Momenti di storia

24

description

Saggio storico di DANILO CARUSO / Palermo, novembre 2014

Transcript of Momenti di storia

Non scholae sed vitae discimus

SENECA

MOMENTI DI STORIA Danilo

Caruso

1

INTRODUZIONE

n questo saggio ho raccolto alcuni miei studi storici, una serie che spazia dal Medioevo al ’900. Esso fa coppia col mio precedente “Momenti di storia anti-ca”: si tratta di due piccoli lavori che vogliono offrire spunti sparsi per conosce-

re il mondo, senza nessuna particolare pretesa. L’obiettivo principale è quello di far comprendere l’importanza dello stu-

dio, a qualsiasi età, tuttavia qui sì con un occhio di riguardo alle generazioni in età scolare. In un passato ormai abbastanza remoto l’accesso dei fanciulli alle istitu-zioni scolastiche per ricevere un’educazione socioculturale era qualcosa non alla portata di tutti: una grandissima parte di popolazione rimaneva in uno stato di barbarica ignoranza che andava a braccetto con il suo sfruttamento da parte della borghesia latifondista e imprenditoriale. I poveri ignoranti sono sempre stati vit-time di chi ne sapeva di più e di chi di conseguenza gestiva il potere nella società.

L’evoluzione dei tempi ha portato all’istruzione obbligatoria fino a un’età via via più elevata.

Questa costrizione fu vissuta talvolta come violenza poiché toglieva forza operativa per il guadagno al nucleo familiare di appartenenza.

Tale aspetto era unicamente indice di altri squilibri sociali, ma non poteva impedire l’affermazione del principio per cui un buon cittadino (allora suddito) dovesse essere qualcuno a cui non mancassero le conoscenze essenziali. A scuola moltissimi discenti imparavano ciò che non potevano apprendere nell’ambiente familiare, e a seconda delle circostanze anche correttivi valori.

La recente modernità ha purtroppo registrato un certo regresso della mis-sione scolastica.

Il latente senso di disordine che circola nella società sarebbe divenuto il modello da imitare per quella parte di indisciplinati protagonisti di alcuni noti fe-nomeni. Costoro hanno difficoltà a imparare un criterio dell’ordine che appunto non distinguerebbero nettamente in giro.

I cattivi modelli trovano spazio nelle classi e diversi insegnanti si trovano a dover arginare le realtà dei soggetti socialmente non bene adattati. Il ruolo del do-cente – maestro o professore (anche universitario) – è quello di un sacerdote nel tempio del sapere: per insegnare bene ci vuole una vocazione.

Insegnare di mala voglia o con l’unico obiettivo dello stipendio non giove-rebbe né alla scuola né agli sfortunati discenti.

Non è di buon auspicio che ragazzi non completamente formati vengano ammessi, non per causa loro, ai successivi gradi scolastici in modo inopportuno perché saranno i cittadini e i professionisti di domani. Certo quasi tutti i profes-

I

MOMENTI DI STORIA Danilo

Caruso

2

sionisti sono qualificati, però per quanto ridotta che sia la schiera di chi esercita da non appieno competente una professione questo non ne legittima la potenziale nociva persistenza.

Da tutte le scuole, e specialmente dall’università, dovrebbe uscire solo gen-te preparata.

Mettendo da parte il discorso dei professionisti, che cittadini sarebbero an-che quelli che hanno ricevuto un’educazione scolastica limitata all’obbligo? È pos-sibile che a scuola non si impari quanto si possa veramente imparare.

Quale studente ha ricevuto nozioni in favore di una sua spontanea e auto-noma crescita politica nell’ottica di formazione del cittadino?

Queste domande non sono prive di significato perché quando i maggioren-ni votano contribuiscono a dare un indirizzo politico alla società, e che società sarà quella in cui gran parte dei giovani non capisce da chi e in quale maniera si farà governare?

Neanche la presunta “morte delle ideologie” ha aiutato la gioventù con-temporanea.

Quella del ’68 era in parte fortemente politicizzata, ma aveva delle idee in materia. Nella scuola dell’obbligo dovrebbe apprendersi a capire la politica per non essere indifferenti al mondo in cui si vive.

Sconoscere la storia della propria nazione e il modo di funzionamento delle sue istituzioni è gravissima mancanza ovunque. John Stuart Mill, uno dei teorici più autorevoli del liberalismo nell’Ottocento, parlò di tirannia della maggioranza del popolo non qualificata a scegliere politicamente, e propose per rimediarvi di dare facoltà di esprimere singolarmente più voti ai soggetti istruiti in politica. Ai nostri giorni, con tanto di riguardo, parrebbe il caso di ribaltare quel ragionamen-to di Stuart Mill, e dire che piuttosto di dare ad alcuni la possibilità di esprimere per esempio 3-4 voti individualmente è meglio fornire a ognuno l’istruzione ne-cessaria che rende eguali in un regime democratico e mantenere il principio di un voto a persona.

La scuola non deve di certo ritornare all’epoca della bacchetta, ciò nono-stante deve avere vie chiare: il giusto ordine, migliore selezione.

Il lodevole obiettivo di conseguire “un pezzo di carta” rischia di provocare come effetto collaterale un livellamento culturale verso il basso a causa dell’ipotesi che la concessione di titoli non corrisponderebbe nella realtà a quello che presume.

La storia testimonia d’altronde che “un pezzo di carta” da solo non è fon-damentale nel creare il sapere. Un esempio canonico italiano: il filosofo e politico Benedetto Croce non era laureato, eppure era lo stesso che influenzò il panorama culturale italiano del secondo dopoguerra.

La cultura e la scienza hanno estensioni superiori e a volte non coincidenti con gli edifici di studio.

MOMENTI DI STORIA Danilo

Caruso

3

1. CARUSO DI SICILIA

lla fine del Medioevo la Famiglia Caruso era tra le importanti del Regno di Napoli, capostipite (in assoluto anche dei Caruso di Sicilia) ne fu Pier For-tugno. Costui era un cavaliere (forse piacentino), al servizio dell’Impero

germanico, di grande forza d’animo e di corpo, e di multiforme ingegno. Infatti durante l’assedio di Nocera Campana intorno al 1026 per liberarla

dagli Islamici, escogitò di travestirsi da musulmano rasandosi completamente i capelli (secondo una loro vecchia usanza), il che gli permise di entrare inosservato nel centro abitato e di far sì che gli assedianti potessero prendere la città, ma dopo questa sua ulteriore azione d’astuzia sui soldati che si difendevano venne ucciso. Dal verbo greco κουράζω (kourazo: tagliare corti i capelli) fu chiamato Caruso.

Il figlio Lancillotto per i meriti del padre ricevette i castelli di Conza della Campania e Apice, entrambi in provincia di Avellino (il secondo, sito vicino a Me-lito Irpino, denominato “Castello Caruso”) e adottò l’arme di famiglia (scudo, stemma): il campo (area dello scudo) in smalto azzurro (colore sfondo; azzurro: tra i principali) con la pezza araldica (motivo decorativo) del capriolo (di prim’ordine; una V capovolta: segno di propensione ad alte imprese) unita a tre stelle (altro se-gno augurante un radioso avvenire) nella parte bassa separata dalla superiore da una linea al di sopra della quale compare dorata una testa rasata. Riguardo al ca-stello di Conza della Campania è stato possibile reperire questa descrizione del 1494 conservata presso i “Relevi” dell’Archivio di Stato di Napoli.

«Et primo lo palaczo consistente in li membri infrascritti: lo cortiglio una sa-la grande con uno restrecto picculo da la banda verso lo jardino unaltra cammara grande con unaltra verso ponente et una logia con una cammareta verso ponente e altre cammare luna intro laltra verso levante con una scala da fore che scende a lo cortiglio uno gajso cum la scala donde se saglie al dicto gaiso grande […] duj me-zanini dove se chiama la cammara perta cum una cammarella tene lo jardineri duj mezaninetti sotto le cammare […] lo cortiglio cum multi et diversi altri membri dabascio terragni con stalle cellarj cocina con furno […] uno jardino cum arbori comuni et vignia […] in lo quale jardino ej una chiesuola nomata a la nuntiata» (vol. 322, f. 59).

Sino agli anni ’50 di quello ch’era stato il castello rimaneva la parte deno-minata “Torretta”, la quale è stata rimossa per fare spazio a un campo sportivo. La zona in cui si trovavano i ruderi è stata poi posta sotto vincolo negli anni ’80 dalla Sovrintendenza di Salerno e Avellino.

Dell’altro castello di Apice invece è stato possibile solamente rinvenire in-dicazione sulle carte geografiche. Da Lancillotto Caruso discesero Pierluigi e Gio-

A

MOMENTI DI STORIA Danilo

Caruso

4

vanni: Pierluigi si stabilì a Napoli, il figlio Antonello/Antonio al tempo del re Al-fonso (1416-58) si trasferì in Sicilia, come Giovanni aveva fatto prima alla fine del Trecento. Giovanni Fortugno/Fortunio [de] Carioso di Paternò e Antonel-lo/Antonio de Carusio furono in origine cavalieri napoletani.

§ 1. Il primo era venuto in Sicilia con Gualterio Falcone, entrambi entrarono al servizio del re di Sicilia Federico IV che per le loro capacità li elevò al rango di consiglieri e segretari (nella secrezia confluivano le imposte).

Il re concesse a Giovanni la facoltà di esercitare la professione di notaio che allora non era conferita facilmente data la delicatezza e la responsabilità dell’ufficio, il privilegio era emanato direttamente dal re e non da suoi funzionari.

Inoltre un notaio poteva esercitare la funzione di giudice e Giovanni fu giudice della Magna Regia Curia (in particolare tra il settembre 1398 e il novembre 1400 risulta che ricoprì l’incarico di “serviens curie preture Panormi”, un compito paragonabile a quello di ufficiale giudiziario): per questi motivi il rango di notaio era elevatissimo e richiedeva nel suo esercizio l’impegno di persone di indubbia dirittura.

I notai erano anche collaboratori amministrativi per via della loro perizia nella scienza del diritto. Federico IV “il semplice” era divenuto nel 1355 a quattor-dici anni re di Sicilia in un momento in cui l’Isola versava negli scontri feudali di cui approfittarono i Napoletani per inserirsi in quel contesto: costoro occuparono Messina, ma quando presero di mira Catania i feudatari si riunirono sotto il nuovo monarca resistendo con successo per ritornare subito dopo allo status quo.

Quando Federico IV morì nel 1377 salì al trono la figlia quindicenne Maria assistita da quattro vicari generali scelti tra le nobili famiglie più potenti: il loro leader, Artale Alagona, al fine di rafforzare la monarchia siciliana pensò di far sposare la regina col futuro Duca di Milano Gian Galeazzo Visconti.

Però, in quelle fasi, un pretendente al vicariato escluso, Guglielmo Rai-mondo Moncada, la rapì da Catania e in un secondo momento la trasferì in Spa-gna, dove ella nel 1390 sposò Martino I d’Aragona. Gli Aragonesi entrarono mili-tarmente in Sicilia nel 1392.

Tra la nobiltà solo i Chiaramonte e gli Alagona si opposero al nuovo re. La regina Maria morì nel 1402 senza dare alla luce degli eredi e Martino il

Giovane si risposò con Bianca di Navarra. In questo scenario nel 1397 il notaio Giovanni Fortugno/Fortunio [de] Carioso di Paternò ebbe concesso dietro sua ri-chiesta in premio alla sua fedeltà al re il feudo di Comitini che era stato confiscato ai fratelli ribelli Guglielmo Raimondo e Antonio Moncada.

Giovanni infatti amministrava Paternò (dal 1360 nella camera reginale) quando, morta la regina Costanza, durante il moto di opposizione al sovrano, Manfredi Alagona occupò la città costringendolo alla fuga e privandolo dei suoi beni (i figli e la moglie furono imprigionati).

MOMENTI DI STORIA Danilo

Caruso

5

La città, che ritornò demaniale nel 1398, fu ripresa dopo un assedio per cui lui si impegnò appieno. Oltre al feudo di Comitini Martino I di Sicilia, in segno di riconoscenza, gli donò due lotti di terreno confiscati (per complessive sei salme) ubicati nelle vicinanze di Paternò e denominati Clarenza che erano appartenuti a Muzio Fazio Moncada figlio del suddetto Guglielmo Raimondo.

Con atto del 10 gennaio 1399 Giovanni sostituì con il collega notaio e sosti-tuto segretario di Agrigento Giacomo de Aricio il feudo di Comitini con l’altro di Giarretta (Jarretta) posto sul fiume Simeto. In precedenza il re Martino aveva at-tributo a Giovanni con atto del 6 marzo 1393 i feudi Taruso, Canneto (presso A-drano) e la terra della Revocata, poi nel 1399 gli concederà il feudo del Granato (Lu Granaro).

Il figlio di Giovanni, Andrea da Catania, notaio della Magna Regia Curia, gli succedette nei possedimenti con atto del 21 novembre 1453.

§ 2. Antonello/Antonio de Carusio, che fu maestro razionale del regno (funzionario contabile) e tesoriere regio, ottenne con atto del 4 gennaio 1453 la ba-ronia di Spaccaforno (Ispica), Giovanni Bernardo Cabrera gli vendette il feudo al costo di 1.200 onze; ebbe inoltre il feudo di Pulci (Pulchi, Pulichi) alias Muntisano presso Noto (era stato della figlia Francesca; sposatasi di nuovo dopo la morte del primo marito, con il secondo cedette il feudo al castellano di Noto che si ribellò alla monarchia; il nuovo assegnatario, il procuratore generale del re, lo cedette ad Antonello/Antonio nel 1444 per 1.000 Fiorini), Lungarino, Burgillusi, nel 1457: San Lorenzo e Bucchio (questi due per 200 onze), Ragalmaida (Rachalmedica), (Li) Lansi, Falconara (presso Noto). Ad Antonello/Antonio succedette Nicolò (Cario-so) che, per mezzo della moglie Isabella Asmundo, ottenne il feudo Callura (pres-so Lentini); a lui il figlio Vincenzo (senza prole) e nel 1478/9 l’altro figlio Antonio.

La titolarità della baronia di Spaccaforno si estinse nel 1520 in seguito al matrimonio di Isabella Caruso, figlia dell’ultimo barone, con Francesco Statella, ai cui figli fu tuttavia però imposto dietro accordo il cognome Caruso.

§ 3. A Catania nella lista dei giurati amministratori della seconda metà del ‘400 risulta una presenza di Caruso, da aggiungersi alle altre presenze nelle fun-zioni di patrizio (1), riformatore dello studio (2), di “magister operae” (1; consiste-va in un ruolo di sorveglianza dell’attività universitaria) e di “magister munditia-e” (1; riguardava la sovrintendenza del servizio di pulizia cittadina).

I Caruso si diffusero a poco a poco in tutta l’Isola distinguendosi in più po-sti per gli uffici ricoperti (sino all’estremo territorio occidentale: si registrano a Trapani nel 1459-60 e nel 1500-3 due giurati, e poi a Mazara del Vallo nel 1543-44, nel 1575, e nel 1640-1, un giurato e due capitani) e in altri tre casi per i titoli nobi-liari (nel ‘600: il feudo Galasi, la baronia di Sanzà a Lentini; e l’altro caso appresso menzionato). I Caruso della Sicilia occidentale ebbero come capostipite Giovanni Fortugno/Fortunio [de] Carioso, quelli della Sicilia orientale Antonello/Antonio

MOMENTI DI STORIA Danilo

Caruso

6

de Carusio. Il ramo occidentale ha come primordiale principale epicentro geogra-fico Cammarata dove nel ’400 è registrata la presenza dei Caruso. Si ricordano in-fatti il giudice Fabio e i notai Giacomo e Girolamo; di quest’ultimo si conoscono tre figli: Narbonese e i notai Francesco e Antonino (dal ramo di quest’ultimo, e-stintosi, nacque il servo di Dio Padre Girolamo Caruso). Anche il ramo (estintosi pure, e che a inizio del ’600 aveva comprato la baronia di Scireni) dello storico Giovambattista Caruso (Polizzi Generosa, 1673 - 1724) ebbe origine da Cammarata (il fratello Giuseppe Antonio nel 1689 aveva comprato il titolo di principe di Santa Domenica).

Di questo ceppo occidentale, per la vicinanza a Cammarata sono pure da ri-cordare particolarmente Gabriele Caruso più volte nell’amministrazione di Bivona tra il 1549 e il 1562, le tre generazioni di notai di Burgio (Luca / Filippo / Paolo e Luca, operanti tra ’700 e ’800) e Carlo Caruso da Agrigento (m. 1690) che fu scrit-tore, avvocato, giudice, sindacatore nella sua città, e operò altresì da magistrato a Messina.

L’ulteriore passaggio dei Caruso a Castronovo di Sicilia (da cui proviene il mio ramo di Lercara Friddi) ha la sua base a Cammarata: il primo a mettere piede a Castronovo con una certa stabilità fu Padre Girolamo (1549-1627) nel 1579.

Il passaggio più sostanziale lo credo individuabile solo dopo l’epidemia di peste che scoppiò in Sicilia nel 1624, la quale uccidendo molti abitanti castronovesi ridusse della metà quella popolazione.

Penso che quel ramo emigrato, che dovrebbe essere stato a esclusiva voca-zione imprenditoriale, si sia trasferito, in particolare dopo il 1640, in cerca di suc-cesso in un ambiente del genere con dei vuoti, che aveva bisogno di essere rivita-lizzato, e che presentava delle facili possibilità di inserimento e di arricchimento per coloro che avessero un capitale da investire.

Che questa prospettiva fosse stata affrontata con esito positivo lo testimo-niano: che non ci fossero dei Caruso a Lercara alla metà del ’600, dove un quarto della popolazione del neonato Comune, meta di coloro che cercavano condizioni di vita migliori, era di origine castronovese; che Arcangela Caruso (Castronovo di S., 1851-1920; di Giovambattista) avesse sposato uno di famiglia nobile, Francesco Rosso (1853-1914), e in ultimo che il mio trisnonno Giuseppe (Castronovo di S., 1824 - ca 1890) fosse un agiato cittadino risposatosi (senza prole) in seguito alla morte della prima moglie con Concetta Passavanti (1846 - post 1907; studiò, sem-pre a Castronovo, in collegio presso le suore benedettine della Chiesa di santa Ca-terina d’Alessandria), figlia di un possidente locale (bisnonno materno di Joseph Picone) che aveva un fratello sacerdote.

Tutti i quattro maschi nati da questo secondo matrimonio del mio trisnon-no, dopo le nozze della loro unica sorella Rosalia (1864-1955; che era la maggiore), con il Lercarese Rosario Lucania (1859-1940) nel 1884, e dopo la morte del padre,

MOMENTI DI STORIA Danilo

Caruso

7

trasferitisi a Lercara Friddi con la madre (come la menzionata sorella aveva fatto qualche anno prima), acquisiranno qui un discreto numero di proprietà immobi-liari e daranno vita a considerevoli attività imprenditoriali, soprattutto nel settore calzaturiero, pure a New York (1906-21): già Francesco (1882-1964) con atto del 31 agosto 1903 prese in locazione la Miniera Palagonia (di proprietà della Fidecom-missaria Palagonia) dai Rose Gardner che l’avevano tenuta dal 1879 (egli poi la cedette con atto del 17 settembre 1912 ad Antonino Polizzotto). Tra la seconda me-tà dell’Ottocento e i primi del Novecento si registrano a Lercara 17 casi circa di nuclei di Caruso: 10 sono derivati da Palermo e Bagheria (versante settentrionale); 5 casi sono di derivazione incerta, ma dovrebbero essere riconducibili a questo ca-nale di provenienza settentrionale; 2 sono quelli di Castronovo (versante meridio-nale). Di questi ultimi due uno è quello mio familiare che si svilupperà sino a oggi, l’altro è un piccolo ramo estintosi – così come si sono estinti da tempo entro la prima metà del ’900 gli altri gruppi, tutti più o meno per successivi spostamenti – cui diede vita un fratello della suddetta Arcangela, Giovanni (nato a Castronovo di S.), che si era sposato a Lercara nel 1880 con Rosaria Montagnino (un suo figlio Giovanni Battista, morto nel 1913, sposò, sempre a Lercara, nel 1905 Rosalia Ajo-sa). Il primo contatto in assoluto tra un Caruso e un Castronovese risale alla fine del ’400 a Palermo quando Giovanni Fortugno/Fortunio [de] Carioso si trovò co-involto in una irrilevante vicenda giudiziaria: Matteo da Castronovo, arciere, pa-dre di Bartoluccio aveva rivendicato un ritardato salario di tarì sei e un grano an-cora non corrisposti al figlio (questo stesso Bartoluccio dal canto suo era in prece-denza stato più seriamente condannato con i suoi compagni al pagamento di una multa di onze due perché questi avevano messo in vendita dei meloni in maniera illegale).

§ 4. Nella lapide commemorativa dei garibaldini lercaresi, guidati da Ago-stino Rotolo, apposta sul prospetto del Plesso Sartorio nel 1903 si trovano in calce, al di fuori dell’ordine alfabetico, i nomi di Luigi Gattuso e di Vincenzo Caruso: questo Vincenzo era di Palermo (come l’ingegner Giuseppe Caruso, combattente nella prima guerra mondiale e dirigente fascista a Lercara). Secondo un documen-to viceregio (1690) i Caruso di Palermo sono provenuti da Noto.

Dopo Giovanni, capostipite del ramo occidentale, che qui non diede origine a dei rami, il primo Caruso (discendente da Antonio/Antonello) ricordato dalle cronache palermitane è Raimondo (al secolo Michele; m. 1623) sacerdote nella cat-tedrale e autore di un libello religioso pubblicato nel 1611: la sorella di costui (A-gata), che aveva ereditato il feudo Galasi da un Alfonso Caruso, sposando Anto-nio Napoli Ferreri lo trasmise a questa famiglia.

Un omonimo Raimondo fu giudice pretoriano a Palermo nel 1615-16. Non tutti i Caruso residenti palermitani, dopo questo primo inserimento stabile, furono tuttavia originari di Noto.

MOMENTI DI STORIA Danilo

Caruso

8

Risiedettero infatti a Palermo: lo storico Giovambattista e i congiunti (il pa-dre Placido fu senatore a Palermo nel 1650-51); Giuseppe Caruso (m. 1706 a Pa-lermo), figlio e prosecutore del citato Carlo. È ricordato inoltre un poeta Giuseppe, attivo nella metà del ’600, che nel 1651 pubblicò “La Nisa di Oreto, ovvero l’odio placato, egloga”, il cui ramo per via del nome sembrerebbe quello cammaratese.

§ 5. In Sicilia orientale le cronache quattrocentesche ricordano un Pietro Ca-ruso coinvolto in primo piano nella tragica vicenda di Aldonza Santapau (figlia del barone di Licodia e moglie del barone di Militello), una storia che rammenta molto quella di Paolo e Francesca, in cui i protagonisti rimasero similmente uccisi. Un omonimo Pietro Caruso ebbe nel 1592 il feudo di Nicchiara (vicino a Grammi-chele). Tra i Caruso di Castronovo di Sicilia vi furono due caduti nella Grande Guerra: Bernardo di Calogero e Giuseppe fu Giovanni.

2. L’ALHAMBRA DI GRANADA

urante la prima metà del XIII sec. nella penisola iberica il lungo processo di espansione delle monarchie cattoliche settentrionali di Portogallo, Castiglia e Aragona aveva continuato a provocare una notevolissima riduzione terri-

toriale del dominio islamico meridionale, la cui sovranità entrò in crisi nel 1212 lasciando dunque spazio in Andalusia a una serie di staterelli – via via conquistati dagli Spagnoli – fra i quali sorse il sultanato di Granada. Estremo residuo moresco di quello che fu il grande emirato di Cordova, cadrà anch’esso nel 1492.

Muhammad ibn Nasr dopo aver sfruttato una serie di avvenimenti favore-voli diede vita in sei anni a questo regno. A conclusione, nel 1238, fece ingresso a Granada: replicò alla festosa acclamazione da parte degli abitanti che lo esaltava come vincitore che l’unico vittorioso è Allah. Tali parole passarono sopra lo scudo del casato nasride e la bandiera dello Stato (entrambi hanno lo sfondo rosso). Sotto il nome di Muhammad I governò fino al 1273 e cominciò a costruire la sede regia granadina, diventata nei decenni una sorta di domus aurea, posta sul vertice colli-nare urbano della Sabika (790 m s.l.m.), la quale ai suoi tempi ebbe una genesi suggerita da finalità protettive.

Perno strategico di questo nucleo primordiale era la “Qasaba (fortezza)” con i suoi torrioni: la colossale “torre della veglia” era terminale di un intelligente circuito comunicativo segnaletico di consorelle diffuse sul territorio. L’Alhambra, letteralmente “la rossa” è un articolato insieme architettonico sopravvissuto sino

D

MOMENTI DI STORIA Danilo

Caruso

9

ai nostri giorni, in passato una separata comunità residenziale all’interno della cit-tà (a sua volta dotata di proprie mura difensive). Il perché del nome non è molto chiaro. Si pensa a una qualità eponima del suo ideatore (stante la sua barba detto “il rosso”). Oppure si crede che, all’epoca dell’edificazione, operandovi nella fa-scia notturna, un apparato di luci artificiali avrebbe fatto riflettere un colorito ros-sastro il quale avrebbe colpito gli osservatori (al completamento dei suoi iniziali lavori sarebbe forse stata rivestita all’esterno di bianco). Infine c’è l’ipotesi che si riallaccia al colore naturale della cerchia muraria fabbricata usando la locale argil-la. Copre, senza fare violenza all’ambiente, la superficie di circa 100.000 mq circo-scritta da un’ellisse irregolare molto schiacciata: l’asse longitudinale E-O è un po’ oltre i 700 m, quello latitudinale è quasi 200 m. La sua cinta possiede 4 porte e 27 torri (di natura perlopiù fortificatoria). Non pochi i visitatori celebri rimasti incan-tati. Una poesia del giovane Victor Hugo intitolata “Granada”, dalla raccolta “Le orientali” edita nel 1829, recita (vv. 70-71): «L’Alhambra! L’Alhambra! Palazzo che i Geni hanno adornato come un sogno dorato e riempito d’armonie». In una rifles-sione Hans Christian Andersen ne rileva la proporzionata grazia.

Si tratta infatti del massimo esemplare dell’arte ispanoislamica. Attrae gra-zie a geometrie non casuali, pregiate ceramiche, muqarnas, intarsi, arabeschi e giardini, arricchiti dalla possibilità di leggere migliaia di composizioni poetiche, versetti coranici ed epigrafi varie riportati sugli spazi visibili (unitamente al motto araldico nasride): il tutto secondo l’ottica musulmana che unisce la dimensione pratica e quotidiana a quella religiosa.

Al ’300, seguenti all’embrione della Qasr (abitazione regale) costituito dal “Partal”, risalgono nuovi settori palatini: uno regio (dai vetri colorati di finestre detto “de comares”) e l’altro “dei leoni” (per le dodici sculture della fontana di un bellissimo cortile, in origine può darsi lastricato del tutto in marmo), promossi da Yusuf I e dal figlio successore Muhammad V (la cui sepoltura potrebbe essere den-tro “il cortile dei leoni”, quantunque a pochi passi esista un cimitero di famiglia).

Sono aree con dipendenze piene di attrattive estetiche e riservate non solo alla vita privata e pubblica dei monarchi nazaridi (noti anche come i Rossi) ma in più utili allo svolgersi di attività burocratiche (si mettono in evidenza nel primo mediante la ricercata raffinatezza di forme la stanza del trono, e nel secondo tra-mite la studiata modalità d’impianto dei dipinti il “salone dei re”).

L’estremità orientale alhambrina ospitava gli alloggi di servitù e funzionari (assieme a tutto l’occorrente per vivere): la “medina (cittadella)” era contigua ai giardini del Partal (valorizzati dal palazzo di Yusuf III). Il fiume Darro alimentava una fornitura idrica. I Nasridi utilizzarono inoltre un distinto gruppo architettoni-co che è ubicato nei pressi della Rossa (sul suo fianco di nordest) i cui parchi rap-presentano il corpo principale di questa appartata dimora, di fine ’200, chiamata “Generalife (Yannat al-Arif)”: nell’immaginario islamico il giardino (florido, sen-

MOMENTI DI STORIA Danilo

Caruso

10

suale, abbondante d’acque) simboleggia un luogo paradisiaco (al-yanna). Perciò qui “al-Arif” (l’Architetto) è figura del Creatore.

Nel ’500, completata la reconquista, dopo che la corona spagnola aveva fatto dell’Alhambra una propria residenza, un dissonante palazzo fu aggiunto alla zona della Qasr (Alcázar), in un punto a oriente del lembo della Qasaba (Alcazaba), da Carlo V: in stile manieristico-rinascimentale restò a lungo incompleto a causa del disagio arrecato da una serie di terremoti nel corso della costruzione (dal passato secolo è sede museale e di eventi culturali diversi, e la sua biblioteca si è trasferita nel 1994 in prossimità del Generalife).

Successivamente a Filippo V e alla moglie Elisabetta Farnese nessun mo-narca di Spagna si prese cura della Rossa né vi risiedette. Quindi cadde alcuni de-cenni nell’oblio. Venne riscoperta dai Francesi del periodo napoleonico: le restitui-rono l’antico prestigio, il comandante del loro esercito stanziatosi a Granada (1810-12) ne fece la base del suo quartier generale.

L’opera di recupero rischiò di essere vanificata in maniera irrimediabile quando le truppe di Napoleone furono costrette ad allontanarsi: tanto è vero che avevano pensato di farla saltare in aria, però il sistema delle detonazioni fu blocca-to da un militare spagnolo il quale con tempestività e coraggio limitò così i danni.

Considerevole e poliedrico l’incontro tra la Rossa e le muse, compresa la decima che ha tratto spunto dal fortunato lavoro letterario di uno scrittore il quale una sua lapide menziona: quel Washington Irving creatore dei “Racconti dell’Alhambra” mentre nel 1829 vi soggiornò. La conoscenza di questo libro ispirò a Jack London da bambino la realizzazione di un modello in scala. Irving, diplo-matico americano, fu in seguito ambasciatore degli USA a Madrid (1842-46).

Il testo dei “Racconti dell’Alhambra”, pubblicato nel 1832, è composto da 31 capitoli che, toccando storia e fantasia, fanno rivivere e conoscere questa mera-viglia e la sua passata civiltà. La Rossa, monumento nazionale dal 1870, è stata re-staurata nel 1920 sotto la guida dell’architetto Leopoldo Torres Balbás.

Nel 1984 l’UNESCO deliberò di includere fra i patrimoni dell’umanità essa, il vicino nordoccidentale quartiere “Albaizín” (di fondazione moresca) e il “Para-diso dell’Architetto” («trono» alhambrino, per Ibn Zamrak, poeta e uomo di Stato nazaride), quand’ormai secoli addietro la furia devastatrice dei reconquistadores, istigata dall’integralismo religioso cattolico, aveva cancellato moltissimi beni mo-numentali islamici.

Basti pensare, ad esempio, che al posto di una moschea rossa, del 1308, comparve a cavallo tra ’500 e ’600, davanti al lato est del palazzo di Carlo V (aven-te la pianta di una ciambella quadrata), la chiesa di Santa Maria (a croce latina).

Non va nemmeno trascurato, d’altro canto, il regio editto teso a scacciare gli Ebrei dalle giurisdizioni spagnole ed emesso proprio dall’Alhambra il 31 marzo 1492. L’ultimo sultano di Granada, Boabdil, passato alla storia come “il giovane” e

MOMENTI DI STORIA Danilo

Caruso

11

“lo sfortunato”, è risultato vittima di una discutibile notizia che gli fa rivolgere un pesante rimprovero dalla madre Aisha al-Hurra.

Durante l’abbandono della capitale sulla via dell’esilio, lasciata la Rossa dalla meridionale “porta dei sette suoli”, e raggiunta a 12 km un’altura (non a caso oggi il “Sospiro del moro”), poiché l’avrebbe in pianto contemplata, si sarebbe sentito dire: «Piange da donna ciò che non ha avuto la capacità di salvare da uo-mo». Il complesso alhambrino, circondato dalla flora dei pendii della Sabika (al-tresì Colle San Pedro), ha concorso, privo di fortuna, alla fase finale di una sele-zione, conclusasi nel 2007 e curata da una società svizzera, che indicasse le sette meraviglie del mondo moderno.

Oggi dentro l’Alhambra, la cui vista all’imbrunire nella cornice della Sierra Nevada è da mille e una notte, un albergo in mano pubblica occupa l’ex convento francescano (già abitazione moresca).

3. XENIA DI SAN PIETROBURGO

ochi anni prima della dissoluzione dell’URSS (avvenuta alla fine del 1991), il 6 febbraio – giorno in cui è commemorata – 1988 (24 gennaio per gli ortodos-si) Xenia Grigorievna Petrova è stata canonizzata dal Patriarcato di Mosca.

Nel corso dell’epoca comunista, nonostante i divieti di natura religiosa, e nono-stante l’impossibilità di accedere alla sua cappella (addirittura circondata da una recinzione alta sui 3 metri), il notevole culto popolare della sua persona, ereditato dal passato, non subì flessioni (fiori e messaggi erano lasciati prima all’esterno del-la cappella chiusa, successivamente presso il recinto).

La più dettagliata opera agiografica su di lei è quella di Dimitri Bulgako-vskij, risalente al 1895.

Nacque a San Pietroburgo all’interno di una famiglia proveniente dalla no-biltà russa verso il 1731. A 22 anni si unì in matrimonio a un colonnello, Andrea Fëdorovič Petrov, che era corista di corte. Quattro anni dopo perse il marito dece-duto a causa di un abuso d’alcolici in modo istantaneo in occasione di una festa.

La cosa turbò molto Xenia, rimasta vedova senza figli, poiché credeva che lo sposo, essendo morto in assenza di conforti spirituali, non avesse avuto diritto a una salvezza immediata dell’anima in paradiso. Così ella decise di intraprendere un cammino ascetico, in cui sostituendolo, riscattasse i peccati del coniuge (del quale per l’appunto assunse il nome e prese a indossarne la divisa: adduceva che a

P

MOMENTI DI STORIA Danilo

Caruso

12

morire non era stato lui ma lei). Seguendo l’insegnamento evangelico si liberò di tutte le sue proprietà a favore dei più bisognosi (donò l’abitazione in cui risiedeva perché divenisse ricovero per poveri – era posta all'angolo tra viale Bolshoy e via Lakthinskaya – a un’amica che persuase poi a adottare in modo prodigioso un ne-onato senza genitori).

Questa condotta fece ritenere ai familiari che fosse impazzita. Cercando dunque di farla dichiarare interdetta da un tribunale fu sottoposta ad accertamen-to sanitario: la sua presunta “follia” non era di carattere mentale (fu infatti giudi-cata in grado di ragionare perfettamente con libertà), ma spirituale.

Esiste nella religiosità russa una categoria di asceti che se da un lato subì pure persecuzioni di polizia dall’altro riscosse la venerazione popolare: sono defi-niti pazzi per Cristo (espressione che trae origine dalla prima lettera neotestamen-taria ai Corinzi, in cui la fede in Cristo è presentata come follia al giudizio di pa-gani e non cristiani).

La radicalità della loro vita di rigore e povertà, che rappresentava una for-ma di condivisione delle sofferenze della Croce, li faceva considerare dei fenomeni di aberrazione naturale e sociale, cosa che se era mal vista dai ceti più agiati costi-tuiva la loro forza di testimonianza del Vangelo di fronte ai diseredati, desiderosi di un riscatto. Il caso di Xenia, che attirò più tardi anche l’attenzione delle forze dell’ordine pietroburghesi, fu uno di questi. In principio, respinto pure il sostegno di congiunti e conoscenti, fu agli occhi dei più oggetto di dileggio. Faceva dono ulteriore agli indigenti delle offerte che aveva l’abitudine di prendere esclusiva-mente da chi le avesse porte amorevolmente.

Allontanatasi da San Pietroburgo, per farvi ritorno all’età di circa 34 anni, girò alla ricerca di “consiglieri spirituali”: le agiografie riferiscono che il movente della sua conversione narratole dallo starets san Teodoro di Sanaxar (un ex ufficia-le; 1719-1791), in cui si era imbattuta, la convincesse a far riferimento, dati i tratti di coincidenza, all’episodio di morte del marito. Persona di straordinaria pazien-za, ebbe una particolare predilezione verso la campagna pietroburghese, che le offriva riparo di notte, e la cui natura a suo avviso l’avvicinava al divino.

Viveva nella zona più misera di San Pietroburgo raminga e non curata (camminava scalza sulla neve), similmente ai più radicali antichi filosofi cinici (consumatasi l’uniforme del consorte la sostituì con brandelli di stoffa, di analoghi colori verde e rosso che la richiamassero). Coloro a cui mostrava benevolenza sembra venissero risollevati nella loro sorte, tant’è che cominciò a essere ricercata per questo suo carisma, al quale aggiungeva quello di preconizzare il futuro, che rendeva noto con formulazioni il cui senso letterale – da interpretare – rinviava a un significato profetico più profondo. Previde le morti della zarina Elisabetta (1709-1762), il giorno prima, e del prigioniero deposto zar Ivan VI (1740-1764), con tre settimane d’anticipo. A un’altra donna di nome Krapivina, sempre in maniera

MOMENTI DI STORIA Danilo

Caruso

13

oscura, anticipò la sua prossima prematura scomparsa con l’affermazione che le ortiche – in russo ortica è krapiva – sarebbero appassite rapidamente.

Nello stesso tono apparentemente incomprensibile dava indicazioni a com-piere azioni che poi disvelavano avere un seguito positivo, come nel caso della ra-gazza che sposò il vedovo a cui la santa l’aveva indirizzata dicendole che il (futu-ro) marito di lei stava seppellendo la consorte (precedente).

I concittadini credevano che calato il sole andasse a riposare nel vicino ci-mitero di Smolensk, dove si scoprì che durante l’edificazione della chiesa, nel 1794, ella agevolava nella nottata i lavori degli operai facendo trovare pronti i mat-toni. Alla sua scomparsa, avvenuta intorno al 1803, fu sepolta in questo camposan-to, luogo in cui una cappella fu completata nel 1902 sopra il suo sepolcro (molto frequentato da fedeli che solevano portarsi via un po’ di terra o di pietra dalla co-struzione come reliquia). Diverse furono le testimonianze di sue apparizioni post mortem foriere di miracoli.

La zarina Maria Fëdorovna (1847-1928) le impetrò la guarigione del marito zar Alessandro III (1845-1894): una loro figlia, della cui venuta al mondo era stata avvisata in sogno dalla santa, assieme al risanamento del consorte, fu perciò chia-mata Xenia Aleksandrovna (1875-1960); dei Romanov questa fu una delle pochis-sime persone a scampare dallo sterminio bolscevico della famiglia.

Oltre a essere inclusa nel novero dei patroni di San Pietroburgo – con l’altro ortodosso sant’Alexandr Nevskij e il cattolico san Giuda Taddeo – i patronati di questa “folle per amore di Cristo” coprono gli incendi, gli studenti, i disoccupati, i bimbi a disagio, gli errabondi e i coniugi (il racconto della sua vita vuole che ella abbia visto in vita un preannuncio della futura condizione paradisiaca propria e del defunto sposo). La cappella di santa Xenia, ritornata accessibile a tutti, è stata restaurata nel biennio 2001-2.

4. IL VECCHIO WEMBLEY STADIUM

no dei mitici stadi del football, il londinese Wembley, è stato abbattuto nel 2003, in seguito alla sua chiusura avvenuta nel 2000, e riedificato: la nuova struttura è stata aperta nel 2007 (il 24 marzo le under 21 inglese e italiana

hanno pareggiato in amichevole 3-3, tripletta di Pazzini in goal subito dopo appe-na 28 secondi). La costruzione precedente, nella cui zona lavori di sistemazione

U

MOMENTI DI STORIA Danilo

Caruso

14

erano cominciati nel 1920 in occasione della British empire exhibition (1924-25), fu tenuta a battesimo alla presenza di Giorgio V il 28 aprile 1923 con lo svolgimento della finale di coppa d’Inghilterra (Bolton-West Ham 2-0, ricordata come white horse final per via del cavallo bianco di un funzionario di polizia). La Football association cup è dal 1872 il primo torneo calcistico riconosciuto (mentre il British home cham-pionship, istituito nel 1883 è il più antico riservato a nazionali: sospeso nel 1984 po-trebbe essere reintrodotto).

Il re seguì la sfida dalla speciale tribuna reale, nella quale si celebravano le premiazioni, collegata al campo da una scalinata. Lo stadio in quella giornata ebbe la capienza massima di 127.000 persone (ci fu uno spazio a favore di più o meno 80.000 posti in piedi): il fatto di non aver programmato un razionale piano d’ingresso del pubblico consentì l’afflusso di una massa superiore alle 200.000 uni-tà, a una cui non indifferente parte fu impedito l’accesso.

La partita iniziò in ritardo di tre quarti d’ora in una struttura stracolma all’inverosimile. La sua originale denominazione era quella di Empire stadium. A-veva comportato una spesa di circa 750.000 sterline: i lavori, durati dieci mesi e supportati da una considerevole manodopera di 1.500 uomini, erano stati conclusi a qualche giorno dall’inaugurazione.

Un giro di operazioni immobiliari, a dispetto dell’intenzione di smantellar-lo successivamente all’exhibition, garantì la sopravvivenza al frutto del progetto architettonico, in stile vittoriano, di Maxwell Ayrton e John Simpson: sorto al po-sto di una torre in una circoscrizione nordoccidentale di Londra, su un lotto di proprietà dei Windsor, fu acquistato in liquidazione dallo speculatore Arthur El-vin e da lui rivenduto alla società che l’aveva posseduto.

Costui venne pagato attraverso quote azionarie che gli comportarono un guadagno e la presidenza di quell’organizzazione. Da presidente vi promosse an-che corse di cani e manifestazioni motociclistiche: nel 1927 a vedere Skin, il levrie-ro a vincere la gara d’esordio, furono in 50.000. Nel 1966 Elvin, non avendo voluto rinviare una competizione canina, causò lo spostamento di Uruguay-Francia, va-levole per il mondiale inglese di calcio, al White city.

Dal 1923 al 2000 l’originario complesso fu palcoscenico della selezione di football di coloro che furono considerati maestri, i quali tuttavia il 31 marzo 1928 ospitando la Scozia a Wembley (fino agli anni ’40 unica nazionale ad aver avuto il privilegio di giocarvi), in un incontro del Campionato interno britannico, subirono un pesante 5-1 che valse ai rivali l’appellativo di Wembley wizards.

I maghi scozzesi infatti schierati con una formazione rivoluzionata e gio-cando in modo dinamico, in vantaggio di un goal nel primo tempo, ne rifilarono nel corso della ripresa altri quattro agli avversari, in rete soltanto su punizione quasi allo scadere. Nel secondo dopoguerra lo Stadio dell’impero, dotato di un cir-cuito d’atletica, fu epicentro dei XIV Giochi olimpici estivi dell’era moderna, che eb-

MOMENTI DI STORIA Danilo

Caruso

15

bero luogo dal 29 luglio al 14 agosto 1948, la seconda volta da quelli del 1908, nella capitale (Londra è stata sede di una terza olimpiade nell’estate del 2012): vi prese-ro parte 4.104 sportivi in rappresentanza di 59 Paesi.

La manifestazione pomeridiana d’apertura, alla quale assistettero in 85.000, vide la partecipazione del sovrano e di vari suoi familiari: erano passati dodici an-ni dall’ultima olimpiade di Berlino del 1936. Uno spettacolare volo di alcune mi-gliaia di colombe coprì lo stadio allorché l’inizio delle competizioni fu proclamato da Giorgio VI (qui il 31 ottobre 1925, non ancora re, durante un discorso per l’Esposizione dell’impero britannico a causa dei suoi problemi di balbuzie, poi supe-rati, destò una brutta impressione).

A quell’olimpiade l’Italia si piazzò quinta nel medagliere, facendo meglio dei padroni di casa. Nel torneo olimpico di calcio l’Italia fu eliminata ai quarti, mentre il Regno Unito sfiorò una medaglia: perse la semifinale (3-1 con la Jugosla-via) e poi la finale di Wembley che assegnava il terzo posto e dunque il bronzo (5-3 con la Danimarca). Allo stadio imperiale si svolsero inoltre gare equestri e di ho-chey in aggiunta al football e all’atletica, nonché la celebrazione di chiusura dei giochi olimpici. Il 25 novembre 1953 gli Inglesi, che non avevano partecipato alle prime tre edizioni della Coppa Rimet, ritenendosi del tutto superiori, raccolsero un’altra memorabile umiliazione perdendo 6-3 davanti all’Ungheria, medaglia d’oro all’olimpiade dell’anno indietro.

Wembley ritornò alla ribalta del calcio internazionale quando l’Inghilterra ospitò nel 1966 il mondiale e nel 1996 l’europeo. Disputò qua tutte le partite delle due competizioni. In entrambe l’Italia fu eliminata al girone iniziale. Gli Inglesi giunsero alla finale del 30 luglio 1966 (vinta 4-2 d.t.s.) e si trovarono di fronte la Germania Ovest che aveva battuto in semifinale 2-1 l’URSS: in svantaggio al 12°, pareggiarono sei minuti più tardi, quindi passarono in vantaggio verso la fine del secondo tempo, a un minuto dalla fine i Tedeschi colsero il pareggio. Però quello che accadde all’11° del primo tempo supplementare, sul 2-2, continua a lasciare perplessi: l’Inglese Hurst tirando colpì la parte inferiore della traversa, la palla sbatté sulla linea bianca di porta e tornò in campo.

Alla moviola sembra che non l’abbia oltrepassata, ma il guardalinee sovie-tico diede l’assenso sulla marcatura. La magia del goal fantasma sembrò perdura-re pure all’europeo del 1996: ai quarti un paio di fuorigioco inesistenti fischiati alla Spagna impedì la possibilità di mettere in serio pericolo la porta dell’Inghilterra, vittoriosa alla fine ai rigori.

La nemesi si mostrò nella semifinale con la Germania, vincitrice a sua volta di quella sfida ai tiri dal dischetto e della successiva finale di Wembley.

Se non bastasse, l’ultimo incontro giocato in assoluto al vecchio Empire sta-dium (7 ottobre 2000, valido per la qualificazione al mondiale) contemplò una sconfitta inglese proprio per mano dei Tedeschi. Clamorosa, sempre a Wembley,

MOMENTI DI STORIA Danilo

Caruso

16

quella nel British home championship contro la Scozia il 15 aprile 1967: l’Inghilterra fresca detentrice della Coppa Rimet, cui bastava il pareggio, perse 3-2 lasciando il titolo ai guastafeste scozzesi, i cui sostenitori alla fine della gara, inneggiando alla propria squadra come se fosse divenuta campione del mondo, furono autori di una pacifica invasione di campo. Meno pacifica fu l’invasione del 4 giugno 1977: essendo stata la Scozia in virtù del 2-1 sugli Inglesi di nuovo conquistatrice di que-sto torneo, i tifosi stavolta si portarono via zolle del terreno di gioco e persino una traversa di porta. La nazionale italiana allo Stadio imperiale ha ben figurato a scapi-to dell’Inghilterra. Dal 2-2 del 6 maggio 1959 ha collezionato una sconfitta (2-0 il 16 novembre 1977), uno 0-0 (il 15 novembre 1989) e due storici 1-0 (il 14 novembre 1973 e il 12 febbraio 1997, reti rispettivamente di Capello, futuro c.t. inglese, e di Zola, che allora militava nel Chelsea). In questo Wembley, che ospitò cinque finali di Coppa dei campioni e due di Coppa delle coppe i club italiani hanno ottenuto due successi: nella prima il Milan, prima società italiana ad aggiudicarsi il trofeo (2-1 sul Benfica il 22 maggio 1963); sfortunata la Sampdoria nella finale del 20 maggio 1992, avversario il Barcellona; e nella seconda il trionfo del Parma rivelazione (3-1 sull’Anversa il 12 maggio 1993).

Da ricordare d’altro canto le affermazioni di Manchester (29 maggio 1968) e Liverpool (10 maggio 1978) nella coppa più ambita, e del West Ham nell’altra (19 maggio 1965). L’ultima finale di FA cup, antecedente la ricostruzione, si è disputa-ta il 20 maggio 2000: Chelsea-Aston Villa 1-0, goal di Di Matteo, autore nella finale del 17 maggio 1997 di un’altra segnatura a 43 secondi dal fischio d’avvio (record di rapidità della competizione sino al 30 maggio 2009).

Lo stadio, con le sue vistose e caratteristiche torri gemelle all’entrata della tribuna nord e la copertura che risaliva al 1963, fu teatro di più discipline sportive, tra cui il rugby, e di manifestazioni di varia natura, soprattutto concerti. L’attuale Wembley ha negli ultimi tempi mantenuto le migliori tradizioni.

5. LA MARCIA VERDE

uando le dominazioni coloniali avevano ceduto spazio all’esistenza di Stati liberi, gruppi di civili marocchini disarmati, di varia estrazione, cui erano state fornite copie del Corano, bandiere islamiche e immagini del proprio

sovrano, attraversarono il 6 novembre 1975 la frontiera nel deserto col Sahara spa-gnolo per incalzare il governo madrileno a ritirarsi: la cosiddetta “marcia verde”

Q

MOMENTI DI STORIA Danilo

Caruso

17

(in codice operazione “Fatḥ”: “conquista” in arabo) fu tra le mosse culminanti nei piani di annessione del re del Marocco Hassan II (1929-1999). Sul trono dal 1961, fu un suo obiettivo quello di riunire le tribù sahrāwī sotto la monarchia alawita. Gli eventi che contrassegnarono l’evolversi di questa mira furono articolati.

Nel dicembre del ’65 la Spagna franchista fu sollecitata dall’ONU ad ab-bandonare la colonia, ed esattamente un anno dopo le Nazioni Unite stabilirono che quelle genti potessero decidere il loro futuro tramite una scelta referendaria.

Le miniere di fosfati nell’area settentrionale avevano fatto sorgere a Madrid il desiderio di un separato piccolo stato fantoccio.

Lo scacchiere di quest’area sahariana occidentale contemplava in aggiunta al Marocco (in quei decenni di “guerra fredda” vicino agli USA) altri contendenti: la Mauritania e la filosovietica Algeria che ambiva, tra l’altro, a uno sbocco atlanti-co (dalla redditizia pesca costiera). Era viva la preoccupazione negli Stati Uniti di un’ingerenza nordafricana dell’URSS.

Nel maggio del ’73, dai resti di una precedente organizzazione indipenden-tista (sorta nel ’67), fu formato il Fronte popolare di liberazione di Saguia el Ham-ra e Rio de Oro (POLISARIO), e nell’agosto del ’74 gli Spagnoli resero noto che si sarebbero ritirati dal suolo sahariano, offrendo la disponibilità a dar luogo al refe-rendum auspicato dall’ONU anni prima (a CIA e Nazioni Unite sembrava desse probabilmente vita a uno Stato indipendente). Il monarca marocchino, paventan-do che la situazione gli sfuggisse di mano, protestò affinché in questa consultazio-ne non fosse concessa l’opzione dell’indipendenza.

E nel mese successivo si rivolse alla Corte internazionale di giustizia de L’Aia, che a ottobre del ’75 emise un responso conveniente alle sue aspettative: ri-badendo l’opportunità di un atto di autodeterminazione dei residenti nella regio-ne, dichiarava che i Sahrāwī presentavano i rivendicati caratteri di omogeneità col popolo marocchino. Gli Algerini – come sempre – sostennero che la migliore solu-zione era lo svolgimento di un plebiscito. In Spagna lo stato di salute del dittatore Francisco Franco e la sua imminente morte (20 nov. 1975) giocarono a favore del Marocco: il futuro re Juan Carlos era propenso all’entrata iberica nella NATO (ri-nunciando a un collocamento internazionale nella “terza posizione”), da propizia-re grazie all’immediato disimpegno sahariano (tendenza coloniale già maturata dal caudillo).

In precedenza il governo americano era stato criticato da quello franchista perché assecondava gli amici marocchini (i rapporti tra CIA e ventura casa re-gnante alawita risalivano allo sbarco degli Americani a Casablanca nel nel’42 du-rante la seconda guerra mondiale). L’intenzione di mettere piede nel Sahara spa-gnolo era stata ufficializzata da un messaggio di Hassan II alle 18:30 del 16 ottobre 1975, giorno stesso in cui poche ore dopo la Corte de L’Aia aveva espresso un punto di vista utile alle sue ambizioni. Da quella giornata era incominciata la mo-

MOMENTI DI STORIA Danilo

Caruso

18

bilitazione pubblica a sostegno dell’iniziativa, cosicché già una settimana più tardi un embrionale nucleo di volontari si radunava a Tarfaya: in realtà la pianificazio-ne segreta di tutte le manovre era stata avviata il 26 settembre con il coinvolgi-mento di 700 agenti.

Il 31 ottobre, a sei giorni dalla “marcia verde (colore simbolico dell’Islam)”, reparti dell’esercito di Rabat, affrontando qualche isolata opposizione degli uomi-ni del POLISARIO, avevano occupato alcuni settori di controllo a sud al di là del confine sahariano per impedire un eventuale ingresso militare algerino nelle “ter-re irredente” dal Mesamir. L’intervento dell’ONU – il cui orientamento era de fac-to filoalgerino – richiesto dalla Spagna non riuscì a dissuadere in quelle settimane il re alawita.

All’inizio dell’ottobre del ’75 la Cia aveva previsto un’aperta invasione ar-mata entro il mese se le circostanze non avessero dato altra scelta ad Hassan II, fi-ducioso che la comunità internazionale avesse poi fatto il suo gioco; perciò gli Stati Uniti lo ammonirono a non compiere un atto bellico contro gli Spagnoli: rispose il 14 che la Spagna sarebbe rimasta fuori da eventuali ritorsioni a differenza di altri che avessero cercato di ostacolarlo.

Tuttavia Madrid, preoccupata dell’insuccesso delle Nazioni Unite, e dispo-nibile a un trasferimento della sovranità sahariana a condizione di annullare la “marcia verde”, venne a patti col Marocco: l’operazione “Fatḥ” si sarebbe comple-tata; in seguito, attraverso l’egida del Palazzo di vetro di New York, gli Spagnoli avrebbero avuto un’uscita di scena senza disonore e un referendum ad hoc avreb-be sancito il nuovo possesso territoriale di Rabat (Juan Carlos fu a El Ayun, a po-chi chilometri dal Marocco, il 2 novembre, nel periodo in cui il governo madrileno proclamava di voler fermare l’arrivo dei Marocchini).

Un plebiscito pilotato era la proposta che Hassan II avrebbe accolto nel caso della prospettata e diretta amministrazione dell’ONU successivamente al ritiro i-berico, una via che allora non gli fu garantita. E così all’alba del 6 novembre, ma solo in piccola parte, raggruppamenti dai circa 350.000 – numero simbolico della generazione di nati in quell’anno – marciatori concentrati a ridosso della frontiera sahariana (segnata dal parallelo a 27° 40' di latitudine nord) si inoltrarono da di-versi punti nel territorio della colonia iberica per una quindicina di chilometri.

Il 9 novembre questa pacifica avanzata, prontamente condannata dal Con-siglio di sicurezza delle Nazioni Unite (cui fu impedito per il veto statunitense un pesante atto di sanzione caldeggiato da Madrid), fu revocata dal sovrano alawita, che si reputò soddisfatto. Il pericolo era che l’operazione degenerasse: temeva da un canto che l’Algeria rispondesse in armi, e dall’altro che lo schieramento dei soldati iberici, schermati da una barriera di mine piazzata a proposito, potesse causare vittime tra i volontari giunti molto vicini a questa linea di contenimento (i marciatori furono poi temporaneamente mantenuti distanti 10 chilometri a nord

MOMENTI DI STORIA Danilo

Caruso

19

del confine per esercitare ulteriore pressione sulla Spagna). Il 10 dicembre una ri-soluzione dell’ONU rinnovò il diritto all’autodeterminazione dei Sahrāwī.

Il 26 febbraio 1976 gli Spagnoli, passati per un intermezzo di gestione con Marocchini e Mauritani partito il 14 novembre 1975, conclusa l’operazione di eva-cuazione denominata “Rondine”, lasciarono definitivamente la colonia: il 27 feb-braio venne quindi proclamata dagli indipendentisti la Repubblica democratica araba sahrawi (RASD), durata poco poiché a metà aprile in virtù dell’accordo ma-rocchino-mauritano il Sahara ex iberico fu diviso tra i due stipulanti lasciando fuo-ri l’Algeria.

L’amarezza algerina davanti a questi avvenimenti fu considerevole (come il risentimento nei confronti degli USA): Algeri e Rabat ritirarono i rispettivi amba-sciatori. L’intesa tra Spagna, Marocco e Mauritania (Madrid, 12-14 nov. 1975) ave-va presunto un voto popolare, a cui l’ostile strategia del POLISARIO (di indirizzo socialista), rimasto in loco l’unico soggetto politico interlocutore, non diede mar-gine di realizzazione (ci fu inoltre un’emorragia di profughi alla volta della limi-trofa Tindouf in Algeria).

Nel luglio del ’78 a causa della guerriglia del POLISARIO crollò in Mauri-tania sotto un colpo di Stato la presidenza di Moktar Ould Daddah (in carica dal 1960). La frazione mauritana di Sahara spagnolo fu lasciata libera undici mesi più in là: il quarto giorno dall’abbandono venne annessa da Rabat.

Alla fine degli anni ’70 il POLISARIO (col sostegno di Algeri) stava per prendere il controllo dell’ex Sahara iberico, però i Marocchini – dopo essersi di-chiarati nel 1981 ben disposti a un plebiscito per i Sahrāwī – per mezzo di aiuti americani, francesi e sauditi ripresero la supremazia, e al termine del 1984 si ritira-rono dall’Organizzazione dell’unità africana che aveva associato la RASD.

Una Missione delle Nazioni Unite per l’organizzazione di un referendum nel Sahara Occidentale (MINURSO), iniziata nel 1991 e più volte prorogata, cui ha partecipato anche l’Italia, a oggi ha ottenuto un nulla di fatto.

Il nuovo re Mohammed VI, succeduto al padre Hassan II, ha ricostituito nel marzo del 2006 un decaduto hassaniano Consiglio reale consultivo per gli affari sahariani (CORCAS) allo scopo di migliorare l’integrazione.

MOMENTI DI STORIA Danilo

Caruso

20

6. UNA CONCLUSIONE INUSUALE

UNA STORIA POSSIBILE, UNA FABULA

“LA REPUBBLICA DEGLI ASINI”

n un tempo antichissimo non vigeva l’attuale ordine naturale, l’uomo non ave-va affermato il suo dominio sugli animali e sulle forze della natura, anzi era l’asino (oggi simbolo d’ignoranza), dotato persino di parola e della capacità di

scrivere, ad aver instaurato il primo ordine sociale. Gli uomini erano litigiosi fra di loro e diffidenti: ne approfittarono gli asini

che coalizzandosi istituirono una dittatura. Da questa alleanza nacque il famoso detto asinus asinum fricat (l’asino si “strica” con l’asino), che conserva nel lin-guaggio la memoria di quel primordiale evento. Gli asini capirono che nella loro società l’unico collante poteva essere la solidarietà (di specie) e non ebbero diffi-coltà a nominare un Senato.

Farne parte era per ognuno di loro un sogno; tant’è che uno disse: «È più facile che un uomo voli che entrarvi!». Infatti chi aspirava alla suprema magistra-tura doveva essere un asino con tutti i sacramenti: una scelta sbagliata poteva dar adito a un sovvertimento sociale e portare l’uomo al potere qualora avesse messo da parte il suo istinto egoistico.

Ma gli asini impararono dagli uomini solo i peggiori difetti: l’uno voleva predominare sull’altro. Scoppiò la guerra civile (bellum asininum) combattuta da due fazioni. Nessuno badava più alla pulizia e all’ordine.

Tutto era un immondezzaio, non si ebbe rispetto neanche per l’Asineo, vec-chia sede della dittatura. Qualche asino pensò di spostare rifiuti e macerie della guerra nella zona degli uomini, nella speranza anche di intossicarli e sterminarli per sempre. Gli uomini però capirono che se avessero solidarizzato come gli asini ne avrebbero preso il posto, e così fecero.

Si unirono, diedero fuoco ai rifiuti e il fumo tossico bruciò la facoltà di quelli di parlare, rimasero in grado di emettere solo un raglio.

Non potendo più comprendersi rimasero disuniti. La società precedente fu sostituita da quella degli uomini, ma per una questione di accortezza questi non riportarono mai nei codici e in altri scritti la storia della tirannia degli asini, che il Signore aveva creato per portare i pesi.

Da allora si dice che i ragli degli asini non giungono in cielo…

I

INDICE

Introduzione pag. 1

1. Caruso di Sicilia pag. 3

2. L’Alhambra di Granada pag. 8

3. Xenia di San Pietroburgo pag. 11

4. Il vecchio Wembley Stadium pag. 13

5. La marcia verde pag. 16

6. Una conclusione inusuale / una storia possibile, una fabula pag. 20

Palermo

novembre 2014