Polipo n.2 2012

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WELCOME TO POLITECNICO OF Direttore Bruno Carvelli | Codirettori Marco Lezzi, Davide Settoni | Progetto grafico Filippo Pellini, Matteo Pozzi, Giulia Volonté | Redattori Caronte, Tommaso Colombo, Lorenzo Frangi, Lorenzo Frisoni, Natale Irrera, Luigi Laera, Luca Lupi, Andrea Montanaro, Davide Settoni, Stefano Sabatini, Michele Zanetti | Ringraziamenti Paolo Androni, Matteo Caccialanza, Marta Carrara, Andrea Dell’Orto, Virgilio Ferroni, Anna Frigerio, Mariastella Lucchini, Giacomo Mandelli, Claudio Signorelli, Livia Tosi, Turo e coloro che hanno collaborato a realizzare il sondaggio tentacoli di giudizio NUMERO Anno VI Giugno 2012 I primi corsi di laurea in lingua inglese sono arrivati in Italia nel 2001 e in poco tempo si sono espansi a macchia d’olio. Al punto che recentemente anche il Senato Accademico del Politecnico ha deciso di adottare esclusivamen- te la lingua franca per le lauree ma- gistrali. Il pretesto è molto sempli- ce: sbaragliare il luogo comune che da sempre considera il popolo del Bel Paese a digiuno di inglese, al fine di rilanciare i giovani laureati su un mercato sempre più interna- zionale. Dunque benvenuta inter- nazionalizzazione? Un momento. Perché dietro questo slogan così alla moda si nascondono alcuni in- terrogativi che il populismo di cui si imbevono i rettori non riesce a soddisfare. Questo numero di Poli- po cercherà di rispondere ad alcuni dubbi legittimi che un cambiamen- to così drastico può apportare alla didattica. In poche parole: siamo sicuri che questo principio, pur no- bile a livello ideale, possa miglio- rare il percorso formativo di ogni studente? Mossi da queste domande, è partito un lavoro lungo, faticoso ma anche molto ambizioso, che ini- zia con le pagine di questo secondo numero di Polipo 2012, che presen- ta, oltre all’intervista al magnifi- co rettore, prof. Giovanni Azzone, (pag. 2) un sondaggio che ha coin- volto tutti voi (pag. 4). Con que- INTERVISTA AL RETTORE Pag. 2-3 I RISULTATI DEL SONDAGGIO Pag. 4-5 ERASMUS: UNA COSA SERIA? Pag. 8 Lauree magistrali in inglese Esperienze all’estero Lauree magistrali in inglese sto speriamo che il dibattito non si esaurisca in una semplice contrap- posizione tra inglese sì e inglese no, o che passi attraverso qualche verbale di infinite riunioni accade- miche, ma abbiamo cercato di capi- re quali siano le vere esigenze degli studenti. Siamo andati a raccogliere esperienze e testimonianze di chi ha già vissuto in prima persona l’insegnamento in lingua inglese (pag. 6), per capire cosa signifi- ca concretamente insegnare e stu- diare in un’altra lingua e se questo comporti effettivamente un declino della didattica come tutti temiamo. Infatti quello che ci interessa non è soltanto un’università che si limiti ad un passaggio di lingua in forza di un’ideale internazionaliz- zazione, vogliamo che l’università abbia come primo obiettivo quello di offrir la miglior formazione pos- sibile. Dunque un’internazionalizza- zione come strumento intelligente per migliorare e aggiornare la di- dattica dove è necessario. Insomma non si tratta solo di rafforzare la conoscenza di una lingua che in Italia è decisamente approssimativa, ma di riaffermare l’esigenza di una formazione solida per ogni singolo studente. Per que- sto, l’inglese sia il benvenuto. Ma non solo. Perché a fronte di costru- ire ponti, o case, o automobili, il saper chiacchierare lungo le avenue americane è ben poca cosa. O no?

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il secondo numero di polipo del 2012

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Page 1: Polipo n.2 2012

WELCOMETO POLITECNICO OF

Direttore Bruno Carvelli | Codirettori Marco Lezzi, Davide Settoni | Progetto grafico Filippo Pellini, Matteo Pozzi, Giulia Volonté | Redattori Caronte, Tommaso Colombo, Lorenzo Frangi, Lorenzo Frisoni, Natale Irrera, Luigi Laera, Luca Lupi, Andrea Montanaro, Davide Settoni, Stefano

Sabatini, Michele Zanetti | Ringraziamenti Paolo Androni, Matteo Caccialanza, Marta Carrara, Andrea Dell’Orto, Virgilio Ferroni, Anna Frigerio,

Mariastella Lucchini, Giacomo Mandelli, Claudio Signorelli, Livia Tosi, Turo e coloro che hanno collaborato a realizzare il sondaggio

tentacoli di giudizioNUMEROAnno VIGiugno 2012

I primi corsi di laurea in lingua inglese sono arrivati in Italia nel 2001 e in poco tempo si sono espansi a macchia d’olio.

Al punto che recentemente anche il Senato Accademico del Politecnico ha deciso di adottare esclusivamen-te la lingua franca per le lauree ma-gistrali. Il pretesto è molto sempli-ce: sbaragliare il luogo comune che da sempre considera il popolo del Bel Paese a digiuno di inglese, al fine di rilanciare i giovani laureati su un mercato sempre più interna-zionale. Dunque benvenuta inter-nazionalizzazione? Un momento. Perché dietro questo slogan così

alla moda si nascondono alcuni in-terrogativi che il populismo di cui si imbevono i rettori non riesce a soddisfare. Questo numero di Poli-po cercherà di rispondere ad alcuni dubbi legittimi che un cambiamen-to così drastico può apportare alla didattica. In poche parole: siamo sicuri che questo principio, pur no-bile a livello ideale, possa miglio-rare il percorso formativo di ogni studente?

Mossi da queste domande, è partito un lavoro lungo, faticoso ma anche molto ambizioso, che ini-zia con le pagine di questo secondo numero di Polipo 2012, che presen-ta, oltre all’intervista al magnifi-co rettore, prof. Giovanni Azzone, (pag. 2) un sondaggio che ha coin-volto tutti voi (pag. 4). Con que-

INTERVISTA AL RETTORE

Pag. 2-3

I RISULTATI DEL SONDAGGIO

Pag. 4-5

ERASMUS:UNA COSA SERIA?

Pag. 8

Lauree magistrali in inglese Esperienze all’esteroLauree magistrali in inglese

sto speriamo che il dibattito non si esaurisca in una semplice contrap-posizione tra inglese sì e inglese no, o che passi attraverso qualche verbale di infinite riunioni accade-miche, ma abbiamo cercato di capi-re quali siano le vere esigenze degli studenti.

Siamo andati a raccogliere esperienze e testimonianze di chi ha già vissuto in prima persona l’insegnamento in lingua inglese (pag. 6), per capire cosa signifi-ca concretamente insegnare e stu-diare in un’altra lingua e se questo comporti effettivamente un declino della didattica come tutti temiamo.

Infatti quello che ci interessa non è soltanto un’università che si limiti ad un passaggio di lingua in forza di un’ideale internazionaliz-

zazione, vogliamo che l’università abbia come primo obiettivo quello di offrir la miglior formazione pos-sibile.

Dunque un’internazionalizza-zione come strumento intelligente per migliorare e aggiornare la di-dattica dove è necessario.

Insomma non si tratta solo di rafforzare la conoscenza di una lingua che in Italia è decisamente approssimativa, ma di riaffermare l’esigenza di una formazione solida per ogni singolo studente. Per que-sto, l’inglese sia il benvenuto. Ma non solo. Perché a fronte di costru-ire ponti, o case, o automobili, il saper chiacchierare lungo le avenue americane è ben poca cosa. O no?

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2 // Giugno 2012 • Anno VI Giugno 2012 • AnnoVI // 3POLIPO tentacoli di giudizio POLIPO tentacoli di giudizio

Quali sono state le motivazioni per cui è stato deciso di adottare esclu-sivamente l’inglese nelle Lauree Ma-gistrali?

Le motivazioni sono sostan-zialmente due. La prima riguarda gli studenti italiani: riteniamo che sia fondamentale oggi nel mondo dell’architettura, del design e dell’in-gegneria essere esposti a un confron-to culturale internazionale. Sia che si lavori nella grande impresa o nel-

Professori, studenti, politi-ci, giornalisti. Non c’è persona che non ne parli in questi giorni. Su proposta del Rettore, il Senato Ac-cademico ha stabilito che le Lau-ree Magistrali a partire dall’an-no accademico 2014/2015 vengano erogate esclusivamente in lingua inglese. Motivo? Internazionalizza-zione. A questo punto noi di Polipo ci siamo chiesti: cosa vuol dire in-ternazionalizzare? Vuol dire sem-plicemente traslitterare dall’ita-liano all’inglese? E’ opportuno che venga imposto in modo esclusivo l’inglese a tutti i corsi del Politec-nico? Lista Aperta, che ha votato a favore della proposta del Retto-re, ritiene che da un lato una mag-gior apertura al contesto interna-zionale non possa che costituire una occasione formativa in più per noi studenti, dall’altro però l’ado-zione della lingua inglese non può che essere un mezzo, non il fine, la cui efficacia dunque è strettamente legata al rispetto di alcune condi-zioni (ad esempio un adeguata co-noscenza dell’inglese da parte dei docenti o la disponibilità in via ec-cezionale di mantenere in lingua italiana alcuni corsi).

la piccola, sia per gli studi professio-nali, il lavoro che si svolge è un lavo-ro che porta a interagire con persone di culture diverse. Per questo credo che l’università debba abituare an-che a lavorare in questo modo. L’uni-versità quindi deve in qualche modo preparare meglio al mondo del lavo-ro. Il secondo aspetto è per avere la possibilità di attrarre persone di qua-lità da tutto il mondo. Il Politecnico ha una buona reputazione ed essa dipende dalla qualità degli studenti che riusciamo ad attrarre. Allora per attrarre da tutto il mondo dobbiamo rimuovere quella barriera linguistica che l’italiano rischia di essere.

Ma ingegneria, architettura e design sono molto diversificate…

Sono molto diversificate come profilo formativo ma dal punto di vi-sta degli sbocchi professionali oggi lo sono molto meno. Prendiamo il mondo dell’architettura. Noi oggi ab-biamo circa 150 mila architetti in Ita-lia contro 30 mila architetti in Fran-cia e Germania. Il che vuol dire che lo sbocco professionale per l’architetto di lavorare solo per l’Italia, un mer-cato molto ristretto, rischia di essere molto modesto. Non a caso noi vedia-mo che i nostri ragazzi bravi li incon-triamo in giro per tutto il mondo in

studi professionali italiani o interna-zionali in cui si fanno valere. Quindi diciamo che quel mondo dell’archi-tettura che viene visto un po’ più pro-tetto rispetto a quello dell’ingegne-ria, oggi coi numeri che abbiamo in taglia lo è a mio avviso molto meno.

Ci potrebbero essere delle eccezio-ni in cui il corso rimarrà in italiano?

Noi adesso abbiamo deciso due cose. Primo, abbiamo deciso di non avere percorsi integralmente in ita-liano perché la paura è che, se conti-nua in modo deciso questa politica di internazionalizzazione e le persone preparate in questo modo vengano accolte meglio dal mercato del lavo-ro, eventuali percorsi in italiano ri-schierebbero di diventare percorsi di serie B. Secondo, abbiamo auspicato invece la presenza di qualche inse-gnamento di lingua e cultura italiana che può essere Dante ma può anche essere la cultura architettonica Italia-na o la cultura del design. Questo è una cosa su cui stiamo ragionando ad un livello di manifesti, perché di fat-to dobbiamo essere nella situazione in cui l’uso dell’italiano consenta un valore aggiunto particolare non so-lo per gli italiani ma per tutti, quindi dobbiamo trovare qualcosa che giu-stifichi questo.

C’è un grosso cambiamento nel ma-teriale didattico e ci sembra un punto cruciale su cui lavorare. A ri-guardo quali sono le manovre che il Politecnico vuole adottare? Secon-do noi potrebbe essere interessante un coinvolgimento diretto degli stu-denti nel ridisegnare alcuni corsi or-mai obsoleti.

Su questi temi noi abbiamo det-to che il luogo su cui occorre lavora-re è la scuola o addirittura il corso di studi perché è molto difficile fare del-le generalizzazioni complessive. Lei partiva dicendo: “c’è un grosso cam-biamento nel materiale”, se guardo a ingegneria informatica credo che nella magistrale il 95% dei libri di te-sto siano in inglese. Per cui in quel caso siamo a cambiamenti margina-li; sul mondo dell’ingegneria civile o dell’architettura le percentuali so-no diverse quindi l’idea è che questo lavoro venga fatto a livello di singo-la scuola. A me fa molto piacere se le commissioni paritetiche possano es-sere luoghi sui quali si possa comin-ciare a lavorare anche per dare sug-gerimenti possibili e credo che, come tutte le fasi di cambiamento, possa essere veramente un momento di ri-pensamento e di innovazione anche dei contenuti della didattica. Non è che tutto ciò che c’era col ma-teriale didatti-co prima venga buttato via. Qua stiamo semplice-mente dicendo: “Nell’aula, che è il luogo dove av-viene la forma-zione orale, si usa come lingua l’inglese”. Vi rin-grazio per avermelo chiesto perché è utile anche puntualizzare le cose. Siamo sempre in Italia, la gente fuori parlerà italiano. Noi stiamo dicendo che la comunicazione interculturale la facciamo in inglese. Cerchiamo di cogliere il lato positivo del bilingui-smo, aggiungendo qualcosa ma sen-za buttare via altro.

Sapendo che il Politecnico è nato e cresciuto all’interno di un contesto italiano, non c’è ad esempio l’even-tualità di perdere la propria identità culturale?

Guardando alla mia esperienza devo dire che noi usiamo uno stru-mento di comunicazione che per definizione deve essere accessibile dalle diverse persone che vogliono comunicare tra di loro. Tuttavia que-sto non porta a snaturare le perso-ne: lo strumento anzi deve essere ciò

che aiuta ad esprimere proprio quel-lo che è dentro ognuno di noi. Una designer spagnola che lavora a Mila-no, Patricia Urquiola, che si è laurea-ta proprio da noi diceva: “l’inglese ha da questo punto di vista il vantaggio di essere una lingua democratica per-ché è un Global English che mette più o meno tutte le persone allo stesso li-vello quindi consente di comunicare in modo paritetico fra le diverse per-sone”. Io credo che non sia un modo in cui si perde la propria identità, ma il modo in cui si può dare il proprio contributo a un processo più ampio.

La facoltà di architettura e società del Politecnico di Milano ha senza dubbio una sua identità internazio-nale ma anche una storia tipicamen-te italiana. Come pensa di preser-vare le caratteristiche peculiari degli insegnamenti nati e cresciuti nel cuore della cultura italiana ma di rendere moderna la scuola allo stes-so tempo?

Quello che l’ateneo fa è defini-re il quadro di riferimento generale. Allora quali sono i motivi per cui ri-teniamo che anche in campo dell’ar-chitettura possa essere questa un’in-novazione significativa? Un tema è quello dell’occupazione delle per-

sone. Ricordo che qualche anno fa è stata fatta una pe-er review, una va-lutazione esterna, dei nostri diparti-menti e una delle critiche fatte sui di-partimenti di archi-tettura è stata che molta produzione scientifica era in lingua italiana, fa-

cendo sì che l’esito delle riflessioni prodotte non fosse conosciuto all’e-sterno. Quindi credo che la nostra scelta sia un modo di spingere a ren-dere fruibile nel mondo esterno le elaborazioni concettuali che la nostra scuola di architettura fa. Io credo che la stessa cosa però valga per l’inge-gneria: non è che il fatto di insegnare in lingua inglese non faccia parlare di una scuola di Milano. Nell’ingegneria del software noi abbiamo una scuola di Milano che è riconosciuta interna-zionalmente. Questa scuola comuni-ca in inglese, ma non vuol dire che non pensi all’interno di un sistema di tradizione e di riflessione che sia ca-lato nella realtà del Politecnico. Quin-di lo sforzo che noi vogliamo fare è uno sforzo che cerca di aggiungere e non di togliere. Le riflessioni al no-stro interno le continuiamo a fare pe-rò cerchiamo di trovare un modo di comunicarle a tutto il mondo e l’in-

glese da questo punto di vista è uno strumento di comunicazione che aiu-ta in quest’opera di diffusione. Quin-di non c’è proprio nessuna volontà di abolire le cose significative che ven-gono fatte qua in Italia, tutt’altro.

Al Politecnico non si insegnano sol-tanto nozioni ma un vero e proprio metodo tipico delle discipline tecni-co-scientifiche. Vista la rilevanza di un’educazione del genere, non c’è il rischio di arrivare a un compromes-so rispetto a questo metodo?

Io semplicemente non vedo perché dovrebbe esserci, nel sen-so che la testa delle persone non la stiamo cambiando. Le cose che rac-conto a lezione ai miei studenti sono le stesse cose che racconto in un po-sto di formazione industriale che fac-cio in inglese o in un seminario inter-nazionale. In un caso le racconto in italiano, nell’altro in inglese. Magari in un caso userò un aggettivo solo, nell’altro quattro aggettivi, però gli elementi chiave sia del modello di ri-ferimento, sia del modo in cui viene applicato ai casi non cambiano nella mia formazione. Quando io dicevo che l’università dev’essere un’univer-sità aperta al mondo ma che valoriz-za le sue capacità e le sue peculiari-tà locali, intendo questo. Io ritengo che il metodo del Politecnico sia im-portante e il no-stro obiettivo è fare in modo che le persone forma-te in questo mo-do abbiano poi la possibilità di valo-rizzare facilmente le proprie poten-zialità. Quello che forse è stato un li-mite degli anni scorsi degli ingegneri italiani è che avevano una grandis-sima formazione tecnica, poi però andavano in un contesto organizza-tivo in cui facevano fatica a muover-si. Risultato: ho una potenza da Fer-rari ma riesco a sfruttarla solo per il 50%. Allora l’obiettivo è mantenere una potenza da Ferrari, ma magari sbaglio qualche aggettivo quindi in-vece che 100% scendo al 95%. Tut-tavia quel 95% devo essere in grado di sfruttarlo completamente, quindi valorizzare completamente le poten-zialità. Io sono convinto che alla fine ci sarà non il 95% ma il 105%, perché il fatto che io sia forzato a ripensare la mia didattica mi spinge qualche volta a prepararmi meglio. Tutto ciò che per colpa dell’inglese peggiora la qualità della formazione, tutto ciò in cui c’è un problema reale, lo affron-teremo. Non c’è nessun dogmatismo.

Lauree magistrali in inglese

Il video completo dell’intervista sarà presto disponibile sul sito di LISTA APERTA www.poli-listaperta.it

Da qui è iniziato un lavoro. Un lavoro che con Lista Aperta conti-nuerà anche al di fuori di Polipo. Da questo impegno tuttavia emer-gono sempre di più altri interro-gativi: fino a che punto può esse-re determinante l’inglese per un approccio internazionale? Quali rischi o compromessi possono so-praggiungere con una scelta ob-bligata dell’inglese? Proprio per questo noi di Polipo ci stiamo ac-corgendo che il lavoro è solo all’i-nizio e la strada da percorrere è ancora lunga.

Qui di seguito troverete un’in-tervista al nostro Rettore, nelle prossime pagine il sondaggio con-dotto da Polipo, infine testimo-nianze di studenti e docenti.

«Tutto ciò che per colpa dell’inglese

peggiora la qualità della formazione,

tutto ciò in cui c’è un problema reale, lo

affronteremo. Non c’è nessun dogmatismo»

«È fondamentale che lo studente

diventi coprogettista dell’università, poiché

è un punto di vista diverso rispetto a

quello del docente, anzi complementare»

intervista a cura di Andrea Montanaro, Davide Settoni e Bruno Carvelli

L’unico dogmatismo è che, in un’u-niversità che volesse diventare inter-nazionale, non possiamo permettere che ci sia un 10% degli studenti che seguano corsi di italiano frequenta-ti solo da quelli che non sono in gra-do di aprirsi al mondo e con docenti più chiusi che non vogliono mettersi a imparare un po’ d’inglese.

E riguardo alla preparazione didat-tica dei professori? Si faranno dei corsi di aggiornamento per mante-nere un certo livello di comunicazio-ne che non comprometta la qualità della didattica?

Sì, noi pensiamo di fare due cose. Primo, di attivare dei corsi di inglese rivolti ai docenti (i primi prenderanno il via a Settembre), par-tendo da quelli che hanno una cono-scenza iniziale più bassa per arrivare poi a un approccio più generalizza-to. Seconda cosa già da quest’anno e sicuramente dal prossimo anno ac-cademico, vogliamo monitorare il li-vello di comprensibilità dell’inglese fatto a lezione dei nostri docenti. Vo-glio puntualizzare su una cosa: non è che i libri in italiano siano vietati. Perciò se in aula uno studente sente un docente che non riesce a spiega-re in modo perfetto e che oggi use-

rebbe dei libri di riferimento in ita-liano, se li può an-cora leggere e può chiedere una spie-gazione al docen-te e, se non riesce a farsi capire be-ne, non è che l’i-taliano sia abroga-to tra i due. Credo che molte delle paure che noi ab-

biamo siano un po’ le paure dell’i-gnoto che spesso ci caratterizzano.

Che augurio si fa per il lavoro dei prossimi due anni?

Noi abbiamo definito un obiet-tivo e all’interno di questo obiettivo dobbiamo trovare tutti gli strumenti attuativi e opportuni. È fondamen-tale che lo studente diventi co-pro-gettista dell’università, poiché è un punto di vista diverso rispetto a quel-lo del docente, anzi complementare. Il punto di partenza è evidenziare il problema, perché se il problema non viene evidenziato in modo puntuale non possiamo neanche partire nella soluzione. Poi il lavoro dal mio punto di vista è un lavoro che si fa insieme per trovare una soluzione che soddi-sfi tutti. Da questo punto di vista per me il contributo degli studenti è es-senziale perché voi lo vivete.

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Giugno 2012 • AnnoVI // 5POLIPO tentacoli di giudizio

più no che sìpiù sì che nodecisamente sì

decisamente no

2. Una maggiore presenza di docenti e studenti stranieri nei nostri corsi di laurea magistrale può comportare un valore aggiunto per noi studenti?

decisamente sì

più no che sìpiù sì che no

decisamente no

4. Ritieni di avere le possibilità economiche e il tempo necessario per migliorare il tuo livello di conoscenza della lingua inglese?

9,14%

15,05%

33,83%

41,99%

decisamente sì

più no che sìdecisamente no

più sì che no

1. Se le lauree magistrali venissero erogate esclusivamente in lingua inglese ti iscriveresti ugualmente al Politecnico di Milano?

più no che sìpiù sì che nodecisamente sì

decisamente no

3. Ritieni di essere in grado di frequentare e sostenere degli insegnamenti in lingua inglese al momento?

5. Nella tua carriera universitaria hai mai avuto esperienze formative in inglese ?

noall’estero

in Italia

più no che sìpiù sì che nodecisamente sì

decisamente no

6. Ritieni che questa esperienza didattica sia stata utile per un arricchimento del tuo percorso formativo?

decisamente sì

più no che sì

decisamente no

più sì che no

decisamente sì

più no che sì

decisamente no

pìù sì che no

decisamente sì

più no che sìdecisamente no

più sì che no

decisamente sì

più no che sìdecisamente no

più sì che no

decisamente sì

più no che sìdecisamente no

più sì che no

E. Ritieni di essere in grado di frequentare e sostenere degli insegnamenti in lingua inglese al momento?

D. Ritieni che una maggiore presenza di docenti e studenti stranieri nei nostri corsi di laurea magistrale possa comportare un valore aggiunto per noi studenti?

A. Se le lauree magistrali venissero erogate esclusivamente in lingua inglese ti iscriveresti ugualmente al Politecnico di Milano?

B. Se le lauree magistrali venissero erogate esclusivamente in lingua inglese ti iscriveresti ugualmente al Politecnico di Milano?

C. Se le lauree magistrali venissero erogate esclusivamente in lingua inglese ti iscriveresti ugualmente al Politecnico di Milano?

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Oltre 8000 studenti hanno risposto ai nostri questionari!IL GRANDE SONDAGGIO

Quest’anno Polipo, in colla-borazione con Lista Aper-ta, ha raggiunto con la sua indagine oltre 8000 stu-

denti iscritti al Politecnico di Milano, per chiedere a ciascuno cosa pensas-se della laurea magistrale in inglese. Cercando di coprire nel modo più ca-pillare possibile ogni corso, dal pri-mo all’ultimo anno, i nostri collabo-ratori si sono rivolti personalmente a ciascuno con un sondaggio cartaceo. La collaborazione degli studenti ha consentito di raccogliere una gran-de quantità di opinioni su questo te-ma dibattuto. Dati più dettagliati per ogni corso e per ogni anno verran-no pubblicati in futuro. Nel frattem-po Polipo propone un prima analisi più approssimativa ma comunque in-dicativa:

1. PRIMA DOMANDA Alla prima domanda si nota subito una forte prevalenza di risposte affer-mative: 42% “Decisamente sì” e 34% “Più sì che no”, per un totale del 76% di risposte positive. È evidente che mediamente gli studenti hanno una preferenza per il rimanere al Politec-nico nonostante l’inglese. Inoltre, co-me si può notare dal grafico A, le ma-tricole, che sono realmente di fronte alla scelta di iscriversi alla specialisti-ca, sono per il 72% propensi a conti-nuare con questa riforma.

2. SECONDA DOMANDAAnche alla seconda domanda le ri-sposte affermative fanno da padro-ne: 41% “Decisamente sì” e 38% “Più sì che no”, per un totale del 78% di ri-sposte positive. Dunque un conside-revole consenso si presenta di fron-te all’agevolazione della presenza di

professori e studenti stranieri.

3. TERZA DOMANDA Riguardo alle proprie capacità di fre-quentare e sostenere degli insegna-menti in lingua inglese c’è una no-tevole difficoltà nell’autovalutare la propria capacità linguistica. Risulta infatti che in totale il 65% risponde o “Più sì che no” o “Più no che sì”. In media gli studenti del Politecnico non sono pienamente convinti di po-ter affrontare un’intera specialistica in inglese ma resta evidente che nel complesso non c’è timore verso que-sta sfida.

4. MAGISTRALE Evidentemente nel corso degli anni gli studenti maturano la convinzio-ne di perfezionare il proprio inglese o comunque di essere in grado di so-stenere esami in questa lingua. Tutto

ciò abbastanza ragionevolmente, vi-sto che mediamente questi studenti hanno avuto maggior esperienza in-ternazionale o Erasmus. Il 65% è più sicuro di saperlo contro il 49% com-plessivo (graf. E). Con l’83% di rispo-ste affermative è evidente una mag-giore preferenza a rifrequentare la magistrale nonostante l’inglese (graf. C). Sempre con la stessa percentuale (83%) viene riconosciuto il valore di una maggiore presenza di studenti e professori stranieri (graf. D).

5. ARCHITETTURA E DESIGNPur mantenendosi positiva, la po-sizione di architettura e design mo-stra senza dubbio un parere più osti-le alla specialistica in inglese rispetto a ingegneria: infatti si presenta un 66% di risposte positive alla prima domanda contro il 76% complessivo (graf. B).

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6 // Giugno 2012 • Anno VI Giugno 2012 • AnnoVI // 7POLIPO tentacoli di giudizio POLIPO tentacoli di giudizio

MATTEO CACCIALANZAIngegneria meccanica

Sono uno studente del Po-litecnico, al quarto anno di Ingegneria Meccanica. Da un paio d’anni, agli stu-

denti del terzo anno viene data la possibilità di seguire il secon-do semestre in lingua inglese: vie-ne chiamato ‘orientamento pro-pedeutico’. Quattro sono i corsi: Statistics, Fluid Machines, FEM Lab (o CAD Lab) e Mechanical Vi-brations; sono paralleli a quelli del percorso in italiano e risulta-no identici a livello di contenuti. I professori e gli esercitatori sono in maggioranza italiani; quindi, sebbene le lezioni siano tenute in inglese, è certamente possibi-le rivolgere domande e ricevere risposte in italiano, sia durante la lezione sia al suo termine. Ri-ferendomi alla mia esperienza, la scelta di questo percorso ha com-portato la necessità di prestare ancora più attenzione durante le ore di lezione. Per quanto i pro-fessori parlino generalmente be-ne in inglese, ho scoperto che seguire questi corsi richiede un doppio sforzo: il primo è legato alla complessità degli argomen-ti trattati (difficoltà con cui mi-surarsi anche nei corsi attuali); il secondo, peculiare di questo cammino, è dovuto al rischio di non afferrare chiaramente tutte le parole pronunciate dai profes-sori, perdendo il filo del discorso con maggior facilità. Per contro, mi sono accorto che la familiarità con l’inglese (colloquiale ma so-prattutto tecnico) è molto miglio-rata durante l’evolversi del cor-so. Inoltre, la grande attenzione

MASSIMO GHIONIDocente di Power Elettronics

Sicuramente insegnare in una lingua che non è la propria è estremamente difficile. Presu-mo che sarà questo il proble-

ma principale che ci troveremo ad af-frontare, quando dovremmo passare all’inglese in tutti i corsi. Un conto è essere in grado di leggere un articolo, un altro conto è andare in aula e spie-gare per due ore: è molto difficile riu-scire ad essere efficaci se uno non ha la padronanza della lingua. Dal mio punto di vista questo è stato un van-taggio: mentre un professore spiega in italiano ogni tanto “parte per la tangente” e si tende un po’ a divaga-re. Con l’inglese non ce lo si può per-mettere e quindi si arriva direttamen-te al messaggio. Ogni tanto ho parlato con Augusto Sarti, collega fluente in inglese perché lo parla in famiglia con la moglie madrelingua. Egli mi ha rivelato d’essere contento di fare il corso in inglese, perché trova che per una materia tecnica le spiegazioni si-ano tanto più efficaci quanto più so-no sintetiche e mirate al messaggio. Quindi, non avere la possibilità di fa-re circonlocuzioni varie non è un li-mite, anzi molto spesso si è rivelato essere un vantaggio in termini di in-cisività. Chiaramente il tutto deve es-sere accompagnato da un materiale didattico ineccepibile; se si pensa di andare in aula senza nessun suppor-to e parlare soltanto, come approc-cio è storicamente abbastanza falli-mentare.

Riguardo agli studenti, secondo me, il panico che si è diffuso (il timo-re di andare in aula e uscirne senza aver capito niente) non è giustificato. Io sono un po’ scettico: sicuramen-te nell’immediatezza uno fa fatica, sicuramente è più difficile per uno studente ascoltare un’ora e mezza di lezione in inglese piuttosto che in ita-liano. Il problema grosso, semmai, è del docente: cercare di essere chia-ro senza parlare italiano non è facile. Dovendo fare tutte le magistrali in in-glese sarà un bel match.

Rispetto a questa scelta dell’in-glese, dal punto di vista dell’istituzio-ne ci sono sicuramente dei vantaggi perché questo apre alla possibilità di far accedere ai Corsi di Laure Ma-gistrale studenti provenienti da al-tri Paesi. Per darvi un’idea, fintanto che c’era un solo corso in italiano ar-

richiesta dal corso mi ha costret-to a cambiare in parte l’approccio allo studio, rendendolo più effi-cace e approfondito. Passati il ti-more e la pigrizia iniziali, mi sono reso conto della bontà della scel-ta fatta; in particolare mi è sta-to palese quando, insieme a due straordinari compagni, ho scritto i progetti valevoli per la Laurea. Un altro aspetto importantissi-mo è quello didattico: inizial-mente ero scettico ma via via mi sono dovuto ricredere grazie al fatto che i professori sono sta-ti abili a spiegare correttamente tutte le conoscenze. Il più gran-de vantaggio che tengo a sottoli-neare è quello della padronanza delle conoscenze acquisite: stu-diare nuovi concetti in inglese mi ha permesso di rivisitare alcuni argomenti già trattati sotto una nuova luce. Ho seguito solo sei mesi e quattro corsi; tuttavia, per i motivi sopra elencati, sono con-vinto che un intero Corso di Lau-rea in lingua inglese possieda un valore aggiunto rispetto all’omo-logo italiano: la fatica in più ne-cessaria durante gli anni accade-mici viene rapidamente ripagata da una maggior spendibilità delle conoscenze acquisite, in partico-lar modo a livello internazionale.

GIACOMO MANDELLIIngegneria gestionale

Sono un ragazzo al quart’anno di Ingegneria Gestionale e ho iniziato la specialistica facendo un

anno di Erasmus a München (Ger-mania). Ho avuto la fortuna di po-ter seguire lezioni sia in tedesco (tutto il primo semestre) sia in in-

glese (tutti gli esami del secondo semestre). Devo ammettere che l’approccio allo studio in un’altra lingua mi ha riservato da un lato molte sorprese e dall’altro anche tanta fatica. Mi sono reso conto che interagire, scrivere, studiare, leggere papers e avere rapporti in lingua inglese con altri studenti e al di fuori dell’università sia or-mai un requisito fondamentale. Sia nel mondo del lavoro (ho fat-to uno stage presso Microturbine Süd) che accademico. Trovo che avere l’occasione di impararlo e metterlo in pratica nell’ambito di studio sia proprio fondamentale. Mi spiego: mi sono stati richiesti parecchi sforzi per le consegne di articoli o di case-study e ho sem-pre avuto un grande interesse ad arricchire i temi affrontati in clas-se con letture personali di papers o articoli accademici, il cui mate-riale reperibile è ovviamente in lingua inglese. Ho visto come sia davvero un aiuto, al punto di ac-corgersi di studiare per il deside-rio di imparare davvero e non so-lo per passare l’esame. Per ogni approfondimento, curiosità o do-manda che sorgeva ho potuto tro-vare una vastità di articoli o libri al riguardo che ho potuto sfrutta-re esclusivamente grazie al lavoro fatto durante questi mesi. Proba-bilmente le mie domande sareb-bero tali e quali senza questo con-tinuo approfondimento.

Comunque l’inglese è stato utile anche nel rapporto con gli altri studenti: sarebbe impossi-bile una collaborazione nel lavo-ro o un aiuto nello studio senza questa familiarità che si acquisi-sce solo sul campo. Così facendo ho proprio sviluppato una capa-cità notevole di cui sono molto contento perché mi rendo con-to di quanto nel mio futuro lavo-ro questa sarà necessaria. Ovvia-mente l’occasione è stata grande perché ho avuto professori mol-to competenti nel loro campo ma soprattutto con una grande capa-cità di spiegare in lingua inglese. Non penso di aver perso in qua-lità dell’insegnamento, anche se a volte capita un assistente con meno capacità linguistiche e al-lora si rischia di avere una lezio-ne che diventa lettura di slides o vengono spiegati concetti in ma-niera elementare perdendo molto dal punto di vista didattico.

ANNA FRIGERIOMagistrale in architecture

Sono Anna Frigerio, stu-dentessa del secondo an-no della Laurea Magistra-le in Architecture che ora

sto passando in Erasmus nella Fa-culdade de Arquitectura da Uni-versidade do Porto in Portogal-lo. La mia esperienza dell’anno scorso con lo studio in lingua in-glese non è stata delle più positi-ve: perché da un lato mi ha aiu-tato a migliorare la padronanza della lingua (ad esempio ho im-parato a spiegare e discutere di un progetto con persone di al-tre lingue, culture e formazione, in quanto nel mio corso ci sono 30 italiani e 90 stranieri), dall’al-tro, però, tutto questo non è ab-bastanza perché lo studio e l’ap-prendimento siano di qualità. Ho visto principalmente due proble-mi. Il primo riguarda gli studen-ti stranieri (di origine orientale e sudamericana, spesso già laurea-ti e con esperienze lavorative al-le spalle) che spesso hanno una preparazione universitaria e cul-turale totalmente differente dalla nostra, che li rende impreparati di fronte a determinate temati-che affrontate in un corso magi-strale, ma che vengono a studiare in Europa e scelgono Milano per-ché è la meno peggio tra le uni-versità europee in inglese a loro accessibili (evitando di citare tra le cause le banalità sul fascino del Bel Paese e tutto il resto..). Il con-fronto con loro non porta vivaci-tà culturale, ma anzi costringe i docenti ad un abbassamento del-la qualità dell’insegnamento (una chiacchierata con una mia profes-soressa dello scorso anno in vi-sita qui a Porto qualche giorno fa lo ha confermato). Il secondo problema che ho visto riguarda i professori: salvo pochissimi casi, la maggior parte non è in grado di tenere una lezione universita-ria in inglese. Molti di loro, no-nostante la grande preparazione e competenza, si trova costretta a mortificare e semplificare in fra-si elementari tutti i concetti, per-dendo la possibilità di trasmette-re passione e sapere.

rivavano al massimo uno o due stu-denti stranieri all’anno. Quando ab-biamo aperto il corso in inglese di colpo sono arrivate 200 domande. Tuttavia parecchie di queste perso-ne hanno un profilo abbastanza bas-so: quindi c’è il problema della sele-zione e quant’altro; però questo dà un impulso notevole alla ricettività dell’Ateneo. L’altro vantaggio è che voi venite a contatto con persone che arrivano un po’ da tutto il mondo. Questo è sicuramente dal punto di vi-sta culturale un arricchimento: quan-do uno è esposto in un ambiente che non è quello locale, inevitabilmente ne trae dei vantaggi.

Vorrei però raccontarvi un fat-to che mi capita spesso: tutti i miei dottorandi che hanno lavorato sull’e-lettronica di potenza sono poi tutti andati a lavorare in California, nella Silicon Valley, in aziende che si oc-cupano di microelettronica di vario tipo. Ogni mese mi chiamano e mi dicono: “C’è bisogno di nuove assun-zioni, puoi mandarci tu qualcuno?”. Alla mia risposta: “Chi vi devo man-dare? Lì vicino avete Stamford e Ber-keley, che sono le Università di riferi-mento per l’elettronica!”, ribattono: “No, preferiamo quelli del Politecni-co di Milano perché ci sembrano mi-gliori”. Il fatto che il Politecnico non sia ancora internazionale non toglie che dia una preparazione più che adeguata. Si spera che l’internazio-nalizzazione dia un’ulteriore propul-sione a questa istituzione e faciliti ul-teriormente lo scambio di persone. È vero che adesso come adesso c’è uno sbilanciamento di flusso: sono più gli studenti italiani che vanno all’este-ro che non gli studenti stranieri che vengono in Italia; speriamo – alla lun-ga – di cambiare tendenza con questa manovra. Chiaramente bisogna stare attenti a non far scendere il livello.

CARLO BOTTANIDocente di Solid State Physics

Se penso al mio modo di fare lezione, credo che in inglese sia certamente meno efficace, poiché non riesco ad esprime-

re i concetti in più maniere diverse, nonostante mi sforzi di ricercare un linguaggio il più possibile corretto e vario. Altro aspetto rilevante è la di-minuzione delle domande da parte degli studenti.

Inoltre sarebbe stato meglio in-trodurre la novità in modo più gra-duale, considerando prima tutte le risorse, a partire dai docenti fino ad arrivare al personale amministrativo, che al momento risulta spesso in dif-ficoltà da questo punto di vista e an-drebbe senz’altro rinnovato (ma non sto vedendo interventi in atto). In-somma, sono d’accordo come “idea asintotica”, non totalmente nella re-alizzazione: è stata fatta la scelta di maggior impatto mediatico e di mi-nor costo. Consideriamo anche che l’Italia è poco attrattiva nel setto-re tecnico/scientifico – oltre che per questo motivo – anche per le strut-ture, come i laboratori didattici. La combinazione di investimenti e in-troduzione dell’inglese potrebbe es-sere vincente.

ALESSANDRO PEREGODocente di eOperations

Per non parlare in astratto, vi porto la mia personale esperienza.

Nella sede di Como del Politecnico esiste già una Laurea Ma-gistrale in Ingegneria Gestionale nel-la sola lingua inglese; gli allievi sono sia italiani sia stranieri. Da quando è stato attivato il corso, cioè sei anni fa, insegno lì Logistics Management.

Quando mi proposero di tenere il corso in inglese, ebbi un sussulto di “paura”: sarei sta-to capace di insegnare in inglese a gente proveniente da culture di-verse, senza perdere in efficacia? Così, per tre anni ho lavorato per preparare il materiale del corso e ho dovuto ricominciare a “studia-re l’inglese”. Ovviamente mi so-

no dovuto rimboccare le maniche. L’insegnamento in inglese mi costa molta fatica, ma mi obbliga ad es-sere sempre preparato ed essen-ziale. Badate bene: me la cavo con l’inglese, ma non ho mai vissuto in paesi anglofoni.

Dopo sei anni di corso posso trarre alcune evidenze. Ho un centinaio di iscritti, di cui il 70% stranieri. Questi provengono da molti paesi diversi, prevalente-mente Asia (Iran, Cina, India, etc.), Est Europa (Turchia, Russia, Polo-nia, etc.) e Sud America (Brasile, Colombia, ...); tuttavia, non man-cano studenti dell’Europa Occi-dentale (Spagna, Svezia, ...). Questi ragazzi sono bravi tanto quanto gli italiani e sono anche molto moti-vati. La prestazione mia e dei miei collaboratori non è peggiorata. An-zi: questo corso viene valutato da-gli studenti migliore rispetto ad al-tri corsi che tengo in italiano. Ogni anno, porto in aula una decina di testimonianze di manager della lo-gistica; sono sempre molto conten-ti di venire a parlare in un contesto internazionale, e ricevono mol-te più domande di quante non ne vengano loro fatte in un’aula di so-li italiani. Gli studenti stranieri ap-prezzano il nostro metodo didattico.

Lauree magistrali in inglese:

LE ESPERIENZE

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8 // Giugno 2012 • Anno VI Giugno 2012 • AnnoVI // 9POLIPO tentacoli di giudizio POLIPO tentacoli di giudizio

Tutto è cominciato con una partita tra amici un giorno di vacanza nel Lu-glio 2010, in cui abbia-

mo scoperto una passione per uno sport: il rugby! Sembrava impensabile costruire una squa-dra, fatta di ragazzi senza alcuna esperienza, senza alcuna prepa-razione.

All’inizio dell’anno accade-mico spinti dalla voglia di sco-prire questo sport, nuovo o qua-si per noi, abbiamo cominciato a contattare chi ci poteva aiutare all’interno del Politecnico, e un aiuto importante è arrivato da Ar-mando Foglio Para, ex delegato per le attività sportive del nostro ateneo. Tramite questo contatto abbiamo conosciuto Gregorio De Vecchi “Ghigo” membro del di-rettivo del CUS Milano rugby, il quale si propose di diventare il nostro Coach. Da subito la par-tecipazione e l’entusiasmo degli studenti a questa iniziativa è sta-ta a dir poco clamorosa, riuscen-do così a formare un gruppo di ol-tre 40 elementi.

Vista l’inesperienza della maggior parte di noi e non sapen-do che ci sarebbe stata così tan-ta partecipazione, abbiamo deci-so di cominciare con il rugby a 7, ossia con le stesse regole di quel-lo a 15, ma con meno contatti fi-sici e più semplice nella gestione del gioco.

Così inizia l’avventura degli “Ill Dogs” che ha avuto come api-ce il torneo, nella capitale france-se, “Seven a Paris” in cui ci siamo misurati con le maggiori squadre universitarie d’europa.

Entusiasti di quanto accadu-to fin ora, abbiamo deciso, in ac-cordo con il Politecnico e il CUS, di puntare più in alto. Così con l’apporto di nuove forze, tra cui giocatori di maggiore esperienza e di due nuovi allenatori, Guiller-mo “Willy” Di Cicca e Pablo Pe-rata l’anno scorso abbiamo messo su una vera e propria squadra di rugby a 15 iscritta al campionato di serie C: Il CUS POLIMI.

Il nuovo gruppo, che com-prende molti dei giocatori già presenti nella squadra a 7, si è di-mostrato sin da subito molto af-famato di vittorie. Si comincia a fare sul serio! Il gioco da fante-ria leggera diventa duro, diventa di artiglieria pesante! Già alla pri-ma partita per tutti è stato chia-ro che ci saremmo portati a casa delle gran legnate, ma nessuno ha mai pensato o ha osato pensa-re di tirarsi indietro. Il risultato è di quelli che lasciano il segno, una vittoria che non ci aspettava-mo, vittoria per 24 a 7 contro il San Donato, dimostrando come la tensione pre-partita che mol-ti di noi non avevano mai prova-to si era trasformato in puro furo-re agonistico. La stagione quindi è cominciata nel migliore dei mo-di portando a casa tre vittorie che hanno regalato alla squadra entu-siasmo e determinazione confer-mati nei terzi tempi. L’euforia dei primi tempi, però, viene placa-ta dallo scontro con due squadre

d’esperienza e con un pizzico di malizia in più… ciò non ci ha im-pedito di rialzarci e le vittorie se-guenti ne sono state la prova con-segnandoci il titolo di campioni d’inverno. Sull’onda delle ultime partite il girone di ritorno è co-minciato con i migliori auspici re-galando gioie ai tifosi, ma, come per tutte le grandi squadre arriva il momento della sconfitta. Scon-fitta che toglierà la gioia del pri-mo posto. Gli allenatori capisco-no che la squadra è demotivata e sazia dei risultati ottenuti. Deci-dono così di spronare i giocatori cambiando le carte in tavola, sot-tolineando come la possibilità di scendere in campo a difendere i propri colori sia un onore da ri-spettare e non un diritto da sotto-valutare, schierando una forma-zione non dettata soltanto dalle qualità ma dalla voglia di vincere. Questa scelta si è rivelata azzec-cata, dando la scossa necessaria a portare a casa i successi nelle partite conclusive. Il campionato si conclude con un secondo posto permettendoci di conquistare il meritato accesso ai play-off.

Uno degli aspetti eviden-ti nella nostra squadra era la sua composizione eterogenea, ognu-no di noi proveniva da una storia diversa, aveva una appartenenza diversa e quindi tra noi non man-cavano pregiudizi e diversità.

Andando avanti con gli alle-namenti e soprattutto con le par-tite, tutto questo ha cominciato a non avere più importanza, per-ché quando vedi l’altro che da l’a-nima pur di non perdersi un al-lenamento, che non si risparmia davanti agli scontri, che placca

dove non arrivi tu, che si spacca la schiena nella mischia quando non prendi la palla al volo, sei co-stretto a sorvolare sulle differen-ze. Il gioco insomma contribuisce in modo fondamentale a forgiare un gruppo, facendo superare le ostilità personali.

Nella prima partita dei play-off questo aspetto è diventa-to ancora più evidente, dove la consapevolezza di un gruppo ri-generato e rinvigorito dal rappor-to che si erano formati tra i gio-catori, ha portato alla migliore prestazione della stagione, con-tro una squadra, il Lainate, net-tamente superiore per fisicità e tecnica, battendola per 25 a 10. Questa grande unità si è poi con-fermata ancora nella partita suc-cessiva, conclusasi, purtroppo, con un (dubbio) calcio avversario nell’ultimo minuto di gioco dan-doci così la sconfitta. Nonostante tutto la squadra ha ottenuto una meravigliosa promozione in C2 contro ogni pronostico iniziale.

Sebbene ora il futuro della squadra non sia ancora chiaro, il CUS POLIMI è la prova di come un obbiettivo, seppur lontano, ma affrontato con tutte le proprie energie e il sostegno dei compa-gni, può essere conquistato e as-saporato in tutta la sua pienezza.

«A rugby si gioca con le mani e con i piedi, ma in particolare con la testa e con il cuore»

Diego Dominguez; ex Nazionale Italia

di Michele Zanetti, Lorenzo Frisoni, Natale Irrera e Luigi Laera

Ogni volta che si incontra qualcuno che sta per an-dare in Erasmus la pri-ma cosa che si dice è:

“Ti vai a fare una bella vacanza, eh?”, oppure: “Non andrai mica in Erasmus per studiare?!?”.

Ci siamo perciò resi conto che la maggior parte delle per-sone, professori inclusi, reputa-no l’Erasmus come un esperien-za non valida dal punto di vista accademico, perché si fanno esa-mi facili e si perde tempo; quindi, volendo prendere sul serio l’uni-versità, sarebbe meglio rimanere in Italia.

Perciò abbiamo deciso di provare a scoprire se è davvero così, visto che ci interessa sapere se andare in Erasmus possa con-tribuire al nostro “diventare inge-gneri”. Abbiamo dunque raccolto delle testimonianze/interviste a studenti che stanno facendo que-sta esperienza all’estero, ponen-dogli questa domanda: perché va-le la pena di andare in Erasmus?

DIVERSITA’ DI APPROCCIOMettere le mani in pasta

La prima cosa che è stata ri-scontrata da tutti è la possibilità di affrontare lo studio ingegne-ristico secondo un’ottica diver-sa da quella del Politecnico: più concreta, più orientata all’appli-cazione e in stretto contatto con le aziende.

Ad esempio Maristella, che sta trascorrendo a Leuven il pri-mo anno di Laurea Magistrale in Ingegneria Biomedica, ci rac-conta: “Qui spiegano le cose in maniera molto più pratica: per esempio, per spiegarti come si fa un filtro ‘low pass’ non ti spie-gano la teoria ma ti fanno vedere come si applica nei casi in cui ser-ve”. Virgilio, ingegnere elettrico in Erasmus a Madrid, dice: “A dif-ferenza di tutti i miei compagni di corso, prima di arrivare qui, pur avendo una Laurea Trienna-le, non avevo mai messo mano ad una macchina elettrica…”. Anco-ra da Madrid si aggiunge la voce di Livia, laureata in Civile e futu-ra strutturista, che spiega come questo approccio rechi molti van-taggi: “Lezioni di questo tipo mi fanno ricordare le nozioni molto meglio che non imparare la mera formula; inoltre, la mia curiosità nella materia è risvegliata e faci-litata, anche per il fatto che i do-

centi sono validi e hanno in mano loro stessi grandi opere di costru-zione”.

In più, molteplici sono le op-portunità di entrare in contatto con aziende specializzate nel pro-prio campo. A questo proposito, Marta, studentessa di biomedica all’università di Leuven, spiega: “La cosa che mi ha più affascinato quest’anno sono state le moltissi-me opportunità di andare a visi-tare compagnie del nostro settore d’interesse; perciò, visto che sia-mo ingegneri biomedici, ci hanno portato nel centro della Philips di Eindhoven: qui ci hanno intro-dotto a tutte le tecnologie recen-temente sviluppate a Maastricht, dove l’università collabora stret-tamente con la nostra a livello di ricerca. Così la tua prospettiva si spalanca anche nello studio del tuo piccolo esame, perché inizi a capire meglio il contesto in cui si colloca e hai bene in mente a cosa serve.” Anche Giacomo, ora a Monaco di Baviera per studia-re Ingegneria Gestionale, ribadi-sce: “Mettendo le mani in pasta con progetti e presentazioni, mi sono ritrovato per ben due volte in un’azienda BMW a partecipa-re a diverse lezioni; una di queste verteva sulla nuova ‘joint ventu-re’, nata con PSA per lo sviluppo di macchine elettriche (i3 e i8): abbiamo potuto vedere la catena di produzione dei motori elettrici di alcuni prototipi disponibili sul mercato entro un paio d’anni.”

QUESTIONE DI LINGUA

Chi fa un’esperienza all’este-ro si ritrova a dover imparare una nuova lingua, ad un livello che non è possibile raggiungere con dei corsi in Italia. In riferimen-to a ciò, Marta precisa: “Ormai non è più pensabile non conosce-re l’inglese: da questo punto di vista l’Erasmus è fondamentale, perché finché non vivi in un pae-se estero non hai una vera padro-nanza della lingua.” Le fa eco Ma-ristella: “Il fattore più importante è che non impari solo la lingua in sé, ma anche il linguaggio tecni-co del tuo campo. Oggigiorno tut-te le pubblicazioni sono in lingua inglese, pertanto chiunque voglia stare al passo con la ricerca de-ve poter accedere alla letteratura nella lingua in cui è scritta”.

Essere in Erasmus offre inol-tre la possibilità di incontrare studenti provenienti da luoghi e culture diverse. Marta stessa rac-conta: “A mio avviso è molto inte-ressante incontrare persone che vengono da tutto il mondo e che, certe volte, hanno veramente una cultura completamente diversa dalla nostra! Questo ti permette di allargare i tuoi orizzonti, cosic-ché diventi – oserei dire – un po’ meno schizzinosa…”. Livia sotto-linea: “In classe siamo pochissi-

mi studenti, in prevalenza stra-nieri: ad esempio, ho conosciuto un ragazzo indiano che ha già in mano due lauree! Essere in corso insieme a persone come queste ti dà la possibilità di poter impara-re a lavorare con gente diversa da te, che in molti casi è molto più avanti a livello accademico.”

ESAMI “REGALATI”?

Infine, abbiamo chiesto loro una valutazione rispetto al livello degli esami: sono davvero più fa-cili di quanto non lo siano al Po-litecnico?

Maristella risponde: “Chi di-ce così è chi ha volutamente scel-to esami facili. Poiché in genere si va in Erasmus per la Laurea Spe-cialistica, si è liberi di scegliere esami più facili; d’altronde, an-che rimanendo a Milano si può agire in modo analogo. Per esem-pio io, per farmi approvare cin-que esami, ne sto facendo ben undici. Certamente sono più pic-coli: però restano comunque un-dici esami!”

Replica Virgilio: “Secondo me sono più semplici dal punto di vista concettuale, ma la parte pratica e i laboratori sono molto più tosti. Ho dovuto confrontarmi mediamente con 2 consegne setti-manali e con strumentazioni che non avevo mai visto”.

Tutte queste testimonianze ci hanno fatto vedere che grande sfida racchiuda in sé la possibilità di un’esperienza Erasmus. È evi-dente che studiare al Politecni-co di Milano sia diverso rispetto a qualunque altra università eu-ropea! Tuttavia, ciò che questi ragazzi ci hanno raccontato mo-stra come trascorrere alcuni me-si all’estero non sia una perdita di tempo e che incontrare un nuo-vo modo di approcciarsi allo stu-dio sia valido per la formazione a livello lavorativo. Questo senza rinnegare nella maniera più asso-luta l’impostazione teorica e rigo-rosa che distingue il Politecnico dalla maggior parte delle univer-sità del mondo. In merito a ciò, esprime la sua opinione Maristel-la: “Io sono grata della mia pre-parazione di base teorica del Poli-tecnico, perché a volte le persone che incontro qui non conoscono le ragioni che stanno dietro ad un metodo risolutivo, ma sanno solo applicarlo”.

Per quanto riguarda gli esa-mi, è chiaro che le motivazioni per cui è interessante andare in Erasmus possono essere diver-se. Volendo perdere tempo, non è impresa così difficile riuscire a trovare 40 crediti “regalati”. In-vece, se questa possibilità viene presa realmente sul serio, può risultare utile a contribuire allo scopo per cui noi siamo in univer-sità: diventare ingegneri.

di Tommaso Colombo e Stefano Sabatini

Nuova occasione di prendere legnate al poli!

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10 // Giugno 2012 • Anno VI Giugno 2012 • AnnoVI // 11POLIPO tentacoli di giudizio POLIPO tentacoli di giudizio

La passione di chi è del mestiere

Parlando da studenti di de-sign, possiamo affermare tranquillamente che questo corso di laurea ci garantisce

una preparazione completa, unen-do contenuti teorici e progetto. Ma una volta laureati, che cosa ci aspet-ta? Quali sono le prospettive? Mos-si da questa domanda sul nostro fu-turo, abbiamo deciso di proporre in università per il secondo anno conse-cutivo la serie di incontri “Caffè con il designer”, invitando alcuni impor-tanti e giovani professionisti del pa-norama attuale, a cui è stato chiesto di raccontarsi attraverso una presen-tazione dei propri progetti, ripercor-rendo la propria esperienza, il per-corso svolto e come sono giunti alla loro posizione attuale.

L’aspetto fondamentale che si è evidenziato in tutti e tre gli incon-tri finora svolti è stata un’incredibi-

le passione al lavoro, aspetto fon-damentale in questa professione. Odoardo Fioravanti, industrial desi-gner già nostro ospite lo scorso anno, di fronte alla domanda di alcuni ami-ci e compagni che chiedevano se la lecture e i progetti presentati fossero gli stessi, ha risposto: “La passione di chi pone una domanda di questo tipo è come un tassametro: si accende so-lo quando serve”. La passione in cui ci si imbatte può e deve essere colti-vata in questi anni di università, in-fatti, nonostante i progetti presentati fossero bene o male gli stessi, è suc-cesso a molti, sentendoli descrivere nuovamente, di comprendere meglio quello che studiamo. È entusiasman-te vedere come materiali e tecnologie vengano scelti e applicati nel prodot-to, che non risulta un prodotto indu-striale qualsiasi, anonimo, ma un og-getto che porta con sé l’impronta ed il dettaglio di chi l’ha disegnato. Pas-sione significa confrontarsi con pro-getti di ogni forma e dimensione, e

così Fioravanti ha mostrato uno do-po l’altro un moschettone, un vasso-io, una tortiera, un battipanni, posa-te da cucina fusion, un monocolo, un telescopio, un letto e uno sgabel-lo, fino ai classici “oggetti di design” lampada e sedia. “Quando studiavo dicevo: basta sedie, troppe sedie al mondo... Così ho avuto la bella idea di fare una sedia”. Odoardo introdu-ce così Snow, progetto nato non per il gusto o il desiderio di aggiungere un altro pezzo all’infinita serie di sedie esistenti, ma dalla ricerca furiosa di un’azienda con cui lavorare. Colpisce come da una necessità così stringen-te si sia sviluppato il suo progetto più importante dal punto di vista econo-mico, seguito da un consolidamento del rapporto con l’azienda produt-trice Pedrali, che, qualche anno do-po, gli ha proposto la progettazione di una nuova sedia, grazie alla quale Fioravanti è stato premiato nel 2011 con il Compasso d’Oro ADI.

Passione significa dunque anche muoversi, prendere inizia-tiva e mettersi in gioco, affron-tando situazioni e circostanze apparentemente difficili e compli-cate come il bisogno di lavorare e quindi cercarsi un’azienda per farlo. Circostanze che al contra-rio possono sembrare da sogno, come quella dalla quale è nato il magazine IL - Intelligence in Life-style, mensile maschile de Il So-le 24 ORE, fondato da Francesco Franchi, Luca Pitoni ed Ilaria To-mat, graphic designers. Questi tre progettisti, con formazioni e per-sonalità molto diverse tra loro, si sono trovati davanti ad una si-tuazione idilliaca in cui avviare il progetto: un committente impor-tante come Il Sole 24 ORE, grande libertà e possibilità di sperimen-tare, il tutto in un team dall’età media sotto ai 30 anni. L’aspetto più interessante da sottolineare è stato come nonostante i pochi vincoli, in questa libertà i pro-gettisti non siano naufragati, ma abbiano concretizzato e messo a punto la passione particolare di ciascuno: il risultato è l’intuizio-ne di dare uno stile infografico al-la rivista, ed una evoluzione del lavoro del graphic designer nel campo dell’editoria, che porta lo stesso ad essere anche nel con-tempo anche giornalista, in quel settore emergente e di avanguar-dia definito “graphic journalism”. Il magazine, nonostante i suoi po-chi anni di vita (il primo numero è uscito nel novembre 2008), sta già facendo scuola, ricevendo nu-merosi premi e menzioni d’ono-re, la più prestigiosa al XXII Com-passo d’Oro ADI.

Ma da dove arriva questa

di Davide Settoni e Luca Lupi

di Lorenzo Frangi

La Stampa, 28 Marzo 2012: «Si da fuoco davanti all’agenzia delle entrate: è grave. Dietro al suo gesto, con ogni probabilità, le pendenze col fisco».

Il Giornale, 30 Aprile 2012: «La crisi fa un’altra vittima: un piccolo imprenditore si uccide perché obbligato a licenziare an-che i suoi figli»

Il Giornale, 6 Maggio 2012: «Un altro imprenditore suicida: ‘La dignità vale più della vita.’ Un biglietto carico di orgoglio e di-sperazione»

La Repubblica, 10 Maggio 2012: «Si uccide nel santuario di Pompei. ‘Un gesto contro Equita-lia’».

Corriere della sera, 10 Mag-gio 2012: «Aveva 62 anni l’opera-io edile che si è ucciso, a Salerno, con una fucilata al petto. Accanto al corpo anche questa volta un bi-glietto: ‘Senza lavoro non si può vivere’».

I l lungo elenco di tutti gli im-prenditori suicidi in quest’ul-timo periodo potrebbe conti-nuare, ma non è questo ciò

che ci interessa. Vogliamo sposta-re l’attenzione su un altro punto di vista; per essere aiutati, citia-mo una celebre frase di 2000 an-ni fa: «Che giova infatti all’uomo conquistare il mondo intero, se poi perde sé stesso? O che mai da-rà un uomo in cambio della pro-pria anima?» (Vangelo di Marco, 8, 35-36). Una volta che tutto l’im-pero che hai creato crolla, cosa resta che può dare dignità e con-sistenza alla tua vita?

Il lavoro ha un’indubbia cen-tralità: emerge come evidente

manifestazione dell’identità del-la persona, nonché come il modo più comune di rispondere ai biso-gni della gente e di contribuire al-lo sviluppo della società.

«Se non avessi un lavoro, di sicuro me lo inventerei - ci ha rac-contato Fortunato, un impren-ditore milanese -; detto ciò, non credo che tutto sia in mano mia, ma se il buon Dio mi ha fatto con questo desiderio, se Lui mi ha fat-to così, un motivo ci sarà. Il mio vivere non può essere per il “nul-la”; deve avere - anzi - ha un sen-so».

Spiega meglio questa posi-zione Paolo, industriale che la-vora nell’ambito dell’automazio-ne: «Gli imprenditori sono votati a “costruire”, non sono degli ese-cutori, sono dei “creativi”. Per fare l’imprenditore bisogna por-si più domande rispetto agli al-tri, bisogna cercare di seguire ciò che indica la realtà (il mer-cato, i clienti, l’economia, la ge-

opolitica), per poter realizzare costruzioni che stiano in piedi, progetti che funzionino bene, or-ganizzazioni efficienti. Il rischio più grande che corriamo è quello di credere che tutto ciò che fac-ciamo sia frutto solo della nostra abilità personale. Chiunque viva così, imprenditore o meno, pri-ma o poi si scontrerà con l’alte-rità del mondo reale, che darà il vero giudizio sull’azione di ognu-no. Davanti a questo giudizio, se lo sguardo è puntato su di sé, se è rivolto unicamente a valutare la propria riuscita personale, posso-no nascere dei problemi. Ma se lo sguardo è attento al suggerimen-to che tutto ciò che ci circonda (inclusa questa crisi, anzi princi-palmente essa!) ci vuole indicare, la fatica per porre in atto il cam-biamento necessario sarà grande, ma non disperata. Proprio quan-do sembra che tutto finisca, si è solo all’inizio di qualcosa di più grande».

La stessa posizione ci viene testimoniata anche da Fortuna-to: «Il mio desiderio è di costru-ire, di fare; ma, al contempo, mi accorgo di diventare sempre più certo che tutto ciò che mi è dato è utile – per me e per tutti – co-sì come è, bello o brutto che sia. Tutto diventa veramente un’occa-sione, tutto serve al Buon Dio e a me. Così, pur nella fatica, posso dire con certezza di essere tran-quillo».

Abbiamo deciso di introdur-re nel nostro giornalino universi-tario anche questo tema d’attuali-tà, perché riteniamo interessante la posizione che ci hanno testimo-niato questi due imprenditori di fronte ad un fatto così spinoso. Siamo certi che – come dice Pa-olo – «solo la coscienza della re-altà come un grande suggerimen-to e la presenza di una compagnia di amici che ti aiuti a ricordarlo permettono di resistere a questa tempesta epocale», in cui il valo-

re e la consistenza dell’uomo so-no messi in dubbio, a tutti i livel-li.

Ciò che più ci ha colpito è un articolo apparso in questi gior-ni sul Corriere della Sera dell’ 8 Maggio 2012, un’immagine che ri-dona speranza: «Abbraccia e sal-va il padre che si stava impiccan-do. La ragazzina lo sostiene per le gambe fino all’arrivo dei soccor-si». La semplicità di questo gesto testimonia la vera natura dell’uo-mo: noi non consistiamo del suc-cesso delle nostre azioni o del po-tere che riusciamo a conquistare. La forza della persona sta in qual-cosa d’altro; qualcosa a cui essa stessa riconosce di appartenere totalmente, qualcosa di cui con-siste in tutto e per tutto: un bene reso evidente dall’abbraccio della figlia che salva il padre dal gesto estremo della disperazione.

LA DIGNITÀ VALE PIÙ DELLA VITA

passione al nostro lavoro? Viven-do intensamente tutta la quoti-dianità. È questo ciò che è emer-so nell’incontro con Francisco Gomez Paz, che ha raccontato di quanto trovi affascinante cono-scere ed approfondire qualsiasi cosa e materia, da leggere un li-bro di filosofia a imparare ad uti-lizzare un software di modella-zione tecnico ingegneristico. Ne deriva uno sguardo aperto che coinvolge tutti i fattori, nel con-creto a riconoscere la tecnologia LED come strada da percorrere per poter disegnare oggetti nuo-vi, oppure a lanciarsi in progetti di carattere sociale come la Solar Bottle sviluppata con Alberto Me-da.

In università cerchiamo e continueremo a invitare perso-ne, maestri, con questa passione e affezione al proprio lavoro, per-ché attraverso i loro racconti ab-biamo riconosciuto un modo più vero ed interessante di vivere ora l’università e in futuro il lavoro. Non ci rimane che provare a se-guirli, cominciando dall’interesse per quel luogo che ci vede prota-gonisti ogni giorno, ovvero l’uni-versità, con il desiderio di avere sempre chiara la strada per una maggiore serietà e bellezza nella vita e nello studio, che nasce da questo vivere appassionato.

1. Odoardo Fioravanti, 29 marzo 20122. Da sinistra verso destra: Ilaria Tomat, Francesco Franchi e Luca Pitoni, 12 aprile 20123. Francisco Gomez Paz, 30 maggio 2012

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12 // Giugno 2012 • Anno VI POLIPO tentacoli di giudizio

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Senato accademicoAndra MontanaroMarco [email protected]

Consiglio Nazionale degli Studenti UniversitariMarco [email protected]

Puoi contattarci per qualsiasi cosa inviandoci una mail a:[email protected]@poli-listaperta.it

Riguardo al fare il Poli so-no una persona piuttosto lamentosa. Naturalmen-te per prima cosa sono

orgoglioso di fare un’università così formativa e valida! Però inge-gneria è difficile! E ci sono due-mila ore di lezione alla settima-na! E non ci sono le tipe (fuorché in gestionale)! E ci sono mille al-tre piccole obiezioni che mi fanno pensare che forse una piccola lau-rea in Filosofia della gestione dei rifiuti dei parchi marini non era così male. Nemmeno un posto di cassiere al Carrefour è così male appena prima dell’orale di Scien-za delle costruzioni.

Ma vi siete mai chiesti dove sareste se non qui nella calda Mi-lano estiva a spaccarvi il cervel-lo con quei simpaticoni di Lapla-ce, Fourier e Bernoulli? A volte le alternative sono intrigantemen-te peggiori: avete mai pensato di laurearvi in impacchettamen-to? No, davvero, si parla di una laurea solo sul trattamento delle scatole, sull’economia e i cano-ni estetici delle scatole. Secondo me dev’essere una gran rottura di balle (pensavi scatole?). Certo, la sede del Politecnico del Winscon-sin non è dietro l’angolo, ma so-no sicuro che un appassionato non ci rinuncerebbe. Peraltro pa-re che nell’ambito si lavori parec-chio! Volendo una sede più vicina si potrebbe ripiegare a Southam-pton in UK dove dal 2009 c’è una laurea per chi la carriera la butta

sul ridere: corso di laurea in co-micità. Tanto già uno che si pre-senta e ti dice: “Ciao sono inge-gnere gestionale!” fa più ridere e prende più soldi. Quindi che sen-so ha approfondire la commedia in ambito di produzione e per-formance? Diciamo che ne farei un hobby tuttalpiù… E restando in ambito hobby, almeno uno io lo coltivo seriamente! Esaurire il cruciverba orribile del Metro ogni giorno, la prima ora di lezione. Dico orribile perché nemmeno il tizio che lo fa saprebbe risolver-lo, a meno che non sia un cyborg con le facoltà miste di Google e Wikipedia. Le definizioni sono del tipo: noto coreografo rinasci-mentale allievo di Domenico da Piacenza, o tumore maligno corre-lato all’azione di un virus apparte-nente alla famiglia degli Herpesvi-rus. È evidente che questo sadico che ogni mattina mi costringe a lasciare decine di caselle bian-che dovrebbe conseguire una bel-la laurea in enigmistica. Pecca-to che ne sia stata concessa solo una nel 1974 dalla Indiana Univer-sity a Will Shortz che ora i cruci-verba li fa per il NYT. Altro hob-by magnifico è la caccia al pesce o, come si usa dire con lo slang dei giovani, la pesca. Perché non prepararsi a una bella battuta di pesca alla trota con una laurea in scienze della pesca? Pare che, in questo corso dell’università del Colorado, ti preparino anche nella magnifica materia della Psi-cologia del Pesce. Immagino che un totano sia un avversario com-

plesso da affrontare, noto com’è per il suo acume.

Le università Americane, molto più fantasiose di quelle del vecchio continente, sono pro-dighe di lauree da spacconi in scienze di tutti i tipi. Ce n’è una che è terribilmente curiosa: lau-rea in scienze della morte. Nien-te a che vedere con zombie o hi-glander purtroppo, ma la morte senza dubbio è un business. A me non è mai successo, ma so che ogni tanto le persone muoiono e allora è meglio che qualcuno sia preparato all’evenienza. Ma tan-to ci pensa l’università dell’Okla-homa a formare ottimi gestori di pompe funebri e eventualmente imbalsamatori! Invece la Vincen-nes University propone un ma-gnifico master in Bowling Ma-nagment! Suona terribilmente da gestionale. Serve ad occupar-si di tutto: dal cliente alla pista. Si impara persino la Meccanica del Birillo, sicuramente molto più divertente e pragmatica della no-stra vecchia Meccanica Raziona-le. Non sarebbe il caso di pensio-narla e insegnare a tutti i futuri ingegneri come maneggiare il bi-rillo? Non sono da meno altre due lauree statunitensi che merite-rebbero di essere specialistiche di Scienze della Comunicazione: per la sezione marketing si può scegliere tra il corso di laurea in banditore d’aste o di laurea in vendita di fiori. Scommetto che il signore che vende le camelie in piazza Piola e se la cava tutto sommato bene anche senza sape-

re dell’esistenza di questo corso. Immagino che comprenda lezio-ni di “Importunare la gente che fa movida cercando di vendere rose smorte”. Per quanto riguarda il banditore d’aste devo ammettere che non conosco nessun appren-dista in materia, ma immagino ci voglia allenamento per maneg-giare il martelletto e indicare chi paga di più con precisione. L’ul-tima che vi propongo invece non è male. La laurea in attività av-venturose è una specie di laurea in scienze sportive ma con una molla in più. Infatti come molti di voi avranno già capito (soprattut-to chi fa il cruciverba del Metro) si occupa di rafting, bungee jum-ping e via dicendo. Non conosco la richiesta di mercato di perso-nale addetto, ma tutto sommato per una volta si potrebbe anche andare a laurearsi senza prospet-tive lavorative, come chi fa Filo-sofia o Psicologia, però diverten-dosi come dei matti.

Dopotutto non è così malva-gia l’idea di passare sei o sette an-ni al Poli (e magari due o tre a fa-re Tecnica delle Costruzioni) per poi però fare l’ingegnere civile o aerospaziale e non il gestore dei morti, dei fiori o dei pacchetti. Adesso che inizia una nuova ses-sione sarà meglio che mi aggrappi a questo e all’orgoglio. Altrimen-ti mi trovate come gli ultimi tre anni a Varese all’università della birra…

P.S. Le risposte alle definizioni del cruciverba sono Guglielmo Ebreo da Pesaro e sarcoma di Kaposi.

Se non facessi il Poli

by Caronte

1. Laurea in impacchettamento2. Laurea in comicità3. Laurea in enigmistica4. Laurea in scienze della pesca5. Laurea in scienze della morte6. Laurea in bowling managment7. Laurea in banditore d’aste8. Laurea in vendita di fiori9. Laurea in attività avventurose