ipocrisia, ingordigia, propria personalità tratti violenza ... · altri, provoca una deviazione...

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Superbia, ira, gola, invidia, avarizia, lussuria, accidia, sono comunemente conosciuti come i sette vizi capitali e duramente considerati dalla morale cattolica peccati. Essi in realtà esprimono temperamenti tipici di personalità psichicamente in conflitto, sottendono un’infinità di elementi negativi che disturbano l’esistenza dell’uomo e minacciano il suo equilibrio emotivo, compromettendo la sua integrazione nella società: egoismo, incomunicabilità, insicurezza, aridità affettiva, gelosia, orgoglio, vanità, ipocrisia, ingordigia, violenza, pigrizia, abulia, carenza e rifiuto d’amore… Tali elementi possono essere motivo di frustrazioni, di inibizioni, possono compromettere la serenità di una persona, inducendola, per reazione, a modalità di comportamento più o meno anomali che, dal punto di vista della morale, predispongono al peccato, quando già non lo determinano. Considerando, infatti, che ogni Essere Umano è dotato di un “Morale Somatospirituale”, non si può escludere che tali disturbi siano di ostacolo a una sana vita morale e spirituale. Tuttavia esprimendo giudizi di valore o condannando non si aiuta certamente una persona a risolvere e a guarire dai suoi problemi, ma è necessario, attraverso un’adeguata psicoscopia, aiutarla a scoprire le tendenze “subconscie” che hanno dato luogo a errori vitali e a conflitti psichici’, e guidarla a prenderne coscienza. Poiché spesso il “vizioso” assume atteggiamenti apparentemente e scrupolosamente morali, ma che sono solo decisamente e paradossalmente pseudomorali, è indispensabile anche che riceva una scrupolosa direzione spirituale che lo liberi dai sensi di colpa e contribuisca a fargli ritrovare l’equilibrio interiore: ”Chi vuole veramente guarire l’uomo, deve vederlo nella sua interezza e deve sapere che la sua definitiva guarigione può essere solo l’amore di Dio” (Benedetto XVI in Gesù di Nazaret). E ’bene precisare tuttavia che ogni individuo presenta nella propria personalità tratti diversi e persino contrastanti, tra loro in equilibrio più o meno costante; quando un elemento qualsiasi dell’umana caratterologia predomina sugli altri, provoca una deviazione significativa dalla media e determina un quadro particolare e caratteristico di comportamento. Tutti abbiamo qualche spunto di gelosia, di avarizia, di fanatismo, eccetera, ma solo alcuni presentano una patologica esasperazione di questi stessi attributi, di per sé normali. I temperamenti viziosi si determinano, infatti, solo quando gli elementi che li caratterizzano superano certi limiti e scantonano nell’esagerazione. A questo punto ritengo necessario evidenziare quali personalità conflittuali tali temperamenti sottendono: - il superbo, ambizioso, presuntuoso, vanaglorioso, ipocrita, nasconde una personalità debole e vile - l’iroso e il goloso denotano una personalità infantile, insicura e angosciata dalla paura di non essere abbastanza amata - l’invidioso, è una personalità tormentata da una continua insoddisfazione, causata da un complesso d’inferiorità e di insicurezza, - l’avaro, il lussurioso e l’accidioso, eccezionalmente egoisti, insensibili, poco disponibili al dialogo e alla confidenza, sfiduciosi nel prossimo, sono spesso personalità condannate alla

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Superbia, ira, gola, invidia,

avarizia, lussuria, accidia,

sono comunemente conosciuti

come i sette vizi capitali e

duramente considerati dalla

morale cattolica peccati.

Essi in realtà esprimono

temperamenti tipici di

personalità psichicamente in

conflitto, sottendono

un’infinità di elementi negativi

che disturbano l’esistenza

dell’uomo e minacciano il suo

equilibrio emotivo,

compromettendo la sua

integrazione nella società:

egoismo, incomunicabilità,

insicurezza, aridità affettiva,

gelosia, orgoglio, vanità,

ipocrisia, ingordigia,

violenza, pigrizia, abulia,

carenza e rifiuto d’amore… Tali elementi possono essere

motivo di frustrazioni, di

inibizioni, possono

compromettere la serenità di

una persona, inducendola, per

reazione, a modalità di

comportamento più o meno

anomali che, dal punto di vista

della morale, predispongono al

peccato, quando già non lo

determinano. Considerando,

infatti, che ogni Essere

Umano è dotato di un “Morale

Somatospirituale”, non si

può escludere che tali disturbi

siano di ostacolo a una sana

vita morale e spirituale.

Tuttavia esprimendo giudizi di

valore o condannando non si

aiuta certamente una persona a

risolvere e a guarire dai suoi

problemi, ma è necessario,

attraverso un’adeguata

psicoscopia, aiutarla a

scoprire le tendenze

“subconscie” che hanno dato

luogo a errori vitali e a

conflitti psichici’, e guidarla a

prenderne coscienza. Poiché

spesso il “vizioso” assume

atteggiamenti apparentemente

e scrupolosamente morali, ma

che sono solo decisamente e

paradossalmente

pseudomorali, è indispensabile

anche che riceva una

scrupolosa direzione spirituale

che lo liberi dai sensi di colpa

e contribuisca a fargli ritrovare

l’equilibrio interiore: ”Chi

vuole veramente guarire

l’uomo, deve vederlo nella sua

interezza e deve sapere che la

sua definitiva guarigione può

essere solo l’amore di Dio”

(Benedetto XVI in Gesù di

Nazaret).

E ’bene precisare tuttavia che

ogni individuo presenta nella

propria personalità tratti

diversi e persino contrastanti,

tra loro in equilibrio più o

meno costante; quando un

elemento qualsiasi dell’umana

caratterologia predomina sugli

altri, provoca una deviazione

significativa dalla media e

determina un quadro

particolare e caratteristico di

comportamento. Tutti abbiamo

qualche spunto di gelosia, di

avarizia, di fanatismo,

eccetera, ma solo alcuni

presentano una patologica

esasperazione di questi stessi

attributi, di per sé normali. I

temperamenti viziosi si

determinano, infatti, solo

quando gli elementi che li

caratterizzano superano certi

limiti e scantonano

nell’esagerazione.

A questo punto ritengo

necessario evidenziare quali

personalità conflittuali tali

temperamenti sottendono:

- il superbo, ambizioso,

presuntuoso, vanaglorioso,

ipocrita, nasconde una

personalità debole e vile

- l’iroso e il goloso denotano

una personalità infantile, insicura e angosciata dalla

paura di non essere abbastanza

amata

- l’invidioso, è una

personalità tormentata da una

continua insoddisfazione,

causata da un complesso

d’inferiorità e di insicurezza,

- l’avaro, il lussurioso e

l’accidioso, eccezionalmente

egoisti, insensibili, poco

disponibili al dialogo e alla

confidenza, sfiduciosi nel

prossimo, sono spesso

personalità condannate alla

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più penosa e angosciosa

solitudine interiore. I viziosi tendono la mano solo

per ferire, colpire, umiliare il

prossimo, ma anche se stessi.

Sono figure sfumate che

passano inutilmente nella vita,

perché ignorano l’amore delle

creature e perché non vogliono

ammettere che soltanto

l’AMORE “introduce nella

vita”.

Evitiamo perciò di diventare

anche noi dei viziosi

abbracciando l’insegnamento

di San Agostino “La misura

dell’Amore è di amare senza

misura”. Chi rifiuta questa

verità non potrà mai sorridere

di gioia, né piangere di dolore .

Dr.ssa MariaAntonietta Caroppo

Negli Atti degli Apostoli,

capitolo 4, si racconta come

Pietro e Giovanni siano stati

arrestati perché annunciavano

il Vangelo e compivano

guarigioni nel nome del

Signore. Dopo un processo

sommario vengono scarcerati,

pur sotto la minaccia di gravi

punizioni se avessero

continuato la loro opera di

annuncio.

Per nulla intimoriti, i due

apostoli pregano e riprendono

l’annuncio:

”… 30 Stendi la mano perché si

compiano guarigioni, miracoli

e prodigi nel nome del tuo

santo servo Gesù”.

31Quand’ebbero terminato la

preghiera, il luogo in cui

erano radunati tremò e tutti

furono pieni di Spirito Santo e

annunziavano la parola di Dio

con franchezza” (Atti 4, 30-

31)

Nel testo originale greco ciò

che in italiano è stato tradotto

“con franchezza” è detto

Parresìa. Parresìa è una parola greca e,

come accade per la maggior

parte dei termini del greco

antico, non è facile rendere in

italiano la complessità del

significato.

In un certo senso si potrebbe

tradurre con "dirla tutta,

parlare senza peli sulla

lingua", ma resta comunque

una definizione limitativa. E'

parresia il lasciar scorrere

fuori esattamente ciò che si ha

dentro, senza calcoli di

convenienza o di interesse

personale; è parresia il dire la

verità, non mentire, non

adattare le proprie opinioni

all'occorrenza, ma esprimerle

con forza e dignità, senza

alcun timore.

Vediamo ora di iniziare, in tre

punti di riflessione, un piccolo

cammino di approfondimento,

teorico e pratico, di questa

ricchissima parola greca.

Primo punto di riflessione. La

radice della parola parresia si

è persa nei secoli, e questo è

un segnale evidente della

direzione intrapresa dalla

cultura occidentale. Così,

mentre è andata smarrita la

parresia, ovvero il parlare

schietto, anche in presenza di

potenti e senza temere le

conseguenze, il suo contrario,

cioè la frenesia

(phronesis), ovvero la furbizia,

l'arrabattarsi in sistemi e

strategie per ingannare il

prossimo, ha mietuto secoli di

successi fino quasi ad

identificare l'essenza della

nostra società. Una società

frenetica, tribolante e ansiosa,

dove parresìa è un termine

sconosciuto ai più, così come

lo è la pratica della virtù

corrispondente.

Siamo pronti per tentarne un

recupero?

Che cosa ci può aiutare in

questo?

La vicinanza di fratelli nella

fede?

La consapevolezza di essere

amati da Dio così come siamo,

oggi?

La certezza che la morte non è

l’ultima parola nel destino del

creato?

Secondo punto di riflessione.

Ognuno di noi sa che oltre agli

interlocutori esterni, ciascuno

ha un interlocutore interno a

cui dire la verità. Qui la critica

divente “autocritica”, capacità

di dire la verità a sé stessi, di

scandagliare la propria ombra,

le cantine della propria anima,

in linea con il messaggio

dell’oracolo di Delfi: “Conosci

te stesso”. Non vanno forse

anche in questa linea le

tecniche di pastoralterapia di

cui la nostra chiesa è custode,

depositaria, portatrice?

Terzo punto di riflessione.

È possibile fissare delle regole

circa la “parresia”?

1- La parresìa, quando si

esprime nella forma della

critica e della contestazione, è

vera se fa trasparire l’amore

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nelle parole che si dicono. Non

è franchezza evangelica se c’è

malanimo, stizza, amarezza,

risentimento, mescolanza di

passionalità e di questioni

personali non risolte.

2- La parresìa deve invitare a

crescere, deve infondere

fiducia, incoraggiamento, mai

indurre a visioni pessimistiche

e distruttive! La parresia è

sempre da mettere in relazione

ad un valore più alto da

raggiungere; è un invito a

superare visuali da “orticello

privato”.

3- Ognuno di noi potrebbe

cominciare dal verificare dove

nascano le parole che si

dicono:

Ci può essere una parola

forte e chiara, ma che non

viene da Dio, bensì dalle

tensioni e da conflitti.

Così come ci può essere

una parola debole che non

nasce dalla comprensione,

ma dalla paura, dalla

timidezza, dalla

convenienza di non turbare

l’equilibrio esistente.

Infine, ci può essere una

fretta che non nasce

dall’ascolto o dalla lettura

sapiente della situazione,

ma da un interventismo o

da una focosità dannosa.

Infine c’è una parresìa che

nasce dalla consapevolezza

di essere inseriti in Dio, di

non essere soli, ma di

essere parte di una

comunità.

In conclusione:

C’è una icona bellissima negli

Atti degli Apostoli che dice

che cosa è la parresìa:

Pietro levatosi in piedi, con gli

altri Undici, parlò a voce alta:

(2,14).

- Levatosi in piedi indica la

fermezza

- Con gli altri Undici indica la

comunione ecclesiale.

- Parlò a voce alta esprime la

chiarezza.

Ognuno di noi può aspirare a

vivere così.

Coraggio, possiamo farcela!

Buon recupero, buona

parresìa!

Dr Paolo Iotti

“Egli allora chiamò a sé i

Dodici e diede loro il potere e

autorità su tutti i demoni e di

curare le malattie” (Lc 9,1).

Questo fu uno dei principali

mandati che Gesù diede ai suoi

discepoli. La missione affidata

ai dodici non si risolveva,

quindi, solo nel propagare la

parola di Dio, ma anche nel

curare in nome Suo.

Fin dai tempi più antichi, vi

era uno stretto legame tra

l’aspetto spirituale e quello

terapeutico e, solo in tempi

relativamente recenti,

quest’ultimo si è andato

evolvendo e specializzando in

modo autonomo dal primo.

Con il termine malattia si

intende indicare un qualsiasi

stato di alterazione

nell’equilibrio organico,

funzionale, psichico o

psicologico di un essere

vivente. Contro questo stato

patologico, odiernamente, si

cerca di intervenire utilizzando

soprattutto rimedi esterni, il

cui impiego è affidato a esperti

competenti in materia. In

questo quadro dei fatti ciò che

quotidianamente accade è che

quando una persona si ammala

si rivolge a un terapeuta, che,

sulla base di una diagnosi,

propone un determinato iter

curativo, in cui il malato stesso

è, il più delle volte, un

recettore passivo. La

responsabilità e la coscienza

del singolo sia nel proprio

processo patologico che in

quello guaritivo non sono, per

la maggior parte delle volte, né

sollecitate né rafforzate.

Abbandoniamo per il

momento questa riflessione e

cerchiamo di capire cosa

significhi la parola “malattia”

nell’ambito biblico e quali

implicazioni se ne possano

dedurre.

Nell’Antico Testamento, la

malattia viene vissuta come

immediata conseguenza

dell’ira divina per aver

commesso peccato e si

traduce, quindi, in una meritata

punizione per aver alterato il

giusto equilibrio con il

Signore. In questa direzione

Dio ammonisce palesemente,

basti pensare alle ripetute

volte, in cui ritorna la frase “il

Signore ti colpirà…” (Dt,

28,22.27.28.35) con cui Mosè

predice, tra le altre

maledizioni, malattie ed

epidemie che il Signore invierà

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in caso di disobbedienza da

parte del popolo.

Contro lo stato patologico non

resta che pregare per trovare

clemenza presso Dio e sperare

nella guarigione.

È soprattutto nei Salmi che

troviamo delineata la penosità

della sofferenza inferta, per la

quale si chiede la misericordia

e la pietà divina (Sal 6; 38; 39;

41; 88; 102). In altri punti,

invece, gli oranti esultano e

rendono grazie a Dio per

l’avvenuta guarigione (Sal 30,

3.12.13 – Is 38, 17.18 – Sal

116). Si può, quindi, ben

intuire che quest’ultima è

interpretata unicamente come

una pura concessione della

volontà divina. Spesso

nell’attuazione della

guarigione, Dio si serve di una

persona consacrata che

somministra un medicamento.

Ricordiamo a questo proposito

che nel libro di Tobia è

menzionato l’episodio, in cui

la persona consacrata, che

guarisce attraverso un rimedio

esterno, è un angelo di Dio,

Raphael, nel cui significato

letterale del nome è già

racchiuso il messaggio

principale “Dio guarisce”.

Nel contesto descritto appare

ovvia la condizione di estrema

passività del sofferente, il

quale, per di più, è condannato

a un’estrema solitudine.

Proprio perché la malattia

viene concepita come castigo

divino, i credenti non si

accostano al malato al fine di

offrirgli assistenza e cura,

perché invasi da un sano

terrore religioso verso l’ira di

Dio: “Amici e compagni si

scostano dalle mie piaghe, i

miei vicini stanno a distanza”

(Sal 38,12), “I miei fratelli si

sono allontanati da me, persino

gli amici mi si sono fatti

stranieri” (Gb 19,13).

Nell’Antico Testamento viene,

quindi, posto l’accento

soprattutto sulla guarigione del

sofferente, mentre scarsa o

nulla importanza viene

conferita alla sua “cura”,

intesa come atto assistenziale

caritatevole. Come tante altre,

ancora una volta, Gesù

infrange la regola e ci insegna

che l’unione, l’equilibrio con

Dio si rafforza proprio

attraverso atti misericordiosi

verso il prossimo, specie verso

i malati.

In tutti e tre i Vangeli

sinottici, i primi segni

miracolosi di Gesù riguardano

proprio la guarigione di malati.

Non è , poi, un caso che in

quello di Matteo, il primo

miracolo da Lui compiuto, sia

la “purificazione” di un

lebbroso, avvenuta toccando il

sofferente con la Sua mano:

non solo non evita il malato,

ma si espone fisicamente al

rischio del contagio.

Già a partire da questa

situazione descritta, come in

altre ancora, si possono

distinguere i due aspetti

principali dell’operato

terapeutico del Messia: a

quello della guarigione viene

affiancato l’elemento non

meno importante della cura.

Ciò che induce Gesù a guarire

è il prendersi cura del malato

o, come meglio ci viene

sottolineato, Egli fu “mosso a

compassione” (Mc 1,42; Mt

14,14).

Nei Vangeli è proprio su

questo secondo aspetto che

viene soffermata l’attenzione;

infatti il termine “therapeuein”

(curare, servire) viene

utilizzato preferenzialmente

rispetto a “iasthai” (guarire). È

facile intuire che l’intento

degli evangelisti è proprio

quello di evidenziare l’attività

terapeutica del Cristo, intesa

come “servire”, “prendersi

cura” del malato, un’attività

talmente efficace da portare

alla guarigione.

L’aspetto miracoloso delle

guarigioni lo si gusta

soprattutto quando si assiste al

fatto che Gesù sana con una

parola, ma Egli stesso non si

accontenta di questo, infatti

tocca il malato, lo tiene per

mano, gli impone le mani.

È in questo Suo approccio che

viene stimolata la

responsabilità del sofferente

nel proprio percorso guaritivo:

il malato è reso co-partecipe

del processo curativo. Se

riflettiamo sui passi in cui

Gesù guarisce, ci rendiamo

conto, infatti, che Egli, pur

utilizzando, a volte, rimedi

esterni come saliva (Mc 7,33;

Mc 8,23), saliva mescolata a

fango (Gv 9,6)…, utilizza la

forza sanante dell’imposizione

delle mani (Mc 6,5; Lc 4,40;

13,13; Mc 8,22-25).

Come è ben noto, in qualsiasi

pratica terapeutica che ne

faccia uso, nell’atto di imporre

le mani vi è una trasmissione

energetica benefica che

stimola, a sua volta, il flusso

energetico del ricevente al fine

di trarre giovamento.

In questo contesto acquista

rilevanza la partecipazione del

sofferente, la sua convinzione

nell’attuare il suo iter

guaritivo: più ci si predispone

con atteggiamento positivo e

fiducia, migliore sarà il

risultato. Gesù stesso, a

coronamento delle sue

guarigioni, usa frequentemente

concludere con le parole “la

tua fede ti ha salvato” (Lc

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17,19; 18,42; Mc 10,52; Mt

9,21).

Possiamo ancora

esplicitamente rintracciare il

riferimento a predisporsi con

fiducia ed essere co-fautori

della propria guarigione,

nell’episodio dei due ciechi

che invocano la vista, cui Gesù

risponde “sia fatto a voi,

secondo la vostra fede” (Mt 9,

28-29).

Come si può facilmente

intuire attraverso questi

esempi, secondo la scienza

Cristica, ognuno di noi ha, o

dovrebbe avere una buona

dose di partecipazione nel

proprio processo di guarigione.

A una prima impressione,

potremmo essere indotti a

pensare che la fede, cui si fa

riferimento sia solo un atto di

abbandono cieco a Dio e che

Gesù, solo se vede la fede,

compia il miracolo. Questa,

però, ancora una volta

designerebbe una condizione

di passività del malato nel

ricevere la guarigione. Della

forza sanante divina, noi,

invece, siamo partecipi e solo

attraverso una condizione di

fede (fiducia non solo in Dio

ma anche in noi stessi), la

possiamo far liberamente

fluire in noi. Ciò che Gesù

andava a stimolare era proprio

l’ascolto di Dio in sé stessi e la

capacità auto-guaritiva, insita

in ciascuno di noi. Riceviamo

conferma di questo nel

Vangelo di Luca,

immediatamente dopo il passo,

in cui viene descritta la

guarigione di un lebbroso: “…

Perché il regno di Dio è in

mezzo a voi!” (Lc 17, 21). Se

andiamo a rintracciare il

significato letterale della

preposizione greca

“ejntovß”(in mezzo) vediamo

che questa può essere tradotta

anche come “dentro”; la frase

potrebbe, quindi essere

tradotta in questo secondo

senso: “il regno di Dio è

dentro di voi”. Considerando

la posizione strategica

riservata al passo e ricordando

che Luca era medico, è

piuttosto semplice intuire il

messaggio intrinseco inviato

dall’evangelista.

Sempre in questa ottica,

riceviamo un ulteriore indizio

anche per indagare su alcune

delle cause all’origine degli

stati di malattia. Come

abbiamo visto, nell’Antico

Testamento, la malattia veniva

vista come conseguenza della

punizione divina per aver

“peccato” contro Dio; ora ci

viene suggerito, invece, che

Dio è in noi: questo non

potrebbe voler significare

anche che alla base delle

nostre malattie e sofferenze vi

possa essere un “peccato”, un

conflitto, una rottura di

equilibrio principalmente

verso noi stessi, su uno o più

piani del nostro essere?

Se riflettiamo, anche nel

campo medico-sanitario si fa,

soventemente, riferimento a

questa situazione

denominandola, con termini

diversi, parlando, magari, di

“eventi, stimoli… stresso

geni”: ma la sostanza, in

ultimo, non cambia. Sempre

nell’ambito terapico si è

anche, già da molto tempo,

evidenziato il fenomeno

conosciuto come “effetto

placebo”, con cui si tende

genericamente indicare la

partecipazione dello stato

suggestivo della persona

nell’incrementare l’effettiva

azione di un farmaco o di un

trattamento.

Siamo veramente convinti che

sia suggestione? Non potrebbe,

invece, essere espressione

della nostra latente capacità

autoguaritiva?

È in una maggior

partecipazione del sofferente

nel suo iter curativo e

guaritivo che, penso, ci si

debba maggiormente

concentrare in qualsiasi ambito

terapico.

….. e la via più sicura è quella

che prende le mosse da un

profondo ascolto del nostro

corpo, dei nostri sentimenti,

conflitti, emozioni, pensieri al

fine di abbracciare una piena

conoscenza e consapevolezza

di noi stessi.

Dr.ssa Caroppo Cristina

L’insegnamento che

comunemente viene impartito

riguardo alla “preghiera”, va

dalla ripetizione abitudinaria

di formule, sulla scia dei

“mantra” orientali, alla

preghiera di invocazione

rivolta a santi, beati, entità

angeliche che possano dare

protezione o aiuto nelle varie

situazioni esistenziali.

Ma la preghiera è sicuramente

molto di più e nasconde in sé

un potenziale veramente

straordinario che si esprime in

maniera varia a seconda del

grado di consapevolezza

dell’orante.

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A esempio la preghiera di lode

e di ringraziamento al Divino,

pur se spesso dimenticata,

realizza certamente

un’apertura cordiale

considerevole e, se effettuata

con sincera partecipazione, è

di per sé in grado di porre

l’individuo in una condizione

di armonia ed equilibrio. Non

a caso le Sacre Scritture

invitano spesso a “cantare

inni” e a “salmeggiare”,

soprattutto nelle situazioni di

difficoltà perché ciò aiuta a

ripristinare una serenità

d’animo tale da richiamare

soluzioni positive ai problemi.

Non solo: cantare, lodare sono

azioni profonde che educano la

volontà a superare quel

“vittimismo” di cui è tanto

intrisa l’educazione religiosa

di massa e che costituisce uno

degli ostacoli maggiori all’

evoluzione spirituale del

soggetto. Alla luce di recenti

acquisizioni di fisica

quantistica e di autorevoli

studi di biologia cellulare (

Bruce Lipton – Facoltà di

Medicina del Wisconsin –

“Biologia delle credenze”-

Scienza e Conoscenza 2006 –

Macro ed.), dai quali emerge

che credenze e pensiero

influenzano direttamente il

funzionamento stesso delle

cellule, possiamo dire che la

preghiera può essere

sicuramente uno strumento

straordinario attraverso il

quale l’individuo partecipa

direttamente all’azione

creativa del Divino. Quanto ai

“modi” di pregare, esiste una

notevole varietà caratterizzata

da differenze più o meno

rilevanti a seconda delle

tradizioni religiose da cui

derivano: si prega recitando

(rosario), si prega col corpo e

col respiro (yoga), si prega

cantando…. Forme di

preghiera sicuramente molto

efficaci e con un potenziale

trasmutativo notevole, sono

però le “Affermazioni di

consapevolezza” e la

“Meditazione-Comunione”.

Nel primo caso (affermazioni),

il soggetto non si limita a

invocare, ma diventa parte

attiva e, con il concorso

unanime di volontà e intelletto,

dichiara, senza lasciar spazio a

dubbi, delle “verità di fede” di

cui ha piena consapevolezza.

Nella Meditazione-

Comunione, invece, dopo aver

lasciato fluire ogni pensiero

superfluo e disturbante nella

calma osservazione di sé,

eleva il suo intelletto verso la

percezione della profonda e

contemporanea Unione sia

col proprio “ Dio interiore” sia

con lo Spirito Divino che

anima amorevolmente ogni

cosa. Riuscire anche per pochi

minuti al giorno a mantenere

questo stato meditativo,

costituisce una incomparabile

fonte di benessere fisico e di

vitalità spirituale: ovviamente

questa pratica richiede

costanza ed esercizio. A

questo stato di meditazione-

comunione tende pure tutto il

Rito della Messa Cristiana che,

quando non è inquinato da

eccessivi e inopportuni

interventi personali dei

ministri di culto, i quali non di

rado risvegliano timori e

colpe, è di per sé strutturato in

maniera tale da liberare

progressivamente l’individuo

da tensioni e conflitti per farlo

giungere, attraverso il mistero

dell’Eucarestia, alla

pacificazione interiore e a uno

stato di Grazia arricchito dalla

forza di una intera Comunità

che prega. Ovviamente anche

qui gli effetti “terapeutici” del

culto non sono uguali per tutti,

né tanto meno scontati, ma

vanno posti in relazione col

grado di partecipazione di

ciascun soggetto.

Dr.ssa Anna Rita D’Alba

Più volte abbiamo parlato, in

queste pagine, dei sistemi

contemperativi del diritto.

Approfondiamo in questa

circostanza l’argomento

entrando maggiormente nel

dettaglio.

Il diritto canonico è un diritto

particolare: esso mira alla

salus animarum. La Chiesa,

data la particolarità di tale

struttura normativa, tende a

non considerare mai il sistema

del suo diritto come un sistema

chiuso di norme senza

eccezioni. La legge è infatti

uno strumento imperfetto! Il

diritto positivo è “umano” e

spesso necessita di essere

completato e corretto.

Possiamo affermare che la

Chiesa nella sua azione pratica

di esercizio del diritto non ha

ricevuto il carisma

dell’infallibilità.

Lo scopo di una legge è di fare

giustizia, cioè dare a ciascuno

ciò che gli è dovuto. Ma le

Page 7: ipocrisia, ingordigia, propria personalità tratti violenza ... · altri, provoca una deviazione significativa dalla media e ... dell’Amore è di amare senza misura”. Chi rifiuta

leggi regolano fattispecie

astratte, universali ed

impersonali; la vita, invece,

presenta casi concreti,

particolari e personali. Proprio

per questo a volte per fare

giustizia è necessaria

un’eccezione alla

legge:

è necessario “un

accomodamento” per ottenere

giustizia.

L’epieikeia è un contributo di

Aristotele alla concezione

filosofica del mondo giuridico

greco, è l’adattazione della

legge al fine di ottenere

giustizia. Non è una

concessione né un’eccezione

all’idea di giustizia, bensì

un’eccezione alla legge.

Nessun insieme giuridico

potrebbe esistere senza leggi e

senza epieikeia, questi due

aspetti si completano

vicendevolmente e così

facendo rendono giustizia.

Gli stessi romani antichi,

maestri in organizzazione, pur

avendo creato un diritto molto

solido, a partire dal 450 A.C.,

adottarono l’equità per

correggere la legge attraverso

principi filosofici e teologici

quando non si poteva ottenere

giustizia da un tribunale

ordinario.

Il diritto romano era

applicabile solo ai cittadini

romani; per gli stranieri che

non avevano cittadinanza

romana era previsto un

particolare pretore che “dava

giustizia” sulla base del diritto

naturale, “giustizia naturale”.

Il praetor peregrinus era

appunto un magistrato con

discrezione libera. Lo sviluppo

del diritto portò alla cosiddetta

cognitio extra ordinem e così

anche per i cittadini romani fu

possibile ottenere giustizia

secondo il diritto naturale. Si

iniziò poi ad adoperare le

forme di giudizio del praretor

peregrinus.

Diritto romano antico + Giustizia naturale

(equità)

davano vita a

Giustizia secondo legge (formale)

+

Giustizia secondo equità (informale)

Sintesi

Il rigore del diritto tradizionale

fu così completato e corretto

dalla giustizia naturale o

equità.

Più tardi, XII sec., un iter

simile si è verificato in

Inghilterra, dove un sistema

giuridico rigido con una

perfetta applicazione della

legge creava spesso

un’ingiustizia altrettanto

perfetta. Grazie ad una regola

medievale del Decretum

Gratiani (1140) se non era

possibile ottenere giustizia dai

tribunali civili si aveva

l’opportunità di andare dal

vescovo proponendo di nuovo

il caso. Dato che in Inghilterra

era controproducente adire il

tribunale del vescovo andando

di fatto contro i tribunali del

re, fu trovato un compromesso

con la figura del Cancelliere

del re: un ecclesiastico

preposto a dispensare giustizia.

L’ufficio del Cancelliere

divenne un vero e proprio

tribunale che venne chiamato

Tribunale di coscienza. Così si

ebbero due tribunali:

Tribunali del re (leggi antiche e rigide) -

Tribunale del cancelliere (teologia morale)

Legge + Equità

Nella Chiesa ortodossa, con il

termine economia si intende

un sistema di origine cristiana

di natura teologica ma non

giuridica. Ufficialmente non

esiste nella Chiesa latina.

Anche nelle comunità cristiane

potevano sorgere problemi

nell’amministrare la giustizia.

Quando c’era un caso difficile

a risolversi giuridicamente si

ricorreva al vescovo.

Elemento distintivo:

nell’economia c’è una persona

che può dare la soluzione,

mentre nell’epieikeia e

nell’equità ci sono idee.

Il vescovo o un sinodo di

vescovi possono correggere

una situazione che arreca

danno alla comunità; questo

potere viene da Cristo, non

dalla legge. Il vescovo, in un

certo senso, prende il posto di

Cristo e può disporre ciò che la

legge non può.

È bene chiarire che non c’è

leggerezza nella

amministrazione

dell’economia. Ci sono delle

regole. L’economia non può

mai agire contro le verità delle

fede; un caso non costituisce

mai un precedente giuridico.

Quindi tutti i casi sono

individuali ed unici e non

servono mai da esempio per

altri casi. Non c’è continuità

giuridica.

L’economia deve rispettare la

dottrina e deve essere

equilibrata dell’akribeia

(severità), cioè ci deve essere

flessibilità equilibrata dalla

fermezza.

La Chiesa latina non adotta

questo criterio perché la sua

tradizione giuridica predilige

le definizioni perfette al fine

della certezza del diritto. Nella

Chiesa ortodossa l’economia

non è mai diventata

Page 8: ipocrisia, ingordigia, propria personalità tratti violenza ... · altri, provoca una deviazione significativa dalla media e ... dell’Amore è di amare senza misura”. Chi rifiuta

un’istituzione giuridica, ma ha

conservato un’importante

valore in quanto la Chiesa

orientale ha dato sempre molta

importanza agli elementi

carismatici.

Rev.mo Paolo Leomanni

Oltre 2500 delegati

rappresentanti la maggioranza

delle Chiese europee si sono

riuniti a Sibiu, in Romania, dal

5 al 9 settembre,dando vita

alla Terza Assemblea

Ecumenica europea “La Luce

di Cristo illumina tutti”. I

rappresentanti italiani hanno

formulato nove proposte per

rendere attuabili le linee guida

della Charta Oecumenica, tra

queste: “l’organizzazione di

incontri a livello nazionale sui

temi che sono ostacoli ad una

unità visibile, l’introduzione

nei riti di ogni Chiesa di

preghiere ecumeniche, la

promozione di incontri

giovanili, la creazione di una

rete ecumenica europea per la

pace e di una rete per la tutela

dell’ambiente”.

L’incontro Ecumenico di Sibiu

era stato preceduto da tutta una

serie di incontri preparatori;

Firenze, 29-30 gennaio 2005,

“Cristiani Ebrei Musulmani:

Giovani a confronto. “Ecco

come declinare la pace”con

400 giovani provenienti dalle

diverse comunità italiane che

hanno dialogato, pregato

festeggiato; Firenze, autunno

2008 incontro sulla giustizia;

Milano, 14-15 aprile 2007,

incontro nazionale di dialogo e

conoscenza, Il tema

“Rischiarare le tenebre, La

luce di Cristo e la giustizia del

Regno”, ha visto impegnati il

Servizio per l’Ecumenismo e il

Dialogo dell’Arcidiocesi di

Milano, della Pastorale

Giovanile della stessa

Arcidiocesi, e del Consiglio

delle Chiese Cristiane di

Milano.

Il lungo cammino verso

l’ecumenismo, sarebbe meglio

usare il termine

pancristianesimo, parte dal

1912, quando il ministro e

teologo veterocattolico Ugo

Janni, pubblica su “La

Cultura contemporanea”,

novembre 1912, 193-217, la

sua “solenne confessione di

fede pancristiana, non soltanto

sentimentale ma fondata su

una concreta concezione

dottrinale”.

Milaneschi nel suo studio su

Ugo Janni afferma che: “Lo

Janni non si allontanò mai

dalle sue affermazioni

contenute in questo scritto, le

quali sono la matrice delle sue

trattazioni più ampie del

pancristianesimo pubblicate

negli ultimi anni”. (p.138)

Lo stesso Milaneschi precisa

in modo vigoroso che la

formazione teologica vetero-

cattolica permetteva allo Janni

di avere un’ampia apertura

mentale e culturale che

metteva in difficoltà i pastori e

i teologi valdesi. (Janni passò

al valdismo nel 1901 poiché

riteneva che il vecchio-

cattolicesimo aveva perso

quello “spirito riformatore”

che l’aveva fatto nascere).

Anche dalla confessione

valdese, Janni portò avanti con

grande vigore e

determinazione la sua battaglia

per mettere intorno a un tavolo

tutte le confessioni cristiane.

Il principio, l’assunto, il

“dogma” dal quale parte lo

Janni è molto semplice: La

Chiesa è Una, Santa,

Apostolica, Cattolica. “…costituita nell’unità fin dal

suo sorgere come corpo di un

medesimo Signore, animata

dal suo stesso Spirito.”

(p.199)

L’unità della chiesa si ha

<<nella professione della

stessa Fede in Cristo>> I Tim,

3,15), quindi, nell’unità del

Credo, unità del Battesimo e

dell’Eucarestia secondo I Cor.

10,17 e nell’unità del

Ministero quale è stato istituito

per la edificazione della chiesa

affinché cresca sempre più

verso il suo Signore (Ef, 4,12-

15; I Cor.14,4 ss, 12-26); e

nell’unita dell’Amore, <<che è

la legge del Regno di Dio

(Giov. 13,35)>>. (p.201)

Instancabile, Janni prese

contatto con le diverse realtà

cristiane partecipando ai sinodi

delle varie Chiese vecchio-

cattoliche: Madrid 1892; 1897

con Enrico di Campello

Page 9: ipocrisia, ingordigia, propria personalità tratti violenza ... · altri, provoca una deviazione significativa dalla media e ... dell’Amore è di amare senza misura”. Chi rifiuta

partecipò alla conferenza

organizzata dai vescovi

anglicani dove tenne una

conferenza che gli guadagnò le

simpatie degli stessi vescovi.

Man mano che le sue idee

venivano accettate, cresceva il

consenso intorno alla sua

persona e il 28 giugno 1927

gli fu conferita la laurea

honoris causa in teologia

dalla università di Saint

Andrews in Scozia.

L’idea pancristiana si diffuse

rapidamente nel mondo

Vecchio-cattolico, nella

Chiesa Riformata, e in diversi

esponenti della Chiesa di

Roma.

In breve, nella Conferenza di

Lamberth del 1920, l’ala filo-

cattolica e quella filo-

evangelica trovano un accordo,

la <<sintesi anglicana>> che

genera una enciclica nella

quale si afferma l’esigenza di

una unità ecclesiale.

L’appello alla unità venne

raccolta dall’arcivescovo di

Malines che organizzò una

conferenza in quella città. Il

fermento pancristiano

sviluppatosi in Europa portò

alla prima grande conferenza

di Stoccolma tenutasi dal 19 al

29 agosto del 1925.

Lo Janni chiamò tale

Conferenza “Concilio

Ecumenico”.

“Nel mattino del 19 Agosto

1925 una solenne processione

faceva il suo ingresso in

Storkyrkan, la Cattedrale di

Stoccolma capitale della

Svezia…si avanzavano circa

600 rappresentanti di 103

chiese Cristiane appartenenti

a 37 nazione diverse, cantando

ognuno nella propria lingua;

si avanzavano – turba

promiscua, profetica, simbolo

e annunzio di una nuova epoca

del Cristianesimo…” segue

l’elenco delle varie chiese.

Questo è l’incipit del lungo

articolo di Ugo Janni

pubblicato nel 1928 su “Il

Movimento Pancristiano” una

pubblicazione della rivista

Fede e Vita diretta dallo

stesso Janni. Questo numero è

stato da noi trovato nella

biblioteca valdese di Torre

Pellice e ne riproduciamo la

copertina in testa all’articolo.

Dopo il successo di Stoccolma

vi fu quella di Losanna , dal 4

al 27 agosto 1927, lo Janni

trovò in Nathan Soderblom,

arcivescovo luterano di

Uppsala un alleato e amico. Fu

proprio Soderblom a usare il

termine pancristiano per

indicare il movimento

ecumenico. Come al solito, in

tutti questi avvenimenti, il

Papa, nonostante

apprezzamenti e

incoraggiamenti privati,

ufficialmente non partecipò

alle conferenze, anzi tenne a

precisare che”l’insegnamento

e la prassi della chiesa

romana…non consentono di

prender parte ad un congresso

come quello progettato… ma

pregava e sperava che tutti i

partecipanti si unissero al

capo” visibile della Chiesa”

che li avrebbe accolti “a

braccia aperte”. P. 145

Ancora una volta, il Papa

affermava che l’unica vera

Chiesa era quella di Roma..

In seguito vi furono altri

incontri e Conferenze, e, ogni

Conferenza era un passo verso

l’accettazione dell’idea

pancristiana. Del resto

l’incontro di Firenze del 2005

ed altre esperienze analoghe

ricordano moltissimo la “Lega

di preghiera” promossa da

Janni e Casciola, concepita

come movimento

interconfessionale e a cui

aderirono fin dal 1914

rappresentanti delle chiese

valdesi, cattolica romana,

ortodossa russa, anglicana,

metodista e luterana.

Con l’incontro di Sibiu un

altro importante passo è stato

fatto, ma resta ancora la

polemica che il documento

della Congregazione per la

Dottrina della Fede ha

suscitato, ribadendo che solo

nella chiesa cattolica romana si

realizza pienamente la Chiesa

voluta da Gesù.

Nonostante le polemiche, si

continua a lavorare nella vigna

del Signore.

Dr.Mario Matera

prosieguo. Vedi “Il Dialogo”

Giugno 2007

Continuando la lettura della

biografia di Aldo Capitini

scritta da Giacomo Zanga

(Bresci editore Torino 1988),

trovo notizie sui COS (Centri

di Orientamento Sociale), che

nacquero a Perugia, alla caduta

del fascismo. I COS erano

adunanze aperte a tutti,

professionisti, operai,

contadini, educatori, madri di

famiglia, che si tenevano due

volte la settimana, sui temi più

svariati.

La donnicciola poteva

chiedere al sindaco o al

Page 10: ipocrisia, ingordigia, propria personalità tratti violenza ... · altri, provoca una deviazione significativa dalla media e ... dell’Amore è di amare senza misura”. Chi rifiuta

questore (invitati a partecipare,

e di fatto partecipanti,

all’assemblea), notizie e dati

intorno a questo o quel

provvedimento, oppure

chiedere all’illustre romanziere

presente, informazioni intorno

ai perché e ai modi della sua

fantasia. Anche Danilo Dolci,

il celebre sociologo e poeta

triestino, teneva in Sicilia, in

quel periodo, delle analoghe

riunioni con la gente del

popolo, benché lì mancasse la

presenza dei pubblici

funzionari. Di questa singolare

esperienza Danilo Dolci narrò

in un libro “Conversazioni

contadine”, che è tutto da

leggere.

I COS si diffusero poi in

molte città dell’Umbria e

dell’Abruzzo, fino a Napoli.

Capitini voleva che si

istituissero non solo in ogni

comune, ma anche in ogni

borgata, per quante sono le

parrocchie, diceva lui. Si

sarebbe avuta così la base per

una democrazia per tutti, di

una autoeducazione collettiva

e concreta, di un disvelamento

dei privilegi e degli abusi.

Questo Aldo andava

divulgando nel suo periodico

“Il potere è di tutti”. E

aggiungeva che si stava

diffondendo un regime

pseudo-democratico, per la

grande e crescente difficoltà di

educare le moltitudini.

Bisognava portare tutti gli

sforzi per creare una

democrazia nuova.

Ma ci fu chi boicottò i COS e

li fece crollare uno a uno. Il

primo colpo fu inferto a essi

dalle cosiddette “autorità”, le

quali mal tolleravano di

doversi trovare a discutere

accanto, anzi in mezzo, ai

cittadini. Poi ci fu l’azione dei

partiti, cominciando dai più

grossi, DC e PCI, che

ovviamente scorgevano in quel

decentramento, in

quell’autentica integrale

democrazia, un pericolo per i

loro vantaggi e la loro stessa

sussistenza.

Lo scrittore amico di

Capitini, Ignazio Silone, si

chiedeva in quegli stessi anni,

se la società civile sarebbe

riuscita a recuperare le

funzioni allora usurpate dallo

Stato burocratico e

centralizzato. Si trattava di

sostituire le relazioni

autoritarie, costrittive e

passive, con relazioni umane

autentiche e responsabili.

Capitini accusato di astrattezza

era nel giusto e anche nel

concreto. I Centri di

Orientamento Sociale restano,

nella storia italiana, come un

modello da ammirare, e, un

giorno forse non lontano, da

recuperare.

Ecco alcuni dei principi di

questi Centri:

L’esame dei problemi

compiuto pubblicamente e

con l’intervento di tutti.

Il ripudio della violenza e

dell’intolleranza nell’ambito

della riunione, dove la sola

forza sta nella razionalità,

competenza, persuasività del

proprio discorso.

Il controllo sui funzionari

inetti o disonesti mediante

ricorsi alle autorità superiori.

Il contributo alla stampa

cittadina di un ricco materiale

elaborato collettivamente, con

il risultato di interessare i

cittadini più vivacemente alla

cronaca e ai problemi del loro

luogo.

Il vivo contatto tra gli

intellettuali e il popolo, cioè

tra la cultura e la concretezza

popolare.

Il superamento del tipo

“conferenza” e del tipo

“comizio”, chiassoso, vuoto,

diseducatore. Nella riunione si

discute circolarmente, senza

sottolineatura enfatica e senza

grossolane polemiche.

Questo è il contributo di

Capitini a un Paese che

tardava (e tarda) a scrollarsi di

dosso secoli di soggezione

politica e sociale.

Dei Centri di Orientamento

Religioso (I COR), tratteremo

la prossima volta.

Dr.ssa Liliana Gadaleta

Minervini

Riflessioni, emozioni,

storie di vita vissuta e…

quant’altro

Lettura ad alta voce

Vorrei suggerire la lettura di

tre brani tratti dal “Siracide”,

di cui non propongo alcuna

introduzione, perché si

presentano da soli per la loro

vividezza e capacità di parlare

direttamente al cuore di chi li

approccia.

Dovrebbe essere una lettura

individuale, ad “alta voce”,

per riflettere insieme, per

ascoltarsi, per confrontarsi e

Page 11: ipocrisia, ingordigia, propria personalità tratti violenza ... · altri, provoca una deviazione significativa dalla media e ... dell’Amore è di amare senza misura”. Chi rifiuta

per poterne fare un punto di

riferimento nelle nostre

quotidiane difficoltà.

Godiamocela come un’ipotesi,

una possibilità in più per

vivere “sanamente”.

Fermezza e dominio di sé

Non ventilare il grano a

qualsiasi vento

E non camminare su qualsiasi

sentiero.

Sii costante nel tuo

sentimento,

e unica sia la tua parola.

Sii pronto nell’ascoltare,

lento nel proferire una

risposta.

Se conosci una cosa, rispondi

al tuo prossimo;

altrimenti mettiti la mano sulla

bocca.

Nel parlare ci può essere onore

o disonore;

la lingua dell’uomo è la sua

rovina.

Non meritare il titolo di

calunniatore

E non tendere insidie con la

lingua,

poiché la vergogna è per il

ladro

e una condanna severa per

l’uomo falso.

Non far male né molto né

poco,

e da amico non divenire

nemico,

perché un cattivo nome si

attira vergogna e disprezzo;

così accade al peccatore, falso

nelle sue parole.

Non ti abbandonare alla tua

passione ,

perchè non ti strazi come un

toro furioso;

divorerà le tue foglie e tu

perderai i tuoi frutti,

sì da renderti come un legno

secco.

Una passione malvagia rovina

chi la possiede

e lo fa oggetto di scherno per i

nemici.

(Bibbia di Gerusalemme:Sir 5,

9/15; 6, 1/4)

La scuola della sapienza

Figlio, sin dalla giovinezza

medita la disciplina,

conseguirai la sapienza fino

alla canizie.

Accostati ad essa come chi ara

e chi semina

E attendi i suoi ottimi frutti;

poiché faticherai un po’ per

coltivarla ,

ma presto mangerai dei suoi

prodotti.

Essa è davvero aspra per gli

stolti,

l’uomo senza coraggio non ci

resiste;

per lui peserà come una pietra

di prova,

non tarderà a gettarla via.

La sapienza infatti è come dice

il suo nome,

ma non a molti essa è chiara.

Ascolta , figlio, e accetta il

mio parere;

non rigettare il mio consiglio.

Introduci i tuoi piedi nei suoi

ceppi,

il collo nella sua catena.

Piega la tua spalla e portala,

non disdegnare i suoi legami.

Avvicinati ad essa con tutta

l’anima

E con tutta la tua forza resta

nelle sue vie.

Seguine le orme e cercala, ti si

manifesterà;

e una volta raggiunta, non

lasciarla.

Alla fine troverai in lei il

riposo,

ed essa ti si cambierà in gioia.

I suoi ceppi saranno per te una

protezione potente,

le sue catene una veste di

gloria.

Un ornamento d’oro ha su di

sé,

i suoi legami sono fili di

porpora violetta.

Te ne rivestirai come di una

veste di gloria,

te ne cingerai come di una

corona magnifica.

Se lo vuoi, figlio, diventerai

saggio;

applicandoti totalmente,

diventerai abile.

Se ti è caro ascoltare,

imparerai;

se porgerai l’orecchio, sarai

saggio.

Frequenta le riunioni degli

anziani;

qualcuno è saggio? Unisciti a

lui.

Ascolta volentieri ogni parola

divina

E le massime sagge non ti

sfuggano.

Se vedi una persona saggia, va

presto da lei;

il tuo piede logori i gradini

della sua porta.

Rifletti sui precetti del

Signore,

medita sempre sui suoi

comandamenti;

egli renderà saldo il tuo cuore,

e il tuo desiderio di sapienza

sarà soddisfatto.

(Bibbia di Gerusalemme: Sir 6,

18/37)

L’umiltà

Figlio, nella tua attività sii

modesto,

sarai amato dall’uomo gradito

a Dio.

Quanto più sei grande, tanto

più umiliati;

così troverai grazia davanti al

Signore;

Page 12: ipocrisia, ingordigia, propria personalità tratti violenza ... · altri, provoca una deviazione significativa dalla media e ... dell’Amore è di amare senza misura”. Chi rifiuta

perché grande è la potenza del

Signore

e dagli umili egli è glorificato.

Non cercare le cose troppo

difficili per te,

non indagare le cose per te

troppo grandi.

Bada a quello che ti è stato

comandato,

poiché tu non devi occuparti

delle cose misteriose.

Non sforzarti in ciò che

trascende le tue capacità,

poiché ti è stato mostrato più

di quanto comprende una

intelligenza umana.

Molti ha fatto smarrire la loro

presunzione ,

una misera illusione ha

fuorviato i loro pensieri.

(Bibbia di Gerusalemme : Sir 3,

17/24)

Rosaria Stufano

Ro

… E dare l’ultimo respiro, che

cos’è se non liberarlo dal suo

flusso inquieto, affinché possa

involarsi finalmente e spaziare

disancorato alla ricerca di

Dio?...

(“Il Profeta” di Gibran)

Nella certezza che l’anima del

proprio caro viva già nella luce

divina, ci uniamo per porgere

le nostre più sentite

condoglianze a uno dei nostri

membri, Dr.ssa Zuccalà

Liliana, per la triste perdita del

padre.

“…Amerai il prossimo tuo

come te stesso”(Mt 22,39).

Teniamo presente questo

secondo comandamento di

Cristo per vivere e assaporare

appieno il significato del

Natale.

Buon Natale e Felice Anno

Nuovo a voi tutti, fratelli

carissimi.

IL DIALOGO Direttore Resp. Dr.ssa Cristina Caroppo

Direttore Stampa Dr. Renato Leomanni

Reg. 233 Trib. RE

Fotocopiato in proprio

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