TESTIMONIANZE SUI CAMPI DI CONCENTRAMENTO · 2019-03-05 · TESTIMONIANZE SUI CAMPI DI...

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TESTIMONIANZE SUI CAMPI DI CONCENTRAMENTO UNA FUGA DA DACHAU L ’ingegnere Enrico Piccaluga, milanese, era ancora studente quando nel luglio 1944 fu arrestato con altri giovani che, in seno al gruppo libe - rale di Milano, agivano nella lotta clandestina, e fu rinchiuso nel carcere di S. Vittore. Dopo qualche tempo, portato al campo di smistamento di Bolzano, tentò qui di organizzare alcuni tentativi di fuga, destinati tutti a fallire uno dopo l’altro per circostanze fortuite. Intorno al 10 settembre viene trasferito dal carcere di Milano a BoL Zano un nuovo gruppo di prigionieri; fra questi si trovò Ermanno Bartei - lini, audace cospiratore della lotta antifascista fin dal lontano 1922, studio' so di problemi sociali, collaboratore di « Rivoluzione liberale » di Piero Gobetti e teorico autorevole delle dottrine socialiste. Come organizzatore del risorto partito Socialista italiano e rappresentante di esso nel C.L.N. di Lombardia, egli si era votato alla lotta clandestina fino all’estremo sacrificio. L’incontro con Ermanno Bartellini, al campo di Bolzano, fu di grande importanza per questo gruppo di giovani, subito attratti dal fascino della superiorità di lui, deliberato, anche m stato di prigionia, ad agire in qua' lunque modo e a ricorrere a qualunque mezzo pur di non lasciar sfuggire la benché minima possibilità che permettesse a lui e agli altri di ritornare alla lotta clandestina in Italia. Da questa folle e generosa speranza nacque il disegno di fuga da Dachau, che il Piccaluga rievoca in questa drammatica narrazione. La sorte salverà il compagno giovane, che aveva coraggiosamente se' guito colui che egli considerava, qual’era veramente, il maestro d’eroismo morale, come ci appare attraverso la testimonianza stessa delle pagine che seguono. Esse ci sono sembrate particolarmente importanti anche perchè con' tengono una serie di elementi atti a giudicare di certi quesiti difficili da risolvere, perchè ad essi di volta in volta si offrono contrastanti risposie. Fra tutti il più inquietante è quello in cui si pone il problema, se il popolo tedesco o ignorasse o consentisse, 0, almeno, non ignorando, tollerasse in' differentemente lo spettacolo dei crimini orrendi commessi contro l’urna' nità da infinite schiere di connazionali. Non è facile rispondere, per quanto non sia forse ancor noto fino a che punto un’estrema minoranza di tedeschi abbia coscientemente pagato per prima la sua opposizione morale alla ferocia annientatrice del nazismo.

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TESTIM ONIANZE SUI CAMPI DI CONCENTRAMENTO

U N A FUG A DA DACHAU

L ’ingegnere Enrico Piccaluga, m ilanese, era ancora studente quando nel luglio 1944 fu arrestato con altri g iovani che, in seno al gruppo lib e- rale d i M ilano, agivano nella lotta clandestina, e fu rinchiuso nel carcere di S. V ittore. Dopo qualche tem po, portato al campo di smistamento d i Bolzano, tentò q u i d i organizzare alcuni tentativi d i fuga, destinati tutti a fallire uno dopo l’altro per circostanze fortuite.

Intorno al 10 settem bre v ien e trasferito dal carcere d i M ilano a BoL Zano un nuovo gruppo d i prigion ieri; fra questi si trovò Erm anno Bartei- lin i, audace cospiratore della lotta antifascista fin dal lontano 19 2 2 , stu dio ' so d i problem i sociali, collaboratore d i « R ivoluzione liberale » di Piero G obetti e teorico autorevole delle dottrine socialiste. C om e organizzatore del risorto partito Socialista italiano e rappresentante d i esso nel C .L .N . di Lom bardia, egli si era votato alla lotta clandestina fino all’estremo sacrificio.

L ’incontro con Erm anno Bartellini, al campo di Bolzano, fu d i grande importanza per questo gruppo di g iovani, subito attratti dal fascino della superiorità d i lui, deliberato, anche m stato d i prigionia, ad agire in q u a ' lunque m odo e a ricorrere a qualunque mezzo pur d i non lasciar sfuggire la benché m inim a possibilità che perm ettesse a lui e agli altri d i ritornare alla lotta clandestina in Italia.

D a questa fo lle e generosa speranza nacque il disegno d i fu ga da Dachau, che il Piccaluga rievoca in questa drammatica narrazione.

La sorte salverà il com pagno giovane, che aveva coraggiosam ente se ' guito colui che egli considerava, qual’era veram ente, il maestro d ’eroismo morale, come ci appare attraverso la testimonianza stessa delle pagine che seguono.

Esse ci sono sem brate particolarm ente im portanti anche perchè con ' tengono una serie di elem enti atti a giudicare d i certi quesiti d iffic ili da risolvere, perchè ad essi d i volta in volta si offrono contrastanti risposie. Fra tutti il p iù inquietante è quello in cui si pone il problem a, se il popolo tedesco o ignorasse o consentisse, 0, alm eno, non ignorando, tollerasse in ' differentem ente lo spettacolo dei crim ini orrendi commessi contro l’urna' nità da infinite schiere d i connazionali.

N on è facile rispondere, per quanto non sia forse ancor noto fino a che punto un’ estrema minoranza d i tedeschi abbia coscientem ente pagato per prim a la sua opposizione morale alla ferocia annientatrice del nazismo.

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Una fuga da Dachau 41

C om unque, l’autore d i questo scritto ci dice d i s ì : i tedeschi sapevano e consentivano; m olte testim onianze dicono di sì; d i recente, come sap ' piam o, anche Lord Russell, nel libro « Il flagello della svastica » chiama i cittadini del Reich corresponsabili d i tanti orrori.

D opo quanto è stato narrato e docum entato, non pensiam o che ab- biano m aggiore autorità le voci che tendono ad alleggerire d i tanto peso la coscienza del popolo tedesco; il che non ci im pedisce, tuttavia, d i r ico ' noscere in alcuni casi isolati, la presenza v iv a ed operante dell’umana pietà.

U n testim one di tale superstite sentim ento, ci verrà incontro in queste pagine nella figura drammatica d i un prete bavarese. Il terrore renderà vano il generoso aiuto e quel baleno d i um anità si spegnerà presto n el- l’orrore e nella m orte.

Lasciamo, a questo punto, la parola al testim one sopravvissuto d i uno di quei dram m i, che sono entrati con tutto il loro terribile peso nella storia del nostro tem po. N ella prim a parte d i questa relazione il Piccaluga narra il suo arresto, il soggiorno nel carcere d i M ilano, il trasferim ento nel campo d i Bolzano ed infine i tentativi, subito frustrati, d i fu ga dal treno, che porta alla nuova destinazione verso l’ interno della Germ ania.

« U n esame obbiettivo della situazione ci diceva che era troppo tardi : buttarsi dal treno, che filava alla massima velocità nel cuore della Baviera, d o ve ogni abitante era sicuram ente un nem ico, pronto a fare la spia, ci appariva un suicidio inutile, soprattutto perchè non sapevam o ancora e non im m aginavam o quello che ci aspettava a Dachau ».

D opo un’altra estenuante giornata d i viaggio, ad una ferm ata del tre ' no, i prigionieri già disfatti leggono scritto sopra un cartello un n o m e:« Dachau ».

Da questo m om ento incom incia la docum entazione che qu i p u b b li' chiamo.

B. C.

** * Il

Il nome, fino dall’altra guerra, era già fin troppo famoso, perchè noi potessimo conservare ancora qualche illusione.

Breve marcia, ed infine, dopo un paio di cinte e di -posti di blocco, entriamo nel recinto del campo vero e proprio.

Veniamo riuniti su di un ampio piazzale; tira un vento gelido, e siamo tutti intirizziti.

Da allora, e per sette mesi, non sapremo più che cosa voglia dire avere caldo.

Si fa l’appello: ad ognuno viene assegnato un numero, che, da allora in poi, sarà il suo unico nome.

Piccaluga Enrico - 1 13447.Si spargono le prime voci preoccupanti : si dice che il nostro bagaglio

subirà una severa censura, ma si spera che almeno viveri, medicinali e vestiti vengano in parte lasciati.

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Enrico Piccaluga48

Dobbiamo conoscere i primi trucchi a nostre spese. Ai primi che pas­sano viene tolto tutto, tranne le sigarette ed i medicinali. Noi che se­guiamo, ci affrettiamo allora a nascondere gli altri generi che ci interes­sano, ed ai quali speriamo di far superare l’esame di tutto quanto portiamo con noi.

Seguendo le informazioni che riesco a raccogliere, io nascondo dei de­nari tra i medicinali e le sigarette, ma naturalmente, quando viene il mio turno, mi ritirano medicinali e sigarette e tutto il resto, lasciandomi sol­tanto un terzo circa delle mie scorte alimentari e mandandomi con questo, completamente nudo (tutti i nostri vestiti ci vengono ritirati) al bagno.

Sono le prime delusioni ed umiliazioni.Fummo completamente rasati in tutte le parti del corpo, e verniciati,

senza pietà, con un pennello da imbianchino, di creolina verdastra e bruciante.

Dopo la doccia, mi consegnano un paio di mutandine da donna, una camicietta tutta strappata, una giacca strettissima, un paio di calzoni a brandelli. E ’ la mia tenuta invernale. Da allora, sempre freddo, sempre tremanti e intirizziti.

Mentre siamo ancora sul piazzale, arriva un altro convoglio, prove­niente dalla Francia: sono partigiani dei Vosgi e dell’Épinal, uniti ad ostaggi prelevati indiscriminatamente dai villaggi francesi nei giorni della prima avanzata alleata dopo lo sbarco.

Erano digiuni da più di quattro giorni; noi ci privammo* volentieri di una parte dei nostri viveri residui per gettarli ad essi. Avemmo, però, in seguito modo di constatare che la riconoscenza non è una virtù del Lager.

Fu nel breve tratto fra il bagno ed il « blocco 25 » (nostra prima destinazione) che avemmo le prime fuggevoli impressioni di Dachau. Lunghe baracche allineate e numerate, chiuse da cancellate, lunghi viali percorsi da carri spinti da uomini rasati a zero, vestiti a strisce grige e bleu, carri carichi di bidoni vuoti, di vestiti laceri, e, come vedemmo più tardi ogni mattino, di cadaveri che andavano al crematorio. Proiettori po­tentissimi illuminavano tutta la cinta del campo, composta da un muraglie­ne interrotto dalle garitte delle sentinelle, da un ampio fossato colmo d’ac­qua e da una serie di fili percorsi da corrente ad alta tensione.

Arrivati al « blocco 25 », intirizziti e tremanti dal freddo, fummo la­sciati per un bel po’ all’esterno, d’innanzi all’entrata delle baracche. A chi, nella ricerca di un po’ di tepore, si accalcava vicino alla porta delle camerate, fu distribuita un’abbondante doccia gelata. Finalmente dopo una lunga attesa fummo incolonnati e ricevemmo la prima razione del Lager di Dachau: zuppa di rape. Per la prima volta non tutti riuscirono ad in­ghiottirla; imparammo dopo ad attenderla e desiderarla come la più de­liziosa delle leccornie.

Fummo fatti entrare. Fu il nostro primo contatto con i capi-blocco e con gli stubendisti russi e polacchi che aiutavano i capi-blocco a sbrigare i servizi del blocco. Non erano dei compagni di prigionia, ma i più feroci alleati delle SS che comandavano il campo.

Passammo la prima notte a Dachau tremando dal freddo. Fummo di­

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stribuiti in castelli a tre piani; tre persone nello spazio di una, il che, se non altro, serviva a scaldarci un poco.

I giorni seguenti li passammo davanti al blocco, imparando i segreti del « muro cinese » per difenderci dal freddo. Consisteva nell’appoggiarsi gli uni contro gli altri per trasmetterci un po’ del calore del corpo, ed oscillando ritmicamente tutti insieme a destra e a sinistra cercavamo di non intirizzirci neH’immobilità.

Non appena però i nostri aguzzini se ne accorgevano, erano docce gelate e un fuggi fuggi generale. Gli italiani già detenuti nel campo, coi quali avemmo i primi contatti ci avvertirono di tentare di evitare le par­tenze per i campi di lavoro alle dipendenze di Dachau, campi che, per le terribili condizioni di vita, erano chiamati « trasporti della morte ». Da essi era estremamente improbabile tornare.

Nel « blocco » vicino conoscemmo uno dei Garibaldi, mi pare che fosse Sante; con viva commozione parlammo con lui e con altri ufficiali italiani, suoi compagni di prigionia. Cominciammo ad abbandonare parec­chie illusioni, che si potesse finalmente scrivere e ricevere corrispondenza, che insomma il nostro trattamento si avvicinasse a quello che le Conven­zioni Internazionali prescrivevano e garantivano ai prigionieri.

Una mattina, dopo la solita sveglia a pugni e schiaffi, ci fu annun­ciata la visita medica. Cominciavano già a circolare le prime notizie sugli esperimenti che i medici del campo facevano sui prigionieri, e fu quindi con un certo batticuore che ci mettemmo in fila, nudi, in un blocco vicino al nostro, adibito ad infermeria. Sul freddo che faceva è ormai inutile insistere, sul tipo di cure che si impartivano in infermeria, può bastare questo esempio: trovammo sul viale prospiciente un uomo seminudo ac- cucciato in una nicchia del terreno per difendersi dal freddo : aveva pas­sato lì tutta la notte. Era un ammalato di polmonite in attesa della visita. La nostra visita fu una semplice formalità; ci dissero che per quaranta giorni i nuovi arrivati dovevano restare nei blocchi prima di poter essere assegnati ai lavori; in realtà la nostra quarantena durò poco più di dieci giorni.

La notte sentivamo gli echi dei terribili bombardamenti di Monaco. Durante gli allarmi il grande piazzale del campo veniva oscurato e veniva invece illuminato un campo di aviazione a pochi chilometri di distanza perchè i bombardieri alleati, scambiandolo col Lager, lo rispettassero.

Una volta fummo svegliati nel cuore della notte. Adunata nel piaz­zale del campo; venimmo caricati sui soliti carri bestiame e mandati a Monaco.

La stazione era stata colpita; poiché il treno ci aveva lasciato ad al­cuni chilometri dalla città, noi a piedi, attraversando l’abitato, ci recammo alla stazione.

Mentre in Italia, una colonna di prigionieri laceri e già macilenti, avrebbe destato nei passanti di qualsiasi nazionalità o colore politico fos­sero, un senso di diffusa pietà, potemmo invece constatare come il normale cittadino tedesco, l’uomo comune, che nel recarsi in ufficio incontrava la nostra colonna, fosse naturalmente spinto ad insultarci, sputarci addosso, minacciarci ed invocare su di noi ogni sorta di maltrattamenti.

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Eppure il nostro triangolo rosso denunciava chiaramente, anche ai passanti, che non eravamo delinquenti comuni ma prigionieri politici.

Alla stazione di Monaco lavoravamo tutto il giorno di picco e pala. Si sgombravano le macerie e si riattavano i tronchi di binario sinistrati. Alla fine del lavoro nuova marcia attraverso la città, nuovi insulti, sputi ecc.

Vedevamo moltissimi carri ferroviari e vagoni italiani, molti autobus di Monaco erano ancora targati Torino o Milano.

Ci faceva un’enorme impressione vedere i treni che forse, poche ore dopo, sarebbero stati al di là del Brennero nella nostra Italia. Ci stupiva come la presenza di un mondo già sconfinatamente lontano, il vedere ac­canto a noi nelle vie delle città svolgersi una vita pressoché normale. Uo'- mini non vestiti a zebra, non rasati a zero. Ci sembrava già quasi incre­dibile il constatare che esistevano ancora i caffè, i negozi, i fattorini cicli­sti, e dei bambini nelle carrozzelle.

Subimmo diversi allarmi, ed anche un bombardamento alla stazione di Monaco. Ero già talmente distaccato dal desiderio e dalle speranze di rimpatrio1, che sentire cadere le bombe vicino a noi, non mi dava altro che una immensa gioia per la vendetta che gli aerei alleati facevano sui nostri aguzzini.

Non dava la minima ombra alla mia gioia il pensare che la loro fine potesse essere anche la mia : ormai, forse, inconsciamente già scontata.

Alla sera, stanchissimi, dopo la solita marcia, venivamo di nuovo sti­pati nei vagoni, che con una marcia lentissima, tutta arresti e partenze, ci riportavano a Dachau.

Finivamo col dormire pochissimo, tre, quattro ore al massimo, ed al mattino la sveglia era già una terribile sofferenza.

Ciò malgrado, dovevamo alzarci sempre alle 4,30, per poi rimanere anche più di un’ora sul piazzale del campo, a testa nuda, rasata, natural­mente, esposti ad un vento gelido, in attesa che le SS venissero a fare il controllo del numero. Imparammo in questa occasione, perfino ad appiso­larci in piedi, appoggiati vicendevolmente alle spalle l’uno dell’altro.

Una sera, dopo circa una settimana di questo lavoro, al ritorno da Monaco, invece di venire rimandati al « blocco », fummo tenuti incolon­nati, ed infine rinchiusi nel salone dove avevamo' fatto la doccia al nostro arrivo. Sapevamo ormai che quello era il locale adibito anche a « camera gas », e fu quindi con timore, ed anche ormai con rassegnazione, che ci vedemmo rinchiusi là dentro.

Fummo fortunati : ci fecero subire una visita sommaria, ed i più validi di noi, furono prescelti per un trasporto di lavoro in un campo di­pendente da Dachau. Era il famoso « trasporto » che non potevamo evitare.

Gli altri, i non prescelti, furono mandati a Buchenwald, per la mag­gior parte, a lavorare, come venimmo a sapere poi, in una fabbrica.

Bartellini, Curradi, Barda, Tronci, Vecchio ed io fummo tra i pre­scelti per il trasporto. Due giorni dopo, ecco l’appello; fummo caricati su due camion, e la sera arrivammo a Miihldorf.

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Una fuga da Dachau 5»

Già durante il viaggio cominciammo a conoscere un uomo di grande valore spirituale e morale, che nel nuovo Lager ci sarà di grandissimo giovamento nei rapporti coi comandanti del lavoro.

E ’ un capitano inglese, paracadutato per missione in terra italiana, parla perfettamente la nostra lingua, e molte altre.

E ’ il cap. Barda, il suo vero nome però, come saprò ai mio ritorno dopo la Liberazione, è Sereni.

Al Lager di Miihldorf restiamo un giorno. Scelgono tra di noi alcuni tecnici e specialisti ed un interprete: tra essi Barda e Vecchio. Tutti gli altri vengono il giorno seguente trasferiti in un Lager più piccolo, detto « Wald Lager » (perchè situato in mezzo ad un bosco) ad una diecina di chilometri da Miihldorf.

Nel « Wald Lager » le baracche erano sostituite da tende circolari, che difendevano molto discutibilmente dalle intemperie.

Non c’erano nè letti, nè brande, e neppure pagliericci; un mucchio di fieno doveva servire per gli ospiti di tutta una tenda.

Anche questo Lager era abitato esclusivamente da ebrei.Noi eravamo gli unici cattolici; vedemmo bambini e vecchi cadenti.

Tutti avevano un aspetto esausto e stremato.Ci colpì la mancanza di uomini in età matura.Il giorno dopo iniziammo il lavoro col turno diurno. Ci recammo ad

un cantiere che distava 3 0 4 km. dal Lager. Ma, più che la distanza, quello che ci affaticava enormemente era la condizione del sentiero che dovevamo percorrere. Tutto fango viscido quando pioveva, ed appicci- coso quando era sereno; su di esso era già una impresa tenere l’equilibrio coi nostri zoccoloni di legno.

Si aggiungano le continue vessazioni delle SS di scorta, che ci spingevano innanzi letteralmente a bastonate. La marcia aveva un ritmo così affannoso che, soprattutto se si era verso il fondo della colonna, era un continuo susseguirsi di corse e di arresti per stare sempre più attaccati, il più vicino possibile al compagno che precedeva.

Essere distanti da chi ci stava innanzi, quel minimo di spazio che poteva garantire di non pestargli i piedi, voleva dire ricevere continue bastonate e colpi nelle reni col calcio del fucile.

A volte le SS si divertivano a lanciarci addosso, forse per tenerli un po’ in esercizio, i cani poliziotti di scorta.

Se qualcuno cadeva durante la marcia, nessuno se ne curava. Pur di evitare le bastonate, gli altri gli camminavano sopra, per non disunire la colonna; e molti cadevano tutti i giorni sfiniti per la debolezza, o già morti per gli stenti.

A questo scopo la colonna era chiusa da quattro barelle di legno, sulle quali venivano caricati i cadaveri di quelli che non resistevano alla marcia.

Agli ultimi della colonna, che erano quasi sempre i più deboli, toc­cava così anche il sovraccarico dei corpi dei compagni morti.

Da qui nuova selezione e nuovi caduti. Gente che fin dal principio del cammino, si vedeva che non si reggeva più in piedi, veniva lo stesso

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spinta avanti, quasi a viva forza, nell’evidente scopo di eliminarla, senza fastidi.

Si giungeva sul lavoro : che consisteva in questo : si stava costruendo un gigantesco edificio sotterraneo, chi diceva una fabbrica, chi un aero­porto, e noi eravamo addetti a rifornire di cemento la macchina per fab­bricare il calcestruzzo.

Si lavorava quindi per dodici ore al giorno, letteralmente soffocati da una nuvola di cemento, che rendeva l’aria irrespirabile e che ci rovinava i polmoni. A mezzogiorno c’era mezz’ora di sosta per smettere, fare mezzo chilometro di corsa, per avere poco più di mezzo litro di quell’acqua calda, che era chiamata « bunker suppen »; indi ritorno a tutta velocità, be­vendo la zuppa lungo il cammino, perchè bisognava essere di nuovo al posto di lavoro, prima che suonasse la sirena della ripresa.

Più di una volta, quando ero molto stanco, rinunciavo alla lotta per la zuppa; per poter usufruire realmente della mezz’ora di riposo.

Durante il lavoro gli ordini erano dati raramente a voce, quasi sempre a bastonate.

Talvolta il mescolatore del calcestruzzo si inceppava, ed occorreva una diecina di minuti prima che si potesse riprendere il lavoro. Ma anche du­rante quella sosta i capi del Todt ci erano sopra implacabilmente, perchè nessuno ne approfittasse per riprendere fiato.

Se anche al momento non c’era nulla da fare, noi dovevamo lo stesso salire il piano inclinato col nostro carico di sacchi di cemento, e non po­tendolo scaricare nel mescolatore, dovevamo ridiscendere con lo stesso carico fino in fondo al piano inclinato, per poi ricominciare l’inutile salita.

Nella baracca di fianco (eravamo divisi in due gruppi) il numero dei lavoratori era eccessivo rispetto al lavoro che c’era da fare, ma guai a colui che fosse sorpreso in un atteggiamento che non fosse più che affaccendato: dovesse anche soltanto ammucchiare il cemento, per poi spargerlo e su­bito dopo riunirlo di nuovo in un mucchio.

Quando la gettata era finita, si lavorava solo io ore invece di 12, ma allora dovevamo stare due ore impalati in fila ad aspettare che finissero il lavoro quelli del turno completo, al gelo, come sempre, sotto l’acqua, la neve, tra una fanghiglia alta due palmi.

Era quasi meglio lavorare due ore di più, perchè allora, almeno nel momento in cui si gettava il cemento nel mescolatore, si restava al coperto per qualche momento, senza contare che, per ingannare quelle due ore di attesa, i nostri capi spesso facevano severe riviste al vestiario, per scoprire se qualcuno aveva indumenti in più del prescritto, o se si era fatto un giubbetto coi sacchetti di carta del cemento, oppure si era fasciato il busto con una delle coperte del campo.

Io ricorsi a tutti questi espedienti, ma riuscii quasi sempre ad evitare le punizioni che erano naturalmente molto severe.

A capo del nostro gruppo fu nominato il capitano Possega. Si diceva che fosse appartenuto alle SS italiane e che fosse stato deportato per reati comuni. In questa funzione si mostrò molto duro, e assolutamente incomprensivo.

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Con l’esterno neppure il minimo contatto, e della guerra più nessuna notizia.

Un giorno, al ritorno dal lavoro, ci obbligarono a stare in fila. Ci fé- cero entrare a turno in uno sgabuzzino chiamato bagno, fummo spogliati, e ci furono tolti tutti quegli indumenti che erano ancora in buono stato. Indi di nuovo in colonna : molti ridotti semi nudi e quelli rimasti scalzi furono caricati su un carretto; così ritornammo al Lager di Mùhldorf.

Seppimo poi che tre italiani, fra quelli rimasti a Mùhldorf, erano fuggiti, e che il comando del Lager, in seguito a ciò, aveva preso la de­cisione di tenere tutti gli italiani riuniti sotto una sorveglianza speciale, con l’ordine di particolare severità, e con trattamento oltremodo rigido.

Pochi giorni dopo i tre fuggitivi ricomparvero al Lager, stremati dalle vessazioni cui erano stati sottoposti dopo la cattura. Essi furono condotti in giro per il cantiere, perchè tutti li vedessero, con appeso al collo un cartello recante la scritta in tedesco; « Io sono di nuovo qui ».

Nel nostro nuovo campo ritrovammo Barda e Vecchio.Barda si era fatto valere come interprete: in questa funzione si era

dimostrato di un’altissima nobiltà di animo, disinteresse e spirito di sacri­ficio. Valendosi della sua conoscenza delle lingue, aveva organizzato una prima rete di informazioni, ed aveva migliorato di molto i rapporti degli italiani con i francesi e i greci, dimostrando loro come buona parte di noi fossero stati deportati proprio perchè antifascisti.

Vecchio invece, che era stato scelto come specialista elettricista, ebbe la fortuna (se così si può chiamare), di cadere da un palo; il primo giorno di lavoro e di essere ricoverato nell’infermeria del campo (Rewier) per quasi un mese.

Ivi ebbe modo di godere di un trattamento particolarmente favore­vole da parte dei dottori ungheresi che sovraintendevano l’infermeria. Ebbe pure modo di fare la conoscenza, che si dimostrò per lui preziosa, di un capo, cioè di uno di quegli anziani del Lager, di solito prigionieri tedeschi per reati comuni, condannati a vita, che sul lavoro erano pressocchè onni­potenti, e che così ebbe modo di aiutarlo in molte occasioni.

Dopo un primo periodo di comprensibile diffidenza e prevenzione, Vecchio strinse con lui, se non proprio una amicizia, certo una specie di alleanza. Si chiamava capo Billi, si era ribellato ad una SS, era stato pic­chiato a sangue e, guarito; fu mandato, per punizione, al « cemento » cioè a dirigere il nostro lavoro.

Il lavoro del nuovo campo era lo stesso che nel precedente, ma si svolgeva in un’altra baracca dello stesso colossale cantiere.

Il vitto era un po’ più scarso, ma in compenso era meno infernale il cammino che portava al lavoro.

Questa volta si percorreva un sentiero abbastanza ampio, il quale, se asciutto, permetteva una marcia, forzata sì, ma marcia, in luogo dell’esa­sperante susseguirsi di corse affannose e di arresti subitanei, che ci sfian­cavano letteralmente prima ancora dell’inizio del lavoro.

Vi era, peraltro, disciplina ancora più severa, sia nel campo che sul lavoro.

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Ci fece piacere, d’altra parte, tornare al Lager di Miihldorf, perchè il « Wald Lager », così isolato, nel cuore di una boscaglia, dove non c’era anima viva, abitato, noi esclusi, soltanto da ebrei destinati indubbiamente all’eliminazione, ci dava quasi la certezza che in caso di un precipitare degli avvenimenti militari e politici, sarebbe stato liquidato dalle SS di scorta con poche sventagliate di mitra.

Il capitano Barda accondiscese a prestarsi come nostro comandante ed a servire di collegamento coi capi tedeschi sul lavoro.

In questa funzione egli si confermò uomo di grandissimo valore mo­rale; col suo tatto e colla forza della sua personalità seppe giovarci in mille continue occasioni, rendendo il lavoro più razionale, facendoci lavo­rare quando la macchina domandava di essere rifornita (risparmiandoci le bastonate dei capi), ma riuscendo anche a tenerci « imboscati » con mille espedienti non appena il lavoro lo permetteva.

Purtroppo, dopo un paio di settimane Barda, insieme con un compa­gno, arrestato insieme con lui, fu chiamato dalle SS, e partì « senZfl coperte ». Non ne sapemmo più nulla.

Trapelò la voce che fosse stato richiamato a Dachau per una riaper­tura della sua pratica, ma probabilmente fu impiccato.

Intanto ci veniva ripetuto in tutte le lingue che i tre fuggitivi ripresi poco tempo prima erano stati anch’essi impiccati a Dachau.

La fuga dei tre nostri compagni, ma più ancora la partenza del ca­pitano Barda, ebbe gravissime ripercussioni su di noi. Mancammo comple­tamente di notizie dall’esterno e ci trovammo sul lavoro senza l’aiuto delle capacita direttive, organizzative, ed anche diplomatiche del capitano. Ci mancò, inoltre, l’uomo che ci dava quotidianamente quelle intelligenti pa­role di incoraggiamento, che erano indispensabili per evitare il nostro col­lasso morale.

Anche al Lager di Miihldorf, il lavoro si svolgeva press’a poco nelle stesse condizioni che nel « Wald Lager ».

Inquadrati dalle SS noi giungevamo nel cantiere, detto « Baustelle » dove venivamo dati in consegna ai Master della Todt, agli ordini dei quali noi restavamo per tutta la giornata lavorativa.

Questo però non era un vantaggio, perchè anch’essi si dimostrarono degni dei loro compatrioti in uniforme militare, ed in gara con essi per crudeltà e ferocia.

Il lavoro, pur essendo lo stesso, ci sembrava diventare ogni giorno più gravoso. In realtà erano le forze che ci abbandonavano a poco a poco.

Alla sera i sacchi di cemento sembravano diventati di piombo, e le dita delle mani non riuscivano più ad afferrarli.

Eppure, se a qualcuno sfuggiva un sacco e cadeva in terra, subito i Master gli erano sopra a bastonate urlando al sabotaggio e picchiando con un gusto di sadica ferocia.

Nei cantieri lavoravano anche i liberi lavoratori italiani, in gran parte prigionieri militari, che avevano optato per il lavoro « libero ».

Durante la giornata ci accadeva qualche volta di incontrarne qualcuno:

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noi chiedevamo notizie della guerra, dell’Italia, e tentavamo di mandare qualche notizia a casa tramite loro.

Ma se ci sorprendevano a parlare con essi, erano guai per noi e perloro.

Ci vedevamo così sfuggiti anche da loro, tranne da qualcuno che, per eccezione, si commuoveva delle nostre condizioni e tentava di aiutarci, di farci coraggio con qualche ottimistica notizia sulla guerra.

Qualcuno ebbe da loro un po’ di tabacco, che poi al Lager scambia- vano con qualche pezzo di pane o con qualche razione di margarina.

Per tutto il giorno poi, il nostro pensiero era fisso all’ora del ritorno al campo, e soprattutto all’ora della distribuzione del rancio.

Durante il cammino attraverso il bosco incontravamo la fila dei fran­cesi, che andavano al cantiere per il turno della notte. Le due lunghe teo­rie di fiaccole si incrociavano, e noi domandavamo : in quante persone è stato diviso il filone di pane di questa sera?

Gli echi della foresta risuonavano di domande e risposte: « Boule en quatre » ci gridavano i francesi, essi che ricevevano la razione prima del lavoro. Era festa allora, e noi anticipavamo il nostro pasto con la fantasia per calmare i morsi della fame.

Ma nel bosco, tra le due fiaccolate, si sentiva anche gridare: « Boule en six, boule en huit » (e per i malati era « boule en neuf »). Allora il pasto non bastava neppure a far tacere i morsi della fame per pochi minuti.

Figuriamoci poi per le interminabili 24 ore per le quali esso doveva bastare.

Noi italiani fummo quasi sempre assegnati al turno diurno, per timore dei nostri tentativi di fuga.

Era una fortuna, perchè il turno di notte logorava maggiormente il fìsico.

Dopo un mese di quella vita, i francesi cominciarono a morire come mosche; più di noi italiani, che in principio resistemmo maggiormente.

I francesi morivano, ma cantavano. Ricordo sempre gli echi della fo­resta che rimandavano il canto che si alzava da quella fiaccolata, quasi ir­reale : « O Magdelon ». Era una scena indicibilmente impressionante vedere quella lunga fila di morituri che si avviavano verso la loro fine cantando « O Magdelon », tra la luce rossastra che le torcie gettavano sugli abeti del bosco.

Gli ebrei sul lavoro rappresentavano una continua instancabile ricerca di tutti i modi per dare il minimo rendimento : essi, per la loro anzianità di prigionia, erano ormai maestri della vita del Lager.

Mille piccole astuzie quotidiane permettevano loro di resistere meglio di noi, talvolta troppo ingenui.

Vi erano tra essi nientemeno che dei sopravvissuti ai campi della Po­lonia, dell’Ungheria e della Grecia.

Ogni giorno che passava sentivamo le nostre forze diminuire : ed ormai erano ben pochi quelli che speravano in un ritorno in patria : i

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morti aumentavano inesorabilmente, per gli stenti, le polmoniti, e soprat­tutto per la dissenteria.

In questo periodo Bartellini ed io avemmo per qualche giorno febbre abbastanza alta: che, unita alle medicazioni di alcuni ascessi sulle mani, ci procurò alcuni giorni di riposo.

Poiché io ero riuscito ad entrare nelle buone grazie del capo-blocco, un vecchio ungherese non cattivo, ma tremendamente pauroso delle SS, quando potei farmi dare il sospirato Schonung per due giorni, il capo blocco organizzò le cose in modo che non venissi scelto fra le squadre dei malati che andavano a disotterrare le patate nei campi, ma tra gli addetti al lavoro del campo per fare pulizia alla nostra baracca.

Cosicché, oltre aH'immenso vantaggio di lavorare nel « blocco », fi­niti i lavori, avevo anche la possibilità di rimanere a sua disposizione, in modo da usufruire di qualche mezz’ora di riposo.

Intanto ero riuscito a farmi amici due medici dell’infermeria, ai quali, non sapendo come spiegarmi, mi ero rivolto parlando in latino, e che, me­ravigliati di questo, avevano voluto sapere qualche cosa di più, di me.

Erano diventati abbastanza cordiali, e non mi lasciarono mancare il mio Schonung quotidiano, avvolgendo, per ingannare eventuali superfi­ciali controlli, i miei non gravi ascessi alle mani in gigantesche fasciature di carta.

Dopo di me anche due carissimi amici, Ermanno Bartellini e il tenente Mario D’Annibale (Franco), entrarono nelle simpatie del capo blocco e dei medici.

Con un altro prigioniero, Bruno Scazzola, essi, fino dal «Wald Lager», avevano tentato di organizzare una fuga, mettendosi a contatto con un lavoratore civile che avrebbe dovuto preparare il necessario.

La partenza improvvisa dal « Wald Lager » aveva fatto fallire i loro preparativi, ma essi ora stavano preparandosi per ritentare l’impresa.

Mi associai a loro nel prendere tale decisione, non tanto perchè avessi fiducia nell’esito del loro tentativo, quanto perchè vedevo avvicinarsi il giorno in cui, guarito dagli ascessi, non avrei più potuto stare nel campo, e sapevo che avrei resistito ben poco, se avessi ripreso il lavoro al cemento.

Scazzola e D’Annibale, forse avevano realmente fiducia nel tentativo: Bartellini lo voleva intraprendere, soprattutto perchè sentiva come dovere assoluto quello di fare il possibile per tornare in Italia in tempo per por­tare un valido contributo alla lotta di Liberazione.

Il capitano Barda e Bartellini furono le sole persone, tra quante in­contrate nel Lager, che, anche in quelle situazioni ormai disperate, conser­vassero una così assoluta purezza di sentimenti e di ideali.

Bartellini era ancor più ammirevole in un ambiente che aveva ormai a sua unica norma di vita, il principio dell’« homo homini lupus », quello del naufrago a cui vengano a mancare anche gli ultimi appoggi.

Per qualche settimana, dunque, intanto che il progetto maturava e si avvicinava alla sua realizzazione, il solo problema per noi quattro, fu quello di ottenere lo Schonung e di non farci mandare a disotterrare patate, ten­tando così in ogni maniera di approfittare della posizione relativamente

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Una fuga da Dachau 57

privilegiata in cui ci trovavamo1, al fine di raccogliere le energie necessarie per tentare la fuga.

Ogni due domeniche, nel Lager, ci veniva concessa una giornata di festa, nella quale non andavamo1 al lavoro al « Baustelle ».

Era però un riposo relativo; anzi quelle giornate erano da noi molto temute, non tanto per i lavori straordinari che ci facevano fare nei din- torni del campo (dissotterrare patate, o scaricare carbone al vicino campo di Aviazione), quanto perchè in quei giorni si svolgevano i controlli dei comandanti del campo.

Dovevamo spogliarci all’aperto, battere i nostri vestiti, e passare un nuovo esame, che non era quasi mai positivo. Allora nuove bastonate, e così via, fin che il capo-campo ne aveva voglia.

Altra cosa severamente proibita era avere degli indumenti in più di quelli ammessi dalle SS. Noi invece, quando portavamo gli abiti alla di- sinfezione, cercavamo di ritirare quelli disinfettati, senza consegnare gli altri, onde poterci difendere maggiormente dal freddo, con una doppia dotazione di indumenti.

Se però venivamo scoperti, eravamo sottoposti a durissime punizioni. Lo stesso succedeva se i nostri capi ci sorprendevano con indosso dei giub­botti fatti con la carta dei sacchi di cemento: punizioni ancora più gravi se qualcuno veniva sorpreso col corpo fasciato dalle coperte che c’erano in baracca.

Ciò malgrado, ricorremmo a tutti questi espedienti, giocando d’astu­zia per non farci sorprendere: rischiando volentieri le punizioni, pur di poterci difendere un po’ da quel gelo mortale che il clima della Baviera, ed il nostro stato di denutrizione ci avevano messo addosso.

C’era il controllo dell’ordine e della pulizia delle baracche, c’era la distribuzione del sapone (sapone che si diceva fosse un sotto-prodotto del crematorio del Lager), e c'era soprattutto il controllo della pulizia nostra e dei nostri abiti.

Tutti questi controlli erano in fondo semplici pretesti per infierire su di noi : a turno dovevamo recarci a fare il bagno. Il bagno, freddo, all’a­perto od in una tenda gelata, era una delle sofferenze più terribili.

Come potevamo resistere nudi, bagnati, con quella temperatura, e nel nostro stato di debolezza era una cosa veramente inspiegabile.

Gli stenti e la dissenteria mietevano più che mai le loro vittime tra di noi.

Tronci si ammalò di polmonite, ma riuscì a farsi ricoverare in in­fermeria, ed a superare la crisi più grave.

Lo potei vedere: era impressionante per la magrezza e gli occhi lu­cidi di febbre, che sembravano diventati enormi nel viso scheletrico. « Ho fame, Enrico, portami qualche cosa da mangiare », mi disse la sera che andai a trovarlo.

Era demoralizzato, piangeva, diceva di avere freddo e fame.All’entrata in infermeria gli avevano tolto tutti i vestiti, ed era là

nudo, febbricitante, con una sola coperta per coprirsi.

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58 Enrico Piccaluga

A metà dicembre, da 120 circa, eravamo ormai ridotti a poco più di una quarantina.

Tutti i giorni qualcuno veniva portato all’infermeria, e non se ne sa' peva più nulla.

Qualcun aitro, alla mattina, all’ora della sveglia, non si alzava più.Altri cadevano sul lavoro, o durante la durissima marcia per andare

al cantiere.I loro corpi venivano caricati su un carretto, portati in una località

del bosco, dove in un piccolo spiazzo c’erano una gran fossa comune, ed un piccolo fabbricato, adibito a crematorio.

Là veniva tolto ai corpi tutto quanto potesse interessare alle SS. Ad uno di noi, tale Boris Cocozza, che accompagnò il cadavere del fratello, e che chiese gli fossero consegnati i denti d’oro del morto, fu risposto: « requisiti dallo Stato ».

Giunse Natale, accompagnato vagamente da qualche sensazione o ri- cordo che questo nome poteva ancora risvegliare in noi.

Passammo la mattina caricando carbone, il pomeriggio fummo lasciati liberi di restare in baracca, forse per meditare sulla miseria di quello che sembrava proprio dovesse essere il nostro ultimo Natale.

Alla sera Bartellini ci riunì, e ci rivolse alcune parole semplici e com­moventi, in cui ci ricordò la casa, la famiglia, e ci incoraggiò ad avere fidu­cia in noi e nella nostra Patria.

Speravamo di trovare qualche traccia della festività nella razione, ma per colmo d’irrisione essa fu ancora più scarsa degli altri giorni.

Due o tre patate, un mestolo di crauti.Da qualche tempo ai francesi cominciavano ad arrivare i pacchi della

Croce Rossa; era per noi una vera sofferenza vederli mangiare i viveri con­tenuti nei loro « colis ».

Le loro sigarette diventarono la moneta di scambio per i piccoli traf­fici del Lager, eppure malgrado questo, la loro mortalità aumentava sem­pre più in modo veramente impressionante.

Coll’arrivo dei « colis » avemmo ancora una volta la conferma che i francesi avevano ormai dimenticato che un giorno, appena giunti a Da­chau, in condizioni opposte, noi avevamo gettato parte dei nostri viveri a loro che, affamati, ce li chiedevano.

Due giorni dopo Natale, durante l’appello, il Lager Ältester ordinò che tutti coloro che sapevano suonare qualche strumento si presentassero la sera nella Schreib-Stube per farsi provare.

Voleva organizzare un complesso di suonatori, anche ridotto, che po­tesse rallegrare le lunghe serate invernali a lui ed alle SS.

Poiché sapevo suonare la fisarmonica vi andai, e fui prescelto insieme con un mandolinista ebreo per formare così un primo nucleo.

Accettai, perchè mi ripromettevo molti vantaggi da questo incarico: il giorno dopo, infatti, per ordine del Lager Ältester ebbi modo di fare un bel bagno, di rasarmi, cambiare tutti gli indumenti, ne ebbi di nuovi, di più pesanti, mentre l’infermiere capo, un famoso dottore di Budapest,

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Una fuga da Dachau 59

ebbe l’incarico di fasciarmi con la massima cura le piaghe che avevo sulle mani, perchè fossi in grado di suonare col minimo dolore.

Il Lager Ältester mi disse che da allora in poi sarei sempre stato in Schreib-Stube con lui a suonare tutto il giorno, e, come ben esperimentai nei giorni successivi, ciò voleva dire non solo al caldo, ed al coperto, ma anche avere supplementi di viveri.

Con Bartellini, Scazzola e D’Annibale, la fuga era stata stabilita per il 2 gennaio. Io mi trovavo così in preda a mille dubbi perchè non sapevo se, nella mia nuova posizione privilegiata, un’evasione alla disperata fosse ancora giustificata, soprattutto per me, che non nutrivo nessuna illusione sul buon esito della fuga.

A Capodanno dovetti suonare tutto il giorno per i capi. Alla sera il Lager Ältester fece il giro dei blocchi accompagnato dal mandolinista e da me per portare ai capi-blocco l’augurio per il nuovo anno. Ricordo in una visione da incubo, viva come se fosse di un momento fa, la faccia di un prigioniero che destato nel sonno dalle note di « Rosamunda » si mise a ballare, sul pagliericcio, al terzo piano del « castello », nudo e scheletrico a un punto tale che, col gioco delle ombre della lampada a petrolio, sem­brava proprio una macabra, incredibile danza di uno scheletro ridestatosi dalla morte. Poi, di un colpo, come si era alzato, mentre ancora io suonavo « Rosamunda », crollò sul pagliericcio, di schianto. Quando tornai dopo mezzanotte, quando tutti già dormivano, trovai D’Annibale di guardia vicino alla stufa.

Mi consigliai con lui : gli dissi, che, pur essendo mutata la mia situa­zione, non intendevo ritirarmi da un impegno ormai preso, facendogli però rilevare che la mia situazione nel campo era molto mutata, e che traevo parecchi vantaggi dal mio nuovo lavoro. La necessità di una fuga alla di­sperata era per me molto meno impellente.

Esponendo a lui ed a Bartellini la mia situazione, li resi arbitri della medesima, invitandoli a decidere se potevano o meno sciogliermi dal­l’impegno.

Si consigliarono anche con Scazzola, ma considerando che la mia as­senza avrebbe compromesso l’organizzazione della evasione, mi dissero : « Vieni anche tu; fra due giorni ».

Lo considerai un segno del destino e mi preparai a lasciare il tepore della baracca dei capi per le strade ghiacciate della Baviera.

Due giorni dopo, alla mattina, dopo l’appello, quando si formarono le squadre del lavoro, invece di andare nella baracca dei capi, mi frammi­schiai, insieme agli altri tre, coi lavoratori di un « Comando » che aveva l’incarico di procurare la legna occorrente alle SS ed ai capi, tagliandola in un bosco limitrofo ai cantieri.

Avevamo scelto questo posto di lavoro per il tentativo di fuga, per­chè esso ci permetteva libertà di movimenti, dato che il bosco limitava considerevolmente le possibilità di controllo da parte del capo.

A mezzogiorno ebbi un colloquio con il lavoratore civile che doveva fuggire con noi. Tutto era preparato; alle 17, quando si sarebbero dovuti trasportare i fasci di legna sul sentiero del ritorno, fu per noi facile eludere

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6o Enrico Piccaluga

la prima sorveglianza del capo, e nasconderci in una macchia adiacente, dove avevamo collocati gli abiti borghesi che il lavoratore civile ci aveva procurato; li indossammo al di sopra della zebra, e coi berretti coprimmo le nostre teste rasate e segnate dalla « strasse ».

Tutto andò bene, e anche la seconda parte del piano, la più perico- Iosa, quella per cui dovevamo passare sotto il controllo delle sentinelle, insieme coi gruppi dei lavoratori civili che ritornavano al loro Lager (che era a qualche chilometro di distanza) passò felicemente.

Ci trovammo infine, dopo due ore di cammino, all’uscita del bosco, e attraversata una linea ferroviaria, superammo definitivamente la zona più strettamente sorvegliata.

Eravamo già stanchi ed affamati, ma, dopo tanto tempo potevamo finalmente godere la gioia di respirare un’aria meno pesante, non limitata da alcun reticolato, nè infestata dalla presenza delle SS.

Dopo una breve sosta, ripigliammo la marcia, e, dopo avere attraver­sato due paesini addormentati, giungemmo stanchissimi in un fienile che era il nostro primo obbiettivo, per quella notte.

Ci seppellimmo nel fieno, purtroppo umido, e riuscimmo a riposare un po’, malgrado i mille disegni e progetti che turbinavano nei nostri cervelli.

All’indomani, consiglio di guerra. Si ventilavano due tesi: il lavora­tore civile proponeva di andare a pigliare il treno e di arrischiarsi in fer­rovia fino a Rosenheim dove si sarebbe visto il da farsi, anche secondo gli aiuti che avremmo potuto avere da diverse persone che conosceva, tra cui, diceva, il Vescovo.

Noi invece, che temevamo grandemente un viaggio in treno, dato che eravamo senza documenti, ed in una tenuta che, anche a prima vista, poteva destare pericolose curiosità, propendevamo per un piano più sbri­gativo, ma più ardito : assaltare una macchina, la prima che passasse, e con essa spingerci il più possibile verso il Tarvisio che si pensava di vali­care, appoggiandoci soprattutto ai parroci dei paesi.

Si stabilì, intanto che si discutevano le due tesi, di ripigliar fiato per un giorno o due, stando in quel fienile, anche per esaurire la prima bat­tuta di ricerche, che sarebbe partita dal Lager alla nostra caccia.

Il civile, che poteva circolare liberamente, perchè si era procurato, prima di fuggire, due giorni di permesso che gli permettevano di avere un certo respiro prima che la sua fuga fosse scoperta, andò in paese a procu­rarci un po’ di pane e a raccogliere informazioni sui treni e sulle strade, che potevano riuscirci utili. Noi, in sua assenza, passavamo interminabili ore di angoscia, vagliando tutte le prospettive e tutte le possibilità.

Alla fine del secondo giorno, il lavoratore civile, viste le nostre inde­cisioni nei riguardi del da farsi, ci salutò e se ne andò per i fatti suoi a prendere il treno per Rosenheim abbandonandoci nel fienile, demoralizzati, intirizziti ed affamati, senza sapere a che santo votarci; intanto il conge­lamento incominciava a paralizzarci gli arti.

Ci mettemmo pazientemente con i nostri coltelli a raschiare i cap­potti, che avevano sulle spalle una croce fatta col minio, segno del depor­

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Una fuga da Dachau 6i

tato politico, perchè almeno uno di noi, potesse uscire a considerare dal di fuori la nostra situazione e le nostre possibilità.

Scazzola e Bartellini riuscirono a dare al loro cappotto un aspetto quasi civile, e decisero di recarsi nel paese adiacente (Krajburg) e chiedere aiuto al parroco, al quale però si era già rivolto il nostro compagno lavo- ratore civile prima della sua defezione, per raccogliere quel po’ di viveri che ci aveva portato.

D’Annibale ed io restammo nel fienile, sempre più intirizziti e sempre più paralizzati dal freddo, rimuginando gli interrogativi, a cui non pote- vamo dare risposta.

Riuscirà Bartellini ad attraversare il paese, senza destare sospetti? Il curato non ci tradirà, ed acconsentirà ancora ad aiutarci? Tutta la nostra sorte dipendeva da questo, ed era tormentoso passare delle ore, che sem­bravano eterne, in questi dubbi.

Tutto il giorno trascorse, ed i due non tornavano: i peggiori sospetti ci sconvolgevano la mente : ormai era buio, e nessuno si vedeva : comin­ciammo a pensare di uscire in qualsiasi maniera. Saremmo andati allo sbaraglio, perchè qualsiasi sorte sarebbe stata migliore di quella di morire assiderati in un angolo di fienile, senza contare poi che se Scazzola e Bar- teliini fossero stati presi, anche noi saremmo stati ricercati nelle immediate vicinanze, pur ammettendo che essi avessero sopportato un interrogatorio senza rivelare il nostro nascondiglio.

Finalmente ecco un passo sulla neve: due, sono loro.Mangiamo, ci riposiamo un po’, indi facciamo un nuovo consiglio. In

tutto questo tempo non era passata neanche una macchina di cui potessimo tentare di impadronirci. La strada sembra abbandonata dagli automezzi. Alla mattina presto solo un furgoncino del latte fa sentire la sua voce an­simante. Ci pensiamo, ma non ci dà affidamento, soprattutto per la velo­cità ridottissima e la riserva di benzina, che supponiamo scarsa.

Eppure urge una decisione. Stabiliamo di recarci a piedi, a tappe, fino a Altenmarkt, ad una cinquantina di Km. di distanza. E lì finalmente, rag­giunta la provinciale dove si presume che ci sia un certo traffico, aspettare e scegliere la macchina che ci sembra più adatta a fare il colpo1.

Siamo in quattro, e non dovrebbe essere difficile. Uno si butterà in terra, fingendosi svenuto, gli altri tre fermeranno la macchina col pretesto di chiedere un passaggio per il compagno infortunato, ed una volta dentro dovrebbe essere abbastanza facile ridurre all’impotenza l’autista ed i suoi eventuali compagni.

Bisogna stringere i tempi, e non fermarci oltre in quel fienile, dove lo spirito si prostra in un’attesa snervante, ed il corpo in una inazione che minaccia di degenerare in congelamento.

La mattina dopo, verso le nove ci muoviamo, D’Annibale ed io ci de­cidiamo a fare un’ultima incursione dal parroco per poterci rifocillare, e per poter avere consigli sulla strada da tenere fino ad Altenmarkt.

Attraversare l’abitato per noi, che abbiamo ancora la croce sulle spalle, ed in particolare per me che ho i calzoni a zebra che mi spuntano dal cap­potto, è molto difficile e pericoloso. Ma tutto si svolge bene. Il parroco ci

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Enrico Piccaluga62

accoglie ancora una volta: sa di arrischiare la vita, ma non ha il coraggio di chiuderci la porta in faccia. Entriamo : una cioccolata bollente dopo cin que giorni di gelo nel fienile ci fa rivivere, visto poi che io mi reggevo in piedi a fatica per un principio di congelamento, il parroco mi fa salire nella sua camera, e sedere accanto alla stufa.

Mi porta un unguento per massaggiare il piede infortunato, ha per noi cure così delicate ed affettuose da far venire le lacrime agli occhi, a noi che da mesi eravamo abituati a sentire soltanto le urla bestiali dei nostri aguzzini.

Fu la giornata della carità cristiana. Mandata in libertà la donna di servizio, contro il parere della sorella, che abitava con lui, e che era lette' Talmente terrorizzata per il rischio cui il fratello si esponeva, quel caro curato si dedicò completamente a noi.

Ci sembrò quasi di vivere in un sogno, nel ritrovarci in una camera così accogliente e morbida, che mostrava in ogni suo particolare quell’u ' manissima ricerca del bello e dell’armonia, che noi avevamo del tutto di' menticato nella lotta quotidiana della vita di prigioniero.

Unica nube nel nostro conforto era pensare che Bartellini e Scazzcia erano là nel fienile, al gelo, ad aspettarci.

Ma d’altra parte, prima di sera, non era possibile arrischiarsi ad uscire dalla casa del curato.

Le ore volavano, mentre io facevo massaggi al piede, e D’Annibaie fu- mava delle sigarette speciali, che il curato aveva pescato nella scatola ri- servata alle grandi occasioni.

Al giungere delle ombre, ci preparammo a raggiungere i compagni per intraprendere la nuova marcia.

Quand’ecco che sentiamo dei passi : sono loro. Ci abbracciano pian- gendo; ci avevano aspettato per tutto il giorno in preda ai peggiori dubbi, ed allo scendere della sera avevano deciso di venire a vedere che cosa era successo di noi.

Ristorati che furono anch’essi, decidemmo di chiedere al curato di tenerci in casa sua anche tutto il giorno seguente, per riprendere le forze necessarie alle marcie che ci attendevano. Io che, essendo il più malandate, avevo avuto dal nostro protettore manifestazioni di particolare simpatia, fui incaricato di tentare di commuoverlo.

Faccio l'impossibile, ma non ottengo nulla.Egli teme non tanto per se, quanto per la sorella. Sa bene infatti che

per entrambi, se vengono scoperti, c’è il campo di eliminazione, senza con- tare che la mattina seguente rientrerà la domestica, e diventerà impossibile celarle la nostra presenza.

Ciò nonostante, il duello spirituale nel cuore di quel bravo uomo è violentissimo. Seduto davanti al tavolo, con la testa fra le mani, restò muto per lungo tempo. Infine, con le lacrime agli occhi, ci chiese perdono di dover rifiutare: non per riguardo alla sua persona, come tale, ma in quanto egli ha la responsabilità della sorella e di tutta la sua parrocchia.

Decidiamo allora che dopo esserci riposati fino all’una, ci rimetteremo in marcia per Peterchirken, un paese ad una quindicina di chilometri di

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Una juga da Dachau è i

distanza. Là giunti, il parroco ci lasciò capire che forse avremmo potuto trovare aiuto presso il parroco del luogo.

Partiti dopo mezzanotte, verso le cinque giungemmo a Peterkirchen. li parroco stava celebrando la Messa; noi avremmo voluto attenderlo nei pressi della chiesa, ma in quattro davamo troppo nell’occhio ai già nume- rosi passanti che si recavano al lavoro.

Ci separammo; D ’Annibale ed io ci allontanammo in direzione della casa del curato, che era una fattoria fuori dell’abitato, mentre Bartellini, che parlava tedesco, insieme con Scazzola, entrò in chiesa per cercare di parlare con lui quando avesse terminata la funzione.

Si faceva chiaro, e la nostra situazione diveniva sempre più perico­losa, perchè alla luce del giorno i nostri abiti non reggevano neppure ad una occhiata superficiale.

Infine ecco Bartellini con Scazzola. Hanno parlato col parroco, che sembra ben disposto, ma non vuole correre rischi.

Nella sua fattoria lavorano troppe persone che non saprebbero tenere la lingua a posto. Però, se andiamo alla sua casa, qualcosa di caldo per ri­storarci non mancherà di sicuro.

Siamo scoraggiati: potremo anche restare un’ora in casa sua, ma dopo che cosa faremo sulla strada, in pieno giorno?

L ’ambiente in casa del parroco è patriarcale : una fila di nipoti di tutte le età, una cucina grandissima, moderna e linda come uno specchio. Tre uomini che ci osservano con curiosità e con nostro grande batticuore. Uno di essi è della Todt, ma gli altri due sono « liberi lavoratori francesi ». Una servetta graziosa e gentile ci fa sedere attorno ad un tavolo, su cui ci butta con noncuranza due filoni di pane, ed uno scodellone di caffè e latte. Non crediamo ai nostri occhi: ma ci riscaldiamo e ci rifocilliamo all’inaspettato festino.

Vorremmo poi aspettare che il parroco torni dalla chiesa per tentare di patrocinare ancora la nostra causa, ma non sappiamo quanto bisognerà attendere. Certo che è una vera gioia per i nostri occhi lo spettacolo di quella cucina, da cui sembra irradiare un profumo di benessere, e di armonia.

Attacchiamo discorso con i due francesi per sondare un po’ che tipi sono: buoni ragazzi, ai quali, dopo mezz’ora di conversazione, decidiamo di scoprire le nostre batterie. Ci confessiamo come evasi, e ci consigliamo con essi, più pratici del luogo e dell’ambiente, per decidere sul comporta­mento da tenersi.

Dicono che col parroco non c’è niente da fare : buon uomo, ma troppo pauroso.

Inoltre la nostra presenza è già stata segnalata in paese, e v ’è quasi certezza che venga qualche gendarme a constatare che cosa c’è di vero nelle voci che cominciano a circolare.

Ci offrono un consiglio ed un aiuto : ci potranno nascondere nel fie­nile per tutta la giornata in attesa della notte. Là ci riposeremo, ci scalde­remo al tepore della stalla sottostante, sul fieno che è perfettamente asciutto.

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64 Enrico Piccaluga

Ci troveranno loro qualche cosa da mangiare, e cercheranno di prcrv- vedere anche a me, che non posso quasi più marciare per il congelamento al piede sinistro.

Seguimmo il loro consiglio: più tardi, mentre noi eravamo già na­scosti nel fienile, essi parlarono al curato, ed ottennero da lui alcuni viveri e qualcosa di caldo che ci ristorò notevolmente.

Per me trovarono un paio di zoccoli aperti, dato che i miei piedi si erano gonfiati al punto da non entrare più nelle scarpe; all’una di notte ci mettemmo in marcia.

Nevicava abbondantemente: la campagna era tutta bianca, della strada non si vedeva assolutamente più nulla:

« Seguite i fili del telegrafo — ci consigliò uno dei due francesi — buona fortuna! ».

In marcia, ancora, ma io ormai mi trascinavo a mala pena: zoppi­cavo sempre più. Dissi agli altri di andare avanti, che io mi sarei arrangiato da solo. Ma per tutta risposta essi rallentarono un po’ la marcia.

Dopo sette od otto chilometri attraversammo un piccolo abitato. Pro­prio nell’istante in cui noi passavamo davanti ad una casa, la porta si aprì, e ne uscirono tre guardie armate della Feldgendarmerie. Scazzola e D’An­nibaie, che camminavano davanti, vennero bloccati per primi, Bartellini ed io seguivamo ad una diecina di metri. Non c’è più niente da fare: siamo talmente stremati, che non possiamo neppure pensare ad una resi­stenza. Controllo dei documenti che non abbiamo; l’unico pensiero che mi attraversa la mente è che, se mi mettono in una cella, potrò finalmente riposare un po’.

Ci portano nella casa, ci interrogano, scoprono che sotto gli abiti bor­ghesi abbiamo la zebra del forzato, ed allora, avendo capito con chi hanno a che fare, ci malmenano alquanto, e ci mettono di nuovo in marcia.

Io non ce la faccio quasi più, tanto che uno dei due che ci accompa­gnano, ordina ai miei compagni di sostenermi a turno. Marcia tremenda, con un piede tutto sanguinante, con la neve che aveva ripreso a cadere, col rimorso di pesare ancora di più sui compagni che dovevano essere an- ch’essi all’estremo della resistenza.

Come Dio volle, alle quattro giungemmo a Trostberg, nostra meta; là vi è un altro campo di concentramento ed è a quel campo che noi ve­niamo consegnati. Per l’interrogatorio ci vengono ritirati gli abiti bor­ghesi e parte di quelli del Lager. Ad un tratto suona la campana della sveglia: è il momento buono per dare un bell’esempio a tutti gli internati. I prigionieri vengono riuniti nella baracca principale ad ammirarci, per vedere come si riducono quelli che vogliono scappare, indi arriva il Lager Ältester col solito nerbo di caucciù e comincia la solita cura di bastonate. Venticinque nerbate a Scazzola e Bartellini, cinquanta a D’Annibaie ed a me. Senza nemmeno farci ripigliare fiato ci mettono sulla piazza dell’appello immobili sotto la neve, con le braccia levate in alto ad aspettare che le squadre di lavoro lascino' il Lager. Dopo che le squadre dei lavoratori ebbe­ro lasciato il Lager, ci fu assegnato l’incarico di spazzare a ritmo di corsa tutta la piazza dell’appello dalla neve che continuava a cadere. Terminato

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questo lavoro, ci fanno fare la così detta « ginnastica » ; noi dobbiamo cor- rere ininterrottamente in su e in giù per il Lager e intorno al piazzale e fare vari esercizi a corpo libero che ricordano stranamente la ginnastica scola- stica della nostra infanzia. Di tutta quella giornata ricordo ancora l’attimo in cui vicino alle cucine riuscimmo a rubare qualche briciola di tepore alla canna fumaria delle cucine stesse, prima che se ne accorgessero i nostri aguzzini. A sera siamo disfatti, al punto che ci ricoverano in infermeria per metterci in condizioni di riprendere il tormento il giorno seguente. Mi medicano un po’ i piedi che fra piaghe e congelamento sono in uno stato da far paura. Uno dei medici è un ex compagno di S. Vittore di cui non ricordo più il nome. Ci organizza qualche cosa da mangiare, un pa­gliericcio e ci promette di fare l’impossibile per intercedere presso il Lager Ältester a nostro favore. La mattina dopo si ricomincia: appello a braccia in alto e ginnastica : poi siamo inviati in un angolo del campo a scavare buche nella terra gelata. Il gelo ci fa addirittura diventare furibondi, ten­tiamo in tutte le maniere di reagire lavorando furiosamente col piccone che ci sfugge dalle mani gelate, fino a cadere esausti ed ansanti. Ma il freddo è troppo forte. Bartellini per primo rinuncia a tentare di reagire e si raggomitola su se stesso per fare tesoro di quell’ultimo calore che gli resta nel corpo, rinunciando a tentare di scaldarsi nel lavoro, tra le be­stemmie del soldato della SS che ci sorvegliava dalla vicina garritta. Gli occhi piangono per il freddo, il fiato si congela nell’aria e ferma crosta di ghiaccio intorno alle labbra. Avevo da poco anch’io rinunciato a scaldarmi, quando giunge uno a dirci che per ordine del Lager Ältester, eravamo ri­coverati nell’infermeria. Il nostro dottore aveva mantenuto la promessa. Entriamo nell’infermeria che non potevamo pronunciar parola, agitati da un tremito nervoso in tutte le membra, tremito che si calmò soltanto dopo qualche ora di caldo intorno ad una stufa rovente, e di massaggi alle parti che erano già diventate insensibili.

Restammo a Trostberg fino alla mattina seguente; nel frattempo il nostro dottore fece l’impossibile per rimetterci in condizioni meno penose, procurandoci qualche cosa da mangiare e fasciando le nostre numerose piaghe, sia quelle ai piedi per le marce forzate, che quelle provocate dalle bastonate.

Al mattino seguente vennero due gendarmi della Feldgendarmerie di Mühldorf a prelevarci per riportarci al Lager. Fummo legati a due a due con delle manette così strette da torturarci i polsi e accompagnati alla stazione. In treno fino a Mühldorf. Ci fece molta impressione di trovarci in treno fra la gente libera che ci guardava come dei lebbrosi o delin­quenti. Vedere gli aspetti ormai dimenticati della vita normale: una donna con due bambini, un impiegato, il controllore, tutte cose che ci risveglia­vano i ricordi di una vita libera e che per noi erano ormai ammantati da un alone di fiaba.

Dalla stazione di Mühldorf al Lager c’erano circa sei chilometri che dovevamo fare a piedi. Appena usciti dall’abitato i gendarmi che ci ac­compagnavano diventarono delle vere e proprie belve. Quei sei chilometri di marcia sono uno dei più tremendi ricordi di quel periodo. Uno col cal­cio del fucile, l’altro col bastone, i nostri guardiani cominciarono a pie-

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chiarci, perchè non camminavamo abbastanza in fretta. Ci misero in fiia a coppie, due davanti e due dietro e continuamente incitavano 1 due dietro picchiandoli sulla testa e sulle orecchie gelate perchè non marcia­vano abbastanza vicino a quelli davanti, fino a che tutti e quattro non ca­devamo in un solo mucchio bastonato senza pietà dai nostri aguzzini. Al­lora si cambiava. I due dietro passavano davanti e la storia ricominciava in una corsa affannosa che ci sembrava non dovesse finire mai più.

Come Dio volle giungemmo al Lager, dove anche se la torturante marcia aveva avuto termine, dovevamo per contro attenderci nuovi sup­plizi, se non la fucilazione immediata secondo quello che ci avevano mille volte promesso.

Ancora una volta fummo messi presso l’ingresso ad aspettare le squa­dre che tornavano dal lavoro, per dare l’ennesimo esempio di come si ri­ducono quelli che tentavano la fuga. Fino a notte restammo là fuori. Venne poi il Rapport Fuhrer a farci qualche domanda e a burlarsi particolarmente di me che « potevo stare al caldo a suonare la fisarmonica ».

Ma ci vide talmente disfatti che dopo la rituale promessa di una pros­sima impiccagione non ebbe il coraggio di infierire maggiormente, ma anzi ci portò un po’ di zuppa calda, quella delle SS, per rimetterci in vita. Infine fummo chiusi nel Bunker, dove, oltre ad un freddo che doveva ag­girarsi sui 30 gradi sotto zero, dovevamo stare tutti e quattro su di un tavolaccio che era già stretto per una sola persona.

11 Bunker era confinante con la baracca dei nostri compagni. Pic­chiando sulla parete riuscimmo a richiamare la loro attenzione ed a metter­ci in comunicazione con essi e ad avere qualche notizia su quanto era suc­cesso dopo la nostra fuga.

Quattro giorni restammo nel Bunker, paralizzati dal freddo, stremati dai trattamenti subiti e senza neppure più la forza di reagire e di pensare a quello che poteva aspettarci.

Perdevamo un po’ alla volta ogni sensibilità psichica e fisica e sarem­mo certamente morti congelati, se al quarto giorno le SS non fossero ve­nuti ad aprire per tirarci fuori.

Non potevamo più neppure stare in piedi, le gambe e tutte le membra rifiutavano anche il più leggero sforzo. Per fortuna era una giornata fredda sì, ma serena e c’era anche un sole che ci sembrò una benedizione. Un ufficiale della Wehrmacht ci ordinò di correre lungo il viale principale del campo, inseguendoci con un bastone per farci muovere, dato che ogni passo ci costava uno sforzo enorme.

Penso che fossimo ormai ridotti in uno stato così pietoso che persino lui non volle infierire su di noi, ed ho ancora oggi vivo il ricordo di lui che ci inseguiva per bastonarci, ma che, come per caso, non ci colpiva quasi mai. Nonostante le sofferenze, questa ginnastica, probabilmente, giovò enormemente a ridare un po’ di calore al nostro corpo.

Il pomeriggio fummo chiamati nell’ufficio delle SS. Appena fui en­trato, una scarpa lanciata da un soldato mi colpì in pieno viso.

Fummo introdotti nell’ufficio, ed interrogati da un ufficiale venuto da Dachau. Dell’interrogatorio ricordo soltanto una cosa : nella stanza vi­

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cina c’era una radio accesa: dopo una infinità di tempo, era la prima volta che sentivo ancora della musica.

Alla sera fummo mandati nej blocco degli altri italiani; fu emozio- nante rivedere i nostri compagni: ci sembrava un secolo da quando era­vamo fuggiti, ed era passata poco più che una settimana. Apprendemmo che la sera della nostra fuga, al primo controllo che si faceva appena ter­minato il lavoro, non appena le SS si resero conto delia nostra evasione, cominciò anche per i nostri compagni un trattamento particolarmente se­vero: appelli a non finire e durissimi controlli sul lavoro; gli italiani fu­rono tolti ai lavori più facili e meno controllati, e furono contrassegnati da una striscia, rasata a zero in mezzo ai capelli.

Vidi Ermanno Tronci che da due giorni era ritornato dalPinfermeria, dopo avere superato una grave polmonite; vidi Vecchio, Corradi e gli altri, che ci guardavano un po’ come dei redivivi e un po’ come dei mo­rituri.

Anche i capi vennero a vederci, e a irriderci : « Siete scappati troppo presto — dicevano — con la neve non c’è niente da fare ».

La mattina dopo, quando i nostri compagni partirono per il lavoro, fummo rinchiusi ancora nel Bunker. Verso le sette fummo chiamati an­cora una volta.

Il camion ci attende; ritorniamo a Dachau. Se evitiamo l’impicca­gione, dato che non abbiamo commesso rapine durante la fuga, può darsi che il cambiamento non sia un male.

In ogni caso ci sembra che nulla potrà essere peggiore di quello che abbiamo passato.

Erano circa le nove del mattino, quando giungemmo a Dachau : ci appesero al collo il solito cartello, con la scritta in tedesco : « Io sono di nuovo qui », e fummo messi in piedi, di fianco al portone d’ingresso, in mostra.

Un alto ufficiale del Lager, ogni tanto si affacciava ad una finestra del vicino comando, per vedere se eravamo sufficientemente composti, e per sorvegliare che non ci appoggiassimo tra di noi, per aiutare le gambe, che ormai rifiutavano di sostenerci.

Bartellini ed io eravamo in preda ad un tremito nervoso per il freddo, che ci agitava tutto il corpo.

Le mani si rifiutavano completamente di servire: tanto che a metà della giornata, avendo dovuto sbottonarmi gli abiti per una necessità, non riuscii più ad allacciarmi, e dovetti stare fino a sera con gli abiti scomposti ed aperti, che esponevano la pelle nuda al morso del gelo, senza che le mie dita riuscissero più ad accomodarli.

Fino a tarda sera ci lasciarono là, completamente inebetiti. Infine ven­ne un capo, che ci accompagnò ad un famoso « blocco 27 », IV Stube, dove c’era la così detta « compagnia di punizione » (Straf kompagnie).

Compagnia di punizione, in un campo di eliminazione, come Dachau, ce n’era abbastanza per demolire gli avanzi del nostro morale, ma per noi sembrò quasi una liberazione, dopo quello che avevamo passato. Tanto più

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in quanto ci fu risparmiata quella, che, come vedemmo poi, era Tacco- glienza normale per i nuovi venuti.

Quando giungeva un nuovo punito nel blocco, era accompagnato dal Lager Ältester. Dopo averlo preso in forza il Block Ältester, si divertiva un po’ con lui: si svolgeva allora nel blocco una caccia selvaggia tra il Block Ältester che, armato di uno scudiscio, rincorreva e fustigava la vit­tima, ed il prigioniero che, urlando, correva qua e là, tentando di sottrarsi alla grandine di colpi che gli pioveva addosso in ogni parte del corpo, mentre tutti gli altri prigionieri fuggivano urlando da un lato all’altro della camerata, per scansare i colpi che grandinavano da ogni parte.

Il blocco di punizione fu la tomba dei miei tre compagni: Scazzola per primo, dopo pochi giorni di « Straf kompagnie », cedette alle vessa­zioni ed agli stenti; una polmonite fulminante lo uccise in due giorni. Dopo di lui, prima D’Annibale e poi anche Bartellini, stremati dalle sevizie, morirono a pochi giorni dalla liberazione del campo.

Darò soltanto qualche breve, pallido esempio della vita nel blocco. Più volte al giorno, secondo Tumore del capo-blocco, si svolgevano lun­ghi appelli all’aperto per controllare la forza, o, più probabilmente, per poter tenere le vittime immobili sotto qualsiasi tempo, senza cappotto, e spesso, come dirò, senza camicia nè mutande.

Si doveva dormire completamente nudi, anche perchè, durante il sonno, gli stubendisti, in gran parte russi, solevano compiere in un’altra stanza accurate riviste ai nostri abiti, per cercare se v ’era qualche cosa da portare via.

Entravamo dunque nudi nella camerata, dove la sera si toglievano quasi tutte le finestre. Avevamo in dotazione una coperta, spesso strac­ciata e rimpicciolita ancor più da abusive mutilazioni, ogni tre persone.

Dopo una notte passata tremando dal freddo, di rado dormendo, alle quattro e mezzo c’era la sveglia. Nuovo controllo per verificare che, sem­pre nudi, tutti andassero a lavarsi accuratamente.

11 « controllo » consegnava una contromarca che serviva per ritirare il rancio a mezzogiorno.

Poi acqua tiepida, chiamata pomposamente « caffè ». Indi fuori per l’appello, e per aspettare che gli stubendisti finissero la pulizia della baracca.

Per difenderci dal gelo, quando eravamo all’aperto, avevamo come unica difesa il già descritto « muro cinese », ma non appena i nostri aguz­zini se ne accorsero, lo proibirono con minacce di severissime punizioni.

Due volte al giorno c’era il controllo dei pidocchi, « loise controlle », durante il quale tutti noi dovevamo sfilare ad uno ad uno davanti ad una commissione composta dal capo'-blocco e dagli stubendisti, che control­lavano se ci fosse qualche pidocchio nei vestiti e sulla pelle.

Almeno un pidocchio era sempre trovato, perchè gli abiti che ci consegnavano, anche quelli che tornavano dalla disinfezione, ne erano pieni, e ci era fatto divieto di toglierceli, perchè solo alle « Autorità » era permesso di cercarli, e quando li trovavano, ritiravano la biancheria al malcapitato, che per alcuni giorni doveva farne a meno, col freddo che

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faceva : era poi inviato al bagno a lavarsi con l’acqua gelata, per poi ri- presentarsi ancora bagnato agli esaminatori, che giudicavano, a loro giu- dizio, se l’abluzione era stata sufficiente, o no.

Una volta a me fecero ripetere il lavaggio per sette volte, in un giorno in cui ero febbricitante, e quindi non potevo dimostrare un suffi­ciente entusiasmo per una pulizia fatta in quelle condizioni. Il Block Ai- tester della Straf kompagnie si diceva fosse un delinquente comune tede­sco, condannato all’ergastolo. Alto, zoppo, col viso improntato ad una espressione feroce, era famoso in tutto il Lager pei la sua ferocia.

A lui, infatti, le SS affidavano i condannati in attesa di giudizio, ed in genere i prigionieri puniti.

Noi ex-fuggitivi eravamo usati solo per i lavori nel recinto del campo, scelti fra quelli particolarmente difficili o pesanti, sotto capi che erano delle vere bestie feroci.

Particolare nostro contrassegno era quello di cerchi rossi in campo bianco: che tenevamo cuciti sulla divisa: uno sul petto, uno sulla schiena, e due sulle ginocchia, il che permetteva ai nostri aguzzini di distinguerci anche da lontano, e di prepararci quindi un trattamento adeguato.

I capelli erano rasati a zero una volta alla settimana, gli italiani ed i russi poi, per supplemento di sfregio, avevano una riga che andava dalla fronte alla nuca, tracciata col rasoio, detta « strasse ».

Ci era fatto divieto di possedere persino un fazzoletto, ed anche alle nostre tasche venivano fatti periodici controlli, nei quali esse dovevano risultare perfettamente vuote.

Pochi giorni dopo il nostro ritorno a Dachau, io riuscii a farmi rico­verare in infermeria, per curare un congelamento al piede destro, che, guarendo, diede luogo ad un edema abbastanza forte, la prima di nume­rose malattie, che mi accompagnarono quasi ininterrottamente fino alla Liberazione.

Al mio primo ritorno al « blocco 27 » ritrovai D’Annibaie e Bartellini. Erano, se possibile, ancora più deperiti; Bartellini risentiva ormai anche moralmente dell’estrema decadenza fisica in cui eravamo ridotti.

Ero appunto ricoverato, quando scoppiò la tremenda epidemia di tifo che, mi dissero, fece nel Lager diecine di migliaia di morti.

In breve, tutto il campo fu un gigantesco lazzaretto, dove i prigio­nieri morivano come mosche.

In alcuni blocchi la mortalità raggiunse una percentuale anche del- P85 - 90%.

Tutto questo periodo è avvolto nella mia memoria in una spessa nube che non è facile a diradarsi.

Ero ridotto all’estremo delle forze: mi ammalai anch’io di tifo, ma verso la metà di aprile superai la crisi più pericolosa. Di tifo non morivo più, ma le forze erano all’estremo. Non potevo neanche voltarmi sul letto per i miei bisogni : per scendere dal giaciglio impiegavo delle intere mez­z’ore riunendo tutte le forze per riuscire a compiere quei pochi movi­menti; per mangiare, un compagno polacco mi aiutava, imboccandomi let­teralmente. Il cuore era spossato dagli alti e bassi della febbre: avevo il

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7 ° Enrico Piccaluga

corpo pieno di ascessi grossi e piccoli, alcuni dei quali molto dolorosi. Vedevo avvicinarsi il momento in cui, cessata la febbre, mi avrebbero ri­mandato al blocco di punizione. Là mi aspettava il giudizio e l’impicca­gione, come per tutti gli ex-fuggitivi, ma in ogni caso, in quelle condizio­ni, non avrei potuto resistere più di una settimana, alla vita del blocco di punizione.

Un telegramma in data 14 aprile giunse al comando del campo: « Di resa, non se ne parla, bisogna subito evacuare il campo : nessun prigio­niero deve cadere vivo in mano al nemico: i prigionieri di Buchenwald si sono comportati ferocemente colla popolazione civile ».

In data 17 aprile altro telegramma: «Evacuare il Lager: l’inferme- ria resta : liquidare tutti ». Un primo scaglione di russi, circa 2.000, fu incolonnato, e dopo qualche ora di marcia, in una boscaglia, eliminato a raffiche di mitraglia.

La sera dopo fu la volta degli italiani : un forte scaglione fu adunato nella piazza dell’appello, pronto per partire. Un’acquazzone costrinse le SS a ritardare la partenza di qualche ora: fu la salvezza. Mezz’ora dopo l’eliminazione era impossibile. La lotta era ormai vicinissima: a pochi chi­lometri dal Lager si svolse una violenta battaglia; gli Americani dovet­tero combattere fino alle porte del campo, dove c’era un treno blindato.

Nel mio letto di infermeria io non sapevo niente: da mesi non avevo più nemmeno la più vaga notizia della guerra, e non sapevo neppure se gli Americani avessero varcato il Reno.

Cominciammo a sperare, per quanto grande fosse il timore di illu­derci: ad un tratto udimmo le prime cannonate avvicinarsi rapidamente. Ci avrebbero lasciati vivi i tedeschi, oppure, come già si cominciava a sussurrare, non avrebbero eliminato i sani, e bruciato vivo il Rewier?

La sera dopo, alle 18 circa, sentii sparare ai bordi del Lager, vidi gruppi di prigionieri correre urlando verso il muro di cinta: sonnecchiavo, ma, pur nell’intontimento della mia debolezza capii che erano arrivati.

Aiutato da un compagno, mi voltai su un fianco: mi asciugai una la­crima, e ripresi a dormire.

E n r ic o P ic c a l u g a