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Quaderni del Liceo Orazio N. 7 Anno Scolastico 2016/2017 Liceo ginnasio statale Orazio ROMA

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Quaderni del

Liceo Orazio

N. 7

Anno Scolastico 2016/2017

Liceo ginnasio statale Orazio

ROMA

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Questa pubblicazione

è stata curata

da Mario Carini

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INDICE

Introduzione ……………………………………………………………...pag. 5

SEZIONE DOCENTI

ANNA PAOLA BOTTONI – ANNA MARIA ROBUSTELLI,

L’esperienza di un laboratorio di lettura: il cronòtopo del castello ……………………………………………….……13

MASSIMO CALDERONI – WALTER FIORENTINO,

Tragedia e conoscenza. Teatro come palestra

di valori identificativi …………………………………………………..……19

MARIO CARINI, “Per far più lieti i tristi giorni…”: il diario

della prigionia in Germania di Ugo d’Ormea …………..……………….29

MARINA CASTELLANO, Una proposta di lettura scolastica

del I canto dell’Inferno (vv.1-27) ………………………………..……95

PIERANGELO CRUCITTI, Sul concetto di fauna

e sulle sue applicazioni …….………………………………………………109

ANNA MARIA ROBUSTELLI, Le tante voci de La fanciulla

senza mani …...…...…………………………………………………………137

SEZIONE DIDATTICA

(collaborazioni degli studenti)

Prof. Stefano de Stefano, XXIV Olimpiade di Filosofia ………….……153

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Miscellanea di matematica, a cura del prof. Maurizio

Castellan …………………………………………………………………..…161

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INTRODUZIONE

Proseguendo una linea editoriale iniziata pochi anni or sono, che vede

il recupero di fonti memorialistiche inedite relative alla storia (sarebbe

meglio dire, alle storie) degli italiani durante la seconda guerra

mondiale, pubblichiamo in questo numero il diario di un altro giovane

militare italiano, Ugo d’Ormea, che visse dopo l’8 settembre i

drammatici mesi della prigionia in Germania.1 Le scarne pagine scritte

da Ugo d’Ormea sono pagine che oggi appartengono alla Storia e

raccontano, senza dire tutto ma molto lasciando intuire al lettore

sufficientemente informato, della fame, delle privazioni, delle angherie e

delle vessazioni che dovette patire da parte degli aguzzini tedeschi. E

noi siamo onorati di pubblicare nelle nostre pagine il memoriale di Ugo

d’Ormea, internato militare italiano che ha scelto in seguito di

raccontare pubblicamente la sua testimonianza e che è stato premiato,

per il suo sacrificio e il suo impegno civile, dal Presidente Giorgio

Napolitano con la medaglia d’oro riservata ai deportati nei campi di

concentramento tedeschi.

Abbiamo potuto esaminare il diario di Ugo d’Ormea grazie alla

cortese disponibilità di suo figlio, il Dott. Aldo d’Ormea, che è anche

genitore di una alunna che il prossimo anno frequenterà il nostro Istituto.

1 Nel quinto numero dei “Quaderni del Liceo Orazio” abbiamo pubblicato il

taccuino di Serafino Clementi, giovane militare di Fermo che trascorse i mesi dal

settembre 1943 al gennaio 1945 nei campi di Luckenwalde, Tarnopol in Ucraina,

Siedlce in Polonia e Sandbostel, presso Hannover (in questo campo pressappoco

nello stesso periodo di Clementi fu prigioniero Ugo d’Ormea). Poi venne inviato al

lavoro coatto in una fattoria della Baviera, a Rutting, ove rimase fino alla liberazione

da parte degli angloamericani. Vd. Mario Carini, Una voce dal Lager: il taccuino di

Serafino Clementi (1943-1945), in “Quaderni del Liceo Orazio”, n. 5, Liceo Classico

Orazio, Roma 2015, pp. 21-116 (testo leggibile anche sul sito del Liceo Ginnasio

Statale Orazio di Roma all’indirizzo:

www.liceo-orazio.it/documenti/public/site/materiale_didattico/Pubblicazioni)

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I “Quaderni” si confermano dunque come uno spazio di convergenza dei

contributi che provengono da tutte le componenti della nostra comunità

scolastica, dai docenti, dagli alunni e dai genitori, in uno scambio di

conoscenze, esperienze e memoria che è arricchente per tutti.

Gli altri lavori che appaiono nel presente settimo numero dei

“Quaderni” sono i seguenti. La “Sezione docenti” comprende:

L’esperienza di un laboratorio di lettura: il cronòtopo del castello, delle

Proff. Anna Paola Bottoni e Anna Maria Robustelli; Tragedia e conoscenza. Teatro come palestra di valori identificativi, dei Proff.

Massimo Calderoni e Walter Fiorentino; “Per far più lieti i tristi

giorni…”: il diario della prigionia in Germania di Ugo d’Ormea, del

sottoscritto; Una proposta di lettura scolastica del I canto dell’Inferno

(vv.1-27), della Prof.ssa Marina Castellano; Sul concetto di fauna e sulle

sue applicazioni, del Prof. Pierangelo Crucitti; Le tante voci de La

fanciulla senza mani, della Prof.ssa Anna Maria Robustelli, già docente

di lingua e letteratura inglese presso il nostro Istituto. La “Sezione

didattica (collaborazioni degli studenti)” comprende il contributo del

Prof. Stefano de Stefano, XXIV Olimpiade di Filosofia, con gli elaborati

degli studenti premiati, e la Miscellanea di matematica del Prof.

Maurizio Castellan.

Prima di congedarci dai lettori e di ringraziare i nostri collaboratori,

vorremmo svolgere alcune considerazioni sul futuro dei “Quaderni del

Liceo Orazio”, visto nell’attuale prospettiva del cambiamento delle

forme e modi di trasmissione del sapere. Dei “Quaderni” sono usciti

finora, con il presente, sette numeri nel tradizionale formato cartaceo, in

cui peraltro sono stati pubblicati tutti i volumi costituenti il progetto di

autoeditoria scolastica portato avanti dal 2003 nella nostra scuola

(ricordo i sei volumi della Miscellanea di Saggi e Ricerche e i due

volumi dell’Annuario, e aggiungo anche i dieci volumi che contengono i

cicli di conferenze sui temi di approfondimento organizzati dalla

Prof.ssa Licia Fierro). Ma i tempi corrono, anzi cambiano tumul-

tuosamente. Siamo ormai entrati nell’era della “cultura digitale” e i suoi

effetti si fanno ormai sentire dappertutto, anche nella scuola. Ciò sembra

smentire i difensori dei tradizionali e ormai obsoleti sistemi educativi,

come ad esempio Clifford Stoll, per il quale si può senz’altro

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raggiungere un eccellente grado di educazione anche senza computer.2

Non è nostra intenzione addentrarci nella complessa diatriba oggi di

moda, ossia se l’uso del computer incoraggi la passività intellettuale3 o

se il motore di ricerca, mettendo a disposizione dell’utente una quantità

sterminata di informazioni in un tempo immediato, renda più divertente

e affascinante il sapere, stimolando la curiosità e la creatività della

mente umana e al contempo rendendo assai più facile la comunicazione

tra le persone.4

Nell’ottica della “cultura digitale”, rispetto agli e-book, ai padlet e

agli altri prodotti informatici, il libro tradizionale, quello in formato

cartaceo che ha segnato la civiltà umana dopo l’invenzione di

Gutenberg, appare inesorabilmente come un oggetto antiquato,

sorpassato, una cosa da cataloghi di vintage. Ci sorge dunque il dubbio

se non sia il caso di mandare in pensione (non vogliamo usare il brutto

termine “rottamare”, tanto di moda oggi) i “Quaderni” nella attuale

forma cartacea e progettare nuovi “Quaderni del Liceo Orazio” in forma

più innovativa, digitale, come un e-book. Il cambiamento avrebbe

aspetti positivi, perché permetterebbe di risparmiare sui costi di stampa

(non sappiamo però di quanto) e renderebbe più attraente, sul piano

grafico, il prodotto. Però nella forma “dematerializzata” esso rischie-

2 Cfr. Clifford Stoll, Confessioni di un eretico high-tech (High-Tech Heretich,

1999), trad. di Andrea Antonini, Garzanti, Milano 2004 rist., p. 34. 3 Va detto che da autorevoli esperti (linguisti, pedagogisti) si sono levate

preoccupate denunce sulla qualità sia dell’apprendimento ottenuto mediante Internet

sia delle nuove modalità di lettura e scrittura, ove l’immagine prevale sulla parola,

sia delle nuove forme di acquisizione del sapere, ove il ricordare è sopravanzato dal

dimenticare. Un’allarmata denuncia dei rischi a cui la “realtà digitale” espone la

mente umana è nel saggio del linguista Raffaele Simone, Presi nella rete, Garzanti,

Milano 2012. Di “autismo digitale”, come fenomeno, vera patologia, riscontrata

soprattutto nei più giovani, conseguente alla dipendenza da Internet e dai telefonini

cellulari, parla il famoso psichiatra Vittorino Andreoli in La vita digitale, Rizzoli,

Milano 2007, pp. 205-206. Ma già alcuni anni prima il filosofo Umberto Galimberti

aveva osservato la mutazione antropologica della nuova “umanità digitale” nel

segno di una alienante e agghiacciante solitudine (cfr. Umberto Galimberti, La

solitudine di Internet, in “La Repubblica”, 21 luglio 1995). 4 In questo senso si esprimeva trionfalisticamente il capo dei manager della

Microsoft, Steve Ballmer nel discorso che tenne agli studenti della LUISS il 16

ottobre 2006, vd. Steve Ballmer, Così il mondo sarà a portata di tastiera, in

“Panorama”, 23 novembre 2016, pp. 184-188.

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rebbe di essere scarsamente o per nulla visibile: un libro cartaceo

comunque esiste, è un oggetto palpabile, una realtà concreta, un libro

digitale esiste soltanto nello spazio virtuale, in una “realtà” artificiale

che un virus informatico o un blackout di energia può istantaneamente

annientare. Inoltre nel sito del Liceo Orazio i “Quaderni”, se fossero

prodotti in forma digitale, dovrebbero avere una diversa e assai più

evidente visibilità e un aspetto grafico esteticamente migliore e ben più

accattivante della semplice versione in PDF.

I nostri “Quaderni”, che contengono testi diaristici oltre alle ricerche e

saggi di docenti e studenti, sono anche un deposito di memoria, e la

memoria serve a guardare al passato per costruire un futuro di libertà,

affinché l’uomo non ricada più negli errori e orrori della Storia. Un

futuro di libertà può costruirsi soltanto con la libertà del pensiero, con la

libertà della sua espressione e delle scelte individuali. Ma il digitale è

espressione di un pensiero davvero libero, quando l’uso improprio o

addirittura illecito di esso (nelle sue molteplici forme, che talvolta

rasentano i limiti della violenza psicologica) rischia di limitare la libera

espressione della persona?

Poniamoci anche questa domanda: ci stiamo forse avviando a un

mondo senza libri, a biblioteche costituite da computer e DVD e da

chissà quale altro ritrovato della tecnologia?5 E dell’uomo cosa resterà?

Concludiamo queste nostre riflessioni con una bellissima e suggestiva

immagine, quella di migliaia e migliaia di libri che si sollevano da terra

come uccelli e volano via nello spazio celeste, verso un luogo dove

finalmente possano essere e sentirsi amati: la ricordiamo in un profetico

racconto di uno scrittore di fantascienza, John Sladek, che leggemmo

quando eravamo ancora giovani e il nostro mondo non era ancora

digitalizzato.6

5 Questo era del resto lo scenario dell’articolo di Massimo Gaggi, E Google creò un

mondo senza libri, in “Corriere della Sera”, 6 gennaio 2006. 6 John Sladek, Rapporto sulle migrazioni di materiale didattico (A Report on the

Migration of Educational Materials, 1968), trad. di Gabriella Chandler, in Il passo

dell’ignoto. Un’antologia di racconti di fantascienza, a cura di Carlo Fruttero e

Franco Lucentini, Mondadori, Milano 1977, pp. 167-174. Sul racconto vd. l’analisi

di Vincenzo Oliva, testo leggibile sul sito Allontaniamoci da Omelas all’indirizzo:

http://olivavincenzo.blogspot.it/2012/06/i-classici-rapporto-sulle-migrazioni-di.html

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Ringraziamo tutti coloro che hanno collaborato a questo numero dei

“Quaderni” e il Dirigente Scolastico Prof. Massimo Bonciolini che ha

promosso la pubblicazione.

Roma, 3 novembre 2016

Mario Carini

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Sezione docenti

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ANNA PAOLA BOTTONI – ANNA MARIA ROBUSTELLI

L’esperienza di un laboratorio di lettura:

il cronòtopo del castello

Il presente lavoro costituisce una riflessione su una struttura narrativa

ricorrente con notevole frequenza nella narrativa ottocentesca, ossia il

cronòtopo del castello.

Il cronòtopo di per sé è una forma di interconnessione artistica,

attraverso la quale la letteratura si impadronisce dei singoli aspetti di un

tempo e di uno spazio, storico o fantastico. Il termine ha per la verità

origine dalle scienze matematiche e fisiche (ad esempio da A. Einstein)

per indicare l’interconnessione dei rapporti spaziali e temporali. È stato

adattato alla letteratura dallo studioso Michail Bachtin in un saggio del

1937-38, divenendo, a partire dagli anni Settanta, di uso corrente nella

critica letteraria. Bachtin informa che con questo termine vuole

significare «l’inscindibilità dello spazio e del tempo», vale a dire il loro

condizionamento reciproco nelle opere letterarie.

Nel cronòtopo letterario «ha luogo la fusione dei connotati spaziali e

temporali in un tutto dotato di senso e di concretezza»: infatti i

«connotati del tempo si manifestano nello spazio, al quale il tempo dà

senso e misura». Poiché il cronòtopo letterario implica il modo con cui è

trattata da un autore l’immagine dell'uomo (che è sempre cronotopica,

collocata cioè nello spazio e nel tempo), esso riguarda tanto la forma

quanto il contenuto di un’opera.

Durante l’anno scolastico 2015-2016 si sono tenuti incontri di

carattere laboratoriale finalizzati alla lettura, analisi, comparazione e

interpretazione di brani di romanzieri dell’800 e del 900. Le letture

prescelte sono state imperniate sul tema del cronòtopo del castello nella

narrativa popolare. Si è analizzata la descrizione degli ambienti esterni

con la posizione del sito del castello, e quelli interni, soprattutto quelli comprendenti camere ipogee e sotterranei labirintici. I personaggi che si

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muovono nel contesto del castello, soprattutto quando esso ha forma

labirintica, sono i vilains, per eccellenza, della narrativa popolare.

Pertanto sono stati analizzati alcuni tipi di castelli e dimore per

enucleare dalle costruzioni i tipi più caratteristici di vilains, ossia di

antagonisti rappresentanti simbolicamente il male in azione. Gli studenti

hanno potuto constatare che il castello, nella narrativa ottocentesca,

diventa così il teatro della perenne lotta fra il Bene e il Male, incarnato

nel personaggio luciferino del cattivo e negli elementi soprannaturali,

ossia forze misteriose e arcane che perseguitano gli eroi e le eroine dei

romanzi popolari.

L’obiettivo del nostro laboratorio è stato dunque quello di far leggere

e analizzare gli aspetti peculiari di vari cronòtopi di castelli presenti nei

testi letti. I testi sono stati prescelti dalla narrativa dell’Ottocento, colta e

popolare. Gli studenti hanno effettuato poi una catalogazione mediante

apposita schedatura dei vari tipi di dimore presenti nei brani letti,

identificando i siti, la posizione, l’elemento paesaggistico preminente

che funge da contesto della dimora, gli ambienti interni, i loro arredi, in

specie quegli oggetti che vengono “animati” da forze soprannaturali

(come gli specchi, i quadri e le porte). Gli studenti si sono soffermati ad

analizzare i temi del sotterraneo e del labirinto, come luoghi ad effetto

“perturbante” e sedi privilegiate di esseri che complottano contro i

protagonisti o l’umanità intera per realizzare malvagi e folli progetti. Gli

studenti hanno analizzato gli espedienti retorici utilizzati dagli autori dei

brani per creare effetti di angoscia, claustrofobia, di suspense, di

mistero, di epifania del soprannaturale.

Il primo romanzo esaminato dagli studenti è stato I promessi sposi di

Alessandro Manzoni (1842), un testo classico, che da oltre un

cinquantennio fa parte del bagaglio di letture degli studenti del ginnasio.

Tutti ricordano i due castelli ivi ricorrenti, ossia il palazzotto di don

Rodrigo, simbolo del potere del signorotto o “tirannello” del villaggio in

cui abitano Renzo e Lucia, e il castello dell’Innominato, che come una

sorta di nido d’aquila sovrasta la valle su cui si affaccia.

Il castello è un topos del romanzo gotico, e ricco di elementi gotici è

il romanzo manzoniano, soprattutto la prima edizione, il Fermo e Lucia.

Il castello (che dà peraltro il titolo al romanzo che inaugura il genere

della letteratura gotica, ossia Il castello di Otranto dell’inglese Horace

Walpole, pubblicato nel 1764) si caratterizza come cronòtopo per queste

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specifiche modalità: 1) il castello è saturo di tempo passato e di storicità;

2) esso ha un legame storico con il paesaggio e l'ambiente circostante.

Entrambi questi aspetti compaiono nel palazzotto di don Rodrigo. Gli

spazi interni del castello 'dialogano' con il proprietario (cap. VII),

mentre l'esterno ha una dimensione simbolica: si trova su un’altura e

domina tanto un borghetto di contadini che sono anche bravi e gente di

malaffare, quanto, più in basso, il paese di Renzo e Lucia. Rappresenta

dunque un potere che sta in alto e che opprime. Diverso è il

«castellaccio» dell’Innominato: non ha storicità nelle stanze, ma solo

armi. Non ha un passato dietro di sé, sembra non avere né storia né

famiglia, dal momento che Manzoni lo vuole far emergere come figura

gigantesca ed isolata. Esprime la stessa idea di grandezza e di superbia

che viene emanata dal personaggio, un'aspirazione all'onnipotenza, quasi

una sfida a Dio (cfr. anche la figura di Napoleone nelle prime due parti

del Cinque maggio). È circondato da un paesaggio rupestre, privo di

vegetazione e di vita, dove domina il senso dell'inorganico, del

selvatico. Forse per questo è più vicino all'Assoluto.

Uno scrittore americano dell’Ottocento, che conobbe l’opera del

Manzoni, tanto da riecheggiare l’episodio della peste di Milano in un

suo racconto parodistico, Re Peste, ossia Edgar Allan Poe (1809-1849),

sfrutta il motivo del castello per creare atmosfere tipicamente

orrorifiche. Per Edgar Allan Poe il castello è il luogo dell’esclusione,

funge da barriera protettiva contro il mondo esterno e isola il

personaggio dagli altri dandogli una falsa illusione di sicurezza e

intangibilità dai catastrofici eventi esterni. Così è in due racconti che

abbiamo fatto leggere agli studenti, La caduta della casa degli Usher e

La maschera della Morte Rossa. Nel primo racconto il castello che isola

Roderick Usher, con la sorella Madeleine, dal mondo, è il luogo di una

esistenza eremitica e malata, che conduce un individuo ipersensibile

reso estraneo agli altri dalla malattia e dalle personali ossessioni,

fantasmi mentali che lo imprigionano in incubi deliranti. Roderick Usher

vive una realtà di sogno e delirio, verso la quale lo attirano

irresistibilmente una particolare tonalità musicale o un particolare

colore, che esaltano la fascinazione dei suoi sensi. Da questo mondo

onirico nel quale Roderick Usher per sua stessa volontà è prigioniero,

ritorna alla realtà vera durante una notte tempestosa, quando ascoltando

la lettura di un poema cavalleresco fatta dal suo amico ospite, il solo

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ammesso alla sua tetra solitudine (l’io narrante, nel quale è da vedere lo

stesso Poe), percepisce rumori sempre più nitidi e terrificanti che

vengono dalla cripta sotterranea ove, alcuni giorni prima, ha deposto il

corpo dell’amata sorella Madeleine, morta di un morbo sconosciuto e

letale. La porta della sala con un scricchiolio fortissimo si spalanca e il

corpo della povera Madeleine, ritornata alla vita prodigiosamente per

rinfacciare al fratello le esequie premature (altro tema che ricorre

ossessivamente nella narrativa poesca), piomba addosso a Roderick,

avvolgendolo in un abbraccio mortale. Roderick muore all’istante di

spavento e contemporaneamente il vecchio castello degli Usher crolla

nella palude che lo circonda, in una spaventosa frana di macerie

cosparse di muffa. La corruzione corporea della defunta Madeleine,

arrestatasi prodigiosamente per far risorgere la donna animata da un

feroce sentimento di vendetta, ha il suo gigantesco riflesso nella

corruzione che mina la struttura del castello, vecchie crepe che si

allargano sempre di più negli ultimi istanti di vita di Roderick, e trionfa

con la distruzione completa dell’antica dimora degli Usher. In questo

racconto è il castello, spazio delle morbose ossessioni del protagonista,

che vive della vita irreale e alienata di Roderick Usher e muore quando

cessa di vivere il suo padrone.

Un altro racconto ambientato in un altro castello è La maschera della

Morte Rossa, che trae spunto dalla peste manzoniana. In un luogo

presumibilmente dell’Italia rinascimentale il principe Prospero, uomo

egoista e sordo al dolore della sua gente, si ritira nel suo castello,

assieme ai suoi cortigiani, giacché nella landa infuria la terribile “morte

rossa”, un morbo incurabile dai segni e sintomi raccapriccianti. Il

principe, che ha fatto arredare le sette sale del castello con mobili e

tessuti di un diverso colore (vi è la sala verde, quella turchese, quella

arancione, l’ultima è la sala nera ove batte le ore un cupo orologio

d’ebano), passa il suo tempo dando splendide e lussuose feste, incurante

del fatto che i suoi sudditi muoiano falcidiati dalla fame, giacché è

sopravvenuta una atroce carestia, e dal terribile morbo. In questo

racconto il castello simboleggia l’illusione di potere del malvagio

protagonista, illusione che va in frantumi quando il principe Prospero

scorge tra i cortigiani invitati ad un’ultima festa in maschera un

individuo che osa presentarsi con il costume della Morte Rossa, ossia un

bianco sudario. Il principe, mentre tutti i convitati si fermano paralizzati

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dal terrore, gli corre dietro per acciuffarlo, ma, raggiuntolo, nelle mani

non gli resta che il bianco sudario. Poi cade a terra fulminato dalla

Morte Rossa. Il misterioso individuo è proprio la Morte Rossa,

introdottasi come un ladro per ghermire il principe e i suoi cortigiani. La

scena finale che conclude il racconto è la scena della morte collettiva dei

convitati e del crollo del castello del principe, a suggellare il trionfo

della Morte Rossa. Anche in questo racconto il castello, con le sue cupe

atmosfere gotiche e le sue feste che conservano qualcosa di tetro e

lugubre, pur nell’atmosfera dello sfrenato e licenzioso divertimento, ha

la funzione di ribadire l’illusione di potere del principe Prospero e con la

sua distruzione di sottolineare l’invincibilità della Morte Rossa.

Un altro famoso romanzo dell’orrore, Dracula, dello scrittore

irlandese Bram Stoker (1897), il creatore della leggenda del conte

vampiro della Transilvania, presenta una singolare descrizione del

castello del conte. Ogni particolare del castello converge nel creare una

atmosfera di mostruosa e diabolica minaccia. È rappresentato come un

luogo singolare, con un cortile di notevoli dimensioni ad archi rotondi,

con passaggi molto oscuri. Vi è un grande portale d’accesso, i muri sono

ornati con figure in pietra, ma le sculture sono corrose dal tempo e dalle

intemperie. Le “mura accigliate” e le “buie finestre” umanizzano il

paesaggio conservando un’atmosfera cupa e tetra, il clangore di catene e

il rumore di massicci catenacci suggeriscono l’idea di una inaccessibile

prigione e l’alta, ieratica figura del conte Dracula che appare tutta vestita

di nero ispira al giovane ospite del castello una sensazione di

irrefrenabile paura.

Di un altro maestro della letteratura horror, l’americano Howard

Phillips Lovecraft (1890-1937), il “Solitario di Providence”, autore di

numerosi racconti fra cui quelli del ciclo di Chtulhu, abbiamo fatto

leggere il racconto L’estraneo, proprio per la descrizione che contiene

del castello. È la storia della terrificante scoperta che compie il

protagonista, un uomo che vive isolato dal mondo per una sua misteriosa

ragione, proprio su se stesso: quel repellente essere dall’aspetto alieno

che gli si avvicina sempre più a ghermirlo inesorabilmente in realtà è la

sua stessa immagine, riflessa “sulla levigata superficie di uno specchio”.

La terribile scoperta ha per contesto, anche questa volta, un castello dai

molteplici segni di decadimento e di morte, rappresentati come nella

migliore narrativa gotica.

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Questa è la descrizione del castello lovecraftiano che i nostri studenti

hanno analizzato. L’atmosfera gotica è creata dalle stanze buie tra

opprimenti tendaggi e vecchi volumi. All’esterno l’idea del putrido e

della decomposizione è data dai boschi con alberi grotteschi e coperti di

malerbe che agitano rami silenziosi a un’altezza irraggiungibile

(ulteriore idea del gigantesco), dal musco putrido e dai neri alberi muti.

L’idea del gigantesco è ribadita dal castello vecchio e orribile, gremito

di corridoi neri, con soffitti così alti che l’occhio doveva fermarsi alle

ombre e alle ragnatele (in questi particolari Lovecraft sfrutta l’idea del

buio associandolo ad animali ripugnanti). L’idea del disfacimento, della

rovina e della morte è suggerita al lettore dalle pietre dei camminamenti

in rovina, umide, dall’odore disgustoso emanante come da cadaveri

ammucchiati da molte generazioni. La torre che superava il fogliame, in

rovina, suggerisce l’idea della grandiosità legata alla morte. L’idea del

buio persistente è suggerita dal particolare che non c’era mai luce nel

castello e fuori (a causa dell’altezza degli alberi). L’idea della solitudine

in cui vive il protagonista del racconto, è data dal pullulare di topi, ragni

e pipistrelli, animali generalmente considerati come ripugnanti, che

coabitano con il protagonista. Infine, l’idea della morte è evocata dalle

ossa e dagli scheletri che affollano una parte delle cripte.

Molti altri testi potremmo citare a proposito del cronòtopo del

castello, ma questi ci sono sembrati i più significati per strutturare un

percorso di letture con i seguenti obiettivi:

far conoscere agli studenti alcuni testi della narrativa gotica e

del romanzo dell’Ottocento;

abituare gli studenti al concetto di cronòtopo;

far cogliere agli studenti il nesso esistente tra personaggio (in

genere negativo, il vilain) e la sua dimora, come riflesso degli

aspetti più inquietanti della sua personalità;

abituare gli studenti ad analizzare le descrizioni, intese come

identificazioni di luoghi caratteristici della narrativa, e ad

elaborare descrizioni.

Il percorso di letture sul cronòtopo del castello è stato svolto in una

classe di quarto ginnasio nell’anno scolastico 2016-2017.

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MASSIMO CALDERONI – WALTER FIORENTINO7

Tragedia e conoscenza Teatro come palestra di valori identificativi

Introduzione

Nella tragedia il drammaturgo elabora, corregge e modula dall’interno

l’orizzonte d’attesa del pubblico che partecipa allo spettacolo teatrale. Il

teatro costituisce, infatti, un luogo rappresentativo comunitario in cui ci

si riconosce e nel quale il poeta, nel reinterpretare il mito, esprime la sua

personale visione della realtà del suo tempo e del mondo: il mito è la

memoria di un passato che condensa in sé religione e norme morali,

basamento fondante dei valori collettivi. La tragedia, pertanto, ritualizza

nell’alveo delle festività religiose quel sistema di valori etici, culturali e

politici che sostengono l’impianto civile sul quale edificare nuovi

elementi costitutivi. Attraverso il pathei mathos, il poeta guida

l’emotività del pubblico indirizzandolo a vedere, ascoltare ed

immaginare ciò che ha definito all’orizzonte delle sue aspettative. La

mediazione orale favorisce il processo di ‘paideia politica’: il pubblico

assume il punto di vista proposto dall’autore e si lascia guidare ad una

nuova osservazione dell’agire umano. I temi affrontati e rappresentati

sulla scena richiamano realtà che trascendono l’occasione e

costituiscono il fondamento di una riflessione superiore su temi di stretta

attualità. Gli antichi valori trasmessi dalla mitologia vengono confrontati

con quelli che la città è impegnata a costruire e di cui il coro si fa

portavoce; il drammaturgo è il massimo educatore del popolo e lo

spettacolo tragico, organizzato dallo stato e strumentalizzato dalle forze

politiche che ne curano l'allestimento, viene a configurarsi come

rappresentazione dei valori base della comunità cittadina e come veicolo

li diffonde e li accredita, condizionando l'opinione pubblica per

elaborarne il consenso. Valori che nel momento stesso in cui vengono

7 Il Prof. Walter Fiorentino è docente di latino e greco presso il Liceo classico

Gaetano De Sanctis di Roma.

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posti all’attenzione del pubblico sono accreditati come validi,

diventando pilastro di quella stessa società. Nei drammi si devono saper

cogliere le infinite sfumature socio-politiche che derivano dal loro

contesto storico, grazie alle quali poter realizzare una comprensione più

profonda delle vicende che regolavano la società nel suo essere

comunità. L’arte drammatica ad Atene dunque è saldamente legata al

gioco delle forze politiche che appaiono sempre in grado di influenzarla.

Il teatro svolge la preziosa funzione di riaccendere il sentimento di

appartenenza tra gli spettatori e, soprattutto, di offrire loro, a livello

comunitario e socialmente accettabile, l'opportunità di esternare i

sentimenti repressi tramite la liberazione controllata dell'io. Le esigenze

emotive del pubblico sono cioè riconosciute e soddisfatte sulla scena; al

contempo, però, riassorbite com'erano in una struttura oggettiva più

ampia, vengono svuotate di ogni pericolosa forza d'urto e rese inefficaci.

È questa, infine, la pathematon katharsis aristotelica, che si articola

nelle sue due componenti, l'una psicologica, di soddisfazione e

rasserenamento, l'altra artistica, piacere della mimesi.

L’essenza della tragedia è dunque la problematizzazione dei grandi

temi politici, sociali, morali, che trovavano poi l’espressione più matura

nel campo filosofico.

Duplice è dunque la funzione a cui il dramma assolve, quella di

consolidare nella classe egemone la coscienza del suo ruolo preminente,

giustificandola in termini ideali, e quella paideutica, impedendo la

formazione di ideologie alternative e pericolose per gli equilibri sociali.

Tragedia e conoscenza. L’Edipo re sofocleo.

Il rapporto che lega l’azione drammatica con il processo di

conoscenza si innerva su un piano prevalentemente etico e politico.

Nella sua essenza tematica, la scena tragica è la struttura di recupero

cognitivo sulla quale si colma il vuoto di sapere che è posto all'inizio

dell'azione tragica: nell'evoluzione tematica si abbrevia la distanza tra

l'inconsapevolezza dei personaggi e la piena consapevolezza del

pubblico spettatore che è già a conoscenza della linea evolutiva

tematica. In questo processo gnoseologico si misurano e si confrontano

la validità metodologica e l'efficacia dei diversi metodi cognitivi

convergenti alla gnomē e al phronein. Nell’Edipo re Sofocle guida il

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protagonista ad un’indagine di ricerca che lo porterà ad una

consapevolezza che è misura della propria rovina. Il sapere tragico e un

sapere della finitezza, ma è anche un sapere della necessita; i due pilastri

della tragedia sono il rapporto necessita-liberta, a cui si ricollega il tema

della colpa e dell’innocenza. In Sofocle la conoscenza e una forma di

eroica tlēmosynē, di sopportazione: la conoscenza, connaturata ai

desideri dell’uomo, uscira sconfitta dalla rivelazione, ma dalla sconfitta

l’eroe avra la possibilita di riscattare se stesso e il suo genos. Il poeta

tragico nello scandagliare i recessi del cuore e dell’anima dei suoi

personaggi, scopre che la percezione del destino si realizza a livello

soggettivo: nella sua performance scenica si sviluppano dei

ragionamenti che rimandano all’idea che il principio di “dikē” non può

essere calpestato (l’effetto che il tragediografo voleva suscitare nasce

dal fatto che le parole e i ragionamenti della realtà politica democratica

di Atene vengono usati per sostenere la necessità di punire la hybris, per

far valere la logica che sostiene i principi dell’etica tradizionale).

Sembra assistere ad una sorta di raccomandazione rivolta alla polis

democratica perché non venisse meno ai principi, morali e religiosi, che

sostenevano la democrazia ateniese. La vera saggezza si realizza

all’interno di un sapere etico in base al quale l’uomo determina il suo

valore non con una affermazione individuale, ma con quelle doti che

orientano l’individuo all’interno del complesso sociale. Esigenza di

giustizia, necessità di affermare i diritti della comunità, pathei mathos,

hybris e sōphrosynē, dikē, nomoi, democrazia, ansia e paura: questi sono

alcuni dei temi di fondo dell’Edipo Re sofocleo, questo il dramma

dell’uomo che con consapevolezza inconscia va incontro al proprio

destino. I personaggi protagonisti si fanno portavoce di una congerie di

sfumature di valori che attengono alla sfera religiosa, politica ed etica:

nell’essere antagonisti mettono in essere quelle dinamiche che hanno in nuce il senso del loro destino e della loro sconfitta. Gli eroi tragici sono

di solito personaggi che in una serie di prove si confrontano con la

sventura e con il dolore e conservano la loro grandezza anche quando

vengono drammaticamente sconfitti. L’uomo, come viene rappresentato

nell’idea sofoclea, non ha scelta; l’ambivalenza del reale sottintende

sempre una colpa. La libertà riflette solo il sentimento passionale,

attraverso il quale realizzare la conoscenza. Ciò che dunque limita, pur

senza determinarla, la libertà di scelta e di azione è nell’orizzonte

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drammatico la necessità sovrannaturale che, intrecciandosi con la

causalità umana, dà vita alla colpevolezza tragica e dunque vincoli

intenzionalmente imposti da altri agenti. Al centro c’è l’eroe che soffre

vittima della conseguenza consapevole delle sue scelte, schiacciato dalla

coscienza del mancato conforto del presente e del futuro. Il suo

isolamento matura in questo vuoto abissale che gli si spalanca

all’orizzonte al prezzo di un solitudine assoluta. La decisione e la

responsabilità che l’accompagna sono implicate alla libertà d’azione

dell’eroe, che è cieco di fronte al reale: nello spazio chiuso della scena,

nella definizione drammatica incardinata sull’inganno dello spettacolo,

questa solitudine viene ‘colorata’ dalla dimensione religiosa, perché

giustifichi questa inesorabilità del destino e della cecità degli uomini.

L’eroismo tragico si matura sul campo di battaglia dell’io intimo, nella

presa di coscienza della propria condizione, nell’acquisizione della

conoscenza. L’azione di un eroe è sempre il frutto di una scelta

personale e del volere degli dei: è quella che Lesky ha definito doppia

motivazione delle azioni, ricondotta alla disposizione divina e alla

volontà umana, che contrappone i progetti degli uomini e ciò che sfugge

alla loro comprensione nella loro coscienza, senza che emerga la

responsabilità individuale ma solo la consapevolezza dell’intollerabilità

della situazione. L’eroe maturerà la propria dignità nell’affrontare e nel

subire il peso delle azioni realizzate da se stesso e governate anche dal

dio. L’esclusione che accompagna l’eroe è senza rimedio e avvia alla

morte. La regalità dei personaggi spesso li allontana dalla verità e li

lascia soli di fronte a quello che a tutti è chiaro, dagli altri protagonisti

della scena al pubblico spettatore: la propria azione sta nel risvegliare

lentamente la coscienza in modo inconsapevole, sfiorando la follia.

L’eroe è solo, ma è la presenza degli altri a marcare la sua

emarginazione e spesso si definisce nel dialogo, inefficace, alla ricerca

di conforto nel rapporto con gli altri. Rapporto che manca: nella tragedia

sofoclea i personaggi non si parlano quasi mai ma si rivolgono solo a

confidenti e al coro; Edipo isolato com’è, fa solo discorsi-monologo,

non entra quasi mai in comunicazione con gli altri personaggi. Dunque

è uno stato di isolamento quello di Edipo che ha bisogno degli altri per

essere definito. Sofocle probabilmente vuole problematizzare il tema

dell’emarginazione attraverso la drammatizzazione essenziale scenica

dell’esclusione a cui procede la città. La figura di Edipo, quasi fosse un

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capro espiatorio, un pharmakos, si pone come medium di un percorso di

salvezza che il dio realizza nell’uomo. La tragedia è dunque

ritualizzazione nello spettacolo delle ragioni che la comunità andava

opponendo al caos della città di Atene, segnando la contraddittoria e

ambigua scelta degli uomini vittime di una cecità che li vedeva

soccombere alla peste e che li avrebbe condotti alla disfatta8.

La consapevolezza dell’insufficienza del logos di fronte alla realtà,

porta il coro a dire nell’Edipo Re ai vv 1347-1348:

Misera è la mente tua come la tua sorte;

come avrei voluto che tu non sapessi mai.

C’è una messa in crisi della conoscenza, del sapere del saggio, in

nome di un altro sapere. Insomma vengono messi in crisi la polis come

istituzione e la fiducia nel logos che la sostiene. La vera saggezza si

realizza all’interno di un sapere etico in base al quale l’uomo determina

il suo valore non con una affermazione individuale, ma con quelle doti

che orientano l’individuo all’interno del complesso sociale.

Il rifiuto della saggezza degli uomini e l’invito a seguire le norme del

popolo, l’identificazione della saggezza con l’aidōs, sono conseguenza

di una nuova concezione alla cui base c’è una presa di coscienza

dell’instabilità e della vanità delle cose umane.

In questi versi Sofocle completa la sua indagine sui principi che

regolano il processo dell’atto conoscitivo. La sofferenza e il dolore sono

la conseguenza di un’indagine che si spinge al di là della finitezza

umana, una curiosità che quasi sembra macchiarsi della colpa della

hybris, inserendosi nel solco tracciato da Odisseo.

L’eroe tragico trova unico margine per realizzare la propria libertà,

accettando il proprio destino e comprendendo che la norma della vita è il

dolore, l'unico veicolo possibile della conoscenza.

Sofocle si muove su questa linea che lo conduce ad una fondamentale

riflessione sul sapere: se il processo tragico aveva come scopo primario

la catarsi, dalla riflessione che ha mosso il nostro discorso, possiamo

8 Ipotesi accreditata per la datazione dell’Edipo Re di Sofocle è il 430 a.C.:

un’opinione prevalente vede nell’epidemia descritta in principio di tragedia un

richiamo alla peste di Atene scoppiata nel 430 a.C., legittimando questa come data

di rappresentazione del dramma.

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dire che la stessa si realizza nel momento in cui accettiamo la finitezza

delle cose umane, che cercano una propria dimensione in rapporto al

divino e al proprio ruolo nella società.

Tragedia e conoscenza. Spunti euripidei.

A proposito della poetica euripidea, dello sguardo che posa sulla polis

attraverso i suoi drammi, è interessante lo spunto offerto da Dodds nel

celebre saggio Euripide the irrationalist. Lo studioso inglese, nel

ricordarci, con Aristotele, che la tragedia deve rappresentare “uomini in

azione e non teorie in discussione”, accosta, con un volo ardito e di

grande acume, Euripide e Pirandello definiti “philosophical dramatist”,

laddove Sofocle era stato definito semplicemente “dramatist”. Sebbene

l’accostamento proposto dallo studioso inglese miri, probabilmente, a

segnalare una caratteristica esteriore dell’azione teatrale dei

drammaturghi, consistente nell’unire la prassi del poiein teatrale alla

riflessione del filosofo propriamente detto – Dodds peraltro non entra

nello specifico dell’analisi del pensiero filosofico – credo che la

suggestione possa essere seguita addentrandosi, nel breve spazio di

alcune riflessioni, nel senso di questo filosofare. In altri termini, quali

conseguenze, nell’alveo delle regole del teatro antico e della sua

ricezione da parte di un pubblico precisamente addestrato, porta con sé

l’aggettivo philosophical? Nel rispondere alla domanda si può, breve-

mente, tornare alla memoria letteraria di Dodds. Perché tra tanti

drammaturghi filosofi cui accostare Euripide, alla mente dello studioso

giunge proprio Pirandello? Può davvero la suggestione rimanere ferma

alla mera somiglianza di metodo? Euripide e Pirandello, al di là del

metodo di composizione drammaturgica, sono uomini della crisi, il cui

pensiero si fa prassi poetica e drammaturgica passando attraverso le

strettoie di un mondo in sofferenza.

Poco importa al fine di questa piccola comparazione soffermarsi sulle

evidenti ed enormi differenze - in tutti i campi, non solo quello storico

sociale - del contesto in cui si sono mossi i poeti; credo che, Dodds

parlando di philosophical dramatist, intendesse proprio il filosofare in

epoca di crisi.

Euripide, seppure di poco più giovane di Sofocle, appartiene ad

un’altra età intellettuale. Il suo teatro accoglie in sé la disillusione (ma

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anche l’ebbrezza e la vitalità) di chi, non avendo conosciuto la felice

pienezza di cui sembra aver goduto Sofocle, si muove disorientato nel

disinganno. Nello stretto legame tra teatro e conoscenza, Euripide si

pone come portavoce di dottrine nuove ed è responsabile, se così si può

dire, di quello che si riteneva il loro effetto disgregatore. Quanto detto

sembra essere avvalorato dalla lettura di Aristofane che, pur nell’alveo

di una strategia deformatrice, porta sulla scena una lettura del

personaggio pubblico Euripide che doveva essere comune al pubblico.

Insomma, non solo Euripide, come dice Aristotele, “mette in scena gli

uomini quali sono” ma li fa muovere in un contesto nuovo che è, per

l'appunto, quello della crisi. Torniamo per un istante all’accostamento

proposto da Dodds. Quando Pirandello entra nelle maglie del dramma

borghese, ne conserva i personaggi, li rappresenta assieme alle loro

miserie e idiosincrasie, li fa muovere nei luoghi tetri della pupazzata

borghese; allo stesso tempo, però, sottrae loro aria e terra sotto i piedi

attraverso un crudele gioco di dissoluzione delle convenzioni della

forma teatrale stessa. Non li annichilisce negandone l’esistenza o

sostituendoli con nuovi personaggi figli del nuovo tempo, ma li soffoca

pian piano restringendo, anzi distruggendo, il palcoscenico nel quale

erano abituati a muoversi. E le armi di tale distruzione sono, mutatis

mutandis, i portabandiera della scepsi del novecento: Freud, Einstein,

Heisenberg.

Euripide, dal canto suo, sprigiona la veemenza delle nuove idee

all’interno della koiné del mito; lo spazio teatrale, poi, pur senza essere

modificato risulta percettibilmente diverso agli occhi dello spettatore.

Occorre quindi superare la prospettiva parziale del lettore moderno, per

cercare di cogliere gli aspetti spettacolari ed emotivi che potevano

coinvolgere e impressionare lo spettatore del tempo, e tra questi

certamente rilevante risulta essere la presentazione di personaggi

straniati. Un eccellente punto di osservazione è offerto dal modo in cui

Euripide rielabora la saga degli Atridi nell’Ifigenia in Aulide, in

particolar modo la figura di Agamennone. Questo personaggio,

complesso e problematico, è ben diverso dall’Agamennone eschileo,

sebbene si muova all’interno di un mito sostanzialmente intatto. L’Atene

democratica di Eschilo, infatti, ravvisava ancora in Agamennone il

sovrano che, pur legato al popolo da saldi impegni, si levava al di sopra

di esso. Nel dramma euripideo non è più altro se non un ambizioso

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arrivista, cui difettano completamente le doti del condottiero e che

diviene perciò trastullo nelle mani della massa scriteriata. È mosso da

impulsi opposti, ora vuole salvare la figlia cedendo alla voce

dell’affetto, ora vuole sacrificarla per seguire la ragione di stato.

Lontano anni luce dalla statuaria disperazione del personaggio di

Eschilo che, pur schiacciato dal giogo della necessità, ottempera al

proprio dovere di sovrano giusto davanti a Zeus. Euripide, al contrario,

ci propone la tragicità del debole, in posizione esteriore di comando, ma

con la vocazione interiore del servo, perché privo di quel nerbo che

garantisce la vera libertà. A seconda dell'interlocutore si scopre ogni

volta diversamente: debole, pavido, cinico e sincero nell'amore tenero

per la figlia ma anche nel senso delle responsabilità di capo. Ogni volta

che sembra accreditarsi nella condizione del momento finisce poi per

rigettarla. Non ha il coraggio del gesto eroico seppure inutile di

personaggi che offrono la loro vita in cambio di quella dei giovani, non

sa accettare la sorte e guardare al sacrificio della figlia come una

necessità dolorosa ma nobile; non sa se respingerla e assumersi la

responsabilità del rifiuto di fronte al mondo.

Vive nel buio e non nella luce; vede della realtà solo una faccia

astratta inconsistente. Non capisce, non conosce, né, dobbiamo

immaginare, favorisce ai suoi concittadini altro tipo di conoscenza se

non una conoscenza in crisi. In che cosa riesce Agamennone? A

passività assoluta, ignoranza assoluta. Il sacrificio della figlia si compirà

dietro suo ordine e allo stesso tempo suo malgrado, e avrà solo, per

forza di cose, il colore di un bieco assassinio. Agamennone è per

Euripide il prototipo di simili figure ondeggianti. Volle che gli spettatori

conoscessero subito anche lui, nel prologo, e la sua fiacchezza interiore;

appare infatti non solo frastornato, ma addirittura incapace di controllare

il proprio linguaggio. Il «non so se dire o non dire» piuttosto che il

«cosa dirò» che si incalzano in un passaggio cruciale dell’Ifigenia in

Aulide, suonano ormai come un tic, un irresistibile automatismo del

personaggio. Euripide, insomma, scriveva invece un dramma umano, e

vedeva i suoi personaggi come uomini del suo tempo nei quali cadeva il

riflesso di una crisi gnoseologica che dominava il panorama intellettuale

del suo tempo. Un bagliore di “antica bellezza” giunge dal ricordo dei

valori etici incarnati dai giovani, come Ifigenia stessa o Meneceo nelle

Fenicie. Il sacrificio dei personaggi giovani rappresenta il malinconico

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canto di un modo che fu e che può essere vagheggiato dai giovani e

ammirato dal pubblico, ma sempre solo dalla prospettiva nostalgica di

chi si accomiata da un mondo che non c’è più.

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MARIO CARINI

“Per far più lieti i tristi giorni…”:

il diario della prigionia in Germania

di Ugo d’Ormea

Esprimo la mia profonda gratitudine al Dott. Aldo d’Ormea che, mettendomi a

disposizione il diario di Suo padre, mi ha dato la possibilità di conoscere una

esperienza di vita dall’alto valore morale e di ospitare il testo del diario, che

costituisce un documento storico di prima mano, sulle pagine dei “Quaderni del

Liceo Orazio” (M. C.).

INTRODUZIONE

Sommario:

1) I memoriali dei militari italiani nella seconda guerra mondiale.

2) L’8 settembre e gli Internati Militari Italiani. La vita nei Lager.

3) Il diario di Ugo d’Ormea.

4) I criteri di trascrizione e il commento.

1) I memoriali dei militari italiani nella seconda guerra mondiale.

Soldati di due nazioni che in un terribile conflitto sui fronti d’Europa,

d’Africa e di Russia, combattono con spirito fraterno e lealtà

cameratesca1 contro i nemici, angloamericani e russi, da ormai più di tre

anni, stretti da un apparentemente indistruttibile “patto d’acciaio”; un

improvviso e incredibile comunicato del governo che, una sera di

settembre, annuncia alle nostre truppe la cessazione delle ostilità verso i

nemici del giorno prima e ordina di reagire ad eventuali attacchi “da

qualsiasi parte provengano”, ossia da parte dell’alleato del giorno prima;

la sorpresa e il turbine di sentimenti che piombano sui soldati italiani,

1 Non sempre però lo “spirito cameratesco” (leitmotiv della propaganda fascista)

venne rispettato fra i due eserciti. Soprattutto da parte tedesca vi furono talvolta

soprusi e angherie ai danni dei nostri soldati, come, ad esempio, durante la tragica

ritirata di Russia.

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esultanti per l’illusoria speranza della fine della guerra e

immediatamente dopo sconcertati per la fuga del re e dello stato

maggiore e la totale mancanza di ordini e disposizioni dagli alti

comandi; il caos e la dissoluzione dei reparti italiani all’insegna del

“Tutti a casa!”, nel Paese e nei territori fuori d’Italia; il precipitoso

ritorno a casa di ufficiali e soldati, camuffati alla bell’e meglio con abiti

civili; l’abbandono delle caserme e dei magazzini militari al saccheggio

delle folle; la reazione spietata dei tedeschi, gli ex alleati traditi, che

prima promettono falsamente agli italiani un rapido rientro in patria, poi

esigono il disarmo totale delle truppe rimaste e pongono ai soldati il

perentorio dilemma: “O con noi o contro di noi!”; le sparatorie e gli

scontri armati che scoppiano ovunque tra gli ex alleati, i massacri, come

quello di Cefalonia, con cui i tedeschi spengono la resistenza dei reparti

italiani; la cattura e la deportazione sui carri bestiame di ottocentomila

militari italiani, avviati ad affrontare mesi di patimenti e umiliazioni nei

campi di prigionia tedeschi. Questa fu la sorte di tanti nostri

connazionali, gettati allo sbaraglio nella tragedia di una guerra terribile

che avrebbe dovuto soddisfare le megalomani ambizioni di Mussolini,

ma che rivelò la sostanziale impreparazione dell’esercito e della nazione

mascherata dalla tronfia e vacua retorica del regime. A cui si aggiunse,

per complicare la situazione, l’inganno dell’armistizio, sfacciatamente

smentito alle autorità diplomatiche tedesche dal governo e dai suoi

ministri quando esso era già stato firmato, il 3 settembre, a Cassibile.

Catturati come una appetibile preda da sfruttare nelle fabbriche e nelle

fattorie tedesche, disprezzati e umiliati perfino da donne e bambini

indottrinati dal nazismo, additati come “traditori” e “Badoglio-truppen”

e anche con epiteti ben peggiori, sottoposti alla rigida disciplina dei

campi che prevedeva durissime punizioni per un nonnulla e si

aggiungeva alla fame, alle malattie, alle privazioni, i prigionieri italiani

vissero un inferno inenarrabile nella più totale dimenticanza di chi

avrebbe dovuto e potuto assisterli. Una somma di esperienze

drammatiche e spesso terribili il cui ricordo inevitabilmente si sarebbe

perduto nell’oblio del tempo, se non fosse stato fissato sulla carta in

centinaia lettere, memoriali, diari, taccuini: pagine e pagine che

compongono l’immenso libro, scritto con l’inchiostro delle lacrime e del

sangue, della deportazione degli internati militari italiani, IMI, in

Germania durante l’ultima guerra mondiale.

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I diari scritti dai deportati durante la prigionia, le loro lettere e i

ricordi fissati sulla carta degli ex deportati costituiscono una parte di

peculiare importanza tra le fonti storiche per la ricostruzione di un

periodo così tragico nella storia d’Italia e d’Europa, sia perché sono

testimonianza delle dolorose esperienze vissute tra i reticolati sia perché

ci rendono consapevoli dell’enorme valore che ebbe il loro “No” ai

fascisti e nazisti come contributo di una “Resistenza senz’armi” alla

lotta di Liberazione in Italia. E se già nel 1989 si poteva scrivere nella

prefazione ad un diario di prigionia in Germania che “per gli esaltanti

risultati conseguiti, oggi vediamo quale contributo fondamentale ha

potuto dare l’umile diaristica per la ricomposizione sofferta del quadro

generale di quella tragica realtà che sta uscendo dalla fase del semplice

ricordo e del pensoso racconto, per diventare pagella di Storia ed

oggetto di seria critica storica”,2 v’è da dire che quasi trent’anni dopo

l’internamento degli italiani in Germania costituisce un campo sempre

più ampio e coltivato della ricerca storica, un settore che si arricchisce

ogni giorno di più di saggi, ricerche, scoperte e nuove testimonianze,

come il diario di Ugo d’Ormea che in questa sede abbiamo pubblicato.3

E noi affidiamo il diario di Ugo d’Ormea a queste pagine affinché sia

letto soprattutto dai giovani e meditato e discusso con i loro insegnanti.

Sono i diari che ridanno voce a chi ormai, per il naturale decorso della

vita, non può più raccontare, giacché occorre sempre ricordare, occorre,

per ripetere le parole di un illustre deportato, lo storico Vittorio

Emanuele Giuntella (1913-1996), “parlare dei Lager perché le loro porte siano chiuse per sempre, perché non vi siano più reticolati nel

2 Sono le parole dell’Avvocato Antonio Sanseverino, Presidente del Gruppo

Ufficiali Internati nello Straflager di Colonia, tratte dalla sua prefazione al diario di

Tomaso Civinelli, Perché? Per chi? Per che cosa? Diario di prigionia in Germania

di un italiano qualsiasi, Editrice Fortuna, Fano 1989, p. 6. 3 Il diario di Ugo d’Ormea è già apparso sulle pagine del quotidiano “Il Centro”,

cronaca di Pescara, 28 novembre 1999 («26 febbraio 1944: ho mangiato oggi una

coscetta di topo…». Diario del tenente d’Ormea nel campo di concentramento) e nel

lavoro di Fausto Melissano, Triste viaggio nei “paesi di sabbia” in “Quaderni del

Liceo F. Capece”, n. VIII, 2004, pp. 205-218. Nuovamente da noi trascritto dal testo

originale, in questa sede si pubblica con introduzione e commento. Articoli sulla

figura di Ugo d’Ormea sono apparsi sul quotidiano “Il Centro”, numeri del 28

novembre 1999, 27 gennaio 2001, 2 dicembre 2010. Ringraziamo il Dott. Aldo

d’Ormea per questi materiali che cortesemente ci ha fornito.

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mondo, parlare perché i morti non possono parlare e solo i

sopravvissuti possono farlo anche per loro.”

2) L’8 settembre e gli Internati Militari Italiani. La vita nei

Lager. Il diario di Ugo d’Ormea deve essere collocato nel contesto

storico da cui fu originato, che è quello della partecipazione dell’Italia

alla seconda guerra mondiale. Vicende tragiche, che furono segnate

dall’armistizio dell’8 settembre, causa della divisione del Paese in due

tronconi, il centro-nord occupato dai tedeschi e il sud in mano alle

truppe alleate.

L’8 settembre 1943 rappresenta una delle date indelebili della storia

d’Italia: è il giorno dell’annuncio del famoso armistizio di Badoglio, che

fu accolto con entusiastica gioia dalle truppe italiane e con sdegno e

rabbia dai tedeschi che si ritennero traditi dall’alleato col quale, in nome

del Patto d’Acciaio, avevano combattuto sui fronti di Grecia, Africa e

Russia. In virtù di quell’armistizio, segretamente firmato dal generale

Castellano, emissario di Badoglio, e dagli Alleati in Sicilia, a Cassibile,

il 3 settembre e annunciato ufficialmente alla radio dallo stesso Badoglio

con un proclama il giorno 8 successivo4 (la voce era registrata su disco,

4 Sull'armistizio dell'8 settembre la pubblicistica è ormai amplissima. Ci limitiamo a

citare: Ruggero Zangrandi, 1943: 25 Luglio – 8 Settembre, Feltrinelli, Milano 1964;

a cura di Mario Cervi, L'8 settembre (collana “I documenti terribili”, n. 11),

Mondadori, Milano 1973; Ettore Musco, La verità sull'8 settembre 1943, Garzanti,

Milano 1976 (I ed. 1965); Silvio Bertoldi, Settembre 1943: il significato di una data,

in “Storia Illustrata”, n. 310, settembre 1983, pp. 24-30; Filippo Stefani, 8 Settembre

1943. Gli armistizi dell'Italia, Marzorati Editore, Milano 1991; Gaetano Afeltra, I 45

giorni che sconvolsero l'Italia, Rizzoli, Milano 1993; Renzo De Felice, Mussolini

l'alleato, vol. II La guerra civile 1943-1945, Einaudi, Torino 1997 (cap. La cata-

strofe nazionale dell'8 settembre, pp. 72-101); Silvio Bertoldi, Apocalisse italiana,

Rizzoli, Milano 1998; Elena Aga Rossi, Una nazione allo sbando, Il Mulino,

Bologna 2003, nuova ed. ampliata (I ed. 1993); Marco Patricelli, Settembre 1943. I

giorni della vergogna, Laterza, Roma-Bari 2009; Gianni Oliva, L'Italia del silenzio,

Mondadori, Milano 2013. Il famoso saggio di Ernesto Galli Della Loggia, La morte

della patria (Laterza, Roma-Bari 1996), imputa all'8 settembre la mancanza, ancor

oggi, a suo giudizio, evidente, di una salda coscienza nazionale degli italiani. Assai

interessante il saggio di Paolo Emilio Petrillo, Lacerazione / Der Riss, La Lepre Edi-

zioni, Roma 2014, che studia le reazioni psicologiche dei tedeschi all'annuncio

dell'armistizio, quali fattori di pregiudizi verso il nostro Paese che sopravvivono

ancora oggi e condizionano l'unità europea.

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giacché il generale e maresciallo d’Italia era fuggito assieme al re

Vittorio Emanuele III e allo Stato Maggiore da Roma, diretto a Pescara

per ivi imbarcarsi e raggiungere il porto sicuro di Brindisi), le truppe

italiane dovevano cessare qualsiasi attività bellica contro i nemici del

giorno avanti, ossia gli angloamericani, ma anche difendersi dagli

attacchi venuti da qualsiasi altra parte (ossia dai tedeschi). Una caotica e

allegra faciloneria si impossessò allora di tutto l’esercito, che credette

stoltamente alla immediata fine della guerra (“Tutti a casa!” fu il motto

che imperò in quei giorni), ma non aveva tenuto conto della ovvia

reazione dei tedeschi, alle cui spalle l’armistizio era stato concluso. Gli

ufficiali, essendo i generali fuggiti o nascosti nei conventi, non ebbero

ordini da dare ai loro soldati, anzi fecero a gara con i soldati per gettare

via le armi e le divise e prendere la via di casa in abiti civili, le caserme

vennero abbandonate, i magazzini saccheggiati.

Subito si scatenò, immediata e rabbiosa, la reazione di Hitler, che

accusò gli italiani di tradimento e che aveva sempre diffidato del

governo di Badoglio, subentrato a Mussolini dopo le sue dimissioni e

l’arresto a Villa Savoia il 25 luglio 1943: le truppe tedesche, forti di 17

divisioni perfettamente equipaggiate e organizzate, fatte affluire dal

Brennero durante il governo Badoglio, ebbero buon gioco nel disarmare

l'esercito italiano, numericamente più forte ma povero di mezzi e

soprattutto privo di ordini e direttive.

Pochi e isolati furono gli episodi di resistenza degli italiani ai

tedeschi, come l’eroica difesa di Porta San Paolo a Roma. Alcuni di

questi episodi costarono agli italiani un terribile tributo di sangue, come

il massacro della divisione “Acqui” a Cefalonia. Nel frattempo i soldati

italiani, quelli che non avevano fatto in tempo a fuggire o non erano

passati nelle file dei partigiani, vennero catturati dai tedeschi e rinchiusi

in caserme o in appositi campi di raccolta.

La dissoluzione dello stato italiano per le vicende armistiziali fruttò ai

tedeschi un bottino enorme in mezzi e, soprattutto, uomini, destinati a

diventare i nuovi schiavi del Terzo Reich. A seguito del totale collasso

delle nostre strutture militari, i tedeschi (che già da tempo avevano

approntato un piano, l’operazione Alarich, per occupare l’Italia, nel caso

di una sua uscita dall’Asse) poterono mettere le mani sulle riserve di

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viveri e armamenti accumulati nei magazzini italiani e soprattutto sulla

quasi totalità delle 80 divisioni costituenti il Regio Esercito e dislocate

dentro e fuori i confini nazionali. Ben 810.0005 militari italiani furono

catturati e deportati in Germania sui carri bestiame e in vagoni piombati

ove, al termine di lunghi viaggi in cui dovettero sopportare le peggiori

privazioni e disagi materiali, vennero rinchiusi nei campi appositamente

predestinati per soldati e ufficiali, a Sandbostel, Fallingbostel,

Dortmund, Luckenwalde, Altenburg, Wietzendorf, Dora etc. Ai soldati

catturati i tedeschi non riconobbero lo status di prigionieri di guerra,

bensì quello, appositamente istituito, di Internati Militari Italiani (in

tedesco Italienische Militär Internierten, IMI), giacché formalmente non

potevano essere considerati prigionieri soldati che appartenevano alla

stessa nazionalità della neocostituita Repubblica Sociale Italiana di

Mussolini,6 alleata di Hitler. Cosicché questi nuovi IMI erano, in virtù

del loro status speciale, sottratti alle garanzie e ai controlli assegnati alla

Croce Rossa Internazionale dalla Convenzione di Ginevra del 27 luglio

1929 e furono dimenticati da chi avrebbe potuto o dovuto far qualcosa

per loro. Torturati dalla fame, dalle privazioni e dalle terribili malattie

che mietevano vittime per le disastrose condizioni igieniche dei campi

(come le ricorrenti epidemie di tifo petecchiale, di malaria e di T.B.C.),

soggetti alle infami vessazioni degli sgherri tedeschi, i prigionieri non

poterono ricevere i pacchi-viveri della Croce Rossa Italiana né di quella

Internazionale (che avrebbe potuto mandare aiuti, ma le autorità fasciste

pretesero ad un dato momento dalla Croce Rossa Internazionale che si

togliessero tutte le etichette dai pacchi perché provenienti dai Paesi

nemici, ottenendone un rifiuto). Dalla RSI, per opera del suo ambascia-

tore a Berlino Anfuso, giunse qualche spedizione di viveri, ma si trattò

5 Di questi 810.000, 94.000 dichiararono nei giorni successivi alla cattura la loro

adesione alla Repubblica di Salò, sicché nel dicembre 1943 il numero si riduceva a

716.000 (citiamo da Claudio Sommaruga, Una storia “affossata”, Quaderno-

Dossier N. 3, 2a ed., Archivio “IMI”, 2007, pp. 28-30, testo leggibile on line

all’indirizzo:www.anrp.it/edizioni/altre-pubblicazioni-consultabili/Quad.3-

Storia%20affossata-2%20ed.pdf). 6 Il 12 settembre 1943 Mussolini era stato liberato dalla prigione di Campo

Imperatore da paracadutisti tedeschi guidati dal maggiore delle SS Otto Skorzeny.

Condotto in Germania e ristabilita l’alleanza con il Führer, aveva fondato la

Repubblica Sociale Italiana per riprendere la guerra al fianco dei tedeschi.

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di cibarie in massima parte deteriorate; pressoché nulla giunse dal

Regno del Sud, mentre il Vaticano poté inviare nel 1944 pacchi di viveri

e medicinali grazie agli sforzi del Nunzio Apostolico in Germania,

Mons. Cesare Orsenigo.7

La massa dei memoriali e delle lettere pubblicate e gli studi recenti

hanno permesso di delineare un quadro ben chiaro e dettagliato della

vita che condussero i prigionieri nei Lager. I Lager, anzitutto, erano di

due tipi: gli Stammlager (Stalag) per i sottufficiali e i soldati semplici, e

gli Offizierslager (Oflag) per gli ufficiali. In questi ultimi campi le

condizioni di vita erano lievemente migliori. Scesi dal treno dopo lunghi

viaggi compiuti nelle peggiori condizioni possibili, i prigionieri

subivano un impatto psicologicamente devastante con l’universo

concentrazionario nazista. Non erano più persone, diventavano numeri

(quelli delle loro matricole scritte sui cartelli che dovevano tenere sul

petto mentre erano fotografati, come i criminali), e imparavano

prestissimo a conoscere l’ordine del terrore nazista.8 All’ingresso nel

campo e alla immatricolazione seguiva l’umiliante, minuziosa e ladresca

perquisizione (la “rivista al corredo”), quindi i prigionieri erano avviati

ai loro alloggiamenti nelle baracche. Queste erano costruzioni in legno

che non difendevano dal freddo (le temperature nel gelido inverno

tedesco e polacco potevano scendere anche a 20° sotto zero) e

dall’umidità: nei giorni di pioggia il soffitto faceva colare acqua, che

spandendosi sul suolo sterrato, formava pozzanghere di acqua e fango. I

letti, veri e propri loculi, erano a tre piani e molto stretti. Scarso era il

riscaldamento fornito così come l’illuminazione interna, viceversa

abbondanti erano pulci, cimici e pidocchi che infestavano gli abiti e i

corpi dei prigionieri. I servizi igienici erano ridotti a maleodoranti e

sudicie latrine, talvolta ubicate fuori delle camerate: sicché i prigionieri

dovevano uscire dalle baracche, anche nelle gelide notti d’inverno, per

soddisfare i propri bisogni. Le periodiche docce e le disinfestazioni si

tramutavano in dolorose e umilianti torture. Il vitto era assolutamente

7 Vd. al riguardo Prof. Don Luigi Pasa, Tappe di un calvario 1943-1966, Tipografia

Cafieri, Napoli 19663 (I ed. 1947), pp. 113-116. 8 Riprendiamo gli aspetti della depersonalizzazione dei prigionieri nei Lager dal

saggio di Mario Avagliano e Marco Palmieri, Gli internati militari italiani. Diari e

lettere dai lager nazisti 1943-1945, Einaudi, Torino 2009, pp. 119 e ss.

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insufficiente per il fabbisogno calorico umano e di pessima qualità: un

miscuglio di rape, carote, patate, crauti, miglio, con l’aggiunta di

qualche fetta di pane nero, pochi grammi di margarina, talvolta

marmellata e poco altro. Per placare in qualche modo gli atroci morsi

della fame impellente e inestinguibile i prigionieri cercavano fra gli

avanzi delle cucine qualcosa da mettere sotto i denti, come le bucce di

patate, o andavano alla ricerca di erbe e radici. O, ancora, barattavano i

propri oggetti preziosi, come gli orologi e i ricordi di famiglia, con pane,

viveri e tabacco. Sulla corrispondenza che potevano tenere i prigionieri

con i loro familiari e sui pacchi di viveri che ricevevano dall’Italia

diamo ragguagli in nota. Gli estenuanti appelli, nell’apposito spiazzo del

campo, erano nel corso della giornata due, al mattino presto e alla sera, e

potevano durare ore: avvenivano con qualsiasi tempo e potevano essere

ripetuti se i conti non tornavano. La disciplina era durissima, punizioni

corporali, pugni e pedate, frustate, colpi assestati col calcio del fucile, e

di peggio fioccavano per un nonnulla. Le sentinelle appollaiate sulle

torrette, con il mitragliatore sempre puntato, avevano l’ordine di sparare

sui prigionieri se questi si avvicinavano al filo spinato che recintava il

Lager. Vi erano comunque i servizi religiosi assicurati dai cappellani nei

campi ed erano permesse alcune attività ricreative che l’ingegnosità e

l’iniziativa di alcuni intellettuali, come, ad esempio, lo scrittore

Giovannino Guareschi, il filosofo Enzo Paci, il giurista Riccardo

Orestano, il futuro deputato e rettore dell’Università Cattolica di Milano

Giuseppe Lazzati, il futuro attore Gianrico Tedeschi, seppero

trasformare in straordinari eventi culturali.9

Poche erano però le occasioni per rinfrancare lo spirito nella

quotidiana e assolutamente deprimente vita del Lager. Ai pregiudizi e

alla diffidenza già radicati nei tedeschi verso i Fremdarbeiter, i

lavoratori stranieri, in specie gli italiani (migliaia erano stati inviati in

Germania come lavoratori civili, a partire dal 1938, nel quadro

dell’alleanza tra Roma e Berlino),10 si aggiunsero dopo l’8 settembre

9 Sulla “Regia Università di Sandbostel”, organizzata dagli intellettuali prigionieri

per i loro compagni, vd. Giovannino Guareschi, Diario clandestino 1943-1945,

Rizzoli, Milano 199118, pp. 99-100. 10 A proposito delle dure condizioni dei lavoratori italiani impiegati presso gli

stabilimenti Volkswagen a Wolfsburg, vd. il saggio di Gianluca Piccinini, La storia

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l’odio e l’ira dei tedeschi, decisi a far scontare ai militari prigionieri il

tradimento di Badoglio. Tuttavia, costretti a subire le mille vessazioni e

angherie quotidiane, pericolosamente fiaccati nel fisico e nel morale, i

prigionieri italiani nella grande maggioranza non vollero cedere alle

lusinghe dei propagandisti fascisti che visitavano i campi e

promettevano un immediato miglioramento delle condizioni, con il

rimpatrio in Italia, in cambio dell’adesione alla RSI. Quando nel luglio

del 1944 Mussolini, in visita ad Hitler, ottenne che gli IMI fossero

trasformati in lavoratori civili e costretti pertanto a lavorare

forzatamente nelle fabbriche e nelle fattorie del Reich, molti non

accettarono l’impiego forzato e preferirono subire l’internamento in

campi di punizione come quello di Wietzendorf.

Sulla situazione generale degli IMI parlano le cifre complessive

elencate da Claudio Sommaruga, che integriamo con quelle che

compaiono nel Grande Diario di Giovannino Guareschi (Rizzoli,

Milano 2011 rist., p. 57 nota 5): gli internati furono 716.000, di cui

103.000 optanti nei Lager per la RSI.11 I prigionieri resistenti nei Lager

furono 613.000, dei quali ritornarono in Italia 550.000. Le cifre dei

caduti variano da 57.000 (Sommaruga, Una storia “affossata”, cit., p.

28) a 51.000 (Guareschi, cit., p. 57 nota 5) a 20/30.000 morti secondo la

studiosa tedesca Gabriele Hammermann.12

Quale che sia la realtà delle cifre, resta intatto il valore morale del

“no” opposto dalla stragrande maggioranza dei prigionieri italiani ai

nazifascisti, in nome del giuramento prestato al re e della patria

oppressa. Questo “no” è il “no” dell’altra resistenza, della resistenza

senz’armi, idealmente combattuta per una Italia migliore. Ebbe a dire al

riguardo il generale Raffaele Cadorna, patriota e comandante del Corpo

Volontari della Libertà: “L’alta percentuale di morti e di invalidi,

superiore a quella di qualunque altra comunità militare prigioniera in

di Settimo Bosetti, IMI n. 150773, nella Città dell’Auto KDF, testo leggibile on line

all’indirizzo: www.isrecbg.it/web/wp-content/uploads/2014/04/Piccinini_-N.-73.pdf 11 Aggiungendo a questo numero i 136.000 combattenti che al momento della cattura

o nei giorni successivi scelsero di collaborare con la RSI o con i tedeschi, si ha una

cifra complessiva, tolte le diserzioni, di 236.000 italiani aderenti alla RSI e al Terzo

Reich (vd. Sommaruga, Una storia “affossata”, cit., p. 30). 12 Gabriele Hammermann, Gli internati militari italiani in Germania 1943-1945,

trad. di Enzo Morandi, il Mulino, Bologna 2004, p. 379.

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Germania, esclusa quella sovietica, sta a dimostrare quanto questa lotta

deliberatamente e volontariamente combattuta dagli italiani nei campi

di concentramento tedeschi sia stata aspra. Le divisioni alleate che penetrarono vittoriosamente in Germania trovarono i superstiti allo

stremo delle forze, in uno spaventoso stato di denutrizione, ma

alimentati da uno spirito indomito e fieri di aver compiuto fino alla fine il loro dovere di soldati. Si deve a loro se sulla Germania vinta poté

alzarsi, accanto alle bandiere degli alleati, il tricolore della patria. L’alto valore morale di questo episodio lo inserisce, a giusto titolo, tra

le pagine più nobili e generose della Resistenza italiana.”13

3) Il diario di Ugo d’Ormea. Ugo d’Ormea, nato a Narni (provincia

di Terni) nel 1918 ma pescarese d’adozione, era un giovane militare

italiano di stanza in Grecia, a Rodi, durante la seconda guerra mondiale.

Dopo l’8 settembre fu catturato dai tedeschi e deportato, dopo un lungo

viaggio per l’Europa centrale, nel campo di Siedlce in Polonia. Qui

rimase dal 13 novembre 1943 fino al 23 marzo 1944, quando venne

trasferito in Germania a Sandbostel, vicino Amburgo. Qui ebbe come

compagni di prigionia Giovannino Guareschi, il celebre padre di

Peppone e don Camillo, e l’attore Gianrico Tedeschi. Questo il ricordo

di Ugo d’Ormea su Guareschi: “Era un uomo che infondeva l’allegria.

Ci faceva divertire con le sue battute satiriche soprattutto su Mussolini.

Si era fissato sul cavallo bianco con cui il duce voleva andare in Egitto.

Sì – diceva Giovannino – glielo do io l’Egitto…”.14 Il 21 gennaio 1945

Ugo d’Ormea cambiò luogo di prigionia, dovendo partire per il ben più

duro campo di Wietzendorf, ove rimase fino alla liberazione avvenuta il

13 aprile 1945. Il ritorno in Italia richiese ancora vari mesi di

permanenza in Germania, passati fra la speranza di un rapido rimpatrio e

la delusione per l’immotivata attesa. Finalmente Ugo d’Ormea poté

partire il 18 agosto e arrivò a Roma lunedì 27 agosto, alle ore 23 circa.

Dopo il rimpatrio Ugo d’Ormea, che in gioventù aveva trascorso otto

anni a Buenos Aires, visse per lungo tempo a Roma lavorando in banca.

Sposatosi con la signora Giulia Viola, che gli diede i tre figli Maria Pia,

13 In Paride Piasenti, Il lungo inverno dei Lager. Dai campi nazisti, trent’anni dopo,

A.N.E.I., Roma 1977, pp. 7-8. 14 In Lorenzo Colantonio, Io e Guareschi, 18 mesi in un incubo, in “Il Centro”, 28

novembre 1999.

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Marina e Aldo, si trasferì a Pescara nel 1972. Nel 2009 Ugo d’Ormea è

stato insignito dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano della

medaglia d’oro riservata ai deportati nei campi di concentramento

tedeschi, come riconoscimento del suo personale sacrificio e del rifiuto

di aderire alla Repubblica di Salò.15 È scomparso nel 2010, lasciando il

ricordo di un uomo mite e generoso, un grande esempio di vita per i

familiari e per quanti ebbero modo di conoscerlo.16 Aggiungiamo che

Ugo d’Ormea a Buenos Aires aveva studiato armonia e composto alcuni

brani di musica classica.

Quello di Ugo d’Ormea non è un memoriale giornaliero, vorremmo

dire “sistematico”, del suo periodo di prigionia nel lager tedesco.

D’Ormea indica, del periodo ottobre 1943 – agosto 1945, di ogni mese i

giorni più significativi, ossia quelli che sono rimasti più impressi nella

sua memoria. Questo perché il diario è stato scritto non durante la

prigionia, ma ex post, ossia dopo l’avvenuto rimpatrio.

Rispetto alla memorialistica che ci è pervenuta dall’esperienza dei

deportati, il documento di Ugo d’Ormea è piuttosto scarno di notizie:

d’Ormea su molti avvenimenti sorvola, ma quello che scrive ci permette

di rappresentarci molto chiaramente il vissuto della sua prigionia. Le

principali esperienze dei deportati vi sono tutte riportate. Vi è

l’esperienza del viaggio da Rodi al continente. D’Ormea è fortunato,

può viaggiare in aereo, come ricorda al 25 ottobre 1943, data d’inizio

del suo diario. Molti suoi compagni perirono invece durante i trasporti

via mare, per l’affondamento dei piroscafi nelle cui stive erano rinchiusi,

da parte dei sottomarini e degli aerei alleati.17 Ad Atene il 26 ottobre ha

inizio il lungo itinerario, in vagone piombato, fino al campo di Siedlce,

attraverso i paesi dell’Europa, Grecia, Bulgaria, Albania, Jugoslavia,

15 Vd. Giuseppe Recchia, “Fame e freddo: così nei campi pagammo il nostro no a

Salò”. Ugo d’Ormea riceverà la medaglia dei reduci al Quirinale, in “Il

Messaggero”, 27 gennaio 2009. 16 Vd. Nausica Celsi, Addio a d’Ormea, raccontò la deportazione, in “Il Centro”, 2

dicembre 2010. 17 Un resoconto delle stragi sui trasporti marittimi, organizzati dai tedeschi per

portare i prigionieri italiani dalle isole dell’Egeo al continente, è nel testo di Antonio

e Giuseppe Zupo, Storia di IMI. Diario Ricettario Nostalgia e Ricordi di un

Prigioniero Internato Militare Italiano – I.M.I. – in Germania durante la Seconda

Guerra Mondiale, Herald Editore, Roma 2011, alle pp. 85-88. Oltre 13.000 italiani

furono vittime di questi affondamenti.

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Ungheria, Austria e Germania. Possiamo ricostruire parzialmente il

possibile percorso ferroviario del convoglio di d’Ormea, confrontando le

sue annotazioni con quelle, più dettagliate, di Serafino Clementi,

giovane militare marchigiano deportato anch’egli in Ucraina, Polonia e

Germania.18 La tradotta di Serafino Clementi, partita da Atene il 20

settembre 1943, toccò le stazioni di Salonicco, Skoplje in Macedonia,

Katouicz in Serbia, Belgrado, Újvidéck in Ungheria, Kaposvar,

Szombately, Acsàd, Nagyuseck, Sopron Deli, Ágfalva, Lopersbach in

Austria, Matesburg, Vienna (arrivo alle ore 22 del 29 settembre). Quindi

il treno di Clementi si diresse verso nord ovest, toccando le città della

Germania, fino a Luckenwalde, a sud di Berlino, ove arrivò il 2 ottobre.

Il percorso di Ugo d’Ormea potrebbe essere stato il medesimo fino a

Vienna, poi il treno passò molto probabilmente per Dresda e, dirigendosi

a nord est, giunse a Varsavia e infine a Siedlce, al cui campo d’Ormea

arrivò, dopo quindici giorni di viaggio, il 13 novembre 1943.19 La

permanenza di Ugo d’Ormea a Siedlce dura fino al 23 marzo 1944: quel

giorno è trasferito in treno al campo di Sandbostel, ove giunge tre giorni

dopo. Dieci mesi dopo Ugo d’Ormea deve montare sul treno che lo

porterà al terribile campo di Wietzendorf, un autentico campo di

punizione per gli ufficiali italiani che si erano rifiutati di sottostare

all’imposizione del lavoro coatto. A Wietzendorf d’Ormea arriva il 23

gennaio 1945 e vi rimane fino al 22 aprile (i prigionieri erano stati

liberati dagli inglesi il 13 aprile), quando viene trasferito con i suoi

compagni nella cittadina di Bergen. Quindi il Nostro deve subire altre

traversie, compreso l’imprevisto ritorno a Wietzendorf, e attendere in

Germania fino al 18 agosto la sospirata partenza per l’Italia. Il 27

18 Il sottotenente Serafino Clementi (1921-1990) conobbe i campi di concentramento

di Luckenwalde in Germania, Tarnopol in Ucraina, Siedlce in Polonia (ove arrivò il

30 dicembre 1943: Ugo d’Ormea vi era giunto il 13 novembre) e Sandbostel (suo

arrivo il 20 marzo 1944: Ugo d’Ormea vi entra il 26 marzo). Quindi l’11 gennaio

1945 fu trasferito come lavoratore coatto in una fattoria della Baviera, a Rutting. Del

Clementi abbiamo pubblicato l’inedito memoriale, vd. Mario Carini, Una voce dal

Lager: il taccuino di Serafino Clementi (1943-1945), in “Quaderni del Liceo

Orazio”, n. 5, Liceo Classico Orazio, Roma 2015, pp. 21-116. 19 Cfr. la cartina dell’inserto fotografico, con le tappe del viaggio verso i Lager,

disegnata dallo stesso Ugo d’Ormea.

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agosto, giunto di sera alla Stazione Termini, a Roma, Ugo d’Ormea può

finalmente riabbracciare i suoi cari.

Questa, per sommi capi, l’odissea che il Nostro dovette patire in

Germania. Nel suo breve memoriale non manca nessuna delle dure

esperienze della prigionia, a cominciare dalla fame e dal freddo. I morsi

della fame cominciano a farsi sentire il 5 febbraio 1944 e accompagnano

il prigioniero per tutto l’internamento. D’Ormea, come del resto tutti i

suoi compagni, per saziarsi in qualche maniera non esita a rovistare tra i

rifiuti della cucina le bucce di rape, una volta si disfa del suo orologio in

cambio di una forma di pane, un’altra volta si cucina anche un topo (ma

la cosa era consueta date le condizioni di assoluta e debilitante

denutrizione in cui versavano i prigionieri). Il freddo, con un ulteriore

razionamento dei viveri già scarsi, giunge a tormentare atrocemente il

prigioniero il 15 novembre 1944 (l’inverno del ’44-45 fu invero molto

rigido e il riscaldamento nelle baracche dei prigionieri era assai debole,

per non dire inesistente). Vi è però, nella dura prigionia, qualche

occasione di conforto: anzitutto le lettere che gli giungono da casa, sia

pur con un certo naturale ritardo, date le difficoltà delle comunicazioni

(la prima cartolina dai suoi gli arriva il 15 gennaio 1944), poi gli arrivi

dei pacchi viveri (il primo è del 18 marzo),20 essenziali per poter

resistere nel fisico e nel morale alla lontananza e alle privazioni, quindi i

rari spuntini con i compagni di prigionia, tra i quali si era instaurata una

partecipe solidarietà. D’Ormea così ricorda i “buoni piatti”,

modestissime pietanze che però in quelle circostanze dovevano apparire

come autentiche ghiottonerie, gustati da solo o assieme ai suoi

compagni: il 19 marzo 1944 mangia assieme ad altri quattro compagni

“un buon piatto di fettuccine con lardo e carne, un poco di crema e una tazzina di caffè e sigaretta” (ma subito gli sorge nell’animo un’acuta

nostalgia dei suoi), il 1° aprile successivo, giorno del suo onomastico,

decide di mangiare un po’ meglio del solito e si procura del vino caldo

acquistandolo dai prigionieri francesi in cambio di tabacco (a

20 Tra l’altro Ugo d’Ormea riferisce nel suo diario alla data del 26 giugno 1944 che

quel giorno ricevette un pacco dalla Croce Rossa di Padova. Anche l’11 ottobre

dello stesso anno d’Ormea riceve dalla Croce Rossa gallette, formaggi e latte

condensato. La Croce Rossa Italiana dunque poté in qualche misura aiutare i nostri

internati, nonostante la qualifica di IMI li escludesse dall’assistenza internazionale

dovuta ai prigionieri di guerra.

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mezzogiorno mangia una gavetta di rape e miglio, alla sera patate e

fagioli),21 il 13 giugno mangia dopo otto mesi un po’ di riso con patate,

il 1° luglio finalmente, grazie all’arrivo di un pacco da Milano, può

gustare la pastasciutta, ma senza formaggio, il 23 settembre può gustare

il tonno inviato dal Santo Padre (Pio XII), tramite il Nunzio Apostolico

Mons. Orsenigo,22 la sera di Natale del 1944 si riunisce assieme a una

ventina di compagni in una “bella tavolata”, per mangiare una gavetta di

patate con galletta grattugiata, spezzatino e un dolcetto. Altro

fondamentale sostegno dei prigionieri fu la fede cristiana, allora sentita

da molti come un lenimento dello spirito fiaccato dalla durissima prova

della prigionia: ogni mattina al campo di Sandbostel il cappellano don

Luigi Pasa celebrava la Messa nella cappellina adornata dai prigionieri e

d’Ormea ricorda le solenni occasioni dell’anno liturgico, che

coinvolsero tutto il campo, come la celebrazione della Pasqua (9 aprile

del 1944), la Pentecoste (28 maggio), l’amministrazione della Cresima a

un gruppo di ufficiali neoconvertiti (1° ottobre), il Natale e il Te Deum

del 31 dicembre, il mercoledì delle Ceneri a Wietzendorf (14 febbraio

1945).

Si potrebbe osservare che molte cose mancano nel diario di Ugo

d’Ormea: non si fa cenno delle precarie condizioni igieniche in cui tutti

gli internati invariabilmente si trovarono nei campi, ove le baracche

erano letteralmente invase da pulci, cimici e pidocchi, delle malattie e

infezioni che egli contrasse (si fa soltanto cenno all’epidemia di tifo

petecchiale che scoppiò a Sandbostel il 5 settembre) e da cui

fortunatamente riuscì a guarire, dei maltrattamenti subiti dalle guardie

del campo (comandate dal feroce capitano Pinkel, particolarmente

21 I militari francesi nei Lager godevano di un trattamento notevolmente migliore

degli IMI, perché riconosciuti prigionieri di guerra dai tedeschi con tutte le garanzie

del diritto internazionale. Avevano disponibilità di viveri e denari e si davano a

lucrosi commerci (anche alla borsa nera) con gli internati italiani. 22 I continui invii di viveri, vestiario e medicinali organizzati dal Vaticano per mezzo

del Nunzio Apostolico in Germania, Mons. Cesare Orsenigo, costituirono

praticamente l’unico concreto aiuto che alleviò in qualche misura le sofferenze dei

nostri prigionieri. Sugli invii di Mons. Orsenigo vd. il cap. XVI a lui dedicato

(intitolato Il nostro più grande benefattore) da don Luigi Pasa nel suo memoriale

(Prof. Don Luigi Pasa, Tappe di un calvario, cit., pp. 113-115).

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incattivito nei riguardi dei prigionieri italiani).23 I giorni trascorsi a

Siedlce, Sandbostel e Wietzendorf, per Ugo d’Ormea e per tutti coloro

che ebbero la sventura di capitarvi, furono giorni tristi, come dice il

sottotitolo del suo diario, ed eventi, appunto, tristi e luttuosi dovettero

pur verificarsi, come in effetti si verificarono (d’Ormea accenna alla

“triste serie di uccisioni da parte di sentinelle tedesche”, che ha inizio il

7 aprile 1944). Ugo d’Ormea tace di questi tristi episodi (ricorda però le

morti del capitano Thun e del tenente Romeo, che provocarono un

profondo sdegno in lui e nei compagni), ma proprio il suo silenzio, a

nostro giudizio, grida più forte la disumana crudeltà degli aguzzini che

calpestarono in mille modi la dignità dei prigionieri.

Al riguardo vogliamo fare un’osservazione. Tutti i memoriali dei

prigionieri denunciano gli atti di gratuita efferatezza dei tedeschi, che

versarono più volte il sangue dei prigionieri italiani (una impressionante

rassegna dei crimini di guerra tedeschi è nella relazione del tenente

colonnello Pietro Testa, il comandante dei prigionieri italiani di

Wietzendorf).24 Non si deve però pensare che i tedeschi, come singoli e

come popolo, avessero globalmente rinunciato ai sentimenti di umanità,

pur drogati da una ideologia ferocemente razzista, diventando tutti

aguzzini e carnefici. Certamente vi fu un fortissimo risentimento, che

giunse all’odio profondo e all’aperto disprezzo verso i prigionieri

23 Bulldog o “capitano Bau Bau” era soprannominato il comandante tedesco del

campo, Pinkel, noto per la sua beffarda crudeltà verso i prigionieri, in specie italiani.

Guareschi lo ricorda più volte nel suo Grande Diario (Rizzoli, Milano 2011 rist., pp.

381, 395, 517, 519) e ne menziona l’umiliante punizione che patì dai soldati russi (p.

519). Vd. anche Don Pasa, Tappe di un calvario, cit., p. 99, sulla disciplina che re-

gnava a Sandbostel: “La disciplina, più che ferrea, era inumana. Il cap.no Pinghel

(ossia Pinkel) verrà sempre ricordato per la sua crudeltà verso di noi.” Anche il

sottotenente Antonio Zupo, arrivato a Sandbostel, dovette subito sperimentare la

spietata durezza del capitano Pinkel (Antonio e Giuseppe Zupo, Storia di IMI, cit., p.

33): “Subito dopo (l'ingresso al campo) adunata. Si è alla fine delle forze: per cui

l'adunata, col freddo intenso e col vento che spira, completa l'opera e metà degli

ufficiali cadono svenuti a terra e debbono essere ricondotti in baracca; ma il

comandante del campo poco se ne cura e continua a tenerci all'aperto

schiamazzando, rimproverando e sbraitando perché magari non stiamo bene

sull'attenti e non siamo bene allineati.” 24 Ten. Col. Pietro Testa, Wietzendorf. Rapporto sul Campo 83, 22 giugno1945, pp.

35-37, testo leggibile on line all'indirizzo:

www.storiaxxisecolo.it/internati/Wietzendorf.pdf

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italiani per causa dell’armistizio dell’8 settembre, da loro considerato un

autentico tradimento alla causa dell’Asse.25 Ma è dato di incontrare nei

resoconti degli IMI anche rare figure di tedeschi “buoni”, che

manifestarono sentimenti di tolleranza e perfino di solidarietà,

soccorrendo in vario modo i prigionieri. Ci viene in mente quel

maresciallo tedesco (che chiarì di essere alsaziano) il quale il 4 aprile

1945 donò un pezzo di pane al prigioniero Giorgio Pugi nel Lager di

Gross Hesepe,26 quel vecchio contadino, Peter, che la sera faceva cenare

con la sua famiglia il prigioniero Claudio Tagliasacchi a Garbenstein,27

e perfino il capitano “Armistizio” (Lohse), un vecchio asmatico militare

bonario e inoffensivo che a Wietzendorf finì impiccato dalle SS.28

Perché pubblicare oggi il diario di Ugo d’Ormea, e perché leggerlo?

Innanzitutto perché è la testimonianza di una drammatica esperienza

vissuta da un giovane che si trovò ad essere prigioniero in una terra

25 Fortissimo risentimento e odio profondo che, alla fine del conflitto, si

guadagnarono per contrappasso i tedeschi da parte dell’intera Europa, che aveva

conosciuto il terrore del dominio nazista. Emblematica ci sembra una medaglia

dell’incisore Aurelio Mistruzzi, coniata per celebrare la sconfitta della Germania,

che rappresenta nel recto il mostruoso volto anguicrinito da Gorgone della

Germania, con la legenda “GERMANIA DEVICTA MCMXLV”, e nel verso la

svastica colpita da folgori, sopra un cumulo di teschi umani, con la legenda

“MALEDICTUS ERIS SUPER TERRAM” (la medaglia è raffigurata in Silvio

Bertoldi, La Repubblica di Salò. Storia documenti immagini, vol. IV, Compagnia

Generale Editoriale, Milano 1981, p. 1353). Sulla rappresentazione che nel

dopoguerra si fece del tedesco quale demoniaca immagine del “nemico assoluto”

(immagine funzionale all’autoassoluzione dei militari italiani dalle atrocità che

anch’essi, sui fronti di guerra, avevano compiuto) vd. Filippo Focardi, Il cattivo

tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale,

Laterza, Roma-Bari 2016 rist., pp. 152-163. 26 Vd. il diario di Giorgio Pugi in Saggio sul contributo delle Forze alleate e delle

Forze Armate Italiane alla Guerra di Liberazione 1943-1945, in L’8 settembre 1943

e i volti della Resistenza, a cura di Vittorio Leschi, Associazione Volontari della

Libertà di Trieste, Libreria Editrice Goriziana, Pordenone 2010, p. 358. 27 Claudio Tagliasacchi, Prigionieri dimenticati. Internati militari italiani nei campi

di Hitler, Marsilio Editori, Venezia 1999, p. 142. 28 Al capitano “Armistizio” Giovannino Guareschi dedica un intero paragrafo del

suo Diario clandestino 1943-1945, cit., pp. 210-212. Esempi di gesti di umanità dei

tedeschi durante la guerra, che valsero in qualche modo a mitigare l’immagine

tradizionale del “furor teutonicus”, sono elencati in Filippo Focardi, Il cattivo

tedesco e il bravo italiano, cit., pp. 163-178.

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straniera e ostile, sottoposto alle privazioni e alle angherie dei Lager,

senza sua colpa; poi perché quel prigioniero, Ugo d’Ormea, non accettò

di lavorare coattivamente per il Reich e venne destinato al campo di

punizione di Wietzendorf, soffrendo privazioni e angherie ancor più

dure; inoltre, perché quella esperienza esprime il “NO” (un “NO”

condiviso con altre centinaia di migliaia di prigionieri italiani) alla

violenza del potere nazifascista e ai folli sogni di dominio dei suoi capi;

ancora, perché quei prigionieri, gli IMI, “col loro NO individuale e corale, fin dall’8 settembre, scagliarono contro gli invasori tedeschi il

primo sasso della Resistenza”, come ribadisce Claudio Sommaruga;

infine perché tutti, soprattutto i giovani, devono conoscere e

comprendere il valore di quel gesto etico che ha contribuito a rifondare

il Paese nel segno della libertà e della democrazia. E se i giovani

possono oggi godere dei beni inestimabili della libertà e della

democrazia, il merito è anche, non dimentichiamolo, dell’umile ma

nobile, forte e coraggioso “NO” degli IMI, come Ugo d’Ormea.

4) I criteri di trascrizione e il commento. Abbiamo letto il testo del

diario di Ugo d’Ormea tramite fotografie eseguite sull’originale con lo

scanner e inviateci via e-mail. Le immagini sono nitide e la grafia risulta

chiara e leggibile, sicché gli interventi testuali sono stati pochissimi e

comunque tutti indicati nelle note di commento. Quando abbiamo

dovuto correggere – per la verità in rari casi – il testo inviatoci, abbiamo

dato in nota la lezione originale, preceduta dal segno ]. Abbiamo

trascritto il testo del diario nel carattere CommercialScript BT (corpo

12) per differenziarlo dall’introduzione e dalle note di commento e per

mantenere graficamente la chiara e armoniosa scrittura corsiva di Ugo

d’Ormea.

Il commento si compone essenzialmente di citazioni e riferimenti ad

altri memoriali, al fine di rinvenire riscontri ad episodi e situazioni

riportati nel diario di Ugo d’Ormea. Lo scritto di d’Ormea è scarno di

date e di fatti, ma molto lascia intuire, se non immaginare. Ogni parola

di d’Ormea è la punta di un iceberg di un vissuto fatto di fame, freddo,

stenti, privazioni, umiliazioni, nostalgia dei cari e della patria lontana. È

l’analogo vissuto che affrontarono centinaia di migliaia di italiani

deportati dai tedeschi e di nulla colpevoli se non di appartenere alla

nazione ex alleata e ora traditrice. Le numerose citazioni che abbiamo

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utilizzato vogliono pertanto comporre, partendo dalle parole di d’Ormea,

il quadro di quello che era la vita quotidiana degli internati militari

italiani nei Lager nazisti. Abbiamo pertanto preferito elaborare un

commento “tessellato” di citazioni, dando voce ai protagonisti della

terribile esperienza dell’internamento e limitando al massimo i nostri

giudizi, per non influenzare pregiudizialmente il pensiero del lettore. Il

quale da queste pagine sarà sollecitato a formarsi un suo personale

giudizio in merito ai fatti e alle situazioni raccontate, e ai comportamenti

dei singoli protagonisti che raccontano. Se è vero che molti decenni

sono passati dalla seconda guerra mondiale, e che è ancora aperto il

dibattito degli storici sulla responsabilità del popolo tedesco, ossia se

essa sia stata in toto o in parte, a proposito dei crimini commessi dai

nazisti (quella di Hitler e dei suoi collaboratori è ovviamente fuori

discussione), è altrettanto vero che i fatti narrati parlano da soli e nulla

hanno perso, a distanza di ormai ben oltre mezzo secolo, della loro

terribile drammaticità. Auspichiamo pertanto che il testo del diario di

d’Ormea e il commento possano interessare i lettori, soprattutto quelli

più giovani che poco o nulla sanno del periodo 1939-1945, e suscitare

curiosità, interesse, domande, desiderio di approfondire la tematica degli

IMI. A queste richieste intende rispondere, sia pur parzialmente, la

bibliografia di massima e la sitografia che seguono infra, da considerare

quali preliminari letture e strumenti di orientamento per compiere

ulteriori ricerche. Segnaliamo al riguardo che i siti on line dell’A.N.E.I.

(Associazione Nazionale Ex Internati nei Lager Nazisti) e dell’A.N.R.P.

(Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia, dall’Internamento,

dalla Guerra di Liberazione e loro familiari) sono ricchi di preziosa

documentazione per tutti coloro che vogliano approfondire questa

tematica.

Infine aggiungiamo che, laddove si sia reso necessario, abbiamo

inserito alcune nostre note di chiarimento delle citazioni, fra parentesi,

precedute dalla sigla N.B. (= Nota Bene).

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Bibliografia

1) Articoli e scritti su Ugo d’Ormea

Lorenzo Colantonio, «Ci svegliammo e i nazisti non c’erano più». Sei ex internati si

incontrano a Montesilvano 55 anni dopo tra lacrime e ricordi, in “Il Centro”, 28

novembre 1999

Lorenzo Colantonio, Io e Guareschi, 18 mesi in un incubo, in “Il Centro”, 28

novembre 1999 (comprende la trascrizione del diario di Ugo d’Ormea)

Yvonne Frisaldi, «Educhiamo i giovani alla pace». L’appello di Ugo d’Ormea, ex

deportato dai nazisti, in “Il Centro”, 27 gennaio 2001

Fausto Melissano, Triste viaggio nei “paesaggi di sabbia”, in “Quaderni del Liceo

F. Capece”, n. VIII, 2004, pp. 205-218

Giuseppe Recchia, «Fame e freddo: così nei campi pagammo il nostro no a Salò».

Ugo d’Ormea riceverà la medaglia dei reduci al Quirinale, in “Il Messaggero”, 27

gennaio 2009

Nausica Celsi, Addio a d’Ormea, raccontò la deportazione, in “Il Centro”, 2

dicembre 2010

2) Bibliografia sull’Italia nella seconda guerra mondiale e sugli IMI

Elena Aga Rossi, Una nazione allo sbando, Il Mulino, Bologna 2003, nuova ed.

ampliata (I ed. 1993)

Associazione Nazionale Ex Internati, Resistenza senz’armi. Un capitolo di storia

italiana (1943-1945) dalle testimonianze di militari toscani internati nei Lager

nazisti, Le Monnier, Firenze 1984

Mario Avagliano – Marco Palmieri, Gli internati militari italiani. Diari e lettere dai

lager nazisti 1943-1945, Einaudi, Torino 2009

Bruno Bongiovanni – Roberto Chiarini – Rolf Petri – Paolo Pombeni – Antonio

Varsori, Storia d’Italia, vol. V La Repubblica 1943-1963, a cura di Giovanni

Sabbatucci e Vittorio Vidotto, Laterza, Roma-Bari 20022, pp. 3-42

Giorgio Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. X La seconda guerra mondiale.

Il crollo del fascismo. La Resistenza. 1939-1945, Feltrinelli, Milano 2014 (I ed.

1984)

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Giorgio Chiesura, In Germania la paura, in “Storia Illustrata”, n. 187, giugno 1973,

pp. 96-103

Renzo De Felice, Mussolini l’alleato (1940-1945), vol. II La guerra civile 1943-

1945, Einaudi, Torino 1998 rist.

Paolo Desana, La via del Lager. Scelta di scritti inediti sull’ “internamento” e la

“deportazione” a cura e con annotazioni di Claudio Sommaruga, Istituto per la

storia della resistenza e della società contemporanea in provincia di Alessandria,

Ugo Boccassi Editore, Alessandria 1994

Gabriele Hammermann, Gli internati militari italiani in Germania 1943-1945, trad.

di Enzo Morandi, il Mulino, Bologna 2004

Erich Kuby, Il tradimento tedesco, trad. di Lydia Magliano, Rizzoli, Milano 1996

rist.

Ricciotti Lazzero, Il sacco d’Italia. Razzie e stragi tedesche nella Repubblica di

Salò, Mondadori, Milano 1994

Ricciotti Lazzero, Gli schiavi di Hitler, Mondadori, Milano 1998 rist.

Aurelio Lepre – Claudia Petraccone, Storia d’Italia dall’Unità ad oggi, Il Mulino,

Bologna 2008

Gianni Oliva, I vinti e i liberati, Mondadori, Milano 2000 rist. (I ed. 1998), pp. 466-

474

Gustavo Ottolenghi, La mappa dell'inferno. Tutti i luoghi di detenzione nazisti 1933-

1945, SugarCo Edizioni, Milano 1993

Andrea Parodi, Gli eroi di Unterlüss, Mursia, Milano 2016

Marco Patricelli, Settembre 1943. I giorni della vergogna, Laterza, Roma-Bari 2009

Paride Piasenti, Il lungo inverno dei Lager. Dai campi nazisti, trent’anni dopo,

A.N.E.I., Roma 1977

Arrigo Petacco – Giancarlo Mazzuca, La Resistenza tricolore, Mondadori, Milano

2010, pp. 125-159

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Ernesto Ragionieri, L’Italia nella seconda guerra mondiale, in Storia d’Italia, a cura

di Ruggiero Romano e Corrado Vivanti, vol. XII Dall’Italia fascista all’Italia

repubblicana, Einaudi, ed. spec. per Il Sole 24 Ore, pp. 2275-2392

Claudio Tagliasacchi, Prigionieri dimenticati. Internati militari italiani nei campi di

Hitler, Marsilio Editori, Venezia 1999

Pietro Vaenti (a cura di), Il ritorno dai Lager (relazioni presentate al convegno Il

ritorno. Partigiani, internati politici e razziali, tenutosi a Cesena il 20-21 ottobre

1995 e promosso dall’Istituto Storico della Resistenza di Cesena-Forlì, ANPI, FIAP

e FIVL), Società Editrice «Il Ponte Vecchio», Cesena 1996

Leo Valiani, Forze armate e resistenza, in “Nuova Antologia”, fasc. 2153, gennaio-

marzo 1985, pp. 71-77

Luciano Zani, Resistenza a oltranza. Storia e diario di Federico Ferrari, internato

militare italiano in Germania, Mondadori Università – Sapienza Università di

Roma, Milano 2009

3) Sitografia sugli IMI

Odoardo Ascari, Gli irriducibili del Lager, in “Nuova Storia Contemporanea”, n. 4,

luglio-agosto 2002, testo leggibile nel sito “Miradouro.it”, all'indirizzo:

www.miradouro.it/print/801

Lorenzo Baratter – Fabrizio Rasera, Censimento delle fonti edite e inedite sugli

Internati Militari Italiani (IMI) 1943-1945 della provincia di Trento, Museo Storico

Italiano della Guerra, Rovereto 2007, testo leggibile on line all’indirizzo:

www.museodellaguerra.it/wp-content/uploads/2015/06/Censimento-fonti-IMI.pdf

Carlo De Nitti, Ricordi di lontane sofferenze. La testimonianza inedita di un

internato militare: Giuseppe Rinaldi (1916-2010), testo leggibile on line

all’indirizzo: www.edscuola.it/archivio/antologia/recensioni/rinaldi.pdf

Alessandro Ferioli, Per una bibliografia ragionata sugli internati militari italiani,

testo leggibile on line all’indirizzo:

docplayer.it/18926864-Per-una-bibliografia-ragionata-sugli-internati-militari-

italiani.html

Sabrina Frontera, I militari italiani negli Oflag e negli Stalag del Terzo Reich, testo

leggibile on line all’indirizzo: www.alboimicaduti.it/files/storia_imi.pdf

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Luca Gorgolini, La memoria della guerra: l'esperienza degli internati militari

italiani (Imi), testo leggibile sul sito “resistenzaitaliana.it – Il portale della guerra di

Liberazione”, all'indirizzo: www.storiaxxisecolo.it/internati/internati3.htm

Guido Levi, La deportazione politica e militare: il caso italiano, testo leggibile on

line all’indirizzo: www.scpol.unige.it/news/seminari/levi_deportazione.pdf

Erika Lorenzon, Gli Internati Militari Italiani e la memoria di una “storia

producente”, testo leggibile on line all’indirizzo:

www.centrostudiluccini.it/pubblicazioni/memoriamemorie/1/internati.pdf

Brunello Mantelli, Gli italiani in Germania 1938-1945: un universo ricco di

sfumature, in “Quaderni Istrevi”, n. 1, 2006, pp. 5-23, testo leggibile on line

all’indirizzo: www.centrostudiluccini.it/pubblicazioni/istrevi/1/mantelli.pdf

Alessandro Natta, L'altra resistenza, Einaudi, Torino 1997 (I ed. 1955), testo

leggibile on line all'indirizzo:

www.memoteca.it/upload/dl/E-Book/1%5C%27altra_resistenza.pdf

Marco Palmieri – Mario Avagliano, Breve storia dell'internamento militare italiano

in Germania, in “La parte della memoria”, n. 1, 2008, testo leggibile on line

all’indirizzo:

www.anrp.it/edizioni/porte_memoria/2008_01/pag_35_palmieri_avagliano

Arnaldo Pellizzoni, Per non dimenticare: da un diario di guerra (1940-1945), testo

leggibile sul sito dell’ANPI di Lissone – Sezione “Emilio Diligenti” all’indirizzo:

http://anpi-lissone.over-blog.com/article-35390833.html

Gianluca Piccinini, La storia di Settimio Bosetti, IMI n. 150773, nella città dell’auto

KDF, testo leggibile on line all’indirizzo:

www.isrecbg.it/web/wp-content/uploads/2014/04/Piccinini_-N.-73.pdf

Giuseppe Piccolotto, Documentario della malvagità, testo leggibile on line

all’indirizzo:

http://digilander.libero.it/scuolaacolori/intercultura/materiali/piccolotto. htm

Scuola per la pace della Provincia di Lucca, Storie e memoria degli internati militari

italiani, 27 gennaio 2012, I Quaderni della Scuola per la pace, testo leggibile on line

all’indirizzo: www.provincia.lucca.it/scuolapace/uploads/quaderni/quaderno_imi.pdf

Claudio Sommaruga, L’ “altra resistenza”, testo leggibile on line all’indirizzo:

www.pionierieni.it/wp/wp-content/uploads/Ricordi-di-prigionia-nei-lager-come-

IMI.-Di-Claudio-Sommaruga..pdf

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Claudio Sommaruga, Una storia “affossata”, Quaderno-Dossier N. 3, 2a ed.,

Archivio “IMI”, 2007, testo leggibile on line all’indirizzo:

www.anrp.it/edizioni/altre-pubblicazioni-consultabili/Quad.3-Storia%20affossata-

2%20ed.pdf

Luciano Zani, Il vuoto della memoria: i militari italiani internati in Germania, da

La seconda guerra mondiale e la sua memoria, a cura di Piero Craveri e Gaetano

Quagliariello, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 2006, testo leggibile on line

all'indirizzo: www.sociologia.uniroma1.it/users/zani/VuotoDellaMemoria.doc

* * * * *

Prima della trascrizione del diario di Ugo d’Ormea pubblichiamo

volentieri uno scritto ricevuto dal Dott. Aldo d’Ormea, che ricorda la

figura paterna.

Ricordo di nostro padre di

Aldo d’Ormea

Nostro padre era una persona mite, le mie sorelle ed io lo

ringraziamo per averci dato un grande esempio di vita. Non abbiamo mai visto in lui rancore o cattiveria. Uomo di grande fede ci diceva

sempre di non odiare mai.

Nostro padre ebbe come riferimento, maestro nella fede, il cugino

della madre, il Cardinale Pietro La Fontaine, viterbese di nascita e

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Patriarca di Venezia. A Buenos Aires nostro padre conobbe Don

Orione.

Quando nostro padre ci parlava del suo periodo di prigionia diceva

sempre che non aveva odiato il nemico, ma nello stesso tempo ci

esortava a non dimenticare, aggiungendo che i giovani dovevano essere educati anche alla pace.

Nostro padre ci diceva che egli, come tanti altri, preferirono

rimanere fedeli a un ideale, anche se sapevano che la scelta avrebbe

comportato dei risvolti drammatici. Infatti, chi come lui rifiutò di

aderire alla Repubblica Sociale, venne deportato nei campi di

concentramento.

Queste stesse cose che diceva a noi, nostro padre le diceva anche agli

studenti delle scuole, dove spesso si recava per effettuare una testimonianza.

I ricordi di quel periodo, come nostro padre ci diceva, si chiamavano freddo, fame e nostalgia.

* * * * *

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Ugo d’Ormea

Il mio diario di prigionia

per far più lieti i tristi giorni

1943-194529

1943

Ottobre

25 – Si parte in aereo da Rodi diretti verso il continente. Sono le

ore 23 circa. Sta piovendo. Un aereo inglese è passato da poco

sull’aereoporto di Calamata ma i ricoveri non ci sono.

26 – Arriviamo ad Atene. Alla mattina si riparte per giungere,

dopo più di trenta chilometri di marcia forzata, al nostro centro di

smistamento.

28 – Partenza dalla stazione di Atene in tradotta, sotto scorta

tedesca, diretti in Germania. Sono le 17 circa. Si viaggia in carri

bestiami (una trentina per carri) ma senza essere rinchiusi.1

Novembre

13 – Dopo quindici giorni di viaggio attraverso la Grecia, la

Bulgaria, l’Albania, la Jugoslavia, l’Ungheria, l’Austria e la

Germania, si arriva alla città di Siedlce in Polonia ad E. di

Varsavia. Dopo varie ore di attesa alla stazione, sotto una bufera di

neve, c’incamminiamo verso il campo di concentramento. Alle ore 15

circa si sorpassa l’entrata principale del “Kriegsgefangenen Lager”

29 Trascrizione e commento di Mario Carini.

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e un grande cancello a ferri spinati si chiude dietro di noi. Con oggi

si dà inizio la mia prigionia.2

Dicembre

24 – Alla mezzanotte vado in cappella alla messa di Natale. La

cappella è una piccola e fredda stanza di una grande e più fredda

baracca. È debolmente illuminata da due candele perché proprio

quella sera siamo stati senza luce. Ma allora perché, signor

Colonnello Comandante del campo, le baracche in cui alloggiavano

gli optanti per la nuova repubblica italiana erano invece

illuminate?3

1944

Gennaio

15 – Ricevo finalmente dopo più di quattro mesi una cartolina dai

miei.4

Febbraio

5 – La fame incomincia a sentirsi ogni giorno sempre di più. La

notte non faccio altro che sognare di mangiare.

24 – Un mio collega che aveva comperato del pane disfacendosi

del suo orologio, vista la mia fame, me ne regala due fette. Quale

gioia! Lo ringrazio vivamente, afferro quel poco pane e vado a

mangiarlo in fondo alla stanza in un angolo buio per non farmi

vedere.

25 – Sono andato insieme ad altri colleghi a racimolare nella

cassa dei rifiuti di cucina le bucce di rape, le ho pulite ben bene e poi

fatte bollire. Alla sera le ho mangiate con cipolla (avuta dai tedeschi

per Natale) e con mezzo pane che comperai la sera avanti per £ 500.

Il Comando per evitare epidemie fa coprire i rifiuti della cucina con

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solfato di calcio. Alcuni seguitano lo stesso a ricercare le bucce ma io

rifiuto di ritornarci.

26 – Ho mangiato per prima volta una coscetta di… topo.

Condita con margarina e cipolle è gustosa. O sarà la fame che la

farà gustosa?5

Marzo

3 – Ricevo una bella lettera dei miei in risposta a una mia di

dicembre. E il pacco quando lo riceverò?

11 – Ricevo dalla Svizzera un messaggio del Vaticano.

18 – Oggi ricevo finalmente il primo pacco.

19 – S. Giuseppe! La giornata è magnifica e, cosa strana oggi si fa

vedere anche il sole. Insieme ad altri quattro colleghi abbiamo

mangiato un buon piatto di fettuccine con lardo e carne, un poco di

crema e una tazzina di caffè e sigaretta. Ma con i miei quando

mangerò?

23 – Si parte da Siedlce per Sandbostel (Amburgo).

26 – Dopo tre giorni di viaggio rinchiusi e sbarrati dentro i carri

bestiame si arriva al nuovo campo XB.6

Aprile

1 – In occorrenza del mio onomastico ho voluto mangiare un po’

meglio del solito. Alla mattina ho preso un po’ di vino caldo avuto

dai prigionieri francesi con tabacco avuto con la vendita della mia

giacca militare. A mezzogiorno ho mangiato una gavetta di… rape

e miglio. Alla sera patate e fagioli.

7 – S’inizia oggi una triste serie di uccisioni da parte di sentinelle

tedesche. Questa notte un capitano viene barbaramente ucciso per

essersi avvicinato al reticolato.

9 – Oggi è Pasqua. Alleluja! Alleluja! Durante la messa

pasquale il cappellano ci ha rivolto gli auguri esortandoci alla

preghiera e alla rassegnazione. Ha detto di ringraziare Iddio per

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averci domandato ciò che a molti non ha mai domandato, di aiutarlo

di portare la croce al Golgota e che grande sarà la nostra ricompensa.

La giornata è veramente bella (cosa strana) e la pace è nei nostri

cuori, ma non fuori di noi perché lontano si sentono forti esplosioni di

bombardamenti aerei.

28 – Ricevo altre lettere dei miei.7

Maggio

4 – Oggi sono stato costretto anch’io a disfarmi del mio orologio.

In cambio ho avuto una forma di pane, una scatola di olio

margarinato, marmellata e sigarette.

15 – Ricevo sei lettere dall’Italia.

18 – Arriva una commissione della Croce Rossa per gli internati

italiani.

28 – Pentecoste. Il cappellano legge la formula di consacrazione

di tutto il campo XB al Cuore Immacolato di Maria.8

Giugno

13 – Dopo otto mesi mangio un po’ di riso con patate.

24 – Una sentinella ha aperto il fuoco contro un gruppo di

ufficiali che stavano osservando il passaggio d’una formazione di

aerei. Vari colleghi sono rimasti feriti.

26 – Ricevo un pacco della Croce Rossa di Padova.

30 – Questa sera c’è stato un tentativo di fuga di un collega, ma

sorpreso alla stazione viene riportato al campo. Per colpa sua oggi

l’appello pomeridiano è durato più di due ore.9

Luglio

1 – È arrivato un bel pacco da Milano. Questa sera finalmente

dopo quasi un anno mangio un po’ di pasta asciutta ma… senza

formaggio!

12 – Ricevo un altro pacco da Torino.

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30 – Questa sera si è eseguito un interessante concerto all’aperto con

intervento di ufficiali tedeschi.10

Agosto

In questi giorni abbiamo avuto vari casi di colleghi che hanno

dato segni di pazzia. Un capitano ha buttato per aria una bacinella

dicendo che Dio parlava attraverso la sua voce; un altro ha

scavalcato il primo filo spinato per raccogliere fiori.

25 – Viene barbaramente ucciso un collega che faceva l’atto di

appoggiare un asciugatoio al filo spinato.11

Settembre

5 – Si manifesta un’epidemia di tifo petecchiale.

29 – Oggi abbiamo mangiato del tonno inviatoci dal S. Padre

tramite il Nunzio di Berlino.12

Ottobre

1 – Vi è stata la funzione dell’amministrazione della Cresima. La

cerimonia è stata commovente (vedi fotografie). Domani finisce la

quarantena e ricomincia l’appello.

11 – Riceviamo dalla C.R.I. gallette, formaggi e latte

condensato.

20 – Oggi per il mio compleanno ricevo un pacco… vestiario.13

Novembre

15 – La fame aumenta sempre di più e i tedeschi sempre più

aumentano le loro restrizioni per obbligarci a lavorare. Oggi nevica

molto, fa freddo, la minestra è più acqua del solito e senza sale

completamente. Per giunta oggi siamo stati senza la razione di

zucchero e margarina. La stanza è molto fredda perché non c’è

riscaldamento. Non ricevo più notizie da casa e la guerra non vuol

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finire. Chi finirà prima? Il morale oggi è bassissimo. Ma anche oggi

ripeto più che mai “fiat voluntas tua”.

22 – Finalmente dopo sette mesi ricevo notizie da casa.

23 – Si ricevono gallette dalla C.R.I. In cappella un ufficiale

riceve il Battesimo, Cresima e Prima Comunione.14

Dicembre

25 – Natale! La sera tutti insieme (siamo circa una ventina)

facciamo una bella tavolata. Io mangio una gavetta di patate con

galletta grattugiata, spezzatino e un dolcetto.

28 – Finalmente dopo nove mesi è nato… un pagliericcio sul

quale dormire. Non dormirò più su assicelle.

31 – Ultimo dell’anno. Alle 16 siamo andati al Te Deum. Questa

sera per eccezione sono andato a letto più tardi del solito. Sono le 20 e

30’.15

1945

Gennaio

21 – Si parte per Wietzendorf (Hannover).

23 – Dopo una notte indimenticabile (!) arrivo a Wietzendorf.

31 – Arrivano gallette e latte dalla C.R.I.16

Febbraio

14 – Oggi sono le Ceneri. Che cosa siamo noi uomini di fronte ai

grandi destini della storia? Questa mattina i tedeschi mi hanno detto

che ci manderanno a fare i contadini. Ma l’uomo propone e Dio

dispone…

24 – La fame si fa sempre più assillante, i viveri diminuiscono.

Perché? Con oggi ricominciano sei settimane di vera fame bestiale.

Sono sei settimane di passione.17

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Marzo

La guerra si avvicina alla fine, ma anche forse la nostra vita? La

tabella dei viveri soffre ancora diminuzioni.18

Aprile

Questa mattina ci siamo svegliati e non abbiamo

trovato più i tedeschi. Siamo liberi! Si aspetta

l’arrivo degli inglesi. I viveri vengono aumentati. La nostra fede

riceve il premio.

15 – Si ritorna a mangiare carne, ricotta, latte, marmellata, ecc.

Si legge oggi per prima volta il notiziario inglese.

16 – Questa notte c’è stato un violento bombardamento. Questa

mattina mentre cucinavo le rape (ore 7 circa) è arrivato un maggiore

inglese a prendere le consegne del campo, accolto da ovazioni e

sventolamenti di bandiere.

22 – Si parte da Wietzendorf. Essendoci stata una tregua di sei ore

lungo la strada e a una profondità di m. 500 dai margini della

stessa, dopo circa 6 km. di marcia c’incontriamo con gli inglesi che

con i loro camion vengono a caricare i bagagli e condurci a Bergen

(distanza di circa 18 km. da Wietzendorf). Con oggi si dà termine

alla prigionia.19

Maggio

1 – Si ritorna a Wietzendorf!!!

5 – Arrivano i viveri della sussistenza inglese.

8 – Oggi per prima volta esco da solo fuori del reticolato a fare una

passeggiata. I sentimenti che ho provato in quell’ora di libertà non

li scorderò mai!20

Agosto

18 – Partenza per l’Italia.

13 Venerdì

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24 – Passaggio per il Brennero.

Alle ore 23 circa arrivo a Roma. D. G.21

____________________

Viveri prima della liberazione… e dopo la liberazione

(19-III-1945) (6-V-1945)

farina in acqua… gr. 40 carne in iscatola… gr. 250

pane … gr. 180 pesce… gr. 20

patate cotte … gr. 150 formaggio… gr. 20

margarina… gr. 17 pane bianco… gr. 350

zucchero… gr. 16 prugne… gr. 20

latte… gr. 45

margarina… gr. 45

maiale… gr. 60

zucchero… gr. 70

the… gr. 10

marmellata… gr. 30

latte fresco… ½ l.

patate cotte… gr. 500

minestra piselli e avena… l. 122

* * * * *

COMMENTO

Si elencano di seguito i testi utilizzati per il commento con le relative abbreviazioni:

Avagliano – Palmieri 2009 = Mario Avagliano – Marco Palmieri, Gli internati

militari italiani. Diari e lettere dai Lager nazisti 1943-1945, Einaudi, Torino 2009

Bianchini 2004 = Umberto Bianchini, “Prendi un’anima di anni sette…” (“… e

27 Lunedì

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61

sarà tua per tutta la vita…”), Walter Stafoggia Editore, Urbania 2004

Bedeschi 1990 = Prigionia: c’ero anch’io, a cura di Giulio Bedeschi, vol. I, Mursia,

Milano 1990

Carini 2015 = Mario Carini, Una voce dal Lager: il taccuino di Serafino Clementi

(1943-1945), in “Quaderni del Liceo Orazio”, n. 5, Liceo Classico Orazio, Roma

2015, pp. 21-116 (testo leggibile anche sul sito del Liceo Ginnasio Statale Orazio

di Roma all’indirizzo: www.liceo- orazio.it/documenti/public/site/materiale_didattico/Pubblicazioni//Quaderni)

Civinelli 1989 = Tomaso Civinelli, Perché? Per chi? Per che cosa? Diario di

prigionia in Germania di un Italiano qualsiasi, Editrice Fortuna, Fano 1989

Guareschi 199118 = Giovannino Guareschi, Diario clandestino 1943-1945, Rizzoli,

Milano 199118, pp. 31-32

Guareschi 2011 = Giovannino Guareschi, Il Grande Diario. Giovannino cronista del

Lager 1943-1945, Rizzoli, Milano 2011 rist.

Leonardi 2012 = Orazio Leonardi, Sandbostel 1943. Anch’io ho detto “no”, a cura

di Giorgio Mezzalira, Circolo Culturale ANPI di Bolzano, Bolzano 2012, testo

leggibile in Internet all’indirizzo:

http://www.deportati.it/static/upl/qu/quaderno5_leonardi.pdf

Nicolis 2015 = Valeria Nicolis, Pane secco e avemarie, Marlin Editore, Cava de’

Tirreni (SA) 2015

Don Pasa 19663 = Prof. Don Luigi Pasa, Tappe di un calvario 1943-1966,

Tipografia Cafieri, Napoli 19663 (I ed. 1947)

Piasenti 1977 = Paride Piasenti, Il lungo inverno dei Lager, A.N.E.I., Roma 1977

Pellizzoni 1995 = Per non dimenticare: diario di guerra di Arnaldo Pellizzoni,

Lissone 1995, testo leggibile sul sito dell’ANPI di Lissone – Sezione “Emilio

Diligenti” all’indirizzo:

http://anpi-lissone.over-blog.com/article-35390833.html

Ravaglioli 2000 = Armando Ravaglioli, Continuammo a dire no, Edizioni di Roma

Centro Storico, Roma 2000

Sommaruga 2007 = Claudio Sommaruga, Una storia “affossata”, Quaderno-Dossier

N. 3, 2a ed., Archivio “IMI”, 2007, testo leggibile on line all’indirizzo:

www.anrp.it/edizioni/altre-pubblicazioni-consultabili/Quad.3-

Storia%20affossata-2%20ed.pdf

Tagliasacchi 1999 = Claudio Tagliasacchi, Prigionieri dimenticati, Marsilio Editori,

Venezia 1999

Testa 1945 = Ten. Col. Pietro Testa, Wietzendorf. Rapporto sul Campo 83, 22

giugno1945, testo leggibile on line all'indirizzo:

www.storiaxxisecolo.it/internati/Wietzendorf.pdf

(il testo è, con qualche divergenza, anche in Giovannino Guareschi, Il Grande

Diario. Giovannino cronista del Lager 1943-1945, Rizzoli, Milano 2011 rist., pp.

114-129)

Trionfi 2004 = Maria Trionfi, Il Generale Alberto Trionfi. Scritti e memorie dalla

Grecia al Lager. Un delitto delle SS, A.N.E.I. – Presidenza Nazionale, Roma

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2004

Zani 2009 = Luciano Zani, Resistenza a oltranza. Storia e diario di Federico

Ferrari, internato militare italiano in Germania, Mondadori Università –

Sapienza Università di Roma, Milano 2009

Zupo 2011 = Antonio e Giuseppe Zupo, Storia di IMI. Diario Ricettario Nostalgia e

Ricordi di un Prigioniero Internato Militare Italiano – I.M.I. – in Germania

durante la Seconda Guerra Mondiale, Herald Editore, Roma 2011

1

Il diario inizia il 25 ottobre, quindi un mese e mezzo dopo l’armistizio dell’8

settembre, che colse assolutamente impreparate le truppe italiane di stanza nel Paese

e nei territori fuori d’Italia, come la Grecia e le isole dell’Egeo. A questa data Ugo

d’Ormea, già preso prigioniero dai tedeschi a Rodi, è trasferito di notte in aereo da

Rodi ad Atene. Dopo una marcia di trenta chilometri per raggiungere il centro di

smistamento, il 28 ottobre sale con i suoi compagni sul treno che lo porterà in

Germania.

L’esperienza del viaggio sul treno piombato rappresenta la prima tappa

dell’itinerario, un’autentica via crucis, dei militari italiani verso i campi in

Germania. Erano in genere carri bestiame, della capacità di 40 uomini e 8 cavalli,

ma i tedeschi li stipavano di prigionieri, che erano costretti a viaggiare gli uni

addossati agli altri, in condizioni di insopportabile disagio. L’oscurità era quasi

completa, la luce veniva soltanto dalle fessure fra le travi che costituivano le pareti

dei vagoni e da un finestrino in alto, che spesso era chiuso col filo spinato. Ricorda

Arnaldo Pellizzoni, sergente dell’8° Reggimento Fanteria Cuneo, di stanza sull’isola

di Tinos nel Mar Egeo (ove viene catturato dai tedeschi): “1 Ottobre 1943: vengo

caricato su un vagone ferroviario con la scritta “Hommes 40, chevaux 8”; 40

uomini in un carro merci, del tipo usato per il trasporto di cavalli. I trasporti

ferroviari venivano effettuati sfruttando lo spazio disponibile sino all’estremo limite

delle capacità di carico.” (Pellizzoni 1995). Il limite di capienza dei vagoni, di 40

uomini, veniva spesso superato. Il vagone su cui fece il viaggio Serafino Clementi,

sottotenente di fanteria catturato a Patrasso, conteneva 45 uomini più i bagagli

(Carini 2015, p. 51). Il carro bestiame di Giovannino Guareschi, partito da

Sandbostel per il campo di Czestochowa, in Polonia, il 23 settembre 1943 (lo

scrittore ritornerà a Sandbostel dopo un’odissea nei campi di mezza Europa, il 2

aprile 1944), conteneva “cavalli 8, ufficiali italiani 50, cani 1” (Guareschi 2011, p.

231). Non era raro che alle stazioni la pietà dei civili, in attesa sulle banchine,

sopperisse in qualche maniera alla penuria di viveri dei deportati. Durante la sosta

alla stazione ungherese di Újvidéck e a quella polacca di Starachowice

(rispettivamente il 27 settembre e il 16 ottobre 1943) Serafino Clementi ricevette da

alcune ragazze viveri, panini e mele (Carini 2015, pp. 53 e 59). Più doloroso il

ricordo di Orazio Leonardi, soldato del 232° Reggimento Fanteria di Bolzano, in

attesa di partire sul carro merci alla stazione di Bolzano il 10 settembre 1943

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(Leonardi 2012, p. 26): “Arrivati in stazione ci fanno salire su carri merci: trenta

soldati per vagone. Nell’attesa della partenza, persone comuni vengono a

manifestarci solidarietà, buttandoci tutto ciò che hanno: cibo e perfino indumenti,

nella speranza di poterci rivestire in borghese. Illusione: la scorta tedesca allontana

con vigore e cattiveria i contatti dei civili, che si accalcano davanti ai vagoni per

creare confusione e poterci dare la possibilità di scappare.”

Per il sottotenente Umberto Bianchini, catturato a Larissa l’8 settembre, il viaggio

in Germania invece fu più comodo (ma aveva chiesto di essere arruolato

nell’esercito tedesco, invano: aderì poi, come “optante”, alla RSI): “La sorveglianza,

contrariamente alle balle raccontate, in seguito, da chi pescava (e pesca) nel

torbido, era praticamente inesistente e gli sportelloni dei vagoni-merci nei quali

eravamo stipati, erano sempre aperti ed incustoditi. Tanto è vero che, ogni volta che

il treno si fermava, centinaia di “selvaggi” scatenati scendevano dal treno e

prendevano d’assalto tutto ciò che potevano rapinare.” (Bianchini 2004, p. 42). Una

testimonianza che contrasta con quelle raccolte da Paride Piasenti nel volume Il

lungo inverno dei Lager (A.N.E.I., Roma 1977): abbiamo scelto di riportare come

emblematici esempi, da un coro unanime che denuncia le crudeli vessazioni patite in

quei convogli ferroviari, le parole dei prigionieri Bruno Betta (Piasenti 1977, p. 80:

“I viaggi preannunciarono subito la realtà che ci attendeva, con la loro crudezza,

svolgendosi per linee secondarie, a binario unico, lenti, senza soste. Con

sorveglianza sempre più vigile. Senza cibo, senz’acqua, senza possibilità di

appagare gli essenziali bisogni corporali.”), Carmelo Cappuccio (Piasenti 1977, p.

93: “Una lunga tradotta, insaccata di ufficiali e soldati: ogni vagone bestiame è

chiuso, stipato di uomini, i rettangoli dei finestrini hanno già dinanzi il filo

spinato.”), Massimo Franch (in Avagliano – Palmieri 2009, p. 34: “In tutto il

viaggio ho notato pochissimi gesti ostili, eccettuati, naturalmente, gli urli, gli

spintoni ed anche i pedatoni (uno l’ho visto dare ad un colonnello che non riusciva

ad aggrapparsi abbastanza in fretta sul carro dei nostri guardiani.” ), Antonio Zupo

(Zupo 2011, p. 24: “Giorno 12 dicembre (1943) si parte per ignota destinazione.

Alcuni dicono si vada nelle vicinanze di Vienna altri in Polonia. È il viaggio della

fame. Ci avevano dato viveri per tre giorni e cioè ¾ di pagnotta (un kg. circa) e 9

formaggini tipo Emmental. Ci dirigiamo verso ovest come possiamo rilevare con

una bussola. Siamo in 50, fra soldati ed ufficiali, in ogni carro bestiame. Lo spazio è

ristretto, non più di mezzo metro quadrato per ciascuno. Alcuni seduti altri in piedi,

chiusi in questo vagone fortunatamente riscaldato, quando ci danno il carbone, da

una stufa. Alle sofferenze dello stomaco si aggiungono quelle per dolori dovuti alla

posizione sempre eguale degli arti inferiori. Si dorme seduti quando si può e si

respira affannosamente per l’acido carbonico della stufa.” Le parole del tenente

colonnello Pietro Testa nel suo Rapporto sul Campo 83 (Wietzendorf), scritto per

denunciare i crimini di guerra compiuti dai tedeschi nel campo di Wietzendorf, ben

riassumono l’effettiva realtà dei viaggi di trasferimento degli IMI nei Lager (Testa

1945, p. 37): “Inoltre io mi sono limitato alla vita del campo di Wietzendorf. I viaggi

di trasferimento in carri bestiame meriterebbero un capitolo a parte per il

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trasferimento bestiale usato agli ufficiali italiani viaggianti fino a 60 per vagone,

senza mangiare, senza scarpe, senza coperte, senza modo di fare i bisogni corporali,

spesso privi di scarpe, cinghie, bretelle per impedire i tentativi di fuga.”

2

E. = Est

Kriegsgefangenen] Kriengefangen

I viaggi dei deportati, chiusi nei carri bestiame, duravano molti giorni e

avvenivano nelle peggiori condizioni possibili. Senza possibilità di ricevere vitto

sufficiente (scarsissimo era quello che alle soste davano le guardie ai prigionieri, la

cui fame poteva essere per un po’ lenita soltanto dagli inaspettati ma non rari gesti di

solidarietà dei civili alle stazioni), spesso con pochissima acqua, senza riscaldamenti

nelle gelide notti, dovendo sopportare pessime e umilianti condizioni igieniche (al

grido di “Abort” i tedeschi concedevano pochi minuti di sosta per espletare a

comando i propri bisogni, nei campi all’aperto e nelle stazioni in pubblico; dentro i

vagoni c’era in un angolo un fetido bidone coperto da una stuoia per i bisogni

corporali, che per molto tempo non veniva svuotato appestando l’aria all’interno), i

prigionieri, che durante il viaggio avevano anche visto morire di stenti molti loro

compagni, arrivavano alla meta stremati, dovendo poi percorrere vari chilometri

dalla stazione al campo di raccolta.

Il prigioniero Carmelo Cappuccio, deportato a Benjaminowo, in Polonia,

nell’ottobre del 1943, nei suoi ricordi descrive la vicina cittadina di Siedlce (da

Piasenti 1977, pp. 117-118), al cui campo Ugo d’Ormea giunse il 13 novembre

successivo: “Scendiamo (N.B.: dal treno) tra schiere di baionette e rauchi comandi.

La colonna, lunga e sottile, si muove tra gli armati: ai fianchi, qua e là, gli ufficiali

tedeschi cavalcano bianchi cavalli sul verde compatto dei prati. Traversiamo la

piccola Siedlce: una breve serie di case basse e graziose, che ricordano i villaggi

toscani. Ai balconi e alle finestre si affollano donne e ragazzi polacchi: hanno lo

sguardo umano di chi ha già conosciuto il dolore e ha imparato la pietà. Ci

lanciano del pane, mentre le sentinelle urlano e minacciano con i mitra levati verso

il cielo. Poi ci addentriamo in un ampio pianoro, luccicante di acquitrini tra l’erba

folta: la colonna è un enorme nastro di grigie formiche: i bianchi cavalli incedono

trionfanti: all’orizzonte oscillano con un suono cupo le campane d’una chiesa

ancora intatta. La strada è interminabile, faticosa, avvolta da un cupo silenzio. In

fondo traversiamo una grigia borgata: vi sono i nidi delle cicogne; ma gli uccelli

liberi sono già volati via verso le terre più calde. E, lentamente, il reticolato del

campo ci ingoia e si chiude dietro i passi stanchi degli ultimi compagni.”

3

Annota nel suo Grande Diario Giovannino Guareschi, alla data del 18 novembre

1943 (quand’era rinchiuso nel Lager polacco di Beniaminowo), a proposito del

trattamento di favore di cui godevano i prigionieri che avevano optato per la RSI

(Guareschi 2011, p. 266): “I “repubblicani”, ovvero i trentasei che hanno firmato la

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scheda di adesione e attendono di essere portati via, vivono separati da noi in una

baracca ben riscaldata e mangiano doppia razione di margarina, minestra, uova, e

fumano.” Alla fame, alle privazioni e ai maltrattamenti che dovevano subire gli

internati si aggiungevano anche i pressanti inviti rivolti da ufficiali e funzionari

civili rappresentanti della RSI che visitavano in giri di propaganda i campi per

indurre i prigionieri ad aderire alla neonata repubblica di Mussolini. Citiamo un

episodio ricordato da Orazio Leonardi, in un capitolo del suo memoriale

significativamente intitolato L’ignobile proposta, alla data di metà settembre del

1943, quando venne a visitare i prigionieri di Sandbostel anche l’ambasciatore

italiano a Berlino Filippo Anfuso (Leonardi 2012, p. 34): “Un mattino di metà

settembre ci radunano, soldati e ufficiali, in un grande piazzale, saremo in

cinquemila circa. Davanti a noi c’è un palco con microfoni e altoparlanti.

Nell’attesa di quanto sta per accadere, facciamo le più svariate ipotesi. Poi

arrivano diverse macchine, ne scendono ufficiali tedeschi e persone in abiti civili,

uno dei quali si presenta come l’ambasciatore italiano a Berlino, Anfuso. Dopo

averci arringati sul tradimento perpetrato da Casa Savoia, le autorità tedesche ci

propongono, per riscattarci, di arruolarci nelle SS. La risposta a questa ignobile

proposta è un’ondata di fischi.” Anche Guareschi narra nel suo Grande Diario al 19

settembre, a Sandbostel, la visita degli ufficiali fascisti che con scarso successo

propagandavano l’adesione alla RSI, questa volta accompagnati dal console italiano

di Amburgo (Guareschi 2011, p. 229): “Adunata dei sedicimila soldati e dei trecento

ufficiali italiani presenti nel campo. Una tribunetta con altoparlante preparata in

mezzo a un grande spiazzo. L’hanno anche decorata con dei festoni verdi. Il console

italiano di Amburgo Oderigo e lo «squadrista Busetti» (così lo presentano) cercano

di convincerci a collaborare con le SS germaniche. Aderiscono due tenenti e trenta

soldati.” A seguito di questi giri di propaganda, nei campi nasceva perciò una

situazione assai penosa, che rifletteva la divisione del nostro Paese, stretto fra due

eserciti stranieri e spaccato dalla guerra, che divenne anche guerra civile. A fronte

della stragrande maggioranza, una quota minoritaria di prigionieri, definiti “optanti”,

aderì alla nuova repubblica di Mussolini. Le più varie motivazioni spinsero questi

italiani a lasciare i commilitoni e ad entrare nei ranghi della RSI. Quelle elencate

puntigliosamente da Guareschi nel suo Grande Diario (alle pp. 71-72) si possono

ricondurre sostanzialmente a quattro: la fede nel fascismo e in Mussolini

(motivazione che spinse soprattutto i più giovani), il riscatto dell’onore nazionale

calpestato dal tradimento dell’alleato l’8 settembre, l’impossibilità di continuare a

sopportare gli stenti, il desiderio di tornare a rivedere le proprie famiglie, il

tornaconto personale. Poi ve ne era una quinta, forse quella più cogente: le lettere

che giungevano ai deportati con gli inviti di mogli, madri e sorelle ad arruolarsi e a

fare il loro dovere di soldati e mariti (“Ondata di lettere da casa incitanti a optare!”,

annota Guareschi al 15 maggio 1944: vd. Guareschi 2011, p. 370). Biasimo,

scherno, disprezzo, odio erano i sentimenti che si guadagnavano gli optanti da parte

dei rimasti nei campi, quasi che fossero considerati estranei, da condannare

moralmente, o pur anche nemici, come si legge in Guareschi al 10 maggio 1944, il

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quale, nel dopoguerra, abbracciò la causa della destra politica fondando il

settimanale Candido (Guareschi 2011, p. 368: “Ho visto il tenente mandato per

raccogliere le adesioni alla Repubblica (sociale) italiana: è senza stellette, con il

gladio tra i rami di quercia. Lo sento di un esercito nemico, più di quello tedesco.”

Tuttavia si è recentemente accertato che il numero degli “optanti” per la RSI fu

considerevole: 200.000 militari, ossia il 20% circa degli internati, secondo

Avagliano – Palmieri 2009, p. 91.

4

Al recapito della corrispondenza dei prigionieri da e verso le proprie famiglie

provvedeva, alquanto saltuariamente, la Croce Rossa Internazionale, che scarsissima

assistenza poteva dare in quanto la qualifica di IMI (Internati Militari Italiani) li

escludeva dalla sua tutela. Scarsa assistenza, d’altra parte diede la RSI con il suo

ufficio SAI (Servizio Assistenza Italiani) e nessuna il Regno del Sud, non

riconosciuto dalla Germania nazista. Preziosa, invece, fu l’opera dei cappellani

militari, come don Luigi Pasa, a Sandbostel, che riuscì a ottenere dai tedeschi di

poter corrispondere per raccomandata con il Nunzio Apostolico di Berlino, Mons.

Cesare Orsenigo. Don Pasa riuscì incredibilmente a inviare a Mons. Orsenigo ben

8.000 messaggi dei prigionieri per le loro famiglie in Italia (Don Pasa 19663, p. 116),

parte dei quali furono radiodiffusi da Mons. Orsenigo e parte inviati in Italia con la

valigia diplomatica.

La lettera costituiva un oggetto molto importante per i prigionieri: era il segno

tangibile che i vincoli di affetto con i propri cari persistevano pur nella forzata

lontananza dalla patria, nel travaglioso presente e nell’incerto domani. Come si

legge in Avagliano-Palmieri 2009, p. 221-225, il ricevimento di una lettera da casa

rinnovava ogni volta la gioia di un ideale abbraccio con i propri familiari e, unita

alle foto di mogli, bambini e genitori, ricostituiva potentemente le forze spirituali per

poter resistere alla dura prigionia. Le lettere dei prigionieri sono una

“corrispondenza standardizzata” (così Avagliano – Palmieri 2009, p. 222), con frasi

obbligate sul proprio stato di salute (sempre buono, evidentemente per non dare

pensiero ai destinatari) e richieste di invio di cibo e vestiario. Vi erano naturalmente

precise regole che limitavano la Kriegsgefangenenpost (corrispondenza dei

prigionieri di guerra): la posta era controllata dalla censura, sia quella in partenza sia

quella in arrivo dovevano essere redatte su moduli prestampati con apposita

intestazione e limitato numero di righe. Ogni ufficiale aveva diritto a spedire tre

lettere e quattro cartoline al mese, i sottufficiali e i soldati due lettere e quattro

cartoline. Era vietata la corrispondenza tra internati. La distribuzione dei pacchi e

della posta avveniva in misura disuguale per i prigionieri. Chi aveva parenti al

centro e al nord Italia (ossia nelle regioni ancora controllate dai nazifascisti) poteva

sperare di ricevere lettere e pacchi da casa con una certa frequenza, mentre gli arrivi

dal sud, dalle regioni liberate dagli Alleati, erano assai difficoltosi. Si creò pertanto

una differenziazioni tra gli stessi prigionieri: alcuni poterono contare su consistenti

rifornimenti di cibo e vestiario (biancheria, indumenti nuovi), quelli che erano

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chiamati pacchisti, altri meno, altri per niente (in genere quelli che avevano le

famiglie al sud). In questi casi, alla penuria di cibo e vestiti sopperiva la solidarietà

tra compagni di prigionia: se questa mancava chi era stato dimenticato dai propri

familiari non aveva altra risorsa che vendersi gli oggetti preziosi che aveva (ad

esempio, orologi e catenine d’oro contro pane e sigarette).

Dal diario di Ugo d’Ormea si ricava che il Nostro ricevette durante l’intero

periodo di prigionia almeno 36 lettere e 5 pacchi, di cui il primo al 18 marzo 1944.

La prima lettera ricevuta da casa è del 3 marzo 1944, precedentemente d’Ormea

aveva ricevuto una cartolina al 15 gennaio. Giovannino Guareschi scrisse la prima

lettera il 2 dicembre 1943 e ricevette la risposta il 31 dicembre successivo (vd. il

Grande Diario alle pp. 277 e 299). Altri non furono così fortunati. A Sandbostel,

nello stesso campo di d’Ormea, Serafino Clementi, dopo diversi invii epistolari,

ricevette il primo pacco il 25 maggio 1944 e la prima lettera da casa l’8 giugno 1944

(Carini 2015, pp. 74 e 75). Il sottotenente Tomaso Civinelli, prigioniero a Deblin,

riceve la prima lettera di sua madre il 14 febbraio 1944 e il primo pacco il 16 aprile

1944 (Civinelli 1989, pp. 39 e 77): nei giorni precedenti angoscia, disperazione e

odio verso gli aguzzini tedeschi si alternano nel suo animo in un frenetico turbinio di

sentimenti.

5

coscetta ] coscietta

La fame fu il grande avversario degli internati militari. Lo scarso cibo distribuito

nel campo (la “sbobba” o “sbobbetta”, com’è chiamata in molti memoriali),

consistente spesso in una brodaglia di rape o crauti e un pezzetto di pane con

margarina e poco altro, non poteva bastare al fabbisogno calorico dei prigionieri,

molti dei quali morirono di stenti e di malattie o uccisi dalle sentinelle mentre

cercavano di recuperare fra i reticolati merci e generi commestibili scambiati con i

compagni di prigionia. Ci si riduceva a dar la caccia ai topi, pur di placare i morsi

della fame: la terribile penuria li rendeva, con il ricorso agli espedienti culinari,

addirittura gustosi al palato dei prigionieri. Così ricorda Claudio Tagliasacchi,

sottotenente prigioniero a Siedlce e poi a Sandbostel e in altri Lager (Tagliasacchi

1999, p. 51): “Fui più fortunato con un topo (N.B.: il prigioniero aveva tentato poco

prima di lessare le cornacchie): era piccolo e lo presi facilmente con la solita

coperta. Fra l’interesse e i consigli invidiosi di tutti, riuscii a spellarlo. La carne era

bella, di un rosa pallido. Rimaneva il problema della cottura: lesso – secondo il

parere unanime – non avrebbe reso; arrosto era impossibile cuocerlo. Mi ricordai

allora del cappellano che aveva un po’ di vino che i tedeschi gli passavano per dir

messa. Lo commossi e ne ottenni poco più di un cucchiaio: lo mescolai nella gavetta

con un po’ di tisana, vi misi il topolino e posi tutto sulla stufa lasciandolo l’intera

giornata. Alla sera tra l’invidia generale lo mangiai dividendolo con Dado. Era

davvero mica male! Ma i topi non si fecero più vedere e nonostante tutta la baracca

gli desse la caccia, unendosi in cooperativa non ci fu più verso di trovarne uno.”

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L’inverno del 1944 fu a Sandbostel assai rigido: Serafino Clementi ricorda nel suo

memoriale all’8 dicembre 1944 che le razioni giornaliere davano appena 1600

calorie, appena sufficienti per mantenersi in vita, secondo il maggiore medico del

campo: si passava perciò molto tempo a letto, se la disciplina lo permetteva, per

risparmiare più calorie possibili (Carini 2015, pp. 97 e 98). Si sopperiva poi alle

necessità della fame acquistando a caro prezzo viveri, scarsi e talvolta introvabili, di

cui era incredibilmente fornito il “mercato nero” che a Sandbostel, come negli altri

campi di prigionia, comunque funzionava. A Sandbostel il mercato nero

(ufficialmente vietato) era gestito anche dagli ufficiali italiani, che acquistavano

merci dai tedeschi e le rivendevano a prezzi di molto maggiorati, come informa

Antonio Zupo (Zupo 2011, p. 31): “Ho potuto constatare nei vari campi come il

90% degli ufficiali italiani siano ben forniti di soldi. Lucro indegno di speculazioni

fatte nella regione balcanica. Molti parlano di invio di pacchi a casa, di pelli,

oggetti vari, tonno all’olio, pasta, riso, marmellate, liquori, acquistati (dicono loro)

alle sussistenze militari. Ed i soldati soffrivano la fame! Uno si vanta d’avere

regalato alla moglie una cinta formata da 25 sterline, frutto di mercato nero! Tutti

hanno rubato, hanno speculato ed ora i soldati, che hanno sofferto e che conoscono

il malfatto degli ufficiali, ci trattano da pari a pari. Ma quello che più fa pena è

l’egoismo d’ognuno. Tutto è commerciabile. Se si ha bisogno di un bottone non si

riesce ad ottenerlo, da un collega, se non in cambio di qualche altra cosa. Guai ad

avere bisogno! Nel campo entrano pure delle pagnotte, farina, burro o altro.

Trascrivo i prezzi indegni a cui possono sobbarcarsi quelli che hanno soldi e che

sono aumentati del doppio del prezzo di acquisto presso i soldati tedeschi. Una

pagnotta di un kg. e ½ circa, un kg. di burro £. 3.000, un kg. di farina £. 1.000, un

pacchetto di tabacco £. 200, un mazzetto di cartine £. 100.” Ma va detto che dai

soldati venivano spesso gesti concreti di solidarietà, come quello narrato da d’Ormea

al 24 febbraio 1944. Il Nostro non fa il nome del compagno che gli regalò due fette

di pane che aveva ricevuto in cambio del suo orologio d’oro. Leggiamo però nel

memoriale di Orazio Leonardi, internato a Sandbostel nello stesso periodo del

d’Ormea, che egli, vinto dalla fame, scambiò il suo orologio da polso con un filone

di pane nero (Leonardi 2012, p. 33: “Gli scambi avvengono lanciando gli oggetti al

di sopra dei reticolati, anch’io ho scambiato l’orologio da polso regalatomi per il

mio diciottesimo compleanno, con un filone di pane nero, che purtroppo, non

resistendo alla fame, è sparito subito.”). È improbabile che il Leonardi sia il

generoso compagno di d’Ormea (quanti internati si disfecero degli oggetti più cari

che avevano con sé, ricordi di famiglia, per racimolare un pezzo di pane e vincere i

morsi della terribile fame?), ma sarebbe suggestivo immaginarlo.

6

L’arrivo al campo di un pacco di viveri e vestiario rappresentava per il prigioniero

un momento di ineguagliabile felicità: aveva la prova tangibile che era stato nei

pensieri dei suoi cari, che qualcuno provvedeva a lui, pur segregato in un luogo

remoto e irraggiungibile, e poteva nutrire speranze di sopravvivere all’inferno della

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prigionia. Ugo d’Ormea ricevette il primo pacco il 18 marzo 1944, a Siedlce in

Polonia. Altri non furono così fortunati. Non tutti i prigionieri ricevevano pacchi

dall’Italia con continuità, ci fu chi ne ricevette pochissimi e chi nessuno. Alla fame

si aggiungevano allora l’invidia verso i compagni che godevano dell’insperata

ricchezza dei pacchi viveri, la rabbia e la disperazione di sentirsi abbandonati.

Annota al riguardo Guareschi nel Grande Diario al 23 ottobre 1944 (Guareschi

2011, p. 430): “Vicino a me mangiano grosse scodelle di riso, formaggio grana,

galletta bianca. C’è chi fuma sigarette, dio, che fame disperata, che voglia di

masticare. Che voglia di fumare. C’è gente che ha ricevuto fino a settanta pacchi:

gente neppure uno, gente pochissimi. Anche qui ci sono i ricchi e i poveri, quelli che

hanno “gente in gamba” a casa. E c’è chi schiatta per troppo mangiare e io crepo

di fame, come tanti altri. Almeno qui dovremmo essere tutti uguali.” E poi, al 2

novembre 1944 (Guareschi 2011, p. 433): “Morpurgo, Barone, Jellinek in una

settimana hanno ricevuto venti pacchi e io da tre mesi niente. Li vedo mangiare e

fumare lì a un metro. I grassi borghesi: non li saluterò più a casa. Mi sento

abbandonato da tutti. Che fanno i miei? Dormono? Nessuno pensa a me! Neanche

Dio!” I pacchi all’arrivo al campo erano accuratamente perquisiti dalle guardie, che

li aprivano e gettavano sui tavoli o per terra tutto il contenuto alla rinfusa: capi di

vestiario e viveri, pasta, conserve, salumi, formaggi, farina, zucchero, caffè o

surrogato, tutto veniva aperto, sparpagliato e mischiato davanti ai prigionieri, che

dovevano poi raccogliere alla bell’e meglio e portarsi via quanto era avanzato dalla

furia degli sgherri. La qualifica di Internati Militari Italiani, data dai tedeschi ai

prigionieri, sottraeva questi ultimi alle tutele concesse dalla Croce Rossa

Internazionale, secondo la Convenzione di Ginevra del 27 luglio 1929: i prigionieri

poterono ricevere, a differenza dei loro compagni francesi o americani, pochissimi

pacchi viveri dalla Croce Rossa, e assai poco giunse sia dalla RSI che dal Regno del

Sud. Il gerarca fascista e delegato per la CRI in Germania prof. Giorgio Alberto

Chiurco poté inviare il 29 marzo 1945 nel campo di Wietzendorf viveri per 185,50

chilogrammi, in gran parte avariati, che dovevano però bastare per circa 4000

internati (la lettera di accompagnamento della spedizione, con le considerazioni di

Guareschi, è riprodotta nel Grande Diario alle pp. 90-91).

A proposito dell’assistenza data dalla Repubblica di Salò ai militari italiani nei

Lager, l’ex ambasciatore della RSI a Berlino, Filippo Anfuso, ha scritto in un suo

libro di memorie che Mussolini stanziò miliardi per far giungere agli internati i

pacchi viveri (Filippo Anfuso, Da Palazzo Venezia al Lago di Garda (1936-1945),

Edizioni Settimo Sigillo, Roma 19964, p. 377). Anche l’esponente del MSI ed ex

vicesegretario del Partito Fascista Repubblicano Pino Romualdi ha affermato che

quantità ingentissime di materiale d’ogni specie furono inviate dalla RSI in

Germania ai nostri prigionieri (Pino Romualdi, Fascismo repubblicano, SugarCo

Edizioni, Milano 1992, p. 110). Ma se è vero quanto affermato da Anfuso e

Romualdi, è altrettanto e incontestabilmente vero, per unanime testimonianza di tutti

gli internati, che agli IMI venne distribuito pochissimo. Una delle spiegazioni della

scarsità degli arrivi di pacchi potrebbe rinvenirsi nelle parole del tenente Antonio

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Bocchiola, deportato a Wietzendorf (in Bedeschi 1990, p. 364): “Ho ricevuto,

durante i 20 mesi, circa 35 pacchi viveri dalla mia famiglia, che ha compiuto

enormi sacrifici. Ogni pacco poteva essere di 5 kg. Molti sono stati alleggeriti, forse

prima che passassero il confine, dato il contenuto di salumi, zucchero, polli sotto

grasso, che scarseggiavano in Italia.”

Si ricordi che decine di migliaia di prigionieri italiani dalla Germania non

tornarono più, vittime degli stenti, delle malattie o delle brutali sevizie e uccisioni

degli aguzzini nazisti (mancano cifre precise, si va dai 40.000 caduti indicati da

Paride Piasenti 1977, p. 425, ai 20-30.000 secondo Gabriele Hammermann, Gli

internati militari italiani in Germania 1943-1945, trad. di Enzo Morandi, il Mulino,

Bologna 2004, p. 379).

Il 26 marzo 1944 il prigioniero Ugo d’Ormea arriva a Sandbostel, località vicino

Brema. Per una descrizione di Sandbostel, citiamo il brano seguente dall’intro-

duzione al diario di prigionia di Orazio Leonardi, soldato del 232° Reggimento

Fanteria di Bolzano catturato dai tedeschi il 9 settembre 1943 e internato in quel

campo (Leonardi 2012, p. 15): “Uno dei più grandi campi di prigionia costruiti in

territorio tedesco, in un terreno paludoso tra i fiumi Elba e Weser, era il campo

chiamato XB (campo B nel distretto X - Amburgo). Nel settembre 1939 alcune

migliaia di Polacchi arrivarono, come prigionieri di guerra. Fino alla fine della

guerra nell’aprile 1945, vi furono tenute prigioniere e vi transitarono un milione di

persone provenienti da molti paesi europei, prigionieri di guerra, dal Belgio, dalla

Francia, dalla Gran Bretagna, dalla Jugoslavia, dall’Unione Sovietica e militari

italiani dopo l’8 settembre 1943, oltre a circa 10.000 internati dai campi di concen-

tramento. Migliaia di prigionieri morirono a causa della fame, di epidemie, di

esaurimento e di violenza. Le stime parlano di 50.000 morti, per la maggior parte

prigionieri sovietici. Il cimitero è situato a un paio di chilometri dal Lager. Le

spoglie mortali dei prigionieri di guerra e dell’internamento, non sovietici, furono

per la maggior parte trasportati nei loro paesi di provenienza, quelle degli Italiani

nel cimitero di Amburgo-Öjendorf.”

Sandbostel, grande campo di internamento per i militari, vicino Brema, accolse

dal 1939 al 1945 un milione di prigionieri di 46 nazioni, 50.000 dei quali morirono

di stenti, malattie o uccisi. Dal sito www.radio-caterina.org abbiamo appreso che il

campo appartiene a proprietari privati e che nel 1986 ne fu cacciata una troupe

televisiva italiana (sito aggiornato al 2008). Il 19 settembre 1943 erano presenti al

campo, secondo Giovannino Guareschi, 16.000 soldati e 300 ufficiali italiani,

solennemente adunati per ascoltare gli inviti del console italiano di Amburgo e dello

squadrista Busetti a collaborare con le SS (aderirono due tenenti e trenta soldati: vd.

Guareschi 2011, p. 229). Riportiamo anche questa rapidissima ma terribilmente

efficace descrizione guareschiana di Sandbostel, annotazione del 18 settembre 1943:

“Bremerwörde. Tredici chilometri a piedi coi bagagli sulle spalle, quindi il Lager di

Sandbostel. Quaranta o cinquantamila prigionieri di ogni Paese vivono in quelle

schifose baracche, divisi per nazionalità. Sembra un immenso lazzaretto, una città

di appestati” (Guareschi 2011, p. 229).

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Tristezza e desolazione, pur se affiorano tracce di una natura prepotentemente

vitale, promanano dalla descrizione del campo di Sandbostel fatta da Bruno Betta (in

Piasenti 1977, p. 87): “A Sandbostel, presso Bremervörde, il Lager X B era in una

landa ora fiorita d’erica ora lucida e desolata, triste. Gli stornelli in primavera a

stormi si posavano azzurri e ciarlieri sui reticolati e svolazzavano qua e là. E sul far

dell’estate passavano al largo le famiglie dei caprioli: avanti il maschio, e dietro la

femmina col piccolo ancora picchiettato di bianco. D’autunno s’alzava la nebbia,

piano piano, dal suolo, bianchissima, e crescendo, sommergeva lentamente,

ovunque, le figure dei prigionieri, lambendo prima i piedi, giungendo poi a

mezzobusto, lasciando emergere solo la testa, ingoiando infine anche questa. C’era

un gruppetto d’alberi là, verso est, presso due case dal tetto rosso: era un punto che

guardavamo spesso, come il centro d’attrazione del quadro. Era carico di emozioni

e di sentimenti. E c’era anche una stradicciola nella landa. Vi passava qualche

pastore col gregge, qualche donna in bicicletta. Simboli della vita che continuava.

Stagliati sull’orizzonte, al mattino, spiccavano i traini umani dei russi, trascinanti i

carri botte dello sgombero fognature… “Volga, Volga! …” sembrava di sentir

cantare, quasi rivivendo un vecchio spettacolo cinematografico ambientato in

Siberia.” Aggiungiamo anche questa descrizione di Armando Ravaglioli, che vi fu

detenuto dal maggio 1944 al febbraio 1945. Le sue parole richiamano alla mente, ma

in modo assai più triste e minaccioso, la “città dell’acciaio”, Stahlstadt, immaginata

da Verne nel suo famoso romanzo I cinquecento milioni della Begum (Ravaglioli

2000, p. 174): “La prima impressione di questo campo è stato di una mastodontica

città concentrazionaria, somigliante per grandiosità e complessità al nostro iniziale

campo di Fallingbostel. Sembra un accampamento antisismico, con baraccamenti

dal solo pianterreno, di una impressionante grandiosità. Dai tetti ricoperti di

cartoni incatramati, il sole del tramonto trae brividi di lucentezza come da una

superficie marina. I reticolati, montati con abbondanza di filo rugginoso su più file,

la disposizione delle numerose torrette per i fari che esplorano la notte e mostrano

le mitragliatrici pronte a reprimere anche le ombre, la dislocazione urbanistica

degli edifici attorno a spazi centrali sgomberi: tutto offre l’idea di qualcosa che è

stato predisposto come stabile e possente, destinato a funzionare per tutti i mille

anni che sono nel programma di durata del Reich nazista!”

Una originale e assai efficace versione fumettistica della vita quotidiana degli IMI

a Sandbostel è quella disegnata da Marco Ficarra sulla base delle lettere di suo zio

Gioacchino Virga, prigioniero nel 1944 in quel campo: vd. Marco Ficarra, Stalag

XB, BeccoGiallo, Padova 2009.

7

Il capitano di cui Ugo d’Ormea ricorda la barbara uccisione al 7 aprile è Antonio

Thun conte di Hohenstein. La morte del capitano Thun a Sandbostel è ricordata in

vari scritti di reduci, tra cui il Grande Diario di Guareschi (p. 355) alla medesima

data, venerdì 7 aprile 1944 (“Questa notte è stato ucciso il capitano Thun. Un

minuto di raccoglimento”), il taccuino di Serafino Clementi (Carini 2015, p. 70) e il

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memoriale di Antonio Zupo (Zupo 2011, p. 34). Il conte e cavaliere di Malta

Antonio Thun di (o von) Hohenstein, appartenente ad una nobilissima famiglia

trentina, nato in Boemia a Proeluc il 12 novembre 1911, ufficiale di cavalleria

prigioniero a Sandbostel, rifiutò di arruolarsi nella Wehrmacht, preferendo

mantenere la cittadinanza italiana, e probabilmente per questo motivo fu prodito-

riamente assassinato da una sentinella tedesca. Notizie più dettagliate sulla sua

morte si leggono nella raccolta poetica di un ex deportato, Gino Bertolini, Liriche

dell’esilio, Unione Tipografica Editrice Ferrari, Occella e C., Alessandria 19463, alla

p. 43, che riportiamo di seguito: “Fu grave motivo di dolore per tutti i deportati

italiani il doversi spesso privare di oggetti cari, miracolosamente sfuggiti all’attenta

rapina delle continue perquisizioni, per vincere la fame con cui si cercava di

piegare la loro resistenza morale. Spesso gli stessi militari tedeschi offrivano pane

per strappare agli italiani anche le fedi nuziali. Il capitano Thun che parlava

correntemente la lingua tedesca, pressato da una sentinella, le aveva consegnato un

prezioso di un compagno che languiva di fame, per averne in cambio viveri. Nella

notte dal Venerdì al Sabato Santo (7-8 aprile 1944), a richiesta della sentinella

stessa, alle tre del mattino, il capitano Thun si recò al reticolato per ritirare quanto

pattuito. Cadde innanzi al reticolato per due colpi di fucile. Solo dopo qualche ora

fu concesso ai compagni di raccogliere e trasportare il Conte di Hohenstein, ormai

deceduto. Antonio Thun era caro a tutto il campo per lo sdegnoso rifiuto con cui

aveva respinto le pressioni tedesche perché egli, di origine austriaca, entrasse

nell’esercito nazista. La sua forza morale si diffondeva sugli altri attraverso il

sereno sorriso, che gli illuminava sempre il volto, specialmente quando parlava

della madre e confidava ai più intimi il suo orgoglio per le parole di incitamento e

di approvazione che Ella gli aveva scritto sapendo della irremovibilità del figlio. A

lungo nel Campo rimase l’impressione che il delitto avesse un movente politico.” Si

noti che anche il Bertolini, così come il Clementi, allude a un “movente politico”

dell’assassinio. All’eroico capitano Thun Gino Bertolini volle dedicare una delle sue

liriche, intitolata La Croce di Malta, di cui riportiamo i primi versi (in Liriche

dall’esilio, cit., p. 22): “Il fiero tuo sguardo ricordo, / Conte di Hohenstein, / e

l’orecchio ancor m’accarezza / la voce ne la qual s’addolciva / l’aspra straniera

favella, / allorché ne le grigie mattine / sferzava il nevischio i volti smagriti / e

l’acqua fangosa inzuppava / le scarpe gualcite.” Altre notizie sul capitano Antonio

Thun sono nel memoriale di don Luigi Pasa, in un capitolo significativamente

intitolato Il delitto di Caino (cap. XIX). Ne citiamo un brano, che rievoca la statura

morale, la generosità (gli oggetti preziosi, che il Thun dava alle guardie in cambio di

cibo per i prigionieri, erano suoi personali, non di altri), la nobiltà d’animo e i

sentimenti patriottici che animarono Antonio Thun e che lo resero caro ai compagni

di prigionia (don Pasa 19663, pp. 142-143): “Il Thun godeva la stima generale.

D’origine boema, divenuto italiano dopo il ’18, nel periodo della prigionia era stato

più volte invitato ad optare per la Germania: sempre egli s’era rifiutato.

L’impressione generale fu che tale rifiuto c’entrasse non poco nella sua morte.

Intanto egli si sentiva in una situazione pericolosa. Il giovedì santo, dopo d’essersi

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confessato e comunicato, mi disse: «Ho un certo presentimento…». Malgrado

questo in giornata consegnò di nascosto a una sentinella tedesca alcuni suoi oggetti

perché gli portasse qualcosa da mangiare. La sentinella promise, come aveva già

fatto ancora, avvertendolo di ripassare alle 10 di notte, quando sarebbe stato di

guardia al cancello del campo. All’ora usata Thun andò e fu invitato a tornare alle

3. Alle 3.20 s’udì lo sparo, e indosso al cadavere nulla c’era che testimoniasse la

pattuita consegna di cibarie. S’era trattato, dunque, d’un tranello; e la sentinella

aveva impedito che Salvadori e Nicolodi (N.B.: il capitano Salvadori e il

sottotenente Nicolodi, che erano i più vicini al luogo dello sparo, furono allontanati

col fucile spianato dalla sentinella, quella stessa che aveva sparato contro il Thun)

s’avvicinassero al colpito perché temeva che fosse ancora vivo e potesse parlare…

Il dolore dei prigionieri fu grande e s’espresse nell’intenzione di dare carattere il

più solenne possibile ai funerali; senonchè, verso le 9 di quella stessa mattina, i

tedeschi ci portarono via la salma. «Vedrà» dissi al comandante Brignole (N.B.: il

comandante degli italiani prigionieri a Sandbostel) «che lo seppelliranno come un

cane». «Lei tracci un programma del funerale e io lo presenterò subito ai tedeschi».

Ma la salma non la riavemmo. Ci fu concesso di recarci in trenta ai funerali, che si

svolsero martedì 11, all’ospedale. Poiché il defunto apparteneva al Sovrano

Militare Ordine di Malta, avemmo tre rappresentanti di detto Ordine, nelle persone

del Barone Valentino Salvadori, dei Marchesi Angelo Mazzacchera e Ferdinando

Alfan de Rivera. Avvolto il feretro nel tricolore con l’emblema gerosolimitano,

assistito da Mons. Picco e Don Salvi, il piccolo corteo si mosse dalla cella

mortuaria. Dico subito che il picchetto armato tedesco non fu mandato, tanto per

rendere onore al morto, quanto per accompagnare noi italiani e così impedirci di

scappare.” Altre notizie sul capitano Antonio Thun di Hohenstein si leggono sul sito

“Dimenticati di Stato. I Caduti sepolti nei cimiteri militari italiani in Germania,

Austria e Polonia”, a cura di Roberto Zamboni, all’indirizzo:

www.dimenticatidistato.com

8

La visita della commissione della Croce Rossa a Sandbostel, che Ugo d’Ormea

data al 18 maggio 1944, fornì l’occasione per la propaganda della RSI e l’invito ai

prigionieri, che non avevano optato per arruolarsi nell’esercito repubblicano, a

lavorare nelle fabbriche e fattorie tedesche. Ecco come succintamente narra

l’episodio Giovannino Guareschi nel suo Grande Diario (Guareschi 2011, p. 371)

alla stessa data: “È venuto un generale con la Commissione della Croce Rossa, un

giovanotto biondo e una signora straniera, baronessa moglie del console di Vienna.

Con alcuni pacchettini. «Sarebbe ora che dimenticaste tutto e aderiste a lavorare!»

ha detto il generale: ma chi vi ha fatto generale? Vi faremo vedere come

dimenticheremo.” Le rare visite della Croce Rossa erano seguite dalla distribuzione

di viveri e generi di conforto, una goccia nel mare magnum delle necessità in cui

affogavano i prigionieri. Guareschi ricorda nel suo diario, il giorno dopo, di aver

ricevuto “una sigaretta e un quarto dalla Croce Rossa Italiana.” (ibid.).

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9

L’episodio del 24 giugno è riferito da Giovanni Guareschi nel Grande Diario (p.

387), alla stessa data, con dettagli sul numero dei feriti e sulla reazione delle

sentinelle: “Passaggio sulle nuvole di una formazione. Coppola suona. Brusio:

scende un paracadutista, l’apparecchio caduto brucia a est, lontano. Corrono. La

torretta spara, quattro colpiti: due al braccio (uno perderà il braccio). Fuggono.

Sentinelle sghignazzano… (Fulminea tragedia).” Variazione sul numero dei feriti

nel taccuino di Serafino Clementi, che riferisce il medesimo fatto, (tre ufficiali

italiani, a uno dei quali verrà amputato il braccio destro). Il Clementi precisa che non

venne suonato l’allarme aereo e che gli ufficiali colpiti erano lontani dai reticolati,

nello spazio permesso (Carini 2015, p. 78: “Non c’era allarme aereo; gli ufficiali

erano lontani dai reticolati, nello spazio permesso!”). Il che dimostra ancora una

volta la gratuita crudeltà dei guardiani di Sandbostel.

Al 30 giugno Ugo d’Ormea annota il tentativo di fuga di un collega, la sua cattura

alla stazione e il successivo faticoso prolungamento dell’appello pomeridiano. Alla

stessa data segna il fatto Guareschi (Guareschi 2011, p. 388): “Non lo trovano,

cercano nei cessi coi bastoni. Impossibile sia fuggito data la perfetta organizzazione

della sorveglianza! Lo hanno ripreso a Bremerwörde (ov’era la stazione ferroviaria,

distante dodici chilometri da Sandbostel).” Don Luigi Pasa, cappellano a Sandbostel,

nel suo memoriale ricorda l’episodio con maggior dovizia di particolari. Riferiamo

le sue parole (don Pasa 19663, p. 128-129): “In quello stesso mese di giugno, il 30,

l’appello pomeridiano durò parecchie ore. Perché?... Mancava un ufficiale, il s. ten.

Bellina, della baracca 85. Da molto tempo costui meditava la fuga, e quel giorno

v’era riuscito. Ma rimase poco uccel di bosco: la polizia di Bremervörder telefonò

al campo annunciando che in… stazione era stato fermato un ufficiale italiano che

attendeva… il treno. Come fosse riuscito a scappare lo sapemmo poi. Ogni giorno

entrava nel campo il camion della posta e dei pacchi. Approfittando d’un momento

che nessuno lo vedeva, il Bellina s’era cacciato dove venivano messi i pneumatici di

ricambio: e così bene si era nascosto che, visitato il camion da varie sentinelle di

guardia all’uscita dal nostro campo e da quelle di altre nazionalità, non era mai

stato scoperto. Prima di Bremervörder, poi, durante un rallentamento della

macchina, era saltato giù, dirigendosi alla… stazione. Se la cavò con la prigione e

una buona dose di legnate.”

10

Il concerto a cui assistette Ugo d’Ormea il 30 luglio 1944 fu quello diretto dal

maestro Enrico Cagna Cabiati. Il Guareschi nel suo Grande Diario alla stessa data

ricorda l’evento musicale con una certa irritazione (p. 398: “Un concerto diretto dal

Maestro Cagna Cabiati nella buca della spazzatura: che ignoranza spaventosa,

questa gente!”), forse non del tutto giusta. La “buca della spazzatura” era una cavità

che, accuratamente ripulita dagli italiani dei rifiuti ivi gettati, fu trasformata in una

piccola arena per le audizioni musicali, adatta a ospitare un pubblico più ampio di

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quello che poteva entrare nelle baracche. Ci informa al riguardo don Pasa nel suo

memoriale alla p. 109: “Dopo alcune esibizioni in baracche, avemmo vari concerti

all’aperto, cioè in quella che, prosciugando un piccolo laghetto, era diventata la

nostra arena. C’era, nel campo, una bassura dove stagnavano gli scoli e venivano

buttati barattoli vuoti, rifiuti ecc. A poco a poco i nostri pulirono tutto e ne sortì una

estesa cavità dalla forma di catino dove, a disporci all’intorno, si udiva e si vedeva

come in una piccola arena. Là vennero eseguiti non pochi concerti vocali

istrumentali che, ogni volta, attiravano l’intera massa dei prigionieri, facendo

vuotare letteralmente le baracche e suscitando persino l’interesse, l’ammirazione

del tedesco. E fu là che gustammo per la prima volta «Volo di rondini», la maggiore

composizione del Cagna al Lager X B, il quale Cagna, tutt’altro che nuovo a

composizioni musicali, svolge normalmente la sua attività a Roma, dove musica

films.”

Incredibilmente, pur fra tanti disagi, stenti, vessazioni e sofferenze patite,

l’ingegnosità e le risorse spirituali dei prigionieri riuscirono ad organizzare eventi

culturali, creando occasioni per concerti musicali, mostre d’arte, conferenze e

persino corsi di studio di livello divulgativo e anche universitario. A Sandbostel,

come informa don Luigi Pasa (don Pasa 19663, pp. 105-110) ebbe luogo una fervida

attività musicale, grazie alla inconsueta generosità dei tedeschi che fornirono gli

strumenti e alla presenza tra i prigionieri di valenti musicisti come il maestro Cagna

Cabiati, il compositore Pietro Maggioli, che organizzò una scuola di canto (don Pasa

ne ricorda le numerose composizioni della prigionia, tra cui la Missa captivorum a

tre voci, eseguita in varie celebrazioni e festività liturgiche), il pianista Arturo

Coppola, il violinista ten. Rovere, il violoncellista Giuseppe Selmi, il baritono

Gerardo Gaudioso e altri tenori. Agosto fu un mese pieno di iniziative musicali,

come annota Guareschi nel suo Grande Diario alle date del 2 agosto 1944 (concerto

all’ “Arena”, ossia la buca ripulita di cui parla don Pasa, di Maggioli e Cagna

Cabiati), del 7 agosto (serata musicale con Coppola e Cagna Cabiati), dell’8 agosto

(concerto di Cagna Cabiati alla presenza di ufficiali tedeschi), del 12 agosto

(concerto di Pietro Maggioli). L’assistenza religiosa a Sandbostel era assicurata dai

sessanta cappellani militari guidati da don Luigi Pasa; vi era una cappella dotata

degli ornamenti religiosi e don Pasa celebrava la Messa ogni mattina, dopo l’appello

al campo. Ma a Sandbostel fervevano anche le attività culturali e ricreative: si

tenevano conferenze di letteratura (sull’ermetismo), musica e teatro, declamazioni di

poeti moderni ad opera del futuro attore Gianrico Tedeschi, si era organizzata una

università all’aperto con corsi di diritto, lettere, ingegneria, ragioneria, agraria (come

informa Guareschi al 1° giugno 1944, vd. alla p. 378 del suo Grande Diario e,

soprattutto, per gli spettacoli, le conferenze, le attività culturali, le letture di racconti

e le conversazioni che teneva nelle camerate lo stesso Guareschi vd. l’appendice

compresa nel Grande Diario alle pp. 545-553), concorsi letterari e mostre d’arte. Si

realizzò il famoso “giornale parlato”, ad opera di Giovannino Guareschi e di altri

valenti collaboratori, esperienza che poi venne proseguita e arricchita anche nel

campo di Wietzendorf (sul “giornale parlato” di Wietzendorf, che vantava tra i

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collaboratori anche i futuri giuristi Enrico Allorio e Riccardo Orestano, vd. i ricordi

di Giuliano Pratellesi in Piasenti 1977, pp. 154-157).

Tali attività servirono certamente a risollevare lo spirito dei nostri prigionieri e se

non poterono alleviare le asprezze della detenzione, evitarono che gli uomini

degradassero nel totale abbrutimento.

11

A proposito del penoso caso del capitano impazzito, v’è da dire che ciò era

frequente tra gli internati, fin dai primi momenti di prigionia, anche durante il

viaggio in tradotta. La continua paura aggiunta agli stenti e alle brutalità dei

guardiani, l’angoscia per la sorte propria e dei propri cari di cui non si aveva più

notizia, la tensione nervosa, facevano crollare l’equilibrio mentale di molti

prigionieri. Il caso riportato da d’Ormea al mese di agosto potrebbe essere il

medesimo citato da Guareschi al 21 settembre, nel campo di Sandbostel (Guareschi

2011, p. 418): “Improvvisamente il capitano Montanari ha gettato per terra gli

occhiali e la bacinella gridando: «Basta! Ha detto Dio che non servono più!». Poi è

stato portato in manicomio.” Questi sventurati vedevano pertanto ridotte di molto le

possibilità di sopravvivenza.

Al 25 agosto Ugo d’Ormea annota la barbara uccisione di un collega “che faceva

l’atto di appoggiare un asciugatoio al filo spinato.” Le disposizioni date alle

sentinelle del campo erano severissime, fino ai limiti dell’assurdo, e bastava che un

prigioniero si avvicinasse incautamente al filo spinato per ricevere l’immancabile

proiettile, sparato senza alcun avvertimento. Le guardie, fra l’altro, miravano ad

uccidere e per ogni vittima avevano una licenza premio, se invece sbagliavano il

colpo erano messe agli arresti, come informa Guareschi (Guareschi 2011, p. 408).

Lo stesso Guareschi ci permette di identificare il militare italiano proditoriamente

assassinato, ossia il tenente Vincenzo Romeo, calabrese di Siderno Marina, la cui

morte è datata dallo scrittore nel Grande diario al 28 agosto 1944 (Guareschi 2011,

p. 408): “Alle ore 10,30 (è stato) ucciso il tenente Vincenzo Romeo, (dal)lo stesso

che ha accoppato il russo sabato. Stava lavandosi, lo curava. La palla di rimbalzo

sulle ossa (si è piantata) nella nostra baracca (89 B).” Nel Diario clandestino,

pubblicato anteriormente al Grande Diario ma da considerarsi come uno sviluppo

successivo delle brevi note contenute in questo, Guareschi narra con dovizia di

particolari la morte del tenente Romeo, ma la riferisce all’8 agosto (una probabile

svista dell’autore, perché tutte le altre testimonianze sono concordi sul giorno del 28

agosto). Riportiamo di seguito il lungo brano (Guareschi 199118, pp. 122-124): “Il

morto è disteso su quattro casse, in una stanzetta dell’infermeria, una specie di

ripostiglio con lettiere sfasciate, e sembra una cosa anche lui, con quello straccio di

pastrano buttato addosso alla meglio, e quella legaccia passata sopra la testa e

sotto il mento per tener chiusa la mandibola. Quattro compagni gli fanno la

guardia, assenti anch’essi dal mondo dei vivi, e sembra impossibile che possano

riprendere a parlare e a camminare. Vengono gli altri a vedere l’ucciso, e la fila

silenziosa riempie tutto il corridoio della baracca, e se ne vanno senza un gesto,

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come se fossero venuti soltanto per assicurarsi che è morto sul serio. Perché pare

impossibile: mezz’ora fa stava lavandosi alla fontana, e adesso è morto. A cinque

metri dalla torretta la pompa e – dietro la pompa – cento persone in fila, in attesa di

riempire brocche e bacili. Uno ha posato il bacile pieno d’acqua sulla sabbia, a due

metri dal filo, e si accinge a lavarsi. È una calda mattina assolata, col cielo

insolitamente azzurro. Un colpo secco ammutolisce la gente. Guardano perplessi il

compagno accasciato sulla sabbia, poi guardano la torretta. La sentinella – un

omuncolo con gli occhiali rotondi e l’elmo di foggia vecchia, coi due risalti

d’acciaio ai lati – emerge dal parapetto come una vipera cornuta da un canestro, e

assiste imperturbabile alla rapida agonia, come se la cosa non lo interessasse.

Quando capiscono, urlano pieni di rabbia impotente. La palla, deviando su un osso,

ha colpito uno spigolo della baracca di destra, ha bucato la doppia parete, ha

trapassato una giubba e una gavetta e ha spento la sua furia maledetta in un rotolo

di coperte. Egli ha “curato” il suo uomo: l’ha visto posare per terra il bacile e, col

fucile in pugno, ha seguito ogni suo movimento. E quando il prigioniero – già curvo

sul catino – ha allungato la mano per appoggiare l’asciugamani al filo, ha sparato.

La mano non ha toccato il filo, ma il colpo è andato a segno. È morto subito lì, a

quattro metri dalla torretta: la sabbia asciutta ha bevuto il suo sangue, e l’uomo di

lassù, quando ha visto che il corpo era stecchito, ha staccato il ricevitore e ha

telefonato al corpo di guardia: «Ho ucciso un italiano». Avrà il premio. Se la

sentinella spara e sbaglia ci sono gli arresti, se colpisce c’è la licenza. Il

regolamento è inesorabile. Poco dopo l’aria si rabbuia improvvisamente e si

scatena un uragano di cupa violenza, come per significare il corruccio divino, e tutti

sono alle finestre aspettando che un fulmine incenerisca la torretta. Ma l’uragano

finisce, e non succede niente: una semplice protesta formale del Padre Eterno. La

pioggia ha lavato la macchia di sangue sulla sabbia.”

Riscontri anche in Zupo 2011, p. 37, alla data del 28 agosto: “È stato colpito

presso il reticolato il Ten. Romeo di Siderno M. È morto quasi subito.”, e nel

taccuino di Serafino Clementi, sempre al 28 agosto del ’44 (Carini 2015, p. 85), con

l’indicazione dell’ora in cui avvenne il tragico episodio: “Ore 10,20: L’assassinio

del Ten. Romeo – la vivissima indignazione…!”

Il volume di Antonio e Giuseppe Zupo (Storia di IMI. Diario Ricettario Nostalgia

e Ricordi di un Prigioniero Internato Militare Italiano – I.M.I. – in Germania

durante la Seconda Guerra Mondiale, Herald Editore, Roma 2011) riporta alle pp.

XXIX-XXXI della parte quinta una serie di fotografie, tratte da quelle scattate

clandestinamente a Sandbostel dal prigioniero Vittorio Vialli e costituenti il Fondo

Vialli donato all’Istituto Storico Parri di Bologna. Esse documentano in modo

impressionante la feroce gratuità del proditorio assassinio del tenente Romeo. In

particolare la foto 34 riprodotta a p. XXX mostra che l’asciugamano era ben lontano

di vari metri dal filo di recinzione: il Romeo non si era dunque affatto avvicinato al

filo spinato e la guardia non aveva alcun motivo per fare quello che fece.

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L’epidemia di tifo petecchiale a Sandbostel, datata da Ugo d’Ormea al 5

settembre, trova riscontro in Guareschi, ma il giorno prima (Guareschi 2011 rist.,

ibid.): “Otto casi di tifo petecchiale? Grande impressione.” E poi, al successivo 5

settembre, è annotato l'isolamento del campo: “Siamo isolati: per molti giorni

nessun tedesco entrerà in campo né nessuno o niente entrerà o uscirà eccetto la

morte, naturalmente. Poi si vedrà.” Notizie più dettagliate nel memoriale di don

Luigi Pasa, anch'egli internato a Sandbostel (Don Pasa 19663, p. 137): “Nel

complesso, con tanta gente ivi riunita e proveniente da varie parti, epidemie

gravissime non se n'ebbe. Avemmo sì il tifo petecchiale, ma, per grazia di Dio, fra

gl’italiani non si generalizzò. I primi casi si manifestarono il 4 settembre. I colpiti

dovevano venire subito isolati. Dove, se non c'era posto?... Decidemmo di trasferire

nella cappella gli alloggiati della baracca 85, e, in questa, riunire gli infetti. I

tedeschi, saputo del tifo, non si fecero più vedere in mezzo a noi, in modo che noi

stessi dovemmo decidere, curare, insomma arrangiarci.” Il sottotenente Antonio

Zupo annota i primi casi di tifo petecchiale al 6 agosto 1944 (Zupo 2011, p. 36):

“Per il campo si sparge la voce che vi sono due casi di tifo petecchiale . I due

ufficiali che sono colpiti da tale malattia si trovano all'ospedale.”

13

Nel campo vi erano regolari servizi liturgici, prestati da cappellani militari. Uno di

questi era don Luigi Pasa. Le sofferenze e le privazioni avvicinarono alla Fede molti

prigionieri, cosicché non rare erano le conversioni e la somministrazione dei Sacra-

menti ai convertiti, come la Cresima che fu impartita a Sandbostel la prima

domenica di ottobre, festività del Rosario, e i cui momenti furono fissati da fotografi

tedeschi. Scrive don Pasa nel suo memoriale al 1° ottobre 1944 (don Pasa 19663 p.

139): “Ottantaquattro furono i cresimati, tutti preparati al grande atto con un corso

speciale; e parecchi prigionieri s’accostarono per la prima volta all’Eucarestia.” La

cresima degli ufficiali italiani, con una variazione nel numero (sessanta), è registrata

in Guareschi alla medesima data, il 1° ottobre, nel suo Grande Diario (p. 423). Ben

quindici riti di Cresima celebrò don Luigi Pasa nel campo di Sandbostel. Di don

Pasa circolavano nel campo sue fotografie, in cui appariva abbigliato con paramenti

liturgici, che faceva passare per immagini di S. Cirillo o del Papa: esse erano

vendute ai prigionieri russi in cambio di pane, zucchero e altri viveri (che il

sacerdote distribuiva agli italiani). Vd. l’inserto fotografico in don Pasa 19663, fra le

pp. 112 e 113.

Ugo d’Ormea riferisce al 29 settembre di aver mangiato il tonno inviato dal Santo

Padre, Papa Pio XII, tramite il Nunzio Apostolico di Berlino, Mons. Cesare

Orsenigo. In effetti, come riferisce don Luigi Pasa nel suo memoriale (don Pasa

19663, pp. 113-118), numerosi furono gli invii di viveri e medicinali ai prigionieri

dalla nunziatura di Berlino, grazie all’opera provvidenziale e incessante di Mons.

Orsenigo, che provvedeva anche a inoltrare da e per l’Italia la corrispondenza tra gli

internati e le loro famiglie. L’invio di tonno in scatola (dieci casse per un totale di

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Kg. 225) da parte di Mons. Orsenigo è datato da don Pasa al 20 settembre 1944 (p.

115 del memoriale): fu quello, molto probabilmente, il tonno che poté gustare Ugo

d’Ormea a Sandbostel.

14

Il mese di novembre, come tutto l’inverno 1944-45 fu durissimo per i deportati.

Al freddo intenso si aggiunsero le restrizioni alimentari. Guareschi informa nel

Grande Diario (p. 434) al 4 novembre che da quindici giorni a Sandbostel non

danno più lo zucchero. Le camerate diventano sempre più fredde e umide, i tedeschi

non danno più legna per riscaldarsi. Anche il taccuino di Serafino Clementi attesta le

restrizioni alimentari e il peggioramento climatico (Carini 2015, pp. 92-93:

“29.10.44 – Tabella-viveri in peggioramento: 150 gr. di rape in luogo di altrettanto

di patate.. Comincio a sentire seriamente il freddo: e l’inverno può dirsi non ancora

iniziato. La situazione è più che mai preoccupante… Sento che, in tali condizioni, mi

sarà ben difficile resistere.”), che tocca i meno 11 gradi al 28 novembre (Carini

2015, p. 97: “28.11.44 – Temperatura: -11. E del riscaldamento, in baracca, non se

ne parla neppure. La notte, per il freddo, non si riesce a dormire…”). Invano il

colonnello Angiolini, subentrato al tenente di vascello Brignole il 15 agosto 1944

quale comandante dei prigionieri italiani a Sandbostel, scrive all’ambasciata di Ber-

lino per denunciare la “penosa situazione del campo: le pessime condizioni di allog-

giamento, di equipaggiamento degli internati” (ibid.). Non ne verrà alcun aiuto.

Anche nella sua relazione il ten. col. Pietro Testa denuncia il peggioramento delle

condizioni di vita a Wietzendorf (campo dove venne trasferito Ugo d’Ormea il 21

gennaio 1945) nell’inverno 1944-45 (Testa 1945, p. 32: “Per lunghi periodi e

soprattutto nell’inverno 44-45 in cui la temperatura per oltre 40 giorni fu al di sotto

di 10° sotto zero e raggiunse un massimo di 19° sotto zero non fu concesso

combustibile per il riscaldamento e per la cottura dei generi dei pacchi. Il com-

bustibile per il riscaldamento fu in tutto 4 volte in quantità irrisoria. Si ebbero nelle

camerate numerosissimi casi di congelamento di 1°, 2° ed anche di 3° grado.”).

15

Nei ricordi dei prigionieri ha uno spazio speciale il Natale vissuto nei campi, e la

partecipazione alla Messa e, in molti casi, all’allestimento del presepio. La vigilia e

il giorno di Natale costituivano occasioni per riunirsi nelle camerate e trascorrere

insieme, davanti a quelle poche cibarie che la penuria permetteva di considerare lauti

pranzi e cene natalizie, momenti di calda e affettuosa solidarietà, pensando ai propri

cari così lontani e dimenticando gli stenti, i soprusi e le umiliazioni subite

nell’inferno della prigionia. Quel giorno, il giorno di Natale, anche la naturale

ferocia degli aguzzini si mitigava e i primordiali istinti di crudeltà cessavano di

fronte al misterioso evento di una Natività che ogni anno rinnovandosi prometteva la

salvezza al genere umano. La suggestiva e arcanamente sacrale potenza di

quell’evento così fondamentale nella storia dell’umanità poteva fermare anche la

mano degli assassini e risparmiare alle vittime, quel giorno, bastonature e altre

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violenze. Una tenue fiammella di speranza e insieme di nostalgia per la casa lontana,

di inespresso amore per i propri cari e di umana solidarietà per i compagni di

sventura, vibrava nei cuori di quei prigionieri sepolti nella gelida prigione del

campo, dimenticati dal mondo e riuniti insieme per celebrare in una assoluta

semplicità la festa del Natale. Tutti insieme, anche con quei detestati “optanti”, ai

quali la scelta di aderire alla repubblica di Mussolini attirava gli scherni e gli

improperi di coloro che erano stati caparbiamente sordi alle lusinghe dei generali

fascisti in visita periodicamente nei campi. Così Armando Ravaglioli ricorda il

primo Natale, quello del 1943, trascorso da prigioniero nel campo di Tàrnopol, in

Polonia (Ravaglioli 2000, pp. 95-96): “Il Natale è stato davvero un gran giorno per

la evocazione dei sentimenti familiari: un ritorno a pensieri e a riti dell’infanzia in

cui tutti ci siamo ritrovati, praticanti o meno che si fosse. Alle 17 della vigilia c’è

stata una bella messa celebrata da don Amodio con qualche timido

accompagnamento di coro, in vista del presepio, essenziale ma di genuina

ispirazione artistica, che hanno saputo realizzare i nostri aviatori. (Peccato che

siano un gruppo di optanti: l’informazione amareggia, anche se, in questa

circostanza, l’animo è propenso a qualche indulgenza. Ci sono abissi insondabili

nell’animo umano. Chissà quali considerazioni hanno prevalso in loro? Del resto è

calata sul campo una sorta di tregua di Dio, anche nella ridda delle voci. Nessun

arrivo di giornale e niente dicerie, come se all’improvviso il mondo delle battaglie

non interessasse più, rimasto estraneo per qualche ora a quello degli annunci

divini.) Nel presepio allestito nella baracca-chiesetta, ci sono solamente poche ed

essenziali figure, tutte attorno e sotto una tenda di beduini in una distesa desertica

che un accenno di reticolati trasferisce dal medio-Oriente alle nostre circostanze.

Così è sembrato che il Bambino sia sceso a condividere anche Lui questa nostra

solitudine, a raddolcire questa voglia di disperazione che cerchiamo di controllare.”

Il presepe lo allestì anche Antonio Zupo, prigioniero nel campo di Sandbostel, nel

Natale del 1944 (ricordando quando, bambino, era intento a costruire i castelli, le

casette, il mulino a vento, la fontana che zampillava, nel presepe che sarebbe sorto in

un angolo della casa: vd. il suo memoriale alla p. 28), e così tanti altri prigionieri,

praticamente in tutti i campi in cui furono reclusi. E poteva accadere che in qualche

modo si stabilisse anche una timida e silenziosa comunicazione fra gli italiani e i

tedeschi, quasi a voler ricordare che non ogni traccia di umanità era spenta. La

vigilia di Natale il tenente Tomaso Civinelli di Fano poté partecipare a un breve

trattenimento casalingo, allietato da canti natalizi, con la famiglia tedesca Jürgens

che lo ospitava come bracciante nella fattoria di Wesselburen (Civinelli 1989, pp.

180-181).

Non sempre, però, il giorno di Natale portava una pausa dalle afflizioni e dalle

angosce. Il militare Luigi Montresor, prigioniero impiegato in una fabbrica di

zucchero a Oberleutensdorf, scrive il 27 dicembre ai suoi familiari a Bussolengo

(Verona) che nemmeno il giorno di Natale “il nemico ha voluto far festa e così per

molti è stato un Natale di lacrime e di morte. Non si è sentito il gioioso suono delle

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campane ma bensì quello stridente delle sirene accompagnato più tardi dalle

esplosioni delle bombe dirompenti.” (Nicolis 2015, p. 74).

In un clima certamente più sereno e allegro (per quel che la condizione della

prigionia poteva permettere) Ugo d’Ormea trascorre la sera del 25 dicembre 1944

con i suoi compagni attorno a una “bella tavolata”, mangiando una gavetta di patate

con galletta grattugiata, spezzatino e un dolcetto.

Giovannino Guareschi rappresenta la bellissima Favola di Natale in teatro, a

Sandbostel, con le musiche di Arturo Coppola, e ottiene “un successone” (lettura

replicata il 26 dicembre, come apprendiamo dal Grande Diario, pp. 444-445). Ci

piace immaginare che anche Ugo d’Ormea abbia potuto ascoltare la favola del

bambino che aveva imparato a memoria una poesia da recitare al padre per Natale,

ma non poteva recitargliela perché il padre era prigioniero in un Lager in Germania.

Il bambino, Albertino (evidente allusione al figlioletto di Guareschi), assieme alla

nonna, in un magico, onirico, viaggio, dopo aver attraversato il paese della Pace e

quello della Guerra, incontra il padre in un misterioso bosco pieno di croci nere:

sono le croci dei morti che la guerra ha sparso per il mondo. Il bambino e la nonna

qui incontrano il rispettivo padre e figlio e, dopo essersi abbracciati e scambiati gli

auguri di Natale mestamente si congedano: il bambino non può seguire il padre,

perché, così gli dice, egli se ne va in un luogo dove i bambini non debbono entrare

mai, cioè il Lager.

Ma vogliamo anche pensare al Natale che trascorsero quelli che più non tornarono

dalla Germania, come il generale Alberto Trionfi, barbaramente assassinato dalle SS

il 28 gennaio 1945 a Shelkow, e il tenente Federico Ferrari, giovane intellettuale

cattolico, ucciso nel Lager di Weinböhla dal comandante del Volksturm locale il 24

aprile 1945. Il generale Alberto Trionfi trascorse il giorno di Natale del 1944 nella

preghiera e nel pensiero commosso dei suoi cari: aveva completato quel giorno

l’allestimento del presepio (Trionfi 2004, p. 308). Il tenente Federico Ferrari la

vigilia di Natale poté uscire dal Lager e prendere il tram per andare ad ascoltare la

Messa nel paese di Coswig, e la sera gustò assieme agli altri suoi compagni una torta

(Königtorte). Il giorno dopo preparò i canederli trentini con un compagno. In quella

settimana il freddo era sceso a meno sedici gradi (Zani 2009, pp. 153-154).

16

Le condizioni del campo di Wietzendorf, una sorta di campo di punizione,

autentico inferno per gli sventurati ufficiali italiani (che non godevano neppure della

qualifica di prigionieri di guerra) sono state dettagliatamente descritte dal col. Pietro

Testa, comandante del campo per il settore italiano, nella sua lettera-relazione,

datata al 22 giugno 1945 e diretta al Comando Truppe Britanniche. Riportiamo di

seguito un significativo passo (da Testa 1945, pp. 29-31): “Il campo di

concentramento di Wietzendorf era in origine abitato da prigionieri russi. Della vita

che hanno condotto questi e del loro trattamento testimonia il cimitero russo nei

pressi del campo (a circa un Km. e mezzo lato nord) nel quale si trovano sepolte

oltre 16mila salme. Sgombrato dai russi probabilmente per le condizioni di

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inabitabilità, servì nell’autunno 1943 allo smistamento dei prigionieri italiani che vi

passarono a decine di migliaia; anche generali vi alloggiarono per più giorni a

terra e senza alcuna sistemazione non di conforto, ma neanche strettamente umana.

In seguito allo sgombro dei campi di Polonia nel gennaio 1944 il campo, con la

denominazione di Oflag 83 fu destinato agli ufficiali italiani. Più di una descrizione

delle baracche adibite ad alloggio e degli impianti igienico-sanitari, vale il fatto che

due commissioni sanitarie tedesche, presiedute da colonnelli medici, dichiararono il

campo inabitabile. Nelle camerate buie e basse, costruite con blocchi di cemento, gli

ufficiali vissero per 15 mesi in affollamento da 50 a 90 in ambienti di 50 metri cubi,

che non permettevano neanche la vita normale. Spesso da 10 a 20 ufficiali hanno

dormito sul pavimento in pietra senza neanche pagliericcio, o su panche e tavoli. La

paglia per quelli che sono riusciti ad averla non è stata mai cambiata. Dai tetti

sconnessi l'acqua cadeva sui tavoli e sui letti. Durante l'inverno nell'interno delle

baracche scendevano ghiaccioli da 20 a 30 cm. mentre qualsiasi riscaldamento

veniva negato (quattro distribuzioni di legna in ragione di Kg. 20 per camerata in

tutta la stagione). Tutti i canali di scolo delle acque di rifiuto delle latrine correvano

allo scoperto ammorbando l'aria. Le latrine erano semplicemente indescrivibili

tanto che costituiscono ancora oggi la maggiore preoccupazione delle autorità

britanniche, che hanno preferito di ordinare la costruzione di latrine all’aperto. Gli

impianti bagno erano rudimentali e senza nessuna garanzia igienica. Il bagno

veniva effettuato circa una volta al mese in un affollamento enorme (6, 8, 10 ufficiali

per doccia) col sistema tedesco di urti, spinte e di far tutto in un tempo

assolutamente insufficiente. A tutte le richieste, proteste, pressioni per migliora-

menti, quando non veniva risposto semplicemente che «per ufficiali italiani era

anche troppo», che «con traditori» si obiettava che la Germania era al quinto-sesto

anno di guerra, che anche la popolazione civile tedesca... che si sarebbe fatto il

possibile..., e la situazione penosa non cambiava. Solo nell'autunno-inverno 44-45

furono ricoperte alcune canalizzazioni delle acque putride e furono costruite delle

baracche rudimentali per lavatoi. Fino ad allora gli ufficiali dovevano attingere

l'acqua per tutti gli usi dalle poche pompe (una per mille ufficiali circa), pompe che

spesso erano guaste e che comunque davano acqua non potabile sì che bisognava

ricorrere alla bollitura. Infine l'infermeria per una forza ufficiali che ha oscillato

dai tre mila ai cinque mila con un massimo di sei mila era del tutto inadeguata. La

capacità di ricovero era di 60 persone e solo nei primi mesi del ’45 fu portata a 100.

Nessun impianto termico, nessuna possibilità di interventi chirurgici, nessun mezzo

di rapido sgombro per i casi di urgenza; neppure medicinali esistevano, neanche i

più comuni, se non in misura irrisoria. Agli ufficiali venivano sottratti i pochi

medicinali di proprietà privata che essi erano riusciti a salvare dalle numerose

perquisizioni, ma solo assai pochi di questi medicinali arrivavano all’infermeria in

cui quasi tutte le cure consistevano nella buona volontà dei medici italiani.” Altre

notizie su Wietzendorf sono fornite da don Luigi Pasa nel suo memoriale (don Pasa

19663 p. 152): “Questo campo, in origine abitato dai russi, e dichiarato inabitabile

da commissioni sanitarie germaniche, è servito, nei mesi di settembre e ottobre ’43,

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quale campo di smistamento a parecchie decine di migliaia d’Italiani; diventando,

da gennaio 1944, senza alcun miglioramento d’abitabilità o di igiene, campo per

ufficiali. Nelle baracche non riscaldate, per tutto l’inverno pendevano i ghiaccioli;

dai tetti passava l’acqua, pezzi di cartone in luogo di vetri. Numerosissimi i casi di

congelamento: anche di secondo e di terzo grado. Nelle camerate di circa 650 mq.

abitavano 90 ufficiali. Medici francesi, che visitarono il campo dopo la liberazione,

rimasero inorriditi delle condizioni pietose in cui erano ridotti gli ufficiali: dagli

scheletri incartapecoriti li differenziava l’edema; gli abiti cadevano a brandelli.”

17

Nelle annotazioni di Ugo d’Ormea ritorna la fame, vero e proprio incubo

tormentoso e incessante dei prigionieri che comunque, come militari, godevano di

un vitto migliore degli internati ebrei nei Lager. Così la descrive Claudio

Tagliasacchi, ricordando la dura prigionia a Siedlce (Tagliasacchi 1999, p. 43):

“Prigionia è freddo e fame, al limite della tolleranza. Non si può descrivere la fame.

La vera fame, quella che uccide, è una patologia medica. Un dolore incessante che

attanaglia lo stomaco, una mano invisibile che sembra stringerlo e strapparlo in

basso artigliandolo crudelmente: ed è sempre lì. Non c’è posizione che dia sollievo

neppure per un attimo. La mente è offuscata, ossessionata da immagini di cibo, da

fantasie di pietanze ricche, enormi, in cui ci si vorrebbe rotolare soffocando. Non

lascia respiro né giorno né notte. Il corpo dimagrisce, le ossa sporgono arrossando

la pelle là dove ci si sdraia: un nuovo dolore che si aggiunge agli altri, che

impedisce il riposo. Le caviglie e i polsi si gonfiano in edemi che sembrano

salsicciotti.” Ma in momenti così difficili, torturato da una fame spaventosa che

lasciava poche speranze di sopravvivere, l’uomo riusciva a ricavare inaspettate e

straordinarie risorse dall’ingegno e dalla fantasia, evadendo ciascuno con la mente

tra i tesori delle antiche e succulente tradizioni gastronomiche della propria terra. Ne

dà testimonianza il sottotenente Antonio Zupo, detenuto a Siedlce nel febbraio 1944

(Zupo 2011, p. 29), che inserisce nel suo memoriale una raccolta di ricette della

cucina calabrese: “Anche il Carnevale passa come gli altri giorni. C’è la mania, ora,

di scrivere ricette di piatti regionali ed anch’io ho il mio prontuario. Sfilano

dinnanzi agli occhi paiuoli colmi di polenta, sformati di pasta imbottita, vassoi di

dolci, chilometri di salsiccia, arrosti, cacciagione, intingoli, antipasti, frutta,

liquori, conserve le più disparate.”

Nacquero così, frutto di dialoghi al limite del delirio fatti per distrarsi da una fame

implacabile ma con la conseguenza di suscitarla irresistibilmente, i “ricettari” dei

prigionieri, taluni dei quali, arricchiti da splendidi disegni e vignette, sono piccoli

capolavori d’arte e d’ironia (o autoironia), come quello compilato da due militari

rinchiusi a Wietzendorf, Fedele Carriero e Michele Morelli, e pubblicato

recentemente col titolo Padelle, non gavette!, Cosmo Iannone Editore, Isernia 2011.

Lapidario in proposito il commento di Guareschi nel suo Grande Diario al 24

ottobre 1943 (Guareschi 2011, p. 249): “Certi fanno incetta di ricette complicate di

dolci e pietanze. Pazzia.” Lo spunto di riflessione è più ampiamente sviluppato nel

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Diario clandestino dello scrittore emiliano al 10 dicembre 1943: “Gente si aggira di

baracca in baracca, di letto in letto, a sollecitare pareri sulla situazione: e quando

finirà, e se avverrà una cosa o avverrà l’altra. Questa è debolezza di carattere, ma –

più che altro – è vizio nato dalla noia e dall’inazione. Gente, invece, trascorre il suo

tempo parlando esclusivamente di mangiare, pensando esclusivamente al mangiare.

E questa è pazzia. La fame c’è, e grava sulle nostre spalle in ogni azione della

giornata e, la notte, popola i nostri sogni di visioni dolorose, e tutti l’accettano con

rassegnazione come cosa fatale, come un morbo inguaribile. Ma per costoro la fame

è diventata pazzia. Parlano continuamente di mangiare. Descrivono pranzi, cene,

cenette, colazioni, merende. Descrivono panini imbottiti. Redigono in colla-

borazione ponderatissime liste di pranzi storici da celebrare al ritorno. C’è chi

raccoglie indirizzi di locande con distinte di piatti caratteristici e compila guide

gastronomiche d’Italia. Altri annota accuratamente migliaia di ricette dei più

complicati ammennicoli culinari. L’eterno e vano parlare di cibarie e l’eterno e

vano pensare al mangiare hanno aumentato il desiderio. E lo stomaco, nell’accesa

immaginazione di costoro, ha assunto la dimensione adeguata al desiderio stesso: la

dimensione di un bigoncio. È una forma di pazzia che annebbia d’angoscia i

cervelli, e questi poveretti cacciano fuori tutte le ossa e diventano gialli più ancora

per paura della fame che per la fame stessa.” (Guareschi 199118, pp. 31-32).

18

Il ten. col. Pietro Testa, nella sua relazione sul campo di Wietzendorf destinata

alle autorità britanniche, denuncia dettagliatamente le violazioni delle norme

internazionali commesse dai tedeschi, tra cui l’insufficienza del vitto che ebbe gravi

conseguenze sul fisico dei prigionieri. Citiamo da Pietro Testa 1945, p. 32: “Le

tabelle viveri sono sempre rimaste al di sotto dei valori minimi necessari alla vita

per individui a riposo assoluto. Nell’ultimo inverno essi divennero addirittura al di

sotto delle 1000 calorie giornaliere. Nessuna protesta, nessun appello al diritto di

civiltà dei popoli giovarono a nulla. Le morti dovute a sfinimento o a complicazioni

dovute al deperimento si fecero sempre più frequenti. I casi di edemi da fame si

contarono a centinaia. I congelamenti parziali per difetto di circolazione derivanti

da denutrizione erano di tutti. Due o tre settimane di ritardo nella liberazione

avrebbero portato alla catastrofe del campo.”

19

Il 13 aprile 1945 è la data dello sgombero del campo di Wietzendorf da parte delle

guardie tedesche, preannuncio della liberazione imminente dei prigionieri. Anche

Guareschi, prigioniero con d’Ormea a Wietzendorf, annota esultante quella giornata

(Guareschi 2011, pp. 480-481): “Ore 7: «Non ci sono più i tedeschi!». Solo alle

quattro torrette e per i servizi al comando del capitano «Armistizio» (N.B.: sopran-

nome affibbiato al comandante tedesco Lohse, per la sua aria inoffensiva). Passano

soldati tedeschi senza fucile, su carrettelle. Affisso il primo ordine del giorno del

Comando del Campo italiano 83 di Wietzendorf. Fila alle cucine: tutti vanno a

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pesarsi per vedere la carne lasciata all’amministrazione tedesca. Tutti si fanno

belli. Saltano fuori, come per miracolo, divise diagonali nuove di zecca! Le bandiere

tricolori fioriscono dappertutto.” Il 13 aprile fu giorno di gioia anche per Antonio

Zupo, che così narra la liberazione di Wietzendorf (Zupo 2011, p. 40: “13/4. Giorno

di Liberazione?? La mattina non suona la sveglia. Meraviglia di tutti. Si fa una

capatina fuori dalle baracche e si hanno così le prime belle notizie. I tedeschi sono

partiti. Il comando del campo è stato preso dal colonnello francese (N.B.: Duluc, il

più alto in grado tra i prigionieri nel campo di Wietzendorf) coadiuvato da un t. col.

francese e dal nostro t. colonnello (Pietro Testa). Si inizia a formare squadre per

requisire, nei dintorni, generi alimentari. E francesi e italiani portano qualcosa.

Abbiamo così, a sera, una distribuzione di patate di 1 kg. E il rancio nei giorni

successivi migliora sempre. Aspettiamo le truppe anglo-americane. Arrivo di un

maggiore inglese (N.B.: questo avvenimento, come i successivi, avviene il 16

aprile). Ancora nei dintorni vi sono truppe tedesche. Siamo con Bebè Fiore presso i

reticolati esterni. A 50 metri dal reticolato v’è un gruppo di tedeschi “abbacchiati”.

Facciamo delle considerazioni. Verso sera di questo giorno i tedeschi che erano

stati fatti prigionieri vengono liberati dalle S.S. che requisiscono le armi da noi

prese a loro e ci impongono di non uscire dal campo dandoci l’autorizzazione a

panificare e a macellare. Ancora la zona è occupata dai tedeschi e gli anglo-

americani, che a detta del maggiore inglese dovevano trovarsi a 4 km, non

arrivano.”

Lo sgombero delle guardie tedesche dal campo non significa però la libertà e la

sicurezza dei prigionieri, praticamente ormai incustoditi. Dopo violenti

combattimenti avvenuti la notte precedente, il 16 aprile, come annota Ugo d’Ormea,

arriva un maggiore inglese, con i suoi uomini, a liberare i prigionieri. D’Ormea data

l’arrivo del maggiore inglese alle ore 7 circa del mattino. Il tenente colonnello Pietro

Testa, comandante dei prigionieri italiani nel campo di Wietzendorf, scrive che il

maggiore inglese Cooley, questo il suo nome, giunse nel pomeriggio, alle ore 17,31,

a bordo di una berlina nera. Ne riportiamo in proposito i ricordi del 16 aprile (da

Piasenti 1977, p. 310): “Alle ore 11 del giorno 16, vedevo, dalla finestra del mio

ufficio, ad un km circa di distanza, sbucare sulla strada di Reddingen, diretto verso

est, un carro armato; sostava, sparava, riprendeva la corsa; lo seguivano altri tre.

Ne parlavo subito con il col. Duluc. Non potevano essere che inglesi o americani.

Ma il combattimento si spegneva e tornava la calma. Noi restavamo in ansia. Al

pomeriggio sedevo, in ufficio, preso da mille pensieri e da una idea fissa: dove

erano? quando sarebbero arrivati? Di scorcio, dalla finestra, potevo vedere a 15

metri il cancello del campo. All’improvviso un movimento. Si ferma una vettura, una

berlina nera; scendono uomini in kaki, armati. Guardo l’orologio: sono le 17.31;

poi mi precipito fuori. Era arrivato il liberatore, il maggiore inglese Cooley. Aveva

lasciato il suo reparto carrista al ponte saltato di Marbostel, un chilometro fuori di

Wietzendorf; aveva proseguito accompagnato da un soldato. In paese, aiutato da

due ufficiali francesi e da due soldati italiani, aveva disperso un gruppo di soldati

tedeschi con una mitragliatrice. Si era impadronito di una vettura privata ed era

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arrivato al campo.” Il maggiore se ne va promettendo di ritornare con dei rinforzi. Il

giorno dopo, però, ritornano i tedeschi, questa volta le SS, che si fanno restituire le

guardie catturate dagli internati e impiccano il comandante tedesco del campo,

capitano Lohse (il “capitano “Armistizio”), reo di aver ceduto Wietzendorf ai

prigionieri italiani.

Dopo pochi giorni i tedeschi, a corto di munizioni, si accordarono per una breve

tregua con gli inglesi, ormai a pochi chilometri dal campo, per permettere

l’evacuazione dei prigionieri italiani. La tregua stipulata comprendeva la via con il

terreno per una profondità di 500 metri dalla strada di transito e sarebbe durata

alcune ore. Il 22 aprile Ugo d’Ormea registra la partenza degli ormai ex prigionieri

(ma gli inglesi li considerarono POW, ossia Prisoner of War, dal 3 maggio 1945) dal

campo di Wietzendorf e l’arrivo alla cittadina di Bergen (ov’era il famigerato Lager

di Bergen-Belsen), distante circa 13 km., dopo aver caricato i bagagli a bordo dei

camion inglesi. Qui gli italiani si sistemarono nelle case abbandonate dai proprietari

tedeschi, cacciati via dagli americani, trovando nelle cantine ogni ben di Dio.

L'arrivo a Bergen è ricordato da Antonio Zupo alle pp. 40-41 del suo memoriale

(“Dato che gli alleati non arrivano i tedeschi dichiarano che non hanno come

rifornirci e, dopo trattative, si sospende la battaglia e ci si dà il permesso di

raggiungere le linee degli anglo-americani. Così inquadrati, arriviamo a Bergen, a

13 km da Witzendorf (sic) dove siamo alloggiati nelle case dei civili fatti sgombrare

in due ore. Troviamo ogni ben di Dio nelle cantine, nascosto e sotterrato dopo due

anni circa di (…) ci rimpinziamo.”).

Giovannino Guareschi dà un breve pittoresco resoconto del medesimo evento,

ossia il trasferimento da Wietzendorf a Belsen, alla data del 22 aprile del Grande

Diario, con il significativo titoletto del giorno Verso la libertà (Guareschi 2011, p.

490): “Si parte alle 7 con la bandiera della Croce Rossa in testa. Siamo carichi

come muli. Passiamo attraverso boscaglie immense tutte bruciate: terra nera e

alberi verdi, si vedono auto scassate, segni della guerra. C’è gente che arriva:

profughi, bambini, carri. A sei chilometri da Wietzendorf ecco gli inglesi! Auto

americane e autisti. Ottimo servizio bagagli da parte americana. Si va a Bergen. La

Bengodi di Bergen. Si incontrano gli abitanti di Bergen cacciati via dagli americani

che hanno fatto sgomberare il paese per accogliere gli ottomila ufficiali francesi e

italiani. Un casino spaventoso per gli alloggi. Io e Coppola dal droghiere. Siamo

nelle case dei tedeschi. Gli italiani hanno svaligiato il magazzino militare inglese di

coperte e bacinelle e gli inglesi minacciano di cacciarci in un Lager. Oggi niente da

mangiare. Domani neanche. La cuccagna inglese è magra! I russi girano spaccando

tutto e razziando con le armi alla mano.”

È strano che Guareschi non abbia trovato niente da mangiare se le altre

testimonianze dicono che le cantine delle case abbandonate a Belsen erano piene di

viveri come magazzini. Alla vista di tanta abbondanza, che comprendeva anche

polli, maiali, mucche e ovini, i nostri si diedero da fare per scacciare i morsi della

fame sofferta per lunghi mesi. Ecco cosa racconta il tenente Antonio Bocchiola che

era quel giorno nella colonna dei militari italiani arrivati a Belsen (in Bedeschi 1990,

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p. 366): “Le case erano state abbandonate dalla popolazione in seguito a preciso

ordine del comando alleato, così concepito ed emanato alle ore 10 antimeridiane:

tutta la popolazione deve lasciare le case entro le ore 8 antimeridiane portandosi lo

strettissimo indispensabile. Pur non potendo andar via due ore prima del

ricevimento della disposizione, le case furono trovate sgombre da persone. Ma piene

di ogni ben di Dio: pasta, riso, pane, legumi, melassa, lardo, mele, pancetta, spek

(sic), salumi, olio, sidro (vino di mele), liquori e tutto quanto può costituire riserva

abbondante di una casa per parecchie settimane o mesi. Senza contare i polli, i

maiali, le mucche, gli ovini. Presi posto in una bella casetta con un gruppo di amici,

dei quali il capitano Rossi di Pavia era il più alto in grado. Ci improvvisammo

cuochi, camerieri, macellai. Tutti si davano da fare dappertutto. Si macellarono

animali anche di grossa taglia da parte di profani assoluti. In poco tempo si voleva

rifarci di tutta la fame sofferta in tanti mesi. Il capitano Rossi fece un gran risotto;

mangiammo melassa, lardo, pane; facemmo una torta, bevemmo il sidro, le mele ed

il liquore e ci coricammo finalmente soddisfatti, dopo tanto tempo.” Il 21 maggio

1945 venne rivelato agli ex prigionieri dal colonnello Pietro Testa che il comandante

tedesco di Wietzendorf, colonnello von Bernardi, aveva ricevuto l’ordine di

mitragliare il campo e di sterminare i prigionieri. Il piano non venne però attuato sia

perché alcuni soldati si rifiutarono di eseguire il piano criminale, per paura di

rappresaglie da parte degli anglo-americani, sia perché l’incalzante avanzata del

nemico rese necessario evacuare al più presto il campo (riscontri in Testa 1945, p.

39 e nel diario del sottotenente Donato Esposito, in Avagliano – Palmieri 2009, p.

310).

20

Inaspettatamente il 1° maggio i prigionieri italiani hanno l’ordine di far ritorno al

campo di Wietzendorf. Sentimenti di delusione e disappunto, se non di forte

contrarietà, dovettero animare quel giorno gli italiani, come mostra la doppia

punteggiatura esclamativa usata da Ugo d’Ormea. Il sottotenente Donato Esposito dà

nel suo diario la spiegazione del trasferimento (in Avagliano – Palmieri 2009, p.

309): “Da Bergen si ritorna nel campo di concentramento di Wietzendorf. Il fatto

sembra causato dal bisogno di sfollare Bergen per ricevere donne e bambini

polacchi. Un altro motivo sembra dato da ragioni militari. Infatti si dice che a

Bergen debbano arrivare delle truppe inglesi. Il morale è basso perché si dice che

gli inglesi ci considerano civili lavoratori (N.B.: se non fossero stati considerati

prigionieri di guerra non avrebbero potuto godere delle tutele della Convenzione di

Ginevra: il 3 maggio però gli italiani ebbero questo prezioso riconoscimento dagli

inglesi).” Guareschi allo stesso giorno dà, secondo il suo stile, un caratteristico,

tragicomico resoconto del triste ritorno a Wietzendorf e della scoperta delle pessime

condizioni del campo (Guareschi 2011, pp. 496-497): “Si preparano i bagagli per la

partenza in autocarro. Si mobilitano tutte le carrozzine per bambini, i carrettini, le

carriole. Il bagaglio si è appesantito… Tutti hanno sacchi di viveri, arnesi da

falegname, pentolame, macine per grano. Parecchi hanno anche dell’argenteria,

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macchine da scrivere, raccolte di francobolli, biancheria, pelli, scarpe eccetera…

Viveri. Tanti viveri. Uno ha una pompa d’automobile… Uno vuol portare tre sedie e

una poltrona, ma l’autista canadese non glielo permette. Arrivo alla sera al campo

di Wietzendorf. Un orrore! Un’infamia. Tutto spaccato: vetri, cartelli. I bagagli

pesanti abbandonati prima di partire sono stati saccheggiati dai soldati rimasti.

Nelle camerate: mezzo metro di letame, non una lettiera usabile, un puzzo mefitico.

Occupiamo la Baracca 6 del Blocco 2 dov’erano i francesi: accidenti com’erano

sporchi questi francesi! Non siamo mai stati trattati tanto male neppure dai

tedeschi! È stato uno scherzo orrendo giocato a noi poveri straccioni. Rieccoci

piombati nella miseria. Cimici, pulci, topi ci aspettano famelici al cancello per

riprenderci quello che abbiamo incamerato a Bergen.”

Al 5 maggio, annota Ugo d’Ormea, arrivano al campo i viveri della sussistenza

inglese, il che comporta un netto miglioramento delle razioni, in quantità e qualità,

per i prigionieri. Ma Guareschi non sembra essere contento. Lo scrittore, infatti, al 4

maggio, nota una certa limitazione nella distribuzione dei viveri, che non raggiunge

la quantità desiderata (Guareschi 2011, p. 499): “Gli inglesi sono tirchietti: pane

trecento grammi, carne sessanta grammi, due sbobbe schifose, quaranta grammi di

burro, centoventicinque grammi di latte acido, quattrocentocinquanta grammi di

patate. Presto daranno meno dei tedeschi.”

Il 7 maggio, alle ore 2,41, nel quartier generale degli Alleati a Reims il generale

Alfred Jodl firma la resa della Germania: la guerra in Europa è virtualmente finita.

Da notare l’icastico commento di Guareschi allo stesso giorno (Guareschi 2011, p.

501): “Hanno detto che stamattina è finita la guerra. E chi se ne frega?”. Ben

diversi i sentimenti di Ugo d’Ormea che l’8 successivo assapora per la prima volta la

gioia della ritrovata libertà, uscendo per una passeggiata fuori dal campo di

Wietzendorf. Quali fossero le condizioni del territorio fuori dal campo, ci è detto da

Guareschi, che evoca in rapidi accenni la desolazione e la devastazione causate dalla

guerra, le cui molteplici tracce disegnano un paesaggio di morte (Guareschi 2011, p.

500): “A passeggio per i boschi con Rebora, Novello e Novaro. (…) Armi e

postazioni sono abbandonati nel bosco. Le bombe della Katiusha (N.B.: il micidiale

cannone multiplo dei russi, chiamato anche “organo di Stalin”). Novello vuole un

filo rosso: gli piace. Prendo un elmetto. L’unico segno: qualche straccetto di

volantino e le strisce argentate degli aerei inglesi sui pini: sembrano alberi di

Natale.”

“I sentimenti che ho provato in quell’ora di libertà non li scorderò mai.”, scrive

Ugo d’Ormea all’8 agosto. L’emozione di d’Ormea è quella che dovettero provare le

decine di migliaia di prigionieri italiani in Germania al momento della recuperata

libertà. Quel giorno, che non fu lo stesso per tutti, fu il giorno della resurrezione, che

scatenò nei cuori momenti intensissimi di gioia individuale e di gioia collettiva,

come quella descritta dal capitano Tommaso Melisurgo, detenuto a Gros Hesepe, nel

suo diario al 5 aprile (in Avagliano – Palmieri 2009, p. 323): “Sono libero! Tutti

gioiscono… Una vera grande esplosione di gioia erompe da tutti i cuori. Si vedono

scene commoventi: si abbracciano, si scambiano auguri per loro e per le loro

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famiglie… Il Colonnello Amodio ha rivolto a tutti noi brevi parole piene di fede, di

entusiasmo e di auguri per la nostra cara Italia immortale. Io ho pochissimi amici e

nessun vero amico. Stringo la mano e scambio gli auguri con alcuni dei pochissimi,

di cui meritano di essere ricordati il capitano Colozza, che conosco da quando ero a

Spital Drau, ed il tenente medico Viola, di Potenza, che ho trovato in questo Campo.

Perciò gran parte del mio entusiasmo è esploso in un soliloquio di brevi parole e di

affettuosi pensieri: «Maria mia, figli miei… son ritornato alla vita, sono ritornato

un uomo libero, un capitano dell’Esercito Italiano che ha fatto il suo dovere sul

campo di battaglia.»”

21

D(eo) G(ratias)

Il ritorno in patria dei prigionieri italiani, che durò praticamente, per le lungaggini

delle pratiche burocratiche e le difficoltà dei trasferimenti, tutta l’estate del 1945,

avvenne nella sostanziale indifferenza se non nell’incomprensione. Certamente gli

ex IMI ritrovarono tra le braccia dei loro cari sopravvissuti quell’affetto e quei

sentimenti che avevano ormai perduto e che avevano disperatamente sperato per

lunghi mesi tra le asprezze di una crudele e disumana detenzione. Ma, passati quei

momenti di piena felicità, non trovarono nello Stato italiano la comprensione e il

giusto risarcimento per tante pene sofferte, in nome della fedeltà alla patria e della

dignità umana. L’Italia che andavano scoprendo era troppo diversa da come

l’avevano lasciata: dopo vent’anni di dittatura e sei anni di guerra, di cui gli ultimi

due particolarmente tragici, il Paese scopriva la bellezza della libertà e della

democrazia, della partecipazione del popolo alla vita politica, del suffragio

universale. Gli ex IMI in questa nuova ed eccitante realtà, che lasciava preconizzare

una realtà di pace e benessere, costituivano una presenza anomala, forse addirittura

scomoda: in nome della fedeltà al giuramento prestato al re Vittorio Emanuele III

nella stragrande maggioranza avevano rifiutato di entrare nei ranghi della RSI e di

collaborare con nazisti e fascisti, avevano preferito soffrire la fame, gli stenti e le

durissime privazioni alle lusinghe dell’immediato ritorno in patria e del notevole

miglioramento, in vitto, alloggio e vestiario, della loro condizione. Ora scoprivano

che quel re per cui tanto avevano sofferto era diventato un nemico del popolo

italiano ed era stato costretto all’abdicazione e all’esilio perché ritenuto

corresponsabile, assieme a Mussolini, della sciagurata e catastrofica guerra condotta

con l’alleato nazista. Di più, questi “soldati del re”, rimasti fedeli nel loro animo ai

Savoia, ora scoprivano che nell’Italia di domani non vi sarebbe più stato posto per

l’istituzione monarchica. Inoltre si rimproverava loro di non aver effettivamente

partecipato alla guerra di Liberazione, di non aver imbracciato le armi come i

partigiani, ma di aver atteso la fine del conflitto stando nella “comoda” situazione di

prigionieri (e qui la malafede fingeva di ignorare le presunte “comodità” che

avevano sofferto questi prigionieri). Non si voleva riconoscere il fatto che il loro

“no” ai tedeschi, un “no” pagato spesso con la vita, era stato il loro modo di essere

“resistenti senz’armi”. E in questa “resistenza senz’armi” (che è anche il titolo di un

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volume rievocativo di Alessandro Natta) gli internati militari venivano a essere

idealmente fratelli di chi resisteva con le armi in pugno contro tedeschi e fascisti.

Addirittura, poi, li si rimproverava di aver partecipato alle guerre del Duce, stando

dalla parte dell’Asse, fino all’8 settembre 1943, e poi di non aver saputo opporre una

valida resistenza ai tedeschi, ma di aver consegnato loro le caserme, i depositi e gli

armamenti. Sicché, colpiti da queste accuse frutto di pregiudizio e ignoranza,

mortificati ancora di più dall’essere il valore del loro sacrificio misconosciuto nella

stessa patria, gli ex IMI si chiusero spesso in un rassegnato e rancoroso silenzio,

rimuovendo da sé la memoria dei giorni del Lager ed evitando il più possibile di

parlarne, perfino in famiglia.

Di sussidi e risarcimenti pubblici per i danni sofferti, neppure a parlarne. Scrive

Ricciotti Lazzero ancora nel 1996, nel suo volume Gli schiavi di Hitler

(nell’Avvertenza, p. XII): “Al loro ritorno i nostri sopravvissuti ai campi della morte

non hanno trovato una patria riconoscente ad accoglierli, ma sono stati costretti

addirittura a mendicare il pane, sono stati dimenticati, perfino accusati di non aver

partecipato alla lotta per la liberazione. Nelle scuole, in genere, non si parla di

loro.” Ma, per evidenziare l’ingiustizia di cui troppo a lungo sono stati vittime in

patria gli ex internati militari, facciamo nostra questa riflessione di Claudio

Sommaruga a proposito dell’ “altra resistenza”, che rovescia ipoteticamente la

prospettiva storica in senso “controfattuale” (Sommaruga 2007, p. 11): “Ma allora

gli italiani non avevano capito nulla del perché e del duro prezzo dell’ “altra

resistenza”! E se quella marea di 700.000 “NO!” fosse stata invece di 700.000 “SI”

dando, fin dall’8 settembre, il sostegno politico e militare a Hitler e a Mussolini,

quanti sarebbero stati i partigiani, con quali armi, addestrati da chi e con quali

prospettive? Gli Alleati avrebbero vinto lo stesso la guerra, ma che storia si sarebbe

scritta con un’avanzata alleata rallentata, dando per esempio fiato ai tedeschi nella

corsa alle armi missilistiche e atomiche?” Una prospettiva da brividi, che per

fortuna non si è realizzata.

Sul ritorno dei prigionieri italiani in Germania vd. anche Il ritorno dai Lager, a

cura di Pietro Vaenti (relazioni presentate al convegno Il ritorno. Partigiani,

internati politici e razziali, tenutosi a Cesena il 20-21 ottobre 1995 e promosso

dall’Istituto Storico della Resistenza di Cesena-Forlì, ANPI, FIAP e FIVL), Società

Editrice «Il Ponte Vecchio», Cesena 1996 (in particolare vd. gli articoli di Vittorio

Giuntella e Massimo Sani).

A noi però piace pensare che la naturale gioia del ritorno in patria, alla sua casa e

ai suoi cari, di Ugo d’Ormea non sia stata guastata da dolori, amarezze e delusioni. E

per rappresentare la comune esperienza di tanti reduci dalla deportazione, non

avendo ulteriori notizie al riguardo e auspicando che anche Ugo d’Ormea abbia

potuto godere di altrettanti gioiosi momenti, lasciamo il compito di riferire il ritorno

al soldato Orazio Leonardi, così come lo narra nel memoriale Sandbostel 1943.

Anch’io ho detto “no” (Leonardi 20122, p. 105): “Raggiunte le prime case del paese

(N.B.: Ronzone, in provincia di Trento), non sapendo dove andare, chiedo a una

signora informazioni per raggiungere casa mia. Questa, comprendendo chi sono, mi

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fa salire in casa chiamandomi per nome, raccontandomi di quanto hanno parlato di

me con mia mamma. È meglio che vada lei ad avvisare del mio arrivo. Dalla

finestra vedo mio padre, Renata con la piccola Mara in braccio, che corrono lungo

il sentiero. Un tumulto di gioia mi riempie il cuore, presto sarò tra le loro braccia.

Dopo due anni, si sta ripetendo l’abbraccio che sarà questa volta di gioia e di

felicità. Stringo mio padre. Un nodo mi chiude la gola, parlano solo le lacrime che

bagnano i volti, non riesco a spiccicare parola, abbraccio le mie sorelle. Il nodo si

scioglie dopo un pianto liberatorio, dopodiché corriamo tutti insieme verso casa,

dove mi attende la mamma. Volo sui gradini della casa, la porta è aperta, mamma è

immobile nel centro della stanza con le lacrime, che le rigano il viso. L’abbraccio,

la alzo da terra e mi metto a girare in tondo ridendo e piangendo. Forse una gioia

così grande non la proverò mai più nella mia vita.”

22

Il confronto delle tabelle viveri, prima e dopo la liberazione, posto da Ugo

d’Ormea come appendice al suo diario, è assai istruttivo, giacché rappresenta

un’ulteriore attestazione e conferma dell’effettiva insufficienza del vitto fornito dai

tedeschi ai prigionieri italiani. Un analogo confronto si trova nel memoriale di

Antonio Zupo (Zupo 2011, pp. 40-41), prigioniero come d’Ormea a Wietzendorf.

Nota l’autore alla data del 20 aprile, quindi dopo la liberazione, il nuovo e

relativamente abbondante vitto (alla p. 40): “Gli alimenti migliorano. Ci vengono

distribuiti oggi: sbobba di pasta e patate, gr. 100 di pasta, gr. 250 di patate, gr. 60

di carne, gr. 10 di sale; alla mano: rape kg. 0,500, pane gr. 180, patate gr. 1,500,

carne gr. 70, surrogato amaro (senza zucchero).” Lo Zupo annota poi il vitto che

veniva distribuito dai tedeschi poco prima della liberazione, scientificamente

studiato, a suo giudizio, per far morire d’inedia i prigionieri (alla p. 41): “La razione

ci è stata diminuita ancora. Essa consiste in gr. 150 di pane di segale, gr. 150 di

patate, gr. 15 di margarina, gr. 15 di zucchero ed una sbobba di un litro con dentro

gr. 200 di rape da foraggio e gr. 40 di farina di segale.” Il sottotenente Serafino

Clementi nel suo taccuino ha annotato le tabelle settimanali dei viveri per i periodi

19-26 novembre 1944, 3-10 dicembre 1944, 24-31 dicembre 1944: in esse si nota

una progressiva diminuzione dei quantitativi distribuiti a Sandbostel. Citiamo

l’ultima tabella viveri, quella del 24-31 dicembre 1944 (Carini 2015, pp. 102-103):

“Pane: ogni giorno gr. 300, Patate: ogni giorno gr. 280-300, Patate: il venerdì gr.

230, Zucchero – ogni giorno gr. 25, Margarina: ogni giorno – il martedì gr. 25,

Marmellata – la settimana gr. 120, Sanguinaccio – la settimana gr. 120, Rape

fresche crude – la settimana gr. 700, Zuppa Domenica – 100 gr. orzo, Martedì – 37

gr. piselli, – 50 gr. orzo – 40 gr. farina, Rape fresche gr. 500-600 grasso gr. 10 il

Lunedì, Mercoledì, Giovedì, Sabato, Crauti in salamoia gr. 230 il Venerdì.” Il

Clementi peraltro ricorda più volte nel suo taccuino le sbobbe di rape e crauti

distribuite a Sandbostel e annota all’8 dicembre 1944 che la razione dava solo 1600

calorie, “appena sufficienti per mantenere in vita (secondo i calcoli del maggiore

medico del campo)” (Carini 2015, p. 98). Arnaldo Pellizzoni, costretto a lavorare in

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una fabbrica di locomotive presso il campo di Julich (a 40 km. da Colonia) ricorda la

minestra di rape come unico pasto giornaliero (Pellizzoni 1995): “L’unico pasto

giornaliero consiste in una minestra di rape, cioè acqua con pezzi di rape,

consumato in fabbrica; ogni 3 giorni al capo baracca vengono consegnati due pezzi

di pane da dividere tra 40 prigionieri.” Per riempirsi lo stomaco si andava anche a

frugare tra i rifiuti delle cucine, si raccattavano le bucce di patate, ma al prezzo di

terribili punizioni, se si veniva scoperti dalle guardie.

Negli ospedali allestiti per gli IMI (che fornivano un’assistenza sanitaria assai

carente) il vitto non era certamente migliore: a Zeithain l’unico pasto della giornata

“comprendeva 3 patate, 150 grammi di pane, un cucchiaio raso di zucchero, una

piccola razione di carne in scatola o un pezzetto di formaggio, una mezza gavetta di

rape o crauti, sostituita una o due volte per settimana da una minestra d’orzo. In

sostituzione dell’acqua, non essendo potabile, veniva distribuito un litro di tè che

doveva bastare 24 ore.” (Piasenti 1977, p. 112). Altri prigionieri ottenevano ancor

meno dai loro aguzzini, come Umberto Olobardi, recluso a marzo del 1945 nel

campo di Fullen, il quale annota (in Piasenti 1977, p. 315): “Non c’erano medicinali,

di nessun genere; e il vitto si faceva presto a distribuirlo: una gavetta di erba

bollita, senza sale, un’erba lunga e legnosa che non ho mai ben capito che cosa

fosse, e centocinquanta grammi di pane scuro e molliccio, che andava e veniva a

fisarmonica come la gomma da masticare.”

La situazione alimentare cambia radicalmente con l’arrivo degli inglesi e degli

americani. Guareschi annota il menù del 24 aprile 1945 (Guareschi 2011, p. 491),

quando i prigionieri sono alloggiati a Bergen: “Menù di domani: budino,

marmellata, pastasciutta, braciole con fagiolini, purè di mele, caffè vero, spumante

(offerto dai russi), sigarette, minestrina, pollo con verdure, budino, spumante, caffè,

sigaro, pane e scatolette.” Un’abbondanza mai vista prima, che comprende generi

scomparsi o divenuti rari durante la guerra come il caffè (al posto del quale era stato

diffuso il surrogato d’orzo o di cicoria) e il pane bianco, invade la mensa dei

prigionieri liberati. Così al 25 aprile Guareschi annota: “Questi i viveri distribuiti

oggi: pane bianco duecentosettantacinque grammi, pane nero duecentottanta, carne

fresca duecentocinquanta, piselli duecento, tè dieci, latte fresco duecentocinquanta,

latte in scatola quaranta, pesce cinquanta, formaggio cinquanta, marmellata

quaranta, burro cinquanta, prosciutto cinquanta, zucchero ottanta, patate a

volontà.”

Lo schema annesso al saggio di Claudio Sommaruga, Uno storia affossata,

Quaderno n. 3, Archivio “IMI” 20073, p. 44, nel quale l’autore confronta le riserve

caloriche dell’organismo umano con le calorie fornite dalle razioni date agli IMI nei

Lager e con il consumo calorico giornaliero dei prigionieri, giungendo a calcolare il

deficit calorico e le speranze residue di vita (in giorni), dimostra senza possibilità di

equivoci l’assoluta insufficienza del vitto a cui furono costretti per lunghi mesi gli

internati, sicché ne morirono di malattie e debolezza in numero assai rilevante

(23.909 vittime calcola Sommaruga, p. 29). Sull’insufficiente alimentazione degli

internati militari italiani vd. Alessandro Ferioli, Fame e resistenza: gli internati

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militari italiani e il cibo nei Lager nazisti 1943-1945, in “Nuova Secondaria”, n. 5,

gennaio 2016, pp. 70-72.

L’incontro con le truppe alleate che liberavano i campi, mise i prigionieri italiani

di fronte alla realtà, scoperta per la prima volta e per loro sconvolgente, di un

esercito assai meglio armato, equipaggiato e rifornito, contro cui fare la guerra era

stata una stupida follia. Così, con tono sospeso tra il sogno e lo stupore, il

sottotenente Claudio Tagliasacchi, fuggito nell’aprile ’45 con tre compagni dal

Lager di Amstadt, ormai libero, descrive il vettovagliamento dei soldati americani

(Tagliasacchi 1999, p. 129): “mangiavano abbondantemente e potevano servirsi più

volte. Durante l’avanzata, per diverse decine di chilometri di profondità, sulle

strade principali venivano piazzati degli autocarri-cucina dove venivano distribuiti

cibi caldi a chi li chiedeva, ventiquattro ore su ventiquattro. Le razioni di riserva

erano confezionate in involucri di cartone rigido di circa 25x20x10. La più celebre

– che presto imparammo a riconoscere – era siglata «K». Conteneva un pasto

completo che nemmeno da civili avevamo mai potuto gustare: carne corned beef,

cioccolato, caffè, limoncina e ancora sigarette nelle piccole confezioni da quattro,

oltre a un sottile sigaro. Dietro al fronte, per diversi giorni, ci nutrimmo

raccogliendo queste scatole semipiene, che erano state gettate via.” Segue poi la

descrizione ammirata di una pentola con piastra, appositamente adattata per

preparare al momento bacon and eggs, con una buona tazza di caffè, ai soldati in

prima linea, che potevano gustarne a volontà fra un attacco e l’altro. L’abbondanza e

la varietà di equipaggiamento e viveri, la profusione di potentissimi armamenti di

cui godeva l’esercito americano portano il Tagliasacchi a stabilire amari e dolorosi

confronti con le condizioni in cui i soldati italiani, accecati dalla propaganda, furono

condotti alla guerra: quello italiano era “un esercito di straccioni affamati, mal

armati, mal organizzati e ancor peggio comandati: solo carne da cannone, mandati

allo sbaraglio senza armi, senza cibo, senza vestiario” (Tagliasacchi 1999, p. 128).

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MARINA CASTELLANO

Una proposta di lettura scolastica del I canto

dell’Inferno (vv.1-27)

Per entrare subito nel vivo delle vaste problematiche offerte già dalla

lettura delle prime terzine del canto muoviamo da un’osservazione di

Sanguineti a proposito della nuclearità di due termini presenti nel terzo

verso: selva e paura, che ricorreranno più volte nello svolgimento del

canto ma che già inizialmente indicano le linee direttrici dei motivi su

cui si muove l’intera cantica, precisando immediatamente l’assoluto

parallelismo tra motivo paesistico - itinerale e motivo psicologico. Si

potrebbe addirittura dire che il paesaggio costituisce la metafora dell’iter

psicologico. Tre quindi le dimensioni di questo avvio di canto:

paesaggio, cammino, psicologia; ma non basta, in quanto non è

enucleabile un concetto di cammino senza una determinazione

temporale, che leghi questo al paesaggio che muta ed alla psicologia che

attraversa diversi stati. Infatti Dante, grazie alle sue capacità di possente

sintesi, ci fornisce anche la quarta dimensione scolpendola in quel “già”

di v. 17, pregnante evocazione di un percorso temporale scandito passo

dopo passo dall’azione fisica e morale. Come ha notato, da poeta,

Ungaretti, proprio nello stesso periodo storico Giotto scopriva,

unificandoli nel compendio figurativo, il volume, lo spazio, la durata

terrena dell’uomo, il tempo. Ed è proprio il tempo che passa a

concretizzare il passaggio psicologico tra “paura” e “bene sperar” nelle

due succedenti visioni paesistiche, rispettivamente, della “valle” e del

“colle”. Il tutto è risolto dall’apparizione di Virgilio, “figura”, come

direbbe Auerbach, del “colle”: il poeta latino restituisce a Dante il suo

tempo, cioè lo pone in condizione di entrare nel tempo della “speranza

dell’altezza” che presto diventerà il tempo dell’ “altro viaggio”. Mi

sembra che queste semplici considerazioni, del resto niente affatto nuove, siano sufficienti a leggere con una certa diffidenza (che in me si

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risolve in ferma dissidenza) quanto affermava Croce sulla “stentatezza”,

e quindi l’impoeticità, di questo avvio di canto: la selva è la selva e le

fiere sono le fiere, anzi questa e quelle connettono il proprio significato

letterale a quello psicologico attraverso il senso etico, che rappresenta in

effetti la finalità dichiarata del viaggio stesso. Senza poi contare che la

stessa paura che Dante dichiara di avvertire si fa sempre poesia, laddove

la stessa realtà della sensazione è accompagnata dalla ben nota

fenomenologia fisiologica, che si fa immagine reale, concreta e visibile,

anche piuttosto caricata dal Poeta (tremar le vene e i polsi, lago del cor

ecc.).

Ma il canto presenta anche un’altra tematica di chiaro interesse,

coagulata intorno alla parola nostra, che lo Spitzer definisce “possessive

of human solidarity”: già dal primo verso, a quanto pare, Dante cerca di

coinvolgerci in questo suo - nostro viaggio, soprattutto di chiarire alla

nostra intelligenza la portata universale di questa sua esperienza, che

riguarda tutti, e a cui in qualche modo dobbiamo tutti prender parte. Non

è più il momento (lo vedremo dal canto VI, politico nel senso più greco

della parola, come si cercherà di precisare in quella sede) di rimanere

inerti, ognuno nel proprio guicciardiniano “particulare”: in una

situazione di sbandamento politico, di corruzione a livello di curia

papale, di instabilità sociale, l’uomo, ogni uomo, è chiamato da Dante

all’impegno personale, che parte dal momento etico individuale per

risolversi sul piano storico religioso. Quel nostra muove certamente da

una constatazione cronologica (trentacinque anni rappresentavano “il

mezzo” dell’aspettativa di vita dell’uomo medioevale), ma si precisa

subito in una “chiamata alle armi” contro un nemico che è interiore (il

peccato) ma che tarla quelle istituzioni (Chiesa e Impero) necessarie al

benessere, ad ogni benessere dell’umanità; e sarà Dante stesso a guidare

questo esercito virtuale che porrà le basi morali di una palingenesi

globale. Dante ha bisogno dei suoi lettori; essi sono il suo esercito, il

prototipo dell’uomo nuovo. Come si vede, secoli prima dell’Illumi-

nismo, che avrebbe conferito all’intellettuale il ruolo di educatore del

popolo, e del Romanticismo, che lo avrebbe visto come vate della

liberazione nazionale, Dante aveva già ben chiaro il compito cui l’uomo

di cultura era chiamato, un compito ben più arduo e totalizzante:

messaggero di Dio (compagna la Ragione), esorcista contro il Male che

semina i vizi sulla Terra, stabilizzatore politico, equilibratore sociale,

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insomma guida morale dell’umanità verso il suo Principio Primo

passando necessariamente attraverso quei principi da Lui scaturenti che

si sommano nei concetti di pace e giustizia.

Anche interessante mi sembra l’altra tematica espressa da Dante nella

seconda terzina, quella del sermo deficit (ahi quanto a dir qual era è

cosa dura, io non so ben ridir) soprattutto per la possibilità di chiarire

meglio la differenza che intercorre tra questo concetto e quello

ricorrentemente espresso nel Paradiso. Mentre l’ineffabile del Paradiso

ha come background una serie di giustificazioni teologiche che

penetrano la realtà del rapporto tra uomo e Dio (la differenza di livello

tra intelletto e memoria, l’abisso tra la gloria di Dio e le limitate facoltà

umane, l’incapacità di comprendere il senso pieno del trasumanar ecc.)

l’indicibile dell’Inferno rappresenta un dato psicologico-morale,

concretizzato nell’espressione “pien di sonno” che compendia allo

stesso tempo (e qui ci riallacciamo al discorso sul coinvolgimento quasi

fisico del lettore) il torpore peccaminoso che affliggeva Dante in quel

momento della sua vita, l’inevitabile stato di disagio che accompagna

l’uomo nei nuclei problematici della sua esistenza, la realtà storica che

vedeva instabilità, corruzione, ingiustizia. In una parola: sonno. Sonno

dell’anima, sonno del cuore, ma anche sonno delle istituzioni. Un sonno

da cui, evidentemente, non è agevole per il momento emergere, come si

evince dall’impossibilità di Dante-umanità-istituzioni di praticare il

“corto andar” della “piaggia” che, naturalmente, è “diserta”. Tale

impotenza, come si legge nel Convivio, risulta da una semplice

constatazione: l’uomo può giungere alla felicità morale se persegue la

vita attiva, mentre la beatitudine può essere attinta esclusivamente con la

rigorosa ricerca della contemplazione, che però implica un continuo

esercizio ascetico, un costante sforzo di liberazione dalle passioni. Un

cammino. Il cammino del pellegrino attraverso i tre regni per

conquistarsi (e conquistarci) il “colle”, vicino alla vista ma

irrimediabilmente lontano per l’uomo ancora involto nella sua

materialità, da sempre ostacolo alla libera esplicazione dello Spirito.

“Forse... questo colle... è... un miraggio antipodale, la sagoma illu-

soria di una promessa” (V. Sermonti, L’Inferno di Dante, Milano 1994,

p.7).

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vv. 1-9:

Dante, smarrita la via del bene, si ritrova, senza sapere come, in una selva oscura,

che gli procura angoscia ma che, come comprenderà in seguito, lo condurrà ad una

svolta esistenziale.

Nel mezzo1 del cammin2 di nostra3 vita4

1 mezzo: tale espressione, che ha i suoi precedenti in Salmi, 89,10 (“Gli anni della

nostra vita sono settanta”), in Isaia, 38,10 (“nel mezzo dei miei giorni scenderò alle

porte dell’inferno”), nello stesso Convivio (IV,XXXIII,6-10), enuncia efficacemente

la solennità del momento che Dante, ormai trascrittore della sua esperienza, ha

vissuto e di cui vuol rendere partecipe il lettore. Tale sforzo di attrazione si

evidenzia sin dall’inizio in un continuo richiamo alla determinatezza di cose ed

eventi, alla corposità delle sensazioni, alla volumetria giottesca di luoghi e

personaggi. Con questo Dante prende le distanze, se mai sia stato possibile

avvicinare due attitudini letterarie tanto differenti, da quegli autori a lui precedenti

(solo per citarne alcuni, il Bonvesin del Libro delle tre scritture o lo stesso Brunetto

Latini, interlocutore di Dante nel c. XV della cantica, nel Tesoretto) che avevano

parlato di viaggi ultraterreni: tanto visionari e indeterminati questi, quanto realistico

e minuziosamente descrittivo il nostro Poeta. 2 cammin: questa bella parola, di sapore iniziatico e sapienziale, palesa la similarità

della Weltanschauung dantesca con l’analogo pensiero esistenziale delle filosofie

buddhista e taoista. 3 nostra: come si vede, da subito l’esperienza individuale si apre all’intera umanità e

si precisa nel suo valore paradigmatico e nel suo obiettivo, che è quello di “removere

viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis” (Ep., XIII,15). 4 vita: la pregnanza del primo verso, che si conclude con la parola-chiave “vita”,

parola di ampio respiro e di vaste risonanze sia poetiche sia semantiche, detta la

necessità di un’analisi più approfondita riguardo alla peculiarità di questo momento

isolato da Dante, leggibile evidentemente su più piani. Intanto, il piano personale: il

Poeta, si evince dalla lettura della Vita Nuova, sconvolto dalla perdita di Beatrice,

ripensa tutta la propria vita alla luce di ciò che è stato e ciò in cui ha creduto,

vacillando nelle sue convinzioni religiose e scivolando pericolosamente verso l’aver-

roismo razionalistico professato dall’amico Cavalcanti. Quindi, il piano per così dire

epocale: come l’Ortis di Foscolo è, in effetti, emblema della crisi di un’intera

generazione, così il Dante in cammino dipinge i turbamenti di un Medioevo ormai

troppo maturo e non più a suo agio, come sentirà Petrarca, nelle strettoie

dell’aristotelismo. Infine, il piano istituzionale: mai come adesso, ed il pullulare di

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mi ritrovai5 per6 una selva7 oscura8,

neonati movimenti pauperistici ne è la prova, la Chiesa indulge alla corruzione; mai

come adesso l’Impero si crogiola nella sua debolezza, permettendo che il proprio

dominio, abbandonato in balia dei piccoli potentati locali, sia devastato dalle lotte

intestine e lasci così progressivamente sbiadire la sua identità culturale. Insomma il

pericolo in cui si trova Dante è lo stesso in cui si dibatte il cristiano, malsicuro sulla

via tracciata da una Chiesa, quella di Bonifacio VIII, da lui sentita come infida e

contaminata dall’auri sacra fames; ed è lo stesso che vede il cittadino dell’Impero,

un tempo certo del proprio status politico e sociale, trasformarsi in uno sbandato

senza patria.

Il “giallo” della data. Questo primo verso, a dispetto della premurosa volontà del

Poeta di fornire al lettore una datazione precisa, crea immediatamente il “caso”

relativo alla cronologia iniziale del viaggio. L’anno parrebbe il 1300 (benché se un

cultore di astrologia, Giovangualberto Ceri, in seguito a suoi calcoli esposti in Dante

e l’astrologia, Firenze 1995, sia convinto che ci si debba spostare in avanti di una

unità ), sempre che si parli in termini di calendario usuale; se, infatti, si sceglie l’uso

fiorentino di contare gli anni ab incarnatione (e Dante, in Pd XVI, 34 segg., ci

informa che, effettivamente, quello era il computo che egli soleva applicare), si

potrebbe ipotizzare la data del 25 marzo del 1300, cioè il primo giorno del 1301 in

Firenze. Generalmente si accoglie la tesi 1300, che verrebbe ad incontrarsi con due

elementi interessanti: la corrispondenza numerologica (1300 è composto da multipli

di 10, allegoria della perfezione divina, e di 3, figurazione della Trinità) e la

coincidenza del viaggio con l’indizione, da parte di Bonifacio VIII, del primo

Giubileo. Inoltre sembra significativa la scelta di un anno particolare, iniziatore di

secolo, laddove a “secolo” si potrebbe dare il significato di “epoca”: un anno

palingenetico, insomma, che ben si adatterebbe al sogno di rinnovamento morale e

politico che presto Dante materializzerà nell’enigmatica figura del Veltro. Per

quanto riguarda il giorno, si pensa generalmente all’8 aprile, venerdì santo del 1300,

ma non pochi preferiscono il 25 marzo (l’incarnazione) o addirittura, con minori

argomenti, il 5 maggio. Almeno sull’orario, per fortuna, Dante è stato esplicito,

anche se non puntuale: è sera, come rivelano gli indicatori già del v.17 e la notte

ch’io passai di v. 21. 5 mi ritrovai: il racconto ritorna, con quel “mi”, al livello individuale, ma subito,

ancora una volta, c’è qualcosa che identifica una condizione comune: il verbo

“ritrovai” che, pur qualificando una situazione vissuta in quel momento da Dante,

indica una attitudine prettamente umana, quella assenza di volontà (il Poeta vi

ritornerà con fermi argomenti teologici nel Paradiso) per cui l’uomo si “ritrova” nel

peccato suo malgrado, senza il contributo dell’azione; tale pericolo, sempre in

agguato, deve ammonire l’uomo a vegliare costantemente contro la forza, quella sì,

sempre attiva ed efficiente, del Male.

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che9 la diritta10 via era smarrita11. 3

6 per: nella stessa funzione di indicare uno stato in luogo circoscritto (“entro”) è

usato da Cavalcanti in Io non pensava: “l’anima sento per lo cor tremare”).

7 selva: si tratta di un luogo-simbolo enormemente pregnante, di antica ascendenza

allegorica, come si vedrà, e scelto da Dante a racchiudere una vera e propria “selva”

di significati. Il senso allegorico che appare immediatamente è quello, è evidente,

del peccato: se l’immagine è mutuata da Virgilio (la selva intricata dell’Averno), da

testi medioevali (la foresta in cui, nel Tesoretto, Brunetto Latini racconta di essersi

smarrito al ritorno dalla Spagna) ed anche dalla dimestichezza di Dante con il

paesaggio rustico della Toscana di allora, l’allegoria è di diretta derivazione

agostiniana (Conf.,X,35), scritturale (Eccl.,7,27) e ... dantesca (Conv.,IV, XXIV, 12:

“la selva erronea di questa vita”). Ma, come spesso accade nella Divina Commedia,

l’allegoria morale si accontenta di un ruolo da comprimaria per lasciare spazio alla

metafora ideologica e politica: così, la selva incarnerà la lotta per il potere tra Chiesa

ed Impero, causa di decadenza e disordine (Sanguineti), ma anche la Firenze

corrotta, meschina ed avida (la “trista selva” di Purg. XIV,74) forgiata a propria

immagine e somiglianza dalla gretta borghesia mercantile che da decenni deteneva il

potere economico della città. 8 oscura: determinante questa assenza di luce, ribadita a v. 60 dal “tacere” del sole;

la luce, infatti, è il luogo dell’armonia, nella quale, per citare Guardini, “il

significato si rivela”. Qui, infatti, nulla può essere rivelato, proprio per la mancanza

della luce-Dio, che non può essere attinta senza il cammino teoretico: “...Dante,

dalla sua oscurità, non la può raggiungere direttamente. Deve prima attraversare

tutta l’esistenza, riconoscersi nelle immagini della storia divenute manifeste nella

luce dell’eternità e, superandosi, giungere alla libertà” (R. Guardini, Studi su Dante,

Brescia, 1979, pp.281-2). 9 che: benché non causi mutamenti determinanti nell’intelligenza generale del passo,

la locuzione sembra passibile di varie sfumature interpretative: causale (“perché”),

consecutiva (“così che”), modale (“nella condizione in cui”). 10 diritta: dopo tanta simbologia, l’aggettivo ci rammenta che Dante è, soprattutto,

poeta e profondo conoscitore della letteratura contemporanea: non gli saranno state

certamente estranee le selve dei romanzi cavallereschi, dove l’eroe, al culmine del

dramma, doveva scegliere la via diritta, cioè la destra, quella del bene. Anche in

Dante, come nell’immaginario poetico collettivo, la selva avrà rappresentato il luogo

dell’avventura, così come sarà per Ariosto e, in modo molto più complesso, per

Tasso.

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Ah12 quanto a dir qual era è cosa dura13

esta14 selva selvaggia15 ed aspra e forte16 che nel pensier17 rinova la paura! 6

11 smarrita: in una situazione in cui sembra non esservi alcuna via d’uscita, il verbo

“smarrire” suggerisce almeno una speranza, che presto si farà certezza grazie ad un

intervento salvifico; infatti l’espressione non ha il senso definitivo di “perdere”, ma

indica una condizione provvisoria che si avvia, nonostante le apparenze, alla

soluzione, che coincide con il viaggio stesso. Una soluzione molto più gravida di

conseguenze che non la semplice salvezza di un poeta fiorentino. 12 ah: il sospiro lamentoso del Poeta, che peraltro è variamente letto (“Eh” dal Witte,

“Ahi” da altri) non rappresenta una semplice interiezione, ma ha la precisa funzione

di attrarre il lettore nella sfera della sensibilità del poeta-che-ricorda, anticipando

emotivamente quel senso dell’ineffabile che diventerà concetto con “dura”. 13 dura: per la prima volta, ed è emblematico il fatto che compaia già in questa sede,

Dante ci pone di fronte all’idea dell’ineffabile, verso cui il linguaggio pare

inadeguato; il Poeta, che riprenderà l’argomento con tonalità molto più elevate ed

immagini necessariamente più complesse all’inizio della terza Cantica, trae tale

concetto dal mondo mistico, ma lo personalizza attraendolo nella sua

Weltanschauung lirica. 14 esta: più volte ricorrente e comunque di uso comune come dimostrativo sia di

vicinanza (“questo”) sia di lontananza relativa (“codesto”), il termine rappresenta

una forma arcaica (da “iste” latino). 15 selva selvaggia: appare qui una prima figura etimologica, ampiamente in uso nel

Medioevo e fruita da Dante con estrema misura, affinché la poesia non debba

soffrirne; tale scelta stilistica consiste nell’avvicinare parole nascenti dallo stesso

tema e quindi di suono simile, con sicuro effetto retorico. 16 selvaggia e aspra e forte: mi sembra che i tre aggettivi, inframmezzati da quelle

congiunzioni che contribuiscono a dare il senso di un respiro affannoso, proprio di

chi sia preda dello sgomento, tentino di costituire una climax ascendente: infatti

selvaggia (dato naturale, esterno) rappresenta una constatazione paesaggistica, aspra

(dato fisico) connota la difficoltà dell’attraversamento, forte (dato emotivo-morale)

definisce l’angoscia che attanaglia irrimediabilmente il Poeta nella selva.

17 nel pensier: dopo il momentaneo ritorno al tempo del dramma (esta) Dante

riprende le vesti dell’io narrante.

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tant’è amara18 che poco è più morte19;

ma20 per trattar del ben21 ch’i’ vi trovai dirò dell’altre cose22 ch’i’ v’ho scorte. 9

18 amara: Dante ricorre qui ad una metafora tratta dall’ambito del gusto, al fine di

rendere con maggiore densità la realtà sensibile che ha vissuto ed in cui intende

attrarre il lettore; spesso il Poeta si avvarrà di tale possibilità espressiva,

specialmente quando sarà assolutamente necessario il coinvolgimento totale di chi

legge (è il caso, ad esempio, di Pd XVII, 117, “a molti fia sapor di forte agrume”,

dove stringe l’urgenza di ribadire l’impegno dell’intellettuale anche di fronte al

pericolo di “perder vita”, in ogni senso). Per dovere di cronaca, si segnala l’ipotesi,

ormai datata, secondo cui “amara” non sia riferibile a “selva” bensì a “paura”. 19 morte: solo un pensiero estremo può concludere degnamente l’escalation emotiva

aperta dall’”ah” di v.4; e certamente niente è più amaro della morte, specialmente

quando quella fisica evoca all’immaginazione una morte ben più temibile, la

dannazione indotta dal peccato, che è morte spirituale. Colonna sonora di questa

prima, saldissima sequenza è il sistema fonematico, nella studiata prevalenza dei

suoni aspri ( tn, r, rt). 20 ma: come spesso in Dante, anche stavolta l’avversativa viene rivestita di un valore

enfatico che va ben oltre la semplice retorica: qui si adombra un accenno di salvezza

“ch’era follia sperar” in una situazione apparentemente chiusa e disperante. Si fa

strada, insomma, una Presenza che ad inizio canto sembrava inimmaginabile: Dio,

che nel momento più arduo, nonostante ci si senta sconsolatamente soli, manifesta il

Suo esserci che restituisce l’uomo a se stesso, alla propria capacità di agire e reagire

(donde lo sciamare di “io”, prima mai osati, dei vv. 8, 9, 10). 21 ben: si è molto congetturato sulla realtà del “ben” che Dante trovò nella selva: i

più hanno pensato all’incontro con Virgilio, che porta alla conoscenza del male

(Inferno), al ravvedimento (Purgatorio) e quindi alla salvezza (Paradiso); Di Salvo

ritiene invece non trattarsi di persona o evento, bensì del proposito, nato nel cuore

del Poeta, di liberarsi dal peccato. Credo più plausibile quest’ultima ipotesi, che

raffigura in Dante la svolta coscienziale già individuata dal “ma” del nostro verso e

che anticipa enigmaticamente ma con certezza di positività l’esito di quella che è,

ricordiamolo, una “comedìa”. 22 altre cose: il significato dell’espressione è, evidentemente, strettamente collegato

a quello di “ben”: chi preferisce per questo l’interpretazione “materiale” deve

necessariamente vedere nelle “altre cose” le tre fiere, anche se va osservato che

Dante si imbatterà in esse fuori dalla selva, ciò che non collima con lo stato in quel

luogo espresso da “v’”. Propendere per un significato più ampio di “ben”, come

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vv. 10 - 27: Dante cerca di darsi una spiegazione razionale di quanto è successo e, quindi, di

uscire da quella situazione angosciosa, confortato dal giorno nascente e dalla vista

rassicurante di un colle illuminato dal sole; tuttavia perdura nel suo animo come

una sensazione negativa, che prefigura quanto sta per accadergli.

Io23 non so24 ben ridir com’i’ v’intrai, tant’era pien di sonno25 a quel punto

che la verace via26 abbandonai. 12

presa di coscienza, momento esperienziale, implica invece comprendere nelle “altre

cose” tutto ciò che accade e che si mostra a Dante sino all’apparizione di Virgilio.

Da segnalare, a margine, la lezione “alte”, di pregnanza semantica e poetica di gran

lunga inferiore ad “altre”, qui accolta. 23 io...io: nello stesso verso, Dante passa con disinvoltura dall’io narrante all’io

personaggio, dando luogo così ad una dialettica agens-auctor che, accompagnando

tutta la lettura, non consentirà mai di sentire il viaggio come semplice visione, ma lo

manifesterà sempre nel suo pieno fieri. 24 Non so: si precisa qui, dopo l’accenno del “quanto a dir qual era”, quel concetto di

ineffabile cui si è già accennato. 25 sonno: ancora un termine fisico applicato alla sfera morale: il sonno (vedi Intr. al I

canto) qui evocato dal Poeta è, infatti, quello indotto dal Male, quella caduta di

tensione che spesso, più ancora della volontà del male, provoca l’inavvertito

scivolamento nel peccato. Anche in questo caso Dante si appoggiava saldamente ad

una vetusta tradizione allegorica, di cui si scorgono chiaramente i precedenti: San

Paolo, Lettera ai Romani, 13,11; S. Agostino, Enarratio in Psalmos, LXII,4

(“Somnum animae est oblivisci Deum”); Boezio, De consolatione philosophiae, I,2

(“...lethargum patitur, communem illusarum mentium morbum “); B. Latini, Trésor,

II,39 (“Il savio, che opera secondo sua scienza, è simile a colui che veglia; e quegli,

che non opera secondo sua scienza, è simile a colui che dorme, e all’ubriaco”); S.

Tommaso, Summa theologica, I, 84,8 (“Nel sonno non si può avere perfetto il

giudizio della ragione”). Alcuni, basandosi sul senso letterale del termine “sonno”,

hanno inferito che Dante voglia presentare il suo viaggio come una visione mistica:

ma ciò contraddice con forza al continuo, quasi insistentemente puntiglioso,

richiamarsi del Poeta al corpo come elemento materiale (cfr. n. al v. 28). 26 verace via: l’espressione, di forte impatto allitterante, rappresenta una variatio di

“diritta via”; ma mentre questa appartiene all’ambito morale, “verace” suggerisce un

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Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle27 giunto,

là dove terminava quella valle28 che m’avea di paura il cor compunto, 15

guardai in alto29, e vidi le sue spalle

più intimo contatto con la sfera religiosa, dove Dio è Verità. Come appare evidente,

qui Dante ha ben presente la dichiarazione di Cristo in Gv., 14,6: “Ego sum via et

veritas et vita”. 27 colle: come appare dal “ma” che, aprendo il verso, chiude la scena angosciosa

precedente, troviamo qui il primo indizio materiale della salvezza imminente, o

almeno della possibilità, per Dante-umanità-Istituzioni, di coltivare una sia pur labile

e “provvisoria” speranza: è il colle, simbolo della vita virtuosa, quella cui porta la

“diritta-verace” via, che Dante ha “smarrito” , ma non perso, e che gli si pone come

obiettivo. Come presto gli sarà chiaro, il percorso fisico che conduce al colle non è

affatto agevole, ma arduo ed addirittura impraticabile se non preceduto da un

durissimo percorso iniziatico-morale che lo guiderà dapprima alla conoscenza delle

profondità del peccato, quindi all’esercizio di una asperrima penitenza, infine alla

non meno dolorosa penetrazione della accecante gloria di Dio. 28 valle: notevole la “quasi rima” con la quale Dante lega “colle” di v.13 con “valle”

di v.14, quasi a creare tra i due termini, di per sé pressoché omofoni, una forte

opposizione. In effetti i due elementi paesaggistici rappresentano realtà

profondamente antitetiche: mentre la valle, infatti, dipinge un Dante ignaro di sé ed

intorpidito dal sonno spirituale che porta al peccato, il colle già lo individua come

uomo autocosciente e pronto all’azione per riconquistare la sua identità morale.

Significativa mi sembra anche la diversa esposizione alla luce scelta dal Poeta per

differenziare nettamente l’una e l’altra realtà etico-ambientale: oscura la valle ed

evocatrice di insicurezza e di paura; risplendente di sole, invece, il colle, e garanzia

di stabilità morale nella certezza dell’approvazione di Dio (“mena dritto”). 29 in alto: l’ “uomo nuovo” in Dante, già preconizzato dall’apparizione del colle, si

concretizza tutto in questo guardare in alto, quasi a rispondere il suo “sì” all’azione

salvifica di Dio. Il poeta, benché ancora lontano dal pieno compimento, su di sé e su

tutta l’umanità, di questa azione, è però già disponibile a farsene strumento. Egli è

già risorto dal peccato.

In altre occasioni ancora Dante si troverà a guardare in alto, come vedremo: nel

Purgatorio, proprio ai piedi del ripidissimo monte, quasi cercando un’ispirazione per

risolvere il problema dell’ascensione, ostico allo stesso Virgilio-Ragione; nel

Paradiso, per ringraziare i beati o per porre loro questioni teologiche.

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vestite30 già de’ raggi del pianeta31

che mena dritto altrui32 per ogne calle33. 18

Allor fu la paura un poco queta,

che nel lago del cor34 m’era durata

Da ricordare, infine, il modello scritturale, in questo caso il Salmo 122,1: “Alzai i

miei occhi verso il monte da dove arriverà il mio aiuto”. 30 vestite: cfr. Aen. VI, 640: “largior hic campos aether et lumine vestit”. 31 pianeta: da uomo del suo tempo, Dante seguiva il modello astronomico elaborato

da Tolomeo sulla scorta di Aristotele, secondo cui il sole rappresentava il quarto

pianeta del sistema; anche la chiarissima simbologia del sole-Dio appartiene

inequivocabilmente al mondo medioevale, benché se ne possano rintracciare le

lontane ascendenze nell’antichità orientale. Tuttavia è solo nel Medioevo che

l’immagine solare di Dio diventa “letteraria”, così da costituire un tòpos della

scrittura mistica e francescana; lo stesso Dante si diffonde sull’argomento in Cv III,

XII,7: “Nullo sensibile in tutto lo mondo è più degno di farsi essemplo di Dio che ‘l

sole; lo quale di sensibile luce sé prima e poi tutte le corpora celestiali e le

elementali allumina;...”. 32 altrui: Dante è decisamente uscito dallo stato di torpore che lo aveva obnubilato al

punto di farlo “ritrovare” nella selva: ormai il suo sguardo, cui era stata data la

possibilità di scorgere il “colle”, è talmente limpido da poter constatare, come una

volta, la portata vastissima dell’amore di Dio. In “altrui” sembra di sentire, allo

stesso tempo, un moto di gratitudine da parte di Dante-umanità, una consapevolezza

dell’attuale stato di indegnità di Dante-peccatore, un senso di sollievo, da parte del

Dante-trascrittore, per essere ormai anch’egli parte del gruppo degli “altrui”. 33 calle: (= strada); il termine, d’uso comune nella Firenze di Dante, rimane al giorno

d’oggi nello spagnolo e nel dialetto veneziano. 34 lago del cor: cavità interna dove la medicina medioevale poneva la dimora degli

spiriti vitali (E. Colonna, Il reggimento de’ principi, I, III,9: “In avendo paura...il

sangue si muove delle membra di fuore e torna a quelle dentro, donde l’uomo

diventa pallido”); presto divenne, seguendo la sorte di molti fenomeni naturali, tòpos

stilnovistico: lo smarrimento d’amore, infatti, provoca la concentrazione del sangue

nella cavità cardiaca ed il conseguente pallore tipico della fisionomia dell’amante. Il

fenomeno clinico-poetico è descritto dallo stesso Dante nella rima Donne io non so,

allorché si sente catturato dagli occhi della sua donna, dai quali “discende una saetta

che [gli] asciuga il lago del cor”.

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la notte35 ch’i’ passai con tanta pièta.36 21

E come37 quei che con lena affannata, uscito fuor del pelago alla riva

si volge38 all’acqua perigliosa e guata39, 24

35 notte: da sempre l’immaginario religioso, in particolar modo quello ebraico-

cristiano, ha sentito la notte come momento di offuscamento spirituale: nel

Purgatorio, come vedremo, durante la notte le anime bloccheranno il loro cammino

penitenziale, impraticabile in assenza della luce-Dio (cfr. nota v. 17). Qui,

specificatamente, il periodo notturno di Dante è “il tempo in che nella ignoranza era

stato” (Jacopo Alighieri): un tempo ormai passato, come abbiamo avuto modo di

ribadire, ma rievocato da Dante a monito costante del pericolo sempre in agguato e

sul quale deve soffermarsi la meditazione del cristiano.

Comunque, la notte è solo un brutto ricordo, superato ormai dall’alba, rassicurante

emblema dell’imminente avvento della Grazia salvifica: Dante ancora non conosce

forme e modalità di questa, che è tuttavia intuita attraverso la presenza del sole. 36 pièta: dal greco pàthos, trasmesso ai Romani come pietas (che però si connota di

una polisemia contestualizzata al codice culturale romano) indica un sentimento, o

meglio una sensazione, che Dante proverà più volte nel corso del suo cammino

infernale e che si potrebbe definire come uno stato di angustia morale, di turbamento

di fronte ad un’umanità, nella quale il Poeta include se stesso, tanto sordida e vile e

tanto capace di peccare contro quello stesso Dio che l’ha dotata di “intelletto e

amore”. 37 E come... : è la famosa bellissima prima similitudine delle molte (cinquecen-

tonovantasette) presenti del poema. Perfetta nella sua architettura retorica si

compone, strutturalmente, di tre versi per parte con un effetto di armonia potenziato

dal perfetto péndant tra le singole espressioni (“lena affannata” - “ancor fuggiva”;

“uscito fuor” - “si volse a retro”; “l’acqua perigliosa - che non lasciò giammai

persona viva”). Tuttavia, nonostante il rigore retorico che anima la comparazione,

non si ha neanche per un attimo la sensazione di stentatezza o di macchinosità

talvolta ingenerata da simili artifici letterari: Dante riesce infatti a celare il

tecnicismo del suo gioco di poeta dietro immagini di possente realismo e di forte

impatto psicologico. 38 si volge: nel De rerum natura (II,1) Lucrezio scrive: “Dolce è mirar da ben sicuro

porto/ l’altrui fatiche all’ampio mare in mezzo”. Ma Dante non conobbe il grande

poeta latino, sprofondato nell’oblio comminatogli dal Medioevo cristiano da cui lo

avrebbe tratto alla luce Poggio Bracciolini nel 1417.

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così l’animo mio, ch’ancor fuggiva40,

si volse a retro41 a rimirar lo passo che non lasciò già mai persona viva42. 27

39 guata: intensivo di “guardare”, risponde bene all’espressione di sentimenti

“intensi”, qui variamente qualificati: “paura”, “compunto”, “lago del cor”, “tanta

pièta”, “lena affannata”; nell’opera si trova sempre a fin di verso, in rima. 40 fuggiva: un’espressione efficacissima, allo stesso tempo poetica e realistica

nell’individuare lo stato d’animo di sospensione, di trepidazione (chi non l’ha mai

provato?) che permane anche dopo il raggiungimento della salvezza; un’immagine

molto simile si trova in Purg, II,12: “che va col core, e col corpo dimora”. 41 si volse a retro: nonostante il soggetto dell’azione sia un ente spirituale,

l’immagine si evidenzia per la sua plasticità: Dante sente forte l’esigenza di fermarsi

a riflettere sul “passo” che è stato il luogo del suo passato di peccatore e che tanto

influisce sul destino morale dell’umanità. Da questo momento di acuta

contemplazione prende le mosse la consapevolezza della profondità della sua

esperienza: vale la pena osservare a fondo la realtà della vita passata nell’errore,

imprimersi bene nella mente la negatività del passato per concepire un nuovo

progetto per il futuro. Ma il pellegrino Dante ancora non sa (a differenza di Dante -

narratore) che ben altro percorso necessiterà alla palingenesi della sua anima, ora

che è stato scelto da Dio come promotore di quella metànoia che porterà il mondo

sulla “retta via”. 42 che... viva: l’ambiguità semantica e sintattica del verbo “lasciare” rende

problematica l’interpretazione del passo; alcuni ritengono di poterlo rendere con

“(passo) che non nessun vivente lasciò mai” (ma così l’umanità appare invischiata

nel peccato senza possibilità di redenzione, a dispetto della venuta di Cristo). Il

Pagliaro ha proposto di intendere “passo” non come “selva” ma come luogo di

passaggio dalla selva al colle, cioè, allegoricamente, dalla vita attiva alla vita

contemplativa (Ulisse. Ricerche semantiche sulla D.C., I, 17 - 23, Firenze, 1966),

interpretando il verso nel senso secondo cui questo passaggio è inagibile ai viventi,

gravati dal peso del corpo: ipotesi limitata però nei suoi presupposti dall’improbabile

significato assegnato a “passo”, che inficerebbe l’efficacia della similitudine

precedente. Altri vedono in “viva” un predicativo dell’oggetto, leggendo “(passo)

che non lasciò (spiritualmente) vivo nessuno”: nella sua semplicità, mi sembra

l’ipotesi più accettabile, se pensiamo che lo stesso Dante, nel passo-selva, stava per

perdere la vita (spirituale: “tant’è amara che poco è più morte”).

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PIERANGELO CRUCITTI Società Romana di Scienze Naturali

Sul concetto di fauna e sulle sue applicazioni

……..“in ogni paese limitato le specie più comuni, vale a dire di maggior numero di

individui, e le specie più disseminate nella loro regione nativa (circostanza che non

devesi confondere con una grande estensione e neppure fino ad un certo punto

coll’essere comuni) sono quelle che danno più spesso origine a varietà abbastanza

spiccate per essere enumerate nelle opere di botanica. Dunque le specie più fiorenti

o, come potrebbero chiamarsi, le specie dominanti, cioè aventi una grande

estensione geografica, sono le più sparse nel paese da esse abitato e posseggono

anche un numero maggiore di individui; e producono più spesso delle altre quelle

varietà tanto distinte che io considero come altrettante specie nascenti.”

(Charles Darwin, L’origine delle specie, 1859. Prima traduzione italiana col

consenso dell’autore per cura di G. Canestrini e L. Salimbeni, 1864)

Introduzione Alcuni luoghi della Terra ospitano più specie di altri (Cazzolla Gatti,

2014). A livello geopolitico - contesto dell’Europa e, più in generale, del

Bacino del Mediterraneo - è questo il caso dell’Italia, uno dei paesi

europei con la maggiore diversità (ricchezza) di specie documentata per

moltissimi gruppi, sia vegetali sia animali, in particolare funghi,

angiosperme e insetti. Un fatto sorprendente se consideriamo che il

nostro paese subisce da 10.000 anni la presenza modificatrice

dell’Uomo che ha raggiunto, attualmente, una densità di popolazione

superiore a 200 abitanti / kmq: con la Rivoluzione Neolitica, circa

10.000 anni or sono, è iniziata l’irreversibile trasformazione del

paesaggio italiano, soprattutto costiero e planiziale (Pratesi et al., 2014).

La composizione tassonomica della fauna italiana è ampiamente nota; lo

stato delle conoscenze sulla distribuzione di molte specie può definirsi

soddisfacente (Latella et al., 2007). La permanenza di una variegata

biodiversità incluso il gran numero di specie animali endemiche ovvero

presenti esclusivamente nel nostro paese (oltre il 10%) nonché di ambienti e paesaggi esclusivi, rappresenta una ricchezza riconosciuta a

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livello mondiale. Questo insostituibile patrimonio di cultura scientifica,

non secondario rispetto ad altri serbatoi tradizionali del patrimonio

culturale del paese - paesaggistico e storico-artistico - comprende 58.000

specie di cui circa 55.000 Invertebrati e 2000 Protozoi, oltre un terzo

della fauna del continente europeo. In tale contesto, gli Artropodi

costituiscono il phylum più ricco, con 46.000 specie - 37.000 Insetti di

cui oltre 12.000 Coleotteri; i Vertebrati, poco più del 2% del totale,

costituiscono nondimeno un raggruppamento di 1258 specie; 121

mammiferi, 473 uccelli, 58 rettili, 38 anfibi, 568 pesci (in prevalenza

marini). Gli habitat strettamente terrestri ospitano circa 42.000 specie,

quelli d’acqua dolce circa 5500 specie; le restanti 9000, Protozoi esclusi,

sono marine e, data l’estensione dei mari italiani, costituiscono

verosimilmente la maggioranza delle specie viventi nel Mar Medi-

terraneo (Minelli et al., 2002). Questi valori sono suscettibili di continui

aggiornamenti, soprattutto grazie alla scoperta di specie nuove per la

scienza spesso rinvenute in aree più o meno circoscritte, talora

puntiformi, del paese, coadiuvate dalla applicazione di tecniche avanzate

della genetica molecolare; queste ultime permettono di attribuire a

popolazioni spesso già note il rango di specie / sottospecie nuove (per la

Scienza e per l’Italia) distinte da popolazioni simili. Alcune significative

scoperte recenti suffragano queste tesi.

Il concetto di fauna

“What is a fauna ?” è il titolo di un classico lavoro di Ernst Mayr del

1943. Una definizione potrebbe essere la seguente: la fauna (italiana) è il

complesso delle specie animali viventi allo stato selvatico all’interno del

territorio considerato (Italia). Si tratta di un termine collettivo che può

essere riferito a un dato territorio (fauna balcanica), a un definito

ambiente (fauna cavernicola), a un determinato gruppo tassonomico

(teriofauna o mammalofauna: una fauna costituita da mammiferi;

erpetofauna: una fauna costituita da anfibi e rettili; entomofauna: una

fauna di insetti), a un periodo geologico (faune del Permiano; faune del

Cenozoico). Il termine può essere applicato a situazioni più complesse,

ad esempio malacofauna pleistocenica dell’Umbria; una fauna di

Molluschi (contesto tassonomico) del Pleistocene (contesto geologico -

temporale) dell’Umbria (contesto geografico). Sono utilizzazioni

legittime. In questo saggio ci limitiamo peraltro alle faune attuali

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trascurando le faune fossili oggetto di studio della paleontologia. La

definizione all’inizio del paragrafo lascia peraltro irrisolti numerosi

problemi, ad esempio la definizione di specie autoctone, alloctone e

indigene, componenti di una fauna. Un esemplare apporto chiarificatore

in tal senso è stato fornito dall’autorevole biogeografo ed entomologo

(ortotterologo) italiano Marcello La Greca (1914-2001) che ne ha

formulato la seguente definizione “La fauna è costituita dall’insieme di

specie e di popolazioni di animali vertebrati ed invertebrati, residenti in un dato territorio, stanziali o di transito abituale, ed inserite nei suoi

ecosistemi; essa, costituitasi in seguito ad eventi storici, (paleo-

geografici e paleoclimatici), comprende le specie autoctone e le specie

immigrate divenute ormai indigene, come pure quelle specie introdotte

dall’uomo o sfuggite ai suoi allevamenti ed andate incontro ad

indigenazione perché inseritesi autonomamente in ecosistemi appropriati; non fanno parte della fauna gli animali domestici e di

allevamento”. Risulta quindi evidente come una fauna sia la somma di

specie indigene e di specie alloctone; le prime possono essere

ulteriormente suddivise in specie autoctone - hanno avuto origine nel

territorio nazionale e.g. in una sua parte - e specie immigrate - da altri

paesi nel territorio nazionale in cui hanno costituito popolazioni

autoctone (La Greca, 1995). Il vistoso macaone Papilio machaon,

comune farfalla praticola, è specie indigena ma non autoctona;

ovviamente, le sue popolazioni sono da tempo autoctone. Emerge la

dimensione storica del concetto di fauna non meno importante della sua

dimensione ecologica. Abbiamo appurato che la fauna italiana, oltre ad

essere la più ricca d’Europa, è anche tra le meglio conosciute del

vecchio continente. Lo sforzo di ricerca finalizzato al completamento

delle conoscenze di base permette di individuare due categorie di

lacune: di natura tassonomica, e.g. gruppi meno conosciuti di altri

(Mollusca (continentali), Araneae, Diptera); di natura geografica, e.g.

aree meno conosciute di altre (Monti Simbruini, Monti del Matese).

Tuttavia, nonostante l’impegno della comunità scientifica, qualcosa

sfuggirà sempre. Una regionalizzazione faunistica del nostro paese

permette di riconoscere quattro fondamentali provincie: alpina; arco

alpino e pianura padana a nord del Fiume Po: appenninica; tutte le

regioni a sud del Fiume Po, dall’Emilia-Romagna alla Calabria ad

eccezione delle isole fossili della Toscana (Monte Argentario) e della

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fascia costiera adriatica che si estende dal livello del mare a circa 500 m

e la Puglia (eccetto il distretto della Daunia da ascrivere alla provincia

appenninica e la contigua parte della Basilicata ad oriente del Fiume

Bradano, facenti parte della provincia adriatica: tirrenica; isole del Mar

Tirreno; Sardegna e isole circumsarde, Arcipelago Toscano, isole fossili

della Toscana, Isole Ponziane, Sicilia e isole circumsiciliane: adriatica;

pianura del Friuli-Venezia Giulia a sud delle Prealpi Carniche, la zona

pianeggiante orientale del Veneto e tutta la zona costiera adriatica al di

sotto dei 500 m e infine la Puglia, ad eccezione della Daunia e della

parte orientale della Basilicata ad est del Fiume Bradano (La Greca,

1995).

Elogio degli Invertebrati

Considerazioni non marginali sono relative alle applicazioni del

concetto di fauna a livello pratico, e.g. normativo. Per decenni,

l’orientamento prevalente è stato quello di considerare la fauna con

esclusivo riferimento ai vertebrati o, in una versione ancor più

restrittiva, ai mammiferi e agli uccelli, escludendo pertanto la fauna

vertebrata non omeoterma o “minore” (sic!). Il disinteresse nei confronti

degli invertebrati si manifesta ai livelli più diversi, nella scuola come

nella politica. In ultima analisi, gli invertebrati sono stati (e sono spesso

tuttora) semplicemente ignorati. Questo arroccamento su posizioni di

arretratezza culturale e antiscientifica è stato magistralmente discusso da

La Greca (2000). A dimostrazione della fondamentale importanza degli

invertebrati nella biosfera ricordiamo che: 1 - a livello globale, il

numero di specie descritte e ritenute valide include appena il 3,51% di

vertebrati vs il 96,49% di invertebrati; 2 - a livello globale, le specie

ancora da scoprire includono l’1% di vertebrati, il resto è rappresentato

da invertebrati; 3 - per la fauna italiana è stato osservato che i vertebrati

costituiscono il 2,2% delle specie; si ammette che le 15.000 specie (La

Greca, 2000) ancora da scoprire siano tutte o quasi invertebrate; 4 - la

biomassa degli invertebrati è, in tutti gli habitat terrestri, di gran lunga

superiore, di almeno 1:10, a quella dei vertebrati; 5 - un grandissimo

numero di invertebrati è strettamente dipendente dalla presenza degli

invertebrati ed in particolare dagli insetti, dei quali si nutre normalmente

o nei periodi di scarsità di altre risorse trofiche; 6 - l’impollinazione

delle fanerogame con fiori appariscenti e odorosi dipende strettamente

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dall’attività degli insetti pronubi; 7 - il valore culturale delle faune

invertebrate nella ricostruzione della storia del popolamento animale di

una data regione è insostituibile (La Greca, 2000; Wilson, 2016). Un

antesignano di queste tesi è stato Mario Pavan (1918-2003),

biospeleologo ed entomologo (mirmecologo) italiano che, nel 1986

presentò al Consiglio d’Europa un documento di grande valore culturale

la “Carta degli Invertebrati” la quale, come frequentemente accade in

Italia, ha ottenuto più apprezzamenti all’estero che in patria. Si tratta

pertanto di un documento poco conosciuto che vale la pena “riesumare”.

La proposta prende atto anzitutto del ruolo determinante della fauna

invertebrata nel mantenimento degli equilibri della biosfera inclusa la

produttività primaria e secondaria. Nessuno meglio di Pavan, viag-

giatore ed esploratore instancabile (v. Arcidiaco et al., in bibliografia),

poteva produrre un documento così lungimirante costituito da dieci

articoli che riprendono ed estendono i concetti appena discussi e sui

quali è opportuno ritornare: 1. Gli invertebrati rappresentano l’elemento

più importante della fauna selvatica, sia come numero di specie che

come biomassa; 2. Gli invertebrati costituiscono una importante fonte di

nutrimento per gli animali; 3. Gli invertebrati possono costituire

ugualmente una fonte di alimento per gli uomini; 4. Gli invertebrati

hanno un ruolo fondamentale nella formazione e per la fertilità del

suolo, nella fecondazione e produttività della grande maggioranza delle

piante coltivate; 5. Gli invertebrati sono utili per la difesa delle colture,

delle foreste e dell’allevamento, della salute umana e della purezza delle

acque; 6. Gli invertebrati sono ausiliari preziosi per la medicina,

l’industria e l’artigianato; 7. Molti invertebrati hanno un grande valore

estetico; 8. Qualche invertebrato può causare danni alle attività umane,

ma altri invertebrati permettono di controllarne le popolazioni; 9. Gli

uomini possono ricavare un grande profitto dalla conoscenza

approfondita degli invertebrati; 10. Gli invertebrati terrestri, acquatici e

aerei devono essere protetti contro le possibili cause di danni, di

alterazione o di distruzione (Groppali et al., 2008). Trascurare gli

invertebrati nello studio di una fauna regionale oltre che nella gestione

delle aree protette non è semplicemente riduttivo; è totalmente sbagliato.

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Il contesto ecologico

Una fauna è peraltro primariamente definita dalla relazione con i

fattori fisici e biotici dell’ambiente in cui si evolve. E si tratta di

relazioni - predazione, competizione, parassitismo, rapporti simbiotici di

altra natura - estremamente complesse; non può essere trascurata

l’opportunità di studiarle in contesti ecologici relativamente semplici.

Due esempi significativi costituiscono il risultato di recenti ricerche. Gli

ambienti insulari rappresentano uno scenario privilegiato per esplorare

meccanismi ecologici ed evolutivi e le isole del Mediterraneo non fanno

eccezione. In particolare, le piccole isole sono idonee ai fini della

verifica di adattamenti particolari di specie autoctone, tra cui

significativi cambiamenti morfologici e adattamenti comportamentali

inattesi. È il caso di una recente ricerca che ha focalizzato l’attenzione

su due specie di serpenti presenti sulla piccola Isola di Montecristo nel

Mar Tirreno, Vipera aspis e Hierophis viridiflavus, comuni e diffuse

anche sulla vicina terraferma. La ricerca si è proposta di verificare: 1. se

le popolazioni di Montecristo fossero simili per le dimensioni corporee

ai loro conspecifici della penisola o se invece presentassero sindromi

insulari (gigantismo e nanismo); 2. eventuali cambiamenti nelle strategie

di caccia; 3. eventuali modificazioni nelle due specie relativamente alla

scelta trofica e/o dell’habitat. I risultati sono stati i seguenti: 1. nessuna

evidenza di variazione dell’habitat, ma un adattamento delle vipere ad

una dieta alternativa rispetto alle popolazioni continentali (uccelli invece

di piccoli mammiferi); 2. variazioni delle dimensioni corporee

significative (nanismo insulare) sia nel caso di H. viridiflavus (riduzione

del 30%) sia nel caso di V. aspis (riduzione del 10%); 3. peculiari

strategie di caccia di V. aspis che, per predare gli uccelli, si apposta sui

rami degli arbusti, comportamento riscontrato anche in vipere insulari

del Giappone e delle isole greche (Luiselli et al., 2015). Una ricerca ha

suffragato l’effetto indiretto dell’incremento delle popolazioni di un

grande mammifero sulle faune locali. Le attività del cinghiale selvatico

Sus scrofa in termini di cure parentali (nesting), scavo e sradicamento

(rooting), alimentazione (feeding) risultano altamente impattanti su

specie e processi ecologici. Evidenze di tali effetti negativi, sospettate

ma insufficientemente dimostrate, sono attualmente suffragate da

indagini sperimentali. Una ricerca condotta in 10 distinte aree della

Sardegna in cui sono stati largamente utilizzati metodi di trappolamento

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su transetti prefissati durante sessioni in maggio-giugno e ottobre, ha

permesso di accertare l’effetto negativo della abbondanza di Sus scrofa

sulle popolazioni selvatiche del topo campagnolo Apodemus sylvaticus.

In ultima analisi, è stata riscontrata una correlazione inversa tra attività

di overrooting e dimensioni delle popolazioni di roditori nei transetti

selezionati (Amori et al., 2016).

Un concetto dinamico La fauna di un determinato territorio muta con il trascorrere del tempo

a causa di fondamentali processi di evoluzione, estinzione, speciazione e

sostituzione, sia determinati da fattori naturali e sia, in tempi storici ed

in misura sempre più rilevante, da fattori antropici. L’incremento è

imputabile alla scoperta di specie nuove per l’Italia, sia autoctone sia

alloctone.

A) Nuovi taxa di vertebrati. I processi di speciazione e differen-

ziamento intraspecifico rivestono un ruolo fondamentale nell’incre-

mento della diversità biologica. Molte ricerche attuali focalizzano sui

complessi di specie sorelle e congeneriche al fine dell’analisi dell’im-

portanza di barriere riproduttive esogene / endogene, inferendo sulla

eventuale presenza di zone ibride.

Un eccellente modello di studio è costituito da Hierophis viridiflavus,

uno dei serpenti più comuni e diffusi della fauna ofidica italiana, specie

caratterizzata dall’esistenza di linee filetiche distinte le cui relazioni non

risultavano tuttavia affatto chiare. Ricerche basate su un approccio

multidisciplinare, morfometrico, citogenetico (cariologico) e molecolare

(mitocondriale, 16S, Cyt-b, ND4; nucleare PRLR) hanno permesso di

dimostrare l’esistenza di due cladi, H. viridiflavus a distribuzione occi-

dentale, e Hierophis carbonarius a distribuzione orientale, entrambi

presenti in Italia, area ove in precedenza era ammessa l’esistenza del

taxon (politipico) H. viridiflavus con numerose sottospecie tra cui H. v.

carbonarius (Mezzasalma et al., 2015).

Un caso paradigmatico riguarda la scoperta di una nuova specie di

vipera per la fauna italiana, la vipera dei walser Vipera walser che

prende il nome dalla popolazione che vive in alcune valli a sud del

Monte Rosa in Provincia di Biella nel Piemonte nord-orientale. Un team

internazionale formato da ricercatori del MUSE Museo delle Scienze di

Trento (Michele Menegon, Samuele Ghielmi), dell’Università di Basilea

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(Sylvain Ursenbacher), della Manchester Metropolitan University

(Stuart Marsden) e della Società di Scienze Naturali del Verbanio-

Cusio-Ossola (Lorenzo Laddaga) ha recentemente reso nota l’impor-

tante scoperta. Per quanto nell’area citata fosse nota da tempo una

popolazione del marasso Vipera berus, completamente disgiunta dalle

altre popolazioni della specie, recenti ricerche morfologiche e genetiche

hanno confermato che quel distretto geografico costituisce un’area di

rifugio e differenziamento per il marasso. Dal punto di vista morfo-

logico la nuova specie risulta affine a V. berus mentre dal punto di vista

genetico V. walser risulta distinta da tutte le altre specie europee

evidenziando una maggiore affinità con le vipere del Caucaso, V.

darevskii e V. kaznakovi. Le due popolazioni di V. walser occupano

un’area ristretta, complessivamente inferiore a 500 kmq nelle piovose

valli a nord di Biella. Queste popolazioni sono sopravvissute grazie ad

una combinazione di circostanze fortunate - si consideri di quante specie

non verremo mai a conoscenza soprattutto per l’alterazione irreversibile

del loro habitat. V. walser è considerata peraltro già minacciata (EN

secondo la classificazione IUCN) non solo a causa dell’areale ristretto

ma soprattutto per la trasformazione del suo habitat, aree aperte con

formazioni rocciose a rischio di contrazione per il declino delle attività

agro-silvo-pastorali e conseguente progressiva riforestazione spontanea;

la specie non tollera infatti le formazioni boschive se non estremamente

rade (Ghielmi et al., 2016).

Meno frequentemente, almeno nel caso dei Vertebrati, le scoperte

interessano taxa di cui non si sospettava l’esistenza nel nostro paese. Un

importante ritrovamento riguarda la fauna della Sicilia, “isola delle

sorprese” almeno a giudicare dal rinvenimento recente di piante e

animali la cui presenza era passata inosservata a lungo. Dopo alcuni

avvistamenti, che si sono susseguiti negli ultimi 80 anni, un gruppo di

zoologi è riuscito ad osservare esemplari, sia vivi e in attività e sia morti

sulle strade nei pressi di Licata in Provincia di Agrigento, del boa delle

sabbie Eryx jaculus, appartenente alla famiglia, Erycidae, affine a

Boidae, totalmente nuova per l’Italia. Si tratta di piccoli boa di 30-60 cm

di lunghezza, diffusi nel Vicino e Medio Oriente (una specie in Grecia e

Turchia, almeno sei in Iran), avvistati raramente a causa del

comportamento tipicamente crepuscolare e delle abitudini fossorie. Le

ricerche hanno permesso di accertare la presenza di una popolazione

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apparentemente stabile in un’area di circa 40 kmq di pianura alluvionale

in prossimità del Fiume Salso presso Licata. Questi serpenti potrebbero

essere stati importati dagli antichi Greci sia per motivi di culto e sia a

scopo bellico. È noto come i Greci fossero soliti impiegare serpenti a

mo’ di proiettili da lanciare sulle navi avversarie prima dell’assalto per

gettare panico e scompiglio tra i nemici. Si ritiene quindi che

l’introduzione di questa specie in Sicilia non sia recente (Insacco et al.,

2015).

L’ofidiofauna italiana risulta pertanto incrementata di una famiglia

(Erycidae) e di tre specie, Hierophis carbonarius, Eryx jaculus e Vipera

walser, passando quindi dalle 22 specie di pochi anni fa (Corti et al.,

2011) alle 25 specie attuali; nel contesto, la famiglia Viperidae è

cresciuta di una specie, dalle quattro specie “storiche” (V. ammodytes, V.

aspis, V. berus, V. ursinii) alle cinque specie attuali. Una breve

digressione si rende necessaria. Dal punto di vista formale, le specie

sono definite per mezzo di un binomio (nome generico più epiteto

specifico), le sottospecie per mezzo di un trinomio (aggiunta dell’epiteto

sottospecifico). Un binomio / trinomio recentemente adottato non è

necessariamente nuovo, ad esempio, l’epiteto specifico carbonarius (Bonaparte, 1833) fu proposto quasi due secoli or sono dal naturalista

Carlo Luciano Bonaparte, Principe di Canino e di Musignano (1803-

1857), nel monumentale trattato “Iconografia della fauna italica per le

quattro classi degli animali vertebrati” (Roma, 1832-41). La situazione

attuale di due Salamandridae italiani è paradigmatica. Il genere

endemico Salamandrina, emblema della fauna italiana, era ritenuto

monotipico sino al 2005. Nella salamandrina di Savi Salamandrina

perspicillata (Savi, 1821), detta anche salamandrina dagli occhiali

settentrionale, il nome, come si deduce dall’autore e dall’anno, è stato

riesumato; in precedenza era ritenuto uno dei tanti sinonimi di

Salamandrina terdigitata (Bonnaterre, 1789), unica specie ammessa

sino, appunto, al 2005 e oggi nota come salamandrina dagli occhiali

meridionale. Nel caso di Salamandra atra aurorae Trevisan, 1982,

diffusa in Italia nord-orientale in una ristretta area sugli altipiani di

Vezzena e di Asiago, e di Salamandra atra pasubiensis Bonato &

Steinfartz 2005, ristretta ad un’area della Provincia di Vicenza presso il

Monte Pasubio, riconosciute sottospecie distinte dalla salamandra nera

Salamandra atra atra Laurenti, 1768, l’epiteto sottospecifico, come si

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deduce dall’autore/i e dall’anno, è invece di coniazione recente (Lanza

et al., 2007). Sono problemi di nomenclatura, ovvero dell’arte di

assegnare i nomi alle cose (in tal caso a forme di vita animale), mentre il

termine tassonomia è l’equivalente di classificazione ovvero definisce lo

studio dei rapporti tra gli organismi animali fondato sulla relazione

antenato-discendente e basato sugli approcci metodologici più diversi.

B) Nuovi taxa di invertebrati. Se risulta relativamente semplice (per

lo specialista) tenersi aggiornato sui nuovi taxa di vertebrati terrestri /

marini che si aggiungono più o meno frequentemente alla fauna italiana,

più arduo si presenta il compito nel caso degli invertebrati soprattutto se

appartenenti a gruppi speciosi, e.g. Insetti; per la scoperta di specie

nuove per la Scienza e, a fortiori per l’Italia, o di specie già descritte e

note per altri paesi ma non ancora rinvenute in territorio politico

italiano. Esaminiamo, ad esempio, il contenuto dei fascicoli recenti di

tre riviste italiane di entomologia, un piccolo campionario delle riviste

italiane dedicate alla storia naturale degli Artropodi (anche su riviste di

zoologia generale è in teoria possibile pubblicare la descrizione di nuovi

taxa di Artropodi). Sul terzo fascicolo del volume 147 (2015) del

Bollettino della Società Entomologica Italiana vengono segnalate due

specie di microlepidotteri già note altrove, raccolte in Sardegna e in

Basilicata rispettivamente, che si aggiungono quindi alla fauna d’Italia

(Bassi e Nel, 2015). Sul fascicolo 1 del volume 47 (2015) di Fragmenta

Entomologica viene segnalato un Coleottero Nitidulidae di origine

afrotropicale che si è ampiamente diffuso, in tempi recenti, nel

Mediterraneo meridionale; osservata in Sicilia nel 1991, la specie è stata

rinvenuta nell’aprile 2015 nei pressi di Roma, pertanto l’acclimatazione

di questa specie nell’Italia peninsulare è ormai considerata certa

(Audisio et al., 2015). Nel fascicolo successivo (2, 2015) viene riportata

la descrizione di una specie nuova per la Scienza, un Coleottero

Carabidae rinvenuto in due località delle Alpi sud-occidentali in

Piemonte (Allegro et al., 2015). Sul medesimo fascicolo viene discussa

l’acclimatazione di una specie di Coleottero Bostrichidae originaria del

Paleartico orientale e aliena per l’Italia, sulla base del rinvenimento di

un esemplare femmina nella Foresta del Cansiglio presso Treviso nel

Veneto (Nardi et al., 2015). Il contenuto del volume 14 (2016) del

Giornale Italiano di Entomologia è costituito da 23 articoli di cui ben 10

dedicati alla descrizione di taxa nuovi per l’Italia (più uno dedicato al

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completamento della illustrazione dell’organo copulatore del maschio di

una specie recentemente descritta di Coleottero Carabidae). Sono

descritte come nuove per la Scienza e per la fauna italiana: un

Coleottero Carabidae endogeo della Sicilia, due Carabidae ipogei delle

Prealpi Varesine, un Carabidae della Sardegna centro-occidentale, un

Coleottero Curculionide del Monte Terminillo nel Lazio, due Coleotteri

Staphyilinidae delle Prealpi Venete e Lombarde, un Carabidae della

Barbagia Seulo in Sardegna, uno Staphyilinidae raccolto in Emilia-

Romagna, un Carabidae raccolto sui Colli Berici presso Vicenza, un

Carabidae della Sardegna sud-occidentale; infine, la rivalutazione di un

taxon di Coleottero Carabidae dell’Italia settentrionale e centrale;

complessivamente, 12 specie considerando anche quest’ultima (Magrini,

2016; Magrini et al., 2016; Monguzzi, 2016 a; Magrini e Fancello, 2016;

Magrini e Degiovanni, 2016; Monguzzi, 2016 b; Degiovanni e Magrini,

2016; Magrini e Onnis, 2016 a; Bordoni e Magrini, 2016; Monzini,

2016; Magrini e Onnis, 2016 b). E si tratta esclusivamente di Coleotteri,

la maggior parte dei quali appartenenti alla sola famiglia Carabidae !

La fauna d’Italia nella politica editoriale italiana La fauna italiana è stata oggetto di numerose opere di sintesi incluse

alcune collane editoriali. Una delle prime compilazioni del XX secolo è

“Fauna Italiana” (1933) a cura dello zoologo evoluzionista Giuseppe

Colosi (1892-1975). Si tratta di un’opera di grande erudizione a

carattere prevalentemente divulgativo, piuttosto squilibrata sia dal punto

di vista tassonomico - i vertebrati hanno la prevalenza - sia dal punto di

vista ecologico - le faune terrestri e delle acque dolci sono, in

proporzione, trattate più estesamente. L’esaltazione della ricchezza e

della varietà paesaggistica e biologica del paese sono fortemente

influenzate dalle condizioni politiche del momento storico piuttosto che

da una analisi obiettiva dei fattori che le determinano. La trattazione

rispecchia una sequenza obbligata per l’epoca: mammiferi, uccelli,

vertebrati inferiori, invertebrati. Si tratta peraltro di un’opera che

testimonia la vasta cultura dell’autore, uno dei maggiori zoologi italiani

dei suoi tempi. Per un approccio moderno bisogna attendere la stampa

de “La Fauna” della collana Conosci l’Italia del Touring Club Italiano

(1959) il cui filo conduttore è marcatamente ecologico. Dopo un’ampia

introduzione sui criteri di classificazione e sulla classificazione degli

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animali, si passa all’esame delle caratteristiche delle faune alpina,

terrestre e acquatica dei monti e delle pianure, degli ambienti umani,

degli ambienti sotterranei, dei litorali e infine del mare; gli ultimi due

capitoli sono dedicati alla sua origine e relativi problemi di rarefazione e

protezione. L’opera, di cui sono compilatori Benedetto Lanza, Paola

Manfredi, Giampaolo Moretti, Carlo Piersanti, Sandro Ruffo, Enrico

Tortonese, Augusto Toschi, è di elevato livello e può essere ancora

consultata con profitto, soprattutto per motivi storici. Una rivisitazione,

sulla stessa falsariga ma assai più recente, è “La Fauna in Italia” (2002),

anch’essa edita dal Touring Club Italiano oltre che dalla Direzione per la

Conservazione della Natura del MATTM (all’epoca ancora MATT) e

dal Centro di Ecologia Alpina, con testi di numerosi autori e

coordinamento scientifico di Roberto Argano, Claudio Chemini, Sandro

La Posta, Alessandro Minelli e Sandro Ruffo. La trattazione è

approfondita e non sussistono squilibri tra i principali ambienti in cui è

ripartito il territorio della nazione. L’opera costituisce una base

indispensabile per gli studenti dei corsi di Biologia della Conservazione;

in particolare, al passato, presente e futuro della nostra fauna è dedicato

l’ultimo capitolo che affronta i problemi della rarefazione ed estinzione

di specie, contestualmente a quelli della conservazione. L’Italia è stato il

primo paese al mondo a dotarsi di una checklist informatizzata completa

delle specie della sua fauna. Il progetto, a cura del MATT e del

Comitato per la Fauna d’Italia, coordinato da Sandro Ruffo, Alessandro

Minelli e Sandro La Posta, ha richiesto la costituzione di un

organigramma di tre coordinatori generali, 14 responsabili di sezione e

circa 250 autori: un impegno formidabile che ha permesso di inserire in

lista tutte le specie sino ad allora note della fauna italiana, oltre 58.000

delle quali 47.000 (85%) di ambienti terrestri. La collana, denominata

“Checklist delle specie della fauna italiana” (1993-1995), ha avuto una

gestazione sorprendentemente breve (Minelli, 1995). Il progetto della

checklist è articolato in 24 fascicoli suddivisi in 110 lotti o sezioni, da

“Protozoa” (Dini et al., 1995) a “Vertebrata” (Amori et al., 1993). Si

tratta di un elenco informatizzato di specie univocamente individuate da

un codice numerico, con indicazioni aggiuntive costituite da sigle di una

o due lettere relative alla distribuzione geografica per grandi aree (Italia

settentrionale, Italia continentale, Sicilia e isole circumsiciliane,

Sardegna e isole circumsarde) e allo status di specie endemica e/o

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minacciata (Minelli, 1995). Ne risulta un’opera compatta dalle

dimensioni ridotte, l’insieme dei fascicoli può essere contenuto in una

borsa capiente. Un database come la checklist perde molto del suo

valore se non viene aggiornato nel tempo e se questa informazione non

viene resa disponibile il più rapidamente possibile. Sono state quindi

definite norme che ne consentono il periodico aggiornamento, iniziativa

nella quale si è particolarmente distinta la SEI Società Entomologica

Italiana (Stoch et al., 2004). Il proseguimento di questo lavoro ha

portato alla realizzazione del progetto “Checklist e distribuzione della

fauna italiana - 10.000 specie terrestri e delle acque interne” (di cui

esiste versione inglese) a cura della Direzione per la Protezione della

Natura (DPN) del MATTM, del Comitato Scientifico per la Fauna

d’Italia, del Museo Civico di Storia Naturale di Verona e del

Dipartimento di Ecologia dell’Università della Calabria. 538.000 dati di

distribuzione georeferenziati relativi a oltre 10.000 specie terrestri e di

acqua dolce ritenute buoni indicatori faunistici e biogeografici, hanno

consentito la realizzazione di un GIS faunistico e delle relative carte

tematiche (Ruffo e Stoch, 2005). Infine, una seconda serie, limitata alla

fauna delle nostre acque interne, è costituita dalle monografie della

Collana del progetto finalizzato “Promozione della qualità

dell’ambiente” a cura del Consiglio Nazionale delle Ricerche: “Guide

per il riconoscimento delle specie animali delle acque interne italiane”

(1977-1985). Si tratta di 29 monografie, da Irudinei (Hirudinea)

(Minelli, 1977) a Chironomidi, 4 (Nocentini, 1985) destinate allo

specialista o, al più, allo studente di corsi avanzati. Sono esclusi da

questa trattazione, in quanto troppo numerosi, gli “atlanti faunistici”

(regionali, provinciali, locali) su specifici gruppi animali (mammiferi,

uccelli ecc.) e i “libri rossi” o “liste rosse” di specie a rischio. L’UZI

Unione Zoologica Italiana ha promosso numerose iniziative, inquadrate

nell’ambito del Progetto “Bioitaly”, versione nazionale di “Rete Natura

2000”, ad implementazione della Direttiva 92/43 CEE “Habitat” che ha

permesso, dopo quattro anni di intenso lavoro (1994-1997), di

consegnare alla UE le schede di oltre 2200 siti georeferenziati che

ospitano specie e/o habitat di importanza comunitaria a rischio

(Brandmayr et al., 2000).

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Una perla dell’editoria italiana: la collana “Fauna d’Italia”

L’Italia non è certo l’unica nazione europea ad essersi dotata di una

collana editoriale esclusivamente dedicata alla propria fauna. Dalla fine

del 19° secolo sono numerosi i paesi ad essersi dotati di inventari

faunistici organizzati in collane omogenee: Francia, Spagna, Germania,

Danimarca, Gran Bretagna, Ungheria, Polonia. La Francia ha edito la

serie “Faune de France” (Francia e regioni limitrofe) a partire dal 1921

sotto il patrocinio della Fédération Française des Sociétés de Sciences Naturelles; al suo attivo 97 monografie stampate; dal volume 90, l’opera

è bilingue (francese-inglese). L’obiettivo prioritario di quest’opera è

chiaramente definito: “destinés à permettre l’identification des Animaux

Vertébrés et Invertébrés que l’on rencontre en France ou, suivant les

volumes, dans une aire géographique plus vaste englobant notre pays:

région gallo-rhénane, Europe occidentale, région euro-méditer-ranéenne” grazie alla utilizzazione di chiavi dicotomiche applicate ai

taxa considerati. La serie non è caratterizzata da una sequenza tas-

sonomica univoca; ad esempio, gli ultimi quattro volumi sono dedicati,

rispettivamente, ai Coleotteri Carabidi (94, 95), Emitteri Pentatomidi

euro-Mediterranei. 2 (96), Ortotteri Celiferi (97); al volume 89 (Cétacés

de France) segue il volume 90 (Hémiptères Pentatomoidea Euro-

Méditerranéennes.1). Un’altra serie analoga, relativa ad un territorio

altrettanto esteso e ricco di biodiversità, è “Fauna Iberica” derivante da

un progetto del 1988 con l’obiettivo “to carry out a well-documented

inventory of the animal biodiversity in the Iberian-Balearic region”

(Ramos et al., 2001). Al 2001, circa 1/3 della Fauna della Regione

Iberico-Balearica era stato dettagliato, si stimano almeno 75 anni

necessari per completarne la revisione tassonomica (Ramos et al., 2001).

Ad oggi sono stati editi 41 volumi, in realtà 43 tomi in quanto esiste il

Volume 0 (Coleoptera, Ptinidae, Gibbiinae) ed il Volume 10, Ed. 2

(Reptiles. 2a edición, revisada y aumentada). Quali che siano le carat-

teristiche dell’opera (ogni “fauna” rappresenta un caso a sé, data

l’unicità del gruppo tassonomico e del territorio al quale si riferisce), gli

obiettivi generali di una collana destinata ad illustrare una fauna

nazionale sono: raccogliere, discutere e illustrare analiticamente le informazioni esistenti sino a quel dato momento (un riferimento è l’anno

di stampa del volume dedicato) relative a posizione tassonomica,

morfologia, biologia funzionale e comportamentale, ecologia e

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distribuzione geografica, delle specie di un gruppo omogeneo (Crucitti

et al., 2016). La parte speciale è, di norma, preceduta da una sezione

generale in cui sono messi in evidenza la storia delle ricerche sul taxon

in oggetto, unitamente alle sue caratteristiche biologiche generali;

costituiscono pure elemento di discussione i metodi di raccolta e di

studio, nonché la diversità (= ricchezza) di specie sia a scala regionale s.l. sia a scala globale, se nota. Risulta infine quanto mai utile

sottolineare le lacune ancora esistenti in merito al completamento delle

conoscenze di base (previsioni sul numero complessivo di taxa -noti e

pertanto descritti più sconosciuti e pertanto non ancora descritti- aree e

ambienti insufficientemente esplorati). Nei volumi più recenti, la

trattazione include i fattori di minaccia di origine antropica in funzione

delle preferenze dell’habitat, i gruppi maggiormente a rischio sono

quelli più o meno strettamente legati alle acque interne o continentali

(Fochetti, 2012). Ne consegue che i 50 volumi sinora editi della Collana

“Fauna d’Italia” (1956-2015) non sono “field guides” maneggevoli per

la rapida determinazione di specie in campo e neppure checklist o

cataloghi annotati di specie.

Problemi di conservazione Abbiamo accennato all’importanza dei taxa endemici o endemiti, il

cui areale è interamente compreso entro i confini politici dell’Italia,

ovvero al 10% circa del totale delle specie attuali sinora descritte e

censite sul territorio italiano, oltre all’enfasi posta sull’importanza di tale

informazione ai fini dell’apprezzamento della ricchezza faunistica del

paese. È poi appena il caso di accennare alle specie esclusive ovvero

presenti in una sola regione. Sicilia e Sardegna sono uniche per

ricchezza di specie misurata soprattutto dal numero di entità esclusive ed

endemiche, all’incirca equivalenti. Le aree a maggiore concentrazione di

endemiti costituiscono hotspot prioritari ai fini della tutela e della

conservazione (Stoch, 2008). Abbiamo a suo tempo esaminato le

condizioni che determinano questa straordinaria concentrazione di

specie e habitat analogamente alle pressioni e minacce che gravano su

entrambi (Crucitti et al., 2015). L’esame della distribuzione delle specie

rare permette di definire hotspot di rarità (e.g. Alpi Occidentali,

Arcipelago Toscano, Aspromonte, Nebrodi, Gennargentu), quello delle

specie minacciate, aree ad elevato grado di minaccia (e.g. Pianura

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Padano - Veneta). La somma di tre indici - endemicità, rarità, minaccia -

permette l’individuazione di IFA (Important Faunal Areas), aree

prioritarie per la tutela della fauna a invertebrati e vertebrati minori del

nostro paese, ad integrazione delle IBA (Important Bird Areas) e delle

IPA (Important Plant Areas). Il numero di specie cresce senza sosta

anche a causa della introduzione, consapevole o meno, di specie aliene.

Deve essere anzitutto precisato che non tutte le specie aliene sono

problematiche; al contrario, è probabile che la maggioranza delle specie

pervenute in un territorio posto al di fuori dell’areale, si estingua in

tempi più o meno brevi; per scarsità di risorse trofiche, effetto della

competizione, azione dei predatori, condizioni bioclimatiche ed edafiche

sub ottimali o non ottimali. Quelle invasive determinano, a livello

globale, perdita massiva della biodiversità. L’ittiofauna di molti habitat

d’acqua dolce d’Italia è costituita da specie introdotte; l’aspetto più

inquietante risiede nel fatto che alcune tra queste includono grandi

predatori fluviali come il siluro d’Europa Silurus glanis che può

raggiungere un quintale di peso e la cui dieta è basata su altri pesci; è

facile immaginare l’impatto di questo vorace predatore sull’ittiofauna

autoctona. Scenari della strategia nazionale per la biodiversità

suggeriscono l’efficace gestione della rete di aree protette nonché il

monitoraggio, contenimento e, quando possibile, eradicazione, delle

specie aliene invasive oltre a numerosi altri obiettivi (Andreella e

Brecciaroli, 2011-2012; Tartaglini et al., 2009). L’invasione di specie

alloctone infestanti, che si adattano agli ambienti più diversi ed in

particolare a quelli antropizzati, è oggi considerata la seconda causa di

erosione della biodiversità dopo la distruzione dell’habitat. Tra i

bioinvasori animali più dannosi repertati in Italia citiamo; zanzara tigre

Aedes albopictus, nutria Myocastor coypus, testuggine acquatica

americana dalle guance rosse Trachemys scripta e gambero rosso della

Luisiana Procambarus clarkii, quest’ultimo altrimenti noto con

l’inquietante appellativo di gambero killer. Alcune caratteristiche

comuni ai più pericolosi bioinvasori, rendono il gambero della Luisiana

una tra le specie potenzialmente più pericolose per la fauna autoctona,

soprattutto in assenza di predatori naturali. Generalista e opportunista,

dotato della capacità di resistere a condizioni climatiche estreme, a

precoce maturità sessuale, ciclo vitale polivoltino e produzione di un

elevato numero di uova, Procambarus clarkii rappresenta una delle

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minacce più serie per la batracofauna italiana, aggiungendosi alle

numerose specie introdotte tra cui il fungo Batrachochytrium

dendrobatidis agente eziologico della chitridiomicosi, infezione letale

(Andreone, 2013; Gherardi, 2014 a, b). A proposito del Procambarus si

segnalano i risultati di alcune recenti osservazioni effettuate in zone

umide dell'Emilia-Romagna, ove questa specie è ampiamente diffusa. Si

è avuto modo di constatare -ed in qualche caso di documentare- la sua

predazione ad opera di uccelli acquatici come la Folaga e lo Svasso

maggiore. L'abilità con la quale queste specie riuscivano a catturare il

gambero rosso e rendere inoffensive le sue chele suggerisce una

sperimentata attività di foraggiamento. È probabile inoltre che anche

cormorani, aironi e garzette, sperimentando la commestibilità della

specie aliena ne abbiano fatto oggetto della loro dieta (F. L. Montanari,

in litteris, XI.2016). Analoga la storia dell’omottero Metcalfa pruinosa

anch’essa di origine americana che attacca oltre 200 specie di vegetali

arborei ed erbacei, che ha per antagonista la cinciallegra che si nutre

dell’insetto in una delle prime fasi. Queste osservazioni non

documentano solo l’evoluzione di rapporti trofici con ricadute

prevedibilmente positive per l’ambiente e le specie ma anche la

complessità delle relazioni che si intessono a livello ecosistemico;

l’ecologia è la scienza della complessità per eccellenza. Anche la storia

di Trachemys scripta è esemplificativa di molte situazioni analoghe che

testimoniano la criminale superficialità dell’uomo. Da tempo i Cheloni

sono al centro delle attenzioni del mercato in qualità di pet animals. In

alcuni casi, le dimensioni del commercio hanno raggiunto primati

negativi incredibili; ogni anno, circa sei milioni di esemplari della

testuggine dalle guance rosse sono traslocate dagli Stati Uniti ai mercati

asiatici ed europei, per essere quindi abbandonate nei più diversi

ambienti acquatici causando un inquinamento faunistico unico al

mondo. È soprattutto l’aumento delle dimensioni della T. scripta, da 5 a

300 mm in pochi anni, a determinare la disaffezione dei compratori, i

quali si liberano, appena possibile, di animali adulti ormai non

facilmente gestibili. Le conseguenze per le specie indigene sono

drammatiche, T. scripta è altamente competitiva, dimostrandosi un

pericoloso concorrente e predatore (Ferri e Soccini, 2015). Questa

xenodiversità risulta in progressivo aumento negli habitat d’acqua dolce,

vulnerabili alle bioinvasioni a causa dello stretto legame tra l’uomo e i

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corsi d’acqua; oltretutto, uno dei rischi associati alla traslocazione di

questi organismi è costituito dalla diffusione dei loro patogeni e parassiti

(Gherardi e Genovesi, 2005; Gherardi et al., 2010). Gherardi et al. (2007) hanno fornito una lista di specie animali aliene presenti nelle

acque interne italiane; 112 specie non-indigene, 64 invertebrati e 48

vertebrati, il 2% circa della fauna delle nostre acque interne. Il

punteruolo rosso delle palme, Rhynchophorus ferrugineus, è un

Coleottero Curculionide polifago e infestante di numerose specie di

palma. Dal 2004, anno in cui è stata scoperta in Toscana, la specie si è

largamente diffusa nella penisola, in particolare nelle regioni centro-

meridionali. Gli individui del punteruolo rosso sono attratti dalle palme

deperenti o danneggiate nel cui tronco la femmina depone centinaia di

uova che schiudono in pochi giorni, le larve si nutrono dell’ospite

determinandone il collasso. I numeri della xenodiversità sono

impressionanti. La situazione dei Molluschi del Mediterraneo richiede

una breve premessa. Molte specie di Molluschi sono penetrate in

Mediterraneo dopo l’apertura del Canale di Suez nel 1869; si tratta di

specie indo-pacifiche dette lessepsiane in omaggio a Ferdinand De

Lesseps, promotore e realizzatore del Canale. I traffici e le attività

produttive dell’uomo hanno esacerbato il fenomeno; i molluschi esotici

pervenuti nel Mediterraneo, tra lessepsiani e non lessepsiani, circa 130

nel 2003, erano diventati circa 170 appena tre anni dopo. Tra questi, il

mitilo zebra Dreissena polymorpha, specie nord-europea e infestante

delle acque interne nord-americane e italiane, provoca gravi danni

economici ostruendo impianti di pompaggio dell’acqua in ambienti sia

lacustri sia fluviali (Cattaneo Vietti et al., 2013). L’Agriolimacidae

Deroceras sturanyi (Gastropoda: Pulmonata), limaccia di dimensioni

medie originaria dell’Europa sud-orientale e introdotta in diversi paesi

europei, è stata segnalata per la prima volta in Italia nel 2015 e

precisamente in Piemonte sulle sponde del Lago di Viverone.

Significativo il ritrovamento di questa specie in un ambiente fortemente

antropizzato; a conferma, la malacofauna terrestre associata a D.

sturanyi nelle stazioni ove sono state censite le prime popolazioni

italiane, annovera ben sei specie transfaunate sulle 23 censite (Birindelli

et al., 2015). Particolarmente appropriata è la raccomandazione “la

conoscenza delle caratteristiche biologiche che determinano la capacità

invasiva delle specie alloctone, risulta di fondamentale importanza per

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sviluppare e programmare in modo appropriato le necessarie azioni di

contenimento” (Gherardi et al., 2014 b).

Abbiamo fatto cenno alla distruzione e alterazione dell’habitat

imputabile ad una ampia costellazione di fattori, dal disboscamento

massivo di estese porzioni di foreste tropicali / temperate, all’avvento

dell’agricoltura intensiva meccanizzata, al prosciugamento delle zone

umide, al rimboschimento per mezzo di conifere esotiche. Anche

l’inquinamento (rifiuti solidi, piogge acide, pesticidi, fertilizzanti)

costituisce un complesso altamente dannoso di fattori. Il riscaldamento

globale determina gli effetti più diversi; con riferimento al Bacino

Mediterraneo la tropicalizzazione e la meridionalizzazione delle faune.

Sul numero più recente della Rivista Italiana di Ornitologia – Research

in Ornithology (vol. 85, 2015), alcuni contributi confermano

l’importanza del fenomeno. È il caso dell’espansione dell’areale

riproduttivo della Cutrettola italiana Motacilla flava cinereocapilla che

nell’arco di due secoli si è diffusa in tutta la Pianura Padana e

successivamente in Francia, Svizzera, Austria e Germania;

originariamente le popolazioni nidificanti erano soprattutto costiere,

attualmente popolazioni stabili sono presenti a quote superiori a 1000 m.

La prima fase di espansione sembra sia stata favorita dalla

trasformazione della Pianura Padana con l’incremento dell’attività

zootecnica ed il conseguente aumento dei prati; la seconda fase

espansiva è stata probabilmente favorita dai mutamenti climatici ed in

particolare dall’aumento di temperatura della Grande Regione Alpina

(Ferlini, 2015). È ormai da tempo accertata l’acclimatazione di due

parrocchetti nell’area romana Myiopsitta monachus e Psittacula

krameri; di una terza specie Psittakula eupatria l’acclimatazione non è

ancora stata provata, nondimeno si ritiene che possa essere già avvenuta

(Angelici e Fiorillo, 2015). E si potrebbe continuare a lungo. Il

sovrasfruttamento delle risorse biologiche ed in particolare la sovrapesca

dei grandi pelagici ha determinato la forte riduzione degli stock del

tonno rosso Thunnus thynnus. Gli effetti negativi del collezionismo

amatoriale (insetti, molluschi, uccelli) sulle popolazioni animali

vengono attualmente ridimensionati, con l’ovvia esclusione per i

comportamenti più deleteri e maniacali. Il collezionismo presenta infatti

aspetti positivi, ad es. incrementando le informazioni sulla distribuzione

delle specie, e non deve essere in alcun modo confuso con il commercio

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di animali o loro parti con effetti devastanti su molte specie ormai

sempre più rare. A questo proposito riteniamo utile fornire due notizie,

una buona ed una cattiva. La prima riguarda la crescita delle tigri allo

stato selvatico; nel 2010 si stimavano 3200 individui, nell’ultimo

censimento risultano presenti nel mondo 3890 individui di cui la metà in

India, fatto da attribuire agli sforzi di conservazione congiunti di

governi, comunità locali e specialisti della conservazione (ma si veda

Karanth, 2016 per valutazioni apparentemente meno ottimistiche). La

notizia cattiva riguarda il picco record di bracconaggio dei rinoceronti

africani, ben 1338 vittime nel 2015, una vera mattanza. Si stima che

siano rimasti circa 20.000 rinoceronti bianchi e tra 5000 e 5400

rinoceronti neri sul continente africano (WWF Italia, 2016).

Fondamentale, nel contesto della conservazione, il ruolo delle istituzioni

transnazionali. Dall’1 al 10 settembre 2016 si è svolto lo IUCN World Conservation Congress 2016 (WCC, Hawaii, USA), a frequenza

quadriennale, il più importante evento mondiale in materia di

conservazione. L’eccellente lavoro preparatorio ha consentito al WCC

di quest’anno di conseguire un notevole successo il cui risultato è

rappresentato dagli Hawaii Committments (HC). Gli HC sottolineano la

necessità di uno sforzo accresciuto al fine di ridurre la perdita di

biodiversità, determinare una maggiore resilienza ai cambiamenti

climatici, combattere le tecniche di pesca a maggiore impatto,

proteggere il 30% delle aree marine entro il 2030, investire in misura

crescente per contrastare le invasioni biologiche. Raccomandazioni

importanti riguardano altresì le munizioni in piombo e il bando totale

del commercio di avorio; infine, una particolare enfasi è stata posta sul

ruolo delle comunità indigene del mondo con la richiesta di creare per

loro una specifica categoria di membership IUCN (Genovesi, 2016).

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ANNA MARIA ROBUSTELLI

Le tante voci de La fanciulla senza mani 1

PERA

di Nan Fry

pendi dal tuo albero

come una lacrima fattasi solida,

come neve con la pelle lentigginosa.

Quando la fanciulla senza mani

venne da te al chiaro di luna, affamata,

si allungò e ti prese

nella bocca.

1 Tenendo presente che di questa fiaba esistono molte varianti, fondamentalmente la

storia è questa: un contadino fa un patto con quello che poi si rivelerà essere il

Diavolo cedendo sua figlia in cambio di ricchezze. Ma il Diavolo non può prendere

la figlia a causa della sua purezza, finché per ottenerla chiederà al contadino di

mozzarle le mani, impedendole di lavarsi. Anche così la purezza della ragazza ha la

meglio, ma lei decide di andare via dalla casa del padre e dopo molto vagare mangia

le pere del giardino del Re per sfamarsi. Il Re lo scopre e, colpito dalla sua bellezza

decide di accoglierla e sposarla. Dopo un po’ deve partire per la guerra e chiede a

sua madre di avvisarlo quando il bambino, che sua moglie aspetta, nascerà. Così fa

la madre del re, ma il messaggio che lei manda al Re viene contraffatto dal Diavolo

che scrive che è nato un figlio deforme. Ciononostante il Re ha delle buone parole

per sua moglie, ma un altro intervento negativo del Diavolo convince la madre del re

a far fuggire la fanciulla senza mani dopo averle legato il bambino sulle spalle.

Giunta a un corso d’acqua la fanciulla si piega per bere e le cade il figlio nell’acqua.

Mentre si affanna per riprenderlo le rispuntano le mani e può salvarlo. Andrà poi a

vivere in una casa in un bosco dove, dopo sette anni, incontrerà e riconoscerà il Re

partito alla sua ricerca e tutto andrà a finire bene.

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Suo padre l’aveva venduta

al diavolo e le aveva mozzato le mani,

ma tu ti piegasti verso di lei, Pera,

e offristi te stessa, seno

e latte insieme, terra

fattasi pendula e dolce.2

In questa poesia di Nan Fry ci soffermiamo nel momento in cui la

fanciulla senza mani, dopo aver vagato per tutto il giorno nella foresta –

luogo di rigenerazione – di sera, affamata, si avvicina a un frutteto per

mangiare una pera, aiutata da uno spirito a superare il fossato intorno al

castello (dove si trova il frutteto). L’antica fiaba rivela un rito di

iniziazione che si potrà completare solo dopo aver attraversato un fiume

di morte come lo Stige (il fossato del castello) e con l’aiuto di qualcuno

(lo spirito), così come Virgilio aiutò Dante nell’Inferno.

La poeta Nan Fry si concentra sulla bellezza e benevolenza del frutto

stesso, la pera, che diventa un forte simbolo di rigenerazione o rinascita.

Il dolore della mutilazione delle mani si trasmuta nella lacrima fattasi

solida o nella neve con la pelle lentigginosa. La pera si offre

interamente alla fanciulla diventando seno e latte, terra che nutre e che è

dolce. La poesia trasuda fisicità: la fanciulla senza mani, tradita dagli

esseri umani che avrebbero dovuto proteggerla (il padre e la madre),

dopo l’attraversamento del bosco, incontra il cibo vivificante offerto dal

pero, ed è la terra stessa che le offre nutrimento e conforto in questo

momento critico della sua vita.

Questa fiaba è molto indagata da studiosi del folklore e contastorie.

Apparentemente sembra proporre un modello passivo di femminilità, ma

in realtà addita un lungo processo che porterà alla maturità. Come ha

2 PEAR

you hang from your tree / like a teardrop grown solid, / like snow with a freckled

skin. / When the handless maiden / came to you in moonlight, hungry, / she

stretched up and took you / into her mouth. // Her father had sold her / to the devil

and lopped off her hands, / but you bent to her, Pear, / and offered yourself, breast /

and milk both, the earth / grown pendulous and sweet. Lady Churchill’s Rosebud

Wristlet #15, January 2005.Traduzione di Anna Maria Robustelli.

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detto la contastorie Susan Gordon: “Possiamo perdere le mani senza che

ne abbiamo colpa e persino in questa condizione non essere impotenti.”3

“Ciascuno di noi può essere ferito e aver bisogno di un posto dove

guarire e dove ripoter diventare intero.”4 La prima volta, ci dice la

Gordon, per lasciare i genitori e diventare adulti, la seconda per lasciarci

alle spalle un’immagine di sé convenzionale. Questa autrice ci fa capire

come questa fiaba possa rifarsi alla nostra storia personale, al modo in

cui in passato abbiamo scoperto di essere stati privati di qualcosa e a

come impariamo a “esaminare le nostre vite e le nostre scelte e a

crescere attraverso le storie.”5

La poeta inglese Vicki Feaver nella sua poesia sulla fanciulla senza

mani si concentra sul momento in cui la protagonista ha potuto

recuperare la figlia dall’acqua in cui era caduta, quando lei si era

accostata al fiume per bere. Le mani, secondo una versione russa, le

sono rispuntate e lei ha potuto compiere l’operazione di salvataggio.

Questo prodigio corona un avvenuto processo di maturazione della

protagonista della fiaba. La poeta inglese fa scaturire i suoi versi nel

momento emotivo del recupero delle mani e sulla conseguente

possibilità di salvare la propria figlia. Infine sottolinea la volontà di

“scrivere” quello che è avvenuto. La fanciulla recupera le mani e

acquista anche la voglia di testimoniare per iscritto quello che è

successo. Il recupero delle mani sigilla quindi il recupero della parola

nella donna silenziosa nei secoli. Riporto la poesia solo in italiano, nella

traduzione di Giorgia Sensi6, dato che già ho parlato di questa poesia in

un precedente articolo, Le mani che germogliarono e scrivono questo,

apparso in Quaderni del Liceo Orazio N. 3 Anno Scolastico 2012/2013:

LA FANCIULLA SENZA MANI

Quando l’acqua smise di uscirle dalla bocca,

3 Susan Gordon, “The Powers of the Handless Maiden”, in Feminist Messages

Coding in Women’s Folk Culture, edited by Joan Newlon Radner, University of

Illinois Press Urbana and Chicago, 1993, p. 252. 4 Ibidem, p. 252. 5 Ibidem, p. 266. 6 Vicki Feaver La fanciulla che ritrovò le sue mani. A cura di Giorgia Sensi e

Brenda Porster, “Poesia”, ottobre 2006.

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e le ebbi strofinato gambe e braccia,

e torace e pancia e schiena,

con ciuffi di muschio secco;

e messa a dormire in un nido d’erba

e stesi i panni fradici su un cespuglio,

e tenuta di nuovo stretta – il suo calore mi penetrava

nel petto e nella spalla,

il respiro cui non potevo credere

come una piuma a solleticarmi il collo,

mi lasciai andare al pianto. Piansi per le mani

che mio padre mi aveva tagliato; per i moncherini

tormentati dal formicolio di rugose

cicatrici; per le mani d’argento –

me le aveva date mio marito – che filavano e tessevano

ma non sentivano; e per le braccia senza mani

che avevano lasciato cadere la mia bambina – scivolata

dalla stretta fasciatura

mentre bevevo dal fiume rigonfio.

E piansi per le mani che germogliarono

dal fango rossiccio – le mani

che scrivono questo, e stringono

il riccio del suo pugno.

A un’ulteriore lettura di questa riuscita poesia mi piace sottolineare la

ricchezza dei particolari forniti dalla fanciulla dopo che è riuscita a

salvare la figlia dal fiume: i ciuffi di muschio secco, il nido d’erba, i

panni fradici su un cespuglio, tutti elementi che sottolineano il lavoro di

cura tradizionalmente affidato e svolto dalle donne.

Anne Sexton ha scritto una lunga poesia sulla fanciulla senza mani.

Sin dall’incipit pone un interrogativo inquietante riguardo ai motivi per

cui il Re avrebbe voluto sposare la ragazza:

E’ possibile

che lui sposi una storpia

per ammirazione?

Un desiderio di possedere la mutilazione

cosicché nessuno di noi macellai

verrà da lui con leve

o sottili pinze di precisione?

Signora, mi porti la sua gamba di legno

perché io possa stare sui miei

due piedi di porco rosa.

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Se qualcuno ti brucia l’occhio

ti prenderò l’orbita

e l’userò come portacenere.

Se ti hanno portato via l’utero

ti darò una corona di lauro

da mettere al suo posto.

[…]

La mia mela non ha vermi.

La mia mela è intera!

[…]7

Si direbbe che avere accanto qualcuno mutilato faccia sentire “interi”.

E’ indubbio che la mancanza (delle mani) della donna aumenti il potere

dell’uomo che la sposa, che può darle delle mani d’argento e comunque

proteggerla e acquisire così importanza nel ruolo che si è creato.

L’aspetto inquietante della fiaba viene ribadito alla fine, quando il Re

ritrova la moglie, ormai con le mani restituite, e il figlio nel bosco:

Era buono e gentile come ho già detto

così trovò la sua amata.

Lei mostrò le mani d’argento.

Mostrò Arrecapene8

e lui capì che erano suoi,

anche se entrambi ora sfortunatamente interi.

Ora i macellai verranno da me,

pensò, perché ho perso la mia fortuna.

Ciò mise una paura insidiosa in lui

come un abbassalingua tenuto stretto

nella parte posteriore della gola.9

7 THE MAIDEN WITHOUT LEGS

It is possible he marries a cripple / out of admiration? / A desire to own the maiming

/ so that not one of us butchers / will come to him with crowbars / or slim precise

tweezers? / Lady, bring me your wooden leg / so I may stand on my own / two pink

pig feet. / If someone burns out your eye / I will take your socket / and use it for an

ashtray. / If they have cut out your uterus / I will give you a laurel wreath / to put in

its place. / [...]/ My apple has no worm in it. / My apple is whole! […]. Anne Sexton,

Transformations, Houghton, 1971. Traduzione di Anna Maria Robustelli. 8 Paingiver, è il nome del figlio.

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Matilde Martín Gonzáles osserva che “Uno dei miti culturali che la

Sexton demolisce in Transformations è la caratterizzazione eroica

tradizionalmente assegnata a figure maschili, in virtù della quale la loro

unica funzione consiste nel salvare damigelle in pericolo, riportandole in

vita o - e questo costituisce la fondamentale preoccupazione delle donne

– sposandole. Le fiabe sottolineano gli effetti sulle donne di varie

“fantasie seducenti” (Rose, 237) che le inducono a considerare

l’innocenza, il sacrificio di sé e l’obbedienza come virtù intrinsecamente

femminili.”10

Le donne-poeta hanno esplorato la fiaba di cui stiamo parlando,

scrutandone ogni aspetto per quanto recondito esso possa essere.

Margaret Atwood ha indagato il vuoto creato dalle “mani assenti” con

un sentimento di intensa fisicità: la distanza ti circonda […]spingendo la distanza davanti a te […] Nessuno può entrare nel circolo / che hai

creato […] L’urlo che avvenne nell’aria / quando gliele mozzarono […] Uno spazio silenzioso e immane connota questa fisicità e l’eco possente

dell’urlo emesso quando le mani sono state mozzate. Il senso della

mancanza si amplifica ed è impossibile da scalfire. Nel racconto della

fiaba nella stesura dei fratelli Grimm invece la mancanza era assorbita e

quasi obliata dal ritmo rassicurante delle parole che conducevano a un

finale felice e scontato.

FANCIULLA SENZA MANI

Passando tra le rovine

mentre ti rechi al lavoro,

rovine che non sembrano rovine

col sole che si riversa

sul mondo visibile

9 He was good and kind as I have already said / so he found his beloved. / She

brought forth the silver hands. / She brought forth Paingiver / and he realized they

were his, / though both now unfortunately whole. / Now the butchers will come to

me, / he thought, for I have lost my luck. / It put an insidious fear in him / like a

tongue depressor held fast / at the back of your throat. Transformations, op. cit.. 10 Matilde Martín González, (Universidad de La Laguna) “Fairy Tales revisited and

transformed: Anne Sexton’s critique of social(ized) femininity”.

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come grandine o argento

fuso, luminoso

e magnifico, ogni sua foglia

e pietra velocizzati e specifici,

e non lo tieni in mano,

nemmeno in parte. La distanza ti circonda,

segnata dalla fine delle tue braccia

allargate al massimo.

Non puoi procedere oltre,

pensi, camminando in avanti,

spingendo la distanza davanti a te

come un carretto di metallo su ruote

con le sue sponde e traverse.

L’apparenza si scioglie via da te,

uffici e piramidi

all’orizzonte brillando s’estinguono.

Nessuno può entrare nel circolo

che hai creato, quel circolo netto

di spazio morto che hai creato

e in cui stai dentro,

lamentandone la nettezza.

Poi c’è la ragazza col vestito bianco,

significa purezza, o l’impossibilità

di avere un colore. Non hai le mani, è vero.

L’urlo che avvenne nell’aria

quando gliele mozzarono

la circonda ora come un’aureola

di sabbia bollente, senza suono.

Tutto le è sgorgato fuori, come sangue.

Solo una fanciulla così

può sapere cosa ti è successo.

Se fosse qui allungherebbe

le braccia verso di te

e ti toccherebbe

con le sue mani assenti

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e tu non sentiresti nulla, ma ne saresti

ugualmente toccato.11

Elline Lipkin, autrice di Conversazione con mio padre, focalizza la sua

attenzione su un altro aspetto della fiaba che di fatto revisiona: la

volontà della ragazza di non farsi tagliare le mani dal padre.

CONVERSAZIONE CON MIO PADRE

Dopo che ci siamo parlati vado dal ferramenta

per decidermi su un trapano, sento ogni arnese confezionato in nero

pullulare della volontà di far male. Mi intrufolo

tra corredi di pezzi, mostre di lame e aste,

forme di metallo simili a fucili che vantano potere.

Il brusio-parola della nostra conversazione fa ronzare il suo drone

una sega calda lasciata sempre nell’angolo, pronta a tagliuzzare.

Importante – istruzioni di sicurezza volteggiano poi cadono.

Seguo i tuoi consigli su ciò che serve per forare

una mano di vernice, la forza che ci vuole per bucare il muro.

11 GIRL WITHOUT HANDS

Walking through the ruins / on your way to work / that do not look like ruins / with

the sunlight pouring over / the seen world / like hail or melted / silver, that bright /

and magnificent, each leaf / and stone quickened and specific in it, / and you can’t

hold it, / you can’t hold any of it. Distance surrounds you, / marked out by the ends

of your arms /when they are stretched to their fullest. / You can go no farther than

this, / you think, walking forward, / pushing the distance in front of you / like a

metal cart on wheels / with its barriers and horizontals. / Appearance melts away

from you, / the offices and pyramids / on the horizon shimmer and cease. / No one

can enter that circle / you have made, that clean circle / of dead space you have

made / and stay inside, / mourning because it is clean. // Then there’s the girl, in the

white dress, / meaning purity, or the failure / to be any colour. She has no hands, it’s

true./ The scream that happened to the air / when they were taken off / surrounds her

now like an aureole / of hot sand, of no sound. / Everything has bled out of her. //

Only a girl like this / can know what’s happened to you. / If she were here she would

/ reach out her arms towards / you now, and touch you / with her absent hands / and

you would feel nothing, but you would be / touched all the same. Margaret Atwood,

Mattino nella casa bruciata, a cura di Giorgia Sensi e Andrea Sirotti, Le Lettere,

Firenze, 2007. Titolo originale: Morning in the Burned House. © Margaret Atwood

1995.

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Quanto meglio se avessi potuto essere come Atena,

che balzò limpida come una cerva, chiara come una somma, scoccata

dalla tua testa come un flusso di logica nitida. Se solo avessi

potuto essere pura come un prodotto della mitosi della mente,

giustificata come quando ‘se’ genera ‘quindi’, e ‘a’ è uguale a ‘c’,

ciascuna camera della ragione che oltrepassassi capace di fondere uno

strato

di minerale di ferro sul mio petto. Quanto potremmo essere simili se

io emergessi, equilibrata come un assioma, infilata bene

come una teoria, e nata armata, con arco e freccia in mano.

Invece , nella tua stretta, ero Pollicina, un angelo di vetro,

un completo di braccia di porcellana incrociate dietro un dorso.

La mia mano doveva restare indissolta come una zolletta

di zucchero filato finché non fossi stata richiesta, approvata, poi trainata

per

un corridoio. Ma te l’ho detto che non posso starmene buona come

la ragazza dei Grimm, quando stiamo vicino all’ascia ritraggo

i polsi. Ogni dito appuntito è la mia vera arma.

Non ti lascerò bronzare le coppe tagliate dei miei palmi.12

12 CONVERSATION WITH MY FATHER After we speak I go to the hardware store / to decide on a drill, feel each black-

packaged tool / bristle with its will to do harm. I interlope / among bit sets, arrays of

blade and shaft, / gun-like metal shapes that brag of power. / The world-whir of our

talk still buzzes its drone / a hot saw always left in the corner, ready to hack. /

Important – safety instructions flutter then drop. / I follow your advice on what’s

needed to needle / a skin of paint, the force to punch the wall. // How much better if

I could have been like Athena, / springing clear as a doe, neat as a sum, blasted out /

of your head like a sweep of clean logic. If only I could / have been pure as a

product of the mind’s mitosis, / justified as when ‘if’ begets ‘then’, and ‘a’ equals

‘c’, / each chamber of reason I passed smelting an iron-ore / layer over my breast.

How alike we could be when / I emerged, balanced as an axiom, threaded straight /

as a theory, and born armed, with bow and arrow in hand. // Instead, in your grip, I

was Thumbelina, a glass angel, / a set of porcelain arms crossed behind a back. / My

hand was to stay undissolved as a spun-sugar / lump until asked for, approved of,

then towed down / an aisle. But I’ve told you I can’t be good as / Grimm’s girl,

when we stand near the axe I draw / my wrists back. Each pointed finger is my true

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Nella prima strofa, in un negozio di ferramenta, la ragazza avverte i

segnali aggressivi che gli giungono da tutti gli oggetti esposti, un

mondo, si direbbe, totalmente e oscuramente maschile. Nella seconda la

voce narrante desidera di poter essere scaturita limpidamente come

Atena dalla testa di Giove (quindi dal padre). Ma in realtà il rapporto tra

padre e figlia è più contorto: lei si sente una Pollicina-angelo di vetro, si

sente qualcuno totalmente dipendente dal dominio paterno. Proprio per

questo dichiara la sua volontà di reagire alla violenza, impedendo la

mutilazione delle mani, e anzi conservando ogni dito appuntito come

arma di difesa. La fiaba di cui stiamo parlando ci induce a identificarci con la

protagonista e, come spesso fanno le fiabe, ci spinge ad esaminare le

nostre vite, a mettere da parte la nostra distruttività e a immaginare

nuove possibilità.

Gordon insiste sul valore “terapeutico” delle fiabe, che ci permettono

di uscire da un tunnel negativo, facendo balenare nuove opportunità. Il

bosco è il luogo del risanamento, che permette di riconoscere le perdite

e elaborarle. Il fattore tempo è sottolineato nella fiaba. Ci vogliono sette

anni per portare a termine il processo completo di salvezza e anche il Re

deve attendere lo stesso lungo periodo di tempo per poter ricongiungersi

con la moglie e il figlio. Gordon aggiunge: “La fanciulla senza mani,

come la racconto io, è una storia di sviluppo umano. Ascoltatori di ogni

età e di ambedue i generi hanno scoperto che sono stati senza mani

come la Fanciulla. Credo che sia prima di tutto una storia di sviluppo

delle donne, dalla mancanza di potere all’affermazione di sé, perché

nelle scelte dei suoi personaggi descrive il bisogno di una donna di

separare e riprendere il suo sé intero, in un modo che non è dettato dalla

gerarchia esistente, per vivere con tutta la pienezza di cui è capace.”13

Una terapista ha capito che la fiaba “era un messaggio, donna a donna

e che la madre della fiaba avrebbe riconosciuto il dolore della figlia, ma

non avrebbe sfidato il patriarcato.” 14 “La fanciulla senza mani illustra

weapon. / I won’t let you bronze the cut cups of my palms. Elline Lipkin, The Poet’s

Grimm, edited by Jeanne Marie Beaumont and Claudia Carlson, Story Line Press,

2003. Traduzione di Anna Maria Robustelli. 13 Susan Gordon, op.cit., pp. 267-68. 14 Susan Gordon, op. cit., p. 273.

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gli abusi di potere tra uomini e donne, tra adulti e bambini. Rende

visibili i modi in cui siamo vulnerabili e collegati nelle nostre vite; il

mugnaio e la moglie ci mostrano come questa conoscenza può essere

rifiutata insieme alla povertà che ne segue.”15Nelle fiabe dei Grimm ci

sono anche molti angeli (aiutano la ragazza nel frutteto, la

accompagnano quando entra nel bosco ecc.), ma Gordon li fa sparire,

un po’ come avviene nella poesia di Vicki Feaver. Ecco come è vista la

ragazza nel racconto del giardiniere del Re:

[…] andò dal Re e disse,

“Guarda, c’è qualcuno o qualcosa nel tuo giardino

e non so chi sia o cosa sia,

ma non sono tipo da impicciarmi.

Quando lei lo chiede,

le mura si rompono,

i fossati si separano,

gli alberi si piegano.

Non ha le mani.

E’ coperta di luce.

Oltre a questo,

è la cosa più bella che abbia visto.”

[…]16

Per Gordon quell’essere coperta di “luce” significa che la ragazza è

“protetta dall’interno” ed è in sintonia con la natura e l’universo. Questa

luce simboleggia la forza che la ragazza – ma anche chiunque sia

impegnato in un processo di rigenerazione – possiede.

15 Susan Gordon op. cit. p. 274. 16 Susan Gordon, op. cit., pp. 258-59.

[…] he went to the King and he said, / “Look, there’s somebody or something in

your garden / and I don’t know who she is or what she is, / but I’m not the man to

mess with her. / When she calls out, / walls break, / moats part, / trees bend. / She

doesn’t have any hands. / She’s covered in light. / Besides that, / she’s the most

beautiful thing I’ve ever seen.”[…]. Traduzione di Anna Maria Robustelli. Le frasi

che ho appena citato sono tratte dalla versione scritta della fiaba, così come la

racconta Susan Gordon. La disposizione grafica (che assomiglia a una poesia) è stata

scelta dalla contastorie statunitense per rispettare il ritmo del racconto e la sua

musicalità.

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Alcuni ascoltatori dei racconti di Gordon si meravigliano del fatto che

la ragazza si sia fatta tagliare le mani con troppa arrendevolezza, senza

difendersi adeguatamente. Le famose parole della ragazza al padre,

quando questi si accinge a mozzargliele: “Caro padre, fa di me quello

che vuoi.” non vanno interpretate come pura e semplice passività, ma

come riconoscimento che nei rapporti genitoriali con i figli il potere

decisionale spetta agli adulti e qui Gordon aggiunge un’importante

considerazione: “I bambini hanno un’abilità inequivocabile nell’assi-

milare e riflettere il vero stato di impoverimento o di salute dei genitori.

Automaticamente si assumono la colpa delle mancanze dei genitori

perché hanno «un’innata tendenza a sentirsi impotenti, abbandonati,

vergognosi e colpevoli in rapporto alle persone da cui dipendono.» “17

Il processo di autonomia della ragazza senza mani comincia quando

lei decide di non stare più nella casa paterna, si rinforza quando chiede

al pero di piegarsi verso di lei, perché possa mangiare aprendo i muri del

castello del Re (che la separano dal suo vero io e dalla possibilità di

relazionarsi con gli altri) e si definisce quando lei, sola nel bosco,

riacquista le mani e impara a gestire la sua vita e il suo bambino.

Vorrei concludere proprio citando la parte della fiaba, nella versione

di Susan Gordon, in cui il processo di autonomia della ragazza

comincia. E’ la sua risposta, per niente passiva, alla assurda richiesta del

padre di volerle tagliare le mani, per paura che il Diavolo, se non lo fa,

lo porterà nell’inferno:

Si diresse verso la figlia, dicendo

“Ora, hai sentito l’uomo [il Diavolo]. Non ho scelta.

Non ho scelta.”

Lei lo guardò.

“Nessuna scelta? Nessuna scelta?

Oh, mio Dio.

Darei quasi tutto nel mondo

per non essere tua figlia,

ma lo sono. Lo sono.

Così fa di me quello che vuoi.”

17 S. Gordon cita queste fonti all’origine della sua osservazione: Kim Chernin, The

Hungry Self (New York: Times Books, 1985), 122-23; E .Erikson, Identity: Youth

and Crisis (New York: Norton, 1968), 75-76.

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Tese le mani.

Senza un attimo di esitazione,

lui abbatté l’ascia su di loro.

Il Diavolo, se ne andò soddisfatto.

Il mugnaio – lasciò sua figlia

in piedi nel cortile.

E ora lei pianse.

Pianse per il suo dolore;

pianse per la sua infelicità.

Pianse tutto il giorno;

Pianse tutta la notte.

Pianse tanto e così forte che,

la mattina,

aveva lavato persino i moncherini

dove le mani erano state

pulite.18

18 Susan Gordon, op. cit., pp. 256-57.

He walked toward his daughter, saying / “Now, you heard the man. I ain’t got no

choice. / I ain’t got no choice.” // She looked at him. / “No choice? No choice? /

Oh, my God. / I would give almost anything in the world / not to be your daughter, /

but I am. I am./ So you do with me what you will.” // She held out her hands. //

Without a moment’s hesitation, / he brought his ax down through them. // The Devil,

he left satisfied. / The miller – left his daughter / standing in the yard. // And now

she cried. / She cried in her pain; / she cried in her misery. / She cried all day long; /

She cried all night long. / She cried so long and so hard that, / by morning, / she had

washed even the stumps / where her hands had been / clean.

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Sezione didattica (collaborazioni degli studenti)

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STEFANO DE STEFANO

XXIV Olimpiade di Filosofia

La XXIV edizione delle “Olimpiadi di Filosofia” è stata curata, nel

nostro Liceo, dai professori: Cherubini Adriana, Colini Simona, De

Liguori Edmondo, De Stefano Stefano e Dedato Elisabetta. Sulla scorta

delle indicazioni della Società Filosofica Italiana è stata organizzata la

prova scritta per la selezione regionale, quindi sono stati corretti gli

elaborati e sono stati individuati i candidati dell’Orazio che hanno

partecipato alle selezioni regionali per accedere alla gara nazionale.

La selezione d’Istituto si è svolta giovedì 11 febbraio 2016 e ha

coinvolto 32 studenti, per la gara in lingua italiana, e 12, per la gara in

lingua straniera (inglese).

La selezione regionale, che si è svolta presso l’Università di Roma

Tre, ha coinvolto, quest’anno, un numero di scuole significativo: circa

33 istituti scolastici del Lazio – scuola secondaria di secondo grado - ,

per un totale di circa 120 studenti tra la prova in italiano e quella in

lingua comunitaria, hanno partecipato all’iniziativa, a testimonianza

dell’interesse per lo studio della filosofia, caratterizzato dalla volontà di

confrontarsi, secondo modalità e contenuti squisitamente culturali, su

temi legati al mondo contemporaneo.

Le tracce proposte, per la selezione d’Istituto, sono state le seguenti:

1) Etica Commenta il seguente testo del filosofo tedesco Hans Georg

Gadamer (1900-2002), sviluppando e argomentando un tuo punto di

vista, con eventuali richiami ad altri autori studiati o spunti di

riflessione già presi in esame:

«Il futuro ci pone un compito: preservare e sviluppare l’Europa nella

sua unità e varietà. Il futuro è ritorno. Così noi ci ricordiamo di

quell’unità di Occidente e Oriente che oggi ci manca, e che un tempo era

l’ecumene del mondo antico; e faceva dell’Oriente cristiano l’erede dell’impero romano. L’unità di Occidente e di Oriente, la varietà

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dell’Occidente e la varietà dell’Oriente sono l’Europa. L’antichità greca

e il mondo greco-latino dell’impero romano costituiscono, in una ricca

tradizione umanistica e cristiana, lo sfondo comune di tutte le scuole e di

tutte le Chiese: ossia l’unità culturale dell’Europa».

(Da: Hans Georg Gadamer, Messaggio in occasione della presen-

tazione al Parlamento Europeo degli Appelli per la filosofia e la ricerca

umanistica, 1991)

2) Estetica L'aggettivo “bello” viene usato nelle situazioni più diverse: può essere

riferito a oggetti materiali prodotti tecnicamente ma estremamente

diversi tra loro, per es. un mobile, un vestito, un gioiello, un cellulare

dal disegno particolare, un'automobile fino a quei manufatti considerati

“opere d'arte” come pitture o sculture ma anche poesie, musica, cinema,

teatro ecc.; di bellezza si parla poi molto riguardo la natura, “bello” può

essere considerato un paesaggio, un fiore, un giardino, il cielo (di giorno

o di notte), un animale, un corpo, un volto o i suoi dettagli (gli occhi, le

labbra). Ma la parola “bellezza” può essere impiegata anche in

riferimento a esperienze più “immateriali”, la conversazione con

qualcuno, un incontro imprevisto, una relazione intima, persino una

teoria o una argomentazione razionale.

Questi usi così svariati e con riferimento a oggetti così eterogenei

della stessa parola indicano una semplice sinonimia necessaria solo per

comunicare esperienze irriducibilmente soggettive o presuppongono un

significato comune a tutti? E in quest'ultimo caso si tratta di un valore,

una regola convenzionale frutto dell'educazione e della cultura? Ed

eventualmente come si concilia con la sensibilità personale?

Svolgi le tue considerazioni su questi problemi con riferimento anche a

teorie filosofiche di tua conoscenza ma soprattutto in relazione alle tue

esperienze personali.

3) Gnoseologia

L’ideale galileiano dell’oggettività della conoscenza scientifica

sembra venir meno nei punti di vista espressi dal medico e filosofo

statunitense William James (1842 – 1910) e dal filosofo della scienza

austriaco Paul Feyerabend (1924 – 1994). Discutete le due posizioni con adeguati riferimenti alla vostra esperienza e alle vostre conoscenze

in ambito filosofico e scientifico.

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La verità di un’idea non è una sua stagnante proprietà. Un’idea

diventa vera, è resa vera dagli eventi. La sua verità è di fatto un

avvenimento, un processo: il processo, più esattamente, del suo

verificarsi, la sua verificazione. La sua validità è allo stesso modo il

processo della sua convalidazione.

(Da: W. James, Pragmatismo, cit. in Lezioni di filosofia 3, a cura di

A. M. Pastore, SEI 1998, pag. 334.)

È chiaro, quindi, che l’idea di un metodo fisso, o di una teoria fissa

della razionalità, poggia su una visione troppo ingenua dell’uomo e del

suo ambiente sociale. Per coloro che non vogliono ignorare il ricco

materiale fornito dalla storia, e che non si propongono di impoverirlo

per compiacere ai loro istinti più bassi, alla loro brama di sicurezza

intellettuale nella forma della chiarezza, della precisione, dell’

“obiettività”, della “verità”, diventerà chiaro che c’è un solo principio

che possa essere difeso in tutte le circostanze e in tutte le fasi dello

sviluppo umano. È il principio: qualsiasi cosa può andar bene. (Da: P. Feyerabend, Contro il metodo, cit. in Lezioni di filosofia 3, a

cura di A. M. Pastore, SEI 1998, pag. 398)

4) Filosofia politica Commenta il seguente testo di Karl Jaspers (1883-1969), uno dei

maggiori esponenti dell’esistenzialismo tedesco, sviluppando e

argomentando un tuo punto di vista, con eventuali richiami ad altri

autori studiati o spunti di riflessione già presi in esame:

«“La politica è il destino”. Da che nell’età della tecnica esiste il

dominio totale, questa frase di Napoleone è più terribile che mai. Anche

quando si considerò apolitica, la filosofia ha sempre avuto un significato

politico. Nel filosofare infatti l’uomo perviene a se stesso. Ivi trae gli

impulsi a configurare e a giudicare politicamente la sua esistenza

nell’azione reciproca di tutti».

(Da: Karl Jaspers, Piccola scuola del pensiero filosofico [1965], trad.

it. di C. Mainoldi, Milano, SE, 2006)

Di seguito gli elaborati premiati:

Antonella Di Piero, 2B classico 2015-2016

Gnoseologia

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Svolgimento

“Che cos’è la verità?”. Matias si ricordò quasi per caso della

domanda, posta qualche giorno prima, dall’adorato nipote, mentre lo

riaccompagnava da scuola. Matias aveva cercato di rispondere alla

curiosità del piccolo richiamandosi ad autori, libri, riportando alla

memoria alcune esperienze, ma sapeva di non essere riuscito a dare una

risposta soddisfacente.

A turbarlo, in fondo, non era stata la scomoda domanda del giovane

ma la paura della consapevolezza di non conoscerne la risposta.

La verità, si disse, doveva essere un colore, il bianco, semplice, senza

traccia di macchie. Essa non poteva essere assimilabile ad alcun altro

colore, perché tutti questi contenevano in sé qualche segno di parzialità;

il bianco, d’altro canto, li rappresentava tutti e insieme nessuno, perché

non ve ne era alcuno che primeggiasse sugli altri.

Conteneva in sé una limpida giustizia, non una giustizia di uomini,

sottoposta a giudizio arbitrario, ma una giustizia naturale, inflessibile e

immutabile, che trovava in sé e non in altri giustificazione e fondamento

della propria esistenza. Ne derivava che la verità, così come il bianco,

era al di sopra della casualità, della consequenzialità e di qualunque altro

effimero fattore. La verità non diventava tale in base all’altalenarsi degli

eventi, piuttosto essa poteva rivelarsi agli occhi dell’uomo, ma questo

non ne indicava la dipendenza, né in essi ricercava la sua validità.

Matias arrivò a pensare che la verità fosse espressione della natura, ma

che spesso le persone l’avessero scambiata per espressione di se stessi,

del proprio pensiero. Invece, secondo l’anziano, il fondamento della

verità risiedeva proprio nella sua estraneità, oggettività, essa guardava

tutto dall’alto, con occhio distaccato; gli uomini, al contrario, dal basso

potevano scorgere, quando fossero attenti, solo ciò che la verità

decideva di mostrare loro. E’ per questo che Matias non poteva

concepire l’idea che la verità divenisse tale solo in relazione agli eventi,

perché questo avrebbe significato rivendicare se stessi a creatori del vero

e del falso e da opinioni di singoli non sarebbe potuto derivare alcunché

di universale. Spesso, infatti, si era reso conto che la parte più celata,

nascosta fosse in realtà l’elemento più identificativo di una persona. E

allora, si disse, perché ciò non doveva essere tale anche per la natura?

Come potevano, infatti, pretendere degli individui di essere arbitri

della natura, quando essa si rivelava solo parzialmente? Per quanto

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riguardava gli uomini, Matias capiva che spesso potevano avere opinioni

diverse, talvolta quasi contrastanti, ma esse dovevano necessariamente

derivare da una verità comune di cui, però, gli uomini non avevano che

una conoscenza parziale, e proprio da questo derivavano le differenti

interpretazioni della mente.

Il giorno seguente, quindi, andando a prendere il nipotino a scuola,

Matias si sentì molto sereno e, quando lo vide, affermò con sicurezza:

“La verità è il bianco!”.

Flores Valeria, 1D classico 2015 - 2016

Estetica

Svolgimento

"E' bellissimo". Siamo io e lui, sotto un cielo stellato. "Perché?". Lo

guardo. "Ti sei mai chiesto il perché tu dica sia bello?". Rifletto un po'.

"Sarà che mi piace...". "Se è per questo ci sono altre centinaia di cose

che ti piacciono: ascoltare la tua canzone preferita, ballare, scrivere, la

cioccolata. Ma basta che ti piaccia veramente perché sia bello?". "No,

suppongo di no". "Se la mettiamo così, la bellezza è solo questione di

"mi piace". Eppure la tua canzone preferita può anche non piacermi, no?

E se fosse così, allora non sarebbe più "bella"?". "No, affatto...ci sono

pareri soggettivi...e insomma de gustibus non disputandum est".

"Esattamente... per cui siamo d'accordo sul fatto che la bellezza sia

qualcosa di più?". "Beh si...suppongo che in generale ci siano cose belle

perché piacciono semplicemente...altre sono belle perché magari in quel

momento ti fanno stare bene". "Ad esempio stare con una persona?".

"Si, per esempio"." Quindi se tu stai bene con una persona è bello. Ma

se un giorno, ipoteticamente, tu avessi una discussione con essa o non la

rivedessi mai più? Allora lo stare con lei non sarebbe più bello?". "No,

certo...la bellezza dello stare insieme rimarrà sempre...voglio dire, ti

lascia qualcosa...". "Perfetto...quindi sei d'accordo che la bellezza vera

oltre a superare il semplice "mi piace", supera anche il tempo, è

qualcosa che ti lascia il segno". "Si, infatti". "Eppure ci sono situazioni

spiacevoli che comunque ti lasciano qualcosa, ma non per questo sono

belle: un'esperienza dolorosa, una perdita, una sofferenza...ma le puoi

definire belle come questo cielo stellato?". "No, assolutamente...eppure

questo cielo rimane bello...". "Già... per cui abbiamo appurato che la

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bellezza può essere soggettiva, legata ai nostri gusti, può essere qualcosa

che ci fa star bene...ma davvero è solo questo?". "Questi discorsi mi

stanno iniziando a confondere". "E' risaputo che il cielo stellato è bello"

gli dico." Vedi, non basta nemmeno questo... è risaputo...troppo

poco...per esempio per un cavernicolo questo stesso cielo rappresentava

una presenza incombente, terribile... e poi possono cambiare i contesti;

per esempio i Greci sostenevano che la vera bellezza stava nel rispetto

meticoloso delle proporzioni...ma sappiamo benissimo che un qualcosa

di imperfetto può avere la sua bellezza, anzi forse proprio in quella

risiede la vera idea di bello... non trovi?". "Si, hai ragione... ma allora

spiegami perché questo cielo è così bello? Perché dico che lo sia e

perché non c'è niente che mi possa convincere del contrario?".

"Purtroppo nessuno ha la risposta, sai? in tanti se lo sono chiesti... e in

tanti hanno provato a rispondere...La bellezza è la cura per raggiungere

la felicità...Una cosa bella ti lascia qualcosa, ti trasmette la sensazione di

essere vivo, lì, in quel posto, in quel momento...c'è la tua sensibilità...c'è

quella di tante persone diverse...ma la bellezza è il legame profondo che

abbiamo con qualcosa di bello...forse questo cielo è così bello perché in

realtà siete fatti della stessa sostanza...avete la stessa origine...che sia

Dio o qualsiasi altra forza soprannaturale o divina...entrambi avete l'idea

di bellezza in voi...partecipate dell'idea del bello...e questa idea è

presente nelle cose in rapporti diversi. E' qualcosa che va oltre il tuo

modo di vedere, sentire, toccare e percepire le cose...l'idea del bello

risiede in un mondo intellegibile...e da questo mondo derivate sia tu, sia

il cielo...Per questo dici che è bello...perché l'idea del bello è presente in

te e in esso, in maniera piena e completa, profonda". Lo guardo e penso:

"Chissà...forse Platone ha proprio ragione".

Edna Esposito, 2D classico 2015 - 2016

Estetica

Svolgimento

Dear friend,

I may now ask you to do something pretty weird: open your eyes wide

and look all around you. What can you see? What are you feeling?

Aren’t you wondering how something so powerful yet so fragile like

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this world was born? You know, that’s how philosophy works. You see

something that makes your heart pound so fast that you just can’t help

but say, “How beautiful this is! I want to know everything about it!”

But still, what is beauty? Is it something your culture exerts her

influence upon? Artists find beauty in proportions, but then if beauty

was traceable to proportions we wouldn’t be able to define “beautiful”

something we can’t see, and yet, we do.

Philosophers like Plato thought beauty was an idea, something totally

incorporeal, which could be found in different things, making them

somehow similar to that perfect concept, but not perfect themselves.

What do you think, my friend? I may agree with Plato here, even if not

completely. Beauty is something we find in our hearts as an innate idea,

that is confirmed by the feeling we get from some external impulses.

Culture and education sure affect whatever concerns the use of the

five senses, making familiar things look beautiful: a familiar taste, or a

smell that reminds us of our country, of different experiences we made

with our family, friends and, why not, with our loved one, but

sometimes beauty goes beyond the use of the five senses. We find

beauty in love, which is something we can’t see, touch, smell, taste or

hear. I assume it is something that was born in our souls, as human

beings. I know you’re not easy to convince, my friend, that is why I’d

request you to think of your little sister, or brother while being told a

fairytale. They listen to you like you’re drawing amazing dragons and

castles in the air, even though you are not. Words are something

incorporeal, things that touch our souls, not our body, and have a great

impact on us, on our imagination, that develops on her own, according

to our sensibility.

That’s it, my friend, I’m not going to bother you any longer with my

abstract theories, but still, being beauty something incorporeal, but you

may even find this beautiful as well.

Tartaglia Francesco, 3L classico 2015 – 2016

Gnoseologia

Svolgimento

Feyerabend’s and James’s criticism to scientifical objectivity can

easily be shared and supported through several examples: everybody

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knows that Einstein’s revolutionary theories ousted Newton’s from the

leading role they had been playing for three centuries. Hence, how can

we still consider a theory reliable and avoid the terrible relativism which

seems to come out from James’s statement?

Feyerabend’s vision of science consists in the refusal of the singleness

of the methodology to be used in scientifical researches: he claims that

the common concept of rationality must be redefined, since it has to take

into account a wider range of elements, such as scientifical criterias but

also political, religious and ethical ones. This new kind of rationality

must necessarily prefer what can be more useful to the society in its

wholeness, rather than some merely scientifical proofs; this means that

theology and methaphysics aren’t a less reliable way of understanding

our world.

What Feyerabend and James seem to confuse is the developing of a

scientific idea, its concrete formal structure of formulas and, later, its

practical developments. An idea is, indeed, “inside true by events” as

James thinks, but this only means that it has to prove to be reliable when

it comes to practical confirmations. Instead, the development of a theory

can start, in a scientist’s mind, from whatever he considers appropriate,

both scientifical and not: Einstein replaced Newton starting his theory

by the idea of surfing a gleam of light. The necessity of a fixed

methodology appears when an idea has to be put into practice, since it’s

the only way the scientist can verify it. The scientifical theory

necessarily presents, therefore, a double nature: “rational” as we usually

intend it (strictly technically), and “rational” as Feyerabend does (related

to ethical-political beliefs and historical conditions).

The second meaning, though, doesn’t concern the proper field of

science, but it is more related to philosophy (in the moment of invention,

since it refers to the scientist’s Weltanschauung and not directly to

numbers and formulas, even though those ones comes from it) and

politics (in the moment of the choice of how to make the most of a

theory’s technical applications). This logically implies that Feyerabend’s

rationality is a political idea more than a scientifical one, and therefore it

doesn’t sap the foundations of Galileo’s scientifical objectivity – though

we must never forget that every theory is not a dogma, because it may

(and it’s bound to) be overcome by another one sooner or later.

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MAURIZIO CASTELLAN

Miscellanea di matematica

Introduzione

Come ormai da diversi anni i quaderni ospitano in questo spazio una

illustrazione delle attività del laboratorio di ricerca matematica

dell’Orazio (l’iniziativa, inserita nel piano lauree scientifiche 2015 -

2016, si svolge in collaborazione con il dipartimento di matematica

dell’università di Tor Vergata). Gli studenti partecipanti, a partire dallo

scorso febbraio, hanno intrapreso un percorso di esplorazione

nell’ambito della teoria matematica giochi.

Il lavoro è ancora in corso. Il 16 giugno si è tenuto nella sede centrale

dell’istituto un breve workshop alla presenza della prof. Francesca

Tovena (coordinatrice del PLS dell’università di Tor Vergata) per fare

insieme il punto sulla ricerca.

A questo stadio del progetto non siamo ancora in grado di presentare

risultati in forma definitiva. Ci riserviamo di pubblicare un resoconto

dei lavori nel prossimo numero dei quaderni; tuttavia, convinti di fare

cosa gradita ai lettori dei quaderni, illustriamo lo spunto da cui ha preso

vita la nostra ricerca. Si tratta di un gioco che pur nella sua semplicità si

presta ad una serie di interessanti analisi e riflessioni teoriche: “il

chomp”.

Ne diamo qui una breve introduzione [1].

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IL CHOMP

Tutto comincia da una tavoletta di cioccolata con 4 × 5 quadratini, di

cui l’ultimo in basso a sinistra è contrassegnato: si tratta del quadratino

avvelenato.

Il gioco chiamato Chomp (il nome è stato inventato da Martin

Gardner in [2]) è la sfida tra due contendenti che devono, ad ogni mossa,

mangiare almeno un quadratino di cioccolato. Chi mangia il quadratino

avvelenato naturalmente perde; vince quindi chi obbliga l’avversario a

mangiare il veleno. La regola è che i giocatori hanno una bocca

rettangolare: volendo mangiare un certo quadratino, il giocatore

mangerà anche tutti quelli che si trovano più a destra e più in alto di

esso.

Per chiarire bene come funziona, proviamo a seguire una partita di

Chomp.

Il primo giocatore sceglie il quadratino che si trova nella terza

colonna da destra e nella seconda riga dall’alto e mangia 6 quadratini. Il

rettangolo del suo morso è quindi determinato dalla scelta del quadratino

in basso a sinistra.

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Il secondo giocatore risponde con una mossa in cui mangia due soli

quadratini:

infatti sceglie il quadratino nella seconda riga dal basso e nella seconda

colonna da destra, determinando così il “morso” rettangolare che è

tratteggiato nella figura. Questo morso ha l’effetto pratico di togliere i

due quadratini marcati in grigio - perché il resto era già stato mangiato

nella prima mossa.

Non riuscendo ad indovinare la strategia dell’avversario, il giocatore

che aveva cominciato la partita opta ora per una mossa drastica, nella

speranza di distruggere l’oscuro disegno dell’avversario: sceglie il

quadratino appena sopra quello avvelenato, e si fa un’inaudita quanto

discutibilmente salutare scorpacciata di ben 7 quadratini!

Ma ahimé! La golosità è spesso cattiva consigliera: non appena la sua

ingordigia si è placata, egli si accorge di avere in pratica regalato la

vittoria all’avversario. E infatti,

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mangiando tutta la cioccolata “sana” dell’ultima riga, il secondo

giocatore ha gioco facile nel costringere l’avversario ad affrontare la

dura realtà, sebbene a pancia piena, e a pentirsi di non aver riflettuto più

attentamente sulla ricerca delle mosse che lo avrebbero invece condotto

alla vittoria. (N.d.r: si può giocare al chomp utilizzando una delle varie

applet che si trovano in rete [2]).

Per non rischiare di finire anche noi un giorno nella sua stessa

situazione, vogliamo ora studiare il problema e cercare di scoprire qual è

il modo migliore per giocare a Chomp.

Una strada per provare a vincere potrebbe essere quella di studiare

una lista di tutte le mosse possibili: si potrebbero cioè scrivere tutte le

situazioni di gioco possibili, collegandole con delle frecce che indicano

da quale situazione a quale altra si può passare con una mossa valida.

Seguiremo questa idea, ma con quale spirito? Ci rendiamo conto che se

questo ci desse informazioni solo per il caso della tavoletta 4×5, non ci

soddisferebbe. Chiaramente il Chomp si può giocare con una tavoletta di

qualsiasi dimensione: ci piacerebbe dunque utilizzare gli esempi come

spunto per cercare, se possibile, di individuare qualche idea più

generale.

Cominciamo a porci alcune domande.

Il gioco è già segnato in partenza? Ovvero: si può mostrare che il

primo o il secondo giocatore può sempre vincere, se gioca in maniera

sufficientemente astuta?

Questa domanda naturalmente presuppone già la risposta, che nel

caso del Chomp sembra piuttosto evidente.

Il gioco finisce? Ovvero: possono crearsi situazioni dove si continua a

eseguire delle mosse senza mai approdare alla vittoria di uno dei

contendenti?

C’è anche un’altra questione che ci incuriosisce e che precisa quella

sulla finitezza del gioco. Chiamiamo configurazione del gioco una

forma che la tavoletta di cioccolata può assumere durante il gioco.

Quante sono le configurazioni possibili di un Chomp con n × m

quadratini?

Pur avendo, come si diceva, l’intenzione di trovare qualche regola

generale, ci conviene iniziare da un esempio piccolo: proviamo a

disegnare uno schema (detto grafo del gioco) che schematizzi il caso del

Chomp 2×3 (ci saranno 10 configurazioni possibili: una di esse è quella

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finale, che non disegniamo, dove tutta la tavoletta è stata mangiata – e

dunque uno dei due concorrenti, ahimè...).

Notiamo che, partendo dal basso, ossia dalla configurazione

banalmente perdente (nel Chomp è quella con solo il quadratino

avvelenato: chi se la trova davanti ha perso), abbiamo contrassegnato

una configurazione come vincente (V, in figura) o perdente (P) se chi

trova il gioco in quella configurazione e deve muovere ha una strategia

per vincere il gioco o no.

Questo fa nascere un sospetto. In principio, lo schema si può scrivere

per ogni Chomp, è vero tuttavia che le configurazioni si possono sempre

tutte contrassegnare come perdenti o vincenti a partire “dal fondo”,

come abbiamo fatto nell’esempio? Se così fosse, in ogni Chomp uno dei

due contendenti avrebbe a disposizione una strategia vincente. Infatti se

la posizione iniziale avesse una V, vorrebbe dire che il primo giocatore

vince, se invece avesse una P, vorrebbe dire che vince il secondo.

Visto che abbiamo un sospetto, non molliamo la presa. Supponiamo

che ciò che sospettiamo sia vero... quali altre conclusioni ne

seguirebbero? Da un sospetto, cosa può nascere? Beh, ne può nascere un

altro.

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Il primo giocatore, se gioca in modo sufficientemente scaltro, riesce

sempre a vincere?

Questo fin da subito appare un po’ più di un sospetto: ci pare di

intuire quale potrebbe essere un buon argomento per provarlo. Infatti il

primo giocatore ha a disposizione una mossa “speciale”: mangiare il

quadratino in alto a destra. Qualsiasi mossa il secondo riesca a fare

partendo da lì, avrebbe potuto esser eseguita già all’inizio dal primo

giocatore (dunque se il secondo giocatore avesse una buona mossa il

primo potrebbe precederlo facendola prima di lui: questo si chiama

argomento della “mossa rubata”). Quindi la posizione iniziale di un

Chomp dovrebbe venire sempre contrassegnata con una V.

[ …]

Conclusione

Il nostro lavoro, come dicevamo, parte dal Chomp e si pone come

obiettivo lo studio delle sue proprietà strutturali per arricchire (si spera)

il quadro delle conoscenze. A tale scopo sono state elaborate e

analizzate dagli allievi del laboratorio alcune interessanti varianti del

gioco di cui parleremo successivamente.

Ci lasciamo qui dando appuntamento ai nostri lettori al prossimo

numero dei quaderni dell’Orazio.

Maurizio Castellan

[email protected]

Bibliografia e sitografia

[1] http://www.dm.unipi.it/~gaiffi/papers/giochi.pdf

[2] Martin Gardner, Mathematical Games, Scientific American, Jan.

1973, pp.110-111.

[3] http://www.math.ucla.edu/~tom/Games/chomp.html

[4] Emanuele Delucchi, Giovanni Gaiffi, Ludovico Pernazza, Giochi e percorsi matematici, Springer

[5] https://it.wikipedia.org/wiki/Chomp

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