipata volevi continuare a fare quel lavoro al Comune che ti piaceva ma si doveva sposare la figlia e la

liquidazione serviva inoltre a sostituire l’ennesima auto ormai distrutta. Non c’era bisogno di registri o schede dopo decine di anni le avevi memorizzato

ricordando date di nascita, indirizzi, parentele varie. Ancora qualche mese fa, e ad un paio di decenni dalla pensione, ho assistito ad una scena surreale

quando, a causa la compilazione di un giornalino gli ho presentato un giovane scrittore ramacchese, e nel giro di pochi secondi gli hai sciorinato la

composizione della famiglia, dei nonni paterni e materni compreso di date di nascita: meglio di una ricerca araldica fatta da un istituto internazionale.

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Non c’era posto, contrada, in campagna, che non ti ricordasse qualcosa. Un ritrovamento archeologico, una tana di coniglio o un furetto disperso

atteso per giorni, il ricordo di un amico incontrato decina di anni prima e ormai vivo solo nei ricordi.

Vito, ora capisco perché mi chiedevi di vederci, perché insistevi a raccontarmi insistentemente la vita passata ora so che era il tuo modo per farla

rivivere, perché volevi che uscissero fuori sensazioni e pensieri che ti facevano sentire vivo. Grande nostalgia, sentire sempre più lontano la carusanza,

vedere morire il paradiso ormai senza frutti del Vannutu e della Montagna, sentire la vita scorrere come un ruscello impetuoso ma avere ancora la forza di

fare piccoli-grandi progetti.

Non era facile vederti emozionato ma ho imparato che quando, davanti ad una poesia particolarmente bella o davanti un tramonto dai mille colori

quando l’animo era in subbuglio, massaggiavi la guancia perché i peli della barba si drizzavano per l’emozione.

Vedi Vito di una cosa ti devo rimproverare: la tua testardaggine. Ascoltavi tutti ma spesso rimanevi della tua idea. E’ successo con la copertina di

Ateismo e di altre opere, è successo con il lavoro che stavamo facendo sordo alla mia richiesta di mettere sulla carta con l’indicazione delle coordinate

satellitari le scoperte fatte intorno a Piano Casazze che avevano lo scopo di dimostrare come in quel luogo sorgesse la città antica di Galaria dagli studiosi

cercata in tutta la Sicilia centrale. “Ho tutto qui” mi dicevi toccandoti la testa ma oggi mi ritrovo con centinaia di foto e non sempre ricordo dove li ho

fatte.

Mi manchi Vito, mi mancano le letture delle poesie e dei racconti in anteprima, dei lunghi discorsi sulla storia, la poesia, l’archeologia; mi mancano

le tue critiche “tu di poesia nn uni capisci nenti” anche se ho visto qualche volta massaggiarti la barba dopo averne letta qualcuna.

Mi manchi Vito, non ho più nessuno a cui raccontare i mie cose più intime o sentire le tue.

Ti ho pianto come non mai Vito e so che non avresti voluto.

Nino Cucuzza

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Dice un antico proverbio: chi trova un amico, trova un tesoro.

L’amicizia tra me e Vito Tartaro nacque, come a primavera può nascere un fiore, per il semplice fatto che in quel punto vi si trovasse un seme, per

puro caso, trasportato dal vento. Fu un’amicizia fra due persone mature; Vito aveva 62 anni ed io 74.

Prima ancora di conoscerlo leggevo il nome di Vito Tartaro in calce alle sue poesie, che il periodico “Ramacca Notizie” pubblicava con cadenza

trimestrale. Le poesie di Vito le leggevo con interesse.

Nel gennaio dell’anno 1996, quella rivista pubblicò un mio articolo con la fotografia di un quadro donato al Comune di Ramacca, di cui ne ero

l’autore, dal titolo: A Pisera. Il mio amico Vito (mi raccontò poi) che quando lesse quel racconto su A Pisera provò una tale emozione da ispirargli una

poesia sullo stesso argomento. Quei versi furono poi pubblicati nell’edizione successiva del “Ramacca Notizie”, con dedica ed espressioni di elogio a

quell’articolo sulla A Pisera, firmato da Vito Tartaro. Quando poi io lessi quei versi, ispirati da A Pisera, con elogi al mio articolo, toccò a me esserne

lusingato. «Come mai!» mi chiesi «questo signor Tartaro si identifica con i miei stessi pensieri, con le mie emozioni, cosa vuol dire questa empatia?».

Ancora non ci conoscevamo.

Il 19 ottobre dell’anno 1998 (due anni dopo) mi trovavo a Ramacca. Erano circa le ore 11, in compagnia di mia moglie, venivamo dalla villa e

arrivati in direzione del palazzo del municipio, sul lato nord, vidi sul portone un’insegna con la scritta: MUSEO CIVICO DI RAMACCA. Entrammo per

visitarlo. La custode del museo, una ragazza di nome Laura Sapuppo, gentilmente si offrì per darci spiegazioni sui reperti archeologici rinvenuti nella

zona di Ramacca. Alla fine del colloquio, quando stavo per salutarla, le chiesi: «conosce un certo Vito Tartaro?» «Certo che lo conosco» rispose la

ragazza «ma lei chi è? Dove abita?» «Mi chiamo Curello e abito in Lombardia a Lentate sul Seveso» le risposi. Laura rimase un po’ a pensare, poi mi

disse: «aspetta un po’ che lo chiamo». Alzò la cornetta, compose il numero di telefono e rispose Vito. Parlarono un po’ fra loro e poi Laura passò la

cornetta del telefono a me, dicendomi: «il signor Tartaro desidera parlare con lei».

Salvatore Curello

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«Pronto! Sono Curello» «piacere» mi rispose «io sono Vito Tartaro, quando possiamo incontrarci?», mi chiese Vito con fare sbrigativo.

«Quando vuole lei», gli risposi. «Ci vediamo alle ore 16 al Trocadero» mi disse Vito. «D’accordo! Arrivederci» .

Alle 16 in punto, eravamo ambedue al Trocadero. Vito teneva in mano due libri di poesie, che mi regalò con la dedica. Seduti ad un tavolo,

passammo un paio di ore a chiacchierare piacevolmente. Dentro gli argomenti di cui parlavamo eravamo in perfetta sintonia.

Prima di salutarci mi chiese: «hai impegni per domani mattina?» «No» gli risposi. «Allora domattina passo da casa tua verso le 8 e andiamo in

campagna».

Il giorno dopo alle 8 in punto era davanti casa mia, con la sua vecchia Fiat impolverata e mezza scassata. Mi portò in giro tutta la mattinata.

Partendo dalla provinciale n° 33 in direzione di Aidone, in Contrada Margherito, svoltò a sinistra, si diresse verso Borgo Lupo, poi girò a destra seguendo

la strada che costeggiava quelle vallate fino ad arrivare nelle montagne di San Cataldo. Là ci siamo fermati per raccogliere i finocchi e amareddi. Capì

subito che il mio amico in quelle zone doveva essere di casa. Mi indicava le zone che anticamente erano state abitate da popoli dell’antica Grecia. Mi

faceva notare sarcofagi scavati nella roccia, nascosti ormai dalla vegetazione, che negli anni passati erano stati scoperti e saccheggiati dai tombaroli di

frodo. Nel contempo, Vito parlava della Sicilia antica: della sua storia, dei popoli che l’avevano abitata, di eserciti e di battaglie. Me li descriveva con tale

minuziosità ed enfasi che a me, ascoltatore muto e interessato, e per di più trovandomi in quelle incantate terre, mi pareva di sognare, e di sentire rumore

di armi e di vociare di gente dell’antica Grecia.

Sulla strada di ritorno, quando arrivammo giù in basso, in direzione di Borgo Lupo lasciò la strada asfaltata e girò a destra percorrendo una strada

piena di buche, che fiancheggiava il fiume Margherito. Più avanti girò a sinistra, eravamo in Contrada Zotto, percorreva una strada in salita a fondo

sterrato, a velocità insolita per quelle condizioni, schivando sassi e frattaglie, con rapide sterzate, tanto che mi faceva traballare e mi metteva anche paura.

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Usava quella vecchia Fiat come se avesse in mano una Gip militare e incurante parlava sempre della terra, dei colori della natura, mentre in cuor

mio speravo che dedicasse più attenzione alla strada. Lui girava lo sguardo di lato, e con la mano mi indicava il colore ocra di quelle terre argillose e

incolte delle valanghe. «Guarda come sono belle!» esclamava , «e tu guarda la strada» pensavo in cuor mio.

Arrivato a casa ero stanco, ma soddisfatto e affascinato di quella scorribanda, e in particolare della simpatia che mi aveva ispirato la personalità di

Vito Tartaro.

Negli anni successivi, tranne l’ultimo, quando io venivo a Ramacca, durante la mia permanenza che durava circa un mese, Vito per me era non

solo un compagno con cui trascorrere ore deliziose, ma un vero amico generoso e simpatico. Le gite in campagna erano le nostre mete preferite. Era un

istinto naturale per noi, sia lui che io amavamo la natura, i suoi colori, lo spazio immenso che offre la campagna e il silenzio, per sognare, per poetizzare o

per dare pennellate di colore. Qualche volta Vito, con la sua vecchia auto, mi portava sulla montagna in contrada Santa Maria. Là raccoglievamo asparagi

e finocchi, poi salivamo in cima nella punta più alta della montagna. Là ci sedevamo ad ammirare il panorama. Nel frattempo si parlava. Vito mi parlava

dei suoi lavori o di raccolte di poesie che aveva in mente di pubblicare. Allora io lo invitavo a farmi ascoltare in anteprima quei versi. Lui era bravissimo

in questa materia: recitava come un attore. E per me lo faceva volentieri. E così nel silenzio naturale di quel posto, i versi recitati dal poeta Vito Tartaro,

con la sua voce pastosa e limpida, esprimevano il meglio della sua vena poetica.

Devo ammettere che io ho il difetto o la debolezza di essere romantico per natura. Ascoltare quei versi in quel contesto era per me come sentire da

un’orchestra sinfonica il Va pensiero dell’opera verdiana. Ora tutto è finito. Certo, ogni cosa ha il suo tempo: è legge di natura. Vito era per me come un

fratello. La sua scomparsa lascia un vuoto nel mio cuore e tanta nostalgia .

ADDIO VITO, addio dal tuo amico SALVATORE CURELLO.

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Vito Tartaro ci ha lasciati un'immensa ricchezza con i suoi testi lirici, i suoi racconti, le sue ricerche nei meandri della lingua siciliana, le sue

pubblicazioni, i suoi libri, le sue passioni e il suo attaccamento per la terra d'origine: il suo amato paese di Ramacca.

Da poco è "andato via", ma la sua voce rimane qui, attaccata e scolpita nella sua Montagna con le sue contrade Zotto, Vannutu, Santa Maria…

Ricordo ancora quelle mattine, con la sua macchina, puntualissimo a prendermi sotto casa per poi girovagare in lungo e in largo in campagna, a

respirare aria pura tra mandorleti, peri, fichi, amareddi e finocchio selvatico. A parlarmi di insediamenti arabi, greci, di battaglie nella piana di C.da

Monaci (Mineo) come se fossero film. Li vedeva, te li faceva "rivivere" perché sapeva ed aveva letto non so quante centinaia di libri al proposito.

Si parlava di terre, di colline, di uomini, di resti archeologici, di parlate locali, di vocaboli desueti e "rimessi" in vita, le parlate dei contadini, dei

suoi antenati, della gente comune incontrata per strada. Aveva uno smisurato amore per la famiglia, i figli, i nipoti ai quali dedicò molte delle sue poesie.

Ho avuto la grande fortuna ad essere stato colui che ha trascritto e impaginato molti dei tuoi libri, analizzato e sviscerato la sua ortografia, la

produzione fonica, vocali, sillabe, frasi. Era, come già avevo testimoniato nella postfazione di “Strata e terra” un “universo in movimento”, dove la

parola, il suono, le cose, la vita, il peso e la forza dell’uomo, il suo respiro… ci arricchiscono e ci guidano nel processo di maggiore storicizzazione, di

quella tendenza all’universale nel suo ideale di povertà e semplicità.

Con lui mi rivedo anche nei molteplici incontri culturali in Sicilia, nei concorsi di poesia e nella pubblicazione "Chiana e Biveri", stampato nel

2002, a cura di Mario Grasso. In quest'ultimo libro ci sono le sue e le mie poesie, lette, discusse e approvate dalla prima all'ultima sillaba. Era bellissimo

condividere e parlare con lui di testi poetici o racconti ora nella forma koiné, ora nella definitiva svolta in dialetto ramacchese.

Nino Fraccavento

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A febbraio di quest'anno 2014, una mattina in cui lo venni a trovare, mi dettò un suo componimento e lo trascrissi subito su un foglio

di carta. Poi gli dissi che dovevamo uscire insieme quanto prima, ma rispose: "A maggio che c'è più caldo..., ora sento freddo!".

Da lì a pochi giorni si addormentò prima che arrivasse maggio, proprio nel mese più freddo, in questo febbraio che gela anche i cuori

degli uomini.

Quanto ancora da dire, raccontare e vivere!

Ti ricordo con un mio verso: "...ma tu non mi stringisti mancu la manu, e acqua scinneva supra li sonni cueti!". (...ma tu non facesti in

tempo di stringermi la mano che l'acqua scendeva giù sopra i sogni quieti!".

Ma le vicende, così come le suggestioni di una realtà vissuta, ci giungono in schermate riflesse e divengono necessarie all'appetito del

nostro vivere e sentire.

E' quello che vorrebbe e vuole lui.

Grazie, Vito.

Il tuo caro amico Nino Fraccavento.

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Rimase incantato, quando vide per la prima volta il mio appezzamento di terreno in contrada “Turricedda”, (regalo di mia madre). Continuava a

solcare ogni palmo di quelle zolle, con la dimestichezza di chi è avvezzo e con una speditezza tale, che sembrava volesse arare l’intero podere con i suoi

passi. La sensazione d’intimità, la pace profonda, lo scenario della piana che volge a nord misero Vito in uno stato di esaltazione pulsante. Un’energia

nuova tramutò l’anziano poeta in cantore adolescente. Carezzava le giovani piante degli ulivi, raccontandomi aneddoti della sua esistenza trascorsa, che

sgorgavano dal suo cuore come linfe di una sorgente tra i sassi ricoperti di muschio. Ebbi l’impressione che raccontasse agli ulivi le sue storie, non a me:

in quella circostanza ero solo un incidente amicale.

Alcuni giorni dopo, ebbi il desiderio di ripetere quell’esperienza coinvolgente per entrambi e lo invitai ad andare nuovamente in campagna.

Accettò volentieri a patto che andassimo di domenica, quando i contadini si trovavano tutti a casa per il giorno di festa. Lo accontentai di buon grado e

due giorni dopo ci ritrovammo di buon’ora.

In auto, mentre sono intento a scansare le innumerevoli buche nei tratti dove la strada è franata, Vito continua a scandagliare ogni piega del

terreno e m’incita ad accelerare, ansioso di giungere alla meta che qualche giorno prima lo fece gioire.

Indovina a ogni curva gli alberi che incontriamo, prima di vederli e li saluta con amichevole rispetto sollevando il capo verso il cielo per guardarli

negli occhi mentre le rondini saettano archi di luce tra le preghiere delle allodole.

Giunti a destinazione avendo superato l’erta sinuosa, due coniglietti assonnati, sorpresi dal nostro sferragliare fuggono a nascondersi nella verzura

declive. L’antico cacciatore al mio fianco, atteggia istintivamente le braccia nell’atto del mirare verso i due animaletti, nell’attimo in cui il primo raggio di

sole li illumina di luce rossa come sangue.

- Ma che sto facendo!- esclama Vito come folgorato sulla via di Damasco. -Basta sangue; e poi già da tanti anni ho scelto di sparare solo poesie.

L’istinto dell’uomo, mio caro Carmelo, è veramente una strana bestia e a volte si fa davvero fatica a tenerlo dentro il solco tracciato.

- Forse stai un po’ esagerando, caro il mio Vito.

- Ma non l’hai notato? Sono trascorsi tanti anni da quando decisi di non andare più a caccia, ma quando vedo un coniglietto, una lepre, una pernice,

la memoria istintiva della violenza tende ad avere il sopravvento.

Carmelo Giannì

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- Il fatto stesso che tu ne prenda atto ti rende maggior merito!

- Non basta,“frati miu”! Tu ed io, tutti noi, poeti e scrittori abbiamo ricevuto il privilegio incommensurabile della consapevolezza; che non è

gratuito, anzi, c’impone fardelli morali ed etici inderogabili.

- Infatti, un bel giorno scegliesti la via della non violenza per rispetto di quel privilegio e non hai mai derogato. -

- Si, è vero ma secondo me non basta: la perfezione è ben lontana.

- A parer mio, invece, ce l’hai a portata di mano: se non è perfezione quell’asparago selvatico che campeggia a un passo da te, ditemi dove cercarla!

- Una sonora risata esplose dalla sua bocca scagliando i suoi rovelli etici oltre l’orizzonte dolcemente ondulato delle colline ondeggianti alla tiepida

brezza di ponente.

-E’ da un po’ che lo spio per capire le sue intenzioni, ma non volevo interrompere le nostre piacevoli dissertazioni. Lui sa bene che dovrà cambiare

vita, ma non da solo; e prevedo, a un primo colpo d’occhio, una compagnia numerosa-. La mia ilarità non riesce a trattenere una sana risata.

Il dovere dell’ospitalità mi suggerisce di farmi da parte lasciando che l’ospite amico tragga gioia dai doni della terra, quindi gli tengo dietro a

breve distanza per ammirare la delicata perizia con cui stacca gli aromatici steli dalle piante difese dai rovi. Individua quelle promesse di delizie culinarie

con un’acutezza che i miei occhi stentano a immaginare, e parla con quei teneri germogli, che stacca dalle piante madri con una carezza, come una zia

prende dalle braccia della sorella il bimbo da cullare. Li vezzeggia da lontano, appena individuati, con complimenti al loro aspetto e al colore della pelle:

- E tu cosa fai tutto solo in disparte; vieni qua a giocare con i tuoi fratelli. Quanto sei bello; e diritto! Sembri un serpente regale; e i tuoi fratellini,

dove si sono nascosti?

In un tempo per me troppo breve riesce ad approntare un mazzo di asparagi degno delle grazie di ben sei belle uova almeno. Li sistema a dovere

pareggiandoli in lunghezza, li ammira e me li porge.

-Tieni e gustali alla mia salute.

- Come sarebbe, alla tua salute; sono tuoi!

- Ma io, che mangio asparagi? Non li posso mangiare: tieni.

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- Ma se non puoi mangiarli, perché li hai raccolti?

- Ma per te, ovvio.

- Per me?

- Ma certo; ed è stato un vero piacere.

- Grazie; ma così mi fai fare la figura del lavativo!

- Ma smettila: ho apprezzato la tua delicatezza nel farti da parte. E’ stato bellissimo raccoglierli. Adesso però, fammi visitare la parte alta del

podere, ché non l’ho visitata la volta scorsa.

- Con piacere: possiamo arrivare, se vuoi, alle torrette di pietra; ho fatto liberare il sentiero dagli sterpi.

- L’ho notato; la dove ci sono quei cristalli di gesso che brillano al sole.

Il passo di Vito è sciolto e sicuro al contrario del mio, per nulla avvezzo.

- Guarda qua che terra generosa, feconda!- Ne raccoglie una manciata e ne tasta la consistenza con movimenti delle dita che hanno un che di

sensuale. -Non faccio fatica a dire, caro Carmelo, che sei il padrone del paradiso terrestre: dovrai, al più presto, costruirvi una casetta.

- E’ già in programma: sarai invitato a tagliare il nastro e a rifugi artici tutte le volte che vorrai.

- Bravo. La senti la terra sotto i piedi? Stai poggiando i piedi su orme vetuste: tutto qui profuma di antica saggezza, e basta girare lo sguardo per

coglierne i segni; sulle rocce e nei camminamenti, adattati alle necessità della vita contadina; da millenni.

- Lo percepisco soltanto adesso che me lo fai notare: sono contento che tu sia venuto.

- Ma, hai anche dei mandorli!

- Mi piacciono molto gli alberi di mandorlo: questi sono quelli che già erano presenti al momento dell’acquisto. Non ti può sfuggire certo il fatto,

che sono rimasti abbandonati per molto tempo. Adesso, finalmente, c’è chi si prenderà cura di essi e ho in programma di piantarne altri in autunno.

- Bravo, è una buona cosa. Amo molto le mandorle e alcune in modo particolare. Con gli alberi ho un rapporto conflittuale di genere cavalleresco.

- Non capisco; un albero è un albero! Come può essere un rapporto cavalleresco e conflittuale, con un albero?

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- Comprendo che può sembrarti una cosa assurda, ma è così. Prova a pensarci: io amo le creature dell’albero e cerco in tutti i modi di

appropriarmene, di conquistarle, portarle via.

- Non ti credevo così passionale.

- Ecco, quella lassù, per esempio; prosperosa e brillante, spicca tra tutte le altre e cerca di attirare l’attenzione su di se: sa di essere bella. - Non so

più, a questo punto, che atteggiamento tenere dinanzi a questi che mi appaiono chiari segni di demenza senile e cerco di banalizzare la cosa.

- Sarà bella e prosperosa quanto vuoi ma il suo valore commerciale è inferiore alle altre.

- Come sarebbe a dire?

- Sarebbe a dire, poiché mi sono documentato, che quando sono così grosse è perché contengono, al loro interno, due frutti più piccoli del normale e

una volta sgusciate e spelate ciò che rimane è quasi nulla.

- Sarà come dici, ma tu non puoi guardarla con i miei occhi, nemmeno se ci provi seriamente.

- Mi è già venuto in mente un titolo, per questa tragicomica commedia amorosa dal sapore passionalcavalleresco con sentore di tardo “amor

cortese”: L’amant des amandes.

- Mi piace, il titolo e ti ringrazio, anche se il tuo tono è elegantemente beffardo; non importa. Il titolo, però, non mi sembra corretto, nel senso che

non sono propriamente un amante, e d’altro canto non sarebbe delicato nei confronti di mia moglie. Il termine corretto sarebbe, a parer mio, innamorato.

- Soltanto adesso mi rendo conto che Vito, con quella naturalezza che è unicamente sua, si è arrampicato sull’albero. Il suo peso fa ondeggiare la

pianta e stormire le foglie agitate dai rami.

- Ma che fai, Vito! Guarda che è pericoloso: non siamo più dei ragazzi!

- Non ti preoccupare e poi, come vedi, son già salito: non posso abbandonarla appesa a un ramo.

- Sei davvero incorreggibile. Stai attento!- Ma tu guarda questo, cosa mi combina. - L’importante è che non cadi!

- Stai tranquillo; lo faccio spesso e quindi sono pratico.

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E’ salito su di un grosso ramo e tende la destra per agguantare la sua “innamorata” ma non vi riesce: troppo distante. Non si perde d’animo e si

arrampica su di un ramo più in alto, più sottile. La tensione nervosa mi paralizza e il battito cardiaco mi giunge alle tempie in stereofonia in parossistico

crescendo. Un rivolo di sudore freddo tra le scapole diventa aquafan sulla schiena e più in giù tra i glutei mi provoca sensazioni sgradevoli.

Ce l’ha, quasi fatta, Vito: l’ha presa, finalmente, ma: -Stai attento! - Il lampo del colore azzurro dei suoi jeans; il sole accecante che tra i rami non

trova più la regina delle mandorle. I jeans giacciono al suolo e dentro di essi Vito. Accorro disperato in un bagno di sudore, con lo stereo delle tempie a

tutto volume. Disteso per terra, solleva il capo, gira il viso verso di me: sorride.

- Hai visto? Mi ha disarcionato. -

- Ma smettila! Cosa ti sei fatto; stai bene? -

- Tutto a posto, stai tranquillo. -

- Tranquillo un accidenti: ti potevi ammazzare. -

- Ma figurati! Te l’ho detto che sono dei cavalieri; e sono onesti e leali. Questo, per esempio si è dimostrato un gran combattente; un vero paladino,

ma non poteva farcela con un avversario come me. -

- Ti ha disarcionato; te lo sei dimenticato? -

- Però, n’è valeva la pena! - Dischiude lentamente la mano destra, ed eccola apparire, bellissima, di un bel verde argenteo sulla pelle di velluto,

fresca al tatto del mio dito indice.

- Non sei molto a posto! -

- Già; non lo sono mai stato e spero di non esserlo finché campo. - Esclama guardandomi in faccia con occhi da bambino sognatore.

- Lo spero anch’io, mio caro amico, “Amoureux des amandes”.

Carmelo Giannì

al caro amico Vito Tartaro

21

Eri 'n stinnardu,

l'ùrtimu ppi la Sicilia

lazzariata

ca va spiddennu pèju e sempri pèju

'n manu a puliticanti

ca su' chiù sciara di la sciara ardenti.

Iò non ti ciànciu

picchì li morti veri

semmu ddi fantàsimi

ca furriammu cunfunnuti e stanchi

senza chiù "nanniparoli" e spersi

ppi li strati storti di lu munnu.

Ti vulìa canùsciri e non potti

(siliatu luntanu commu sugnu

ccu li to' stissi 'ntenti

ca ni rusicàunu 'nsistenti

gnègniru e cori)

ma canuscìi tutti li to' libbra...

'Spèttimi 'n cimma

di lu nostru veru Pararisu

d'unni 'ssittati 'n gloria videmmu,

commu successi a Danti,

trantuliari na lu funnu 'Nfernu,

vìscuvi, papi, mònici e parrini.

Eri uno stendardo,

l'ultimo per la Sicilia

lacerata

che va finendo peggio e sempre peggio

in mano a politicanti

che sono più lava della lava ardente.

Io non ti piango

perché i morti veri

siamo quei fantasmi

che ci aggiriamo confusi e stanchi

senza più "nanniparoli"

per le strade storte del mondo.

Volevo conoscerti e non ho potuto

(esiliato lontano come sono

coi tuoi stessi ideali

che ci logoravano insistenti

intelletto e cuore)

ma ho conosciuto tutti i tuoi libri…

Aspettami in cima

del nostro vero Paradiso

da dove seduti in gloria vedremo,

come successe a Dante,

tremare nel profondo inferno

vescovi, papi, monaci e preti.

Senzio Mazza A VITO TARTARO

22

L’ultimo regalo di Vito Tartaro l’ho ricevuto lo scorso dicembre, quando segnalò il mio nome proponendomi per la presentazione di

un libro di una giovane autrice. Sapevo che stava male, ma la notizia della morte di una persona vicina ci coglie sempre increduli e

impreparati. Lo ringrazio soltanto adesso per avere pensato a me.

L’avevo conosciuto circa venti anni fa a Catania, perché eravamo entrambi frequentatori del circolo “ENDAS-Vito Marino” a pochi

passi da Piazza Verga, dove ogni domenica mattina si incontravano molti poeti catanesi, quasi tutti in dialetto, come Nino Marzà, Giuseppe

Pisano, Augusto Manna e Salvatore Puglisi, tutti poeti che lo hanno preceduto nel lungo viaggio. E dire che Vito si professava fieramente

ateo, come fieramente dichiarava la sua passione per la sua terra.

Credo che per Vito Tartaro amare significasse assoluta necessità di conoscere, è questo il suo lascito. Ho sempre apprezzato il taglio

netto e vigoroso dei suoi versi attraversati da una irriducibile forza polemica e denigratoria nei confronti dei potentati, da un intransigente

antiamericanismo e dall’orrore per la guerra e per tutte le ingiustizie sociali, e l’ho giustificato quando anni fa ebbe a sostenere che non gli

piaceva la poesia molle e languorosa di molti dialettali catanesi. Ma l’ho apprezzato soprattutto per Strata e terra (Prova d’Autore, 2001), il

romanzo scritto in siciliano, tradotto da Giuseppe Cavarra e prefato da Silvana La Spina, forse il suo libro più importante, in cui si è

raccontato attraverso la guerra e il dopoguerra a Ramacca, parlandoci di se e dell’interesse per l’archeologia, ricordando a noi tutti che i

luoghi in cui viviamo sono appartenuti, prima che a noi, ad altre genti e ad altre civiltà.

Renato Pennisi

Renato Pennisi

23

Per Nino Di Mauro

Rendo affettuoso omaggio a Vito Tartaro di cui sono stato

grande amico e schietto estimatore, al di là delle divergenze

ideologiche.

Ho sempre ammirato in lui la schiettezza e la passione

intellettuale, l’ansia per la ricerca storica con l’amore per la sua

Ramacca, il poeta appassionato e nostalgico della natura, lo

studioso e il cantore del dialetto.

Vito è stato e rimane un testimone e come tale merita il

ricordo, la riconoscenza, la gratitudine non solo dei cittadini, ma

di tutti coloro che ne hanno apprezzato le qualità umane e le doti

intellettuali.

La scomparsa di personaggi come Vito Tartaro rende più

povero il mondo della cultura.

Nino Piccione

Roma 14-02-2014

Nino Piccione

24

Mi trovo in quella poco piacevole situazione che gli antropologi chiamano "lutto non

elaborato", mi riesce pertanto praticamente impossibile scrivere sul conto del "Sig. Tartaro"

parole prive di banalità e retorica, degne di uno degli ultimi "gentiluomini di fortuna", come

diceva Hugo Pratt. "In poche parole - per quel che mi riguarda - Vito non è morto ma sta

solo seduto in qualche posto della Montagna e dei poggi che la circondano, noto solo a lui,

osservando la vasta distesa di colline e valli costellate di necropoli e antichi villaggi in

attesa che dal suo cuore sgorghi la prossima poesia. Ciao Vito, a presto."

Oltre non è lecito andare.

Enrico Procelli

Enrico Procelli

25

Ci sono accadimenti che non sai realizzare appieno, nel momento esatto in cui si verificano e che una persona cara, stimata, amata, ti

lasci quasi di botto, perché così ha deciso il destino e tu sai che non sentirai più la sua voce, non leggerai più le sue lettere, brevi, concise, ma

piene d’umanità e brillanti d’intelligenza e arguzia, non avrai, in anteprima, i suoi racconti, le poesie, su cui, poi discettare, non ci saranno più

scambi, confronti, risate, brani di vita semplice in cui trasfondeva l’amore che sapeva provare per persone e cose, talvolta scrivendo di un

vecchio albero come di un amico e, ahimé, anche di un falso amico, come fosse un vecchio albero rinsecchito e questo, ne fa parte.

Amavo Vito Tartaro, la sua scorza rude, l’anima grande, proiettata in alto, in un “alto” non religioso-confessionale, ma tutto suo,

impregnato dei suoi sapori, dell’amore per la sua terra, della natura delle sue aspirazioni. Certo non era un tipo facile, ma io ero entrata subito

nel suo cuore, con ciò che ero e sono, con ciò che ho scritto e scrivo, con la sincerità che mi contraddistingue e mi rende indigesta a

qualcuno. Dopo averlo più volte premiato, da presidente di giuria, come poeta, ebbi fra le mani “Strata e Terra”, m’ innamorai di quella prosa,

lo chiamai al telefono, ne parlammo, ci capimmo subito, a pelle. Iniziò così una bella amicizia. Erano momenti ricchi e pieni quelli durante i

quali io gli leggevo qualcosa di mio e, se lui affermava che, durante la lettura gli si erano “arrizzati” i peli delle braccia, era fatta, la poesia

poteva volare!

Collaborai volentieri, partecipai attivamente ad alcuni suoi lavori, con le mie traduzioni, sia di prosa che di poesia e fu molto

impegnativo, ma appagante.

Flora Restivo

26

L’ultima volta che lo vidi stava bene, aveva pubblicato “Siculicani” e me ne fece omaggio, poi non capitò più che ci incontrassimo:

troppo distanti in chilometri, ma il rapporto telefonico seguitò, vivace e colmo di spunti interessanti, come sempre, fino a quando i piccoli

disturbi, di cui soffriva da anni, non si fecero più presenti e assillanti. Lo sentii poco prima del suo ricovero, troppo lungo per il malanno che

lui accusava, lo sentii anche dopo, piegato dalle sofferenze, ma sempre coraggioso, la splendida voce, intatta e un brutto giorno ebbi la

conferma dei miei sospetti. Ho sperato fino all’ultimo, ma il miracolo non è accaduto e lui ci ha lasciati.

Un caro amico, anche lui scomparso, Salvo Basso, ebbe a scrivere, in una sua creazione: ”Nun sacciu criviri poesii bboni ppe

concorsi.” E poi: ”Quannu scrivu nunn’aiu pubblicu, né ggiurii. Sulu occhi, ciatu, na penna, na para di fogghi…”.

Mi piace parafrasarlo e dire: “Non sono buona a scrivere frasi buone per le occasioni tristi, ho solo il mio cuore, la mia anima, un paio

di fogli, forse solo uno, ma un immenso spazio nei miei pensieri, abitato da chi ha inciso nella mia vita, ora anche da Vito, indimenticabile e

indimenticato.”

Cammina con passo leggero, Vito, sei in un mondo migliore di questo.

Flora Restivo, da te chiamata a volte prof. e sempre “elima sarvaggia”.

Trapani 16/ 03/ 2014.

27

Canuscii a Vitu nnô 1997, o forsi era u 1998. Mi ttruvavu a Ripostu ppi rritirari ’n premiu di puisia. A ’n certu puntu na vuci ccuminciau a

rricitari paroli caudi e sagnigni, ppoi dissur’u nnomu: vincitore del primo premio nella sezione in dialetto è Vito Tartaro di Ramacca.

Mi visti spuntari ’n cristianu (Vitu ’n t’affenniri, aviss’ha ddiri “pirsuna”, ma ô mo paisi si dici di sta manera ppi ogni omu, vattiatu o svattiatu)

vistutu pulitu, ccu cravatta e purtamentu malantrinu.

Dda puisia m’âva fattu veniri ’a pedd’i jaddina. Mi cci pprisintai: buona sera, mi chiamo Giuseppe Samperi e sono di Castel di Iudica. Nun

sapevu c’âva ttruvatu ’n maestru e ’n amicu comu picca cci nn’è.

*

Sugnu àtiu, mi diceviti. Cridu nnâ Natura, nni l’Omu ca si stranìa ppi ’n pezzu di pani. L’Omu ca rrifiuta ’a guerra e cummatti ppi sarvari

’n arburu ’i carrubba, c’ascuta cantu d’aceddi, ca cerca nnâ Storia ’i so rradichi. Tu lluminista? Tu cumunista? Sacciu sulu ca fusti pueta nni l’occhi

e nnô cori. Ti siddiaviti su quarcunu ti diceva “farsu àtiu, rriliggiusu cchiù dê rriliggiusi”: è u ddifettu di chiddi c’hanu ppi forza ttruvari ddiu a

tuttibbanni, diceviti.

*

’A so casa, quannu cci jevu, era a mo casa. U so ortu u mo ortu.

Nnô ddivanu mi parrava di Siculi e Sicani, di paroli ‘nannavi’ ttruvati supra ’n sordu ‘catanannu’, svurricatu ccà e ddà, muntagnimuntagni.

Parrava di paroli rrascati funnuti supra petri ca ciciuliaunu n’autra lingua, ’a lingua nostra, lingua ca si persi ppi sempri. Jù scutavu, tanti cosi nê

capevu, autri mi parevunu fantasii di unu rannuzzu. Forsi iddu cci fu e cci parrau ccu ddi fimmini e dd’omini antichi. Iddu cci fu ppiddaveru.

Giuseppe Samperi

28

*

Arrestiti a manciari. ’A linticchia ti piaci?

Mi fici canusciri tutti l’amici, di Ramacca e di fora. Parteumu ccâ so’ machina o ccâ mia. Na vota a Cartanissetta, n’autra vota ’n

pruvincia ’i Missina, a Liunforti, a Vittoria, a Favara e autri bbanni ca nun mi rriordu cchiù. Rritiraumu (iddu cchiussai) premii e primiuzzi,

strata facennu parraumu e parraumu di l’omu-pueta e di l’omu-marpiuni. U ddialettu era sempri uccaucca: dda parola scritta sbagghiata,

chidda mmintata pirchì ’a puisia agghiessieri (Vitu, scrivissiti “a essiri”, “a jessiri” o comu?, cu’ mi rrispunni ora? cu ccu’ ni parru?) palora

nova, dd’autra palora (parola?) ca si scantau ntuttuna e si persi nnô voscu dô tempu, dâ morti.

Prima ca ti nni vai, portiti sti lattuchi, ca su’ duci com’u meli.

*

Vitu, cc’aju a ddiri cchiù? Megghiu nun parrari troppu.

M’ha pirdunari su ’nsistu a scriviri sbagghiatu, cercu a mo’ strata, comu mi ’nsignasti tu. Tu mi dasti e jù ti desi. Comu ’n sacunnu

patri fusti ppi mmia. ’A to morti nun m’ha spittau. Ora cu’ mî conza ’i palori? Ti piaciu stu rriordu nnâ “lingua dâ minna dê matri”? Quantu

palori cci su’ ca ti storciun’u mussu e ti fanû venir’u sdingu (ma ccu mmia cci hai sempri ucca a rrisu)? Unni si’?

Ti facisti arburu gginirusu di fruttu, petra di poj all’urtumu vaviari di luci?

Ti facisti prisenza ppâ vita ca m’arresta.

29

*

Vito Tartaro ha sperimentato il dialetto in tutte le sue sfaccettature e potenzialità, tra poesia e prosa. Da vero atleta dal fiato lungo ha

persino scritto un romanzo in dialetto, riprendendo una tradizione che risale al Di Giovanni. Conoscitore come pochi di un immenso

vocabolario, disseppelliva (da buon appassionato di archeologia) lemmi ormai defunti, ne coniava di nuovi, secondo una concezione del tutto

moderna del fare poetico che deve sposarsi alla ricerca continua di un proprio stile e d’una propria lingua letteraria. La sintassi delle sue prose

(e delle poesie) segue con severità (e ortodossia) la sintassi tipica del parlato siciliano, ma dal parlato il Tartaro prende le necessarie distanze

quando si tratti di scrittura. L’oralità (e le scelte fonografiche della sua produzione più matura) non ha, in lui, mai il sopravvento sulla

tensione ortografica e sulle peculiarità scrittorie. Questo giudizio non tende affatto a sminuire scelte diverse d’altri aedi, solo fissare un

distinguo che credo alla base di ulteriori (e auspicabili) dibattiti.

I suoi libri, a mio modesto parere, sono una chicca per filologi e dialettologi. Un grande piacere per lettori liberi da pregiudizi

ideologici e da invidie di quartiere.

Io mi inchino al mio maestro.

Ciao Vito.

30

Carissimu zu Vitu,

Ti scrivu sta littra… non sacciu mancu iu pirchì; forsi pirchì cu Laura stamu liggennu i littri ca lassasti ê to niputi.

Mi manca u nostru chiacchiariari ca si sapeva di unni parteva, ‘a lingua dâ minna, comu ‘a chiamaviti tu, e mai unni ‘rrivava. Putevumu parrari uri

e uri. L’urtima vota c’era macari Carmelu; tu riordi? Tri uri di puisia, prosa littiraria, chi cercu iu, chi cerchi tu, libbirtà, rrutti sulu dâ prisenza dâ za

Maria, ca comu sempri, doppu un pizzuddu, vineva e ni purtava u cafè. Tu eriti ssittatu nâ stissa seggia di sempri e mi paristi si battuteddu e rrappatizzu

(aviti scalatu ‘na cchiappata i chila ppi ccurpa di dda malanova di divirticuliti ca t’avunu truvatu) ma sempri firrignu e di menti lucita e supraffina. Iu ti

scutava comu quannu, nica, parravunu i ma nanni, cu rispettu e affettu misi assemi. Parraviti tu, parrava iu, parrava Carmelu e pareva quasi quasi ca u

tempu non cuntava cchiù; tutti tri galliggiaumu supra dda stanza, traspurtati ca e dda dôn çiauru d’infinitu ca tu ppi primu dda sira sintisti.

Ni salutamu spranzusi di vidirini quantu prima! “Giustu u tempu nicissariu ppi fari cocca cuntrollu ô ‘spitali” dicisti.

Iu parò non truvai né u tempu, né a vuluntà né u curaggiu di talafunariti ppi spiariti cchi t’avunu dittu i duttura.

Chiamai a Carmelu e iddu mi fici capiri ca c’erinu malifruschi. Tagghiai subbitu u discursu. “No, non po essiri; u zu Vitu no - ci dissi - ancora non

po moriri”. Non c’è chiù surdu di cu non voli sentiri! A mia mi piaceva pinzari ca Carmelu si sbagghiava; sa cc’âva caputu! Eppò iu nonn’era ancora

pronta ppi ristari orfana dôn patri ‘i littra… dôn maestru!!

Nnô frattempu ‘a to casa âva divintatu meta di tanti prucissioni. Iu parò non ma sinteva ‘i veniri! “No, non po essiri - mi ripiteva - u zu Vitu armenu

armenu campa cent’anni!

Cettina Sottosanti

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Fu ma maritu ca mi rapiu l’occhi, ca a mia mi stava cumminennu teniri ntuppati. “Cettì - mi dissi - ma chi sta spittannu ppi ghiri a truvari ô zu

Vitu? Ca mori?” Ddi paroli foru cuzzati!! Non ci rispunnii. Mi canciai di cursa e talafunai a Laura…’nzemula suppurtamu ddu priziusu carvariu, ddu

privileggiu di gudiri ancora dâ to prisenza. Prima ancora di vidiriti, turrenti dopu un tirribbili timpurali, doppu acqua forti, divintaru i ma occhi…e comu

ti visti ridduttu ‘i da mala manera, i lacrimi scinneru a linzolu senza ca iu rinisceva a firmalli. Lacrimi, lacrimi e sciumi di paroli. Paroli, paroli pi

cunfurtari a tia ca parrari non puteviti. Carizzi, carizzi mai fatti ora nicissari pirchì ‘a spartenza è brutta!! Tu allura, chiamasti a to figghia Giusippina e ci

facisti capiri ca t’âva a mettiri na spec‘i gel nâ ucca; tû ghiuttisti e poi mi dicisti: “Sei incantevole”! In ‘talianu, facennimi sentiri dduppiamenti

priviliggiata e anurata. I dulura ti manciavunu vivu, cuppuru, no un lamentu, no un cidimentu. Vitturiusu, atturniatu d’affettu, spittaviti a za Cicca! Finu a

l’urtimu straurdinariu, ppi tutti esempiu, maestru!

Ora ca chiù non ci sì, rileggiu i tô priziusi “nannaparoli” e mi pari quasi quasi di sintiriti dda attaggh’i mia, ca mi duni cunsigghi e mi dici c’aju a

fari e c’aju a diri.

Ma quannu mi pigghia u scunfortu e tornu a tia che ma pinzeri e sentu ca ancora bruscia sta spartenza, da novu sciumi diventinu i ma occhi! E

penzu: “Sa quannu sarà, su sarà, ca ni rividemu!

Cettina

Testo di Maria Concetta Sottosanti

32

Vito l'ho conosciuto in campagna e, potrei aggiungere anche, che ho conosciuto la campagna grazie a Vito.

Quando andavo nella tenuta di famiglia mi sentivo a disagio: badavo solo a non farmi entrare troppa terra nelle scarpe, a non pungermi con le

spine e ad evitare gli insetti. Con Vito ho imparato ad apprezzare le passeggiate, ho imparato che per stare a proprio agio basta essere vestiti

adeguatamente, mai con pantaloni corti e scarpe basse e preferibilmente avere il capo coperto.

Ho imparato da Vito che in campagna si deve assaggiare tutto, qualsiasi cosa penda da un albero e quando mi è capitato che qualche

collega con cui ho fatto ricognizioni mi abbia detto :”...ma il contadino potrebbe seccarsi!”, io ho risposto sempre: “In campagna si può”,

come diceva Vito.

E in campagna si deve anche accettare sempre quello che ti offrono in dono, mai rifiutare.

Negli anni '90, quando ormai non mi capitava da un po' di fare passeggiate archeologiche con Vito, sono andata a trovarlo a Ramacca insieme

a mia madre con la nostra Citroen Palladium.

Vito ci ha portato nelle tenute più conosciute del paese e ci ha spiegato tutto sulla coltivazione dei carciofi e sulle diverse varietà. Ci ha

insegnato a distinguere un tarocco da un tarocco nocellaro, ci ha fatto vedere un pompelmo potato ad ombrello: ti abbassi, ci entri dentro e

vedi dall'interno tutte le palle gialle penzolare. Siamo tornate a casa con il sedile posteriore e il bagagliaio pieni di roba e con un bagaglio di

nuove conoscenze.

Ho imparato che le macchie di gelsi dalle mani si tolgono sfregandole con gelsi acerbi, ho imparato come si accende un forno a legna e

ho conosciuto le modalità di preparazione delle focacce “faccia di vecchia”.

Quando si deve iniziare uno scavo o fare ricognizioni archeologiche penso sempre: “si dovrebbe dare fuoco all'erba, ci vorrebbe Vito!” perché

Vito sapeva bruciare l'erba della sola parte che gli interessava, senza che mai gli sfuggisse di mano la situazione.

E quando per lavoro mi trovo su un'altura da cui si ha una vista a perdita d'occhio penso a Vito che sempre mi diceva i nomi dei paesi che si

vedevano da lontano: io non li riconosco mai!

Ma da Vito ho imparato anche un'altra cosa, la più importante: che nella vita tutto si deve fare con entusiasmo.

Grazie Vito!

Maria Turco

Maria Turco

33

1

II PARTE LAMMÌCU

La Montagna di Ramacca e l’antica città di Eryke....p. 3

Ateismu prim'e tuttu………………………………….p. 6

Lu friddu di la storia………………………………….p. 10

È sempri un monicu a tradiri (A Barunissa di Carini)p. 15

Storia curta d'a Diccì ................................................. p. 17

Teresa di Calcutta ...................................................... p. 18

Cicciu d'Assisi ........................................................... p. 20

Littra scantata ............................................................ p. 21

Facitimi li cunti .......................................................... p. 22

Russu Ramacca ............................................................. p. 23

I senza anima ................................................................. p. 28

Nannaparola .................................................................. p. 33

Strata e terra ................................................................. p. 35

Testimonianza come postfazione ................................ p. 37

Notizie ......................................................................... p. 38

Chiana e biveri .............................................................. p. 40

Cuntannucuntannu ....................................................... p. 42

Carcariari ...................................................................... p. 45

Siculicani ........................................................................ p. 48

Bibliografia Ramacchese .............................................. p. 52

2

3

PRESENTAZIONE

Vito Tartaro mi ha invitato a scrivere la presentazione a questo suo

lavoro su «La Montagna di Ramacca e l'antica città di Eryke»: io lo faccio

volentieri ed anzi gli sono grato perché questo mi ricorda uno dei momenti

più interessanti della mia vita. Era l'autunno del 1966, io mi occupavo già

da alcuni anni, per motivi familiari, della conduzione della nostra azienda

agricola sita proprio nel territorio del Comune di Ramacca: per questo

motivo, ed anche perché facevo parte, in qualità di sindaco-delegato,

dell'amministrazione comunale di quel centro, avevo frequenti contatti con

quell'Amministrazione. Conobbi così il padre di Vito, Filippo Tartaro,

consigliere comunale, rara figura di pubblico amministratore, onesto, saggio

e straordinariamente sensibile e vicino ai bisogni della collettività, una

figura che difficilmente potrò dimenticare. Egli mi parlava di questo figlio

che aveva la passione per «le cose antiche» e mi raccomandava di

ascoltarlo: fu così che ebbi occasione di incontrare Vito Tartaro e di fare

con lui un sopralluogo alla Montagna di Ramacca dove mi resi conto

dell'importanza del sito sia per la sua posizione topo grafica che per qualche

"coccio" affiorante sul terreno, cosa di cui informai l'allora Soprintendente

alle Antichità della Sicilia Orientale, l'illustre e stimato collega Luigi

Bernabò-Brea.

Vincenzo Tusa

4

Mi colpirono allora lo straordinario entusiasmo del giovane Vito.

la sua intelligenza e il suo desiderio di apprendere: io non mancai di incitarlo allo studio e a fornirsi di documenti per le sue tesi.

La Soprintendenza di Siracusa, anche da parte dei successori di Bernabò-Brea, Pelagatti e Voza, si dimostrò sensibile sia alla mia segnalazione che

all'entusiasmo di Vito Tartaro, ma soprattutto all'importanza della zona, e così promosse ricerche e qualche campagna di scavi i cui risultati, com'è noto,

sono stati in parte illustrati dal dr. Procelli su «Notizie degli Scavi», e «Sicilia Archeologica».

Ora Vito Tartaro mi si presenta con questo dattiloscritto che mi fa rievocare appunto un passato a me caro: dati questi precedenti, cui ho voluto

accennare quasi per giustificare la mia presenza qui, non potevo rifiutare il cortese invito, pur riservandomi di scrivere a lettura ultimata, cosa che ho

subito fatto, anche per l'interesse che l'argomento suscitava in me. Avendo letto quanto Vito Tartaro ha scritto non ho difficoltà a dire che sono veramente

lieto per questa occasione che mi si offre di presentare al pubblico, e soprattutto agli studiosi, un' opera che presenta una certa utilità per gli studi sulla

Sicilia antica.

Prima di trattare del contenuto storico-archeologico desidero però accennare all'introduzione che Vito Tartaro premette al suo scritto e di cui ho

apprezzato moltissimo l'impostazione «politica» che egli ha dato all'introduzione stessa, impostazione che ovviamente sta alla base di tutto il suo lavoro.

Egli mette in rapporto l'antico centro abitato che stava sulla Montagna di Ramacca con la Ramacca moderna, facendo anche un riferimento a fatti politico

-sociali recenti ed alla situazione attuale: ed è veramente interessante che uno studioso locale, che forse solo da poco tempo ha compreso l'importanza

profonda dell'indagine storico-archeologica, abbia «sentito» l'esigenza di confrontare l'antico col moderno e di cercare nell'uno la spiegazione dell'altro.

Questo fatto può impressionare qualcuno, ma non certamente me non solo perché la condivide ma anche perché, per cognizione di causa, attribuisce

l'impostazione di Tartaro alla sua posizione politica, alla cui formazione non fu certamente estraneo il Padre.

Ma non solo nell'introduzione si manifesta questa esigenza di Vito Tartaro, la troviamo espressa infatti qua e là in tutto il suo scritto, di cui anzi

costituisce quasi il "leit-motiv": molto significativo a tal proposito li richiamo ad un certo punto fa tra un momento dell'antica storia di Sicilia con il «

Gattopardo» di Tomasi di Lampedusa: si potrà anche discutere o addirittura dissentire da questa posizione, non si può però non apprezzare l'ampiezza di

vedute ed anche la "modernità" che sono alla base dello scritto del Tartaro.

Il volume si articola in due parti. Nella prima, dopo due capitoli dedicati ad illustrare la posizione geografica, topo grafica e la bibliografia generale

della Montagna di Ramacca ed i suoi limiti cronologici, seguono altri capitoli in cui sono riassunti per periodi e per personalità (interessanti, a questo

proposito, sia pure non originali, le considerazioni dell' autore sul concetto di storia: cap. VI, n. 11) le varie vicende storiche della Sicilia antica: in

ognuno di questi capitoli l'autore immette la Montagna di Ramacca, spesso con un certo sforzo, ovviamente discutibile data la carenza di dati storici e

archeologici) questi ultimi costituiti quasi sempre da monete rinvenute non a seguito di scavi regolari ma sporadicamente.

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Con il cap. X, dedicato a Timoleonte, potrebbe aver termine l' « excursus» storico sulla Montagna di Ramacca i cui ultimi documenti archeologici,

sempre rappresentati da monete, sarebbero da porre negli ultimi decenni del IV sec. a. C.: Tartaro però, forse per completare una sua visione storica, fa

seguire altri due capitoli, di cui uno dedicato ad Agatocle, alla fine del quale dichiara che « questi ulteriori avvenimenti più non ci interessano perché la

città sulla Montagna di Ramacca non li visse, essendo scomparsa prima che il tiranno diventasse re», e l'altro che ha per tema « Il termine cronologico

finale» in cui, sempre basandosi sulle monete sporadicamente rinvenute, fissa la distruzione del centro abitato sulla Montagna di Ramacca «a partire dal

319», «possibilmente» ad opera di Agatocle.

Nella parte II, certo la più interessante del volume anche per una sua originalità, il Tartaro esamina, con logica stringente e dimostrando una

considerevole conoscenza delle fonti letterarie e della storiografia moderna, le varie ipotesi circa l'identificazione di Noai, Ergezio ed Eryke

rispettivamente con Monte Catalfaro, Monte Judica e Montagna di Ramacca concludendo, per quanto riguarda quest'ultima, sulla possibile identificazione

con Eryke.

Discutendo di questa identificazione il Tartaro esprime il suo pensiero sulla persistenza della vita in un dato posto, pensiero di straordinaria attualità

dopo l'esperienza del Belice, del Friuli e dell'Irpinia, e che qui mi piace riportare: «Quando si dice che una città scompare definitivamente (cosa che

avvenne per quella sulla nostra Montagna), non significa che è la vita a scomparire per sempre dalla zona. I superstiti, che non mancano mai, cercano

sempre di ritornarvi e, nell'impossibilità - dovuta a divieti di conquistatori o a mutate condizioni di abitabilità derivanti da frane, colate laviche e simili -,

si stabiliscono nelle vicinanze dando origine a nuovi abitati; è lì che hanno affetti ed interessi: le tombe dei familiari, la terra posseduta, la speranza di

riacquistare quanto perduto».

Questo passo del Tartaro, oltre a dimostrare ancora la sensibilità dell' autore per i problemi di ordine generale connessi con le testimonianze del

passato, evidenzia l'attualità di queste testimonianze e l)inderogabilità della loro conoscenza per la vita di ogni giorno: questo va detto specialmente a

coloro, e purtroppo ancora ne esistono, che ritengono lo studio sulle testimonianze del passato un mero diletto o, peggio, un hobby per iniziati.

Per questo motivo, per gli elementi che offre, per l'ampia documentazione bibliografica, questo lavoro del Tartaro si raccomanda positivamente per

chi voglia conoscere una zona della nostra isola e per chi voglia averne notizie e dati per studi ulteriori.

Libertinia (Ramacca), dicembre 1980.

Prof. VINCENZO TUSA

(La Montagna di Ramacca e l’antica città di Erike, Catania, stampato in proprio, 1980, pp. 5-8)

6

LA MUSICA E IL VERSO

Cogliere i suoni, e trascriverli fedelmente: di modo che - si spera - il

lettore possa intendere ogni inflessione. Questa è la vecchia faccenda del

fonografismo, diàtriba ancora attuale in Sicilia.

Basta conoscere le regole (gli antifonografisti ne sono convinti) per

leggere come si deve. Sarebbe vero, se vi fosse una lingua siciliana: con

salde norme e belle eccezioni. Invece una ridda di dialetti, sottodialetti,

parlate, gerghi, fa danza d'uccelli: i fonemi non riposano mai; variano da un

posto all' altro, da una strada all' altra, anche secondo l'umore.

Ma è vero che, per un fonografismo autentico, mancano i segni

tipografici. Ce n'erano, pochi, e si sono persi. Questo, però, non fa obbligo

di rinunziare al tentativo di un' onesta trascrizione. Tanto più quando si

scrive (si parla) il ramacchese, meglio ancora quando il fonografismo viene

da Vito Tartaro: autore di un affascinante studio, La montagna di Ramacca

e l'antica città di Eryke [Catania, 1980] il cui metodo Vincenzo Tusa avalla

in una premessa appassionata e accortissima, intanto segnala le novità dei

posizionamenti.

Antonino Cremona

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Bisogna aggiungere che lo scopo di quel volume è la ricerca dell'identità, assolutamente ammirevole per il modo interdisciplinare assunto al

servizio di una storiografia totalizzante che utilizza i dati disponibili - scarsi ed evanescenti - giungendo a solidificare le nebbie. Infatti, il risultato

oggettivo è la precisione filologica a supporto di ragionamenti lineari (eppure motivati ampiamente) che trattengono il lettore nelle certezze e nella

lucidità delle ipotesi.

A p. 118 del libro su La montagna, Vito Tartaro dà conto di una particolarità del suo luogo: «Ram acca è sempre stata caratterizzata da una forte

immigrazione da tutte le province siciliane, nella quasi totalità rappresentata dal bracciantato agricolo. I nuovi venuti […] hanno anche portato, com' era

naturale, le loro consuetudini. Ma tutte queste culture diverse, pur convivendo pacificamente, non si sono mai fuse ih un'unica cultura locale con la

conseguente nascita di tradizioni peculiari. [...] a Ramacca si possono ascoltare un po' tutti i dialetti dell'isola - più marcatamente il ragusano,

l'agrigentino, l'ennese, l'etneo occidentale» [quanto all'agrigentino, quello di Licata e di Palma di Montechiaro] - però Ramacca «non somiglia

culturalmente a nessun altro paese, neppure a quelli più vicini».

In questa condizione linguistica, sarebbe stato delittuoso tralasciare i tentativi di fonografismo. Tuttavia, quest'altro libro non è ristretto in limiti di

folklore; anzi, vive una sua natura complessa per effetto di alcune circostanze che vi convergono.

Lo spontaneo svariare nei moduli metrici tradizionali attiva anche quelli del verso libero - ormai venuti anch'essi nella tradizione - con le inevitabili

effusioni ritmiche, timbriche, coloristiche. Al punto che la poetica è la forma stessa (non un abbandonarsi alle mode, del ritorno ai baci schioccanti nelle

rime) pure se percorsa da elementi contenutistici vigorosamente sociali, politici, etici.

Come sempre - quando è proclamato - l'ateismo rivela un senso di religiosità profonda, come in Mediu evu, più intrigante del risaputo «non

possiamo non dirci cristiani». Ed anche sostanze etiche dirigono le ansie di giustizia, le bordate politiche (all' apparenza veterocomuniste), il desiderio di

progresso - meglio sarebbe dirlo cambiamento e sviluppo - a favore della liberazione della persona. Le imprecazioni tragicamente blasfeme, consuete nei

canti popolari del Val di Noto e del Val dr Catania, (e i rosari impudenti dei contadini del Vai di Mazara) si mutano in incitamenti all' eticità laica.

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Certo, lascia gustosa ironia l'immissione di contenuti così gravi in cabalette alla Giovanni Meli. Bisogna dire che, in fondo, Meli se lo merita; anche

se non si può condividere l'astio per Antonio Veneziano, per Paolo Maura, per Miciu Tempiu, Martoglio, Alessio Di Giovanni, Francesco Guglielmino,

giacché si partecipa all'adesione di Vita Tartaro a Santo Calì e a Ignazio Buttitta.

Lo stesso Tartaro rende, peraltro, dubbiosi (e dev'esservi una delle sue ironie nell'articolazione del testo) che, a suo parere, la vera poesia - se non

induce alla rivoluzione politica - è una canzone scipita. Tanto che scrive le quartine di Megghiu mauru nnâ purrazza ca rassu nnd zammataria, e fra

queste una delle sequenze più efficienti della tipologia "racconto in versi":

N tuttuna un gattu russu

ccâ panza sdisiccata

vidennulu etta un savutu

e mmisca na vuccata.

Na vota di vih! vih!

tri corpa di gnam gnam,

na schigghia ccu zi zì

(significa mamà),

e Massariotu subbitu

spiriu non puzzu nivuru

ccu tutti i so furbizii,

ccu tutta a scienza so.

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Peraltro, nostalgiche luminescenze e tendenziali purezze intridono testi come Elegia ppi Turi Vizzini; o Muriri a Eryke; oppure

i versi liberi di Friddu. Naturalmente, noi non sappiamo cosa possa essere la poesia; ne conosciamo soltanto qualche conseguenza

(la poesia autentica induce una continua rivoluzione globale, non solamente politica); e, talvolta, ci riesce distinguere 'generi' di

versificazioni.

Muovendoci fra questi, spesso la burlante sferza di Vito Tartaro costringe al sorriso. Sempre, la musica delle strofe - e

dell'ottava siciliana, 'canzuna' per antonomasia - trascina in un variegato universo sonoro. Forse va data una precisazione:

personalmente, non siamo dei 'pentiti' del verso libero; e sappiamo quanta metrica - e 'quantità' - esso contenga, anche nelle

composizioni raccolte in questo libro; desideriamo dare testimonianza della straordinaria libertà con cui Vito Tartaro si esprime,

anche dentro schemi rigidi. Non vi è, dunque un suo passatismo; ma una musicalità intimamente connaturata.

Antonino Cremona

(Ateismo prim’e tuttu, Catania, stampato in proprio, 1990, pp. 5-7)

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PREFAZIONE

Vito Tartaro con «Lu friddu di la storia» riapre un discorso che la

poesia siciliana ha lungamente trascurato, pur alimentandosi di umori che

percorrevano il sottosuolo di una umanità oppressa dal bisogno e violentata

dalla forza di re o tiranni, vescovi o baroni.

C'è stato venti anni fa un tentativo «culto» di ridare alla storia un

ruolo preminente nel contesto di presagite riparazioni civili. L'ha compiuto

Santo Calì. Ma il suo era il tentativo di insinuare il senso mitico e

leggendario della storia fra le pieghe dei sentimenti della povera gente, che

finiva per diventare una misterica e liturgica perpetuazione del passato, una

rimemorazione fortemente nostalgica di creature circonflesse in una

indignazione inerme, un repito struggente, un ripensamento doloroso, la

prorompenza angosciata di una visionarietà che cercava un riscatto

insurrezionale in una temporalità omerica, incagliato com'era il Calì nella

fervorosa militanza in un partito che agitava selve di bandiere rosse mentre

inflaccidiva i muscoli della coscienza operaia e contadina. E quando stava

per disincagliarsene lo colse la morte e se ne spense la voce.

Vincenzo Di Maria

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Discostandosi da medesime determinanze di carattere partitico, Vito Tartaro sta risorgendo a nuova vita intellettiva e tende a sottrarre la storia al

mito per confrontarla ad un presente gravido di evenienze che hanno nomi, date, cifre di pronto riscontro con la realtà, e richiede vigorose denuncie,

acuminate accuse, inflessibili condanne. Non sono più quelli generici dei nannavi e catannannavi di trapassata memoria - insorgenti quali fantasmi contro

il gigantesco apparato del potere - i motivi che in atto agita Vito Tartaro, ma sono formidabili creatività trasgressive che luciferinamente si ergono a

sbarrare il passo all'ipocrisia, alla menzogna, all'avidità, alla corruzione, con aperta e spavalda tracotanza di libero verseggiatore. Divincolatosi dalle

remore degli assiomi irrefutabili, Tartaro spezza le catene che sottopongono il singolo alle ordinarie gerarchie e drizza la sua eroica sintassi locutiva

contro le avvilenti storture con cui i sistemi capitalistici imprigionano le masse dentro gabbie di obbligazioni legali, dove di giusto e di morale non è

rimasta traccia.

Giustizia e non pietismo, solidarietà e non carità, appagamento egualitario e non abuso di esubero, sono i postulati su cui si fonda l'antiteticità di

Tartaro, che si epicizza quando si scaglia contro tutte le confraternite politiche e religiose dominanti.

Superato, come auspicavamo, il condizionamento al fonografismo, il verso gli scalpita sotto la penna e galoppa con i ritmi di una foga pugnace, che

vibrano dei toni di un linguaggio esplodente in aggettivazioni di poderosa solarità siciliana, ché la Sicilia rimane pur sempre al centro di una universalità

incompiuta nella dimensione degli estremi risanamenti del creato.

Ne sortisce una poesia che non si priva del coraggio di amare con l'impeto anarchico di un cuore che pulsa schiacciando ogni balordo ideologismo

per esaltare il bene anche laddove esso è destinato a marcire sotto la soffocante influenza delle forze occulte del soprannaturale. Vi è, infatti, in «Teresa di

Calcutta» un intimo affiato di amore per colei che cura la carne infetta e macerata di ignoti fratelli, in cui per Tartaro risiede «lu disideriu di l'eternità / ca

batti a primu battitu di cori», che gli fa gridare «Ti vogghiu beni, Teresa», di un amore che è sorgente di ribellione nel considerare «Ma chissi / sunnu

morti / ammazzati di liggi ca cunsenti / d'aviri troppu o non aviri nenti». Un grido che diviene credo, nel momento stesso in cui la denuncia preannunzia

la capacità umana del rispetto e della salvaguardia di creature soggette ad un soffrire senza speranza. Sicché il poeta ha buon motivo di rimpiangere il

«poviru miricanu senza storia» alla stessa maniera in cui compiange la brutale condanna del «poviru Galileu» che era «torcia addumata / quannu lu scuru

non aveva funnu».

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Fra coscienza e inconsapevolezza si muove dunque la specie umana, in una alternanza letalmente manichea e senza scampo per chi soggiace a

norme e leggi ineluttabili, che non trovano sbocco fuori dal dover soccombere alla crudeltà degli egoismi inestinguibili. Ed è proprio all'annullamento

della malintesa indispensabilità del soffrire che converge la poesia di Tartaro, nella certezza che una suprema verità sia in grado di sommuovere e

travolgere ogni ostacolo, perché la volontà insita nell'uomo è più forte di ogni presunta immutabilità. In questa ottica il destino si può sovvertire e nulla

impedisce che l'uomo si divincoli dagli obblighi della sopportazione infinita, per operare il miracolo dell'eguaglianza, stracciando ogni carta di

subordinazione al male eterno.

Quella sorta di meschino ideologismo, che induce a cavillare sul tanto quanto e fa ricorso ad un illusivo al di là, è il muro che Tartaro si propone di

abbattere, un muro sul quale la storia s'imprime e illividisce, congelando tutti gli orrori che l'hanno vista crescere stratificandosi in una sola

incommensurabile menzogna: che l'invisibile crei e dia ordine al visibile. E, dunque, ciò che potrebbe sembrare una focosa testardaggine, predicazione da

capopopolo, è invece struggente appellazione di una interminata dignità, al cui acquisto si protendono miliardi di formiche pensanti, affamate e abbrutite

dalla concupiscenza, dall'avidità, dall'avarizia, dalla sanguinaria sopraffazione.

Secondo il mio modesto vedere, quella di Tartaro è poesia di veggente-credente, che perfora e scandaglia le viscere della tolleranza nel disperato

tentativo di trovarvi un quid a cui ancorare un'esistenza che non sia squallida negazione dell'essere. Non si spiegherebbe altrimenti come un ateo

dichiarato possa cantare per Teresa di Calcutta e per «Cicciu d'Assisi», percorrendo i labirinti della storia sicula e segnando i punti nodali delle

rigenerazioni delle divinità. Le suggestioni che il meglio delle religioni naturali ha prodotto sono in Tartaro vivissime, e dunque il suo gridare nel deserto

delle perigrinazioni spirituali proviene da echi assai lontani. E lo rivela a proposito delle allucinazioni panteistiche di Francesco: «pridicari all'aceddi, / lu

lupu fari manzu, / non è sdunari di la fantasia».

Non vorrei sembrare esagerato, ma intendo dire senza riserve che in questo momento nel panorama della poesia in lingua siciliana Vito Tartaro

occupa un suo univoco stallo senza dividerlo con alcuno. Il suo empito è unico e la sua passione umanitaria bruciante, densa di sieri vulcanici, che

traboccano e si riversano sulla pagina con inesausta energia.

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E non per fredda architettura letteraria, ma per accensione scaturita dai fermenti della realtà di ogni giorno, come vediamo riverberarsi nella

composizione «Lu Diu di Diu», dove si riassume, come nei poemi di araba medievalità, quanto è accaduto e sta accadendo nell'Unione Sovietica, in

Medio Oriente, negli USA, nell' America Latina, in Israele, in Palestina, in tutte le parti del globo e qui in Italia, chiamandoci a raccolta (Di Maria,

Buttitta, Cremona, Calì, Lima, CamilIeri) per un consulto sullo stato di anemia perniciosa che ci ha tutti colpito nel rinunciare al grido, alla lotta, alla

rivolta. La nostra giovinezza, infatti, è venuta rattrappendosi in arzigogoli di planetarie plenitudini paghe di palliativi vanitosi, di fronte all'irreparabile

orridezza di un domani precipitato in un abisso di straziante liquaminoso disfacimento.

Immagine tragica dell'orrore in cui la storia si dibatte portandoci spavento, anche se alla nostra età «scantarisi è virgogna; / e mi virgognu, ma mi

scantu, / mi scantu di l'America, / di la dimucrazia di li miliardi, / di lu cuvernu di li riligioni, / di li carrabbineri di lu munnu».

Del resto, le motivazioni dell'accorato appello di Tartaro si accompagnano ad un secco lucido conteggio tra causa ed effetto, espresso in «Facitimi li

cunti», dove assurgono a taciti protagonisti i centomila irakeni sacrificati all' orgia di interessi della plutocrazia mondiale, già larve dimenticate, che

hanno ceduto il posto ai kurdi, i quali attendono di passare il «testimone» a chissà quali altri infelici. Essi proseguono la interminabile processione dei

popoli schiavizzati e massacrati in ogni età e in ogni parte del mondo da faraoni e imperatori; e con i servi della più remota antichità sfilano gli indiani

pellerossa dell' America del Nord, i disintegrati di Hiroshima e Nagasaki, i Vietcong e i figli di «Mamma Palestina». E come idolo smisurato e funesto

campeggia all'orizzonte il feticcio di una falsa libertà bugiardamente conseguita; mentre quella vera, da venire, se evocata con sincero amore, sorge

dall'angolo buio in cui è stata relegata dai sacerdoti della menzogna e riacquista la sua pura immagine.

Nei suoi sortilegi di lirica magia, Tartaro la identifica ad Ipazia d'Alessandria, la saggia filosofa sostenitrice del libero pensiero, rimasta vittima nel

415 di fanatici monaci istigati dal vescovo cristiano Cirillo, che ne dilaniarono l'avvenente corpo con furibondo belluino sadismo, perché - come scrisse

Chateaubriand - la vergine donna era creatura celeste, che viveva in compagnia degli astri e ne diffondeva lo splendore sulla terra. Nella sua fine cruenta

Tartaro scorge l'assassinio della ragione, iniziato da quando Costantino fece del verbo del Nazareno uno strumento di vendetta e di persecuzione.

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Nella selvaggia soavità dei versi a lei dedicati, il poeta dimentica il Cristo della insurrezione popolare, il tremendo poeta punitore di delitti dalla

barba arsiccia e incolta, il logoro vagabondo dagli occhi azzurri allagati di cielo, che frusta i mercanti del tempio e insegna che l'uomo è l'unico Dio di se

stesso. E forse questo è il significato finale che si rivelerà a Tartaro nell'ultimo cerchio delle sue peregrinazioni storiche: l'immensa verità che secoli di

potere hanno celato, cioè che Cristo è stato il primo e più fiero ateo dell'umanità, a dispetto di tutti gli stravolgimenti operati dai farisei di ogni tempo.

Quando a questa estrema visione di consapevolezza Vito Tartaro sarà giunto - e dovrà certo giungervi -, allora i temi del suo cantare, i personaggi,

gli eventi, le riflessioni, le conclusioni coessenziali alla sua poesia, diverranno luce viva di una fiaccola per illuminare il futuro, su cui si stanno

addensando le peci di un oscurantismo mostruoso. Sono tenebrori che soltanto il poeta può e deve squarciare, perché un poeta è tale se si lascia rapire

dalla follia di credere che albe e tramonti sono tutt'uno dentro la sfera del sole.

Per il momento Tartaro ha vinto il primo round, completando questa raccolta mentre sopravvive ancora in me la ragione di essere. Ne vincerà un

secondo se vorrà riflettere sull'invito a riappropriarsi del Cristo che non disse mai «Date a Cesare quel che è di Cesare», ma affermò che «Cesare non

deve possedere altro che se stesso, come il più povero degli esseri umani, che povero non è se non può essere ricco».

Vincenzo Di Maria

(Lu friddu di la storia, prefazione di Vincenzo Di Maria, Catania, C.U.E.C.M., 1992, pp. 7-12)

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Leggere un autore significa: cercare di conoscere la sua mentalità, la

sua personalità, scoprirne ogni pensiero, ogni verso nella sua individualità

e stretta coerenza, nella sua unicità.

Ho letto due testi di Vito Tartaro: «La Montagna di Ramacca e

l'antica città di Eryke» che ho molto apprezzato per l'amore e l'intelligenza

con la quale l'autore ha affrontato questo tipo di lavoro di ricerca storico-

archeologica; e «Ateismu prim'e tuttu», poesie in dialetto, sul quale mi

sono soffermata amichevolmente. Non propinerò pareri tecnici sul libro

dal momento che l'autore mi ha chiesto solo di soffermarmi su una poesia

di prossima pubblicazione, ma voglio solo dire a Vito, con le parole di un

autore che amo moltissimo: «Ci sono delle contadine che possiedono e

conoscono soltanto la Bibbia, e che hanno tratto più costrutto, più sapere,

conforto e gioia, di quanto un qualunque ricco viziato può trarre dalla

propria preziosa biblioteca... Non si conclude nulla stigmatizzando la

guerra, la tecnica, la febbre dell'oro, il nazionalismo. Bisogna instaurare al

posto degli idoli, una fede». (Hermann Hesse, «Letture da un minuto»).

lo chiedo a Vito: possibile che non abbia ancora scoperto il suo

«Atmam»?

E andiamo alla poesia «È sempri un monicu a tradiri»: cinquanta

versi dei quali una quarantina di endecasillabi sciolti con qualche rima

alternata o baciata, il resto settenari e una quartina di decasillabi a rima

incrociata con l'unico enjambement di tutta la poesia. Con il bisillabo

precedente formano i versi più belli di tutta la poesia:

Quannu ha truvatu chiddu ca circava

u cori non va cchiù ppi cuntu so.

E diventi na fogghia liggera

cunnuliata do ventu ppi mari,

ppi muntagni e unni passi scumpari

friddu e cavudu e c'è primavera.

Altri due versi ci trascinano col tempo, inesorabile:

Jurnati ca ssicutunu nuttati,

nuttati ca ssicutunu jurnati...

Lia Mauceri

LU FRIDDU DI LA STORIA

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LU FRIDDU DI LA STORIA

Ma anche i primi due versi hanno una forza particolare che sa di dolce e... di duro, così come in fondo mi sembra il nostro

Tartaro in tutta la sua poesia, nell'immagine, nel nome stesso.

C'è nella poesia di Vito Tartaro un tentativo di rinnovamento? Vedremo. Intanto, al di là della ideologia che non condivido con

l'autore, trovo in lui un tipo di sensibilità sottile, quasi discreta ma che diventa un grido di gabbiano alla luce dell' Amore.

Lia Mauceri

(Lu friddu di la storia, prefazione di Vincenzo Di Maria, Catania, C.U.E.C.M., 1992, pp. 16-17)

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LU FRIDDU DI LA STORIA

Le rivisitazioni storiche cui ci ha abituati Vito Tartaro hanno il pregio di scorrere su un piano totalmente autonomo rispetto alle «storie» ufficiali

che sogliono raccontarci scrivani del potere e menestrelli ammaestrati. In questa «storia curta» della Democrazia Cristiana, laddove altri avrebbero

intessuto le lodi del fitto albero genealogico DC, Tartaro, con lingua schietta e tagliente ei porta fin dentro il ventre della balena, riesce addirittura a farei

condurre per mano da un bracciante agricolo, che ci spiega la funzione della classe media, motore del sistema-DC; classe media e «mafiusi nobili / cchè

cosci ncravaccati», ovvero l'alleanza storica tra ceti medi e classe agraria, tra mafiosi e imprenditori, in una...rima: «latri, malantrini, ruffiani, manciatari,

sbirri e parrini».

«La Politica» di Aristotele è così la vera Bibbia di don Sturzo, fondatore del PPI antesignano del partito democristiano; ma l'autore non ricorre ad

un classico per sciorinare conoscenze da invetrinare; cita il «filosufu fallutu» perché la storia della DC non si ferma, a ritroso, a De Gasperi o Sturzo, ma

scivola via in quella dei poteri, nella filosofia e arte del governare, nella pratica dello sfruttamento; e se qui è storia «curta» è solo per necessità di sintesi:

in realtà è lunga e antica quanto il mondo.

La parentesi anticaltagironese non inganni, inducendoci a pensare a campanili da difendere; il rischio è evidente; anche a Caltagirone però - come

ovunque - sfruttati e sfruttatori si combattono da lunga data. Il luogo, per le vicende storiche citate da Tartaro, e per aver dato i natali a nefasti personaggi

forti a noi vicini (Sturzo, Scelba, Milazzo...) è assurto a simbolo di tradimento, voltafaccia a favore di invasori vari, culla infelice di machiavelli e

manganellatori di Stato, tanto che non si può sfuggire alla tentazione.

Le rime in sequenza sembrano strappate alla bocca dai fatti, meditate e trasportate sulla carta dalla matita dell'esperienza, e nel loro scorrere

trattengono tra le righe un messaggio: sottrarsi al rischio di morire democristiani. E le strofe di apertura e chiusura, nel loro quasi pessimistico insistere, e

nella differenza sottile voluta dall'autore (da «A storia HA STA TU storia» a «a storia RESTA storia») in effetti un percorso ce lo indicano, e non è quello

della rassegnazione, ma quello dello sforzo collettivo necessario per ribellarsi e liberarsi dei vari Cracchisi, Gava, Razzinghèr, e delle stampelle che i vari

Occhetto e predecessori gli hanno offerto.

Pippo Gurrieri

(Lu friddu di la storia, prefazione di Vincenzo Di Maria, Catania, C.U.E.C.M., 1992, pp. 21-22)

Pippo Gurrieri

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LU FRIDDU DI LA STORIA

Ho qui sul tavolo una poesia, «Teresa di Calcutta», di Vito Tartaro, e devo dirne qualcosa, a prescindere da ogni riferimento ad altre poesie coeve

dello stesso autore che non ho.

Ma uno come me che, a torto o a ragione, si affoga il diritto di essere, o di considerarsi, uno strutturalista, può giudicare isolatamente una poesia,

cioè un elemento della struttura, senza tener conto della totalità della struttura stessa?

«Teresa di Calcutta» non nasce all'improvviso, è in relazione con altri elementi, cioè con altre poesie, che nel loro insieme costituiscono la totalità,

cioè la struttura, totalità che non ho la possibilità di ricostruirmi per via deduttiva. L'unica possibilità che mi viene data è quella di rifarmi a una

precedente struttura, al volume di versi, cioè, che Vito Tartaro ha pubblicato nel 1990.

In che rapporto sta «Teresa di Calcutta» con «Ateismu prim'e tuttu»? Direi in nessun rapporto. Quando viene meno un elemento della totalità, o si

trasforma per accidente, la struttura subisce una autoregolazione che consente, a chi giudica, di valutare il tipo di trasformazione che ne consegue.

Eppure, nonostante la difficoltà oggettiva, credo di aver individuato il percorso che mi porta alla identificazione delle trasformazioni tra la vecchia

struttura e il nuovo elemento.

Stampato il suo precedente libro, Tartaro ha fatto molti incontri, alcuni nuovi, altri sono incontri fino a un certo punto, è meglio chiamarli

rivisitazioni, cioè approfondimenti di vecchi incontri. Uno di questi incontri nuovi riguarda me, non me poeta, ma me divulgatore di poesia. E, senza

voler essere presuntuoso, debbo dire che questo incontro ha costituito per la struttura della poesia di Vito un elemento perturbatore, tale da incidere in

profondità e da determinare una trasformazione notevole, e di conseguenza una autoregolazione, se non altro formale, koineistica. Infatti la sua nuova

poesia, rispetto alla vecchia, non è più appesantita da forme, costruzioni e contrazioni locali.

Salvatore Camilleri

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LU FRIDDU DI LA STORIA

Ma l'incontro con me non spiega tutto; qualcosa d'altro è certamente avvenuto nella fenomenologia poetica del Tartaro, qualcosa che forse è una

conseguenza dell'incontro con Santo Calì, magari con la mediazione di Salvatore Camilleri. Fin qui, se il discorso fila, sono stati gli incontri con gli altri

che hanno contribuito alla formazione di quella struttura che possiamo chiamare del secondo Tartaro. Se prima era Ignazio di Bagheria che aleggiava

attorno alla sua poesia, ora è Santo di Linguaglossa. Ed è proprio con questa presenza preponderante che si legge «Teresa di Calcutta», con la presenza

stornante di Santo Calì.

Ma ora basta!

Vito Tartaro ha incontrato Ignazio Buttitta, ed ha incontrato Santo Calì, incontri che gli hanno insegnato a camminare; ora è necessario che incontri

se stesso, condizione indispensabile affinché si passi dallo status di poetante allo status di poeta. Occorre una ristrutturazione, termine che i russi

traducono con perestroika, nella quale gli elementi non debbano più richiamare Buttitta o Calì, ma solo Vito Tartaro, ed io sono convinto che ciò avvenga

perché Vito ha fuoco e intelligenza, elementi indispensabili alla nascita di un poeta.

Salvatore Camilleri

(Lu friddu di la storia, prefazione di Vincenzo Di Maria, Catania, C.U.E.C.M., 1992, pp. 32-33)

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LU FRIDDU DI LA STORIA

Caro Vito, dalla primavera mi rigiro il testo fra le mani ogni tanto - però non riesco a scrivere la nota che desideri.

Verrebbe facile a chi fosse pronto ad afferrare tutte le sfumature, e a distinguere ogni componente dell'insieme (persino i suoni apparentemente

suoi); ma la vita ha ucciso Santo Calì, e ormai da anni non può mandarti un commento a «Cicciu d'Assisi»: può scriverti con le cose che ha già scritto. Lui

potrebbe fare una nota al tuo testo.

L'ho letto in aprile, ma lì discorri di marzo - pure se riconosci marzo 365 volte all'anno - e neppure mi aiuta questo 16 dicembre, anche se da giorni

pare tramontana questo gelo ai piedi (e alle mani, alla mente) e ogni ora di dicembre, tu dici, è di marzo. Spero che veramente sia alba di marzo.

Correndo, scansandomi fra le carte e gli autobus e gli aerei, con pacatezza - scusando mi per i miei affanni - posso riferirti solamente che la sintesi

dei miti cristiani e pagani (anche arcaici) è lucidissima ed estrema; il rosso francescano non è più ovvio, nei tuoi versi; la riflessione - sull'epoca presente,

sul mondo, sull'uomo, e dunque per necessità sui tempi passati - consustanzia le stagioni, e il clima dell'animo, in un storicità dialettica di molto stimolo.

Personalmente, conosco la disa; come ho scritto, e ti sono grato per la conferma, è l'erba che lega l'uomo al cielo non metafisico: quello ch'è fatto

degli apici delle lotte, e dei pensieri filosofici. Animo, dunque, non anima; siamo qui ancora ad impararlo, pure se Empedocle ce l'ha mandato a dire tanti

secoli addietro.

Giacché ti conosco (so la tua lestezza intellettuale, quella congiunzione all'inizio del quarto verso e del penultimo ne è il segnale preciso) ho il

sospetto che magari pubblicherai questo biglietto come se fosse una nota al testo, sollevandomi dal cruccio di esserti rimasto in debito. Intanto, ti

abbraccio con Cicciu e gli altri amici.

Antonino Cremona

(Lu friddu di la storia, prefazione di Vincenzo Di Maria, Catania, C.U.E.C.M., 1992, pp. 41-42)

Antonino Cremona

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LU FRIDDU DI LA STORIA

Il corso della storia - casuale e capriccioso come il vento - è il punto di partenza, il pretesto, per questa «Littra scantata». Il

poeta ripercorre velocemente le tappe di quella mappa del potere su cui sono segnati i fatti e i misfatti delle civiltà imposte con la

persuasione della convincente forza delle armi: dalle frecce egizie alle bombe atomiche americane, un susseguirsi continuo di

violenze con cui il vento, «pazzu comu la furtuna», ha scelto, di volta in volta, i dominatori del mondo e della storia.

C'è, nella poesia di Tartaro, una dolente e rabbiosa denuncia contro lo strapotere della forza esercitato spudoratamente in nome

di quei falsi ideali di libertà con cui viene portata avanti una politica di oppressione, di stragi e genocidi.

Formalmente la lirica si avvale di un lessico vivace e puntuale e di una struttura metrica che sfrutta le numerose possibilità

ritmiche dell'endecasillabo anche quando questo viene spezzato in due (e, una volta, anche in tre) parti delle quali non sempre il

punto di divisione coincide con la cesura che separa i due emistichi.

Rino Giacone

(Lu friddu di la storia, prefazione di Vincenzo Di Maria, Catania, C.U.E.C.M., 1992, p. 64)

Rino Giacone

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LU FRIDDU DI LA STORIA

Nel 1949 (quattro anni dopo Hiroshima e Nagasaki) si diffuse, cioè venne propagandata nel mondo la litografia di Picasso con la famosa colomba

della pace. Avevo allora ventisei anni, ero (come sono ancora oggi) pacifista e anch'io composi (in siciliano) una poesia dal titolo Particiani di la paci.

Di modo che potrei benissimo dichiararmi d'accordo con Vito Tartaro su molti dei suoi temi e, particolarmente, su questa (ricorrente) terribile

contabilità.

Tuttavia (e qui scatta un serio discrimine) in arte non si può assolutamente eludere il problema formale, il come, sicché l'aspetto tematico (quale che

sia il suo valore, diciamo, etico) passa decisamente in secondo piano insieme con la mia simpatia ideologica nei confronti dell'autore.

Questo problema ce lo ponemmo anche noi (la «generazione della libertà», com'io la chiamo), pur operando allora tutti nell'area dell'impegno (che

in quegli anni proprio J.P. Sartre escludeva per la poesia: «I poeti sono uomini che rifiutano di utilizzare il linguaggio», in Che cos'è la letteratura?, oggi

presso Mondadori, p. 48), ce lo ponemmo nei modi (e nelle soluzioni) ormai documentati.

Penso quindi che il tema debba in ogni caso affondare nella struttura formale e perciò trovo la poesia di Tartaro un po' troppo sbilanciata sul

versante tematico.

Allora preferisco anch'io come Antonino Cremona le «luminescenze e tendenziali purezze» di Elegia pi Turi Vizzini, Muriri a Eryke e Friddu.

Ma questa è la mia prospettiva estetica, in cui per giunta trova luogo anche il truismo: «Ognuno può assegnare alla sua propria opera poetica la funzione che crede», purché tenga

almeno presenti le Cinque difficoltà di Bertolt Brecht. Il resto, certo, è una canzone scipita.

Paolo Messina

«Facitimi li cunti» è una bella poesia: in cui l'elemento civile della protesta si carica insieme di umana pietà e di grande sentimento lirico.

Emanuele Gagliano

(Lu friddu di la storia, prefazione di Vincenzo Di Maria, Catania, C.U.E.C.M., 1992, pp. 72-73)

Paolo Messina e Emanuele Gagliano

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Salvatore di Marco

PREFAZIONE

Il poeta Vito Tartaro, nel consegnarmi questa sua ultima (nuova)

raccolta di versi siciliani invitandomi a scrivere, in caso di pubblicazione in

volume, una nota introduttiva o di prefazione, non ha voluto porre, assai

generalmente, limiti alle mie pagine. Ed io di questo gli rendo un pubblico

ringraziamento, non solo e non certamente per il fatto che così mi è

concessa la libertà piena di esercitare a mio migliore agio quell'estro critico

ch'egli pensa che io possegga stimolato dalla lettura dei suoi versi, (cosa che

effettivamente mi è successa anche se il mio estro critico è tutt'altro che

eccellente), ma pure e principalmente per la ragione che la poesia di Vito

Tartaro oggi merita - per la qualità delle prove letterarie che ha saputo ben

dare - di essere ampiamente meditata e valutata. E non da chi ha, come me,

così poche cartucce da sparare.

Tuttavia, io debbo deludere il caro poeta di Ramacca perché non ho

mai pensato che il luogo di una prefazione specialmente per un libro di

poesie - sia quello di un saggio critico. Almeno per casi come il presente. Si

tratta - a ben pensarci - di due occasioni e di due "generi" assolutamente

diversi tra di loro e di diversa funzione letteraria. Non mancheranno le

occasioni, in altra sede e in altro tempo, per affrontare criticamente l'opera

poetica di Vito Tartaro nel suo insieme, nella sua "atipicità" si potrebbe

aggiungere, e in ciascuno dei volumi che egli ha pubblicato. Un esame

comparativo non sarebbe inopportuno perché si colga il dato continuativo

dell'opera di Tartaro, ciò che ne costituisce la incancellabile identità

ideologica, umana e poetica, e allo stesso tempo quei dati di novità per cui

ogni libro è diverso dal precedente e non si ripete. Ma non è tema che possa

con comodo essere sviluppato in questa occasione anche se rimane un

suggerimento da non dimenticare.

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Vito Tartaro, come si sa, è autore di libri già noti come La Montagna di Ramacca e l'antica città di Eryke, a testimoniare la conoscenza amorosa e

crescente della sua terra natale, nonché di raccolte di poesie dialettali come Ateismu prim'e tuttu e Lu friddu di la storia. Su queste opere e già disponibile

un'ampia bibliografia critica (mi si conceda di omettere qui di citare il nome di tutti quegli studiosi e di tutti quegli scrittori che si sono, occupati della

poesia di Vito Tartaro). E anch'io, che quei libri del poeta di Ramacca ho letto e conosco assai bene, debbo resistere alla tentazione forte di profittare di

questa occasione per predisporre un saggio critico ampio e completo. Per esempio, in Sicilia c'è vivo un filone interessante che riguarda la poesia

dialettale religiosa. E non mi riferisco - come subito si potrebbe pensare - alla tradizione popolare, a quella religiosità popolare che s'è fatto canto, ottave,

rima e versi in mezzo al popolo delle nostre campagne. Ma penso alla poesia dialettale culta, ad autori, solo per fare alcuni esempi puramente indicativi,

come Alessio Di Giovanni, o come Vincenzo De Simone oppure come Giuseppe Ganci Battaglia col suo poema postumo su Cristo. E in questo quadro c'è

riconoscibile una linea francescana che è ricca di opere significative, alcune delle quali dei veri gioielli della nostra letteratura dialettale. Basti pensare

all'influenza esercitata dai Fioretti di San Francesco. Una più approfondita analisi di questo fatto forse ci indurrebbe a non trascurare la tradizione - sia

pure in chiave mistica - di affinità tra la figura umana del poverello d'Assisi e le condizioni di vita dei tanti "poverelli" delle nostre terre. Ma non è di

questo che desidero qui occuparmi, voglio semplicemente osservare che appare più labile - forse inesistente per quello che io ne sappia - un filone di

poesia dialettale in Sicilia che, al di là di una certa laicità generica, si impegni sul terreno aperto della vocazione ateistica, della negazione religiosa e

spirituale, di una certa "poetica del materialismo"; cosa, fra l'altro, assai diversa rispetto ai temi dell'anticlericalismo storico che hanno sia pure raramente

contagiato aree periferiche della poesia dialettale siciliana. Ecco, questo della vocazione ateistica è uno spunto che vorrei approfondire nella poesia di

Vito Tartaro, attenendomi naturalmente ad un punto di vista strettamente letterario. E' tanto evidente questo elemento in Tartaro per non lasciar pensare, a

chi come me spesso cerca la verità al di là delle evidenze; che la posizione spirituale del poeta sia assai più complessa rispetto ai contenuti della sua

opera. Ma non oso andare oltre quest'accenno: il poeta va preso in considerazione per quello che è e non per ciò che della sua opera è frutto di una nostra

interpretazione. Nè è facile mai decodificare vicende spirituali in sede letteraria senza correre il rischio di cadere nel facile psicologismo. Infatti - è ovvio

- quel che ci interessa sostanzialmente è riconoscere nell'opera letteraria il poeta e i suoi connotati nel rispetto pieno della sua concezione del mondo e

della vita.

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E altro ancora mi interessa della poesia di Vito Tartaro: la sua grande passione civile, il suo rapporto fortemente critico con i fatti storici del

mondo contemporaneo, con i mali dei nostri tempi, con le grandi ingiustizie sociali. E da qui risalire al suo umanesimo, al suo profondo rispetto per

l'uomo che lavora, che è sfruttato, che lotta contro la miseria, per la dignità umana e per la vita. E' da qui, direi, che scaturiscono non solo il suo essere

poeta, ma l'eticità dell'esserlo, la forza morale e ideale del suo impegno letterario, quel suo modo originale e personale di essere poeta e scrittore: e non

dalla sua rabbia sociale, dal suo sogno di cambiare il mondo, che ne sono semmai la conseguenza. Ma affinché questo discorso possa essere ad agio

sviluppato occorre - è evidente - molto di più che una semplice prefazione, la quale come si sa ha limiti di temi e d'impostazione che io intendo rispettare.

Il lettore da una prefazione si aspetta in primo luogo conoscenza e informazioni essenziali sui contenuti e sulla struttura di un'opera, si aspetta

notizie sull'autore e sul suo stile, soprattutto sul significato dell'opera. E tutto in chiaro linguaggio. Le valutazioni critiche e i giudizi li trarrà per proprio

conto, e questo è un fatto di libertà; è questo, per altro, il momento terminale di quel dialogo fecondo tra l'autore e il lettore, tra il testo letterario e chi

legge, tra un codice di scrittura poetica e la decodificazione del ricevente: ed è tutto ciò che il prefatore deve riguardare come un terreno a lui estraneo.

Perciò, prima di concludere questa mia nota, il lettore abbia la pazienza di seguire qualche mia parola, appunto, sul contenuto di questo nuovo libro di

Vito Tartaro.

Ecco qui riuniti insieme poco più di una trentina di componimenti in dialetto siciliano, ma più esattamente nella parlata di Ramacca, così dolce e

musicale nella pronuncia della gente del luogo, che però nel verso di Tartaro spesso si fa asciutta ed amara. E' la parola del poeta che diventa talvolta dura

e dissonante, tal altra secca ed essenziale quando "narra" le condizioni di vita della povera gente, quando denuncia i mali sociali e condanna ogni violenza

dell'uomo sull'uomo. Leggete la poesia Turnati a essiri cristiani e troverete subito (come del resto negli altri componimenti) un linguaggio (non parlo più

del dialetto in quanto tale, ma dell'atteggiamento linguistico del poeta) aspro, ironico e rabbioso. Il poeta si rivolge ad una vedova della mafia e coinvolge

subito in tono accusatorio tutto il sistema dei poteri costituiti, quel sistema che per autolegittimarsi eticamente s'è ammantato di cristianesimo, forse di un

cristianesimo di comodo o di facciata, attuando - rispetto al cristianesimo delle origini - un enorme, secolare tradimento storico: un tradimento di cui

anche la Sicilia è stata ed è una delle vittime più tormentate.

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Seguono però quattro componimenti dedicati alla "carusanza" dove il temperamento lirico di Tartaro rompe gli argini e s'espande:

Ch'eranu russi li to labbra, Rosa,

sutta la luna china ca sbiancava

la pagghia nova e scura di li favi

mentri lu çiumi duci e tradituri

cuntava stori avvèniri a culuri!

La forza di Tartaro poeta è - a mio avviso - qui, in questi componimenti che sanno ritrovare l'intensità del canto interiore, la freschezza e

l'autenticità dei sentimenti, la malinconia delle memorie, i colori discreti della nostalgia, e forse la speranza dell'oggi nel domani. E poi la tastiera, il

ventaglio dei motivi ispiratori nella raccolta di poesie si allarga, le occasioni si moltiplicano. Ecco allora il cuore grande del feudo siciliano, anima della

storia di Sicilia e della sua drammatica civiltà. Ed ecco ancora un paesaggio (non ce ne sono molti nella poesia di Tartaro, piena anche di uomini e di

terre) di alberi e di colline, di stagioni e di frutti della terra, di sole e di sudore umano, segno della fatica e della pena. Poi la parola del poeta si rivolge a

Papa Giovanni Paolo secondo, ai temi del nuovo catechismo, e ad altre occasioni di critica severa alla Chiesa cattolica, al cristianesimo con il volto dello

instrumentum regni, tant'è che sorge l'impressione (almeno in me, chè solo di me faccio testimonianza) che al di là del muro ci sia nel poeta, implicito

forse, il ricordo del primo cristianesimo dei martiri che s'opponevano e che contestavano, che respingevano nel nome di Dio le violenze del potere di

Roma, di un paganesimo ch'era solo sopraffazione e persecuzione; ed è implicito - così a me parrebbe - quel cristianesimo della Croce che resta un

messaggio d'amore e di solidarietà. E ciò indipendentemente dal fatto che il poeta abbia o no il dono della fede (e non ce l'ha) e creda o no nella

trascendenza divina, che abbia o no una o l'altra idea di Dio. Ma io non vorrei insistere oltre su questo motivo, così ricorrente nella poesia di Vito Tartaro.

Accettare o respingere la sua poesia per la sua connotazione ateistica, per la sua polemica contro il cristianesimo, a me non pare nè la cosa più importante

di un discorso critico su Vito Tartaro poeta, nè un atteggiamento che sfugga al rischio d'essere fuorviante per un giudizio obiettivo e sereno sui valori

letterari dell'opera poetica.

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Vero è che non possiamo separare il poeta dalle sue idee d'uomo nella società del suo tempo, ma è pur vero che ideologia e poesia hanno in fin dei

conti specificità e ruoli distinti. Perciò vorrei riferirmi anche al tema di Ninu Sapuppu in cui il poeta dice che la poesia è quella che si fa con la mano, con

il cuore e con la parola. E' poesia nella bellezza della natura ma lo è pure nelle sofferenze dell'uomo e nella sua lotta secolare contro l'ingiustizia e le

alienazioni. La poesia, in definitiva, è

quannu ti nsonni sempri

lu stissu sonnu:

ca l'umanità

campa senza suffriri

mancanza di giustizia e libirtà.

I riferimenti, per un verso al Gesù contro i dottori, al Gesù della Croce, e per altro verso alla "utopia", al sogno di Marx dell'uomo totale che nelle

pagine giovanili dei Manoscritti economico-filosofici del 1848 viene immaginato in viaggio verso il regno della libertà dove non esistono più le

alienazioni, e quelle "miserie religiose" come segni delle miserie sociali, sono un passaggio - a mio avviso - obbligato. E' quel sogno che in Sugnu pazzu è

la "follia" di chi ha un ideale alto di vita e lo trasferisce nella poesia.

Tant'altro, leggendo le poesie di Tartaro, si potrebbe ancora dire. Ma qui voglio solo cogliere ciò che a me pare essenziale nel poeta, in un poeta che

provoca, che fa discutere, che suscita passionalmente adesioni e rifiuti, consensi e divergenze, entusiasmi e polemiche, ma che - per qualità del verso e

per arte della parola - è e resta poeta vero e schietto: un poeta che occupa un posto tutto suo nella storia della letteratura dialettale siciliana di questo

Novecento che ormai volge al termine.

SALVATORE DI MARCO

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PREFAZIONE

A cinque anni di distanza dal suo esordio letterario, Vito Tartaro ha

compiuto il salto di qualità, scrollandosi definitivamente quel tanto di

retorico che c'era nella sua poesia ed assumendo una posizione, non più di

parte, ma universale. Senza togliere niente al poeta degli esordi, sanguigno,

originale, umoroso, possiamo constatare come, in queste nuove

composizioni, riesca a mettersi in linea con la migliore poesia, non soltanto

siciliana.

La differenza sta nella scoperta, da parte di Tartaro, della dimensione

della memoria. Per cui, alla maniera di Edgar Lee Masters, si ha una sorta di

«Spoon River Anthology» con una lirica, di tipo biografico-estetico, che

realizza una rassegna di personaggi bizzarri, inusuali, ma esemplari ed

indicativi, filtrati attraverso un racconto fantastico e metaforico. Non sono i

personaggi che parlano di sé, ma la voce dell'autore che suggella un mondo

lirico, dandone un giudizio. In questo percorso, lungo il quale affiorano

personaggi e avvenimenti, che fanno parte della coscienza collettiva, non

viene più presentato un ambiente ben caratterizzato, come potrebbe essere

un qualsiasi paese siciliano. Ora sono fantasmi che risalgono alla memoria

dell'autore, come garanti di una storia umana vissuta intensamente, che

vengono trasfigurati dalla capacità di universalizzare della poesia, in modo

che si ha la rappresentazione della vita, in assoluto, in un luogo che è il

mondo. Il racconto, in chiave onirico-allegorica, delle vicende di

personaggi, vivi soltanto nel ricordo, avviene in una Ramacca-mondo,

universo metatemporale e metaspaziale.

Emanuele Schembari

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Tartaro fa riferimento esplicito a luoghi ed a persone familiari e noti in una serie di quadri, collegati fra loro. Ne viene fuori la visione amara di una

realtà, solo apparentemente realistica, ma trasfigurata e trasferita in una dimensione altra, espressa in modo pensoso e poeticamente rilevante. Il suo

mondo rimane contestatario, anche se vengono evitate polemiche dirette, dense di rancori e di rabbia, ma per contestazione s'intende un modo diverso di

non accettare certe forme e certe soluzioni. Rimane sempre il poeta che crede nei valori dell'uomo e che raggiunge risultati importanti per la capacità di

trasformare il ritratto di ogni personaggio in un comune senso della vita, di cui ogni pena, ogni vicenda diventa metafora dell'esistente, nel senso

onnicomprensivo.

Rispetto alle precedenti raccolte di versi, in «I senza anima» c'è una più compiuta linearità stilistica che, unita ad una più duttile maneggevolezza

del verso e ad una più coerente e compatta impalcatura complessiva, rappresenta, dal punto di vista tecnico, una straordinaria evoluzione in positivo.

Nella raccolta si avverte un allargarsi del verso, che acquista un più ampio ritmo, così da assumere un andamento narrativo, mentre è evidente una

straordinaria carica vitale ed una notevole coerenza. Caratteristico è lo scarto di tensione, tra i vari livelli del discorso, con improvvise impennate, dove

prevale la visione di un mondo dipinto in tinte, ora accese, ora tenebrose. È rivelata, infine, una rara capacità di coagulare i fluidi del sentimento, dando

rilevanza e profondità a tempi apparentementi usuali.

In Tartaro non c'è mai stata ombra di folc1orismo. L'uso del dialetto, che è la scelta di un linguaggio più aderente alle sue esigenze espressive,

riesce a non fado scivolare nella tentazione lirica. A questo punto il suo è diventato proprio un linguaggio, non solo lingua, per la sua capacità di

trasformare in poesia (nell'accezione crociana) la riflessione razionale, trasferendola nella forza delle immagini, che è un segno di qualità poetica. Lo

speciale spessore linguistico della silloge ha determinato un linguaggio che ha trovato completezza espressiva ed efficacia di misure. Per concludere,

questo è un libro che, per le tematiche esistenziali e la tecnica coinvolgente, di forte tensione poetica, si inserisce nel panorama della lirica italiana,

avendo saputo trovare, nei versi, un'umana e trepida sincerità d'accenti.

Emanuele Schembari

(I senza anima. Poesie siciliane, tradotte da Vincenzo Di Maria, Catania, C.U.E.C.M., 1996, pp. 7-9)

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POSTFAZIONE

Iniziare la postfazione di un libro di poesia prefato da Emanuele Schembari, scritto da Vito Tartaro, è come fare una duplice scommessa: in primo

luogo con se stessi, giacché non sappiamo se sul piano della resa critica l'intervento sarà sprecato o, invece, ci procurerà un autentico arricchimento; in

secondo luogo è una scommessa con l'autore dei testi poetici col quale siamo costretti a confrontarci dal punto di vista esperenziale, ideologico, e più

genericamente culturale.

D'altro canto, se ci mettiamo dalla parte dell'autore, dobbiamo riconoscere che decidersi a pubblicare una raccolta poetica rappresenta una

scommessa ancor più radicale. Egli innanzitutto scommette con se stesso quando con un attento lavorio d'introspezione rintraccia i nuclei ispiratori della

sua riflessione e giudica se essi siano degni di essere comunicati. Inoltre egli si pone di fronte ai suoi probabili destinatari per fare con loro, in un ipotetico

dialogo a distanza, una scommessa e promessa che risulteranno, di fatto, tanto più proficue, quanto più l'orizzonte esistenziale e problematico dei lettori

sarà complementare con quello dello scrittore.

È quanto mi succede, rivestendo prima la carica di lettore, poi di critico.

Erano queste le riflessioni che accompagnavano la mia lettura della raccolta «I senza anima», leggendo la quale i lineamenti fisionomici e

caratteriali dei personaggi considerati ci richiamano il gruppo umano al quale dovrebbero appartenere.

Al di là della metafora è fuori di dubbio che ogni personaggio in oggetto è figlio di una determinata cultura del linguaggio, della quale è poi figlio il

Tartaro, che elabora «la parola» per comunicare in fondo la propria esperienza di vita. È ricerca di sé il «I senza anima»: una ricerca di sé, attuata

attraverso una ricognizione psicologica, a volte supportata da una «lente» più specificamente psicanalitica, altre volte intrisa di ironia e individuata nel

rapporto con l'altro e con la complessità del vivere sociale. È questo, certamente, l'impegno primario di chiunque lavori nel campo della poesia, che è

attività spirituale, meditabonda e conoscitiva e che finisce per trasformarsi in un viaggio alla ricerca della propria identità. Questa è la poesia del Tartaro:

la punta del pensiero e della coscienza che mette in scacco se stesso, la parola del poeta che aspira ad un approdo della «sua peregrinazione intellettuale»,

spesso condannata alla sconfitta propria dell'uomo emarginato, non considerato, inferiore, e più ancora alla precarietà del dubbio. E il sentimento d'amore

e la «condizione sociale» finiscono con lo scontrarsi con l'impossibilità «possibile» dell'aspirazione del poeta: il reale inesplicabile. È strada della poesia

tutto ciò.

Lina Riccobene

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Ed è mio convincimento, infatti, che, accostandoci al mistero della sicilianità attraverso la strada della poesia, siamo ben orientati nell'accesso al

cuore della cultura siciliana; questa, afferrata nella dinamica espressiva del suo linguaggio specifico, come nel caso del nostro Vito Tartaro, mediante «la

rassegna di personaggi bizzarri, ..., ma esemplari ed indicativi» (come recita nella prefazione Emanuele Schembari), e mediante una certa «sapienzialità»,

elabora una formulazione concettuale e simbolica che si prolunga efficacemente fino a noi. E il linguaggio verbale qui la fa da padrone nella distinzione

tra «langue» e «parole». La lingua (in francese, langue) è essenzialmente un fatto sociale, di esterno all'individuo: è il tesoro depositato dalla pratica di un

parlare di appartenenti ad una comunità (in questo caso la «ramacchese»); è un sistema di segni, dunque, che la persona apprende a manovrare ed usare

per pensare e comunicare, insomma per vivere da uomo.

Distinta da essa è la parola (in francese, parole): separando la lingua dalla parola, si separa a un solo tempo ciò che è sociale da ciò che è

individuale.

La poesia del Tartaro, in «I senza anima», si può dire che è, ad un tempo, parola e lingua. È parola nel senso che ogni personaggio «ricordato» si

costituisce paradigma, sovente multiforme, in cui simbolicamente rivive la sua esperienza vissuta; è lingua sia dal punto di vista morfologico-

grammaticale che da quello poetico-sapienziale nel senso che ogni testo poetico oltre ad essere una finestra aperta su una parte significativa degli

orizzonti personali e culturali, è il veicolo privilegiato perché determinate «riflessioni» vengano tramandate attraverso la dimensione «pragmatica» della

parola nella quale si rivela il contesto umano di riferimento.

Per cui, tranquillamente sento di asserire che in questa raccolta il linguaggio diventa un codice semplice, e al contempo complesso, di

comunicazione interpersonale elaborato ed elaborabile in una determinata cultura: sarebbe difficile, da qui, «tradurre» i personaggi di Tartaro in un'altra

lingua (come i proverbi, sapienzialità del siciliano) giacché la valenza semantica di ogni verso non potrà mai corrispondere ad un altro verso riferito ad un

altro contesto sociale e culturale che non potrà mai combaciare perfettamente con la «natura» di un «Fulippu», di un «Turi», di un «Pasquali» o di un

«Vastianu».

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Una cosa è certa: la poesia di Vito Tartaro esercita una «funzione descrittiva». Ogni testo è una fotografia tridimensionale non solo di un

personaggio ma anche di un elemento particolare della cultura; esso, a seconda della prospettiva, infatti, può riprodurre una motivazione che, sottoposta

ad un tipico comportamento, o ad un valore fondamentale al quale tutte le persone di quella etnia credono, diventa un principio di vita indispensabile per

l'identificazione della persona in una determinata cultura.

E il Tartaro è persona di una e in una determinata cultura, autobiografabile, se vogliamo, in versi come «Era nnamuratu di la morti Vicenzu./ La

videva c'un mantellu russu / trattari tutti ni lu stissu modu: / sicchi di stenti / tippi di bunnanzia./ (' Vicenzu')». Così come si trasforma in mezzo e

strumento efficace di coesione sociale e di maturazione degli individui che, anche se probabilmente immaginati, dovranno armonizzare, oggi più che mai,

i «modelli di» e i «modelli per» al fine di crescere nella propria identità psicologica e culturale, che vive integrando nella propria esistenza le motivazioni,

i valori e i comportamenti del perfetto siciliano. In questo caso di un siciliano come il Tartaro che riporta, attraverso i suoi «senza anima», nella poesia,

valori perenni di umanità filtrata dalla veste retorica dell'allegoria e della metafora che conferiscono maggiore significato unitario alle singole

composizioni poetiche, rispettose dello spesso apparente «infimo» di questa società, e quanto mai più saggio del «normale».

E ci troviamo così di fronte ad una vera organizzazione del pensiero, della vita, della coscienza che di essa si ha, dell'esperienza umana,

dell'allegoria ad essa ed ai suoi simboli (espressione). A Goethe risale la decisiva distinzione fra simbolo e allegoria: «L'allegoria è il particolare inteso

come emblema ed esempio dell'universale; nel simbolo si scorge l'universale del particolare che lo incarna totalmente in sé». Ecco, dunque, l'universale

del Tartaro incarnato nel particolare dei «senza anima».

Tartaro allude. Nell'allegorico si realizza. Il ragionamento astratto viene espresso mediante una raffigurazione sensibile (e magari fantastica, come

vedo i suoi personaggi), per rendere più comprensibile o più efficace qualche nozione o insegnamento.

È questa la vera natura della poesia.

Lina Riccobene

(I senza anima. Poesie siciliane, tradotte da Vincenzo Di Maria, Catania, C.U.E.C.M., 1996, pp. 81-85)

33

PREFAZIONE

L'ultima produzione poetica di Tartaro delinea un itinerario di

scoperte che in un emblematico percorso si estendono, tra echi e rimbalzi,

dalle prime scoperte del mondo negli spazi ariosi dell'infanzia trascorsa

nella campagna ramacchese al sofferto silenzio del declino in cui l'umana

avventura s'incanala verso una rivisitazione dei giorni oscillante tra moti di

amarezza e fiotti di rabbia. Gli esiti vincenti proiettano in primo piano una

giostra di labili tracce, calate in un'idea di poetica dove ciò che conta è

l'indagine spregiudicata e viscerale dell'esistenza. Stilisticamente il

comportamento poetico determina una scrittura in cui si mescolano

riflessioni, frasi da conversazione, strappi lirici, rispondenze tra le esigenze

di un uomo trascinato dalla voglia di conoscere ed esplorare e l'urgenza di

un ragionare problematicamente proteso in una circolarità mai pacificata di

atti minimi e di complessi circuiti mentali.

Ogni poesia di Tartaro è elaborazione di un materiale sedimentato da

lungo tempo nella memoria. Il punto di partenza è un ricordo che si pone

come cominciamento di un capire che coincide con il punto di inizio dello

stesso raccontare; poi interviene la parola, adottando le più sottili tessiture

per potere raccontare tutto: la rabbia e l'amore, l' offesa e la gratificazione,

l'angoscia e l'amore non rivelato, la presa di coscienza critica e la messa in

discussione, o addirittura in questione, dei sistemi pedagogici iperprotettivi,

volti più a rimuovere che a stabilire un contatto, più a rallentare la crescita

di una consapevolezza che a discutere e a chiarire.

Giuseppe Cavarra

34

A questo punto è facile comprendere che nel poeta di Ramacca i tentativi di scavo sui perché dell'esistenza - ricerca dell'autentico, assunzione di

responsabilità, esercizio della libertà, senso della vita e della morte - non possono essere neutri o indeterminati, amorfi o impersonali. Qui l'esercizio della

scrittura è tradurre in segni lirici esperienze di vita testimoniate da bene individuati protagonisti, i quali, anche se presentati senza nome, rimandano a

persone che hanno inciso sul vissuto di chi ora è chiamato a raccontare le loro "storie di vita".

Ad affiorare al ricordo del poeta, più che i forti e gli onnipotenti, sono le inconsapevoli vittime consegnate acriticamente ad una Storia (qui

l'iniziale è d'obbligo) disabituata al dubbio, non educata al problema.

A giudizio del poeta, i giochi a nascondere danno luogo a processi di presa di coscienza lenti, troppo lenti, legati come sono ad una educazione

monologante e paternalistica, chiusa al dialogo e comunque inadatta a discutere le nostre incertezze e a problematizzare ciò che invece si rivela

problematico. Al poeta ramacchese interessano di più i processi che non arrestano la crescita di una consapevolezza che metta continuamente in

discussione l'indiscusso e l'indiscutibile. E forse stanno qui le ragioni per cui al poeta non piacciono i pueti nanfarusi [i poeti che parlano col naso]

(Nannaparola) e l'omini / ca si votunu di ddabbanna / vidennu un Cristu viddanu / circari la morti pi riventu [gli uomini / che si girano dall' altra parte /

vedendo un Cristo villano / cercare la morte per sollievo] (Rancuri). Meglio affidarsi ai maestri che insegnano a curtivari / chiantìmi di paroli scurdati

[coltivare / piantine di parole scordate] e alle liccunarii / mannari d'antichi pueti [leccornie / mandate da antichi poeti] (A na maestra di scola); meglio

chiudere gli occhi "il tempo di un sospiro" se vogliamo vedere lavuri faviati, / omini risulenti, / cardiddi priscialori [campi rigogliosi, / uomini in festa, /

cardellini affaccendati] e sentire çiavuru di pani sfurnatu / sbrizziatu di meli, / passula, / liffia di matri [odore di pane sfornato / spruzzato di miele, / uva

passa, / carezza di madre] (Lu pueta). Nella Storia, pazzarigna [bizzarra] com'è, non c'è posto per le inquietudini che non trovano sbocco nella morte

come "passaggio”, come mutamento di stagione. L'unico strumento conoscitivo consentitoci rimane allora la parola che, rimandando da voce a voce,

riporta l'uomo "secoli indietro" p' abbuffarisi di purizza [per saturarsi di purezza] (A na maestra di scola); l'unico sollievo resta la poesia come

chiarimento del nostro rapporto con le cose attraverso il doloroso vissuto di un'esperienza di contrasto tra ciò che è tensione e ciò che è fermo, senza vita,

scontato. In un momento in cui anche sulla poesia in dialetto grava il rischio di ridursi a veicolo di trasmissione dei significati e del senso costituito

dell'ordine, Tartaro esprime ancora una volta la sua fedeltà al carattere evocativo della parola. li che, nel suo caso, significa necessità che la poesia si tolga

la veste falsa dell' evocazione dei miti e si riveli per quello che dev'essere: presa di coscienza, rifiuto del corrente e del comodo per occuparsi del

costruibile che è sempre meno comodo del costruito.

Giuseppe Cavarra

(Nannaparola, Palagonia, Accademia dei Palici, 1999, pp. 5-7)

35

PREFAZIONE

La passione della perfezione arriva tardi, dice Cristina Campo nel suo

Gli Imperdonabili. E a riprova che quando quella passione arriva nulla più

conta, la famosa scrittrice di parabole contemporanee racconta l'episodio del

cinese condotto alla ghigliottina dopo la rivolta del Boxer, il quale, invece

di attendere tremando il suo turno nella fila dei condannati, passava il tempo

a leggere un libro.

Questo accade quando tutto è già stato dato alla vita e quello che

rimane lo lasciamo a noi stessi.

È la stessa sensazione che, a parer mio, si prova leggendo quest'opera

di Vito Tartaro; questa sorta di breviario, o autobiografia, o elegia di un

mondo perduto. Che già subito, per il modo, per il tema, per le scelte

metaforiche, si dichiara un'opera chiaramente renitente ai tempi in cui

viviamo, che al contrario del lavoro di Tartaro sono di convinta

globalizzazione. Mentre per converso la prosa del Nostro assolutamente in

vernacolo, e parliamo di prosa appunto, ci sembra molto simile alla lezione

del cinese che andava incontro alla morte con un libro in mano.

Insomma, se gli imperdonabili sono dotati della forma più snobistica

di pensiero chiamata sprezzatura, anche Tartaro è un imperdonabile.

Nel senso di un artista volutamente, appassionatamente anzi, lontano

da ogni chiacchiericcio di contemporaneità.

Silvana la Spina

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E perciò ben radicato nel suo mondo, nel suo linguaggio, nella sua maturazione tecnico-formale. E forse persino in una certa sicurezza - potremmo

dire iattanza? - di chi si ritiene perciò stesso al sicuro e lontano dalle mode.

Eppure questa sua personalissima forma letteraria ci restituisce un mondo perduto, un'emozione impagabile. Un mondo fatto principalmente di

immagini naturali, di albe e tramonti sulla Montagna, in una quasi leopardiana ricerca di ciò che in natura è limite e a maggior ragione lo è

all'immaginazione. Ma ecco che geograficamente limitata l'immaginazione si esalta.

Ché proprio lì, davanti a questo scorcio di paesaggio ramacchese - la Montagna, appunto - Vìto Tartaro ricostruisce la povera epopea della sua

famiglia, l'arrivo in questo paese dei nonni, la fuitina dei genitori, la sua stessa ad appena diciassette anni. Stranamente nel momento in cui a scuola ha

scoperto la bellezza, ossia la poesia, e con la poesia le vicende epiche di Ettore e Achille, che ama come fossero eroi in carne e ossa. Come presto amerà i

figli che di lì a poco nasceranno.

Ma la paternità alla fine non basta a quietare il tumulto di chi vive con un'ossessione, di chi forse ha ereditato da altri prima di lui la stessa

ossessione. Ecco allora il giovane Tartaro ricominciare a verseggiare, la poesia finalmente coltivata rinasce. Come una pianta appunto, come un albero,

uno di quei tanti alberi che Tartaro ha visto insieme a lui crescere nella sua campagna. E a cui lo stesso autore dedica le parole più commosse, in chiusura

della stessa opera, dando a tutto lo struggente memento dell'addio. "Ma sugnu sicuro, comu ppe du' carrubbi da nostra Terra, ca su moru prima d'iddi, de

lacrimi c'anu a ghittari cci sciucunu i vini e siccunu; su ammeci morunu iddi prima, mi n' aju a fari panzati di chiantu siccagnu ca mancu a li cani!".

E allora ci chiediamo quanto un piccolo mondo possa essere il mondo, e lo sguardo nostro si snoda su alberi, calanchi, intrighi di foglie. Si allarga

sull'orizzonte verso Raddusa e Castel di Iudica. Sulla famosa Piana di Catania che già Cicerone chiamò granaio di Roma. E poi gli Arabi invasero, al

comando dell' emiro Ibn al Furat. Avanzando faticosamente verso Castel di Iudica, mentre il condottiero tunisino diceva nella sua lingua giaculatorie.

Chiamava Allah a testimone della sua fedeltà musulmana. Per la quale la conquista stessa è una preghiera, uno dei cinque pilastri della fede.

Qui in questo slargo di cielo, che abbraccia ramature di olivi e fichi, i due alberi per eccellenza mediterranei. Sacri alla memoria individuale e

collettiva - l'olivo specialmente in tutta l'area del Mediterraneo, in tutti i popoli, in quelli nomadi come gli ebrei e arabi, in quelli stanziali come greci e

fenici. Tutti lì a ungersi con la bacca dell'olivo nel momento in cui si chiama Dio a testimone.

E forse non è difficile domandarsi se anche Tartaro, il laico, tortuoso, ateo e marxista Tartaro, con quest'opera non intenda comunicarci il senso del

sacro che pervade la sua vita. Un sacro eterno, antico e prossimo che è quello campestre. Se è questo il suo messaggio, in tal caso ci dichiariamo suoi

fratelli, perché tutti viviamo sotto lo stesso cielo e siamo bagnati dallo stesso mare. Che è quello di Omero. Quello di Virgilio. E il nostro.

SILVANA LA SPINA

(Strata e terra, romanzo in lingua siciliana (versione in italiano di Giuseppe Cavarra),Catania, Prova d’Autore, 2001, pp. 5-7)

37

Un pomeriggio di agosto Vito mi disse che aveva dattilografato tutto il suo racconto "Strata e Terra" e che gli avrei fatto un favore se l'avessi

trascritto al mio computer per darlo bell'impaginato poi al Comitato di lettura della Casa editrice Prova d'Autore. (Lui sempre avverso alla tecnologia... gli

basta una vecchia macchina per scrivere!).

E così, nei ritagli di tempo, sotto sua dettatura ho iniziato la battitura del testo in fonografismo ramacchese con relativa traduzione in lingua curata a

suo tempo dall'ottimo Giuseppe Cavarra che ne ha rispettato la forma e il parlato in modo magistrale.

Non nascondo che la parte in dialetto è stato faticoso trascriverla, ma ne è valsa la pena. Sì, perché mi sono reso conto, battendo lo, leggendolo e

ascoltandolo dal diretto autore, che il nostro idioma è di una bellezza indescrivibile.

Ricco nella forma, nella sintassi e soprattutto elegante nell'ortografia. Basti pensare alle vocali minuscole o maiuscole contratte, con il circonflesso,

che per farle apparire sulla pagina dello schermo si deve ricorrere alla "mappa dei caratteri" e comporre una serie di numeri prestabiliti dal computer. E

non è facile! I segni di interpunzione, le virgolette, i corsivi..., diventano di bell'aspetto solo quando li vedi apparire lì, sul foglio di carta bianca. Ed ecco

allora sentirsi dire: "Non vedi come la â / Â sembra una regina? E la ê / Ê una bella ragazza siciliana? La î / Î un alfiere a cavallo; il re lo vedo nella

vocale ô / Ô e la û / Û una montagna che erutta lava e ci soffia in faccia il suo vento caldo di tramontana?!".

"Possibile che tu devi fare poesia anche osservando le sole vocali, o articolandone il semplice suono?!", replicavo io.

Faceva poesia!

In 12 capitoli è stato tutto un fremere impetuoso alla sola vista della bella ortografia ramacchese o/e dei suoi processi di produzione fonica e delle

caratteristiche articolatorie dei singoli o gruppi di foni (vocali, sillabe, parole, frasi). Un esempio?

Ntâ nostra Terra, quannu non chiovi forti, cci vaju na triina di voti â simana. Mi ssettu ppi cocca ura ntô pôi da casa o nti chiddu di 1'arbanazzu, e

taliu, macari ca non c'è nenti di taliari. Nenti. I disi tumaru a mpatrunirisi dâ terra, ‘a cchiù granni parti dê mura ânu statu sdirrubbati dê pecuri.

Per non parlare poi dell'entusiasmo dei nomi propri, date precise, fatti realmente accaduti, ricordi, passioni, slanci, amori, storia, modi di dire e di

pensare che hanno il peso di un 'umanità troppo spesso umiliata o dimenticata ma, dove sapientemente, con il suo sentire il tutto si genera e si rigenera nel

codice di comunicazione a lui congeniale: la parlata ramacchese, anzi, come la definisce lui "la bella parlata ramacchese", primo vero esempio di

produzione letteraria in prosa scritto fino ad oggi a Ramacca. Il suo accento è perciò "ramacchese", poiché in questa essenza di siciliano purissimo Vito si

muove e ritrova una superiore grandezza, ed una misura di vita autentica, "universale"; libero da formule e da idee preconcette che riaffermano sempre le

ragioni dell'anima collettiva, nel suo ideale di povertà e semplicità.

Seppur circoscritto come estensione geografica, questo suo racconto autobiografico, che ci introduce dall'immediato dopoguerra ai giorni nostri,

rimane un "universo in movimento", dove la parola, il suono, le cose, la vita, il peso e la forza dell'uomo, il suo respiro... ci arricchisce e ci guida nel

processo di maggiore storicizzazione, di quella tendenza all'universale. Un modo nuovo questo, di recuperare fino in fondo il senso di quell'esistere

quotidiano, privato ed eterno, dell'uomo nella sua poesia.

Le vicende, così come le suggestioni di una realtà vissuta, ci giungono in schermate riflesse e divengono necessarie all'appetito del nostro vivere e

sentire.

NINO FRACCAVENTO

(Strata e terra, romanzo in lingua siciliana (versione in italiano di Giuseppe Cavarra),Catania, Prova d’Autore, 2001, pp. 71-72)

STRATA E TERRA

Nino Fraccavento

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Vito Tartaro, funzionario amministrativo in pensione, è nato e vive a Ramacca.

Ha pubblicato il saggio storico-archeologico La montagna di Ramacca e l'antica città di Eryke (Ramacca, 1980) e le raccolte di poesie siciliane:

Ateismu prim'e tuttu (Ramacca, 1990); Lu friddu di la storia (Catania, 1992); Russu Ramacca (Caltagirone, 1994); I senza anima (Catania, 1996);

Nannaparola (Palagonia 1999). Per le sue poesie edite come anche per altre inedite, Tartaro ha ottenuto numerosi e qualificati premi letterari in Sicilia e

nella Penisola.

Della sua poesia hanno scritto, tra i tanti, Giuseppe Cavarra, Silvana La Spina, Manlio Corte lazzo.

Sono già remoti i tempi della disapprovazione espressa da Alessio Di Giovanni a Verga, nel merito de 1 Malavoglia, scritti nella lingua della

comunicazione nazionale. Secondo Di Giovanni infatti era stata una forzatura quella di non scrivere in siciliano la saga della famigliola di Acitrezza, con

tutto il coro popolare che insiste a caratterizzare linguisticamente il capolavoro verghiano. Una tesi che prendeva più consistenza, quella volta, allorché

messa a confronto con il filone verista che esalta l'opera stessa.

Oggi quei tempi sono doppiamente remoti se si fa caso ai dati obiettivi della civiltà globale che tende a caratterizzare fin troppo l'inizio del Terzo

Millennio e i progressi tecnologici, che a partire almeno dalla Seconda metà del Novecento hanno conseguentemente accelerato sui processi di evoluzione

e trasformazione dei mezzi e dei modi delle comunicazioni in tutti gli angoli del pianeta.

Né che la Sicilia abbia voluto dimostrare tentativi di sottrarsi o frenare. Anzi proprio qui la mentalità delle generazioni che furono (plagiate)

sensibili all'educazione del Ventennio fascista - quella dei più anziani di oggi - non ha smesso - e le eccezioni confermano la regola - le proprie severe

quanto pregiudiziose disapprovazioni verso le parlate dialettali. Elemento da non trascurare quando si debba valutare qualche scelta spontaneamente

dimostrata successivamente dalle generazioni più giovani, quelle che hanno cominciato a porsi qualche problema sulla convenienza (o la moda letteraria)

dello scrivere in dialetto, appunto. Per questi ultimi c'è da supporre che la parlata dialettale sia stata assunta più come "scommessa" che come spontanea

esigenza. Chi, quando o dove infatti si parla ancora in dialetto?

STRATA E TERRA

39

STRATA E TERRA

Diverso è il discorso quando ci si trovi a confronto con le generazioni - almeno in Sicilia - dei nati prima degli anni Sessanta - e già si largheggia.

Come fondamentalmente diverso è per il caso di Vito Tartaro, classe 1938, che, da quando ha cominciato a vagire e ancora lungo i suoi ininterrotti anni

"corpo a corpo con la Sicilia", anni che tuttavia tendono in Tartaro stesso a faustiane manifestazioni biologiche oltre che linguistiche, non smette di

parlare e scrivere l'idioletto della sua regione e, segnatamente quello del suo contado ramacchese. Il riferimento alla contingenza territoriale ci allerta

verso le eccezioni rispetto alla linea dei tempi generazionali del dialetto in Sicilia, obbligandoci a citare almeno due fenomeni locali, quello spiccante di

Salvo Basso di Scordia, classe 1963, poeta già affermato con crescenti consensi locali e nazionali e quello di Giuseppe Samperi, Castel di Judica, classe

1969, in predicato di altrettanto meritorie attenzioni, fin dall'esordio con Sarmenti scattiati.

Ecco perché del volitivo Tartaro ci sembra sia esatto dire che un'opera come Strata e Terra c'era da aspettarsela, quasi come esito imprescindibile

rispetto alla coerenza del personaggio come rispetto agli stessi elementi biologico-intellettuali-affettivi dell'intera sua vita di protagonista nella realtà

locale, di funzionario del Comune, di autore di versi, di impetuoso operatore culturale, di patriarca - anche questo - d'una famiglia di sette figli e di una

collana di nipoti e nipotini (si leggano le dediche in questo libro).

Vorremmo insomma saper dire come questo lacerto di scrittura in siciliano, la Casa editrice Prova d'Autore lo abbia accolto con entusiasmo e un

poco come - lo ripetiamo - un "atto dovuto" da parte di Vito Tartaro, depositario - oggi ormai con altri pochi -, dell'autenticità d'una parlata locale. Come i

messinesi Maria Costa e Giuseppe Cavarra, il palermitano Alfio Inserra, i linguaglossesi fratelli Mazza e forse qualche altro, solo qualche altro in Sicilia.

Il dattiloscritto di Strata e Terra è stato approvato dalla direzione letteraria e passato in redazione senza tentazioni di interpolare o contaminarvi

punti di vista editoriali sulla scrittura, di quella scrittura che Fraccavento, assecondando l'istintualità espressiva di Tartaro classifica fonografismo. Strata e

Terra è una umorosa zolla di terra siciliana che ci è doveroso proporre ai sempre più radi e meno attrezzati laboratori scientifico-linguistici del nostro

dialetto, quello che si parlava una volta e che rivive nei fonemi, nei costrutti, nella testimonianza di questo affabile racconto di Vito Tartaro.

(Strata e terra, romanzo in lingua siciliana (versione in italiano di Giuseppe Cavarra),Catania, Prova d’Autore, 2001, pp. 73-75)

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PER VITO TARTARO

Sarà come dicono i più informati di noi: la forbice tra i parlanti in

dialetto e poeti in dialettali si allarga sempre più. Meno si parla il dialetto, o

un dialetto sempre più mècoinnassable, più ci troviamo a petto con la

smisurata produzione di versi in vernacolo.

Da qualche parte P. V. Mengaldo ha enunciato un condivisibile

assioma sulla poesia dialettale: "Non c'è poesia dialettale senza

conservazione della memoria, e cioè senza infanzia".

Se partiamo dal risultato più certo di Tartaro, cioè la prosa

vernacolare di Strata e Terra (Prova d'Autore, 2001) notiamo come l'autore

intende eliminare ogni distinzione tra sé e la materia narrata usando la

parlata ramacchese come mediazione e approssimazione alla sua infanzia.

Ma qui l'infanzia, che subito assume un tono elegiaco, ma mai nostalgico e

regressivo, viene equilibrata sempre da notazioni storiche, fino a

rappresentare non solo la memoria di sassi, di terra, di alberi (già anticipati

nella programmatica endiadi del titolo), di trasalimenti infantili, ma anche il

ricordo di uomini e donne. Insomma l'archeologia sentimentale della sua

comunità.

Partendo da questo testo, qui non antologizzato, possiamo ricavare

una griglia di lettura per i testi qui presentati. Sembra quasi inevitabile nella

maturità ricorrere alla lingua dell'infanzia. Solo che questa lingua, in

Tartaro, è elegia e rievocazione sentimentale ma anche polemica civile o più

genericamente polemica storica.

Sebastiano Leotta

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Il dialetto non è solo lingua madre, dell'affettività e dell'eros (Cfr. Amuri a Eryke, Ccu’ dissi, Friddu) ma anche lingua dell'autorità, dell'imposizione

(Cfr. Ddu jomu).

Quando la polemica travalica sul versante del presente sconta il suo riuso con risultati che, forse, avrebbero richiesto più elaborazione (Cfr. la

raccolta Lu friddu di la storia; ma si veda, a contrario, la brechtiana La storia, qui a pag. 49) .

Questo equilibrio è ripreso in seguito ma con più attenzione all'individuale, a chi misura su se stesso le ingiustizie della storia. Qui il dialetto può

diventare lingua della verità e del riconoscimento del nemico:

Ristaru sulu parulazzi / mparintati cu' rancuri / a cutturirimi: / rancuri pi l' omini / ca si votunu ddabbanna / vidennu un Cristu viddanu / circari la

morti pi riventu.

Quest'uomo consapevole, appassionato e civile, non si nasconde che il dialetto batte in ritirata, e che forse scrivere in ramacchese ha l'aria di una

battaglia di retroguardia. Ma solo l'aria perché nell'andirivieni della storia ciò che adesso è saturo di oblio può diventare figura e anticipazione del futuro

(si veda la bellissima A na maestra di scola1). La parola dialettale può nuovamente significare: "Qui c'è freschezza e genuinità, qui si ascoltano parole

nuove, espressioni nuove, immagini nuove, si colgono riferimenti ad una vita diversa, sconosciuta ed enigmatica, ma pulsante di moti passionali"2.

SEBASTIANO LEOTTA

1. Il prefatore cita una poesia della silloge Nannaparola (Palagonia, 1999).

2. Recensione di Manlio Cortelazzo a Nannaparola di Vito Tartaro, in La nuova tribuna letteraria, a. X, n.58, 2° trimestre 2000, p. 49.

(Chiana e Biveri, a cura di di Mario Grasso, Catania, Prova d’Autore, 2002, pp. 41-42)

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RAGGUAGLI EDITORIALI

Vito Tartaro,funzionario amministativo in pensione, è nato e vive a

Ramacca.

Ha pubblicato il saggio storico archeologico La montagna di

Ramacca e l'antica città di Eryke (Ramacca, 1980) e le raccolte di poesie

siciliane: Ateismu prim'e tutto (Ramacca, 1990); Lu friddudi la storia

(Catania, c.u.E.c.M, 1992); Russu Ramacca (Caltagirone, Edicalata, 1994);

I senza anima (Catania, c.u.E.c.M, 1996); Nannaparola (Palagonia,

Accademia dei Palici, 1999); Camina ca' ti camina (in "Chiana e Biveri" di

AA. Vv., Catania, Prova d'Autore, 2002); Poesie (AA. vv. a cura del

Comune di Leonforte, 2003).

Per la narrativa: Strata e terra (Catania, Prova d'Autore, 2001) e

Cuntannucuntannu (ibidem, 2004).

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Vito Tartaro propone ai lettori del dialetto siciliano una nuova sua opera di narrativa. L'esperienza di Strata e Terra (2001), felice esito del

romanzo col quale aveva sorpreso e affascinato i suoi affezionati lettori, che prima avevano continuato a stimarlo come autore di poesie - sempre in

siciliano - si può adesso dire quanto si rafforzi ed esalti con questa nuova densa silloge di racconti. Si potrebbe partire dal titolo, Cuntannucuntannu, per

addentrarsi e oltrepassare l'intenzione dello scrittore rispetto alla tradizione tutta siciliana che fa pensare subito a 'U Cuntu. Ma è un percorso da evitare

per non cavalcare il rischio d'incasellare la ricerca di Vito Tartaro tra le ordinarie iniziative di quanti arrangiano a freddo il fascino del vocabolario

siciliano e le colorite locuzioni che questo consente al rappresentare combinazioni di suoni e immagini espresse oralmente, come vuole una coerenza,

appunto, tradizionale, che tende all'esibizione mirata sull'effetto scenico. Tartaro non divide con gli aedi del vernacolo alcun impegno a favore dell'oralità,

forte del proprio naturale destino di poeta della parola scritta, della ricerca puntigliosa di quella purezza del vocabolario dialettale chianoto, (Piana di

Catania) adoperato con esemplare padronanza. Inoltre, Tartaro, scrive i suoi racconti attingendo da una realtà viva a lui contemporanea e osservata,

vissuta, filtrata infine dalla creatività artistica che distingue e fa distinguere, proprio perché privilegio del poeta.

Anche per quest'ultima valutazione non possiamo esimerci dal segnalare come i conoscitori della Sicilia e dei suoi linguaggi, non smettano di

ritenere il ramacchese Vito Tartaro rappresentante naturale e model1o di quel1a dialettalità che i critici pseudo-guardiani e pontefici del1'industria

culturale italiana con sede nel Nord del Paese, non potranno mai penetrare.

Capita fatalmente che un Vito Tartaro, da classificare a pieno titolo tra i più meritevoli artisti del1a scrittura in dialetto siciliano, si trovi a non

rappresentare la propria lingua nella mappa dosata dalle ridicole supponenze del solito "critico milanese" digiuno di nozioni filologiche e di storia dei

linguaggi di Sicilia, e, in aggiunta, plagiato dagli umori collerici di qualche noto e solito consigliare siciliano residente a Milano purtroppo influente

accreditato presso l'onnipotente industria culturale del nord-Italia.

Tartaro dunque rimane escluso dalle mappe tuttavia ufficiali dei "grandi (?) del dialetto" della sua Regione, proprio lui che col vernacolo e nel

vernacolo ha impastato la propria vita in tutt'uno con ricerche espressive di scritture creati ve. E anche al momento delle scelte culturali testardamente

mantenute.

Basterà - a chi conosce uomini e storia della contemporaneità territoriale (anche politica) di Vito Tartaro - una rapida scorsa alle dediche da questi

elargite in Cuntannucuntannu per comprendere la coerenza e la personalità dell'Autore, sinceramente legato ai valori culturali e affettivi della gente che

conosce e ama.

44

Anche questo è "lingua delle madri" espressa in simboli. E basterà aggiungere ai nomi dei destinatari delle dediche i nomi dei traduttori che hanno

versato nella lingua della comunicazione nazionale il denso e singolare impasto di segni e suoni onomatopeici che caratterizzano il narrare in siciliano di

Cuntannucuntannu. Traduzioni che sgomitano contro le ingabbiature sintattiche dell'italiano, tentando di forzarne limitate capacità di omologazione,

accerchiando con formule che i linguisti definiranno "italiano regionale di Sicilia" e scommettendo continuamente con verbi transitivi usati

intransitivamente - e viceversa - per tentare di far quadrare il cerchio perfetto delle spontanee inventive della pirotecnica prosa dello scrittore.

Cuntannucuntannu è uno sterminato teatro di personaggi e fatti che aggiungono spunti, colori, passioni e modelli di umanità, ora ludica e

scanzonata, ora dolente e persino tragica, al fitto elenco dei cataloghi (albi d'oro) di Guastella, Capuana, Verga come di Alessio Di Giovanni e Francesco

Lanza.

Aggiungono, ora per ammodernare modulazioni espressive, ora per distinguere e stravolgere modelli. Vito Tartaro non ripete da alcuno e non fa il

verso a nessuno, per questo s'è detto che aggiunge a un elenco d'archivio aggiornamenti, coloriture che necessariamente attingono dalle mutate esigenze

epocali e dalla contemporaneità in proteiforme evoluzione. Evoluzione che a Tartaro interessa nella misura che viene eloquentemente offerta ai lettori

attraverso la dedica iniziale di Cuntannucuntannu con l'elenco dell'intera anagrafe dei propri nipoti. Dediche di amore, di affetto, di spontaneità poste a

evidenziare, ancora una volta, come questo libro sia un documento a futura memoria. L'archivio della storia che accoglierà il calco duraturo di queste

testimonianze recherà in filigrana una solenne e responsabile didascalia: "Ecco come eravamo, ecco come adoperavamo lo sconfinato vocabolario della

spontaneità". Non sono molti gli esempi di narrativa scritta in dialetto siciliano. Alessio Di Giovanni che ne ha lasciato incisivi esempi, rimproverava a

Verga di non avere scritto in siciliano I Malavoglia.

Altri tempi, altre prospettive. Ora il siciliano s'appresta precipitosamente verso gli archivi. Continuano a difenderne la buona memoria alcuni

poeti. Vito Tartaro è tra questi. In prima fila anche per la sua estrazione generazionale. Ma il primo posto, Tartaro, lo pretende - e lo merita - col suo

impegno di narratore con questo Cuntannucuntannu che viene ad aggiungersi con ammirevole coerenza al romanzo Serata e Terra.

Una messe di vocaboli vengono qui accarezzati, lustrati e illustrati, recuperati e salvati per la storia della lingua siciliana e di una prodigiosa civiltà

della comunicazione orale inesorabilmente destinata a estinguersi.

(Cuntannucuntannu, racconti, Catania, Prova d’Autore, 2004, pp. 121-122 e IV di copertina)

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PER LA POESIA DI VITO TARTARO

DI ANTONIO DI SILVESTRO

Con un gesto di fedeltà alla purezza della sua voce, Vito Tartaro

racchiude in questi Cunti e canti il senso di una ricerca che non è mera

archeologia della parola, ma affondo memoriale e conoscitivo. La stessa

disposizione alternata di poesie e prose, quasi struttura a dittico, che

caratterizza questa raccolta, sembra testimoniare del respiro che la

pronuncia dialettale assume, tra sintesi lirica e volontà affabulante.

La coesistenza di lirica e racconto, generi finora sperimentati

separatamente dall' autore, rispecchia un traguardo espressivo che, proprio

in quanto modulato su cuntu e cantu, si presenta ancora una volta quale

riflessione sulle ragioni dello scrivere in dialetto.

Antonio di Silvestro

46

I temi sono quelli declinati già nelle raccolte precedenti, stemperati di certa contingenza polemica (come nel provocatorio Ateismu prim'e tuttu

[1990]) e filtrati da un dettato più cordiale e da una saggezza che è modalità stessa della scrittura: dalla critica a una religione istituzionalizzata al terrore

del "freddo della storia" (Lu friddu di la storia è il titolo di una silloge del 1992); dalla memoria affettuosa e nostalgica di luoghi e persone alla polemica

sulla dispersione del linguaggio natio; dall' orrore della guerra al sussulto solidaristico verso i poveri e i reietti. Eppure, nonostante questa istanza

retrospettiva, questo desiderio di ricapitolazione delle ragioni dell'impegno poetico, l'impressione che si ricava dalla lettura di Carcariari è quella di un

interrogativo che ci sembra (anche in virtù dell' intitolazione dei libri più recenti di Tartaro) il filo rosso dell'ultima produzione del poeta ramacchese, a

partire da Nannaparola (1999), con le felici 'deroghe' narrative di Strata e terra (2001) e di Cuntannucuntannu (2004): la continua 'domanda' sulle ragioni

della propria lingua, l'appassionata apologia del dialetto, che nei versi di Conzaparoli, testo d'apertura della raccolta in esame, risuona come ricerca di

parole del popolo rispetto a cui il poeta si atteggia a «conzalemmi», «medicu», «custureri» e «pasticceri». Parole estranee al repertorio dei poeti-letterati, i

poeti che egli chiama «nanfarusi» [lett. "che parlano col naso"] (Nannaparola, in Nannaparola); parole che restituiscano il senso di un' identità, che siano

corpo, vestimento interiore, realtà insomma sinestetica. Questo essere voce e corpo della parola è il cuore d~ll' antropologia linguistica e del sentimento

del poetare di Tartaro, condizione espressa con grande forza asseverativa in Nannaparola: in Puisia d'amuri il poeta vuole formare «paroli / frasi / versi /

lappusi comu suspiru / duci comu stanchizza / sciddicusi comu sonnu all'arba»; le parole sono «liccunarii / mannati d'antichi pueti / o truvati patinati di

scurdanza / sutta turretti di petri mastriati» (A na maestra di scola); i maestri insegnano a coltivare «chiantimi di paroli scurdati» (Sapienza). E ancora, in

Carcariari si parla di «paroti di focumeli» (L'urtima vota) e di «parolicunfetti» (Curriu).

È vero che, nel momento in cui il dialetto rischia di cristallizzarsi in codice precostituito o puro segno oleografico, Tartaro testimonia sempre della

sua «fedeltà al carattere evocativo della parola» (G. Cavarra, Prefazione a Nannaparola, p. 7). Tuttavia la parola può esorcizzare la morte perché radicata

nell'universo materno e nei frutti della terra: «Avissi avutu na manata di paroli / di chiddi ca sannu di capicchiu di matri / e fenu vagnatizzu / ti li civava,

Janu, / pi scuddariti la morti / o daricci sapuri di cuccia»; «li paroli di terra lavurata frisca / e pagghia ncritata / chiddi ca fannu calari lu sonnu / a

picciriddi murritusi / e spizzutunu dugghianzi» (Rancuri, ivi). Una parola che potrà anche essere 'rancorosa', piegata all'invettiva contro gli uomini che

montalianamente «non si voltano» (Forse una mattina andando, in Ossi di seppia), che sono poi coloro i quali rifuggono da un «Cristu viddanu» che cerca

«la morti pi riventu» (ivi), ma sempre e comunque parola capace di riscattare la purezza della storia: «Sparticcilli [Le parole] a li studenti / cà ci giuvunu

quannu la Storia / pazzarigna com' è / jetta a panz'all'aria sta babeli / e torna seculi arreri / p'abbuffarisi di purizza» (A na maestra di scola, ivi).

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La soluzione potrà anche essere quella di detergere nel sogno la babele linguistica, coltivando un dialetto che si presenta in «farsi cimiteri di paroli»

e «truvaturi fantasimi» e magari percorrendo «trazzeri di canzuni morti» (Megghiu sunnari). Con la globalizzazione la Storia rivela più che mai il suo

inganno, è «pruvulazzu c' annorbaccupa», e ormai il parlare nella terra «unni la parola / nasceva cu la nnocca / e gh' era sgricciu di cantu, / favara di

puisia, / figghianna di paroli» è un «parrararnmàtula» (Glubalizzazioni, in Carcariari).

Da qui echeggia con forza nella prosa Gastriti il tema della difesa della madrelingua, la polemica contro il falso accrescimento del vocabolario

dialettale attraverso i neologismi, o ancora peggio mediante la sicilianizzazione dell' italiano. In realtà lo stesso Tartaro non pare rifuggire dal primo

espediente, servendosi, sul modello della locuzione parrari a carcarara («parlare in modo grossolano, esprimendosi nelle forme dialettali più

volgari» [definizione del Vocabolario siciliano di Piccitto-Tropea) del verbo carcariari nell' accezione di "parlare in dialetto stretto", quasi a sottolineare

metalinguisticamente il senso di un rifugio, della difesa di un' identità in via di estinzione. Semanticamente affine, ma meno connotato, potrebbe essere il

verbo siciliari, che dà il titolo sia al racconto di apertura di Cuntannucuntannu sia ad una lirica di Nannaparola, dove emerge il destino entropico di una

parola 'globalizzata' . Va lasciato nella sua contemplazione sorniona e assorta il poeta che si stupisce del potere delle parole primigenie (si legga la prosa I

paroli a specchio di Sificitardu [in Cuntannucuntannu], racconto dell'ossessione onirica di due versi coniati dal popolo in seguito all'uscita della versione

teatrale della Cavalleria rusticana), che è ancora capace di incantarsi del miracolo della lingua, che ci offre esempi di traduzione musicale di suggestioni

naturali, memore delle quartine a rima alternata degli esordi, come in Cantu di chiuzzu:

«Cantilena senza posa / sanza sgarru di 'n accentu: / chiù ni senti chiù la senti / nchiuvardari coricori / ppi nchiuvallu sempri chiù / intra chiusa di

dulenza». Una capacità di stupore che alimenta un'ironia mista di amarezza e presagio, un umorismo capace al contempo di commozione e del sorriso

sulla 'follia' del poeta.

(Carcariari. Cunti e canti, Castel di Iudica, Samperi editore, 2007, pp. 5-7)

48

LA SICILIA DEI VINTI

La storia della Sicilia è lunga e complessa e possiede una suggestione

scientifica del tutto particolare se ad essa si sono interessati i più grandi

storici dell'antichità e dell'era moderna. La Sicilia è una 'terra di mezzo', per

riportare la denominazione di Tolkien utilizzata per le sterminate contrade

della sua saga favolistica; terra fertile come un giardino e isola soprattutto,

con le peculiarità positive e negative che ogni isola possiede. Isola a forma

triangolare (anche questo appare come un forte simbolo trascendente e

criptico), posta in mezzo a un mare-lago sul quale si affacciano le più

antiche civiltà del mondo; diamante della corona di Dio, come recita un

verso di un famoso canto popolare, e sede del vulcano più alto d'Europa,

l'Etna - Mongibello, che tanta influenza ha esercitato nella fantasia e nella

letteratura dei siciliani.

Proprio per essere una terra di mezzo è una terra di passaggio, luogo

di conquista e di vanto per i popoli che si sono stanziati in queste terre; armi

e culture hanno qui guerreggiato come in uno scenario d'opera di pupi e

hanno dato luogo a una civiltà cangiante d'epoca in epoca, fino a smarrire

ogni tratto I antico e certo dei primi popoli autoctoni e a farei chiedere per

secoli e secoli:

I chi siamo?

La storia di Sicilia ha tre grandi snodi: il primo si verifica con la

caduta di Siracusa per opera dei romani di Marcello (212 a. c.); il secondo,

cruciale per la 'civiltà siciliana', si verifica con l'avvento degli arabi e una

attenuata islamizzazione dell'isola (828-1091); il terzo avviene intorno alla

guerra d'indipendenza e all'unità d'Italia (1861).

Corrado Di Pietro

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Non è questa la sede per gli approfondimenti del caso ma, per grandi linee, si potrebbero mettere in evidenza i forti sconvolgimenti che portarono

questi tre snodi. La caduta di Siracusa cambiò lo status civile e sociale dell' isola, cambiò la lingua (dal greco al latino nella lingua alta portando anche

alla nascita di un gergo latino rustico e popolare dal quale si sviluppò poi il siciliano), e si ebbe un forte depauperamento delle città e delle campagne.

L'avvento degli arabi, a cavallo di due millenni, fu ancora più traumatico per le sorti della Sicilia: un'altra lingua e un'altra religione si introdussero nelle

nostre contrade, furono innovati i sistemi di coltivazione dei terreni e l'intera isola venne ripartita in tre valli, dando luogo alla prima grande riforma

amministrativa del territorio. Rifiorirono la poesia, le arti, le scienze e, in qualche modo, si delineò meglio il nostro attuale dialetto che insieme all'arabo e

al latino fu compresente in Sicilia. L'ultima cesura storica si ebbe con Garibaldi e la sua avanzata verso l'unificazione dei regni italici. Dalla Sicilia partì

l'antico sogno di appartenenza a una nazione unitaria e forte, sotto un'unica bandiera, capace di allestire un disegno politico di eguaglianza sociale e di

giustizia amministrativa. Sogno che ancora perseguiamo e che ogni tanto ci solletica politicamente.

Questi sono gli scenari entro i quali si snoda il racconto storico di Vito Tartaro; racconto che parte dai primi insediamenti dei popoli indigeni

(Sicani, Elimi, Siculi) fino all'unità d'Italia. In un centinaio di pagine vengono sintetizzati tre millenni di storia siciliana, con i limiti di tutte le sintesi ma

anche con i pregi di una narrazione svelta, non pedante, ricca di una vis polemica che fa vibrare il testo, adatta alla informazione scolastica e scritta

soprattutto in un buon dialetto, come non è mai successo per un testo di storia. Il dialetto di Tartaro sfata un luogo comune: quello che vuole il dialetto

adatto solo alla scrittura poetica e non ad opere di impegno storico e filosofico.

Ma qual è la chiave di lettura di quest'opera? Perché alla fin fine un poeta e scrittore smaliziato qual è Vito Tartaro ha voluto cimentarsi anche con

un genere di scrittura difficile e così impegnativo? Dopo le prove poetiche e narrative, Tartaro ci consegna un' opera di storia nostra, della nostra gente

siciliana, più che dei grandi avvenimenti, conformandosi, in questo, agli orientamenti della storiografia moderna, soprattutto francese, che ha allargato la

propria visuale storica agli avvenimenti popolari e a quei fenomeni economici ed etno-antropologici che spesso hanno determinato incisivi cambiamenti

sociali e politici.

La chiave di lettura sta proprio in questa visuale dal basso, in questa ossessiva attenzione alle condizioni delle masse e dei singoli, stigmatizzando

sempre l'operato del Potere (Religioso e Politico), cieco e sordo alle istanze sociali, di libertà e di giustizia, che salivano dai contadini, dai servi e dagli

schiavi, dalle donne e dai bambini. Il poeta di Ramacca appartiene a quella nutrita schiera di scrittori che provengono dalla terra e che parlano della terra,

intesa in senso antropologico e squisitamente culturale, e che portano con sé l'urgenza (e l'illusione) di una rivoluzione proletaria e popolare capace di

cambiare la storia. È la schiera di Pasolini, di Vittorini, di Sciascia, di Buttitta, e dei tanti poeti e cantastorie che hanno trasformato in eroi i banditi che,

per un malinteso senso di giustizia sociale, hanno seminato il terrore e la morte nelle terre del Meridione d'Italia.

50

Ma Tartaro ha la purezza della poesia nelle sue vene e la sua visione del mondo e della storia appartengono più all'epica che alla serena analisi

scientifica. Ecco perché ho parlato di 'racconto storico' e di taglio popolare. L'incipit del prologo è illuminante in tal senso: «Bbicinannusi na civiltà ô

tracoddu, spuntunu comufungi pueti e rumanzeri a cantalla e cuntalla. Ppi trasmittilla, dicinu, é carusi e llungaricci 'a vita. » È questo il tempo del nostro

tracollo? Siamo in piena agonia di una civiltà che lentamente si spegne? O siamo invece in un altro snodo storico in cui stanno cambiando le forme sociali

e culturali non solo della Sicilia ma di quella civiltà occidentale, così come la conosciamo? Il poeta-storico avverte queste fibrillazioni culturali, capisce

che le antiche istituzioni che ancora reggono le nostre sorti si sono svuotate di quella forza propulsiva che le aveva generate (dalla rivoluzione francese al

liberalismo e al comunismo) e che bisogna trasmettere agli scolari di oggi un po' di quel sapere che ci ha reso quello che siamo stati e che siamo ancora.

Questa funzione la può esplicitare bene la storia e dunque alla storia dobbiamo rivolgerci se vogliamo capire le origini e i caratteri del nostro popolo.

È sintomatica infatti questa attenzione che i giovani hanno oggi per la storia più che per la poesia e la narrativa.

Ma, come abbiamo detto, la storia si nutre di movimenti popolari e non solo di grandi avvenimenti! E Tartaro proprio di questi parla e si ostina a

rilevarli in ogni epoca e in ogni governo che ci ha soggiogato: dai greci di Siracusa che schiavizzarono intere popolazioni vinte ai romani che costituirono

i primi latifondi, arricchendo i pochi e dando ai molti le motivazioni sociali per quelle guerre servili che tanto insanguinarono le terre siciliane.

E il discorso continua con i numerosi popoli che hanno condotto qui le loro armi e che hanno reso quest'isola uno sterminato continuo campo di

battaglia.

Questi soprusi e queste ingiustizie. ha sopportato il nostro popolo: dai Cilliri siracusani ai servi dei latifondi romani e bizantini, dal popolino dei

Vespri agli schiavi dei feudi, appartenenti come oggetti e cose ai loro nobili padroni, dai bambini smunti e decrepiti delle zolfare fino agli ardimentosi

picciotti di Garibaldi! Quante angherie e tassazioni esorbitanti hanno reso il nostro popolo povero e misero! Quanti diritti negati e quanti doveri

coercitivamente richiesti hanno cucito sul corpo dei siciliani quel vestito di rassegnazione e di sconfitta che ancora vestiamo! La storia di Tartaro è la

storia dei vinti di tutti i tempi, di tutta l'isola, di tutte le dominazioni: accorata e appassionata, rabbiosa e dissacrante.

Tartaro aggiunge poi un'altra componente: la scrittura dialettale. È una scelta radicale e coraggiosa! In questo tempo di crisi linguistica e di

trasformazione sociale egli sceglie uno strumento antico e di difficile comunicazione per il suo racconto. Sceglie il dialetto, con particolare legame al suo

territorio (Ramacca in provincia di Catania), sceglie cioè la lingua del popolo e non quella del Potere, egemonica e contaminata, in ossequio a quell'altra

più fondamentale scelta degli umili e dei lavoratori di tutti i tempi.

51

Molte sono infatti le notazioni linguistiche inerenti al siciliano: dalla sua formazione nell'ambito del latino volgare fino ai numerosi arricchimenti

che ogni popolo ha immesso nel corpo della nostra lingua dialettale.

Tartaro abbraccia la tesi di una progressiva e lenta formazione del dialetto, a partire dalla romanizzazione dell'isola e non dalla sua ri-

romanizzazione, iniziata dai normanni e consolidatasi con l'umanesimo. Questa contaminazione linguistica, segno di quell' altra più profonda

contaminazione di genti e di culture, ha dato al dialetto una vivacità non solo strutturale (lo testimoniano le tante grammatiche che hanno analizzato la

nostra lingua) ma anche letteraria, ritenuta ormai, la nostra letteratura, una delle più alte espressioni artistiche della nostra nazione.

La 'Questione dialettale' del siciliano ha camminato di pari passo con quella italiana fino all'avvento dell'Unità d'Italia, lasciando poi al toscano-

italiano l'egemonia linguistica attuale. Ma il dialetto continua ad essere scritto e parlato; scritto soprattutto dai poeti e dai narratori e parlato da larghi strati

di poplazione che usano un dialetto regionale, molto contaminato da italianismi e da forestierismi. Ma questo è il destino delle lingue, così legate alle

trasformazioni sociali dei tempi e così vive da sfuggire spesso alle analisi sincroniche.

Il dialetto di Tartaro ha un sapore antico e fascinoso; l'uso di termini arcaici come sdirramatu (spogliato dai rami, ma usato in senso metaforico),

malasurtati (di cattiva sorte, nell'accezione sociale riferita a intere categorie popolari), sarbaggiumi dé tempi (nel senso di una selvaggia qualità della

vita), ammatula (inutile), cattiva (nell'antica accezione di vedova), madè (anche), nno stramenti (intanto), ecc. inseriti in una narrazione ricca di altre

sfumature lessicali e grammaticali, sempre coerente dal punto di vista ortografico e sintattico, fanno del dialetto di Tartaro uno degli esempi di scrittura

più ricchi e più convincenti nel panorama della nostra letteratura dialettale.

Passato il primo comprensibile smarrimento, la lettura scorre veloce e sicura.

Come quando si ritrova un oggetto che avevamo smarrito e che ci ridà il piacere delle cose più care.

Corrado Di Pietro

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PREFAZIONE

L'obiettivo della "Bibliografia ramacchese" di Vito Tartaro, dichiarato

nel suo documento, è quello di recuperare una forma di ricchezza culturale

ed artistica di cui la nostra piccola e modesta società possa andare fiera.

Egli, facendo un paziente lavoro di ricerca e catalogazione vuole

dimostrare ai componenti della nostra comunità che, nel corso degli anni,

parecchi dei nostri concittadini si sono cimentati in lavori di un certo rilievo

nel campo della cultura e dell'arte.

Quale che sia il lavoro o l'eccellenza di essi non siamo noi a doverlo

giudicare. Quel che conta è l'impegno e la passione con i quali ognuno ha

lavorato, quel che serve è conoscere i passi e i percorsi di questi membri

della nostra comunità che hanno voluto dare esempi tangibili di cosa

significhi "lavoro creativo".

La "Bibliografia ramacchese", in ragione di questa premessa, si può

vedere come un invito a conoscere la produzione artistico-culturale della

nostra gente e allo stesso tempo una esortazione alle nuove generazioni a

impegnarsi sui vari fronti della ricerca e della produzione di nuovi percorsi,

cercando di emulare "i migliori".

Enza Ilardi

(Bibliografia ramacchese, Castel di ludica, Edizioni del calatino, 2012, p. 7)

Enza Ilardi

53

POSTFAZIONE

Vito Tartaro, poeta e scrittore ramacchese, con questa bibliografia rende omaggio alla produzione letteraria del paese in cui è nato e vive.

Sorprendente è la vivacità culturale che da essa viene fuori, tale da ricoprire tutti i generi letterari. Dai poeti in siciliano pluri-premiati come lo

stesso Tartaro, Fraccavento, Santagati, ai poeti in lingua come Enzo Salsetta, eclettico e colto scrittore anche per il teatro, ed i vari Sgarlata, Scuderi,

Savia; dai novellieri in erba come Letizia Sapuppo, ai giovani giallisti come Antonio Fiore; dai grandi romanzieri come Nino Piccione e Silvana La

Spina, agli storici come Tornello, Vitanza e Cucuzza; dai saggisti come Giuseppe Scuderi, Sebastiano Zuccarello, Pietro Muni, ai cantori dell'identità

siciliana come Mario Di Mauro, notevole è il contributo di intelligenze e passione che Ramacca ha regalato al mondo letterario.

Tralasciando le opere dei Gravina. fondatori di Ramacca, espressione dell'eruditismo religioso del primo '700 siciliano, rivolte in special modo agli

ambienti legati al mondo della Chiesa e degli ordini nobiliari, percorriamo l'elenco compilato dal Tartaro.

Tra gli scrittori ramacchesi Silvana La Spina (nata a Padova da madre veneta e padre ramacchese) è la più famosa. I suoi romanzi, pubblicati in più

edizioni da editori di prestigio quali Bompiani e Mondadori, sono tradotti in varie lingue e diffusi in tutto il mondo. Iniziatrice del "giallo siciliano" con il

bellissimo Morte a Palermo, del 1987, raggiunge l'apice della notorietà con romanzi storici di grande spessore ed impatto emotivo. La creata Antonia, tra

tutti, edito da Mondadori nel 2001, splendidamente trasposto per il teatro, è un libro introvabile. La scrittrice guarda alla Sicilia, ispiratrice di quasi tutta

la sua ultima produzione, pur non vivendoci più. L'impegno civile e il suo istinto pedagogico di ex insegnante mirabilmente raccontato in La mafia

spiegata ai miei figli (e anche ai figli degli altri) testimonia il legame profondo con questa terra amata e odiata. Gli ultimi suoi due romanzi, ambientati

sempre in Sicilia, sono un ritorno al genere poliziesco delle origini.

Scrittrice di teatro e per il teatro, Maria Campagna, insegnante ed appassionata attrice, per anni ha raccolto per villaggi e campagne tutta la più vera

espressione dell'ethnos siciliano. Esso è stato trasportato nei suoi scritti in lingua siciliana, di pubblicati solo in piccola parte, pensati per il teatro e messi

in scena da lei stessa e dalla compagnia teatrale che ancora oggi porta il suo nome. Scomparsa troppo presto, Maria Campagna ha lasciato un grande

vuoto nel teatro, nella letteratura siciliana e nei cuori di chi ha avuto la fortuna di conoscerla.

Laura Sapuppo

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Sua "erede" per interessi e genere è Maria Concetta Sottosanti, autrice di ricerche etno-antropologiche e insegnante di lettere, che nelle sue due

opere ha raccolto il linguaggio, le situazioni e le tradizioni orali delle strade e dei cortili paesani.

Ad accrescere il piccolo esercito di donne nella storia della letteratura ramacchese Sara D'Urso e Giovanna Falsone in poesia esprimono

l'evoluzione dei rapporti uomodonna ed il mondo rapportato alloro sentire femminile.

Molti sono i racconti auto-biografici: gli autori, spesso emigrati o con lunghe esperienze di lavoro all'estero, sentono il rapporto ancestrale con i

luoghi di origine e li raccontano raccontando se stessi. Così Matteo Santagati, Angelo Rizzo, l'elegante e sensibilissimo Carmelo Giannì e per certi versi

anche Francesco Longo, capitano di artiglieria e da civile rettore del prestigioso Convitto "C. Colombo" di Genova, che narra le sue esperienze di guerra

durante il secondo conflitto mondiale. Giuseppe Finocchiaro e Giuseppina Tartaro seguono il filone della scrittura didattico-professionale. Le esperienze

del loro lavoro di insegnanti in scuole pubbliche sono confluite in due interessanti pubblicazioni che in momenti storici diversi offrono al lettore uno

spaccato del mondo scolastico e dei rapporti scuola-famiglia, insegnante-allievo. La didattica musicale è rappresentata da Claudio Bennardo, musicista e

insegnante di pianoforte, nativo di Scordia ma residente a Ramacca, autore di manuali e di brani pianistici per giovani musicisti.

Nino Rizzo, insigne psicologo e psico-terapeuta da anni operante in Svizzera, è autore di pubblicazioni frutto delle sue esperienze professionali.

Discorso a parte va fatto per coloro che si sono interessati di storia ed archeologia. Un filone che, stimolato dalle scoperte archeologiche in territorio

ramacchese, ha fatto, negli anni, molti prose liti. Bisogna distinguere gli scritti che hanno finalità divulgative, come quelli di Giuseppe Tornello, il primo

ramacchese a pubblicare la storia del paese, o del sacerdote Filippo Vitanza, appassionato e prolifico cultore di storia e archeologia, da quelli diretti ad un

pubblico specialistico. Questi ultimi sono i testi della scrivente, di Gisella Verde, alcune pubblicazioni di Nino Cucuzza e il volume dell'architetto

Salvatore Malerba sull'urbanistica di Ramacca.

Frutto delle esperienze nel campo giornalistico sono le prime opere di Nino Piccione, che volge decisamente al romanzo storico in età più matura.

La folta e pregiata produzione romanzesca, ambientata in una Sicilia arcaica e aspra, ha riscosso ovunque consensi di pubblico e critica.

55

Manfredi Gravina (1883-1932) figlio del conte Biagio e Blandine von Biilow, ardente nazionalista, ufficiale della Regia marina e diplomatico in

Cina e Polonia, amico intimo di Gabriele D'Annunzio, scrive una serie di saggi che rispecchiano il clima socio-politico del ventennio fascista.

Alcuni sacerdoti che hanno svolto il loro officio religioso a Ramacca, hanno rivelato il loro animo poetico scrivendo poesie a sfondo religioso e

didascalico. Tali sono Giacomo Scarlatella e Dino Meli. Sebastiano Caniglia ha invece concentrato la sua attenzione alla storia episcopale della diocesi

calatina. Formidabile la figura del missionario salesiano Vincenzo Scuderi, uomo instancabile ed energico che ha costellato la sua esistenza con opere

altamente benefiche.

Molto interessante il progetto Ascoltami, che raccoglie le voci dei giovani studenti dell'Istituto superiore G. Russo, espressi in poesia o

semplicemente in riflessioni o messaggi, che ne rivelano fragilità, incertezze, ma anche la voglia di emancipazione e di legalità.

La Settimana Santa è una bellissima raccolta fotografica dei momenti più intensi delle celebrazioni pasquali ramacchesi. Gesti, espressioni,

movimenti sono immortalati con grande naturalezza e precisione tecnica.

Personalità, eclettismo, talento. Sembra che Ramacca ne sia bacino inesauribile. Giuseppe Catena, per esempio, oltre che essere autore di versi

dialettali, è un bravo cantante lirico (è stato per anni tenore al Bellini di Catania, incidendo varie raccolte musicali) e [me pittore. La pittura è stata anche

passione per Ignazio Santagati, recentemente scomparso, che con le sue accorate poesie canta Ramacca e la sua giovinezza e bacchetta la civiltà moderna,

colpevolmente vuota di principi e di sentimenti.

Laura Sapuppo

(Bibliografia ramacchese, Castel di ludica, Edizioni del calatino, 2012, pp. 31-34)

56

1

III PARTE CUTICCHI

Diventare paladino della lingua siciliana ..... p. 3

I senza anima .................................................. p. 4

Nannaparola ................................................... p. 5

Cuntannucuntannu ........................................ p. 7

DICEMULU CHIAR’E TUNNU

“Assapurannu silenzi”…………………….. p. 9

Pippu La Delfa: un sicilianu DOC .............. p. 10

“Tempu” ......................................................... p. 11

“A Putìa” ....................................................... p. 12

All’amico Vito Lumia ................................... p. 13

SICILIARI

(Poesie scelte dalla Redazione)

Amuri a Eryke ............................................... p. 15

Curriu ............................................................. p. 16

Glubalizzazioni .............................................. p. 17

Morire a Eryke .............................................. p. 18

Siciliari ........................................................... p. 19

Via di La Libertà ............................................ p. 20

2

3

Da tempo sentivo parlare di questo straordinario poeta -scrittore di Ramacca di anni 68. Non avevo mai letto niente di lui, ma adesso per sua

gentile concessione ho divorato nella notte l’ultimo suo libro “Carcariari” con Cunti e Canti siciliani.

La poetessa Flora Restivo di Trapani da tempo mi parlava di lui, ho cercato nelle librerie a Siracusa senza successo. Adesso, avendo ricevuto e

letto le sue poesie, ascoltato la sua voce per via telefonica, apprezzo anche la sua voce genuina sia di poeta che di uomo di cultura, la struttura, la

musicalità della sua poesia e la forma dialettale del siciliano antico che mi fa ritornare a ricordare la fanciullezza , quando i nostri genitori e i nostri nonni

parlavano in siciliano stretto con vocaboli oggi non più in uso se non agli addetti ai lavori. A mio avviso Vito Tartaro vivendo a Ramacca sente l’influsso

e le parlate dialettali dei paesi vicini e di ciò ne fa tesoro nei suoi scritti. Siamo consapevoli che vocaboli così rari si trovano sicuramente solo nei

vocabolari del Traina, del Mortillaro, del Rapisarda e “dulcis in fundo” nel Piccitto -Tropea (Il più completo e aggiornato vocabolario formato da cinque

volumi esistente in commercio). Vito Tartaro è stato recensito da illustri e prestigiosi scrittori e giornalisti come Vincenzo De Maria, Rino Giacone,

Salvatore Camilleri, Salvatore Di Marco, Nino Cremona, Corrado Di Pietro, Adalgisa Biondi, Giuseppe Cavarra , Emanuele Schebari, Marco Scalabrino,

Lina Riccobene , Silvana La Spina e Manlio Cortellazzo. Tartaro, ha pubblicato numerosi libri fra i quali gli ultimi in ordine di tempo, come Nannaparola

(poesie), 1999, Strada e Terra 2001, (narrativa) e Cuntannucuntannu (2004). A questo paladino della lingua siciliana va un augurio, che tanti lettori

possano conoscerlo e apprezzarne i suoi canti e cunti.

(www.giufino.altervista.org/GliArticoli.

Apparso su quotidiano di Siracusa "Libertà")

...diventare paladino della lingua siciliana

attraverso i versi

di una poesia d’amore verso l’isola

È accaduto allo scrittore di Ramacca Vito Tartaro il cui ultimo libro è

“Carcariari”

Giuseppe La Delfa

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«Alla maniera di Edgar Lee Masters - scrive Emanuele Schembari nell'introduzione a questoaureo libro di Vito Tartaro - si ha una sorta di Spoon River

Anthology...».

Una Spoon River siciliana, scritta da un poeta che non indulge al “folklorismo” tipico di tanti autori dialettali.

Il poeta è Vito Tartaro, autore in lingua siciliana, da Ramacca, già vincitore della scorsa edizione di “DiversiVersi”, noto meeting di poesia inedita di

Cenobio dell'Arte.

Un poeta che usa la lingua siciliana - come nota ancora Schembari - «come un linguaggio e non solo come lingua, trasformando la riflessione razionale,

nella forza delle immagini, segno di qualità poetica».

Il libro si articola in quindici ritratti (Vincenzu, Carmelu, Annamaria, Filippu, Cuncetta, Peppi, giuvanni, Turi, Vastianu, Saru, Cicciu, Ninu, Pasquali,

Micheli, Lu cuntu di Paulu), preceduti da Tutti morti, che è un po’ il sunto dei ritratti successivi: volti cari che scompaiono lasciando immagini imperiture

e nostalgiche.

Precede ogni cosa una citazione di Sovranità inattesa di Lina RiccobeneBancheri: «La poesia / celebra i riti dei perdenti / e vanta regni di carta / con

castelli di sabbia».

Quindici ritratti e un'introduzione con cui - come nota la Riccobene nella postfazione al libro - «Tartaro esercita una funzione descrittiva [per cui] ogni

testo è una fotografia tridimensionale, non solo di un personaggio, ma anche di un elemento della cultura». Altrettante allegorie di umanità siciliana.

«Canuscirili venti / e sintirisivòria e manziornu...» comincia il ritratto di Turi (Turi il Sarvaggiu, trovato morto a Monte Pulce, accanto alla sua cane

cirneca, in una capanna, con la mano sopra fogli sparsi di poesie): “Conoscere i venti, e sentirsi respiro di Levante e Mezzogiorno”, e infine «Dari / avìri /

e sintirsifilici / surridiennu a la morti / sintiènnisi Morti».

Annamaria viveva di poesia e pazzia (confine labile per definizione): «Tidicevanu / Annamaria / c'avìatipassatu la finàita / casiparapuisia e pazzia...

Muristi cu la tacca di pazza / e nuddu si ricorda di tia» (“Ti dissero che avevi oltrepassato il confine tra poesia e pazzia... ti infamarono come pazza e ora

non si ricordano di te”). Amaro destino di tanti in Sicilia e nel Mondo - geni incompresi, poeti derisi, profeti scacciati, santi perseguitati...

«Si vidi megghiuad occhi chiusi / e maggiulìalu cori / çiàvururinatìvu di matri» dice Micheli: “Ad occhi chiusi rinverdisce il cuore, profumo rigenerante

di madre”. Come a dire che la Poesia nasce dalla Fantasia, dal sogno e dal desiderio, prima ancora che dal pensiero.

Vito Tartaro, nei suoi ritratti non indulge mai ad accenni patatici: le anime dei Senza Anima sono le poesie stesse; la Morte è una inevitabile compagna

della vita, che non porta in dote l'oblio, ma la rimembranza. Il poeta, come scrive Lina Riccobene, «viaggia alla ricerca della propria identità» navigando

in un mare tempestoso, in cui non soffiano il Levante e il Maestrale, ma soltanto il flusso ancestrale della Vita e della Morte.

(www.salvomic.net/

Articolo pubblicato su Il Giornale di Scicli, Ottobre 1998)

I senza anima Salvo Micciché

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Vito “Jack Frusciante” Tartaro è tornato!

Le sue nuove armi - le armi che questo Efestoramacchese forgia nell’ipogeo della propria fucina - una volta più denotano, sin dal primo

scontro in campo aperto, la fierezza del fuoco, la sferza del vento, la carezza del sole. In buona sostanza la tempra, aspra e dolce al contempo, della

Sicilia. Della sua Sicilia. Della Sicilia come egli, a più riprese nel tempo, ce l’ha figurata: un prezioso ordito lirico sul quale insiste il cardine

zurricusu della storia. La grande Storia e le piccole storie. Insistono, quindi, i fatti del mondo.

E per conseguenza, insiste l’aspetto che più sta a cuore al Nostro: la lingua che (Wittgenstein asserisce nel suo Tractatus logico-

philosophicus) tali fatti è deputata a rappresentare.

Abbiamo appreso (giacché egli ce ne ha reso pienamente partecipi) il movente del suo ritorno: il timore - di questi tempi non del tutto

infondato - che la lingua decanti in favore di uno spiccio gergo standardizzato, che essa elegga dimora essenzialmente nel villaggio globale

commerciale, che sposi il deleterio processo di omologazione in corso; lo sgomento ancora al pensiero che, se mai ciò dovesse accadere, il dialetto

siciliano - al pari della lingua nazionale - rimarrebbe stritolato dai cingoli di questo orrido caterpillar.

E no! Vito Tartaro non ci sta.

Ed ecco egli sfodera e brandisce, con rinnovato vigore, un diverso registro linguistico. Un registro linguistico che (contrariamente a quanto

taluni falsi profeti da svariati lustri vanno annunciando) egli sa niente affatto povero, niente affatto scaduto, niente affatto anacronistico.

No! Vito Tartaro non può permettere che tale nefaria ipotesi si verifichi.

Non può permettere che “accàttitu” e “sbrinnuri” cedano il passo a” shopping” e” sun” ; non può permettere che chiedendo “pospiri” e

“canigghia” gli si risponda “non ce n’è / pirchì non capiscinu.” ; non può permettere che appellando i propri nipoti “çiatu” e “curina” questi gli si

rivolgano con espressioni del tipo “ma come parli nonno ?!” .

No! Egli ... è un baluardo. Egli si erge - erge la sua poesia - ad argine, a roccaforte. Ancora una volta, questo Pasionario della poesia siciliana

accorre in difesa del dialetto siciliano o per meglio dire (secondando il suo temperamento e ottemperando a un noto motto) passa all’attacco.

Vito Tartaro è un appassionato cultore; uno scrupoloso ricercatore.

Egli attinge a piene mani dalla nostra langue regionale, dal nostro “derelitto” idioma, ne perlustra ogni remoto andito, ne ricava, con esiti che

sanno di prodigio, la propria individuale formulazione, la propria sintesi, la propria parole.

Certa sua terminologia (terminologia che egli assai graziosamente ci” impone”) sembra tirata fuori dal suo cilindro della memoria. E tuttavia

- da Mastru quale egli è - riesce a piazzarla in un contesto di attualità, in uno scenario di cronaca, in un percorso di storicizzazione.

Nannaparola, di Vito Tartaro Marco Scalabrino

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Per di più, in una cornice di rigorosa coerenza ortografica, di rara ricchezza semantica, di speciale figurazione metaforica.

E nondimeno, NANNAPAROLA, non si ferma lì.

Perché se da un canto il Siciliano - il dialetto siciliano - è oggi più vitale che mai, d’altro canto esso è relegato (faticosamente resistendo a

contaminazioni, a italianismi, a beghe di ogni sorta) al ruolo pressoché esclusivo di lingua letteraria, lingua dei poeti; di lingua, ovverosia, rivolta

alla conservazione di un patrimonio di cultura che altrimenti, rischia, seriamente, di soccombere.

Nella presunzione allora di by-passare tale ventura, NANNAPAROLA (ciascuno di noi avrà modo di appurarlo direttamente dai versi)

suggerisce, tra speranza e provocazione, il dialetto quale parola del divenire.

Una parola che, per esplicita ammissione, è sinallagma di Poesia:

“ricca di tempu e biddizzi” , “ognuna ammugghiata ... di prufumu di zagara / canzuni / puisia” “namanuntalustomacu / e l’avutrasupralu cori /

pi non falli scuppiari ... chianciri / rìdiri / sunnari senza dormiri ... finacquannu … veni ... sta puisia” .

E cos’è, in definitiva, la poesia se non ... creazione? E questo straordinario evento - la creazione - non ci avvicina, forse, al Creatore per

antonomasia?

Bizzarra asserzione questa, considerato che viene riferita a un uomo, a un autore, che ebbe a titolare Ateismu prim’e tuttu la sua prima raccolta

poetica datata 1990 e che, ancora oggi, ammicca a una “minzogna di vinti seculi” .

Tommaso Ceva, nel XVIII secolo, definì la poesia” un sogno fatto in presenza della ragione” . Il poeta è, dunque, un sognatore:

“sonnusunnaturi / cansigna a curtivari ... paroliscurdati” , “Liccunarìi ... d’antichi pueti ... rispiru di nannavi.”, “casannu di capicchiu di

matri” .

Un sogno che il Poeta per primo esperisce ma col quale incombe comunque l’obbligo di cimentarsi. Tanto più che, avvertendone l’urgenza di

rinnovamento, Vito Tartaro, in una sorta di ideale staffetta, s’appresta a passarne il testimone ai giovani: “servunulestu picciotti ... pronti a

mpunirisi millenni / e farisiammaistrari / a sapiriascutariluventu” .

Ma chiudiamo - desistendo da ogni ulteriore frenesia di commento - e abbandoniamoci allo spleen del Nostro.

Con questo suo lavoro, Vito Tartaro si candida fra i migliori autori della attuale stagione della poesia siciliana.

(www.poiein.it

Ediz. Accademia dei Palici, 1999)

Nannaparola, di Vito Tartaro

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Racconti in lingua siciliana con traduzione integrale in italiano di Vito Tartaro, ramacchese già impiegato del locale

Municipio, si potrebbe dire, parodiando la nota epigrafe: "DI TUTTI DICE MALE ANCHE DI CRISTO", infatti oltre alla istintiva

indole dell'uomo, uno dei suoi libri è intitolato ATEISMO e "ateismo anzitutto" è il suo motto.

Ma in questi racconti in siciliano c'è un senso di religiosità travolgente e avvincente, la religiosità dei luoghi e delle usanze,

della famiglia e del lavoro come della caccia, della vita all'aria aperta, delle tradizioni popolari che traboccano dalle pagine di

immagini sontuose e suoni onomatopeici.

Una conferma di quella esaltante prova del romanzo - sempre in siciliano - che lo stesso Tartaro aveva pubblicato da Prova

d'Autore un paio d'anni prima, "STRATA E TERRA".

(http://www.provadautore.it)

CUNTANNUCUNTANNU

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Non conoscevo la parlata della patria di Diodoro, sono co-

sì entrato in un mondo ricco di sonorità, di lessemi con valori se-

mantici originali . Ed ho sentito l’influenza galloitalica, ho visto

la metafonia caratteristica della regione centro-settentrionale

dell’isola .

C’è nel tuo libro una fiumara di lirismo scaturente da emo-

zioni intensissime, struggentemente nostalgiche, sgomenti di

fronte all’angoscia del tempo andato Se fossi costretto a scegliere

il miglior componimento, direi : “ Cu fidi cruda” Perché descrive

bene lo scorrere della vita, la morte delle fiabe così care nella

fanciullezza e nell’adolescenza Nel tuo libro c’è il trascorrere

della vita con tutto ciò che essa si lascia dietro.

Da lettera all’autore, il poeta Vito Tartaro di Ramacca (CT ) 31 / 05 / 2007

www.ninorosalia.it/presentazione

Recensioni e note critiche su “Assapurannu silenzi”

Vito Tartaro

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Www.giufino.altervista.org/Recensioni.htm

Vito Tartaro

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www.trapaninostra.it/libri/Marco_Scalabrino/Canzuna/Canzuna_06.pdf

Recensioni e note critiche su “Tempu”, di Marco Scalabrino

Vito Tartaro

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“A Putìa” di Gaetano Capuano

Ho ricevuto e letto avidamente il tuo “ A putìa”, ho gustato il linguaggio essenziale e senza i segni della sofferenza

compositiva dei poeti “ cerebrali ”, un linguaggio semplice e “ calacala”.

Non meraviglia che critici di valore come Salvatore Di Marco e Giuseppe Cavarra ne scrivano positivamente.

Complimenti, e continua così, che hai raggiunto uno stile inconfondibile .

Tanti saluti “ mastru” Tanu, e una Sicilia d’arsuri.

11 luglio 2010 poeta Vito Tartaro – Ramacca (CT)

www.gaetanocapuano.it/areadownload/recensioni_putia.pdf

Vito Tartaro

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Carteggi tra Vito Lumia e Vito Tartaro

Carissimo Vito,

Leggere un libro di poesia siciliana, in un giorno tormentato dalla

tramontana, è come tornare per un’oretta al mese di luglio.

Che raggi di “suli a picu” e musica dolce sono “na junta di tem-

pu”, “na minna di suli”, “na virgula a galla”, “cannistru d’amuri”, “un

ciuri di crita” e tante altre belle figure.

Grazie, carissimo Vito, dell’odoroso dono di “Ciuri di Sciara”, il

tuo secondogenito. E grazie per l’appassionata difesa della nostra lingua,

sempre più ghettizzata, sempre più irrisa anche da parte dei Siciliani cul-

turalmente colonizzati.

…Poesia pensata in siciliano, la tua, senza costruzioni letterarie,

spontanea e semplice, che tuttavia eleva a linguaggio poetico la lingua

della comunicazione.

Poeta Vito Tartaro

«Lettera del 5 dicembre 1997»

Caro Vito [Lumia, Trapani]

Appena arrivato, ho divorato il tuo bellissimo terzogenito “Chiantu

di Cori”. Se si fosse costretti a sintetizzarlo in una sola parola, questa non

potrebbe essere che “angoscia”.

Angoscia che sai trasmettere magistralmente al lettore, coinvolgen-

dolo ed emozionandolo!

Lo scopo ultimo dell’arte (chi l’ha detto? Boh! Ma non ha molta im-

portanza) è il fine che sanno raggiungere solo i veri poeti.

Alla luce di questa sintesi estrema, non servirebbe a nulla dire che

“Trazzeri novi” è una delle più belle, che le immagini “...Bagghiu/ affud-

datu d’affettu...” di “Ora” e “comu ‘n-chiovu di scarpa / persu nta na traz-

zera” di “Sulitutini”fanno sussultare...

Che la più alta drammaticità si incontra nella geniale chiusa di

“Austu livanzaru” : «Pi favuri, / dicìtimi ca nun sugnu / ‘n-paradisu!».

Perchè? Perchè tutte le poesie sono allo stesso livello, sentite, anzi sofferte,

e dalla resa straordinaria. “E iu m’aju rrichiatu a liggilli nni na sula tira-

ta”...

Ti saluto, caro Vito, ti ammiro, sono fiero di esserti amico.

Ramacca 04.07.2007 VITO TARTARO

«Lettera del 4 luglio 2007»

www.trapaninostra.it/libri/Vito_Lumia/Muzzuna_di_pinzeri/

Muzzuna_di_pinzeri__Vito_Lumia_11.pdf

Vito Tartaro

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AMURI A ERYKE

Sudd’iu e tu avissimu campatu

cchiù di dumila e tricent’anni arreri

supra â Muntagna, unn’è ca s’ha truvatu

na cità antica ccu du’ cimiteri,

unni dintra ogni tomba era sarbata

na trintina di morti, nichi e granni,

tutti misi precisi ‘n filarata

ccu mùstichi a dicini a tutti banni,

oggi cci fussi cocca scavaturi,

ppô scantu divintatu menzu scemu,

ca cuntassi sta scena ccu tirruri:

“Trasu nnâ tomba, l’occhi sbarrancati

cà sta scurannu, e tuttu paru tremu

quannu vidu du’ schelitri abbrazzati”.

AMORE A ERYKE

Se tu ed io fossimo vissuti

più di duemila e trecent’anni fa

sulla Montagna, dove s’è trovata

un’antica città con due necropoli,

dove ogni tomba a camera serbava

più o meno trenta morti, grandi e piccoli,

depositati in ordinate file

con decine di vasi dappertutto,

oggidì un anziano tombarolo,

per lo spavento mezzo scimunito,

narrerebbe il motivo con terrore:

“Apro la tomba, gli occhi spalancati,

ché sta facendo buio, e tremo tutto

quando vedo due scheletri abbracciati”.

Grasso, M. (a cura di), Chiana e biveri, Prova d’Autore, 2002, pp 43-44

Vito Tartaro

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CURRIU

Parolicunfetti

çiumari di pastamènnula

tuttuchiddu ca ti dissiscrissi

tempu di mprùcchia.

Ma panidùru schittu

fu ppi tia

broducchiàppiri

pumitucòla rannuliatu.

E ppi na speci di currìu

non l’aju ripitutu a nentinuddu

a nuddunenti mai nni fazzu sentiri.

Tranni ca un jornu

non scoprunu ddu nastru di celu

unni veni mimurizzata

ognivuci di la Terra:

tannu ti chiovunu ncoddu

Mungibeddi di melibleu

ca rusbigghia passionantichi.

Senza cchiù currìu

senza spingulìu di sangu

pirchì ddu jornu

Siciliuzza ducibedda

c’era na vota iu.

DISPETTO

Confetti,

fiumi di marzapane

le parole che per te dissi e scrissi

nel fiore della giovinezza.

Ma per te fu

pane secco condito con pane,

brodo di capperi,

pometocola straziato dalla grandine.

E, per una sorta di dispetto,

non le ho ridette a niente e a nessuno

e a nessuno e a niente ne darò conto.

Tranne che un giorno

non venga scoperto quel nastro di cielo

dove viene registrato

ogni suono della Terra:

allora ti si rovesceranno addosso

colate di miele ibleo,

maestro nel risvegliare sopite passioni.

Senza più dispetti

né scombussolamenti di sangue

perché quel giorno,

Sicilietta dolce e bella,

c’ero una volta io.

Tartaro, V., Carcariari. Cunti e canti, Castel di Iudica, Samperi editore, 2007, pp. 60-61

Vito Tartaro

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GLUBALIZZAZIONI

Ventu tristu

ca lima madè la parola

punintìa l’isula di Ciullu

facennu di la storia

pruvulazzu c’annorbaccupa.

Ni la terra di Santucalì

pi millenni cunquistatura

di parrati cunquistaturi

è comu parrari contraventu:

arrivunu sulu funemi

senza significatu:

parrarammàtula.

Parrarammàtula

ni la patria di Gnaziubuttitta

unni la parola

nasceva cu la nnocca

e gh’era sgricciu di cantu

favara di puisia

figghianna di paroli.

E non c’è nuddu

nuddu ca ricogghi ristaturi

di Siciliasiciliani

pi nfurnalli ni lu cori

e nutricaraddevi.

Cà “glubalizzazioni” voli diri

bruçiari mpronti di passatu

quasi d’ogni passatu

supra l’artaru di lu diu Dinaru.

Salsetta, V e Zuppardo, E (a cura di), L’angelo ferito: antologia poetica, Gela : Betania

Editrice , 2005, pp. 145-146

Vito Tartaro

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Vito Tartaro

MORIRE A ERYKE

Suddu un jornu mi dici “L’amuri finiu”,

mi nni chianu a Muntagna ‘e Ramacca, mi infilu

nta na tomba a manziornu ca uarda a Miniu

e mi lassu muriri nsuppilu nsuppilu.

Ti dumannu di farimi armenu un favuri:

quannu murunu a lastra unni è scrittu “Riposa

n’omu anticu ca vosi moriri p’amuri”,

mi ci chianti davanti na macchia di rosa?

All’archeologa Rossella Gigli che, nell’agosto 1982, durante una campagna di scavi sulla Montagna, rinvenne una tomba sicula.

Ramacca Notizie, Anno 2°- N. 4, Gennaio 1983

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SICILIARI

Siminari accàttitu sbrinnuri

e ricogghiri shopping e sun.

Dumannari pospiri canigghia

e sintirisi diri” non ce n’è”

pirchì non capiscinu.

Jucari niputi

Chiamannuli çiatu curina

e sapiri di lèsina

“ma come parli nonno” ?!

E circari d’agghiuttiri

trenta seculi di storia

tippa di paroli duci

ca chiantu cuddatu

e cutugna pilusi

fannu aggruppari.

Siminari

allura

e dormiri

dormiri cu Duceziu

Japicu di Lentini

Santu di Linguarossa.

Rusbigghiarisi

(rusbigghiari vivi-morti e morti- vivi)

quannu di criscimugna

spuntunu Siculi di vaglia:

Erykeni mafiuisi

Minioli risuluti

Palikeni ardimintusi.

E siciliari.

SICILIARE

Seminare accàttitu sbrinnuri

e raccogliere shopping e sun.

Domandare pospiri canigghia

e sentirsi rispondere “non ce n’è”

perché non capiscono.

Giocare con nipoti

Chiamandoli çiatu curina

e sapere di lèsina

“ma come parli nonno” ?!

E cercare di ingerire

trenta secoli di storia

pregna di dolci parole

che pianto ingoiato

e cotogne acerbe

non fanno ingurgitare.

Seminare

allora e dormire

dormire con Ducezio

Iacopo da Lentini

Santo da Linguaglossa.

Svegliarsi

(svegliare vivi-morti e morti- vivi)

quando da lievito

nasceranno Siculi di vaglia:

Erykeni baldanzosi

Mineoli risoluti

Palikeni ardimentosi.

E siciliare.

(Nannaparola, Palagonia, Accademia dei Palici, 1999)

Vito Tartaro

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VIA DI LA LIBERTÀ

Quantu voti

ti ntisi parrari d’uguaglianza

malidicennu

ddu diu ca pruteggi patruna!

Chi vantatini

a na nzalata di cipudda

cu pricoca menzi aresti

a la fara di lugliu!

(L’acitu brucia la vucca,

lu cavudu peddi e paroli.)

Chi brama di pani e cuperti

ni mmirnati trivulusi!

E muristi

riccu d’amuri pi l’avutri

Ora mancu la terra

si ricorda carizzi

pi ngranari mennuli e frummentu.

Ora li malfatturi

su’ chiù danarusi

e ringrazianu lu so diu.

E iu,

eredi di sonnu

acciuncatu di lu bisognu,

disiu na nzalata di chiddi

e fazzu uerra a lu diu

ca pruteggi criminali.

Ma quannu è longa, Pa’

quant’è truppicalora

la strata di la libirtà!

Ramacca Notizie, Anno XIII- N° 50- Luglio 1994

Vito Tartaro

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…E si durmiu

Coppula supra la frunti

Manu accapizzata ni longa varba culuri luna

Si durmiu pi sempri l’urtima scarda di storia antica.

Avi di tannu ca non scrivu un versu.

(Tartaro, V., I senza anima, Catania, 1996, p. 53)