ipocrisia, ingordigia, propria personalità tratti violenza ... · altri, provoca una deviazione...
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Superbia, ira, gola, invidia,
avarizia, lussuria, accidia,
sono comunemente conosciuti
come i sette vizi capitali e
duramente considerati dalla
morale cattolica peccati.
Essi in realtà esprimono
temperamenti tipici di
personalità psichicamente in
conflitto, sottendono
un’infinità di elementi negativi
che disturbano l’esistenza
dell’uomo e minacciano il suo
equilibrio emotivo,
compromettendo la sua
integrazione nella società:
egoismo, incomunicabilità,
insicurezza, aridità affettiva,
gelosia, orgoglio, vanità,
ipocrisia, ingordigia,
violenza, pigrizia, abulia,
carenza e rifiuto d’amore… Tali elementi possono essere
motivo di frustrazioni, di
inibizioni, possono
compromettere la serenità di
una persona, inducendola, per
reazione, a modalità di
comportamento più o meno
anomali che, dal punto di vista
della morale, predispongono al
peccato, quando già non lo
determinano. Considerando,
infatti, che ogni Essere
Umano è dotato di un “Morale
Somatospirituale”, non si
può escludere che tali disturbi
siano di ostacolo a una sana
vita morale e spirituale.
Tuttavia esprimendo giudizi di
valore o condannando non si
aiuta certamente una persona a
risolvere e a guarire dai suoi
problemi, ma è necessario,
attraverso un’adeguata
psicoscopia, aiutarla a
scoprire le tendenze
“subconscie” che hanno dato
luogo a errori vitali e a
conflitti psichici’, e guidarla a
prenderne coscienza. Poiché
spesso il “vizioso” assume
atteggiamenti apparentemente
e scrupolosamente morali, ma
che sono solo decisamente e
paradossalmente
pseudomorali, è indispensabile
anche che riceva una
scrupolosa direzione spirituale
che lo liberi dai sensi di colpa
e contribuisca a fargli ritrovare
l’equilibrio interiore: ”Chi
vuole veramente guarire
l’uomo, deve vederlo nella sua
interezza e deve sapere che la
sua definitiva guarigione può
essere solo l’amore di Dio”
(Benedetto XVI in Gesù di
Nazaret).
E ’bene precisare tuttavia che
ogni individuo presenta nella
propria personalità tratti
diversi e persino contrastanti,
tra loro in equilibrio più o
meno costante; quando un
elemento qualsiasi dell’umana
caratterologia predomina sugli
altri, provoca una deviazione
significativa dalla media e
determina un quadro
particolare e caratteristico di
comportamento. Tutti abbiamo
qualche spunto di gelosia, di
avarizia, di fanatismo,
eccetera, ma solo alcuni
presentano una patologica
esasperazione di questi stessi
attributi, di per sé normali. I
temperamenti viziosi si
determinano, infatti, solo
quando gli elementi che li
caratterizzano superano certi
limiti e scantonano
nell’esagerazione.
A questo punto ritengo
necessario evidenziare quali
personalità conflittuali tali
temperamenti sottendono:
- il superbo, ambizioso,
presuntuoso, vanaglorioso,
ipocrita, nasconde una
personalità debole e vile
- l’iroso e il goloso denotano
una personalità infantile, insicura e angosciata dalla
paura di non essere abbastanza
amata
- l’invidioso, è una
personalità tormentata da una
continua insoddisfazione,
causata da un complesso
d’inferiorità e di insicurezza,
- l’avaro, il lussurioso e
l’accidioso, eccezionalmente
egoisti, insensibili, poco
disponibili al dialogo e alla
confidenza, sfiduciosi nel
prossimo, sono spesso
personalità condannate alla
più penosa e angosciosa
solitudine interiore. I viziosi tendono la mano solo
per ferire, colpire, umiliare il
prossimo, ma anche se stessi.
Sono figure sfumate che
passano inutilmente nella vita,
perché ignorano l’amore delle
creature e perché non vogliono
ammettere che soltanto
l’AMORE “introduce nella
vita”.
Evitiamo perciò di diventare
anche noi dei viziosi
abbracciando l’insegnamento
di San Agostino “La misura
dell’Amore è di amare senza
misura”. Chi rifiuta questa
verità non potrà mai sorridere
di gioia, né piangere di dolore .
Dr.ssa MariaAntonietta Caroppo
Negli Atti degli Apostoli,
capitolo 4, si racconta come
Pietro e Giovanni siano stati
arrestati perché annunciavano
il Vangelo e compivano
guarigioni nel nome del
Signore. Dopo un processo
sommario vengono scarcerati,
pur sotto la minaccia di gravi
punizioni se avessero
continuato la loro opera di
annuncio.
Per nulla intimoriti, i due
apostoli pregano e riprendono
l’annuncio:
”… 30 Stendi la mano perché si
compiano guarigioni, miracoli
e prodigi nel nome del tuo
santo servo Gesù”.
31Quand’ebbero terminato la
preghiera, il luogo in cui
erano radunati tremò e tutti
furono pieni di Spirito Santo e
annunziavano la parola di Dio
con franchezza” (Atti 4, 30-
31)
Nel testo originale greco ciò
che in italiano è stato tradotto
“con franchezza” è detto
Parresìa. Parresìa è una parola greca e,
come accade per la maggior
parte dei termini del greco
antico, non è facile rendere in
italiano la complessità del
significato.
In un certo senso si potrebbe
tradurre con "dirla tutta,
parlare senza peli sulla
lingua", ma resta comunque
una definizione limitativa. E'
parresia il lasciar scorrere
fuori esattamente ciò che si ha
dentro, senza calcoli di
convenienza o di interesse
personale; è parresia il dire la
verità, non mentire, non
adattare le proprie opinioni
all'occorrenza, ma esprimerle
con forza e dignità, senza
alcun timore.
Vediamo ora di iniziare, in tre
punti di riflessione, un piccolo
cammino di approfondimento,
teorico e pratico, di questa
ricchissima parola greca.
Primo punto di riflessione. La
radice della parola parresia si
è persa nei secoli, e questo è
un segnale evidente della
direzione intrapresa dalla
cultura occidentale. Così,
mentre è andata smarrita la
parresia, ovvero il parlare
schietto, anche in presenza di
potenti e senza temere le
conseguenze, il suo contrario,
cioè la frenesia
(phronesis), ovvero la furbizia,
l'arrabattarsi in sistemi e
strategie per ingannare il
prossimo, ha mietuto secoli di
successi fino quasi ad
identificare l'essenza della
nostra società. Una società
frenetica, tribolante e ansiosa,
dove parresìa è un termine
sconosciuto ai più, così come
lo è la pratica della virtù
corrispondente.
Siamo pronti per tentarne un
recupero?
Che cosa ci può aiutare in
questo?
La vicinanza di fratelli nella
fede?
La consapevolezza di essere
amati da Dio così come siamo,
oggi?
La certezza che la morte non è
l’ultima parola nel destino del
creato?
Secondo punto di riflessione.
Ognuno di noi sa che oltre agli
interlocutori esterni, ciascuno
ha un interlocutore interno a
cui dire la verità. Qui la critica
divente “autocritica”, capacità
di dire la verità a sé stessi, di
scandagliare la propria ombra,
le cantine della propria anima,
in linea con il messaggio
dell’oracolo di Delfi: “Conosci
te stesso”. Non vanno forse
anche in questa linea le
tecniche di pastoralterapia di
cui la nostra chiesa è custode,
depositaria, portatrice?
Terzo punto di riflessione.
È possibile fissare delle regole
circa la “parresia”?
1- La parresìa, quando si
esprime nella forma della
critica e della contestazione, è
vera se fa trasparire l’amore
nelle parole che si dicono. Non
è franchezza evangelica se c’è
malanimo, stizza, amarezza,
risentimento, mescolanza di
passionalità e di questioni
personali non risolte.
2- La parresìa deve invitare a
crescere, deve infondere
fiducia, incoraggiamento, mai
indurre a visioni pessimistiche
e distruttive! La parresia è
sempre da mettere in relazione
ad un valore più alto da
raggiungere; è un invito a
superare visuali da “orticello
privato”.
3- Ognuno di noi potrebbe
cominciare dal verificare dove
nascano le parole che si
dicono:
Ci può essere una parola
forte e chiara, ma che non
viene da Dio, bensì dalle
tensioni e da conflitti.
Così come ci può essere
una parola debole che non
nasce dalla comprensione,
ma dalla paura, dalla
timidezza, dalla
convenienza di non turbare
l’equilibrio esistente.
Infine, ci può essere una
fretta che non nasce
dall’ascolto o dalla lettura
sapiente della situazione,
ma da un interventismo o
da una focosità dannosa.
Infine c’è una parresìa che
nasce dalla consapevolezza
di essere inseriti in Dio, di
non essere soli, ma di
essere parte di una
comunità.
In conclusione:
C’è una icona bellissima negli
Atti degli Apostoli che dice
che cosa è la parresìa:
Pietro levatosi in piedi, con gli
altri Undici, parlò a voce alta:
(2,14).
- Levatosi in piedi indica la
fermezza
- Con gli altri Undici indica la
comunione ecclesiale.
- Parlò a voce alta esprime la
chiarezza.
Ognuno di noi può aspirare a
vivere così.
Coraggio, possiamo farcela!
Buon recupero, buona
parresìa!
Dr Paolo Iotti
“Egli allora chiamò a sé i
Dodici e diede loro il potere e
autorità su tutti i demoni e di
curare le malattie” (Lc 9,1).
Questo fu uno dei principali
mandati che Gesù diede ai suoi
discepoli. La missione affidata
ai dodici non si risolveva,
quindi, solo nel propagare la
parola di Dio, ma anche nel
curare in nome Suo.
Fin dai tempi più antichi, vi
era uno stretto legame tra
l’aspetto spirituale e quello
terapeutico e, solo in tempi
relativamente recenti,
quest’ultimo si è andato
evolvendo e specializzando in
modo autonomo dal primo.
Con il termine malattia si
intende indicare un qualsiasi
stato di alterazione
nell’equilibrio organico,
funzionale, psichico o
psicologico di un essere
vivente. Contro questo stato
patologico, odiernamente, si
cerca di intervenire utilizzando
soprattutto rimedi esterni, il
cui impiego è affidato a esperti
competenti in materia. In
questo quadro dei fatti ciò che
quotidianamente accade è che
quando una persona si ammala
si rivolge a un terapeuta, che,
sulla base di una diagnosi,
propone un determinato iter
curativo, in cui il malato stesso
è, il più delle volte, un
recettore passivo. La
responsabilità e la coscienza
del singolo sia nel proprio
processo patologico che in
quello guaritivo non sono, per
la maggior parte delle volte, né
sollecitate né rafforzate.
Abbandoniamo per il
momento questa riflessione e
cerchiamo di capire cosa
significhi la parola “malattia”
nell’ambito biblico e quali
implicazioni se ne possano
dedurre.
Nell’Antico Testamento, la
malattia viene vissuta come
immediata conseguenza
dell’ira divina per aver
commesso peccato e si
traduce, quindi, in una meritata
punizione per aver alterato il
giusto equilibrio con il
Signore. In questa direzione
Dio ammonisce palesemente,
basti pensare alle ripetute
volte, in cui ritorna la frase “il
Signore ti colpirà…” (Dt,
28,22.27.28.35) con cui Mosè
predice, tra le altre
maledizioni, malattie ed
epidemie che il Signore invierà
in caso di disobbedienza da
parte del popolo.
Contro lo stato patologico non
resta che pregare per trovare
clemenza presso Dio e sperare
nella guarigione.
È soprattutto nei Salmi che
troviamo delineata la penosità
della sofferenza inferta, per la
quale si chiede la misericordia
e la pietà divina (Sal 6; 38; 39;
41; 88; 102). In altri punti,
invece, gli oranti esultano e
rendono grazie a Dio per
l’avvenuta guarigione (Sal 30,
3.12.13 – Is 38, 17.18 – Sal
116). Si può, quindi, ben
intuire che quest’ultima è
interpretata unicamente come
una pura concessione della
volontà divina. Spesso
nell’attuazione della
guarigione, Dio si serve di una
persona consacrata che
somministra un medicamento.
Ricordiamo a questo proposito
che nel libro di Tobia è
menzionato l’episodio, in cui
la persona consacrata, che
guarisce attraverso un rimedio
esterno, è un angelo di Dio,
Raphael, nel cui significato
letterale del nome è già
racchiuso il messaggio
principale “Dio guarisce”.
Nel contesto descritto appare
ovvia la condizione di estrema
passività del sofferente, il
quale, per di più, è condannato
a un’estrema solitudine.
Proprio perché la malattia
viene concepita come castigo
divino, i credenti non si
accostano al malato al fine di
offrirgli assistenza e cura,
perché invasi da un sano
terrore religioso verso l’ira di
Dio: “Amici e compagni si
scostano dalle mie piaghe, i
miei vicini stanno a distanza”
(Sal 38,12), “I miei fratelli si
sono allontanati da me, persino
gli amici mi si sono fatti
stranieri” (Gb 19,13).
Nell’Antico Testamento viene,
quindi, posto l’accento
soprattutto sulla guarigione del
sofferente, mentre scarsa o
nulla importanza viene
conferita alla sua “cura”,
intesa come atto assistenziale
caritatevole. Come tante altre,
ancora una volta, Gesù
infrange la regola e ci insegna
che l’unione, l’equilibrio con
Dio si rafforza proprio
attraverso atti misericordiosi
verso il prossimo, specie verso
i malati.
In tutti e tre i Vangeli
sinottici, i primi segni
miracolosi di Gesù riguardano
proprio la guarigione di malati.
Non è , poi, un caso che in
quello di Matteo, il primo
miracolo da Lui compiuto, sia
la “purificazione” di un
lebbroso, avvenuta toccando il
sofferente con la Sua mano:
non solo non evita il malato,
ma si espone fisicamente al
rischio del contagio.
Già a partire da questa
situazione descritta, come in
altre ancora, si possono
distinguere i due aspetti
principali dell’operato
terapeutico del Messia: a
quello della guarigione viene
affiancato l’elemento non
meno importante della cura.
Ciò che induce Gesù a guarire
è il prendersi cura del malato
o, come meglio ci viene
sottolineato, Egli fu “mosso a
compassione” (Mc 1,42; Mt
14,14).
Nei Vangeli è proprio su
questo secondo aspetto che
viene soffermata l’attenzione;
infatti il termine “therapeuein”
(curare, servire) viene
utilizzato preferenzialmente
rispetto a “iasthai” (guarire). È
facile intuire che l’intento
degli evangelisti è proprio
quello di evidenziare l’attività
terapeutica del Cristo, intesa
come “servire”, “prendersi
cura” del malato, un’attività
talmente efficace da portare
alla guarigione.
L’aspetto miracoloso delle
guarigioni lo si gusta
soprattutto quando si assiste al
fatto che Gesù sana con una
parola, ma Egli stesso non si
accontenta di questo, infatti
tocca il malato, lo tiene per
mano, gli impone le mani.
È in questo Suo approccio che
viene stimolata la
responsabilità del sofferente
nel proprio percorso guaritivo:
il malato è reso co-partecipe
del processo curativo. Se
riflettiamo sui passi in cui
Gesù guarisce, ci rendiamo
conto, infatti, che Egli, pur
utilizzando, a volte, rimedi
esterni come saliva (Mc 7,33;
Mc 8,23), saliva mescolata a
fango (Gv 9,6)…, utilizza la
forza sanante dell’imposizione
delle mani (Mc 6,5; Lc 4,40;
13,13; Mc 8,22-25).
Come è ben noto, in qualsiasi
pratica terapeutica che ne
faccia uso, nell’atto di imporre
le mani vi è una trasmissione
energetica benefica che
stimola, a sua volta, il flusso
energetico del ricevente al fine
di trarre giovamento.
In questo contesto acquista
rilevanza la partecipazione del
sofferente, la sua convinzione
nell’attuare il suo iter
guaritivo: più ci si predispone
con atteggiamento positivo e
fiducia, migliore sarà il
risultato. Gesù stesso, a
coronamento delle sue
guarigioni, usa frequentemente
concludere con le parole “la
tua fede ti ha salvato” (Lc
17,19; 18,42; Mc 10,52; Mt
9,21).
Possiamo ancora
esplicitamente rintracciare il
riferimento a predisporsi con
fiducia ed essere co-fautori
della propria guarigione,
nell’episodio dei due ciechi
che invocano la vista, cui Gesù
risponde “sia fatto a voi,
secondo la vostra fede” (Mt 9,
28-29).
Come si può facilmente
intuire attraverso questi
esempi, secondo la scienza
Cristica, ognuno di noi ha, o
dovrebbe avere una buona
dose di partecipazione nel
proprio processo di guarigione.
A una prima impressione,
potremmo essere indotti a
pensare che la fede, cui si fa
riferimento sia solo un atto di
abbandono cieco a Dio e che
Gesù, solo se vede la fede,
compia il miracolo. Questa,
però, ancora una volta
designerebbe una condizione
di passività del malato nel
ricevere la guarigione. Della
forza sanante divina, noi,
invece, siamo partecipi e solo
attraverso una condizione di
fede (fiducia non solo in Dio
ma anche in noi stessi), la
possiamo far liberamente
fluire in noi. Ciò che Gesù
andava a stimolare era proprio
l’ascolto di Dio in sé stessi e la
capacità auto-guaritiva, insita
in ciascuno di noi. Riceviamo
conferma di questo nel
Vangelo di Luca,
immediatamente dopo il passo,
in cui viene descritta la
guarigione di un lebbroso: “…
Perché il regno di Dio è in
mezzo a voi!” (Lc 17, 21). Se
andiamo a rintracciare il
significato letterale della
preposizione greca
“ejntovß”(in mezzo) vediamo
che questa può essere tradotta
anche come “dentro”; la frase
potrebbe, quindi essere
tradotta in questo secondo
senso: “il regno di Dio è
dentro di voi”. Considerando
la posizione strategica
riservata al passo e ricordando
che Luca era medico, è
piuttosto semplice intuire il
messaggio intrinseco inviato
dall’evangelista.
Sempre in questa ottica,
riceviamo un ulteriore indizio
anche per indagare su alcune
delle cause all’origine degli
stati di malattia. Come
abbiamo visto, nell’Antico
Testamento, la malattia veniva
vista come conseguenza della
punizione divina per aver
“peccato” contro Dio; ora ci
viene suggerito, invece, che
Dio è in noi: questo non
potrebbe voler significare
anche che alla base delle
nostre malattie e sofferenze vi
possa essere un “peccato”, un
conflitto, una rottura di
equilibrio principalmente
verso noi stessi, su uno o più
piani del nostro essere?
Se riflettiamo, anche nel
campo medico-sanitario si fa,
soventemente, riferimento a
questa situazione
denominandola, con termini
diversi, parlando, magari, di
“eventi, stimoli… stresso
geni”: ma la sostanza, in
ultimo, non cambia. Sempre
nell’ambito terapico si è
anche, già da molto tempo,
evidenziato il fenomeno
conosciuto come “effetto
placebo”, con cui si tende
genericamente indicare la
partecipazione dello stato
suggestivo della persona
nell’incrementare l’effettiva
azione di un farmaco o di un
trattamento.
Siamo veramente convinti che
sia suggestione? Non potrebbe,
invece, essere espressione
della nostra latente capacità
autoguaritiva?
È in una maggior
partecipazione del sofferente
nel suo iter curativo e
guaritivo che, penso, ci si
debba maggiormente
concentrare in qualsiasi ambito
terapico.
….. e la via più sicura è quella
che prende le mosse da un
profondo ascolto del nostro
corpo, dei nostri sentimenti,
conflitti, emozioni, pensieri al
fine di abbracciare una piena
conoscenza e consapevolezza
di noi stessi.
Dr.ssa Caroppo Cristina
L’insegnamento che
comunemente viene impartito
riguardo alla “preghiera”, va
dalla ripetizione abitudinaria
di formule, sulla scia dei
“mantra” orientali, alla
preghiera di invocazione
rivolta a santi, beati, entità
angeliche che possano dare
protezione o aiuto nelle varie
situazioni esistenziali.
Ma la preghiera è sicuramente
molto di più e nasconde in sé
un potenziale veramente
straordinario che si esprime in
maniera varia a seconda del
grado di consapevolezza
dell’orante.
A esempio la preghiera di lode
e di ringraziamento al Divino,
pur se spesso dimenticata,
realizza certamente
un’apertura cordiale
considerevole e, se effettuata
con sincera partecipazione, è
di per sé in grado di porre
l’individuo in una condizione
di armonia ed equilibrio. Non
a caso le Sacre Scritture
invitano spesso a “cantare
inni” e a “salmeggiare”,
soprattutto nelle situazioni di
difficoltà perché ciò aiuta a
ripristinare una serenità
d’animo tale da richiamare
soluzioni positive ai problemi.
Non solo: cantare, lodare sono
azioni profonde che educano la
volontà a superare quel
“vittimismo” di cui è tanto
intrisa l’educazione religiosa
di massa e che costituisce uno
degli ostacoli maggiori all’
evoluzione spirituale del
soggetto. Alla luce di recenti
acquisizioni di fisica
quantistica e di autorevoli
studi di biologia cellulare (
Bruce Lipton – Facoltà di
Medicina del Wisconsin –
“Biologia delle credenze”-
Scienza e Conoscenza 2006 –
Macro ed.), dai quali emerge
che credenze e pensiero
influenzano direttamente il
funzionamento stesso delle
cellule, possiamo dire che la
preghiera può essere
sicuramente uno strumento
straordinario attraverso il
quale l’individuo partecipa
direttamente all’azione
creativa del Divino. Quanto ai
“modi” di pregare, esiste una
notevole varietà caratterizzata
da differenze più o meno
rilevanti a seconda delle
tradizioni religiose da cui
derivano: si prega recitando
(rosario), si prega col corpo e
col respiro (yoga), si prega
cantando…. Forme di
preghiera sicuramente molto
efficaci e con un potenziale
trasmutativo notevole, sono
però le “Affermazioni di
consapevolezza” e la
“Meditazione-Comunione”.
Nel primo caso (affermazioni),
il soggetto non si limita a
invocare, ma diventa parte
attiva e, con il concorso
unanime di volontà e intelletto,
dichiara, senza lasciar spazio a
dubbi, delle “verità di fede” di
cui ha piena consapevolezza.
Nella Meditazione-
Comunione, invece, dopo aver
lasciato fluire ogni pensiero
superfluo e disturbante nella
calma osservazione di sé,
eleva il suo intelletto verso la
percezione della profonda e
contemporanea Unione sia
col proprio “ Dio interiore” sia
con lo Spirito Divino che
anima amorevolmente ogni
cosa. Riuscire anche per pochi
minuti al giorno a mantenere
questo stato meditativo,
costituisce una incomparabile
fonte di benessere fisico e di
vitalità spirituale: ovviamente
questa pratica richiede
costanza ed esercizio. A
questo stato di meditazione-
comunione tende pure tutto il
Rito della Messa Cristiana che,
quando non è inquinato da
eccessivi e inopportuni
interventi personali dei
ministri di culto, i quali non di
rado risvegliano timori e
colpe, è di per sé strutturato in
maniera tale da liberare
progressivamente l’individuo
da tensioni e conflitti per farlo
giungere, attraverso il mistero
dell’Eucarestia, alla
pacificazione interiore e a uno
stato di Grazia arricchito dalla
forza di una intera Comunità
che prega. Ovviamente anche
qui gli effetti “terapeutici” del
culto non sono uguali per tutti,
né tanto meno scontati, ma
vanno posti in relazione col
grado di partecipazione di
ciascun soggetto.
Dr.ssa Anna Rita D’Alba
Più volte abbiamo parlato, in
queste pagine, dei sistemi
contemperativi del diritto.
Approfondiamo in questa
circostanza l’argomento
entrando maggiormente nel
dettaglio.
Il diritto canonico è un diritto
particolare: esso mira alla
salus animarum. La Chiesa,
data la particolarità di tale
struttura normativa, tende a
non considerare mai il sistema
del suo diritto come un sistema
chiuso di norme senza
eccezioni. La legge è infatti
uno strumento imperfetto! Il
diritto positivo è “umano” e
spesso necessita di essere
completato e corretto.
Possiamo affermare che la
Chiesa nella sua azione pratica
di esercizio del diritto non ha
ricevuto il carisma
dell’infallibilità.
Lo scopo di una legge è di fare
giustizia, cioè dare a ciascuno
ciò che gli è dovuto. Ma le
leggi regolano fattispecie
astratte, universali ed
impersonali; la vita, invece,
presenta casi concreti,
particolari e personali. Proprio
per questo a volte per fare
giustizia è necessaria
un’eccezione alla
legge:
è necessario “un
accomodamento” per ottenere
giustizia.
L’epieikeia è un contributo di
Aristotele alla concezione
filosofica del mondo giuridico
greco, è l’adattazione della
legge al fine di ottenere
giustizia. Non è una
concessione né un’eccezione
all’idea di giustizia, bensì
un’eccezione alla legge.
Nessun insieme giuridico
potrebbe esistere senza leggi e
senza epieikeia, questi due
aspetti si completano
vicendevolmente e così
facendo rendono giustizia.
Gli stessi romani antichi,
maestri in organizzazione, pur
avendo creato un diritto molto
solido, a partire dal 450 A.C.,
adottarono l’equità per
correggere la legge attraverso
principi filosofici e teologici
quando non si poteva ottenere
giustizia da un tribunale
ordinario.
Il diritto romano era
applicabile solo ai cittadini
romani; per gli stranieri che
non avevano cittadinanza
romana era previsto un
particolare pretore che “dava
giustizia” sulla base del diritto
naturale, “giustizia naturale”.
Il praetor peregrinus era
appunto un magistrato con
discrezione libera. Lo sviluppo
del diritto portò alla cosiddetta
cognitio extra ordinem e così
anche per i cittadini romani fu
possibile ottenere giustizia
secondo il diritto naturale. Si
iniziò poi ad adoperare le
forme di giudizio del praretor
peregrinus.
Diritto romano antico + Giustizia naturale
(equità)
davano vita a
Giustizia secondo legge (formale)
+
Giustizia secondo equità (informale)
Sintesi
Il rigore del diritto tradizionale
fu così completato e corretto
dalla giustizia naturale o
equità.
Più tardi, XII sec., un iter
simile si è verificato in
Inghilterra, dove un sistema
giuridico rigido con una
perfetta applicazione della
legge creava spesso
un’ingiustizia altrettanto
perfetta. Grazie ad una regola
medievale del Decretum
Gratiani (1140) se non era
possibile ottenere giustizia dai
tribunali civili si aveva
l’opportunità di andare dal
vescovo proponendo di nuovo
il caso. Dato che in Inghilterra
era controproducente adire il
tribunale del vescovo andando
di fatto contro i tribunali del
re, fu trovato un compromesso
con la figura del Cancelliere
del re: un ecclesiastico
preposto a dispensare giustizia.
L’ufficio del Cancelliere
divenne un vero e proprio
tribunale che venne chiamato
Tribunale di coscienza. Così si
ebbero due tribunali:
Tribunali del re (leggi antiche e rigide) -
Tribunale del cancelliere (teologia morale)
Legge + Equità
Nella Chiesa ortodossa, con il
termine economia si intende
un sistema di origine cristiana
di natura teologica ma non
giuridica. Ufficialmente non
esiste nella Chiesa latina.
Anche nelle comunità cristiane
potevano sorgere problemi
nell’amministrare la giustizia.
Quando c’era un caso difficile
a risolversi giuridicamente si
ricorreva al vescovo.
Elemento distintivo:
nell’economia c’è una persona
che può dare la soluzione,
mentre nell’epieikeia e
nell’equità ci sono idee.
Il vescovo o un sinodo di
vescovi possono correggere
una situazione che arreca
danno alla comunità; questo
potere viene da Cristo, non
dalla legge. Il vescovo, in un
certo senso, prende il posto di
Cristo e può disporre ciò che la
legge non può.
È bene chiarire che non c’è
leggerezza nella
amministrazione
dell’economia. Ci sono delle
regole. L’economia non può
mai agire contro le verità delle
fede; un caso non costituisce
mai un precedente giuridico.
Quindi tutti i casi sono
individuali ed unici e non
servono mai da esempio per
altri casi. Non c’è continuità
giuridica.
L’economia deve rispettare la
dottrina e deve essere
equilibrata dell’akribeia
(severità), cioè ci deve essere
flessibilità equilibrata dalla
fermezza.
La Chiesa latina non adotta
questo criterio perché la sua
tradizione giuridica predilige
le definizioni perfette al fine
della certezza del diritto. Nella
Chiesa ortodossa l’economia
non è mai diventata
un’istituzione giuridica, ma ha
conservato un’importante
valore in quanto la Chiesa
orientale ha dato sempre molta
importanza agli elementi
carismatici.
Rev.mo Paolo Leomanni
Oltre 2500 delegati
rappresentanti la maggioranza
delle Chiese europee si sono
riuniti a Sibiu, in Romania, dal
5 al 9 settembre,dando vita
alla Terza Assemblea
Ecumenica europea “La Luce
di Cristo illumina tutti”. I
rappresentanti italiani hanno
formulato nove proposte per
rendere attuabili le linee guida
della Charta Oecumenica, tra
queste: “l’organizzazione di
incontri a livello nazionale sui
temi che sono ostacoli ad una
unità visibile, l’introduzione
nei riti di ogni Chiesa di
preghiere ecumeniche, la
promozione di incontri
giovanili, la creazione di una
rete ecumenica europea per la
pace e di una rete per la tutela
dell’ambiente”.
L’incontro Ecumenico di Sibiu
era stato preceduto da tutta una
serie di incontri preparatori;
Firenze, 29-30 gennaio 2005,
“Cristiani Ebrei Musulmani:
Giovani a confronto. “Ecco
come declinare la pace”con
400 giovani provenienti dalle
diverse comunità italiane che
hanno dialogato, pregato
festeggiato; Firenze, autunno
2008 incontro sulla giustizia;
Milano, 14-15 aprile 2007,
incontro nazionale di dialogo e
conoscenza, Il tema
“Rischiarare le tenebre, La
luce di Cristo e la giustizia del
Regno”, ha visto impegnati il
Servizio per l’Ecumenismo e il
Dialogo dell’Arcidiocesi di
Milano, della Pastorale
Giovanile della stessa
Arcidiocesi, e del Consiglio
delle Chiese Cristiane di
Milano.
Il lungo cammino verso
l’ecumenismo, sarebbe meglio
usare il termine
pancristianesimo, parte dal
1912, quando il ministro e
teologo veterocattolico Ugo
Janni, pubblica su “La
Cultura contemporanea”,
novembre 1912, 193-217, la
sua “solenne confessione di
fede pancristiana, non soltanto
sentimentale ma fondata su
una concreta concezione
dottrinale”.
Milaneschi nel suo studio su
Ugo Janni afferma che: “Lo
Janni non si allontanò mai
dalle sue affermazioni
contenute in questo scritto, le
quali sono la matrice delle sue
trattazioni più ampie del
pancristianesimo pubblicate
negli ultimi anni”. (p.138)
Lo stesso Milaneschi precisa
in modo vigoroso che la
formazione teologica vetero-
cattolica permetteva allo Janni
di avere un’ampia apertura
mentale e culturale che
metteva in difficoltà i pastori e
i teologi valdesi. (Janni passò
al valdismo nel 1901 poiché
riteneva che il vecchio-
cattolicesimo aveva perso
quello “spirito riformatore”
che l’aveva fatto nascere).
Anche dalla confessione
valdese, Janni portò avanti con
grande vigore e
determinazione la sua battaglia
per mettere intorno a un tavolo
tutte le confessioni cristiane.
Il principio, l’assunto, il
“dogma” dal quale parte lo
Janni è molto semplice: La
Chiesa è Una, Santa,
Apostolica, Cattolica. “…costituita nell’unità fin dal
suo sorgere come corpo di un
medesimo Signore, animata
dal suo stesso Spirito.”
(p.199)
L’unità della chiesa si ha
<<nella professione della
stessa Fede in Cristo>> I Tim,
3,15), quindi, nell’unità del
Credo, unità del Battesimo e
dell’Eucarestia secondo I Cor.
10,17 e nell’unità del
Ministero quale è stato istituito
per la edificazione della chiesa
affinché cresca sempre più
verso il suo Signore (Ef, 4,12-
15; I Cor.14,4 ss, 12-26); e
nell’unita dell’Amore, <<che è
la legge del Regno di Dio
(Giov. 13,35)>>. (p.201)
Instancabile, Janni prese
contatto con le diverse realtà
cristiane partecipando ai sinodi
delle varie Chiese vecchio-
cattoliche: Madrid 1892; 1897
con Enrico di Campello
partecipò alla conferenza
organizzata dai vescovi
anglicani dove tenne una
conferenza che gli guadagnò le
simpatie degli stessi vescovi.
Man mano che le sue idee
venivano accettate, cresceva il
consenso intorno alla sua
persona e il 28 giugno 1927
gli fu conferita la laurea
honoris causa in teologia
dalla università di Saint
Andrews in Scozia.
L’idea pancristiana si diffuse
rapidamente nel mondo
Vecchio-cattolico, nella
Chiesa Riformata, e in diversi
esponenti della Chiesa di
Roma.
In breve, nella Conferenza di
Lamberth del 1920, l’ala filo-
cattolica e quella filo-
evangelica trovano un accordo,
la <<sintesi anglicana>> che
genera una enciclica nella
quale si afferma l’esigenza di
una unità ecclesiale.
L’appello alla unità venne
raccolta dall’arcivescovo di
Malines che organizzò una
conferenza in quella città. Il
fermento pancristiano
sviluppatosi in Europa portò
alla prima grande conferenza
di Stoccolma tenutasi dal 19 al
29 agosto del 1925.
Lo Janni chiamò tale
Conferenza “Concilio
Ecumenico”.
“Nel mattino del 19 Agosto
1925 una solenne processione
faceva il suo ingresso in
Storkyrkan, la Cattedrale di
Stoccolma capitale della
Svezia…si avanzavano circa
600 rappresentanti di 103
chiese Cristiane appartenenti
a 37 nazione diverse, cantando
ognuno nella propria lingua;
si avanzavano – turba
promiscua, profetica, simbolo
e annunzio di una nuova epoca
del Cristianesimo…” segue
l’elenco delle varie chiese.
Questo è l’incipit del lungo
articolo di Ugo Janni
pubblicato nel 1928 su “Il
Movimento Pancristiano” una
pubblicazione della rivista
Fede e Vita diretta dallo
stesso Janni. Questo numero è
stato da noi trovato nella
biblioteca valdese di Torre
Pellice e ne riproduciamo la
copertina in testa all’articolo.
Dopo il successo di Stoccolma
vi fu quella di Losanna , dal 4
al 27 agosto 1927, lo Janni
trovò in Nathan Soderblom,
arcivescovo luterano di
Uppsala un alleato e amico. Fu
proprio Soderblom a usare il
termine pancristiano per
indicare il movimento
ecumenico. Come al solito, in
tutti questi avvenimenti, il
Papa, nonostante
apprezzamenti e
incoraggiamenti privati,
ufficialmente non partecipò
alle conferenze, anzi tenne a
precisare che”l’insegnamento
e la prassi della chiesa
romana…non consentono di
prender parte ad un congresso
come quello progettato… ma
pregava e sperava che tutti i
partecipanti si unissero al
capo” visibile della Chiesa”
che li avrebbe accolti “a
braccia aperte”. P. 145
Ancora una volta, il Papa
affermava che l’unica vera
Chiesa era quella di Roma..
In seguito vi furono altri
incontri e Conferenze, e, ogni
Conferenza era un passo verso
l’accettazione dell’idea
pancristiana. Del resto
l’incontro di Firenze del 2005
ed altre esperienze analoghe
ricordano moltissimo la “Lega
di preghiera” promossa da
Janni e Casciola, concepita
come movimento
interconfessionale e a cui
aderirono fin dal 1914
rappresentanti delle chiese
valdesi, cattolica romana,
ortodossa russa, anglicana,
metodista e luterana.
Con l’incontro di Sibiu un
altro importante passo è stato
fatto, ma resta ancora la
polemica che il documento
della Congregazione per la
Dottrina della Fede ha
suscitato, ribadendo che solo
nella chiesa cattolica romana si
realizza pienamente la Chiesa
voluta da Gesù.
Nonostante le polemiche, si
continua a lavorare nella vigna
del Signore.
Dr.Mario Matera
prosieguo. Vedi “Il Dialogo”
Giugno 2007
Continuando la lettura della
biografia di Aldo Capitini
scritta da Giacomo Zanga
(Bresci editore Torino 1988),
trovo notizie sui COS (Centri
di Orientamento Sociale), che
nacquero a Perugia, alla caduta
del fascismo. I COS erano
adunanze aperte a tutti,
professionisti, operai,
contadini, educatori, madri di
famiglia, che si tenevano due
volte la settimana, sui temi più
svariati.
La donnicciola poteva
chiedere al sindaco o al
questore (invitati a partecipare,
e di fatto partecipanti,
all’assemblea), notizie e dati
intorno a questo o quel
provvedimento, oppure
chiedere all’illustre romanziere
presente, informazioni intorno
ai perché e ai modi della sua
fantasia. Anche Danilo Dolci,
il celebre sociologo e poeta
triestino, teneva in Sicilia, in
quel periodo, delle analoghe
riunioni con la gente del
popolo, benché lì mancasse la
presenza dei pubblici
funzionari. Di questa singolare
esperienza Danilo Dolci narrò
in un libro “Conversazioni
contadine”, che è tutto da
leggere.
I COS si diffusero poi in
molte città dell’Umbria e
dell’Abruzzo, fino a Napoli.
Capitini voleva che si
istituissero non solo in ogni
comune, ma anche in ogni
borgata, per quante sono le
parrocchie, diceva lui. Si
sarebbe avuta così la base per
una democrazia per tutti, di
una autoeducazione collettiva
e concreta, di un disvelamento
dei privilegi e degli abusi.
Questo Aldo andava
divulgando nel suo periodico
“Il potere è di tutti”. E
aggiungeva che si stava
diffondendo un regime
pseudo-democratico, per la
grande e crescente difficoltà di
educare le moltitudini.
Bisognava portare tutti gli
sforzi per creare una
democrazia nuova.
Ma ci fu chi boicottò i COS e
li fece crollare uno a uno. Il
primo colpo fu inferto a essi
dalle cosiddette “autorità”, le
quali mal tolleravano di
doversi trovare a discutere
accanto, anzi in mezzo, ai
cittadini. Poi ci fu l’azione dei
partiti, cominciando dai più
grossi, DC e PCI, che
ovviamente scorgevano in quel
decentramento, in
quell’autentica integrale
democrazia, un pericolo per i
loro vantaggi e la loro stessa
sussistenza.
Lo scrittore amico di
Capitini, Ignazio Silone, si
chiedeva in quegli stessi anni,
se la società civile sarebbe
riuscita a recuperare le
funzioni allora usurpate dallo
Stato burocratico e
centralizzato. Si trattava di
sostituire le relazioni
autoritarie, costrittive e
passive, con relazioni umane
autentiche e responsabili.
Capitini accusato di astrattezza
era nel giusto e anche nel
concreto. I Centri di
Orientamento Sociale restano,
nella storia italiana, come un
modello da ammirare, e, un
giorno forse non lontano, da
recuperare.
Ecco alcuni dei principi di
questi Centri:
L’esame dei problemi
compiuto pubblicamente e
con l’intervento di tutti.
Il ripudio della violenza e
dell’intolleranza nell’ambito
della riunione, dove la sola
forza sta nella razionalità,
competenza, persuasività del
proprio discorso.
Il controllo sui funzionari
inetti o disonesti mediante
ricorsi alle autorità superiori.
Il contributo alla stampa
cittadina di un ricco materiale
elaborato collettivamente, con
il risultato di interessare i
cittadini più vivacemente alla
cronaca e ai problemi del loro
luogo.
Il vivo contatto tra gli
intellettuali e il popolo, cioè
tra la cultura e la concretezza
popolare.
Il superamento del tipo
“conferenza” e del tipo
“comizio”, chiassoso, vuoto,
diseducatore. Nella riunione si
discute circolarmente, senza
sottolineatura enfatica e senza
grossolane polemiche.
Questo è il contributo di
Capitini a un Paese che
tardava (e tarda) a scrollarsi di
dosso secoli di soggezione
politica e sociale.
Dei Centri di Orientamento
Religioso (I COR), tratteremo
la prossima volta.
Dr.ssa Liliana Gadaleta
Minervini
Riflessioni, emozioni,
storie di vita vissuta e…
quant’altro
Lettura ad alta voce
Vorrei suggerire la lettura di
tre brani tratti dal “Siracide”,
di cui non propongo alcuna
introduzione, perché si
presentano da soli per la loro
vividezza e capacità di parlare
direttamente al cuore di chi li
approccia.
Dovrebbe essere una lettura
individuale, ad “alta voce”,
per riflettere insieme, per
ascoltarsi, per confrontarsi e
per poterne fare un punto di
riferimento nelle nostre
quotidiane difficoltà.
Godiamocela come un’ipotesi,
una possibilità in più per
vivere “sanamente”.
Fermezza e dominio di sé
Non ventilare il grano a
qualsiasi vento
E non camminare su qualsiasi
sentiero.
Sii costante nel tuo
sentimento,
e unica sia la tua parola.
Sii pronto nell’ascoltare,
lento nel proferire una
risposta.
Se conosci una cosa, rispondi
al tuo prossimo;
altrimenti mettiti la mano sulla
bocca.
Nel parlare ci può essere onore
o disonore;
la lingua dell’uomo è la sua
rovina.
Non meritare il titolo di
calunniatore
E non tendere insidie con la
lingua,
poiché la vergogna è per il
ladro
e una condanna severa per
l’uomo falso.
Non far male né molto né
poco,
e da amico non divenire
nemico,
perché un cattivo nome si
attira vergogna e disprezzo;
così accade al peccatore, falso
nelle sue parole.
Non ti abbandonare alla tua
passione ,
perchè non ti strazi come un
toro furioso;
divorerà le tue foglie e tu
perderai i tuoi frutti,
sì da renderti come un legno
secco.
Una passione malvagia rovina
chi la possiede
e lo fa oggetto di scherno per i
nemici.
(Bibbia di Gerusalemme:Sir 5,
9/15; 6, 1/4)
La scuola della sapienza
Figlio, sin dalla giovinezza
medita la disciplina,
conseguirai la sapienza fino
alla canizie.
Accostati ad essa come chi ara
e chi semina
E attendi i suoi ottimi frutti;
poiché faticherai un po’ per
coltivarla ,
ma presto mangerai dei suoi
prodotti.
Essa è davvero aspra per gli
stolti,
l’uomo senza coraggio non ci
resiste;
per lui peserà come una pietra
di prova,
non tarderà a gettarla via.
La sapienza infatti è come dice
il suo nome,
ma non a molti essa è chiara.
Ascolta , figlio, e accetta il
mio parere;
non rigettare il mio consiglio.
Introduci i tuoi piedi nei suoi
ceppi,
il collo nella sua catena.
Piega la tua spalla e portala,
non disdegnare i suoi legami.
Avvicinati ad essa con tutta
l’anima
E con tutta la tua forza resta
nelle sue vie.
Seguine le orme e cercala, ti si
manifesterà;
e una volta raggiunta, non
lasciarla.
Alla fine troverai in lei il
riposo,
ed essa ti si cambierà in gioia.
I suoi ceppi saranno per te una
protezione potente,
le sue catene una veste di
gloria.
Un ornamento d’oro ha su di
sé,
i suoi legami sono fili di
porpora violetta.
Te ne rivestirai come di una
veste di gloria,
te ne cingerai come di una
corona magnifica.
Se lo vuoi, figlio, diventerai
saggio;
applicandoti totalmente,
diventerai abile.
Se ti è caro ascoltare,
imparerai;
se porgerai l’orecchio, sarai
saggio.
Frequenta le riunioni degli
anziani;
qualcuno è saggio? Unisciti a
lui.
Ascolta volentieri ogni parola
divina
E le massime sagge non ti
sfuggano.
Se vedi una persona saggia, va
presto da lei;
il tuo piede logori i gradini
della sua porta.
Rifletti sui precetti del
Signore,
medita sempre sui suoi
comandamenti;
egli renderà saldo il tuo cuore,
e il tuo desiderio di sapienza
sarà soddisfatto.
(Bibbia di Gerusalemme: Sir 6,
18/37)
L’umiltà
Figlio, nella tua attività sii
modesto,
sarai amato dall’uomo gradito
a Dio.
Quanto più sei grande, tanto
più umiliati;
così troverai grazia davanti al
Signore;
perché grande è la potenza del
Signore
e dagli umili egli è glorificato.
Non cercare le cose troppo
difficili per te,
non indagare le cose per te
troppo grandi.
Bada a quello che ti è stato
comandato,
poiché tu non devi occuparti
delle cose misteriose.
Non sforzarti in ciò che
trascende le tue capacità,
poiché ti è stato mostrato più
di quanto comprende una
intelligenza umana.
Molti ha fatto smarrire la loro
presunzione ,
una misera illusione ha
fuorviato i loro pensieri.
(Bibbia di Gerusalemme : Sir 3,
17/24)
Rosaria Stufano
Ro
… E dare l’ultimo respiro, che
cos’è se non liberarlo dal suo
flusso inquieto, affinché possa
involarsi finalmente e spaziare
disancorato alla ricerca di
Dio?...
(“Il Profeta” di Gibran)
Nella certezza che l’anima del
proprio caro viva già nella luce
divina, ci uniamo per porgere
le nostre più sentite
condoglianze a uno dei nostri
membri, Dr.ssa Zuccalà
Liliana, per la triste perdita del
padre.
“…Amerai il prossimo tuo
come te stesso”(Mt 22,39).
Teniamo presente questo
secondo comandamento di
Cristo per vivere e assaporare
appieno il significato del
Natale.
Buon Natale e Felice Anno
Nuovo a voi tutti, fratelli
carissimi.
IL DIALOGO Direttore Resp. Dr.ssa Cristina Caroppo
Direttore Stampa Dr. Renato Leomanni
Reg. 233 Trib. RE
Fotocopiato in proprio
Redaz. Missione Cristcattolica
Direz. e Amm. Via Matteotti, 27 42019
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