Paura del buio

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Crisi di panico è una scusa che non mi è mai piaciuta. Ma a volte bisogna guardare in faccia la realtà. Quando il mondo attorno si confonde, il tempo si sfalda. Quando niente sembra potersi incastrare al proprio posto, i contorni si spezzano, tutto si mischia. E il tuo respiro non ti resta dentro, scappa, accelera, fugge, confuso con i battiti del cuore e le lacrime, incontrollate, senza motivo. Quando non sai più nulla se non che sei vivo e non vorresti, quando attorno tutto è così pesante perché così lontano. Allora hai ben poco da fare, non puoi prenderti scuse. Crisi di panico.

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Servizi Culturali è un'associazione di scrittori e lettori nata per diffondere il piacere della lettura, in particolare la narrativa italiana emergente ed esordiente. L'associazione, oltre a pubblicare le opere scritte dai propri soci autori, ha dato il via a numerosissime iniziative mirate al raggiungimento del proprio scopo sociale, cioè la diffusione del piacere per la lettura.

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DESCRIZIONE:

Crisi di panico è una scusa che non mi è mai piaciuta. Ma a volte bisogna guardare in facciala realtà. Quando il mondo attorno si confonde, il tempo si sfalda. Quando niente sembrapotersi incastrare al proprio posto, i contorni si spezzano, tutto si mischia. E il tuo respiro nonti resta dentro, scappa, accelera, fugge, confuso con i battiti del cuore e le lacrime,incontrollate, senza motivo. Quando non sai più nulla se non che sei vivo e non vorresti,quando attorno tutto è così pesante perché così lontano. Allora hai ben poco da fare, non puoiprenderti scuse. Crisi di panico.

L'AUTORE:

Mattia Placanica, classe 1983. Laureato in scienze dei beni culturali pressol'Università degli Studi di Milano, è Appassionato di scrittura, musica efotografia. Lavora come libero professionista nel mondo della comunicazione.

Titolo: Paura del buio Autore: Mattia PlacanicaEditore: 0111edizioni Collana: SelezionePagine: 118 Prezzo: 13,00 euro11,05 euro su www.ilclubdeilettori.com

Leggi questo libro e poi...- Scambialo gratuitamente con un altro [leggi qui] - Votalo al concorso "Il Club dei Lettori" e partecipa all'estrazione di unPC Netbook [leggi qui] - Gioca con l'autore e con il membri della Banda del BookO (che silegge BUCO): rapisci un personaggio dal libro e chiedi un riscatto perliberarlo [leggi qui]

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E' la nostra web tv, tutta dedicata ai libri. Se hai il video della tua presentazione, oppure un videotrailer del tuo libro, prima pubblicali su YouTube, poi comunicaci i link. Dopo aver valutato il materiale, lo inseriremo nel canale On-Demand di TeleNarro.

Se hai in programma una presentazione del tuo libro nel Nord Italia e non hai la possibilità di girare il filmato, sappi che c'è la possibilità di accordarsi con Mario Magro per un suo intervento destinato allo scopo. Contatta Mario e accordati con lui.

PARLANDO DI LIBRI A CASA DI

PAOLO ogni mercoledì alle 21 in diretta su TeleNarro

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La trasmissione di Paolo Federici dedicata ai libri. Ogni mercoledì alle 21 in diretta su TeleNarro. E' possibile vedere le puntate già mandate in onda sul canale On-Demand

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E se il libro ti piace, potrai richiederne una copia in omaggio con l'iniziativa Adottaunlibro. Clicca su Bookino...

IL CASSETTO DEI SOGNI

(prima trasmissione prevista a FEBBRAIO 2010)

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A differenza di "Parlando di libri a casa di Paolo", questa trasmissione, condotta da Mario Magro e sponsorizzata dalla nostra associazione, tratterà solo libri della 0111edizioni. Anche in questo caso, i libri presentati sono scelti dal conduttore, che li seleziona fra una rosa di titoli proposti dalla casa editrice.

E' però possibile richiedere una puntata dedicata a un libro specifico, non compreso nell'elenco di quelli selezionati, accordandosi direttamente con il conduttore, Mario Magro.

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Se hai letto un libro di un autore italiano (edito da qualunque casa editrice), votalo al concorso Il Club dei Lettori e partecipa all'estrazione di numerosi premi. La partecipazione al concorso è gratuita.

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In questo gioco a premi avvengono rapitimenti un po' anomali: le vittime sono personaggi di romanzi, che verranno poi "nascosti" in altri romanzi a discrezione dei rapitori e per la liberazione dei quali è richiesto un riscatto all'autore. Qui entra in gioco la "Squadra di Pulizia", che tenterà di liberare il personaggio per evitare all'autore il pagamento del riscatto. In questa fase sono anche previsti tentativi di corruzione da parte dei Puliziotti nei confronti dei rapitori... ma non è il caso di spiegare qui tutto il funzionamento del gioco... per il regolamento è meglio fare affidamento all'APPOSITA PAGINA. E' possibile giocare e andare in finale nei ruoli di RAPITORE, VITTIMA, PULIZIOTTO, GIUDICE e PENTITO.

In palio c'è un premio per ognuna delle 4 categorie. Il premio, di cui inizialmente viene specificato solo il valore massimo, viene scelto dai rispettivi vincitori dopo il sorteggio.

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Mattia Placanica

Paura del Buio

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PAURA DEL BUIO 2009 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2009 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2009 Mattia Placanica

ISBN 978-88-6307-257-0 In copertina: Immagine di proprietà dell’Autore

Finito di stampare nel mese di Marzo 2010 da

Digital Print Segrate - Milano

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A mia madre

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[Introduzione] Chiudere gli occhi. Per nascondersi alla vista delle paure che fanno tremare il cuore, per sprofondare, senza soluzione di continuità, nella paura del buio. Ho provato a lottare contro la natura dell’uomo, contro me stesso, ho provato a darmi fiducia, ma in entrambi i casi il risultato è sempre stato lo stesso: arriva un punto, un momento, dove bisogna chinare il capo e accettare le proprie fobie, farsene carico e continuare a camminare. Come una Fenice che risorge dalle proprie ceneri, siamo destinati a cadere mille volte e rialzarci, a mettere al rogo la nostra es-senza per generarne una nuova, né diversa né uguale ma semplicemente contigua, per il gusto di dare un senso ai nostri ricordi, per avere una linea nel passato su cui distribuire i frammenti dei visi che abbiamo amato e degli occhi in cui abbiamo confessato la nostra umanità. Quella stessa linea che abbiamo maledetto ogni santo giorno in cui il suo stringerci attorno alla vita non ha permesso di lanciarci, cordone ombelicale di salvataggio della paura. Perché quello che abbiamo alle spalle, per quanto passato, ricordo, vissuto, possa essere continua a tormentarci forse più del presente stesso. Così invadente che chiamarlo passato non è che un’iperbole illusoria della nostra capacità dialettica, il lusso di fingere che sia veramente passato. La storia, invece, procede senza illusioni e trascina con sé tutto quello che non si stacca. Quello che siamo stati e le vite che abbiamo vissuto costituiscono la consapevolezza del nostro peso, il fardello che, passo dopo passo, custodiamo gelosamente e chiamiamo esperienza. Ho chiuso gli occhi per cercare di dare un senso ai giorni che si sovrap-ponevano uno sull’altro come inutili menzogne, per dimenticare l’odore della polvere e per illudermi che il buio non fosse che una parentesi tra due battiti di ciglia. Ho raccolto i sussulti in parole, i silenzi in emozio-ni e trasformato tutto in scarabocchi sputati sul bianco candore di que-ste pagine. Ho chiuso gli occhi per ricordarmi che in quanto essere umano, come

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tutti, posso ancora concedermi il lusso di avere paura del buio.

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“Amor, ch'a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte,

che, come vedi, ancor non m'abbandona.” Dante Alighieri

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[06:00] 6.05 – Prima corsa in linea due. Manuel già sul binario col giubbotto stretto fino al collo. Ha gli occhi ancora spenti dal torpore del sonno, mentre dei sogni, ormai da tempo, ha dimenticato il sapore. La sua ma-no, velata dall’aroma di una Marlboro light fumata troppo in fretta, cer-ca nella tasca il cellulare spento. Pochi istanti e il monitor si illumina. NESSUNA COPERTURA DI RETE. Silenzio e un sorriso. Perfetto – pensa fra sé. Le porte del vagone si aprono: lo scomparto è praticamente de-serto. Poche ombre, tutte rintanate nei propri pensieri e nella vita smar-rita qualche fermata prima. C’è chi legge il giornale incredulo che il mondo abbia ancora qualcosa da dire ogni mattina, chi assapora tra le labbra il gusto del primo caffé della giornata e c’è chi si guarda in uno specchietto per aggiustare il trucco. Chi stancamente inizia il proprio turno di lavoro e chi torna a casa. C’è una città, in quel tubo venti per quattro. A piccoli bocconi, minuscoli granelli, ma una città intera. Ogni persona porta in sé un piccolo riflesso della metropoli, una cicatrice dei giorni che si susseguono sulla pelle. Ognuna di quelle persone, attraver-so i propri occhi, racconta della frenesia di una vita che sta fuggendo a grandi passi, giorno dopo giorno. Questa Milano che non sa aspettare, pensa Manuel mentre cerca un po-sto dove ingannare il rumore delle pensiline che scorrono. Questa Mila-no che non sa far crescere i propri figli in pace, che li mastica fin dai primi vagiti e li tira su a botte di cruda realtà. Alle sei del mattino il mondo è già stanco di essere sveglio. Ha nelle ossa il lavoro del giorno prima e negli occhi quello del giorno dopo. Il presente è soltanto una parentesi tra ciò che abbiamo fatto e ciò che faremo. Terribile. Una gabbia da cui non c’è possibilità di fuga. Perché una volta che sei fuori dall’oggi, domani il mondo avrà ancora lo stesso colore, gli stessi sapo-ri, lo stesso tempo che scorre e ti riporta indietro, che ti ricorda che ieri, oggi o domani la data sarà soltanto un’illusione sul calendario, annotata come tante altre, dimenticata facilmente. Avanti e indietro, di continuo, per tutta la vita. E’ un po’ come svegliarsi sempre lo stesso giorno, sempre uguale.

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Manuel ha soltanto 20 anni. Eppure sa che in quel vagone venti per quattro, alle sei del mattino, c’è un’intera città che, anche se è già stan-ca di se stessa, ricomincia. Sa che non è facile, essere lì, a quell’ora, per nessuna di quelle persone. Però ci sono, si sono alzate dal proprio letto e hanno affrontato l’ennesimo giorno uguale a tanti altri. Perché? Ma-nuel si scopre infinitamente diverso da loro. Ma il dondolare dei binari lo culla nel medesimo modo, fermata dopo fermata. Mentre i chilometri scorrono e il vagone si sveglia, mentre i pensieri si sfogliano come le pagine di un quotidiano già visto, le porte si aprono e si chiudono, il vagone riparte trainato da quello prima, trainando quello dopo. Come un giorno che si lega a un altro. Bastano pochi istanti, una frazione di secondo, a far sparire la scritta STAZIONE CENTRALE dai muri e far ap-parire il buio. Perché sottoterra il sole non sorge mai. Non si ha l’illusione che sia giorno, che sia un nuovo giorno. Sottoterra il mondo non ha tempo, non ha stagioni. Manuel pensa al conducente del treno: per lui, oggi, potrebbe essere primavera. Il freddo di questo novembre che sta avvolgendo la metropoli non arriva fin qua sotto. Il cielo grigio-blu e la brina, la mattina non penetrano nel terreno, non scalfiscono i binari. In linea due, oggi, è una giornata d’inizio maggio. Questa Mila-no che sa controllare anche il tempo, se vuole. A pensarci, potrebbe an-che già essere estate. Basterebbe immaginarlo, basterebbe volerlo. E allora sarebbe sufficiente convincersi che tutti attorno si sono vestiti nel modo sbagliato. Che fuori fa caldo, al di là della scalinata, in quella parte del mondo che ci scorre sopra la testa. Manuel pensa al conducen-te del treno e per un momento lo invidia. Perché, in fondo, ha la possi-bilità di andare altrove, fermata dopo fermata, può immaginarsi la pro-pria vita in un susseguirsi infinito di stagioni. Uno strattone brusco del freno, però, riporta la realtà prepotentemente nella testa di Manuel. Man mano che le fermate si sovrappongono, i volti riflessi nei vetri del quarto vagone del primo treno della linea due direzione LAMBRATE cambiano capelli, occhi ed espressioni. Le facce si mischiano, le voci si intrecciano. E’ impossibile osservare tutti, eppure ognuno ha qualcosa da dirci, in silenzio.

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[07:00] Fermata Piola. La stazione è ancora deserta. Milano est di universitari in viaggio verso il proprio destino che si perdono e si rincorrono tra i corridoi del politecnico e della statale. A pochi passi da lì, fuori, dove la città si sta svegliando, ogni mattina, puntuali, con la propria colazione di calcoli e libri, di domande e di non risposte. Perché in fondo parte anch’essi di un gioco più grande, che non risparmia nessuno. Anch’essi in realtà imprigionati in una gabbia che li traina giorno dopo giorno verso un futuro che non sanno immaginare. Con le paure di tutti, di chi a vent’anni sente di poter conquistare il mondo, ma si trova perso in una nebbia diffusa, densa, grigia. Perché a vent’anni si è stupidi davve-ro, però, essere stupidi è la cosa più umana e vitale che si possa fare. A vent’anni si vuole rischiare tutto. Ci si butta nel mezzo anche quando non si hanno carte da giocare, per la sola emozione di dirsi io c’ero, per la gioia di riconoscersi negli sguardi di chi ti sta attorno. Anche, forse, per lo slancio naturale delle cose che dall’adolescenza ti trascina in un mondo di sogno e belle speranze. Perché a vent’anni si ha ancora la forza di amare con la propria anima e il sangue sui polsi, di amare dav-vero e credere che sia la cosa più naturale del mondo. A vent’anni, la vita, non ha ancora cominciato a pesare sulle spalle. Ma Manuel, ormai, si destreggia tra quelle ridicole cifre come uno che i vent’anni li ha pas-sati da un pezzo. Forse per quello che improvvisamente si è sentito ca-dere addosso, forse per la spregiudicatezza e l’arroganza di sentirsi di-verso o forse soltanto per moda. L’edicola sistema i giornali in vetrina. Il mondo cambia i titoli in prima pagina per vendere meglio, ma le notizie sono sempre le stesse. Il gior-no che ci sarà davvero qualcosa di importante da dire, da dire a tutti, non ci sarà tempo per stamparlo. Lo si saprà e basta. Manuel tira dritto, davanti ai quotidiani e davanti alle riviste porno. Non ha bisogno di tut-to questo, non ha bisogno di informazione, non ha bisogno di distrarsi. Manuel ha bisogno solo di se stesso e delle corse in metropolitana. Per-ché è questo ciò di cui è convinto, quello che si ripete a ogni minuto, a ogni passo. Questo è ciò che si sente dentro, mentre la stazione comin-

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cia ad affollarsi con l’arrivo dei primi treni e le persone corrono sulle scale, verso la luce, per tornare alla vita. Milano est di una Milano che non riesce a riposare. Prima di avvicinarsi alle scale la sua mano scivola nella tasca per con-trollare il cellulare. SENZA CAMPO. Perfetto – continua a pensare. Al primo gradino della rampa il monitor si è spento e il cellulare torna si-lenzioso nella tasca, nell’immobilità strenua di qualcosa di inutile, di superfluo, di vuoto. E’ difficile convivere con questa società – si legge negli occhi, Manuel, riflesso in una vetrina. Ti danno cose di cui non sai che fartene e poi ti obbligano ad averne bisogno. E’ pazzesco. Se non ce l’hai sei fuori, sei out. E allora ti convinci che forse anche tu dovresti avere quel qualcosa di magico che ti apre le porte del mondo. Ti convinci, ma poi non sai lo stesso che farne. Non è proprio necessità, però è l’unica scusa che riesci a darti. Te la concedi. Spendi i tuoi soldi, quelli grazie ai quali ti senti qualcuno, ti senti vivo. Il brivido del potere d’acquisto. Dovrebbero tassarlo come una qualsiasi altra droga. Ci circondiamo di cose inutili per non vedere attorno a noi il riflesso della nostra inutilità. Manuel lo sa. Lo sa bene, lui, che si osserva tutte le mattine, ormai, nei finestrini della metropoli-ta. Il caffé delle sette e venti ti riporta al freddo di novembre. La primave-ra, l’estate, tutto svanisce. Il caffé delle sette e venti ti ricorda che per svegliarti un solo sorso non basta. Ci vorranno altri caffé e altri ancora. Per tutta la giornata, per tutta la notte, per tutta la vita. Ti convinci, così, che hai bisogno anche della caffeina. E dello zucchero, ovviamente. E senza accorgertene ti ritrovi a vent’anni alle sette del mattino a bere caffé dolce corretto, con una sigaretta tra le mani e gli occhi spenti sull’ultimo titolo del corriere del tuo vicino di bar. Triste. Qualche mese prima pensavi di poter spaccare il mondo, di avere una vita da costruire, progetti da inseguire, speranze. Ora i tuoi pensieri litigano su chi per primo abbia il diritto di affogarsi nel rum della correzione del tuo e-spresso. Cazzo – urla nella propria testa Manuel.

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Alle 7.45 novembre, per Manuel, si è trasformato nuovamente in una tranquilla giornata di marzo. Il vagone diventa sempre più stretto, per-sona dopo persona. Si riempie a ogni pensilina. Lo spazio che si stringe porta via aria ai pensieri, Manuel lo sa, per questo nel suo angolo sorri-de. Sorride guardando quella corrida di pecore accozzate una all’altra, gli scambi di sguardi tra sconosciuti, le cortesie, finte e ipocrite, le spin-te e le parole sottovoce dietro le spalle. Un piccolo circo, una rappre-sentazione ambulante della vitalità umana. Manuel sorride dietro agli occhiali da sole a lenti scure, mentre osserva lo sfoggio della cultura del nuovo millennio. Milano ha la metropolitana perché una città sola, per tutti, non basta. Perché c’è chi ha bisogno, quando si alza la mattina, di rimettersi subito a dormire altrove per ricominciare un sogno lasciato a metà da una vita. Perché a volte il cielo della città pesa, che sia azzurro o grigio o color arancione, pesa tremendamente di verità. Quando sei fuori, in mezzo alla vita che scorre, in mezzo al traffico della circonvallazione o dei marciapiedi del centro, senti che attorno a te tutto scappa e si intreccia in mille nodi di cui non puoi non fare parte. La vita ti attanaglia alla go-la, non ti lascia scelta, devi vivere. In sordina, certo, se vuoi rasente ai muri. Ma sei obbligato a muoverti, a pulsare, a fare parte di quel tutto. In metropolitana invece no. La vita rallenta, si ferma ai tornelli e resta fuori, ti abbandona nell’attesa di riprenderti per mano all’uscita. In me-tropolitana il mondo è come cristallizzato in immagini. Soltanto per un istante, un istante lungo quanto la distanza tra due fermate ma unico. Manuel guarda la faccia di fronte a sé, ma non capisce. Gli occhi delle persone parlano, dicono, raccontano. Gli occhi ti guardano e si lasciano guardare. Basta osservare con un po’ di attenzione per capire se chi hai di fronte questa sera sarà dalla parte di quelli che hanno vinto oppure se continuerà a fissarti chiedendosi la stessa cosa su di te. Per capire se la vita, con lui, è stata clemente, l’ha graziato, oppure ha voluto ricordar-gli che è soltanto un’illusione, che il destino, il percorso, la sua esisten-za sono alla mercè di un karma divinamente bastardo che intreccia i propri fili il più stretto possibile per non lasciarti speranza di capire. Puoi soltanto osservare e prendere le cose così come vengono, nell’attesa di una sorta di equilibrio, di bilanciamento, tra l’acqua che ingoi e l’aria che respiri. Manuel guarda la faccia di fronte a se ma non capisce. Poi le porte si aprono e l’espressione cambia. Come una diapositiva, clak. Cambio di

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immagine, di occhi, di viso, di vita. Manuel osserva il mondo mostrare i propri ritratti segnati dal tempo e si chiede da quale parte, di volta in volta, metterli. Vincenti o perdenti? Semplicemente vivi? Clak, l’ennesimo cambio. A volte non fa nemmeno in tempo ad appoggiare lo sguardo sui particolari che l’immagine passa. Ma forse è meglio così. Le persone hanno paura quando le guardi. Si sentono deboli, vulnerabi-li. Sanno che attraverso gli occhi non possono mentire e questo le terro-rizza. Non sanno che sei simile a loro, non sanno che anche tu non puoi nascondere quello che sei dietro a un paio di occhiali da sole. Ma loro ignorano e ti attaccano, ti guardano storto e ti additano, si scontrano. Hanno paura. Semplicemente paura. Questa è l’unica colpa della loro cattiveria. E la paura è il più umano dei sentimenti, ancora prima dell’amore. La paura è quello che regge questa vita, questo mondo. È la colonna su cui si appoggia tutta la nostra esistenza, preservata dalla propria autodistruzione, dal proprio lento sgretolarsi. Senza la paura sa-remmo incapaci di salvaguardare noi stessi. La coscienza è un’illusione. È la voce della paura che ci strattona per i capelli e ci blocca, ci propina scuse, ci schiaffeggia. Ma ci salva.

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[08:00] Da Cadorna a Duomo, a piedi, sono due passi, cinque minuti. E da Duomo all’Università Statale, forse, ancora meno. Eppure il freddo del mattino taglia le gambe e rallenta i pensieri. Alex allunga i passi con le note della musica dritta nelle orecchie. Non ha fretta, ma il pulsare co-stante della batteria incide come se fosse il battito del cuore. In un’unione alchemica tra la musica e l’anima, si lascia guidare dal ritma-to respiro delle canzoni. Ma la musica aiuta a far passare i minuti, non i pensieri. Ti anestetizza dalla noia ma non dalle paure e quando ti svegli con la sensazione che era meglio girarsi dall’altra parte invece che met-tere i piedi fuori dal letto, nemmeno l’assolo più bello del mondo può riportarti indietro. È al penultimo scalino della stazione che il vibrare sordo del cellulare ti ricorda la verità. Che da quel letto ci sei sceso. «CI VEDIAMO AL SOLITO BAR ALLE 12E35.BACIO.L» Leggere o non leggere non avrebbe fatto differenza. Era come se avesse intuito ogni singola parola non appena sul display era apparsa la scritta UN NUOVO MESSAGGIO e poi LARÙ. Come una doccia fredda, improvvi-sa. Come svegliarsi una seconda volta con quella brutta sensazione moltiplicata all’ennesima potenza. a un tratto riscoprirsi tragicamente vivi, presenti, succubi dell’inesorabile scorrere degli eventi. Con gli oc-chi fissi e ghiacciati sul display del cellulare, increduli e inermi e il freddo dritto tagliato nella gola, tra i respiri, dentro i polmoni e nelle vene. E nel cuore. Larù, o meglio, Laura. Un capitolo della propria vita su cui ancora non riusciva a fare chiarezza. Troppo fresca la ferita per vederne la cicatri-ce, troppo nuova per non sentire dolore. Completamente diversi, due opposti. Lei una giurista del primo anno della Milano bene, lui uno sta-talino di lettere con troppi esami da recuperare. In pochi mesi Larù gli aveva fatto cambiare vita – fascino di una Milano che ammaglia con i

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colori della notte. Aveva perso di vista gli amici e i vecchi giri. Aveva lasciato indietro esami e suonava sempre meno. La mattina, ogni volta che si guardava allo specchio, non vedeva se stesso ma un vago riflesso di qualcosa di smarrito. Erano mesi che non si sorrideva. Erano mesi che non si riconosceva neppure. Si erano conosciuti a una festa in centro, in uno di quei locali dove lei era di casa e lui aveva passato l’intera serata a chiedersi cosa ci facesse in quel posto. Potere delle amicizie comuni e delle feste di laurea. Ave-vano parlato un po’. Lei aveva cercato di farlo ballare, lui si era inven-tato scuse improponibili ma a loro modo “simpatiche” per non farlo. Alla fine si erano lasciati i numeri e si erano risentiti durante la settima-na. Un pranzo insieme, un’ora di studio e avevano cominciato a uscire e a frequentarsi. Avevano cominciato a piacersi, a diventare uno parte dell’altra ed, inconsciamente, a diventare il bisogno dell’altra. Non so se vi sia mai capitato di conoscere una persona completamente diversa da voi. E’ una vera fregatura. Sono come due angoli di un puz-zle. Non potrete mai attaccarli insieme, nemmeno forzando, nemmeno illudendosi. La realtà dei fatti è lì che ti guarda e ti ricorda che non è possibile, che sono palesemente due pezzi destinati a non stare vicini. Alex e Larù erano così, completamente diversi. Due angoli opposti. E fu proprio questa completa assenza di punti di contatto ad affascinarli. Questa sfida all’impossibile li aveva conquistati e avevano così sfaldato ogni concezione logica decidendo di innamorarsi l’uno dell’altra. Sì, suona strano, ma di questo in fondo si trattò, di decisione. Perché quan-do due angoli di un puzzle si trovano a incastrarsi, non ci sono altre spiegazioni se non la malaugurata e ironica decisione umana. All’altezza di via Mazzini i pensieri di Alex avevano già fatto il giro diverse volte sempre senza risultato. Larù era sparita una settimana prima senza dirgli nulla, da un giorno all’altro, aveva spento il cellula-re. A casa era irreperibile, sempre occupata oppure fuori. Sparita. Era come svegliarsi, di colpo, da un sogno tremendamente reale e non tro-vare attorno a sé nient’altro che il silenzio del torpore del sonno. Cos’era successo? Alex aveva passato intere notti a chiederselo, a farsi domande senza trovare risposte. Perché il dubbio è la peggiore delle maledizioni. Ti divora dall’interno, ti mangia i pensieri e non lascia spazio a null’altro. La realtà, per quanto tristemente e bastardamente dura a volte, per lo meno è quella. Può far male, può ferire fino

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all’angolo più profondo dell’anima e far sanguinare per molto tempo, ma una volta che si è rivelata non cambia, non muta. È difficile da dige-rire, ma esiste. Il dubbio invece nutre pensieri insicuri, mutevoli. Ti sca-raventa in un oblio di paranoie da cui è impossibile uscire perché im-possibile è trovare punti di appiglio. Se Larù gli avesse detto addio, A-lex avrebbe sputato il proprio sangue e la propria anima per farsene una ragione ma, prima o poi, avrebbe trovato uno spiraglio attraverso cui scavare per tornare alla luce. Ma così, in quella situazione di completa cecità, trovare un rivolo di luce non era soltanto impossibile ma addirit-tura impensabile. Era stata una settimana di merda. Tra ore di sonno bruciate e sigarette. Tra musica a tutto volume e lacrime. I giorni pesan-ti come secoli e i respiri incastrati tra un polmone e l’altro. Crisi di pa-nico era un nome che non gli piaceva, ma era l’unico alibi che il suo corpo poteva dargli. Rileggere quel nome sul cellulare, dopo una setti-mana, gli bloccò il respiro. Riaffiorò tutto, tutto quello che aveva cerca-to di lasciarsi alle spalle scendendo dal letto. Perché anche se fa male bisogna ricominciare, bisogna andare avanti. Aveva provato a costruirsi un motivo, una scusa, un’inutile farneticazione purché esistente. Ci si era aggrappato per tirarsi su con la forza delle braccia e ora vedeva frantumarsi tutto quanto. In un istante riapparvero tutti i pensieri, le paure, le paranoie e i pianti. Riaffiorò tutto nella memoria, indelebile. Quella bimba dagli occhi scuri gli aveva preso la vita, l’aveva modella-ta a suo piacimento e poi gliel’aveva ributtata addosso senza troppi complimenti soltanto un po’ sgualcita e più invecchiata. Ma la cosa peggiore di tutto questo era che lui l’avesse lasciata fare. Assecondata, accontentata. Si era innamorato, forse molto più di quanto si fosse in-namorata lei, e si era lasciato andare nell’illusione di un po’ di felicità. L’aveva fatta entrare nel proprio mondo di piccole cose e poco alla vol-ta si era lasciato cullare dai riflessi dei suoi occhi. Dolcemente e, ora, violentemente. Amore, pensava nella sua testa, coglione, si ripeteva da-vanti allo specchio. Tanto spesso da sembrare la stessa cosa. Era una scusa, lo sapeva, ma non riusciva a reagire. Essere innamorati non può tradursi in un lento e continuo annullamento eppure lei riusciva, di vol-ta in volta, a spazzare via una di quelle piccole cose e a sostituirla con una copia, nemmeno poi così tanto ben fatta, delle proprie vuote e inuti-li convinzioni. Incapace a reagire, Alex osservava se stesso seppellito da nuove e fredde maschere di un Alex che non gli assomigliava per niente. Incapace di reagire cercava una spiegazione, una motivazione a tutto quello scempio della propria vita. Amore, pensava nella sua testa,

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coglione, si ripeteva davanti allo specchio. Ma forse amare è un po’ prendersi per il culo. Quando il respiro ricominciò a scivolare normalmente, il cellulare nella tasca dei jeans riprese a vibrare. Squillo. LARÙ. Fermarsi non sarebbe servito a nulla eppure ne sentì il bisogno. Guardare il cielo non gli a-vrebbe dato nulla eppure ne sentì il bisogno. Amare non aveva dato nul-la eppure... Rispose allo squillo, ma evitò i propri pensieri. Poi cercò di evitare an-che se stesso nelle vetrine dei negozi, nei riflessi, negli occhi dei pas-santi. Fermo al semaforo, però, lo sguardo, per un istante, si fissò sul vetro di una macchina. Coglione, pensò. Guardare dai finestrini del tram le persone ferme ai semafori l’aveva sempre affascinata. Per tutto il tragitto da casa sua a scuola, non faceva altro che osservare e fantasticare sui passanti. Da dove venissero e dove andassero e perché si fossero vestiti in quel modo. Milioni di storie che tutte le mattine le si alternavano in testa. Come aprire, a ogni sguardo, un libro diverso e, con un solo colpo d’occhio, leggerne la storia, im-maginarla, vederne i colori. Ma quella mattina il suo sguardo era altro-ve. Oltre le persone, oltre ai sogni e alle fantasie. Era un metro avanti a tutto. Passando per via larga, perfino il semaforo dell’università – come lo chiamava lei – non riuscì a distrarla. La piccola Sheila, terza liceo. Occhi profondi e dolci, velati dai sogni. I suoi capelli lisci e castani dolcemente adagiati sul piumino beige e sull’arancione del sedile del tram. L’eastpack sulle spalle e il diario pieno di canzoni e speranze. Ma quella mattina, nei suoi occhi, l’unica immagine chiara era quella di Rob. Conosciuto la settimana prima in un locale, si erano lasciati i nu-meri e si erano sentiti praticamente tutti i giorni. Lui 32 anni. Lei… lei per lui 19. Ma questo non importava. Non oggi. Oggi le ore sarebbero passate velocemente per rallentare soltanto verso sera. Piano perfetto. I suoi erano partiti per un weekend in montagna e lei, ufficialmente, sa-rebbe andata a dormire da un’amica. Rob sarebbe passato a prenderla per le dieci e la notte li avrebbe condotti chissà dove. A ballare, come le aveva promesso lui, e poi dovunque avesse voluto. Non aveva limiti, non aveva orari da rispettare. Erano quest’idea di libertà, la vibrante vo-racità della vita e la sensazione di qualcosa di grande, da grandi, di qualcosa di completamente nuovo che nella testa di Sheila le stavano solleticando e risvegliando le fantasie.

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Il rumore del tram lo distolse dal riflesso dei propri occhi. Scattò il ver-de e riprese a camminare. A 50 metri da lì, la Statale.

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[09:00] A 50 metri da lì la vita scorreva con la frenesia di un intero mondo. Trovarcisi in mezzo, dopo una settimana passata a fuggire la luce, fu una sensazione strana. E quel messaggio, quel messaggio che non a-vrebbe mai voluto ricevere, deciso a soffocare tutto quanto nel profon-do, ora gli stava riaprendo una voragine nello stomaco. Sentiva i crampi della fame rivendicare il proprio diritto in sofferenza, sentiva le paure, sentiva il dolore. Seduto a lezione Alex cercava disperatamente di restare concentrato sulle parole del professore, ma era come se i pensieri si divertissero a scomporsi e ricomporsi in frasi sempre più intricate. Sentiva il dolore della mancanza di Larù come nelle giornate passate a dormire e nelle notti insonni, sentiva quel vuoto tremendo di inconsapevolezza mentre, a uno scarto irrisorio di minuti da lei, si riaffacciava la possibilità di una luce, di uno spiraglio di felicità a cui aggrapparsi. Senza rendersene conto, Alex, dopo una settimana passata a leccarsi le ferite si stava rein-filando nei propri tagli delle lame incandescenti. Ricominciava a san-guinare, di nuovo, da capo, come se non fosse passato nemmeno un giorno. Ripiombato nella corrida dei propri pensieri, torero e toro allo stesso tempo, completamente astratto dal circostante, stava inconscia-mente riempiendo il foglio degli appunti con una serie interminabile di scritte “Larù”. Quando se ne accorse, per un istante sorrise, le forze sconosciute che ci guidano sanno sempre come e dove colpire e, quan-do lo fanno, hanno un non so che di irrisorio, di ironico, di sbeffeggian-te. È un po’ come se non ci prendessero mai troppo sul serio e si sentis-sero in diritto di sminuire il nostro dolore. Leggere quel nome, infinite volte ripetuto dalle sue mani, gli diede un brivido lungo tutta la schiena. Chi era Larù? Perché l’aveva fatta così facilmente entrare nella sua vita, in così poco tempo, perché? Dov’era ora? In tutto questo non riusciva a trovare qualcosa di giusto, qualcosa di logico. Perché una persona che gli aveva detto di volergli bene ora lo stava facendo soffrire così tanto? Ma soprattutto com’era possibile che la felicità di una persona potesse dipendere così interamente dai gesti e

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dalle volontà di un altro essere umano. Era come se il resto del mondo, del suo mondo, fosse passato in secondo piano. Non perché lo volesse o perché avesse deciso, ma per naturale successione delle cose, era suc-cesso. Alex sapeva benissimo di avere ancora degli amici, delle passio-ni, mille altre strade da percorrere, eppure, da quando aveva conosciuto Larù, tutto si era ridimensionato in un unico secondo momento, qualco-sa che sarebbe venuto dopo, che avrebbe fatto da contorno. Quello che nella sua testa aveva la priorità era diventata lei, la sua felicità. A scapi-to di rimettercene della propria, a scapito di dover soffrire per vederla sorridere. Era questo che si era ripetuto per tutto quanto il tempo. Che lei, in fondo, era più importante, che doveva essere protetta. Perché era un piccolo cucciolo di donna che le sue braccia così teneramente sape-vano scaldare. E questo bastava a renderlo felice, a dare un senso alle giornate. La guardava negli occhi dopo che si erano baciati e vedeva quelle paro-le che lei non era mai stata capace di dirgli, che lei non aveva saputo lasciare andare. Le poteva leggere, in quegli sguardi silenziosi che han-no ancora il sapore delle labbra che si sfiorano. Ed era stato felice di questo. Se l’era fatto bastare. In virtù di una concezione, forse troppo sognatrice, che un equilibrio avrebbe distribuito la felicità a tutti e che, prima o poi, sarebbe stato il suo momento. Poi da un giorno all’altro tutto era franato. Cambiarono le cose, spari-rono quegli occhi. Larù era sparita e Alex si era ritrovato a prendersela con se stesso, smarrito in un labirinto senza pareti ma fatto di stanze chiuse e da crisi di panico, da pianti e respiri soffocati. Da un giorno all’altro quell’equilibrio tanto invocato si era rotto, distratto, scappato altrove. Si era semplicemente illuso oppure tutto questo era nei piani di un equili-brio ancora più grande? L’inganno di farsi bastare una risposta così non durò che pochi minuti, poi il buio cominciò, di nuovo, a divorargli il cuore.

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[Pherkad] Stare chiusi in casa per settimane con le crisi di panico alle calcagna è forse una delle cose peggiori che possa capitare. I giorni non passano e quando passano non sanno di niente. E’ come se il tempo invece che stendersi davanti a noi, ci si nascondesse dietro. Nulla e nulla e ancora nulla. La testa pesa troppo e i pensieri non fanno che confondersi fre-netici e scomposti. Si ingarbugliano in intrecci indistricabili e stanno lì, a guardarci, come ad aspettare un nostro gesto e noi, impotenti, li guardiamo aspettando da loro forse la stessa cosa. Un gi oco di sguar-di, certo, perverso e doloroso quant o mandare giù una manciata di spilli. Fottutissima realtà che ti si pi anta sullo stomaco, ferro tagliente che non ha che il sap ore di sang ue. Ti squadra l’in testino per il solo gusto di pass arti attraverso e non lasci arsi nulla alle spalle, per farti lentamente cadere da dentro, tog liendoti energie e piegandoti dai crampi. Mi chiedo se tutto questo serva, poi, a qualcosa. Se alla fine dei giochi ci sarà qualcuno che tirerà le somme e ci darà indietro quello che ci spetta. I giorni sprecati, la felicità non consumata. Vorrei sapere dove vanno a finire tutte le gior nate in cui non sorridiamo, quelle che spre-chiamo a cercare un motivo, un senso, tra una lacrima e un respiro rot-to, quelle giornate dove non sappiamo nemmeno se il sole è sorto oppu-re se, anche lui, ha deciso che era meglio girarsi dall’altra parte e i-gnorare il mondo . Se c’è un equili brio, un karma, u na qualsiasi forza che ordina, o disordina, questa vita, prima o poi, i conti andranno fatti. Per dio, qualcuno dovrà pur prendersene la responsabilità. La luce di questa lampada illumina l’intera stanza. Fuori è buio. Notte. Una notte che fa fatica a passare, l’ennesima. Una notte come tante al-tre, con lo stesso sapore di sigarette spente e aria gelida. Milano non è mai stata così lontana. Al di là della finestra tutto si muove fren etico verso un nulla che non riesci a immaginare. Non oso nemmeno avvici-narmi a quel vetro. Non riesco a stendere le mani per aggrappar mi a quella frenesia, a quel movimento, per farmi portare via. Non rie sco.

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Inchiodato ai miei pensieri, alle mie p aure, incapace di reagire e senza un motivo plausibile. Cerco delle scu se, delle inutili parole dove na-scondere le mie paranoie e annidare la parte più intima del mio cuore, quella che vibra alle emozioni. Que lla che adesso mi trema, a ogni re-spiro che provo a trattene re, per l’illusione di un rit mo costante, nor-male. E invece è tutto così confuso, tutto così distratto. Spenta la luce non resta che il freddo colore azzurro del monitor di un portatile. Un occhio sul mondo che ti guarda come se niente fosse e a-spetta. Che sia io a guidare lui o lui a guidare me poco importa. Un fo-glio bianco è come una di stesa infinita di niente che i nostri pensieri dovranno riempire. Non c’è limite, non ci sono bordi. Perché quando ci sembra di essere arrivati siamo, in realtà, punto e a capo. Punto e a capo. Come se poi volesse davvero dire qualcosa. Non riusciamo mai davve-ro ad andare punto e a capo o a girare pag ina. Siamo ancorati a noi stessi, alla nostra paura di perderci anche solo un frammento del no-stro passato, così fottutamente te rrorizzati da restare immobili sul pre-sente. È così che si perdono i tre ni. Basta un attimo di esitazione, girarsi una volta di troppo dietro di sé a guardare da dove siamo venuti e, nel mo-mento stesso in cui ci stiamo girand o verso il binario, il treno è r iparti-to. E noi ce ne stiamo, poi, lì a guardare il binario vuoto e le cart e ri-maste sulla pensilina. E ci stupiam o che sia partito, che sia successo davvero. La vita non è perfetta, non ha tempismo, se non per far andare male le cose. Il nostro tempo è l’illusione più grande su cui costruirci un mondo. P ossiamo anc he esserne conv inti f ino al midoll o m a non cambierà nulla. La vita c ontinuerà a correre sui propri binari e coi propri ritmi. E continuerà a farci perdere dei treni importanti. E allora, un giorno, ripenseremo a quella volta che abbiamo visto lei su quel treno. L’abbiamo notata subito, leggermente sporta da un fine-strino. E sapevamo che era lì per noi. Che se anche non ci stava guar-dando in que l momento ci avrebbe guardato l’istant e dopo. O quello dopo ancora. Prima o poi l’avrebbe fatto e ci avrebbe riconosciuto, senza averci neppure mai visto, solo per naturale costruzione delle co-se. E ci siamo consigliat i, detti, urlati di salire al v olo su quel t reno. Abbiamo preso lo slancio e abbiamo iniziato a correre. Poi, un momento prima di salire, ci sia mo girati indietro a controllare

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se non ci fossimo, per caso, dimenticati qualcosa. Un ricordo improvvi-so ci ha fermato – ricordo di cosa poi, illusione. Un riflesso del nostro passato rimasto dannatamente incastrato in uno dei nodi del tempo. Ci siamo girati un istante soltanto ma l’istante sbagliato. Il momento dopo il treno era ripartito. Ed effettivamente lei ora ci stava proprio guardando dal finestrino, ci aveva visto. Ma ormai eravamo una delle tante facce sulla pensilina. Eravamo parte del tutto, p er sempre relegati a contorno, a u n passag-gio, a una macchia di colore su una tela che non avrebbe mai vi sto la nostra firma. Passato. Per un istante. Per sempre. È passato un mese dall’ultima volta che l’ho vista. Un mese. Tr enta giorni in cui il suo nome mi ha fatto tremare la pelle, profumi e sapori che ancora a fatica riesco a dimenticare. Un’eternità che non ho sapu-to che raggomitolarmi addosso, nella speranza che non sarebbe durata più dei tanti altri mesi che ho vissuto . Eppure è tutto così pesante, così pieno di attri to da far dur are ogni minuto qu anto una giornata intera. Il tempo si è dilatato come mai prima d’adesso e la lunga e faticosa at-tesa – di cosa poi? – mi ha costretto a guardarmi de ntro e a trovarmi, infine, riflesso nel monitor di un computer. Ma questa notte ho deciso di chiudere il conto con me stesso e c on la vita. Una volta per tutte, almeno provarci. A tirare una riga e fare una somma, a cercare di dare un equilibrio, vedere se mi spetta, alla fine, qualcosa oppure se devo ancora pagare. Una notte come tante altr e che ho vist o passare. M a per un a volta di-versa, per lo meno negli intenti, p er lo meno nelle intenzioni. Diversa , per lo meno nelle illusioni. Una notte soltanto per ricordare e per rivi-vere. Per farsi ripassare sulla pelle tutto quanto ancora una volta, cer-cando un senso ai graffi e ascoltando attentamente le proprie urla.

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[10:00] Le dieci del mattino sono un po’ quell’orario inutile dove la vita ancora non ti si è completamente svegliata nelle vene e l’idea di tornare a casa a dormire ritorna prepotentemente in testa. Chiuso in un’aula, la voglia di una sigaretta ti prende direttamente sul palato. Quello che in realtà ti serve sono solo cinque minuti di libertà dal mondo e dai tuoi pensieri e fumare è l’unica cosa che ti riesce bene fare, soprattutto in questo peri-odo. La tua, forse, è dipendenza, ma non sai bene da cosa. A ventidue anni è facile cadere ma anche rialzarsi. E quando cadi tante volte, gli sgambetti cominciano a far sorridere e spaventano un po’ meno. Diven-ta quasi un’abitudine e – brutto a dirsi – alla fine è come se ce lo si a-spettasse e si impara a camminare con le mani libere e tese in avanti. Di fatto, però, quando ti senti cadere, il tempo è sempre così breve da non lasciar spazio ai pensieri. Ti si stringe il fiato e ti si blocca il cuore e ti ritrovi così, privo di funzioni vitali, a concentrarti sulla sensazione am-plificata del vuoto. Tremendo. Un quarto d’ora e il professore smetterà di parlare. L’aula si svuoterà e si riempirà di nuovo poco dopo. Centinaia di teste tutte sintonizzate in-sieme, eppure ognuna con i propri pensieri e i propri problemi. E tu sei una fra le tante, un puntino come l’aula ne è piena. Eppure, in questo momento, ti senti in diritto più di tutti di una pausa di cinque minuti. Dieci e dieci. Alex controlla l’orologio per l’ennesima volta, ha bisogno di alzarsi e gettarsi altrove. Cinque minuti di tranquillità in cambio di un paio di polmoni: è uno scambio che ora sembra essere ragionevole. Il professore smette di parlare. Fine della lezione, finalmente. Il sapore del tabacco non gli era mai sembrato così intenso, così buono. Due ore scarse senza fumare non erano mai state un problema, ma oggi, oggi era diverso. Era una settimana che non metteva piede fuori di casa, c’era quella brutta sensazione del mattino da affogare nel proprio sto-maco e c’era quel messaggio. Doveva vederla, voleva vederla. Aveva

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paura. Paura com’era normale avere paura di un qualcosa che è capace, con un piccolo gesto, di distruggerci completamente l’esistenza. Di spazzare via ogni nostra convinzione, ogni punto di forza, di fare briciole dei no-stri castelli con la naturalezza di un battito di ciglia, di un sorriso, di una carezza. Oppure di salvarci. Ma cosa scegliere? Una settimana senza di lei era stata un inferno, il suo inferno. Ma ricominciare a vederla, ora, voleva dire infilare nuo-vamente una lama in una ferita aperta. Accettare il rischio senza essere così sicuri di poterne sopportare il peso. Al settimo tiro il tabacco si era ormai consumato completamente. Un’ora e mezza. Ancora novanta lunghissimi minuti da far passare fre-netici. Novanta minuti. Una vita intera – pensò. Si guardò attorno per trovare qualcuno di conosciuto. Una faccia, un nome, una sagoma, an-che soltanto un volto con una vaga parvenza familiare. Giusto per illu-dersi di far passare un po’ di quell’interminabile tempo parlando di-strattamente di qualsivoglia cosa. Perfino gli esami sarebbero andati bene come argomento. Qualsiasi cosa purché lo tenesse lontano dai pensieri. Nulla. L’università sembrava aver cambiato completamente aspetto. Facce nuove, volti nuovi. Impossibile in una settimana rivolu-zionare così un mondo, eppure, non riusciva a capacitarsi del fatto che non ci fosse traccia conosciuta. Milano di sogni che si infrangono e si ricompongono di cocci. Milano di vecchi insulti. Milano di tragedie monodose. Milano. Nel suo forma-to famiglia monoporzione da fastfood che tutto inghiotte e trasforma in una mimesi involontaria del vuoto. Milano fatta di sogni infranti che tagliano più del freddo, ti si incastrano tra le mani e ti stringono i pugni. Milano che fa sanguinare. Milano, nel bene o nel male, Milano. Milano dagli amori veloci che scombinano la vita. Milano bene e Mila-no. Milano da Università Statale. Da via Festa del Perdono con i suoi bar dai diecimila caffé al giorno e le copisterie, aria che profuma di in-chiostro di fotocopie e caffeina. E mondo, mondo che gira, che passa, che sfugge. In fondo un piccolo mondo chiuso. Milano da Università Statale.

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Girare gli occhi intorno a sé l’aveva spaesato ancora di più. Per un momento pensò di correre a casa e ricominciare tutto da capo. Di nuovo buio, di nuovo silenzio. Nuovamente lui e se stesso a confronto. Per riuscire finalmente a riconoscersi davanti a quello specchio. E se non proprio a sorridersi, almeno a compiacersi. Nulla. Cercò disperatamente un appiglio, qualcosa a cui aggrapparsi per non scivolare. Niente. Agitazione Respiro Respiro e Battito Battito. Come un treno che si avvicina sempre più veloce, senza l’intenzione di rallentare o di frenare. Sentiva il suo cuore impazzire, il respiro saltare fuori dai binari dei polmoni e scappare in fondo all’anima per non ve-der la luce. Battito Battito Battito Battito Battito, battito. La crisi di panico non era più un alibi, il suo corpo non mentiva. Le mani di Alex si fermarono per un istante, poi ricominciarono a tre-mare. La luce gli rimbalzava sugli occhi senza che le immagini potesse-ro entrare. Sangue a mille pompato da battiti su battiti del cuore. Pani-

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co. Buio.

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[11:00] Dopo l’intervallo delle 11.15, soltanto due ore la separavano dai sogni. Un’ora di latino e una di inglese. Già prima di sedersi al proprio posto sapeva che per quei 120 minuti scarsi sarebbe stata altrove. «Sheila – Sara, compagna di banco – allora stasera lo vedi?» – per un istante i suoi occhi tremarono – era felice o era spaventata? Per tutta la settimana non aveva fatto altro che aspettare Venerdì e ora, che Venerdì le si stava srotolando sotto i piedi, desiderava inconsciamente rallentare il tempo. Sì, l’avrebbe visto. «Sono felice per te, davvero – le parole di Sara si confondevano, o me-glio, si nascondevano dietro quelle della professoressa – mi raccoman-do,eh...» – sorriso. Se fosse stata lei o Sara a decidere di uscire con Rob ancora non era riuscita bene a capirlo. Sono quelle cose che accadono passettino dopo passettino. Poco alla volta, fino a quanto non ti trovi a dover saltare. Inspiegabilmente hai perso il ritmo e ti sei messa a corre-re, ti hanno spinto da dietro o trainato per farti accelerare il passo, e tu quel messaggio, forse, neanche gliel’avresti mandato. Pensieri su pen-sieri, parole, dubbi, scuse una sopra l’altra, accatastate nella testa. Shei-la e i suoi piccoli occhi scuri. Quegli occhi che avevano sentito i sogni troppo stretti e avevano voluto assaporare la vita, quella vera, quella che a sedici anni sembra l’unica cosa importante a questa terra. Aveva saltato, senza guardare sotto, si era buttata. Milano dalla vita che abbaglia. Voglia di crescere e accelerare il tempo. Milano dal sorriso ammaliante e dalla giacca in gessato. Quanto costa oggi crescere in pochi istanti? Quando bisogna pagare per aver subito vent’anni e poi trenta, poi quaranta e di nuovo venti? Il problema è che non c’è mai un’età giusta. A sedici anni la maggiore età sembra l’unica cosa che conta per davvero. Poi, in effetti, fino al giro di boa dei venti lo scenario che si ha davanti è lo stesso. I giorni cominciano a scorrere più veloci, ma non abbastanza. Perché quelli che hanno trent’anni han-no tra le mani una parte di mondo che non hai ancora assaporato. Però già intorno ai ventisette la vita comincia ad andare stretta, il tempo non basta più e il sabato sera è ormai un pretesto uguale a tanti altri lunedì,

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martedì o mercoledì. Milano che corre e non aspetta. Milano che scatta. Milano che sfotte. Milano che quando hai vent’anni non ti guarda in faccia e quando ne hai trenta ti dice che se avessi vent’anni, allora... Perché comunque arriva, il giorno in cui davanti allo specchio ti guardi e ti rendi conto che ci sei arrivato, ai trenta. Ed è in quel momento che ti volti e cerchi di correre nella direzione opposta a quella dove scorre il tempo. Così fingi. Fingi di non essere mai cresciuto. Milano dalle mille maschere e dai mille volti. Vai ancora in discoteca e tiri le cinque del mattino, ma il giorno dopo non ti reggi in piedi e ti droghi di caffeina e crema antirughe ristrutturante con gli estratti di chissà quale pianta. Fingi. E per fingere meglio esci con una diciannovenne. E questa cosa ti eccita a tal punto da non riuscire nemmeno a lasciarti in pace di prima mattina. E tra la schiuma da barba e l’antirughe ti vedi e ti sorridi, com-piaciuto, bravo Rob, ti dici.

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[12:00] Alle 12.20 il treno parte in orario da Rogoredo FS poi, sosta dopo sosta, perde i minuti. a ogni fermata Manuel vede un po’ di sé in ogni passeg-gero. Forse è che ormai ne ha visti troppi salire e scendere da quei va-goni. Ogni giorno migliaia di persone si spostano dalla linea uno alla due alla tre e poi di nuovo sulla due. Giovani studenti, lavoratori, an-ziani, bambini. A volte anche cani. E tutti hanno un punto di partenza e uno d’arrivo. Hanno un motivo per infilarsi in quel mondo senza luce. Manuel invece no, lui è diverso. Lui non deve andare da nessuna parte, non più. Non ha appuntamenti o lezioni, non ha fermate. Entra ed esce dai vagoni soltanto per il gusto di veder passare la gente. Di pensilina in pensilina si mischia e si confonde con persone ogni giorno diverse ma in fondo tutte simili. Soltanto per il gusto di osservare il tempo passar-gli attorno, attraverso i loro sguardi che mutano, le loro espressioni e i modi di fare. Attraverso se stessi. Manuel sente che, in qualche modo, lì sotto è al sicuro. Si sente protetto dalla penombra continua, tra stazione e stazione, confuso e mai visto completamente. Sa che nessuno, in fon-do, si preoccuperà di guardarlo, nessuno lo noterà. In questo lui gioca d’anticipo. Si sa confondere bene con gli altri. Potrebbe benissimo sembrare – anzi, nulla fa pensare il contrario – che anche lui salga e scenda per un motivo. In realtà cambia solamente posto, vagone, linea. Ma il mondo attorno è talmente distratto da non vederlo, da accomunar-lo al resto, al flusso. Manuel è parte del tutto, per tutti. Alle 12.20 il bar davanti alla statale è già pieno. Alex sente il cuore bat-tere più forte del vociare confuso che viene dalla strada. 15 minuti pri-ma che L. arrivi. 15 minuti, la durata media di un rapporto sessuale se-condo le statistiche – pensa Alex. Ma q u i n d i c i m i n u t i non gli sono mai sembrati così lunghi. In-terminabili. Si stringe nel cappotto e si accende l’ennesima sigaretta. Non ha mai fumato così tanto ma non se ne fa una colpa. Non oggi per lo meno. Q u i n d i c i m i n u t i.

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Chiude gli occhi e aspira. Q U A T T O R D I C I... Alle 12.20 la prof di latino esce dall’aula. Alle 12.20 manca meno di un’ora al sapore dei sogni. Perché anche se Sheila dovrà aspettare fino a sera per vedere Rob, già fuori da scuola potrà ricominciare a fantastica-re e fingere. Perché è questa la realtà. Sheila stasera fingerà di non esse-re quella che è. Perché i suoi sedici anni da terza liceo le vanno stretti. Perché vuole sentire il sapore vero della vita, quello che si sente quando si hanno vent’anni. Ma come biasimarla, del resto. Lei vent’anni non li ha mai avuti ed è giusto che ancora li possa sognare con un sorriso im-prigionato tra le labbra. Finge, anche in questo momento, tra i banchi di scuola, di essere attenta, di star seguendo, finge che le interessi qualco-sa di quella cultura da quattro soldi che le stanno lanciando addosso a palate come fosse concime. Non crescerà nulla, non così. e in fondo finge non più e non meno di ognuno di noi, ogni giorno. Inutile fare quelle facce incredule. Ogni mattina scendiamo dal letto per salire su un palco, quello della vita, dove ci illudiamo di recitare una parte che ci piace ma che in realtà ci fa schifo e lo sappiamo. Alle 12.35 il treno della linea tre è già arrivato a Duomo. Manuel finge di ricambiare lo sguardo di una ragazza seduta di fronte a sé. Fra poche fermate lei scenderà e lui tornerà nella propria ombra. Nella peggiore delle ipotesi lei gli chiederà il numero e lui si fingerà contento. Glielo darà e le dirà ci sentiamo. Nella peggiore delle ipotesi lei lo chiamerà e troverà il telefono senza copertura di campo, rifarà il numero un paio di volte, poi un paio di giorni. Nella peggiore delle ipotesi anche un paio di settimane. Poi si dimenticherà di lui e ricomincerà a prendere la me-tropolitana come se nulla fosse. Alle 12.35 Manuel guarda il suo cellulare che non ha campo. Alle 12.35 Alex per un istante smette di respirare. Alle 12.35 la ragazza con lo zaino rosa guarda Manuel e gli sorride.

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Alle 12.35 Larù...

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[Kochab] Questi tasti conoscono a memoria le mie parole. Qu ante volte con loro ho scritto e cancellato. Ogni volta è un po’ come scrivere e cancel lare dalla mia mente qualcosa. Una parola è un ricordo, un’emozione. Ogni volta che lascio scivolare le mie mani su questa tastiera sento una par-te di me che si trasforma. Fuori la notte scorre senza lasciarmi il tempo di respirare. Questo è il suo gioco, sono le sue regol e. Ma è ar rivato il momento di cambiare, di far girare qualcosa dentro di noi. Di prendere per mano il tempo e provare almeno a farlo scorrere al ritmo del no-stro battito. Lo so che ci sei, ti sento. Tra queste parole. Ma poco a poco stai scivo-lando via, ri cordo dopo r icordo. Come una coll ana che si sfila dopo essersi rotta. Sento le perle scivo lare lungo il pavimento e scappare vi-a. Lo so che ci sei, ti sento. Cerchi di aggrapparti ai miei pensi eri più intimi perché anche tu, in fondo, temi l’oblio. Perché quando qual cuno ci dimentica ci toglie un piccolo frammento della nostra vita, ce lo por-ta via, anche se ormai no n è più nostro, parte necessaria di un’altra esistenza. Ma il dolore è sempre dolore, non conta la carne che lo pro-va. Un mese fa tutto questo n on avrebbe avuto senso. Io non sarei stato io. E tu... Ho iniziato a scriver e perché avevo qualcosa da dire a me stesso, con-tinuo a farlo perché ci ho preso gusto. Perché scrivendo il tempo passa più in fretta, mi ripetevo. Perché scrivendo... Ma erano scuse. Perché se avessi avut o di meglio da fare l’avrei sicu-ramente fatto e avrei lasci ato tutt o a impolverarsi i n qualche angolo della casa e di me ste sso. Che se av essi avuto scuse migliori, più con-vincenti, sarei sicuramente capitato altrove, con una faccia diversa, un sorriso pulito e lucidato per l’occasi one e un bel mazzo di fiori – che non si sa ma i. Ma la vita è già così piena di ipocrisia, che q uando ci troviamo di fronte a noi s tessi non siamo più in gr ado di credere alle

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nostre parole. Siamo tanto bravi a illuderci nel mondo quanto i ncapaci di darci un placebo. È un gioco bastardo, ma non possiamo che accet-tare queste regole fatte a nostra immagine e somiglianza, pl asmate in-torno alla nostra esistenza. Tutto que llo di cui ci lamentiamo non è al-tro che un nostro prodotto. Siamo assuefatti a noi stessi. Milano dal s onno pesante . Le mie urla nella no tte non ti hanno mai svegliata. Ho piant o e bestemmiato invocando il t uo nome, le tue stra-de. Ho gridat o cercando un solo squarc io luminoso i n questo cielo a-rancione. Avevo bisogno di quel t uo profumo intenso di vita, della tua energia. Per non l asciare che fosse il silenzio la mia voce, per non di-menticare tutto quello che è stato, per continuare a camminare. Avevo bisogno di una scusa. E tutto quello che invece ho sempre trovato è sta-to il buio di questa stanza. Tappa relle serrate e fine stre chiuse. Luci spente. Dopo i primi giorni i contorni si mischiano, si confondono, e la settimana diventa un unico alternarsi di veglie e di sonni. Inutili, ognu-no fine soltanto a se stesso e parte di una continuità ridicola. Se avessi potuto fare a meno anche delle mie funzioni vitali l’avrei fatto. Avrei rinunciato a tutto pur di n on uscire da quel buio o gni giorno più fami-liare, ogni notte più casa, avvolgente e protettiva. Come tornare, di colpo, nel ventre materno. Senza ru mori, senza luce, soltanto cullati da una sensazione di oblio e immobilità . Incuranti del tempo che passa, incuranti delle stagioni. Incuranti di tutto, perfino di noi stessi. Senza dover pensare a niente, tutto risolto da una natura benevola e infame. Come tornare nel ventre materno e scoprire – riscoprire – che forse già a zero giorni ci eravamo resi conto, più o meno inc onsciamente, che quella mattina avremmo d ovuto girarci dall’altra parte e non met tere un solo piede fuori. Testardi, fin dall’inizio. O coglioni... E così ci ritroviamo anni e anni dopo a ricercare la stessa immobilità, lo stesso silenzio, il vuoto, chiuden doci in casa e in noi stessi. Un gior-no, due giorni, una settimana. E da un a settimana si passa a due, poi a tre e così via. Trascinati in un vortice potenzialmente infinito. Se non fosse che prima o poi la vita viene a bussare e a fare i conti. Perché non le basta chiuderti in un buio irreale, no, sarebbe fin troppo facile. Lei ha bisogno delle tue lacrime per soddisfare il proprio equili-brio – che questa volta, capisci, è un iversale – di lacrime e sorri si. E dato che da qualche parte nel mondo c’è qualcuno che si sta, inavverti-tamente s’intende, fregando la tua dose di felicità a te tocca compensa-re con un po’ di sana disperazione.

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E intant o Milano osserva. Milano 24 ore no stop. Per vivere o per scappare. Per fingere, per sorridere. Milano è un carnevale e lo è ogni giorno. Maschere e giostre. Caramelle. A ogni angolo di strada qual-cuno ti vende qualcosa di magico e nuovo. Ma mai realmente utile. Mi-lano che non ti sa soddisfare, che non ti prende per mano e n on ti sal-va. Perché fai parte del gioco, di quel tutto su cui si diverte a girare, sei parte del gioco, non l’ospite. Milano, sconosciuta, dimenticata. Mi-lano senza più alibi. CONTINUA...