Il Crollo Delle Nazioni.v1.5

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IL CROLLO DELLE NAZIONI LEOPOLD KOHR 1

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"The breakdown of Nations" - Leopold Kohr - Unica edizione italiana del 1960

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IL CROLLO DELLE NAZIONI

LEOPOLD KOHR

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Esprimo tutta la mia gratitudine a quegli amici che, attraverso critiche appassionate e proficui dibattiti, mi hanno fornito un aiuto prezioso nella formulazione di queste mie idee. Posso ben dire che questo libro non sarebbe stato mai scritto senza una lunga serie di animate discussioni avute con Diana Lodge, con Anatol e Orlene Murad, con Max ed Isabel Gideonse, con Sir Robert e Lady Fraser, con Frane Ricciardi, col Professor George M. Wrong, mio vecchio e venerabile amico, e con la Signora Wrong, con Noel e Donovan Bartley Finn, con mio fratello John R. Kohr e, soprattutto, con Joan e Bob Alexander, i quali per cinque lunghi anni hanno dovuto sopportare le mie melanconiche elucubrazioni a colazione, pranzo e cena.

Il libro non sarebbe stato mai pubblicato senza il consiglio e l'incoraggiamento di Sir Herbert Read, e dei miei amici e colleghi dell'Università di Porto Rico — Severo Colberg, Adolfo Fortier, Hector Estades, Dean Hiram Cancio, e il Rettore Jaime Benitez — l'interessamento dei quali è valso a farmi avere una sovvenzione della Carnegie Foundation, alla quale esprimo la mia gratitudine.

L. K. Università di Puerto Rico Gennaio 1957

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INTRODUZIONE

Come i moderni studiosi di fisica hanno cercato di elaborare un'unica teoria, capace di dare una spiegazione unitaria di tutti i fenomeni dell'universo fisico, cosi io ho tentato, su un piano diverso, di formulare un'unica teoria capace di ridurre a un comune denominatore tutti i fenomeni di carattere sociale. Sono cosi giunto a sviluppare una nuova e sistematica filosofia politica imperniata sulla teoria delle dimensioni , la quale si fonda sul presupposto che, probabilmente, la causa di tutte le forme di miseria sociale sia una sola: la grandezza.

Un'idea del genere — per quanto semplicistica possa apparire — ci sembrerà meno lontana dal vero quando ci saremo resi conto che la grandezza, ovvero sia il raggiungimento di dimensioni eccessive, non rappresenta uno dei tanti problemi sociali, ma costituisce il solo ed unico problema dell'universo. Spesso, infatti, i difetti e le irregolarità di certi fenomeni dipendono dalle proporzioni che essi hanno assunto. Se le stelle del cielo o gli atomi di uranio si disintegrano in una esplosione spontanea, ciò avviene non perché la sostanza di questi corpi abbia perduto il suo equilibrio, ma perché essa ha cercato di espandersi eccessivamente, superando quegli invalicabili limiti che circoscrivono ogni incremento di materia. Se il corpo umano si ammala ciò è dovuto, come nel caso del cancro, al fatto che una cellula, o un gruppo di cellule, ha incominciato a svilupparsi eccessivamente, oltre gli stretti limiti fissati dalla natura. E se un organismo sociale si lascia prendere dalla febbre dell'aggressione, della brutalità, del collettivismo o della stupidità collettiva, ciò avviene non perché esso sia caduto sotto un cattivo governo o sia colpito da aberrazione mentale, ma perché gli individui — che sono di solito cosi amabili se presi uno ad uno o in piccoli gruppi — si sono fusi in unità sociali eccessivamente vaste, come le masse proletarie, i grandi sindacati, i cartelli, o le grandi potenze, incominciando quindi a scivolare irreparabilmente verso un'inevitabile catastrofe. Il fatto è che i problemi sociali — tanto per rifarsi alle teorie espresse da Thomas Malthus sulla popolazione — hanno purtroppo la tendenza a moltiplicarsi in proporzione geometrica man mano che si sviluppa l'organismo a cui essi si riferiscono, mentre la capacità umana di risolverli, anche ammesso che possa realmente aumentare, progredisce soltanto in proporzione aritmetica. Ciò significa che, se una società supera le dimensioni che

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più le si addicono, i suoi problemi finiscono per moltiplicarsi con una rapidità maggiore di quella con cui l'uomo riesce a sviluppare le facoltà necessarie per affrontarli.

Pertanto, il problema dell'esistenza, sia sociale che fisica, è sempre e soltanto un problema di dimensioni. Lo sforzo da me compiuto nel tentativo di comporre, nel quadro di una teoria unitaria della grandezza, aspetti della realtà apparentemente cosi diversi e privi di ogni collegamento, ha prima di tutto lo scopo di dimostrare che certe verità, universalmente valide, possono essere vantaggiosamente applicate anche al campo delle relazioni sociali; inoltre, il mio intento è anche quello di mettere in risalto che, se la miseria morale, fisica e politica non è altro che una funzione delle dimensioni sociali raggiunte, e se tutti i problemi si riassumono in quello fondamentale rappresentato dall'esistenza di tali dimensioni, l'unica soluzione consiste nel rimpicciolire gli organismi che, sviluppandosi, hanno superato i loro limiti naturali. Quindi, la soluzione che s'impone non è quella di favorire un tale sviluppo, ma quella di arrestarlo.

Considerazioni del genere apparirebbero del tutto ovvie a un ingegnere, a un muratore, a un editore o a un chirurgo. Difatti, il lavoro di costoro consiste proprio in una continua scomposizione, in elementi semplici, di ciò che è troppo complesso, e in una ricomposizione di unità più piccole in forme nuove e in più salde strutture. Ma questi concetti trovano un'accoglienza ben diversa fra quanti si occupano di problemi sociali. Se ai livelli più modesti di cultura costoro non mancano di notevole sensibilità di fronte a tali problemi, quando appartengono alle sfere più alte della scienza politica ed economica, non vedono altro che la creazione di organismi sempre più potenti, tanto che per essi il suggerimento di smembrare entità che stanno assumendo proporzioni eccessive, lungi dall'essere ovvio, è addirittura sacrilego. Essi vedono il mondo alla rovescia, e credono che il nostro imperativo sia quello di aumentare le dimensioni di ciò che esiste, non quello di diminuirle. Ne deriva che essi auspicano la fusione laddove ogni criterio di logica consiglierebbe la scissione. Costoro soltanto in rare occasioni si rendono conto della realtà, come è accaduto quando, dopo anni ed anni di disordini scoppiati nei sovrappopolati campi di prigionia in Corea, cominciarono a capire che la causa di tutto non era l'incorreggibile carattere dei comunisti, ma piuttosto l'eccessiva ampiezza delle comunità in cui essi vivevano. Appena si resero

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conto di questo fatto, fu poi facile ristabilire un certo ordine non già facendo appello alla buona volontà dei prigionieri, ma scomponendo i loro gruppi in unità più piccole e più facilmente controllabili.

Ma una simile verità, sperimentata nei campi di prigionia, vale anche per le sovrasviluppate comunità degli Stati moderni, le cui dimensioni si sono dilatate al punto da costituire l'origine di tutte le nostre attuali difficoltà. Pertanto, come già si e visto a proposito dei campi di prigionia in Corea, la soluzione dei problemi che affliggono il mondo non sembra risiedere nella creazione di unità sociali ancora più vaste e di governi ancora più potenti — come tentano di fare con cieco fanatismo gli uomini che ci governano — ma piuttosto sembra consistere nella eliminazione di quegli organismi sovrasviluppati che vanno sotto il nome di grandi potenze, e nella restaurazione di un sano sistema di piccoli Stati facilmente controllabili, come quelli che hanno caratterizzato epoche passate.

Tale è la proposta avanzata in questo libro, ed io non dubito che molti la giudicheranno contraria alle nostre idee di progresso, il che, in fondo, è vero. L'unica cosa che posso fare è quella di rispondere con le parole del professor Frank Tannenbaum della Columbia University : "Lasciate pure che gli altri abbiano i loro slogans. Lasciate pure che progrediscano a dismisura, vedrete allora che il loro progresso sarà infinito".

Riferendomi alle idee espresse in questo libro, ho usato il termine di nuove. Questa mia affermazione, però, è esatta fino a un certo punto, solo nel senso cioè che io ho tentato di fare della teoria delle dimensioni il perno di un sistema filosofico universale, vale a dire suscettibile di essere applicato a tutti i problemi dell'universo. Limitatamente a particolari settori di indagine, invece, tale teoria è stata esposta molte altre volte, per quanto debbo aggiungere che, come teoria specifica, essa non ha mai assunto quella posizione di primo piano che meritava. Questa osservazione appare particolarmente fondata per quanto concerne l'utilizzazione che tale teoria ha trovato nel campo dei fenomeni sociali. Devo subito precisare però che, anche in questo settore, l'idea della cellula concepita come elemento base di ogni sana struttura sociale, non e certo nuova né originale, essendo stata già espressa magistralmente da uomini come Aristotele e sant'Agostino. Anche Enrico IV di Francia espresse un concetto analogo nel Grande Disegno, che è uno dei più famosi progetti di pace che la storia ricordi. E nel nostro tempo, in cui la corsa alla grandezza si sta ormai avvicinando

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all'invalicabile limite della potenza atomica, un'idea del genere è diventata di cosi grande attualità che essa, al di fuori di un ambiente viziato da preconcetti, si impone con evidenza quasi immediata. Difatti, ogni volta che si compie un nuovo tentativo di unione internazionale, siamo pervasi più dalla disperazione che dalla speranza. Un sottile presentimento sembra avvertirci che c i stiamo incamminando verso una direzione sbagliata e che, tentando di unirci, noi non facciamo altro che avvicinarci sempre più a que l punto critico in cui, come avviene in una bomba all'uranio, la nostra grande compattezza finirà per condurci a quella esplosione che noi tentiamo di scongiurare.

Questo diffuso sentimento sembra essere dovuto al fatto che, in questi ultimi anni, gli studiosi, in numero sempre maggiore, hanno incominciato a orientare le loro ricerche e a escogitare le soluzioni dei vari problemi sociali, sul piano delle piccole organizzazioni piuttosto che delle grandi, insistendo sul concetto d i armonia piuttosto che su quello di unità. Arnold Toynbee , attribuendo il crollo delle civiltà non alla lotta fra le nazioni ma al sorgere degli Stati universali, suggerisce di sostituire alle soluzioni macropolitiche il ritorno a una forma di homonoia, cioè all'ideale greco di un equilibrio fra piccole unità sociali, capace di autoregolarsi. Kathleen Freeman ha dimostrato, in uno studio sulle polis greche, che quasi tutta la civiltà occidentale fu prodotta dai piccoli Stati indipendenti della Grecia antica, e che tali Stati non diedero più nulla di notevole dopo l'unificazione sotto le insegne di Roma. Nel campo dell'economia, Louis Brandeis ha consacrato tutta la vita a mettere in risalto la "maledizione della grandezza" mostrando come, al di là di limiti relativamente ristretti, un ulteriore incremento degli impianti e della struttura organizzativa delle aziende, lungi dal giovare alla loro efficienza e produttività, finisce per essere dannoso. Nel campo degli studi sociologici, Frank Tannenbaum, che ama definirsi con orgoglio un provinciale, si è preoccupato di difendere il sistema dei piccoli sindacati, piuttosto che le gigantesche organizzazioni sindacali di oggigiorno. Secondo questo autore, soltanto i piccoli sindacati sono in grado di assicurare ai lavoratori quei beni che il grande progresso moderno ha loro strappato : una certa indipendenza economica e un senso di individualità. Nel campo della politica, Henry Simons ha sostenuto la tesi secondo cui le minacce alla pace mondiale non deriverebbero dal presunto anacronismo dei piccoli Stati, ma dall'esistenza delle

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grandi potenze, cioè di quei "mostri di nazionalismo e di mercantilismo" nel cui smantellamento egli intravede l'unica speranza di sopravvivenza. Infine, tanto per chiudere questa sommaria rassegna con un poeta, André Gide espresse idee analoghe quando scrisse queste parole che sono forse le sue ultime : "Credo nel valore delle piccole nazioni. Credo nel valore dei piccoli numeri. L'umanità sarà salvata dai pochi".

Tutto ciò dimostra che il concetto e l'ideale della moderazione, concepito come unico antidoto al cancro dell'eccessiva grandezza, su cui la gran massa degli studiosi contemporanei ancora insiste, vedendovi non tanto un pericolo mortale quanto un'ostinata speranza di salvezza, sembra ormai maturo per un nuovo riconoscimento e per una formulazione di carattere generale. Se gli argomenti da me addotti non hanno un gran peso a questo riguardo, forse non si può dire altrettanto di quelli usati da Aristotele e da sant'Agostino. Per quanto io, nello sviluppare le mie teorie, non abbia utilizzato le loro idee, né quelle degli autori che ho appena citato, è naturale che mi senta lusingato di trovarmi in cosi rispettabile compagnia. Tuttavia, non cercherò di avvalermi delle loro testimonianze né di nascondermi dietro l'autorità dei loro nomi, nel tentativo di difendermi dalle critiche formulate da coloro che ritengono di poter risolvere i problemi del nostro tempo lasciandosi accogliere nelle ampie braccia di una comunità universale. L'analisi e le conclusioni espresse in questo libro sono mie personali.

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CAPITOLO PRIMO

LE FILOSOFIE DELLA MISERIA

"Non v'è errore più mostruoso di quello che non riesce a trovare difensori fra gli uomini più abili".LORD ACTON

Le teorie che si fondano su cause immaginarie. La teoria animistica. Teorie cosmiche. Le teorie della causa secondaria. Eroismi militari e mostruosità nel folclore e nella letteratura. L'essenza della civiltà occidentale. Le atrocità del passato e del presente nella storia dei popoli civili. Il naturale istinto umano dell'aggressività. Lo splendore relativo dei monumenti eretti per onorare poeti e generali. Perché i nostri animali araldici sono bestie da preda. Il pensiero di Attlee, Goethe e Bacone sul valore della guerra. Il primato della guerra presso i Tedeschi e gli Alleati, presso gli aggressori e gli amanti della pace.

In un'epoca caratterizzata da numerosi esempi di tirannia e di brutalità, angustiata da una quasi continua paura della guerra e afflitta da altre simili miserie, sembra logico domandarsi con quali mezzi sia possibile garantire all'umanità un'esistenza più tranquilla e socialmente più vantaggiosa.

Come avviene ogni volta che si parla della miseria e dei mezzi per eliminarla, una risposta soddisfacente a questa domanda può essere data solo dopo aver chiarito la causa primaria del male. Ma, mentre i moderni metodi scientifici hanno fatto luce sulle cause primarie di molti problemi attinenti alla tecnica o riguardanti la persona umana, favorendo così un miglioramento delle nostre condizioni di vita, nel campo dei problemi sociali tali nuovi metodi hanno avuto un peso non molto maggiore di quello esercitato dalle teorie che si rifanno o a cause meramente immaginarie o, nella migliore delle ipotesi, a cause secondarie. Perciò, in pieno secolo ventesimo, Julian Huxley ha potuto giustamente affermare che "le scienze umane oggi si trovano, in un certo qual modo, nella stessa posizione in cui si trovavano le scienze biologiche ai primi dell'800' ": cioè, esse hanno

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appena scalfito la superficie, senza ancora scendere in profondità.Il guaio e che le teorie che si rifanno a cause immaginarie o a

cause secondarie, spesso sono capaci di fornire momentanee spiegazioni della realtà che non mancano di apparire molto seducenti. In tal modo esse, proponendo interpretazioni apparentemente soddisfacenti, non soltanto scoraggiano ulteriori ricerche, ma non riescono naturalmente a suggerire utili soluzioni, le une perché le sequenze temporali non sono collegate da un rapporto di causalità, le altre perché le cause secondarie, a loro volta, non sono altro che effetto di cause primarie. La speranza di assicurare all'umanità un'esistenza socialmente più soddisfacente, sembra pertanto dipendere dalla nostra capacità di passare oltre gli aspetti immaginari e secondari del problema, per scoprirne la vera origine, cioè quella misteriosa causa primaria che turba la felicità umana. Ma prima di esporre una teoria che ha la pretesa di risalire alle radici della questione, prendiamo in esame il valore delle più note teorie presenti e passate che si rifanno a cause immaginarie e secondarie, valutando la portata delle soluzioni che esse hanno proposto sulla base delle interpretazioni sostenute

1. TEORIE DELLE CAUSE IMMAGINARIE

Gli antichi, attribuendo una gran parte delle loro avversità alla collera degli Dei, pensavano che l'unico sistema per migliorare la propria sorte fosse quello di ricorrere alle preghiere, oppure, in caso che queste si rivelassero insufficienti, di immolare coloro che avevano offeso la divinità. A volte i risultati erano sorprendenti. Pare che, in molti casi, appena terminate le preghiere, la pioggia cominciasse a cadere sulle loro terre riarse, le correnti di lava scaturenti dai vulcani si arrestassero improvvisamente, o giungesse loro la notizia della disfatta di un minaccioso invasore. A volte, non accadeva niente di tutto questo. Tuttavia, anche nel caso delle situazioni più disperate, essi non attribuivano nessuna importanza all'eventuale inefficacia dei sacrifici e delle preghiere e non vedevano il motivo per cui la loro teoria — che potrebbe essere chiamata la teoria deista della miseria sociale — dovesse essere solo per questo considerata non valida, dal momento che essa aveva fatto cosi buona prova nella spiegazione di tante altre avversità.

Nel Medio Evo, alla teoria deista, fece seguito una teoria

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animistica della miseria sociale che attribuiva la causa dei mali non tanto alla collera degli Dei quanto alla malevolenza di uno spirito maligno. Era del tutto logico, seguendo queste idee, ritenere che la principale cura consistesse nella eliminazione degli oggetti che sembravano posseduti dal demonio. Cosi, veniva appiccato il fuoco a una soffitta popolata di streghe, e finiva sul rogo un gobbo strabico, una donna molto brutta o una molto bella. Ancora una volta i risultati venivano considerati eccellenti, salvo in casi isolati nei quali la gente, invece di prendersela con la teoria a cui credeva, sospettava di non aver bruciato la strega giusta, e quindi continuava allegramente la caccia.

Più tardi, quando gli uomini cominciarono a interessarsi maggiormente ai misteri dell'universo, acquistarono largo credito numerose teorie cosmiche della miseria. Malattie e guerre venivano allora attribuite all'occasionale passaggio di una cometa, alla più frequente apparizione di un alone rosso intorno alla luna, oppure, quando si scoprì che le macchie solari avevano un effetto irritante sul nostro sistema nervoso, alla intensificazione ciclica dell'attività delle macchie solari. Come era già accaduto per le teorie precedenti, anche queste vennero considerate del tutto soddisfacenti, perché raramente accadeva che una determinata avversità non coincidesse con uno o più di questi fenomeni celesti. E siccome su tali fenomeni non si poteva influire in alcun modo, le teorie cosmiche presentavano, rispetto alle altre, il vantaggio di esonerare l'umanità dal difficile compito di trovare soluzioni e rimedi.

La sottomissione passiva alle forze della natura appariva, però, contraria allo spirito di un'età della ragione che andava gradualmente affermandosi. Perciò, con l'avvento dei tempi moderni, ci troviamo di fronte a una nuova serie di teorie della miseria sociale. In rapida successione, si svilupparono una teoria economica che attribuiva le guerre e le altre forme di malessere sociale alle esigenze sempre crescenti di un capitalismo avido di profitti; una teoria psicologica, che attribuiva tali fenomeni a un senso di insoddisfazione; una teoria personale, ideologica, culturale e una teoria nazionale, le quali attribuivano tali mali rispettivamente alle trame di uomini perversi come Hitler, Mussolini o Stalin; alle cattive ideologie come il nazismo o il comunismo; alle cattive tradizioni culturali come il militarismo prussiano o il colonialismo britannico; e infine, siccome una gran parte di questi fattori sembravano coesistere nella storia di determinati popoli, tali mali

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venivano attribuiti a una tradizione di violenze, cioè eredità, alla particolare innata cattiveria di certi popoli, come i Tedeschi quali dovevano apparire in passato agli occhi degli Alleati occidentali, o gli Americani, come, negli anni della guerra fredda, furono dipinti dalla propaganda agli occhi dei popoli del blocco orientale.

Queste teorie più moderne, come del resto quelle che le avevano precedute, furono anch'esse considerate pienamente soddisfacenti, per quanto concerne la spiegazione che fornivano di quelle miserie sociali insieme alle quali erano sorte. Ma, a somiglianza delle teorie precedenti, anche queste si mostrarono incapaci di spiegare le eccezioni. Confondendo le cause secondarie con le cause primarie o, per usare i termini di Lucrezio, la proprietà delle cose con i loro caratteri meramente accidentali , queste teorie arrivavano a spiegare la brutalità dei musulmani ma non quella dei cristiani, la miseria degli slums americani, ma non quella degli slums russi. Quanto alle guerre, esse spiegavano quelle scatenate dai nazisti, non le crociate; le guerre fatte dalla Germania, non quelle fatte dalla Francia; le guerre di Hitler, ma non quelle di Nehru, le guerre dei capitalisti, non quelle dei socialisti. Quindi, a dispetto della loro sottile forza dialettica, queste teorie, a quanto pare, non hanno fatto luce sui problemi che intendevano analizzare più di quanto non vi siano riuscite la teoria medioevale degli spiriti maligni o quella delle macchie solari. L'unico risultato positivo a cui esse giunsero fu quello di spostare l'attenzione dalle cause immaginarie a quelle secondarie, e qualche volta non riuscirono neppure in questo.

2. TEORIE DELLE CAUSE SECONDARIE.

Tuttavia, a motivo della loro più recente formulazione e dell'apparente logica della loro analisi, alcune di queste teorie meritano un esame più approfondito. Una di quelle che si fondano su argomenti più solidi è la teoria economica . Secondo le sue premesse, molte forme di miseria sociale, e in particolare la povertà, la guerra, e l'imperialismo, sarebbero inevitabili conseguenze del funzionamento del sistema della libera impresa a base capitalistica. In breve, il ragionamento è il seguente: in un primo tempo, l'avidità di profitti dell'uomo d'affari fa si che la classe lavoratrice riceva, in cambio del contributo da essa apportato alla produzione, meno di quanto le sia realmente dovuto. Accade quindi inevitabilmente che i

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lavoratori si trovino nella impossibilità di acquistare dai produttori quei beni che essi hanno contribuito a produrre. Ne deriva che è impossibile eludere questa penosa alternativa: o la produzione deve essere ridotta in misura tale da poter essere assorbita dal mercato interno; oppure, esaurendosi le possibilità di consumo interno e quindi di nuovi investimenti, bisogna trovare altrove altri mercati. La prima alternativa porta alla disoccupazione con tutti i disagi che l'accompagnano; la seconda apre la strada all'imperialismo e alla guerra.

Quest'ultima costituisce attualmente un duplice incentivo per gli industriali e gli uomini d'affari del mondo capitalista ad esasperare i disordini sociali. Difatti, sia la produzione che la distruzione bellica creano il bisogno di beni, e aprono la strada a nuovi profitti che non sono più realizzabili altrove, a causa della secolare stasi che, a quanto pare, si sta sempre più affermando in ogni sistema economico basato sulla libera impresa e giunto a piena maturazione. Da ciò deriva l'assoluto bisogno di una espansione imperialista e di guerre periodiche, per soddisfare le necessità di vita di un sistema il cui principale motivo conduttore è l'avidità di profitti.

Un sistema socialista, invece, producendo non in vista dei profitti ma dei consumi, non ha alcun interesse a impegnarsi in spese militari eccessivamente onerose o nella conquista di mercati stranieri per vendere beni che, invece, possono essere impiegati in modo molto più vantaggioso per aumentare il livello di vita interno. Per sua stessa natura, un sistema socialista è destinato a lottare per il mantenimento della pace, come è vero che il capitalismo è incline allo scatenamento di guerre. Ne deriva che i più gravi problemi mondiali potrebbero essere facilmente risolti: basta eliminare il capitalismo e instaurare un sistema socialista.

Può essere che tutto ciò sia vero. Ma la teoria in questione non riesce a rispondere a due domande. La prima è questa: come mai i lavoratori dei paesi socialisti si trovano in condizioni economiche non certo migliori di quelle dei lavoratori che vivono nei paesi capitalisti? E la seconda è questa: come mai due dei principali Stati aggressori del mondo, precisamente la Russia e la Cina, sono comunisti, mentre Stati capitalisti come il Canada, il Belgio, il Lussemburgo, il Principato di Monaco, e in particolare la Svizzera, che è l'ultimo e ancora fiorente esempio di un sistema quasi integrale di liberalismo economico, sono annoverati fra i paesi più pacifici ? Ciò sembra indicare che, contrariamente a quanto asserito

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dalla teoria economica, il sistema di produzione di una società ha ben poco che fare con il benessere sociale di essa, e ancor meno con la calamità di guerre aggressive che tale sistema economico può infliggere ad altri popoli come al proprio. Un intervento nel sistema potrebbe perciò contribuire in misura molto ridotta alla soluzione di problemi che non sono da esso direttamente provocati.

La teoria ideologica e quella personale attribuiscono le varie forme di miseria sociale rispettivamente a una filosofia dotata di potere malefico, o al dominio di uomini perversi. Le soluzioni additate da tali teorie consistono, logicamente, nel primo caso nella sostituzione dell'ideologia dannosa con una migliore, e nel secondo nella soppressione dei dittatori. Queste due teorie hanno molti punti in comune e, in fondo, potrebbero essere considerate come due fasi di un'unica teoria. Secondo esse, il potere sarebbe innocuo nelle mani di uomini onesti, animati da buona volontà. Ciò elimina alcune delle contraddizioni della teoria economica. Infatti, in tal modo si spiega, a differenza di quanto faceva la teoria economica, lo sfruttamento interno e l'aggressività esterna della Russia e della Cina, mettendo appunto in rilievo il fatto che il comunismo, aspirando al dominio mondiale del proletariato, rappresenta una dottrina intransigente fondata su ambizioni di potenza e di dominio. Allo stesso modo si spiega la tirannia, la brutalità e l'aggressione tedesca e italiana in funzione delle ideologie autoritarie del nazismo e del fascismo, e tenendo conto delle dittature instaurate in questi due Stati e prive di qualsiasi freno morale. Per contrasto, tali teorie spiegano anche in modo soddisfacente l'attuale non aggressività di paesi come la Svizzera, la Francia o il Belgio, attribuendo tale fenomeno alla saggezza dei rispettivi governi e al fatto che tali popoli consacrino la loro democrazia alla causa del benessere umano e della pace.

Fino a questo punto, niente da ridire. Ma tale teoria non riesce a spiegare come mai la Spagna fascista e il Portogallo quasi fascista siano, almeno nelle loro relazioni esterne, Stati pacifici come la democratica Svizzera o la Danimarca, malgrado il fascismo sia, come indubbiamente sembra essere, una filosofia che esalta la violenza e la forza bruta. Né riesce a spiegare come mai il Nepal, che è un paese fra i più assolutisti del mondo e che si vanta di esser stato la culla di una delle più fiere stirpi di combattenti, i Gurkhas, non si sogni neppure di scatenare guerre contro altri Stati. Né riesce a spiegare come mai il comunismo, che appare così minaccioso e

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tirannico in Russia, sia considerato non aggressivo in Jugoslavia, e apparisse cosi amabile e inoffensivo nella montagnosa Repubblica di San Marino da farci sorridere più che tremare di paura. D'altra parte, tale teoria non spiega perché una filosofia pacifica e non aggressiva come il gandhismo non abbia agito da freno su un uomo amante della pace come Nehru che, nel suo primo anno di governo, scatenò due guerre, contro l'Hyderabad e il Kashmir, minacciandone a più riprese una terza, contro il Pakistan, e imponendo con violenza la sua volontà al vicino Stato indipendente del Nepal. La teoria in questione non spiega neppure le campagne aggressive e gli atti di brutalità compiuti dalla Francia e dalla Gran Bretagna nelle loro avventure coloniali. Infine, tale teoria non spiega come mai perfino il Cristianesimo, che è la filosofia che più si ispira al pacifismo, non sia stato capace di impedire ai successori di San Pietro, nella città santa e nello Stato pontificio, di abbandonarsi a volte a una politica di aggressioni e di complotti, con un accanimento degno, a questo riguardo, dei più violenti personaggi della storia.

Ci si poteva ragionevolmente attendere che, almeno nel loro caso, il potere fosse nelle mani di uomini di buona volontà e di santi principi, il che, in fondo, era vero. Se questa circostanza, tuttavia, non ha mutato gran che la situazione, ciò può essere dovuto soltanto al fatto che, come già si è visto per i sistemi economici, le buone ideologie e i principi personali non hanno un diretto rapporto con i fenomeni di miseria sociale. Questa sembra essere la ragione che spiega come mai noi continuiamo ad essere minacciati dalla guerra, pur avendo impiccato i criminali di guerra e mutato la filosofia di coloro che prima li appoggiavano.

3. La teoria culturale della miseria sociale

La teoria culturale approfondisce di più il problema. Essa attribuisce le nostre infelici condizioni non alle ideologie, che vanno e vengono mutando con relativa rapidità, ma al costume e al grado di civiltà di un popolo. Essa sostiene, insomma, che la violenza, la tirannia, la brutalità e la guerra aggressiva non siano altro che espressioni di primitivismo intellettuale. Dato che tale primitivismo è perpetuato dalla produzione letteraria di un determinato popolo e dal suo sistema di educazione, anche secondo questa teoria la soluzione dei problemi che affliggono il mondo si presenta come molto semplice. Essa consiste nel purificare il costume e la

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letteratura, e nel rieducare i retrogradi ad opera di coloro che hanno compreso il valore del progresso. In tal modo la miseria sociale sarebbe destinata a sparire quasi automaticamente: per le persone più colte la civiltà ha un senso in quanto sia caratterizzata dal desiderio di pace e di reciproco aiuto, e non dall'istinto della guerra e dal bisogno di distruzione.

Anche questa teoria, per un certo periodo di tempo, sembrò fornire una spiegazione soddisfacente delle guerre aggressive e delle atrocità commesse dai Tedeschi, dai Giapponesi o dai Russi. Era indubbio, ad esempio, che la civiltà di questi paesi fosse notevolmente arretrata rispetto a quella dell'Occidente, soprattutto per quanto concerne l'affermazione dei principii umanitari. Ne derivò il tentativo di istillare a questi popoli i concetti della civiltà occidentale, e lo si fece sia direttamente, come accadde in Germania e in Giappone alla fine della Seconda Guerra Mondiale, sia attraverso una campagna propagandistica come si sta tentando di fare rispetto ai paesi del mondo comunista.

Due sono, a nostro avviso, i principali punti deboli di questa teoria: prima di tutto essa non sembra comprendere appieno le stesse premesse da cui parte; in secondo luogo, per ogni fenomeno che essa spiega, ve ne sono una dozzina con i quali sembra essere in contrasto.

a) Il significato della civiltà occidentale.

Cominciamo a prendere in considerazione il primo punto. Se la civiltà occidentale rappresentasse effettivamente un antidoto alle atrocità e alla guerra, essa dovrebbe più che mai essere diversa dalla civiltà di quei popoli i cui codici morali noi siamo soliti considerare come fondamentalmente contrari alle opere di pace. Se tali popoli glorificano le gesta militari, la letteratura occidentale dovrebbe, proprio all'opposto, esaltare le conquiste della pace. Se quelli si appassionano a vicende di crudeltà e di sortilegi, questa dovrebbe soprattutto mostrare interesse per opere che esaltino i meriti di una vita virtuosa. Altrimenti, non vi sarebbe nulla da guadagnare sostituendo la produzione letteraria dell'Occidente a quella dei paesi meno amanti della pace.

Ma al punto in cui siamo oggi, a prescindere dalla posizione geografica e da un maggiore o minore pacifismo, le produzioni letterarie dei popoli intellettualmente più fecondi sembrano seguire

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indirizzi quasi identici. Si tratta, semmai, di differenze di linguaggio, non di sostanza. Se i Tedeschi hanno il Nibelungenlied che esalta la prodezza fisica e la gloria militare, i Francesi hanno La Chanson de Roland , gli Inglesi hanno il Beowulf, i Romani avevano l'Eneide, i Greci l'incomparabile Iliade e l'Odissea, opere queste che tutte, con pari fervore, esaltano le stesse qualità umane. Se il Faust di Goethe è popolato di demoni e di paesaggi infernali1, la stessa cosa si può dire del Dottor Faust di Marlowe, per non parlare della Divina Commedia di Dante, che descrive non uno ma sette inferni, e che offre una interpretazione poetica dell'orrido che supera perfino la fantasia dei fumetti americani. E ci si domanda a che cosa servirebbe, nella rieducazione dei popoli non appartenenti all'Occidente e che ancora si mostrano propensi alle atrocità, una tragedia come Riccardo III di Shakespeare, della quale è stato scritto che è "sufficientemente tragica da soddisfare gli istinti più morbosi: i delitti vi si susseguono senza respiro; lo scaltro principe assassino, che in un precedente dramma aveva spedito all'altro mondo Enrico VI e il Principe di Galles, esordisce in questa tragedia uccidendo il fratello Clarence, indi continua con la freddezza di un carnefice a sopprimere, uno dopo l'altro, complici e parenti, compiendo tanti delitti che la nostra memoria non riesce a rammentare il nome di tutte le vittime" 2.

Un'analoga uniformità di ispirazione poetica si riscontra in genere anche nelle espressioni più genuine delle varie tradizioni popolari, le quali forse sono anche più significative dal punto di vista culturale. Accanto al minaccioso gigante tedesco Rubezahl, che si nasconde fra le dense foreste con la sua enorme clava, vi è la figura di Procuste, un bandito greco in agguato lungo le strade del suo

1 I teorici della cultura sembrano aver attribuito a questo fatto una grande importanza nello spiegare le atrocità naziste. Per dare un tipico esempio, Sterling North, un ben noto recensore di libri, ha creduto di poter individuare perfino nelle composizioni poetiche dei fratelli Grimm e di Goethe la prova "che a) non vi è nulla nello spirito del popolo tedesco che possa avvicinarsi a un codice morale o etico, e che b) pochi altri popoli sulla terra possono eguagliare i Tedeschi nel sadico e bestiale gusto di spargere il sangue". Ed egli continua affermando che "naturalmente il diavolo ha un ruolo importante non soltanto in Grimm e in Goethe, ma in tutta la letteratura tedesca. Faust — l'uomo che vendette l 'anima al diavolo — è il grande eroe tedesco". ("Washington Post", 3 dicembre 1944).

2 SHAKESPEARE , Richard III, Grosset and Dunlap, New York, 1909, p. XLVIII.

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paese. Per far corrispondere la statura dei suoi ospiti alla lunghezza dei letti a loro destinati, questo ospitale bandito ha l'abitudine di stirare le persone basse fino a renderle lunghe abbastanza e a tagliare le gambe di quelle troppo alte per ridurle alle dimensioni volute. E in un paese estremamente occidentalizzato come gli Stati Uniti, troviamo eroi "neoclassici" come Stubborn J. Tolliver di Al Capp, Presidente della Dogpatch-West Po'kchop Railroad , il quale, dopo aver permesso che un treno pieno di gitanti percorresse un tratto minato di binario, grida ai suoi impiegati: "Ammucchiate i cadaveri con ordine! Riparate la locomotiva! Riempite il treno con altri passeggeri! E proveremo di nuovo!! Io non ho paura". Le nostre trasmissioni radiofoniche e televisive e i nostri film d'ambiente sono anche più spietati. Tanto che a un certo momento l'esagerazione fu cosi evidente da indurre un comitato britannico di censori a consigliare i produttori di Hollywood di "pulire le macchie di sangue".

Sembra quindi che le creazioni culturali dei popoli che noi consideriamo progrediti siano ispirate alla violenza e alla brutalità non meno di quelle dei popoli che molti di noi sono giunti a considerare retrogradi. Tuttavia, non c'è nessun motivo di preoccuparci per questo, giacché, come la descrizione poetica della violenza non è stata mai un segno di timidezza, cosi l'ostentazione di gentili maniere non è stato mai il segno di una civiltà progredita o comunque occidentale. Contrariamente a quanto asserito dalla teoria culturale, il segno distintivo di un popolo realmente civile non è l'amore della pace ma il potere di discernere la verità, la quale può essere bella o brutta, buona o cattiva. E il segno distintivo della civiltà occidentale non è il fatto che essa sia la civiltà dell'Occidente, come comunemente si crede, ma il fatto che essa sia basata sulla filosofia dell'individualismo la quale, a sua volta, non si occupa della pace e del benessere sociale , ma della libertà personale e della soddisfazione personale . Le idee sarebbero meno confuse se gli studiosi, invece di usare il termine West, ossia Ovest, avessero parlato di civiltà dell' Occidente, cioè dello spengleriano Abendland, il cui comune denominatore è stato sempre l'individualismo, contrapponendo tale civiltà a quella dell' Oriente, cioè del Morgenland, che si è sempre basato sul collettivismo. Queste espressioni, sebbene abbiano verosimilmente una lontana origine geografica, presentano il vantaggio, rispetto alle altre, di riferirsi più chiaramente alle condizioni culturali piuttosto che alle regioni

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geografiche: alle idee piuttosto che agli Stati.Se pure è vero che la Germania, l'Italia e la Russia — le cui

recenti manifestazioni di aggressività hanno fornito il principale argomento a favore della teoria culturale — si estraniarono dall'orbita occidentale quando adottarono rispettivamente le dottrine del nazismo razzista, del fascismo statalista e del comunismo collettivista, tuttavia la loro civiltà continuò a rimanere parte integrante di quella grande famiglia culturale cementata da un vincolo che non era rappresentato dalla posizione geografica ma dallo spirito individualistico dell'antica Grecia. Ne deriva che, come la civiltà occidentale non poteva essere concepita senza le figure geniali di Shakespeare, Voltaire, Rembrandt, Dante o Socrate —uomini provenienti dal mezzogiorno e dall'occidente europeo — così non poteva più essere concepita senza l'apporto di uomini dell'oriente come Tolstoj, Dostojevskij, Ciaikovsky, o di tedeschi come Beethoven, Kant, Goethe, Heine o Durer. La civiltà di costoro non era inferiore né diversa da quella della Francia e dell'Inghilterra che, d'altro canto, avrebbero potuto fornire una piattaforma culturale capace di giustificare il sorgere di uomini come Hitler, Stalin o Mussolini. Come per gli altri membri della famiglia occidentale, la loro civiltà era creata da persone intente a garantirsi un'esistenza individuale , non da comunità o popoli associati nello sforzo collettivo di realizzare un fine comune 1.

Perciò, vi sarebbe poco da guadagnare se si epurassero le letterature dei vari paesi e se si infondessero ai popoli aggressivi i concetti della civiltà occidentale. Difatti, non soltanto le opere dei vari centri culturali presentano una somiglianza fin troppo evidente in ciò che apprezzano e in ciò che condannano; quel che più conta è che la maggior parte di quei popoli che recentemente hanno compiuto aggressioni o perpetrato atrocità, come i Tedeschi e i Russi, gli Italiani, lungi dall'essere estranei alla civiltà occidentale, erano annoverati fra i suoi più autorevoli esponenti, come quegli altri popoli che noi consideriamo ferventi amanti della pace.

1 È il volto di Michelangelo che oggi scorgiamo nella Basilica di San Pietro, e non quello del popolo italiano che lavorò a costruirlo. Questa è la fondamentale differenza rispetto alle massicce accumulazioni di pietre costruite in Egitto non da uomini ma da una società spersonalizzata la quale — è bene notarlo — ha profuso la maggior parte delle sue energie creative nella costruzione di tombe.

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b) La cultura e le atrocità.

Siamo cosi giunti all'analisi del secondo punto debole della teoria culturale : intendiamo riferirci a quella totale noncuranza della realtà storica che essa sembra dimostrare quando, interpretando alcuni fenomeni, non fornisce di molti altri nessuna spiegazione. Non soltanto si è sempre saputo che una civiltà in progresso non costituisce nessuna remora agli eccessi sociali; anzi, si può dire che i periodi più mostruosi di brutalità e di aggressività, nei vari paesi, abbiano di solito coinciso con le epoche del loro più grande progresso culturale. Quindi, pur ammettendo che la teoria in questione possa spiegare le atrocità del nazismo e del comunismo, quale spiegazione può essa fornire di misfatti come quelli perpetrati, nel tredicesimo secolo, da Ezzelino da Romano? Questo tiranno, considerandosi, per volontà divina, il flagello dell'umanità, si divertiva, per esempio, durante la conquista di Friola, a "cavare gli occhi o a tagliare il naso e le gambe alle persone di ogni età, sesso e condizione, gettandole poi alla mercé degli elementi". Egli costruì prigioni sotterranee destinate alla tortura e vi rinchiuse una volta 11.000 soldati padovani, "dei quali soltanto 200 sopravvissero alle atrocità di quella prigione" 1. Tuttavia, lungi dall'essere un'età barbara, il tredicesimo secolo fu uno dei grandi periodi della civiltà italiana e occidentale, che ebbe fra gli esponenti più autorevoli figure come San Francesco d'Assisi, San Tomaso d'Aquino, Marsilio da Padova, Giotto, Cimabue e Dante. E bisogna aggiungere che, lungi dall'essere una figura isolata che gettò il discredito su un'epoca per altro verso in pieno progresso, Ezzelino fu "soltanto il primo di una lunga e orribile processione" ; "quanti personaggi di casate come i Visconti, gli Sforza, i Malatesta, i Borgia, i Farnese, gli Angiò e i d'Aragona seguirono le sue orme?". Se egli seminò più terrore degli altri, ciò è dovuto al fatto che fu "il primo, che servi da modello a tutti gli altri" 2.

Verso la fine del quindicesimo secolo, non soltanto i principii laici ma anche quelli ecclesiastici cominciarono a rendersi responsabili della miseria sociale esistente, le cui proporzioni invece di diminuire sembravano aumentare man mano che la civiltà progrediva. Un tipico esempio fu il sacco della città di Prato, vicino

1 JOHN A. SYMONDS, Renaissance in ltaly , The Modem Library, New York, 1935, vol. I, p. 55.

2 Ibidem , p. 56.

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a Firenze. L'esercito papale, al comando di Raimondo da Cardona, Viceré di Napoli, dopo aver conquistato la città il 29 agosto 1512, si abbandonò per ventun giorni al saccheggio, compiendo delitti e violenze di ogni genere. In un massacro "senza precedenti nella storia... non si portò rispetto a nulla, né ai bambini, né ai vecchi, né alle donne e neppure alla santità dei luoghi o alle cariche... Le madri si gettavano con le figlie nei pozzi, gli uomini si suicidavano recidendosi le vene, e le ragazze si buttavano dai balconi sul selciato sottostante per sottrarsi alla violenza ed evitare il disonore. Si dice che, in quell'occasione, siano periti 5600 pratesi" 1. Tutto ciò accadde durante il papato di Giulio II, il quale non era un barbaro ma uno dei grandi mecenati della storia. Difatti, egli figurò ai primi posti della cultura italiana del tempo, fra i suoi contemporanei che furono impareggiabili maestri come Botticelli, Leonardo da Vinci, Michelangelo, Cellini, Raffaello, Filippino Lippi, Giorgione, Tiziano, Perugino, Lorenzo di Credi, oltre a tanti altri che sono considerati minori soltanto perché vissero in un'epoca veramente straordinaria.

Qualcosa di simile accadde in Francia, ove il progresso culturale si accompagnò a manifestazioni di terrore e di violenza. Il sedicesimo secolo in Francia fu cosi fecondo di opere letterarie, filosofiche, teologiche e artistiche, che a giusto titolo è stato chiamato le grand siècle. Fu questa l'epoca di San Francesco di Sales, Montaigne, Bodin, Pasquier, Rabelais, Marot, Ronsard, Regnier, Gringoire, ma fu anche l'epoca di persecuzioni, delitti, violenze e stragi. I protestanti perseguitavano i cattolici e, quando finalmente smisero, furono i cattolici che cominciarono a perseguitare i protestanti fin quasi a sterminarli, tramandando alla posterità il ricordo di una tragedia sanguinosa la cui atrocità, pur uguagliata in molti altri periodi e da molti altri popoli, non è stata mai superata da nessuno. Non v'è nulla che i nazisti abbiano fatto agli ebrei nel ventesimo secolo, che i Francesi non abbiano fatto ai loro fratelli nel sedicesimo. Essi riempirono i pozzi di cadaveri, fino a farli traboccare. Quando, dopo una notte di massacri, un vescovo fu trascinato davanti a una di queste fosse comuni, gli assassini, indaffarati, si accorsero che la fossa era già piena. "Puah", replicò uno di loro, "per un vescovo non si preoccuperanno di stare un po'

1 F. A. HYETT, citato da G. F. YOUNG , The Medicis, Modern Library, New York, 1933, p. 278.

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più stipati"1. A Parigi, "le donne prossime alla maternità venivano scelte per i tormenti più efferrati, e si ostentava un sadico piacere nel distruggere l'immaturo frutto del loro grembo"2. A Lione, un farmacista spiegava agli assassini degli Ugonotti "le preziose proprietà del grasso umano come sostanza medicinale" col risultato che i loro "miserabili resti venivano sottoposti a un nuovo impiego prima di essere abbandonati alla corrente del fiume"3. E ad Orléans, in cui più di millequattrocento persone, fra uomini donne e bambini, furono massacrati in tre giorni, la degradazione generale giunse a tal punto che perfino i professori universitari non si lasciavano sfuggire l'occasione di saccheggiare le biblioteche dei loro colleghi e allievi che erano stati uccisi 4.

L'età di Luigi XIV, le roi soleil, fu in questo di poco inferiore al secolo sedicesimo. Durante gli anni del suo regno e i successivi, vissero figure come Montesquieu, Voltaire, Chénier, l 'Abbé Prevost, Diderot, Beaumarchais, e Rousseau. Tuttavia, accanto a costoro, troviamo anche individui come Marshal de Montreval il quale si inquietò tanto per essere stato interrotto mentre pranzava dalla notizia che centocinquanta Ugonotti stavano pacificamente cantando dei salmi in un mulino di Carmes, fuori Nimes, che irruppe sul posto coi suoi soldati massacrando tutti, benché il gruppo fosse composto esclusivamente di vecchi e di bambini. "Un certo numero di dragoni, con la spada in mano, penetrarono nel mulino, colpendo quanti capitavano a tiro, mentre gli altri soldati restarono in agguato al di fuori, sotto le finestre, infilando con la punta della spada quanti si gettavano di sotto per sfuggire al massacro. Ma presto la strage stancò i carnefici, e per liquidare l'affare più in fretta il Marshal, che era impaziente di ritornare al suo pranzo, dette ordine di dar

1 ALEXANDRE DUMAS , Celebrated Crimes, P. F. Collier and Son, New York, 1910, vol. 2, pp. 425-9.

2 HENRY M. BAIRD , History of the Rise of the Huguenots, Hodder and Stoughton, London, voi. I, p. 501.

3 Ibidem, p. 517.4 Questo episodio è raccontato da Johann Wilhelm, von Botzheim, uno

studioso tedesco che frequentava l'Università di Orléans, il quale, dopo aver deplorato una condotta tanto meschina, fa capire chiaramente che i suoi stessi libri erano andati a finire "negli scaffali di Laurent Godefroid, professore delle Pandette, mentre l' intera biblioteca di suo fratello Bernhard si trovava negli scaffali del suo vicino di casa, il dr. Beaupied, professore di diritto canonico" ( ibidem , p. 570).

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fuoco al mulino"1. Poche settimane più tardi, lo stesso Montreval, eseguendo ordini del re2, diretti a "sradicare l'eresia", usò un sistema di rappresaglia che fu poi reso famoso dalla distruzione del villaggio ceco di Lidice ad opera dei nazisti, radendo al suolo ben 466 fra città sedi di mercati, villaggi e piccoli centri abitati, con uno sterminio totale di 19.500 persone. E lo stesso Luigi XIV, il centro e il simbolo di una età tanto raffinata, ordinò atrocità che certamente avrebbero meritato l'interessamento degli sbalorditi accusatori di Norimberga. Dobbiamo a lui l'elegante frase "saccheggiate il Palatinato", che gli assertori occidentali della teoria culturale dovrebbero tener ben presente di tanto in tanto, quando parlano dei barbari con tanto distacco.

Sotto Napoleone, la cultura e la brutalità continuarono a procedere di pari passo, secondo il modello che ormai conosciamo. Furono inventati nuovi mezzi di sterminio come i famosi étouffoirs , che eran delle casse di legno piene di zolfo ardente in cui venivano chiusi i negri catturati mentre combattevano per la liberazione di Saint Dominique. Gettate in mare, le vittime morivano per asfissia o per annegamento. Poiché le onde sospingevano i cadaveri sulla spiaggia, quei miseri resti venivano dati in pasto ai cani, per tutelare l'igiene3.

E non più tardi del 1945, i Francesi, sempre cosi orgogliosi delle glorie della loro civiltà, si vendicarono dell'uccisione di un certo numero di famiglie francesi rimaste isolate nelle mani di compatrioti arabi, "sterminando intere comunità", uccidendo "migliaia di uomini, donne e bambini che non avevano niente che fare con tali atti di violenza"4.

Questo parallelismo apparentemente strano fra il progresso della civiltà e il numero sempre crescente di atti di barbarie, lungi dal limitarsi all'Italia e alla Francia, è un tratto caratteristico della storia di tutti i popoli. Durante il periodo di massimo sviluppo della

1 ALEXANDRE DUMAS , op. cit. , vol. 2, p. 496.2 A volte si sente dire che la particolare depravazione delle atrocità

tedesche sotto il nazismo risiede nel fatto che i Tedeschi sono stati i primi ad elevare lo sterminio di massa al livello di una polizia di Stato ufficialmente riconosciuta. Che ciò sia vero è fuori dubbio. Ma in ciò furono preceduti da tutti i governi responsabili di aver dato delle direttive come quelle del re francese "per sradicare l'eresia", o altre menzionate in questo capitolo.

3 STEPHEN ALEXIS , Black Liberator, Macmillan, New York, 1949, p. 211.4 Richmond (Virginia), "Times Dispatch", 8 giugno 1945.

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letteratura anglo-latina nel tredicesimo secolo, troviamo, per esempio, che Geoffrey, padre di Enrico II d'Inghilterra, compi, ai danni del clero di Séez che aveva proceduto all'elezione di un vescovo senza prima assicurarsi il suo consenso, ciò che Edward Gibbon definì un singolare atto di crudeltà. Per punizione, l'allora signore di Normandia fece castrare tutti i membri del Capitolo della Cattedrale, compreso il vescovo eletto, "e si fece portare su un piatto tutti i loro testicoli". Gibbon commenta in questo modo l'episodio: "Essi avevano il diritto di lamentarsi della sofferenza e del pericolo di morte che correvano; a parte questo, dato che avevano fatto il voto di castità, tale operazione, in fondo, non fece che spogliarli di un tesoro superfluo" 1.

Pochi secoli più tardi, quando, durante il periodo aureo della Regina Elisabetta, la civiltà inglese raggiunse il suo apice con poeti come Marlowe, Lodge, Ben Jonson e Shakespeare, essa produsse anche per usare i termini dell'Enciclopedia Britannica : "teste calde sempre in cerca di guerre" come Hawkins, Drake, Raleigh, e "un mucchio di altri che non conobbero tregue di sorta". Mentre in Inghilterra venivano scritte alcune fra le più famose opere poetiche del mondo, tale paese conosceva all'interno una serie impressionante di condanne a morte, mentre si abbandonava a frequenti atti di pirateria sui sette mari e ad aggressioni sui cinque continenti, come raramente fu dato riscontrare nei suoi periodi di minore civiltà. Un secolo più tardi, si ebbe un'epoca ancora una volta illustrata da uomini eccezionali come Milton, Herrick Dryden, Locke e Newton. Ma accanto ad autentici capolavori della cultura, troviamo di nuovo atti di barbarie come gli incidenti noti agli Scozzesi sotto il nome di Killing Time , l 'invenzione di terribili strumenti di tortura come il thumbscrew , gli stermini in massa come il massacro di Glencoe nel 1691, o un classico esempio di genocidio come l'espulsione dell'intera popolazione di Acadia dalla sua terra natia. Durante l'ultima fase di questa deportazione, nel 1755, il Governatore della Nuova Scozia, Lawrence, non soltanto permise ai suoi soldati di comportarsi con quello sventurato popolo a loro piena discrezione "ma impartì ad essi l'ordine specifico di perseguitarlo il più possibile"2.

1 EDWARD G IBBON , The History of the Decline and Fall of the Roman Empire , Methuen, London, 1900, vol. 7, p. 216 n.

2 GEORGE P. B IBLE , The Acadians, Ferris and Leach, Philadelphia, 1906, p. 95.

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La storia non è cambiata fino ai nostri giorni, e ha seguito sempre la stessa falsariga. Non c'è bisogno di ricordare le ben note atrocità dei fascisti, nazisti e comunisti, i loro metodi polizieschi, i loro campi di concentramento, i loro forni crematori. Questi misfatti furono attribuiti a mancanza di civiltà e sotto questo aspetto apparvero comprensibili. Ma gli esempi più significativi riguardano le atrocità contemporanee perpetrate da popoli generalmente considerati civili, le quali non trovano una valida spiegazione nella teoria culturale e che perciò, salvo per scopi di propaganda ostile, sono state solo raramente menzionate. A questo proposito, si potrebbe citare il caso dell'ordine del brigadiere generale Jacobs H. Smith dell'esercito degli Stati Uniti, emanato durante la campagna americana di pacificazione delle Filippine, e che fissava le direttive per una spedizione punitiva contro l'isola di Samar. "Non voglio prigionieri" egli disse. "Voglio che uccidiate e bruciate tutto: più ucciderete e brucerete, e più io sarò contento... L'interno di Samar deve essere ridotto a un deserto". Quando gli chiesero "l'età dei bambini che potevano essere risparmiati" il generale Smith rispose "dieci anni". In seguito, egli fu condannato "all'ammonimento da parte dei suoi superiori" 1. Tutto questo accadeva nel 1901. Nel 1919, il generale Dyer dell'esercito britannico, compiendo atti di rappresaglia per reprimere alcuni torbidi locali nel Punjab, condusse un drappello di soldati in una località vicina alla città di Amritsar, ove si era radunata una folla di cinquemila indiani, e ordinò di aprire il fuoco senza preavviso; uccise cinquecento persone, ne ferì, secondo il suo stesso calcolo, "circa un migliaio, lasciando morti e feriti sul posto, abbandonati a loro stessi, e partì pienamente soddisfatto di quel che aveva compiuto" 2. Si trattava forse di un'età barbara ? Niente affatto : era l'epoca in cui, a Londra, operavano luminari della letteratura come Bernard Shaw, Max Beerbohm e Yeats, in cui i miti Fabiani cominciavano a far sentire profondamente la loro influenza nelle correnti del pensiero britannico, e in cui le Università di Oxford e di Cambridge stavano attraversando uno dei più brillanti periodi della loro storia.

Messe a confronto con le gesta barbariche dei popoli civili, le atrocità dei barbari sembrano perdere tutto il loro significato. E per quanto concerne le guerre, si può quasi affermare che, al giorno

1 A. FRANCK REEL, The Case of General Yamashita, The University of Chicago Press, Chicago, 1949, p. 109.

2 "The Nation" (New York), 24 gennaio 1920, p. 121.

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d'oggi, gli unici popoli che rifuggono da questa primitiva forma di attività sociale non siano i più civili ma i più arretrati. Tenendo conto di queste considerazioni, si può certamente affermare che la teoria culturale della miseria sociale, che ancor oggi è sostenuta da autorevoli scrittori, che ha ispirato numerose campagne di epurazione e di rieducazione, e che ha condotto alla istituzione di enti pieni di buoni propositi come l'UNESCO, getta ben poca luce sui problemi che essa intendeva risolvere; e che la diffusione della civiltà, sia questa orientale o occidentale, greca o anglosassone, se può avere un valore per lo sviluppo della letteratura e del sapere umano, difficilmente può giovare al benessere sociale e alla causadella pace.

4. La teoria nazionale della miseria sociale.

Vi e infine un'ultima teoria che merita in questa sede un'analisi approfondita ed è quella che potremmo chiamare la teoria nazionale della miseria sociale . Essa rappresenta un tipico sottoprodotto di particolari momenti storici caratterizzati da un prolungato stato di guerra. L'atmosfera di continua sofferenza creata da sterili lotte che si protraggono interminabilmente come malattie croniche, sembra a un certo punto far sorgere spontaneamente l'idea che la causa principale della miseria umana non sia l'ambizione di chi comanda, né il sistema ideologico o la forma di civiltà a cui si ispira il nemico, ma piuttosto la sua stessa razza. Allora, a un più attento esame, si trova il modo di mettere in risalto il fatto che il popolo di cui si discute è per natura destinato a recar danno. Si scopre che esso, fin dai tempi più remoti, ha sempre mostrato un grado di ferocia e un istinto verso l'aggressione che non ha mai trovato l'equivalente presso altri popoli. Un riesame della storia sembra improvvisamente convincerci che il nemico di oggi è il nemico di sempre, e col protrarsi della guerra la sua malvagità ci appare sempre maggiore. Alla fine, si arriva al punto che la condanna di queste perfide tendenze naturali non è soltanto appannaggio di una propaganda ostile: gli studiosi si adoprano a dimostrare la perfidia collettiva del popolo incriminato, i giuristi ne individuano la responsabilità collettiva, e gli uomini politici pensano che, nell'interesse dell'umanità desiderosa di pace, la sopravvivenza di popoli simili non può essere più a lungo tollerata. Quando si

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raggiunge questo stadio, la soluzione della maggior parte dei problemi che affliggono la società non può che apparire semplicissima: dato che sarebbe inutile rieducare i vinti, essi debbono essere eliminati. Delenda Carthago.

Come le altre teorie, anche questa sembra soddisfare in pieno per la spiegazione che fornisce dei fenomeni che cerca di interpretare. Però, anch'essa, pur rispondendo ad alcune domande, ne lascia moltissime altre senza risposta. In piena Seconda Guerra Mondiale, tale teoria forniva una plausibile spiegazione delle ragioni che ispiravano la condotta delle Potenze dell'Asse, e in particolare della Germania. Ma quando ci si domanda perché una condotta simile sembra caratterizzare moltissimi altri popoli, inclusi quelli che si compiacciono di considerarsi per natura amanti della pace, la teoria in questione comincia a trovarsi in difficoltà. E le sue risposte diventano del tutto confusionarie quando, in momenti di entusiasmo in cui si applicano misure draconiane maturate nell'atmosfera di ozio mentale e di impulsività che caratterizza una lunga guerra, ci si rende conto, all'improvviso, che il nemico storico non è quello vinto, ma l'alleato che astutamente si è schierato dalla parte del vincitore. Ma fino a quando non giunge questo momento, le argomentazioni di tale teoria sembrano resistere a qualsiasi sfida.

Quali sono le premesse su cui si basa la teoria nazionale? Esse sono due, una biologica, l'altra storica. Come abbiamo già detto, la prima parte dal principio che certe virtù, come l'ardente desiderio di pace, siano delle qualità naturali di cui alcuni popoli possono essere sprovvisti. La seconda premessa poi, non è altro che la conferma, sul piano storico, della prima.

a) La biologia dell'aggressione

Occupiamoci per ora della premessa biologica, e limitiamoci a illustrare l'esempio meglio documentato della teoria nazionale: grande importanza si attribuiva, al fatto che i Tedeschi fossero noti nella storia come un popolo che esaltava la forza bruta e il militarismo. Questa osservazione può servire a spiegare gli eccessi compiuti da tale popolo? Forse sì. Ma la domanda che veramente interessa è un'altra e deve essere cosi posta: questa tradizione militarista del popolo germanico lo ha reso veramente diverso dagli altri? Oppure esso ha mostrato queste qualità innate non perché gli fossero peculiari ma semplicemente perché esse sono caratteristiche

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generali della natura umana? Se questa seconda tesi fosse quella esatta, la teoria nazionale, con le sue ampie conclusioni e soluzioni, perderebbe almeno la metà del suo fondamento. Ed effettivamente sembra che sia proprio questa la tesi giusta, come già osservò Cicerone nelle sue Leggi (I, 10) scrivendo che "nessuna cosa è tanto simile a un'altra e corrisponde ad essa esattamente, quanto gli uomini l'uno rispetto all'altro" e che "qualunque sia la definizione che noi possiamo dare dell'uomo, essa sarà applicabile a tutti gli uomini. Questa è una prova sufficiente che non esiste fra uomo e uomo nessuna differenza di specie; se una tale differenza esistesse, una sola definizione non sarebbe applicabile a tutti gli uomini".

Ma non contentiamoci di quel che dice Cicerone nel valutare l'universalità di quegli atteggiamenti umani che sembrano stranamente condizionati da fattori biologici e che, quando ne sperimentiamo le dolorose conseguenze, ci appaiono come caratteristici soltanto della corrotta razza dei nostri nemici. Cerchiamo invece di approfondire il problema con le nostre proprie forze. Che dire per esempio del nostro personale atteggiamento nei confronti dell'aggressività? Prescindendo per ora dal distinguere tra Americani, Inglesi, Francesi o Tedeschi, possiamo affermare che raramente noi abbiamo dimostrato nei confronti dell'aggressività un'avversione veramente sentita. Al contrario, collettivamente e individualmente, una gran parte di noi si è mostrata spesso orgogliosa del proprio spirito aggressivo. La realtà è che oggi noi tendiamo a criticare non tanto l'aggressività quanto la mitezza d'animo di chi ama la pace. Non si è mai visto un uomo d'affari fare un'inserzione pubblicitaria diretta a cercare un propagandista o un impiegato pacifico, umile e modesto. Si pensa che il requisito capitale per questo genere di lavoro sia l'aggressività, e una gran parte di noi non esita a dichiararlo apertamente. Non si è mai vista una vera donna, anche nelle società che odiano la guerra, esprimere il desiderio di avere come marito un uomo pacifico e amante del quieto vivere, capace di circondarla di frasi gentili e di versi. Quello che essa quasi sempre pretende da lui, è che sia forte e aggressivo, e se sbatte i tacchi, tanto meglio. E le masse popolari, che hanno sempre avuto spirito femminile, rivelano gusti dello stesso genere. "I popoli più civili del mondo — scrive il filosofo francese Julien Benda — quando si riferiscono a questioni amorose parlano di conquiste, attacchi, assalti, assedi, difese, disfatte e capitolazioni, collegando in tal modo chiaramente l'idea dell'amore a quella della

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guerra"1.Se così non fosse, apparirebbe paradossale il fatto che moltissimi

popoli, mentre celebrano i creatori della loro civiltà con oscure lapidi e statue poco appariscenti, esaltano gli eroi delle loro imprese aggressive con giganteschi archi di trionfo, monumentali mausolei, piramidi che arrivano alle stelle e colonne che sfidano la magnificenza divina. Shakespeare, Dante, Voltaire, Goethe, o Poe, possono certo avere, nei loro rispettivi paesi, i loro indisturbati angolini. Ma cosa sono questi di fronte ai grandiosi monumenti che gli Inglesi hanno eretto in onore dell'Ammiraglio Nelson, i Francesi in onore del Generale Napoleone, i Tedeschi in onore del Generale Arminio, o gli Americani in onore del Generale Washington? Questa è la ragione per cui i monarchi inglesi, che sono cosi occupati nel visitare le Accademie militari e nel deporre corone di fiori sulle tombe di soldati noti ed ignoti, hanno atteso l'anno di grazia 1950, per decidersi a visitare, per la prima volta, il luogo di nascita di Shakespeare, che è il loro più grande poeta drammatico 2.

A testimoniare questa sconcertante somiglianza delle nostre più intime tendenze non vi sono soltanto i monumenti, ma anche, e in misura ancora più significativa, i nostri animali araldici. In questo campo diamo veramente l'impressione di svelare quella che noi stessi consideriamo la nostra vera natura. Difatti, si può dire che quasi tutti i popoli, indipendentemente dal loro carattere pacifico o aggressivo, abbiano un punto di sicura somiglianza : quasi tutti hanno scelto come stemma rappresentativo del loro spirito nazionale un animale da preda, mostrando così di considerarsi più adeguatamente rappresentati da un simbolo di ferocia che non da uno di mansuetudine. L'Italia preferisce la vorace lupa al cane fedele, l'Inghilterra e la Prussia il ringhiante leone al carezzevole gatto, e la Russia il pesante, goffo ma temibile orso al veloce ed elegante cavallo della prateria La monarchia degli Asburgo una delle più illustri dinastie del mondo, non soddisfatta di un aquila con una testa sola, ne ha scelta una a due teste per renderla ancora più selvaggia. Altri hanno un debole per le pantere, i falchi, i serpenti, o perfino i draghi. Gli Stati Uniti, ad esempio, avrebbero potuto

1 Citato nell 'articolo di S IMONE DE BEAUVOIR "Sexual Initiation of Women", in a Anvil" New York, inverno 1950, p. 24, dall 'Uriel Report.

2 Il "New York Times" del 21 aprile 1950 riferisce: "Si tratta della prima visita fatta da un re inglese alla città nativa di Shakespeare 386 anni dopo la nascita del poeta".

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scegliere come simbolo l'allodola, un grazioso uccello che canta sempre e che sembra sempre in cerca di felicità. Invece, hanno scelto una particolare specie d'aquila a proposito della quale cosi si esprimeva iscrizione dello zoo di Buffalo: "Quest'aquila non pesca mai per suo conto fin tanto che può strappare la preda al più abile e attivo falco pescatore: essa è il nostro emblema nazionale". Al che il "New Yorker" commentava: "Insomma, tale accostamento è fuori posto"1. La sola eccezione, o press'a poco, è rappresentata dalla Francia che anch'essa, però, non senza significato ha scelto come simbolo il gallo conquistatore. Anche in questo caso, infatti, la scelta può essere dovuta al fatto che il gallo, nei suoi slanci amorosi, è costretto ad essere un eterno lottatore.

Comunque, non c'è molto da meravigliarsi di questi gusti, perché, malgrado il turbamento che questa affermazione può arrecare agli assertori della teoria nazionale, niente sembra più intimamente caratterizzare la natura umana quanto l'aggressività e il piacere che l'uomo prova nell'abbandonarsi ad essa. Tra i nostri primi amori sono i fumetti, un'invenzione degli Americani, popolo apparentemente pacifico. Essi sono così popolati di guerrieri di ambo i sessi, che i loro eroi, dopo aver conquistato tutta la terra, da un pezzo si sono messi a conquistare stelle e pianeti. I soldatini di piombo sono tra i nostri primi giocattoli, e se un bambino non dimostra interesse per essi, noi non lo additiamo come esempio, sottolineandone la differenza di gusti rispetto ai bambini di un paese nemico che giocano alla guerra, ma ci affrettiamo a condurlo da uno psichiatra per accertare se sia malato. Io ho un simpatico amichetto di sette anni il quale, dopo aver armeggiato per giorni e giorni intorno alla mia macchina da scrivere, scrisse, come prima sua lettera, queste parole che sono un bell'esempio del nostro senso innato della aggressività: "caro Bill quando mi restituirai i miei cinque cents? se non me li porti ti faccio fuori. Ciao tommy". Suo padre era un dolcissimo poeta inglese il quale avrebbe giurato che la gente del suo paese non sarebbe mai stata capace di fare una cosa simile. Un bambino americano di Washington, D. C., indirizzò la seguente lettera a Santa Claus: "per favore, mandami due bombe atomiche, un paio di pistole e un buon coltello dalla lama affilata" 2. E Edmund Gosse, il famoso critico inglese, ci racconta come un'oscura ma molto bellicosa poesia abbia potuto "infiammarlo"

1 "New Yorker", 8 febbraio 1947.2 "Time", 25 dicembre 1950.

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quando era bambino, e come, in particolare, i seguenti versi riassumessero il suo "ideale del Sublime":

Crepitavano i moschetti, balenavano le spade si spaccavano gli elmetti, sanguinavano le strade, s'addensavano le nubi, minaccioso il tuon rombava mentre a Wellwods, fra le selve, si moriva e si pugnava 1.

Anche negli anni della maturità, la gente di tutti i paesi e di tutte le professioni sembra conservare questi istinti bellicosi. Clement Attlee, il simpatico leader del partito laburista britannico, confessa che, quando era studente a Oxford, si era lasciato affascinare dalla storia del Rinascimento e nutriva ammirazione per gli spietati tiranni di quel tempo 2. Goethe, il grande umanista e poeta tedesco , "incitava alla guerra" 3. Sir Francis Bacon, il grande filosofo inglese che una volta assurse anche alla carica di Gran Cancelliere del Regno, pensava : "il primo requisito per la grandezza di un popolo è quello di possedere una stirpe di guerrieri", e aggiungeva : "nessuno può rimanere in buona salute senza esercizio, né un corpo fisico né uno politico, e per un regno o uno stato, il vero esercizio consiste in una guerra giusta e onorevole" 4. E negli Stati Uniti, si elogiano le virtù guerriere anche se tale elogio non proviene da individui di cosi alta levatura. A dispetto della nostra orgogliosa fiducia in governi di tipo non militare, noi abbiamo eletto all'alta carica della Presidenza degli Stati Uniti non meno di undici generali: Washington, Jackson, W. H. Harrison, Taylor, Pierce,

1 EDMUND COSSE , Father and Son , Penguin Books, London, 1949, p. 542 "Time", 6 febbraio 1950, p. 19.3 "The Listener", l'organo ufficiale della British Broadcasting Corporation ,

ha giudicato questo fatto come altamente indicativo della naturale mentalità bellicistica dei Tedeschi. In un editoriale per la commemorazione del duecentesimo anniversario di Goethe, tale periodico sottolineava il fatto che Goethe "aveva servito una volta come Ministro della Guerra il Duca di Weimar e che era essenzialmente un tedesco e possedeva la maggior parte delle qualità e quasi tutti i difetti del carattere tedesco... Nipote di un locandiere, egli apprezzava l'aristocrazia; funzionario di un principato senza difesa, consigliava la guerra". ("The Listener", 25 agosto 1949, p. 300). Questo giudizio offre una chiara esemplificazione della teoria nazionale nella sua formulazione relativa alla Seconda Guerra Mondiale.

4 FRANCIS BACON, Essays and New Atlantis , Walter Black, New York, 1943, p. 121.

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Johnson, Grant, Hayes, Garfield, Arthur e Eisenhower. Siamo stati superati in questo soltanto dagli antichi romani. In realtà, noi attribuiamo cosi grande importanza a una brillante carriera militare, che essa ha incominciato ad assumere il valore di uno speciale censo anche in settori della vita sociale che non hanno niente che fare con le armi. Si può dire che finora si siano sottratti a questa influenza soltanto le chiese e i sindacati. Nelle nostre università, per esempio, la tendenza esistente non lascia adito a dubbi: alcune di esse, nello scegliere le massime autorità accademiche, hanno preferito i generali agli studiosi. Le lauree ad honorem in filosofia, poi, vengono conferite in numero sempre maggiore a persone il cui solo merito è quello di aver percorso con successo e con senso di lealtà la carriera militare. Uno studio fatto su tale argomento e basato sui dati delle sette maggiori Università americane — Harvard, Smith, Columbia, Wisconsin, California, Nebraska e North Carolina — ha dimostrato che il conferimento di lauree ad honorem a generali e ammiragli ha registrato "il più forte incremento dopo la guerra". Essi hanno beneficiato di tali concessioni nella misura del io per cento del totale, mentre il clero, composto da chi dedica la propria vita alla propagazione di un vangelo d'amore e di pace, ha subito, secondo i dati di tale studio, "un forte regresso; un secolo fa, gli uomini di Chiesa assorbivano il 45 per cento delle lauree ad honorem , dopo la Seconda Guerra Mondiale tale percentuale è scesa al 5 per cento" 1. La storia della Prussia, meglio della nostra, offre abbondanti argomenti a favore di questa tesi.

b) Storia dell'aggressione.

Così, se prendiamo in considerazione gli istinti meno nobili dell'anima umana, ci è difficile poter distinguere fra popoli amanti della pace ed altri fomentatori di guerre. I primi, considerati da un punto di vista naturalistico, sono stimolati dall'istinto del militarismo non meno di coloro che sono passati alla storia come aggressori. Ed anche dal punto di vista politico la situazione non è molto diversa. Difatti, se noi consideriamo la seconda premessa della teoria nazionale, riscontriamo facilmente che la storia conferma i dati della biologia. Però, contrariamente alla prima affermazione di tale teoria, la storia, invece di dimostrare che alcuni

1 "Time", 22 gennaio 1951.

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popoli hanno un istinto aggressivo maggiore di altri, ci prova soltanto, ancora una volta, che siamo tutti uguali.

Questa affermazione può apparire sorprendente alla luce dei dati e delle cifre che si riferiscono alla Seconda Guerra Mondiale, i quali dimostrano, in modo inoppugnabile, che la Germania, che allora era il nostro principale nemico, aveva raggiunto, in aggressività, un livello difficilmente uguagliabile. Difatti, noi abbiamo vissuto una tale esperienza della brutalità di questo popolo che, a dispetto dell'attuale cambiamento di fronte, poche cose continuano ancora a terrorizzarci quanto le cifre che si riferiscono a quelle esperienze. Come i Francesi non mancano di sottolineare con un'apprensione che non è diminuita col passare degli anni, i Tedeschi che noi ci sforziamo di avere come alleati sono gli stessi che hanno invaso la Francia per ben tre volte in meno di un secolo. E, come altri aggiungono, i Tedeschi si sono resi responsabili di cinque guerre durante gli ultimi settantacinque anni, per non parlare poi delle altre tre evitate per poco, le quali, se avessero avuto il loro corso, avrebbero fruttato ai Tedeschi un primato di una guerra ogni otto anni per quanto riguarda gli ultimi tre quarti di secolo. Si possono trascurare le cifre?

Evidentemente no, ma è lecito integrarle. Se è vero che i Tedeschi, durante gli ultimi tre quarti di secolo hanno scatenato cinque guerre, è altrettanto vero che i Francesi, nello stesso periodo, ne hanno fatte diciannove e gli Inglesi ventuno. Anche eliminando dal calcolo le guerre che questi due paesi hanno combattuto contro la Germania, i Francesi sarebbero sempre in testa con quindici guerre e gli Inglesi con diciannove 1. In tal modo, mentre la Germania, se avesse potuto dar corso alle tre guerre evitate per miracolo, avrebbe fatto una guerra ogni otto anni, la Francia e

1 Si veda la compilazione preparata a cura della Carnegie Endowment for International Peace , Memoranda Series, N. i, Washington, D.C., i° febbraio 1940. Tanto per dare un esempio: fra il 1861 e il 1945, a parte la guerra franco-prussiana e le due guerre mondiali, la Francia si è trovata coinvolta nelle seguenti guerre: 1861-7 col Messico, 1873-4 col Tonchino, 1867 contro Garibaldi in Roma, 1881-2 con Tunisi, 1883-5 col Tonchino, 1884-5 con la Cina, 1883-5 col Madagascar, 1890-4 col Sudan, 1893 col Siam, 1893-4 col Marocco, 1894 col Tonchino, 1895-7 col Madagascar, 1900 nell ' insurrezione dei Boxer, 1897-1912 col Marocco, 1925-6 nella guerra del Rif. Si può aggiungere che nessuna di queste aggressioni coinvolse grandi potenze, il che non è né un segno di intenzioni pacifiche, né un complimento.

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l'Inghilterra, che a quanto pare hanno potuto fare il loro comodo, hanno regalato all'umanità una guerra ogni tre anni e mezzo, se consideriamo i due paesi separatamente, e una guerra ogni anno e mezzo se invece li consideriamo insieme. E se i Tedeschi hanno invaso la Francia, tre volte in meno di un secolo, la Francia, fra il 1792 e il 1813, cioè in meno di un quarto di secolo, ha invaso il territorio tedesco dodici volte. Il fatto è che, se i Francesi non avessero avuto questa vera e propria mania dell'invasione, il movimento per l'unificazione tedesca, che incominciò nel 1815 e che condusse alle tre invasioni tedesche della Francia tanto deplorate e cosi a lungo rinfacciate, non avrebbe mai trovato lo stimolo per attuarsi. Nella situazione attuale, al ritmo di tre invasioni "in meno di un secolo", la Germania avrebbe bisogno di altri duecentocinquant'anni per mettersi alla pari con la Francia.

Per accertare chi sia il vero aggressore è opportuno estendere la nostra analisi a un periodo storico più ampio, e non limitarla a un'epoca che va da settantacinque a centocinquant'anni, la quale potrebbe trarci facilmente in inganno. Il professor P. A. Sorokin, della Università di Harvard, ha elaborato un prospetto che, prendendo in considerazione i vari paesi di civiltà occidentale, mostra la potenza dei loro eserciti durante gli ultimi nove secoli, cioè dal dodicesimo al diciannovesimo secolo. Benché la potenza degli eserciti non costituisca sempre una prova decisiva della aggressività di un determinato Stato, è certo che le campagne di conquista intraprese senza il sostegno di adeguate forze militari avrebbero scarse probabilità di successo. Pertanto, il prospetto tracciato dal professor Sorokin è di notevole importanza nello studio del militarismo aggressivo. Questo prospetto, invece di indicare un unico Stato come dotato di maggiore spirito aggressivo, mettein evidenza che, a questo riguardo, "la posizione dei vari paesi varia continuamente, tanto che il primo posto è occupato ora da uno Stato ora da un altro"1. La Germania, che saremmo indotti a giudicare

1 P. A. SOROKIN, Social and Cultural Dynamics , 1937, vol. 3, p. 348. Il prospetto elenca per ogni secolo studiato prima il paese con l'esercito più grande e poi quello con l'esercito più piccolo:XII. Russia, Inghilterra, Francia, Austria.XIII. Russia, Inghilterra, Francia, Austria.XIV. Inghilterra, Francia, Russia, Austria.XV. Inghilterra, Polonia, Francia, Russia, Austria, Spagna.XVI. Spagna, Francia, Austria, Polonia, Inghilterra, Russia, Olanda, Italia.XVII. Austria, Francia, Spagna, Polonia, Olanda, Russia, Inghilterra,

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come lo Stato che più spesso di altri ha occupato il primo posto, in realtà è apparsa come una potenza militare di primo ordine soltanto nel corso degli ultimi tre secoli, durante due dei quali, peraltro, è stata superata dalla Francia. A conclusioni non dissimili si giunge esaminando il problema da un punto di vista ancora diverso, cioè estendendo la nostra analisi oltre gli ultimi centocinquanta anni e il Medio Evo, fino all'antichità. Paragonando questa volta la percentuale degli anni di guerra al numero complessivo degli anni presi in considerazione, il professor Sorokin è arrivato alla conclusione che "la Germania ha avuto la più piccola percentuale di anni di guerra (28 %) a differenza della Spagna che ha avuto la percentuale più elevata (67 %), mentre gli altri paesi hanno occupato posizioni intermedie" 1. Ora, anche ammesso che il principale Stato aggressore del mondo non debba necessariamente far registrare la percentuale più alta, si può con eguale certezza escludere che abbia la percentuale più bassa.

In conclusione, esaminando i tre gruppi di cifre che si riferiscono, il primo al periodo compreso fra gli ultimi settantacinque e gli ultimi centocinquant'anni, il secondo agli ultimi nove secoli, e il terzo alla storia di tutta la civiltà occidentale, si constata che i Tedeschi, malgrado la loro temibile fama di guerrieri, hanno fatto registrare dei dati che non soltanto sono migliori di quelli sospettati, Italia.

XVIII. Austria, Francia, Russia, Inghilterra, Germania, Polonia, Spagna, Olanda, Italia.XIX. Francia, Russia, Germania, Spagna, Austria, Inghilterra, Italia, Olanda.XX. Russia, Germania, Francia, Inghilterra, Austria, Italia, Spagna, Olanda.

1 Ibidem , p. 352. La completa lista di Sorokin è la seguente : Spagna 67%, Polonia e Lituania 58 %, Grecia 57%, Inghilterra 56%, Francia 50 %, Russia 46 %, Olanda 44 %, Roma 41 %, Austria 40 %, Italia 36 %, Germania 28 %. Prendendo in considerazione il fatto che la Francia era quasi continuamente coinvolta in guerre, il Duca di Sully, uno dei suoi più eminenti uomini di Stato, si esprime in questi termini: "La più superficiale conoscenza della nostra storia basta per convincere chiunque che non vi è stata mai una vera pace nel regno da Enrico III alla pace di Vervins; e, in breve, tutto questo lungo periodo potrebbe essere considerato una guerra di quattrocento anni di durata. Dopo questa analisi, dalla quale appare in modo incontestabile che i nostri re hanno ben raramente pensato a cose diverse dal fare la guerra, non possiamo essere che molto cauti nel conferir loro il titolo di sovrani veramente grandi" (Memorial of the Duke of Sully , Henry G. Bohn, 1856, voi. 4, p. 223).

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ma addirittura migliori di quelli relativi ad alcuni fra gli Stati ritenuti più pacifisti. Lo scopo di questi calcoli, però, non è quello di provare che i Tedeschi sono migliori di altri, il che certamente non e vero, né quello di dimostrare che noi possiamo ormai fidarci ciecamente delle mutate intenzioni dei nostri ex nemici, il che sarebbe azzardato. Con tali cifre, noi intendevamo semplicemente provare che la seconda premessa della teoria nazionale è infondata come la prima.

Questa analisi storica, per quanto breve possa essere, è tuttavia sufficiente per dimostrare che il ruolo di principale aggressore è relativo, nel senso che, invece di essere svolto sempre dallo stesso Stato, subisce un'ampia rotazione che interessa vari paesi. Ora e la volta degli Ateniesi, degli Spartani e dei Macedoni; ora è la volta degli Olandesi, dei Danesi e dei Portoghesi; poi viene il momento dei Francesi e degli Inglesi; infine, come è accaduto di recente, viene il turno dei Tedeschi e dei Russi; e, per quanto nei nostri riguardi il problema assuma un diverso significato, non è escluso che, un giorno o l'altro, sarà la volta di noi Americani. Anzi, secondo il giudizio dei Russi, nostri antichi compagni d'arme, i quali sono giunti a gratificarci degli appellativi di cannibali anglo-americani e di fomentatori di guerre atomiche, questo momento per noi sarebbe già giunto.

Per quanto i dati storici non si prestassero a equivoche interpretazioni, mi sono soffermato sugli argomenti della teoria nazionale più a lungo di quanto, date le circostanze, potesse sembrare giustificato. Ciò è dovuto in primo luogo al fatto che, a dispetto degli insegnamenti ricavati dalla realtà postbellica, la teoria in questione tende fatalmente a recuperare la sua piena forza persuasiva ogni volta che una guerra supera una certa durata. E in secondo luogo perché le sue premesse sono state prese tanto sul serio da un così rilevante numero di persone autorevoli e per un così lungo periodo di tempo, da non poter più essere considerate ormai come semplici acrobazie dialettiche di menti esaltate o di propagandisti. Tanto è vero che esse hanno fornito la base logica su cui i più eminenti uomini politici del nostro tempo, con l'appoggio di alcuni fra i più autorevoli pensatori politici, hanno cercato di edificare nientemeno che la pace perpetua. Simili concezioni hanno ispirato la filosofia di Yalta e di Potsdam, hanno condotto alla bonifica ideologica della Germania e alla proibizione di ricerche nucleari in quel paese, aprendo la strada a concezioni giuridiche

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come quella della colpa collettiva. Questi sono punti focali di azione e di pensiero che possono essere difesi soltanto sostenendo che esistano popoli i quali, a causa dei loro caratteri naturali, sono portati alla malvagità più di altri. Simili concezioni sono anche responsabili di clausole come quella del disarmo perpetuo del Giappone, che tale paese, per volontà dei suoi vincitori, è stato costretto a inserire nella propria Costituzione, con l'imbarazzante risultato che ora gli Alleati improvvisamente desiderosi di avere l'appoggio militare giapponese, per mantenere un minimo di coerenza, sono costretti a farne a meno.

Se il modo di ragionare degli Alleati si è dimostrato un po' meno controproducente nel caso della Germania, ciò non è dovuto a un preteso differimento delle decisioni politiche da prendere, ma alla favorevole circostanza che le misure di smantellamento, già previste da tempo, erano in questo caso di portata cosi vasta da rendere assolutamente improbabile la loro solenne consacrazione in un trattato non denunciarle. Tuttavia, anche nel caso della Germania, le argomentazioni della teoria nazionale si sono dimostrate cosi contraddittorie che molti dei suoi più accaniti assertori sognano da tempo di trovare qualche comoda giustificazione nel Quinto Emendamento.

Gli eventi hanno cosi dimostrato che la teoria nazionale, nel tentativo di spiegare la causa primaria della miseria sociale, non ha ottenuto risultati migliori dellealtre teorie sopra esposte. L'unica cosa che ha messo in chiaro è che, sia dal punto di vista biologico come da quello storico, un popolo vale l'altro in fatto di buone o cattive intenzioni. Tale teoria, invece di mettere a nudo significative differenze fra una nazione e l'altra, ha semplicemente confermato le idee di Cicerone sulla sostanziale somiglianza della natura umana. E non soltanto di Cicerone ma anche di Dio, il quale, contemplando le cose da lui create, giunse all'amara conclusione che, senza riguardo all'educazione e alla nazionalità, "la cattiveria dell'uomo era grande sulla terra, e ogni frutto dei pensieri della sua mente era soltanto male" (Genesi, VI, 5). La qual cosa significa che la proposta avanzata dagli assertori della teoria nazionale di sanare la miseria dell'umanità eliminando la nazione malefica, non avrebbe nessun risultato positivo, giacché come hanno ampiamente dimostrato gli sviluppi del recente dopoguerra, quando scompare dalla scena politica internazionale uno Stato aggressore, il suo posto viene occupato da coloro che,

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all'ombra di I qualsiasi sospetto, si facevano prima difensori di migliori cause, pur rimanendo sempre pronti a cogliere un'occasione più favorevole.

Stando cosi le cose, non abbiamo fatto nessun passo avanti nel tentativo di dare una soluzione al problema della causa primaria della miseria sociale, il quale è rimasto senza risposta. Infatti, se realmente noi siamo tutti uguali per quanto concerne la nostra tendenza alla malvagità, resta da spiegare come mai molti di noi, pur trovandosi in circostanze apparentemente simili, tuttavia reagiscono in modo diverso. Per quale motivo alcuni di noi, in determinate condizioni di civiltà, scrivono poesie, mentre altri che vivono in condizioni simili si divertono a tormentare il prossimo? Perché i capi responsabili della Jugoslavia comunista e della Spagna fascista opprimono la libertà dei loro popoli, mentre sul piano internazionale si alleano con i difensori della democrazia? Per quale ragione il Primo Ministro indiano, noto per il suo pacifismo, si mantiene in ottimi rapporti con Mosca e Pechino, mentre dimostra propositi aggressivi nei confronti dell'Hyderabad ? Tutto questo dipende forse da una mancanza di civiltà? Certamente no. Come abbiamo visto, le più feroci aggressioni e i crimini più mostruosi sono stati commessi proprio da nazioni all'apice del loro sviluppo. Si tratta forse di mancanza di cultura? È molto difficile. Le macchinazioni più diaboliche non sono concepite da analfabeti, ma dalle menti più raffinate. È forse una questione di ideologie, di sistemi economici, o di nazionalità ? Il fenomeno ha una portata troppo vasta perché ci si possa contentare di una tale spiegazione. La causa di tutto ciò, evidentemente, è rimasta ancora ignota.

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CAPITOLO SECONDO

LA TEORIA DELL'AGGRESSIONE FONDATA SUL POTERE

"La ferocia e la crudeltà degli uomini cresce col loro numero".

I viaggi di Gulliver

La miseria sociale come fenomeno inevitabile in presenza di condizioni critiche di grandezza. La crudeltà degli uomini proporzionata al loro numero. Le dimensioni sociali, la densità, l'integrazione e la rapidità di spostamento, come elementi di diffusione della criminalità. La mentalità criminale concepita non come causa ma come effetto della perpetrazione in massa di atrocità. La legge della sensibilità decrescente. Il significato delle grandezze critiche. Le condizioni critiche di potenza e di grandezza come causa di guerre. In che senso Nehru ha finito per diventare aggressivo come Hitler. Non ci indurre in tentazione. Il gusto del vandalismo. Perché i capi dell'Unione Sovietica erano al di là della sfera della ragione. La teoria del potere e della grandezza: una teoria materialistica ma non ateistica. Il suo significato come nuova interpretazione della storia. Il ruolo causale delle filosofie del potere. L'America costituisce un'eccezione alla regola?

Dato che, rifacendoci alle varie teorie prevalenti, non abbiamo ottenuto nessun risultato pratico nel tentativo di accertare quale sia la causa primaria della miseria sociale, cerchiamo ora di vedere a quali conclusioni ci porti il valutare nuovamente, da un diverso punto di vista, i dati di cui si è parlato nel precedente capitolo. E per semplificare il nostro compito, continuiamo per ora a concentrare la nostra attenzione sulla più significativa manifestazione interna ed esterna del fenomeno che ci siamo proposti di spiegare: intendo riferirmi agli atti di violenza commessi su larga scala in seno a certe società, e alle guerre che scoppiano fra una società e l'altra.

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1. La causa della brutalità sociale.

Per quanto concerne la misura delle atrocità socialmente commesse o tollerate, finora abbiamo potuto chiarire un fatto. Moltissimi Stati, a prescindere da fattori come quelli della razza, del grado di civiltà, delle ideologie, o del sistema economico, hanno finito per giungere a risultati che presentano una impressionante somiglianza. Ad esempio, esecuzioni in massa con relative sevizie sono state perpetrate in Germania dai nazisti, in India dagli Inglesi, in Francia dai Cattolici, in Russia ad opera di alcuni fra i principi più barbari, in Italia ad opera di alcuni fra i più illuminati. È difficile immaginare una maggiore diversità di condizioni ambientali. Tuttavia, se simili eccessi si verificarono ovunque, caratterizzando le varie fasi della storia umana, ciò significa che probabilmente, al di là di queste differenze, deve esistere un fattore comune. Questo comune denominatore, come vedremo, sembra esser rappresentato dalla semplice capacità fisica di commettere atti di violenza. Giungiamo dunque a quella che potremmo chiamare la teoria della miseria sociale fondata sul potere.

In parte, l'espressione è evidente di per se stessa, perché nessuno potrebbe perpetrare atrocità senza disporre del potere necessario per farlo. Ma la questione non è qui. Quel che si vuol sottolineare è che il principio è valido anche all'incontrano, cioè nel senso che chi ha il potere in mano finisce fatalmente per commettere delle atrocità.

Una tesi del genere può apparire eccessiva. È chiaro che non tutti coloro che hanno il potere in mano sono portati a farne un cattivo uso, ma quest'ovvia constatazione non inficia in alcun modo il valore del concetto esposto, ma semmai ci spinge a precisarne meglio il contenuto. Ci serviremo di un esempio. Una massa qualsiasi di materiale fissile non basta per provocare un'esplosione atomica, la quale si verifica soltanto in presenza di una massa critica: allo stesso modo, una quantità qualsiasi di potere non conduce necessariamente ad abusi, i quali si verificano soltanto quando il potere di cui si dispone ha raggiunto delle dimensioni critiche. Pertanto, potremmo chiamare la nostra teoria anche teoria atomica della miseria sociale , tanto più che, una volta raggiunte tali dimensioni, gli abusi si verificheranno spontaneamente , come avviene di una esplosione, atomica. Infine, siccome l'elemento decisivo non è tanto il potere in se stesso, quanto la grandezza di tale potere, la quale, come ben si capisce, dipende a sua volta dalla

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grandezza del gruppo sociale dal quale tale potere è generato, potremmo anche usare la denominazione di teoria della miseria sociale fondata sulla grandezza.

Ma quand'è che si può dire che il potere abbia raggiunto quella misura critica che porta all'abuso? La risposta non è difficile : quando esso è tale da garantire contro ogni forma di ritorsione. Ciò si verifica quando il potere fa sorgere in chi lo possiede la convinzione di non poter essere minacciato dall'esistenza di altre più vaste accumulazioni di potere. Siccome il volume critico del potere dipende dalla natura dei vari individui o gruppi, esso rappresenta una grandezza variabile nei vari casi, e questa osservazione avvalora l'ipotesi che la responsabilità degli atti criminosi non possa essere attribuita unicamente a fattori quantitativi, ma debba essere messa in relazione con fattori di diversa natura. In ogni caso, come il punto di ebollizione è basso per alcune sostanze ed alto per altre, cosi le dimensioni critiche del potere variano secondo gli individui o i gruppi. E parimenti, come l'aumento di temperatura finisce per condurre al punto di fusione anche i metalli più resistenti, cosi il continuo aumento del potere finisce fatalmente per abbrutire anche i popoli più equilibrati, anche se questa degenerazione non si avverte tanto dal punto di vista soggettivo quanto dal punto di vista delle conseguenze che provoca.

Tutto ciò significa che, sia come individui sia come gruppi, una volta raggiunto il punto critico, noi ci lasciamo prendere la mano dall'istinto della brutalità, nostro malgrado. Se le guardie carcerarie e gli ufficiali di polizia sono universalmente noti per la loro brutalità, ciò si spiega non perché essi siano peggiori di altri, ma perché, trattando coi reclusi affidati alla loro custodia, dispongono di un potere che ha raggiunto il livello critico. Al di fuori del loro lavoro, essi sono rispettosi, umili e arrendevoli come tutti gli altri. Allo stesso modo, i soldati che al mattino raccomandano la loro anima a Dio, sono capaci, al calar della notte, di abbandonarsi a saccheggi, violenze e furti, non perché essi siano improvvisamente cambiati, ma perché il caos che accompagna la conquista di una città, spesso offre loro quella pericolosa immunità che deriva dall'acquisizione di un potere che temporaneamente non incontra nessun freno.

Mentre alcune forme di attività sono intrinsecamente j suscettibili di condurre ad atti di violenza perché, a causa della loro stessa natura, presuppongono il ricorso a un potere che ha raggiunto il

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livello critico, le fonti pili pericolose di brutalità non sono quelle professionali o istituzionali, ma quelle fisiche. Intendo riferirmi alla forza, alla forza bruta. Giacché la forza bruta, la massa, non soltanto conduce al potere, ma, come l'energia, è il potere, un potere racchiuso nelle dimensioni stesse della materia.

Questo è il motivo per cui Gulliver, dopo essere stato abbandonato sulla spiaggia di Brobdingnag, la terra dei giganti, non a torto si preoccupava riflettendo che "la ferocia e la crudeltà degli esseri umani è proporzionata alla loro mole"1. Questo è pure il motivo che spiega come mai i bambini, senza perdere tutto l'incanto e l'innocenza della loro età, fanno, a piccoli animali, quello che mai oserebbero fare ad animali più grossi! Grazie alla loro quasi infinita superiorità di dimensioni, essi non sentono neppure di essere crudeli quando strappano le ali a una mosca o le zampe a una rana, proprio come gli orchi dei nostri racconti di fate i quali, secondo la descrizione che ne viene fatta, quando si mangiano gli uomini non dimostrano, di fronte a tale mostruosità, più rimorso di quanto provino gli uomini quando mangiano ostriche viventi.

Comunque, la forza individuale è una fonte di potere che ha minore importanza e che quindi solleva un problema sociale di minore gravità, dal momento che anche l'individuo più robusto non può essere molto più forte della maggior parte degli altri messi insieme. Ne deriva che esso, per poter dare libero sfogo ai suoi cattivi istinti, avrà normalmente bisogno di ulteriori fonti di potere, come di una personalità irresistibile, dell'appoggio di una banda, o del possesso di armi: tutti espedienti questi che sono destinati a potenziare la sua forza fisica e che, essi stessi, si risolvono in termini di forza fisica. Ma allora il potere di cui queste persone possono disporre tenderà ad avvicinarsi troppo a un punto in cui le dimensioni critiche divengono subcritiche, per cui costoro non potranno contare su un sufficiente margine di immunità per un periodo di tempo abbastanza lungo. Da ciò deriva la relativa infrequenza di atti criminosi come pure la relativa infrequenza dei casi in cui anche i delinquenti più incalliti si abbandonano ad attività criminali.

Ma vi è un caso in cui la potenza fisica supera inequivocabilmente il limite critico e si accumula in tali proporzioni che nessuna forza al mondo è in grado di opporle resistenza. Alludo all'immenso potere

1 JONATHAN SWIFT , Gulliver's Travels, Crown Publishers, New York, 1947, p. 88.

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collettivo di quell'organismo che oggi incontra tante adulazioni, cioè della massa popolare la quale, quando ha raggiunto un determinato sviluppo e una certa densità, assume un carattere anonimo offrendo quelle condizioni ideali in cui gli uomini, all'ombra di qualsiasi sospetto, possono accaparrarsi quantità critiche di potere, più di quanto sia possibile fare in gruppi sociali meno densi e quindi più esposti a un giudizio; anzi, a un certo punto, la massa stessa subisce una tale spontanea degenerazione che, accanto all'aumento della delinquenza individuale che prospera all'ombra delle sue oscure moltitudini, essa vede svilupparsi una propria e distinta forma di malvagità che dipende, in certo qual modo, dalle proporzioni che la massa ha raggiunto e non dalla natura delle molecole umane che la compongono.

Quando si arriva a questo punto, tutto diventa possibile e nulla si può evitare. Il problema allora non consisterà più nel domandarsi quanti delitti saranno commessi, ma nel vedere chi deciderà liberamente di essere lo strumento criminale delle leggi statistiche, le cui statuizioni hanno un valore così predeterminante che qualsiasi studioso, dopo aver calcolato il rapporto fra le dimensioni di una comunità e la densità e lo sviluppo della sua popolazione 1, è in grado di prevedere tutto, dal numero dei decessi, degli incidenti mortali e dei falsi allarmi d'incendio, fino ai minimi particolari, come per esempio il fatto che, a Chicago, nel giro di una trentina di giorni, "si verificheranno poco meno di mille furti con scasso. Circa cinquecento individui saranno assaliti e derubati sotto la minaccia di armi da fuoco o di altre armi pericolose. Una quindicina di persone... saranno assassinate. Trenta e più donne saranno attaccate e violentate"2.

Quindi, una società sovrappopolata, è per sua natura piena di pericoli, anche quando si trova in condizioni di relativa calma. Ma questo è niente rispetto alla minaccia che essa rappresenta quando comincia ad agitarsi collettivamente e, oltre a radunarsi in masse sempre più imponenti, come accade frequentemente in occasione di

1 Come chiariamo più oltre, la dinamicità di una popolazione è un fattore condizionante della sua densità, ed ambedue sono determinanti della grandezza di una determinata comunità. Come una moneta che circola più rapidamente ha l 'effetto di aumentare la quantità di tale moneta, cosi un movimento più intenso della comunità ha per effetto di aumentare la sua massa sociale.

2 "The Field Glass", organo privato della Marshall Field Company , 6 ottobre 1952, p. 4.

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giorni di festa, comincia anche a diventare sempre più irrequieta. Allora, i misfatti che in essa vengono compiuti non solo aumenteranno, ma aumenteranno in proporzione geometrica: prima si avranno i borseggi, poi gli alterchi, le risse, gli accoltellamenti e, secondo l'entità degli affollamenti e l'aumento della irrequietezza, si avranno anche i massacri, che si verificheranno improvvisamente con la violenza di un fenomeno cosmico, e non si arresteranno se non quando si farà ricorso a mezzi sufficienti per disperdere la folla, e per ricondurla alla sua densità originaria.

Questo è il motivo per cui le forze di polizia, per far fronte al sempre imminente pericolo di improvvisi affollamenti, devono essere potenziate in misura più che proporzionale rispetto all'aumento della popolazione; il che accade non perché città più grandi ospitino delinquenti più pericolosi di quelli che vivono nelle piccole città, ma perché, oltre un certo limite, sono le proporzioni stesse raggiunte dalla società che costituiscono il più serio pericolo 1. Non vi è folla al mondo che, indipendentemente dalla originaria onestà delle sue aspirazioni, non possa trasformarsi all'improvviso in un branco di lupi, come possiamo facilmente constatare a proposito di molte feste religiose (San Bartolomeo, San Michele) che finirono in massacri, e di molti massacri che finirono in feste 2. 1 Le seguenti cifre, tratte dal Municipal Yearbook del 1951, danno un

quadro eloquente di questa progressione: North Plainfìeld, N. J., con una popolazione di 12.760 abitanti, ha bisogno di una forza di polizia che ammonta a 15 unità; Plainfìeld, N. J., con una popolazione di 42.212 abitanti, 78 unità; Elisabeth, N. J., con una popolazione di 112.675 abitanti, 257 unità; Buffalo, N. Y., con una popolazione di 577.394 abitanti, 1398 unità; Chicago, con una popolazione di 3.606.439 abitanti, 7518 unità; e la città di New York, con una popolazione di 7.835.099 abitanti, 19.521 unità.

2 Alessandro Dumas descrive un episodio che illustra chiaramente le spregiudicate tendenze sanguinarie della folla. Dopo la caduta di Napoleone nel 1815, un gruppo di cittadini di Nimes, urlando vive le roi, andavano cercando un individuo nei confronti del quale nutrivano rancore. Non essendo riusciti a trovarlo, "ed essendo indispensabile una vittima", essi uccisero al suo posto lo zio e trascinarono il suo corpo per le strade. Riportiamo le parole stesse di Dumas: "l ' intera città venne a vedere il cadavere del disgraziato. Invero, il giorno che seguiva un massacro era sempre una vacanza, perché ciascuno lasciava incompiuto il proprio lavoro per vedere le vittime assassinate. In questi casi, se qualcuno voleva divertire la folla, si toglieva la pipa di bocca per infilarla fra i denti di un cadavere: un giuoco che incontrava uno straordinario successo, suscitando le fragorose risate dei presenti". (ALEXANDRE DUMAS , Celebrated Crimes, P.

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Quel che sopra abbiamo detto spiega anche perché perfino i crociati, che partirono dalla Francia cantando salmi, cominciarono a commettere in Ungheria e in Italia violenze di ogni genere, dopo che i loro eserciti, ingrossati da fitte schiere di seguaci che ad essi si univano in nome della Croce, raggiunsero una strapotenza incontrollabile. E allo stesso modo si spiega anche come mai perfino le processioni più solenni e i funerali più imponenti abbiano continuamente bisogno di protezione da parte della polizia. Da che cosa devono proteggersi? Sempre dallo stesso pericolo, rappresentato dalle intemperanze esplosive della massa in movimento.

2. L'origine delle filosofie del condono.

Inoltre, le semplici dimensioni di un aggregato sociale, a quanto pare, non sono soltanto responsabili dei delitti commessi dagli individui o dai gruppi che lo compongono; il fatto più significativo e pericoloso è invece che la frequenza della criminalità, dovuta all'espansione degli agglomerati sociali, sembra essere responsabile del diffondersi di una corrispondente mentalità che si esprime in una filosofia del condono. E tale filosofia, a sua volta, tenderà fatalmente (come causa secondaria) a esercitare una pressione malefica sulla frequenza della criminalità. Da ciò deriva il fenomeno storicamente accertabile, per cui, ogni volta che aumenta il numero delle vittime aumenta anche, di solito, in misura più che proporzionale, la ferocia degli atti criminosi. Ciò dimostra che non soltanto la frequenza di tali atti ma anche la filosofia del delitto e determinata non tanto da un clima morale corrotto, come spesso si crede, quanto piuttosto dal fattore fisico della massa, della consistenza numerica, del potere e, in ultima analisi, delle dimensioni che ha raggiunto una data società. Man mano che una società si espande, e espandendosi accresce la sua forza, aumenta anche la sua malefica influenza sulla mentalità corrente. Ripetendo una famosa frase di Lord Acton, potremmo esprimerci diversamente affermando che il potere, quando è limitato, corrompe relativamente, mentre quando è assoluto ha una forza assoluta di corruzione.

Potremo meglio renderci conto di ciò raffigurandoci le varie fasi attraverso le quali passa l'attività criminale socialmente tollerata. Fintanto che le vittime della persecuzione sono poche, il metodo di

F. Collier and Son, New York, 1910, vol. 2, p. 794).

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esecuzione o, per usare un termine marxiano, il modo di produzione, consisterà in cerimoniose decapitazioni, impiccagioni o fucilazioni, precedute da una parvenza di processo legale, e seguite da una parvenza di civile sepoltura. I carnefici, inoltre, non ancora troppo sicuri di avere in mano un potere sufficiente e pervasi ancora da un sentimento di colpevolezza favorito dal risalto che assume lo scarso numero degli atti da essi compiuti, sentono il bisogno di giustificarsi. Ma non appena aumenta il numero delle loro vittime, comincia a mancare il tempo per indugiare in tali giustificazioni e per indulgere a sentimenti di colpa, e le esecuzioni o sepolture singole diventano troppo lente e tecnicamente impossibili. Pertanto, si provvede a escogitare nuovi sistemi. Le vittime vengono trascinate in prossimità di pozzi, di fosse o di fiumi dove vengono gettate dopo essere state giustiziate sul posto. Ciò non è tanto dovuto a un aumento di crudeltà quanto a un adattamento alle esigenze di nuove situazioni alle quali non si potrebbe far fronte coi vecchi sistemi. Da ciò lo spettacolo passato e recente di fosse comuni come in Francia, in Germania, in Russia, in Corea o dovunque un ordine di strage creasse il problema di una massa di cadaveri da seppellire. Man mano che le vittime crescono ulteriormente di numero, anche il sistema della sepoltura in fosse comuni diviene poco pratico. Troviamo cosi i cadaveri ammucchiati a cataste, come è stato scoperto con ingiustificata costernazione nei campi di concentramento nazisti, oppure le porte murate e le vetture piombate come riferiscono con ingiustificata sorpresa gli storici, parlando della Parigi del sedicesimo secolo.

Infine, quando anche questo sistema si rivela inadeguato, non resta che ricorrere all'ultimo procedimento che si conosca, cioè la combustione. Dato che gli altri metodi si dimostrano inadatti allo scopo, ora i cadaveri vengono semplicemente ammucchiati in un edificio e bruciati, o insieme alla costruzione come avvenne nel mulino di Carmes, dato che non era stata ancora messaa punto una tecnica di combustione in massa, o senza la costruzione, come nei moderni forni crematori nazisti. In futuro si ricorrerà senz'altro, per questi scopi, all'energia atomica, la quale non soltanto s'impone come l'unico mezzo efficiente per sbarazzarsi delle molte vittime create dalle nostre sovrappopolate società moderne, ma è anche il sistema di gran lunga più economico per ottenere il servizio voluto. Occupandosi della "economia dello sterminio" il matematico e astronomo inglese Fred Hoyle ha

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calcolato che, mentre durante la Seconda Guerra Mondiale uccidere un uomo costava ancora parecchie sterline, oggi, con i mezzi

atomici, tale costo è sceso a una sola sterlina ($ 2,80)1.

Possiamo quindi constatare come non siano le cat tive tendenze a provocare gli eccidi, ma piuttosto il contrario. Difatti, fenomeni come quelli che abbiamo descritto si verificano secondo una legge causale del tutto obbiettiva, senza che sul suo funzionamento incidano fattori personali. È necessario, inoltre, non trascurare un altro aspetto della questione, cioè il fatto che esiste un certo adattamento morale alle dimensioni che una società ha raggiunto. Mentre la crudeltà dimostra una naturale e impersonale tendenza ad aumentare col crescere del numero delle vittime, la capacità di umana disapprovazione e la filosofia del biasimo rivelano una corrispondente e altrettanto naturale tendenza a diminuire. Se cosi non fosse, lo spettacolo della miseria in aumento a cui assistiamo stimolerebbe esageratamente il nostro senso di pietà e finirebbe per ucciderci: e la certezza di soccombere sarebbe ancora maggiore se particolarmente radicati fossero i nostri sentimenti di integrità e di compassione.

Ma questo certamente non era l'intento della natura. pertanto, nell'interesse della nostra stessa sopravvivenza, essa ci è venuta incontro per controbilanciare il terrificante effetto delle atrocità su larga scala, dotandoci di un elastico senso di intorpidimento morale. Ne deriva che l'uomo comune, invece di essere sempre più tormentato dalla coscienza di fronte al crescente numero dei crimini sociali che vengono commessi, finisce per perdere anche quel poco di coscienza che aveva quando le vittime erano ancora in scarso numero. Difatti, come esiste una legge della utilità decrescente secondo la quale ogni successivo bene, ottenuto in un dato momento, procura al suo possessore una soddisfazione minore di quella arrecatagli dal bene precedentemente acquisito, cosi esiste anche, a quanto pare, una legge della sensibilità decrescente, secondo la quale ogni successivo atto delittuoso, rispetto a quello commesso in precedenza, determina in chi l'ha commesso un più debole senso di colpevolezza, e nell'opinione pubblica una minore impressione2. 1 Dispaccio AP da Londra, 25 settembre 1952.2 Questo spiega perché le emozioni più vive suscitate in tutto il mondo dai

misfatti dei nazismo si ebbero all ' inizio, quando le sue vittime erano ancora poco numerose. L'impressione ostentata in seguito dagli osservatori alleati, quando scoprirono i corpi delle vittime nei carri bestiame, aveva

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Questo fenomeno arriva a tal punto che, quando la condotta immorale assume la caratteristica di condotta collettiva, l'intorpidimento e la corruzione generali sono cosi sviluppati che gli assassini perdono completamente la coscienza della loro criminalità, e chi osserva non ha più la percezione dei delitti che vede commettere.

Ciò si verifica quando i criminali cominciano a mostrarsi orgogliosi delle loro gesta, esprimendo soddisfazione per le imprese compiute, e attendendosi promozioni invece di sanzioni per incarichi assolti scrupolosamente. Chi osserva queste cose, d'altra parte, comincia a un certo punto a considerare i massacri come se fossero feste e, con quel distacco che caratterizza la massa amorfa, a scoprire i vantaggi scientifici e commerciali di quello che accade. I medici scoprono all'improvviso che i moribondi possono servire egregiamente ai loro esperimenti; e le signore che le pelli tatuate sono molto adatte per i paralumi; i farmacisti sostengono che il grasso umano si presta alla produzione di alcune sostanze medicinali; e gli studiosi di agraria che le ossa ridotte in polvere costituiscono un ottimo fertilizzante. La crescente insensibilità umana di fronte alle atrocità sempre più numerose che vengono

probabilmente un carattere fittizio e propagandistico, a giudicare dal fatto che simili spettacoli, alcuni dei quali sommariamente descritti nel capitolo I, non hanno suscitato grande emozione negli abitanti di quei paesi il cui schieramento politico li esonerava da reazioni poco amichevoli. Ciò non significava collusione, ma dimostrava che, contrariamente alle opinioni contrarie dei testimoni oculari e al significato di certe costruzioni giuridiche come il genocidio, la frequenza degli atti di criminalità, non rende un crimine peggiore, ma lo rende soltanto un atto frequente. Possiamo renderci conto del grado in cui la nostra coscienza è diventata insensibile in seguito al continuo verificarsi di atti del genere, se noi ci domandiamo a quanti cocktails abbiamo rinunciato dopo aver letto resoconti come quelli riguardanti i nostri alleati coreani. Dopo aver definito il conflitto coreano una "brutta guerra", un corrispondente del "Time" la descrive in questi termini: "Non è la solita, inevitabile brutalità del campo di battaglia, ma una violenza sottile: un distruggere villaggi ove il nemico può nascondersi; un mitragliare e bombardare i profughi che possono celare dei nord coreani... La polizia sud coreana e i marines sud coreani che ho visto in azione al fronte, sono brutali. Essi uccidono per non avere il fastidio di scortare i prigionieri nelle retrovie; uccidono i civili semplicemente per toglierseli dai piedi" ("Time ", 21 agosto 1950). L'unica nostra scusante è che la legge della sensibilità decrescente si applica anche a noi, portandoci ad accettare le nostre atrocità su vasta scala, con la stessa disinvoltura con cui i Tedeschi accettarono quelle dei nazisti.

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commesse, è così progressiva che, alla fine, il fatto di compiere stragi viene considerato alla stessa stregua di altre professioni, che conferiscono a chi le esercita tutti gli attributi della onorabilità; paradosso questo che è stato realisticamente descritto da Charlie Chaplin, nel suo bel film intitolato Monsieur Verdoux. Mai e poi mai si penserebbe di attribuire a una persona responsabile di un solo omicidio una tale noblesse e raffinatezza. Al contrario. Un tipo del genere non soltanto si sentirebbe tormentato dalla coscienza della propria inettitudine, ma, perfino nell'ambiente della malavita godrebbe di scarsa considerazione. Ben diverso è il caso di chi ha commesso omicidi in massa : costui si considera non soltanto un dominatore ma anche un gentleman, e suscita perfino nei suoi avversari un senso di invidiosa ammirazione. Questo spiega come mai, prima di condannare a morte i criminali di guerra, molti di quelli che li avevano catturati sembrarono particolarmente compiaciuti di farsi fotografare in loro compagnia.

3. Le dimensioni critiche.

Riassumendo, da quel che abbiamo detto possiamo trarre le seguenti conclusioni :

a) La causa fondamentale che spiega le periodiche esplosioni di criminalità collettiva e il relativo intorpidimento morale che caratterizzano larghi strati di società anche molto evolute, non sembra essere costituita dalla perfidia degli uomini che comandano o da filosofie corrotte, ma da elementi puramente materiali Essa e da mettere in relazione con il grado di frequenza e il numero, i quali ne intensificano l'azione, e con il possesso di una quantità critica di potere che ha un effetto esplosivo. Raggiunte determinate dimensioni sembra svilupparsi in forma del tutto spontanea una reazione a catena di atti brutali, accompagnati, al momento giusto, da una adeguata filosofia del condono.

b) Per quanto il possesso di una quantità critica di potere costituisca il fattore determinante che conduce alla barbarie sociale, tuttavia tale fattore dipende a sua volta da un altro elemento fisico, rappresentato dall'esistenza di una massa sociale di determinate proporzioni. In una piccola società, la quantità critica di potere può difficilmente accumularsi perché, in assenza del grande peso esercitato dal numero, la forza coesiva del gruppo e agevolmente controbilanciata dalle tendenze centrifughe rappresentate dalle

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numerose attività concorrenziali degli individui che ne fanno parte 1. In società più ampie, d'altra parte, la pressione coordinatrice della massa può diventare così forte da far scomparire le tendenze competitive individuali, per cui si mantiene sempre vivo il pericolo che la concentrazione sociale raggiunga un punto critico. Pertanto, se è vero che il potere allo stato critico è la causa immediata dei mali sociali, possiamo affermare che le dimensioni critiche di una società, offrendo il terreno adatto per una concentrazione critica del potere, costituiscano la causa ultima e primaria di tali mali.

c) Nel valutare quali siano le dimensioni critiche di una società, non basta però riferirsi all'entità della sua popolazione. Infatti, bisogna anche tenere nel dovuto conto la sua densità (calcolando il rapporto fra popolazione e arca geografica), e la sua dinamicità (indicante il grado di integrazione amministrativa e di progresso tecnologico). Se una popolazione ha una scarsa densità, essa costituisce una società più piccola di quella rappresentata da un gruppo meno numeroso ma più compatto, anche se, in senso assoluto, essa sia numericamente più ampia e occupi un'area geografica più vasta. Parimenti, una società dotata di maggiore vitalità e dinamismo può essere considerata più ampia di una società che, pur essendo numericamente superiore, sia in più lento movimento. Per comprendere queste cose, basta pensare al numero dei personaggi in una rappresentazione teatrale. Un certo numero di comparse può essere necessario per rappresentare una folla che si muove ad andatura normale, mentre sarà eccessivo se tale folla dovrà agitarsi e muoversi rapidamente. In questo caso, infatti, è come se il numero delle persone si fosse raddoppiato. Tuttavia, malgrado queste distinte caratteristiche, la densità, la dinamicità, come pure il grado di integrazione sociale da esse richiesto, non rappresentano clementi separati, ma conseguenze e nello stesso tempo fattori determinanti del concetto fisico di grandezza sociale. Se una data area viene occupata da una popolazione in aumento, la

1 La situazione e un po' diversa in una società che è troppo piccola e che, per conseguenza, impone ai suoi membri una densità protettiva maggiore di quella che sarebbe necessaria in una società di dimensioni ideali. Le società troppo piccole e quelle troppo grandi hanno perciò alcuni punti in comune. Muovendosi e vivendo più come organismi collettivi che come aggregati di individui, le società troppo piccole possono raggiungere facilmente proporzioni critiche nel caso che alcuni individui vengano scacciati o esiliati. La fondamentale differenza fra società troppo piccole e troppo ampie è presa in esame nei capitoli che seguono.

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società in essa stanziata diventa automaticamente più densa, e diventando più densa ha bisogno di un maggior grado di integrazione. Questa integrazione, collegando le zone periferiche della comunità al suo centro vitale, conferisce a un numero sempre più notevole di individui una maggiore rapidità di movimento la quale, a sua volta, giova al progresso tecnologico della società stessa. Perciò, una società in progresso sarà una società dotata di un maggiore grado di integrazione e di ima maggiore mobilità, e una società dotata di maggiore mobilità ha lo stesso potere che avrebbe se fosse numericamente più ampia. In ultima analisi, però, bisogna ammettere che, a parità di area, di progresso tecnologico, di integrazione sociale, e di risorse naturali, la società più potente sarà quella formata dalla popolazione più numerosa.

Tenendo presente quanto sopra abbiamo detto, noi siamo ora in grado non soltanto di comprendere il pieno significato della diversa e più espressiva denominazione che abbiamo dato alla nostra teoria: teoria della miseria sociale fondata sulla grandezza ; ma anche di suggerire, per la prima volta, un rimedio, avendo diagnosticato l'origine e la causa primaria del male. Difatti, se è vero che la brutalità che si manifesta in un dato ambiente sociale, sia su scala individuale che collettiva, non è altro, in fondo, che l'effetto spontaneo della quantità critica di potere che si accumula ogniqualvolta la massa umana raggiunge determinate proporzioni, è chiaro che l'unico espediente per prevenire tale brutalità è quello di mantenere a un livello subcritico quelle dimensioni sociali da cui scaturisce il potere. Questo risultato può essere ottenuto in due modi diversi: o aumentando i poteri di controllo fino a renderli inattaccabili, oppure affrontando il problema alle sue radici, e cioè cercando di ridurre le dimensioni che la società ha raggiunto. Il metodo convenzionale consiste nel ricorrere alla prima alternativa, organizzando imponenti forze di polizia capaci di far fronte al latente potere della comunità. Un sistema del genere trova facile applicazione in piccole unità sociali, ma si rivela difficile e pericoloso nelle società più ampie. Difficile perché, come la storia dimostra, la concentrazione sociale in comunità di grandi dimensioni raggiunge proporzioni tali che nessuna polizia al mondo è in grado di controbilanciarla; pericoloso perché, fintanto che la polizia riesce nel suo intento, essa possiede a sua volta la quantità critica di potere col risultato che, mentre ci protegge dalle intemperanze della massa, ci regala al loro posto le crudeltà più raffinate di una polizia di

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Stato.Queste considerazioni dimostrano come l'unico metodo su cui si

possa veramente contare per arginare le manifestazioni di brutalità e criminalità su larga scala, sia quello rappresentato dalla seconda alternativa : cioè creare un sistema di unità sociali di cosi ridotte dimensioni da rendere matematicamente impossibili le accumulazioni e concentrazioni di potere collettivo in grado di raggiungere il punto critico. La soluzione pertanto non consiste nell'alimentare le forze di polizia, ma nel ridurre le dimensioni delle società, smembrando quelle che hanno raggiunto una potenza eccessiva. Se vogliamo eliminare la criminalità di Chicago, è inutile educare la popolazione e riempire la città di esponenti della Salvation Army. Quel che dobbiamo fare è eliminare metropoli come Chicago. Parimenti, se vogliamo impedire raffermarsi di idee e filosofie tendenti a tollerare la criminalità, è inutile mettersi a predicare il vangelo. Dobbiamo piuttosto distruggere quelle pletoriche unità sociali che, per loro stessa natura, sono guidate, non dai principii evangelici, ma dalle inflessibili leggi della statistica.

4. La causa della guerra.

Se ora spostiamo la nostra analisi dal piano interno a quello internazionale, per esaminare quella dolorosa calamità rappresentata dalla periodica esplosione di guerre aggressive, ci renderemo conto come la nostra teoria sia in grado di fornire una risposta più soddisfacente di tutte le altre. Ancora una volta, avremo modo di constatare la validità dei rapporti causali già da noi in precedenza esaminati. E anche in questo caso vedremo come la causa di un terribile evento come la guerra non debba essere attribuita a diabolici disegni o a perfide inclinazioni, ma all'esistenza di un potere eccessivo in mano a società troppo vaste. Il fatto è che ogniqualvolta uno Stato diventa grande abbastanza per accumulare la massa critica di potere, prima o poi cederà alla tentazione. E appena tale potere sarà nelle sue mani, diventerà uno Stato aggressore, nonostante il suo passato e le buone intenzioni.

Dato il significato di questi rapporti causali e il costante riferimento che si fa in questo libro alle loro logiche conseguenze, è bene insistere ulteriormente sulla definizione di volume critico del potere, con particolare riferimento alle dimensioni sociali che lo riguardano, esaminando il problema, questa volta, dal punto di vista

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delle aggressioni esterne piuttosto che da quello delle atrocità interne. Mentre conosciamo esattamente la quantità di energia necessaria per provocare un'esplosione atomica, la massa critica di potere necessaria per provocare una guerra è sempre qualcosa di relativo. Come nel caso, già esaminato, delle esplosioni di criminalità che si verificano all'interno di uno Stato, tale massa critica varia secondo la quantità di potere che una possibile coalizione di avversari è in grado di contrapporre. Ma il giorno in cui tale massa critica, nel calcolo di chi la possiede, è maggiore di questa quantità, la guerra, a mio avviso, è inevitabile. Inversamente, quando la potenza di uno Stato scenda al di sotto del punto critico, tale Stato diventerà automaticamente non già amante della pace, il che, come abbiamo visto, non è verosimile pensare di nessuno Stato, ma semplicemente pacifico, che è quanto basta.

Inoltre, la stessa legge che determina l'esplosione spontanea di una bomba atomica quando la materia fissile raggiunge la massa critica, sembra far sì che uno Stato divenga spontaneamente aggressivo quando il suo potere raggiunga il volume critico. Nessuna decisione di chi governa, nessuna ideologia, neppure quella cristiana che è tutta pervasa d'amore e di pace, è in grado di impedire a tale Stato di essere coinvolto nel vortice della guerra. Per lo stesso motivo, nessuna tendenza aggressiva e nessuna ideologia, neppure quella del nazismo o del comunismo, come spiegheremo più oltre, può spingere uno Stato a compiere atti di aggressione fintanto che la sua potenza rimane al di sotto del livello critico. Quello che conta è sempre questo elemento fisico del potere, la cui consistenza è in stretto rapporto con le dimensioni della comunità da cui scaturisce: raggiunto un certo volume, esso provoca inevitabilmente l'aggressione. Possiamo dunque concludere affermando che questo fattore costituisce l'unica ed eterna causa di tutte le guerre, di qualsiasi genere esse siano. Anche la più superficiale analisi storica conferma la validità di queste osservazioni. Oggigiorno, non si conoscono al mondo popoli più miti dei Portoghesi, degli Svedesi, dei Norvegesi e dei Danesi. Eppure, quando si trovarono in mano il potere, questi popoli si scagliarono contro chiunque li ostacolava con tale furore che conquistarono il mondo da un capo all'altro. Ciò non fu dovuto al fatto che tali popolazioni, nel periodo della loro espansione nazionale, fossero più aggressive di altre, ma semplicemente alla circostanza che erano più potenti. In altri tempi, i Francesi e gli Inglesi sono stati i popoli più aggressivi del mondo.

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Quando arrivarono a disporre della massa critica di potere che consentiva loro di abbandonarsi a ogni sorta di aggressione, anche questi Stati misero a ferro e fuoco quanto incontravano sul loro cammino, fino ad assicurarsi il dominio di una vasta parte del mondo. Alla fine, l'unica cosa che potè arrestarli fu la loro incapacità, cioè la mancanza del potere necessario per andare oltre. In altre epoche poi, constatiamo che certi popoli, come gli Olandesi, si dimostrarono pacifici rispetto agli altri paesi europei nei confronti dei quali non disponevano di una massa critica di potere, mentre erano aggressivi in remote regioni, in cui il loro limitato potere raggiungeva, rispetto alle popolazioni locali, il livello critico. Più di recente — e questo è l'unico motivo che li distingua dagli altri paesi — la Germania e la Russia si sono dimostrati Stati aggressori per eccellenza. Ma la ragione della loro bellicosità è sempre la stessa. Essi sono stati spinti alla guerra non dalla loro filosofia, ma dal fatto che all'improvviso si trovarono a disporre di un grande potere, col quale essi fecero quello che tutti gli altri popoli avevano in precedenza fatto trovandosi in condizioni simili: usarono cioè tale potere per abbandonarsi ad atti di aggressione.

Tuttavia, se è vero che una Germania potente è stata aggressiva come altri Stati, è anche certo che una Germania debole è stata altrettanto innocua. Lo stesso popolo che invase il mondo coi terribili eserciti di Hitler, costituì, rispetto agli altri popoli, una delle più inoffensive società umane, fintanto che restò diviso in piccoli principati indipendenti e gelosi l'uno dell'altro, come l'Anhalt-Bernburg, lo Schwarzburg-Sondershausen . il Saxe-Weimar o l'Hohenzollern-Sigmaringen. Questi staterelli ebbero naturalmente le loro piccole guerre, che non furono però tali da metterli in particolare evidenza rispetto agli Italiani di Parma, ai Francesi di Piccardia, agli Inglesi del Devonshire, o ai Celti della Cornovaglia. Se essi si fossero sottratti al movimento unificatore promosso da Bismarck e alla concentrazione del potere che ne derivò, essi sarebbero rimasti pacifici anche durante le due guerre mondiali, come dimostra l'esempio del Liechtenstein e della Svizzera. Queste popolazioni tedesche, racchiuse entro cosi angusti confini da essere nella materiale impossibilità di assicurarsi una posizione di rilievo, a meno di non ricavare bombe atomiche dai ciottoli dei loro ruscelli di montagna, sono per sempre condannate ad essere fra i popoli più pacifici, benché gli abitanti di tali paesi, presi individualmente, in fatto di turbolenza, possano superare perfino gli Irlandesi. E gli

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stessi Tedeschi del Terzo Reich, spogliati come furono, dopo la Seconda Guerra Mondiale, di ogni potere, rischiarono di diventare di nuovo, nel 1950, pacifici come erano stati gli Anhalters un secolo prima. Si spiega così la straordinaria serie di vittorie elettorali dei socialisti, le quali apparivano incomprensibili a molti nostri commentatori politici, che non sapevano spiegarsi come mai, in un paese amante della guerra come la Germania, potesse riportare simili successi elettorali un partito che basava la propria ideologia sul più feroce antimilitarismo. È chiaro che, una volta privata del potere, anche l'aggressiva Germania non vede più nessuna attrattiva nelle imprese militari; questa motivazione della condotta umana è confermata dall'esempio degli Indiani i quali, malgrado la santità dei loro principii, non appena hanno avuto il potere in mano, hanno dimostrato nelle loro campagne di oppressione scatenate contro l'Hyderabad, il Kashmir e il Nepal, di non essere insensibili alle tentazioni della guerra. Solo di fronte alla minaccia della quasi illimitata potenza della Cina e della Russia, i discepoli di Gandhi si sono decisi a mettere in pratica quello che predicavano, cioè l'amore della pace.

Possiamo pertanto constatare come, per legge invariabile e universale, il pericolo di aggressioni si manifesti spontaneamente, a prescindere dalla nazionalità e dalla volontà di aggredire, quando il potere di uno Stato diventi cosi grande da superare, nella valutazione di chi governa, quello rappresentato dalle forze avversarie. Questa valutazione , di cui si è sempre parlato senza però sottolinearne l'importanza, sembra introdurre nel rapporto un elemento soggettivo e psicologico il quale dimostrerebbe come il solo fatto obbiettivo rappresentato dalla disponibilità del potere non sia sufficiente per provocare una guerra. In altre parole, questo fattore obbiettivo dovrebbe essere accompagnato dalla convinzione che sia stata raggiunta la massa critica di potere; difatti, anche la più grande potenza non sarebbe tale se non fosse sorretta da questa convinzione, la quale potrebbe, d'altra parte, trasformare in uno Stato aggressivo anche un paese dotato di limitate risorse. Questa osservazione è esatta, ma non si può arrivare al punto di negare che la fonte dell'aggressività è soprattutto rappresentata da un fattore fisico e non da uno psicologico. Questo principio ha un valore assoluto, nel senso che la convinzione di essere potenti non può sorgere senza la realtà del potere; e la realtà del potere, a sua volta, è tale che, una volta raggiunto un determinato livello, crea negli

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uomini la coscienza della propria forza, ispirando le corrispondenti ideologie aggressive: il che si verifica nelle situazioni più diverse, e anche presso i popoli più pacifici. La massa critica di potere ha quindi un effetto decisivo sull'aggressività dei vari popoli. L'unica influenza del fattore psicologico consiste nel fatto che esso — a differenza di quanto avviene nel campo atomico in cui la materia fissile incontra precisi limiti ponderali — crea attorno tale massa un'area marginale di una certa estensione in presenza della quale l'improvviso compiersi di atti aggressivi può comunque verificarsi, dipendendo dalla maggiore o minore convinzione — maturata nell'animo di chi governa — di aver raggiunto la necessaria potenza. Ciò significa che i più temerari trascineranno i loro popoli alla guerra quando si troveranno agli estremi limiti di questa fascia marginale, al contrario di quanto capiterà ai più indecisi i quali, scambiando per pacifismo quello che è soltanto mancanza di fiducia in se stessi, si decideranno a tale passo con maggiore cautela.

Questo elemento psicologico che si accompagna al potere e si sviluppa con esso, agendo, entro i limiti del margine critico, come suo detonatore, spiega come mai a volte anche uno Stato molto potente possa apparire pacifico, quando non è cosciente della sua reale forza. Nello stesso modo si spiega come mai a volte parecchi Stati dimostrino contemporaneamente propositi aggressivi. Ciò accade, come nel caso della guerra francoprussiana, ogniqualvolta ciascuno crede, nello stesso tempo, di essere diventato più forte dell'altro. Si verifica pure il caso che lo Stato aggressivo sia uno soltanto : questo può accadere quando la sua superiorità è talmente schiacciante che anche gli altri Stati se ne rendono conto. Una situazione del genere si verificò in Francia sotto Napoleone, e in Germania al tempo di Hitler. Allo stesso modo si spiegano le aggressioni come quella perpetrata dalla Corea del Nord, la quale divenne inevitabile quando gli Stati Uniti, ritirandosi dalla Corea del Sud, crearono le condizioni adatte per portare a un livello critico quella potenza nordcoreana che in precedenza si era mantenuta a un livello sub critico.

Se si fosse dato credito alla teoria da noi esposta, l'aggressione di cui abbiamo parlato sarebbe stata prevista con matematica certezza, e si sarebbe quindi potuto evitare questo catastrofico anticipo della Terza Guerra Mondiale 1.

1 La teoria del potere avrebbe anche potuto evitare l' invasione anglo-franco-israeliana dell'Egitto che, come io predissi in una lettera al "New York

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Possiamo anche constatare come la storia offra numerosi esempi di popoli in precedenza pacifici che si sono improvvisamente e inspiegabilmente trasformati in selvaggi aggressori, come pure di popoli bellicosi divenuti angelici difensori della pace. Questi fatali cambiamenti non possono essere spiegati pensando a differenti condizioni di civiltà. La vera ragione che spiega la bellicosità di un popolo e il fatto che esso abbia improvvisamente accumulato un eccessivo potere, e il mistero della sua improvvisa conversione all'ideale della pace, un tempo abbandonato, è tutto nel fatto che esso ha perduto questo potere. È inutile trovare altre spiegazioni che non esistono.

5. Non ci indurre in tentazione.

Disgraziatamente, come abbiamo visto nel capitolo primo, queste considerazioni non collimano affatto con la dottrina tradizionale, secondo la quale non è vero che il potere è destinato ad esplodere nelle mani di chiunque lo possieda. Essa ritiene che soltanto i popoli cattivi, gli uomini cattivi, o gli uomini traviati da cattive ideologie, cedano alla tentazione che si impadronisce di loro quando dispongono di un esplosivo. I buoni, invece, resistono. Ne deriva che, invece di affrontare il problema dal punto di vista fisico, il che farebbe subito comprendere come l'unico modo per impedire la guerra sia quello di impedire che gli Stati divengano tanto grandi da accumulare una massa critica di potere, molti nostri studiosi e diplomatici cercano di risolverlo sul piano morale. Essi pretendono di trasformarci tutti quanti in individui quieti e irreprensibili, sottoponendoci a una educazione più sana e facendoci balenare davanti agli occhi le conseguenze delle cattive azioni. Fatto questo, essi credono di aver garantito la pace mondiale. Costoro non saranno mai disposti ad ammettere che, come le tendenze perverse sono alimentate dalla disponibilità di un potere eccessivo, cosi le virtù

Times" del 19 settembre 1956, divenne paradossalmente inevitabile dopo che l 'America dichiarò che non avrebbe potuto parteciparvi. Questa circostanza, infatti, aumentò le probabilità che la Russia, non più desiderosa dell 'America di essere coinvolta in una guerra, si sarebbe anch'essa tenuta da parte. Abbandonato a sé stesso, il potere non soltanto della Francia e dell'Inghilterra, ma anche di Israele, passò, nei confronti dell 'Egitto, da un livello subcritico a un livello critico, col risultato che nel giro di alcune settimane l'Egitto fu coinvolto non in una ma in due guerre.

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dipendono soltanto dall'assenza di un tale potere. Difatti, l 'idea di usare l 'esplosivo non ci viene suggerita dalle nostre concezioni filosofiche, ma dal fatto che lo possediamo.

Per quanto molti di noi si rifiutino di accettare queste idee quando si discute di problemi politici, in realtà, nella vita di ogni giorno, noi le abbiamo adottate in tale misura che e veramente difficile considerarle una grande novità. I Tedeschi riassumono questo rapporto di causa ad effetto in una frase espressiva: Gelegenheit macht Diebe, l 'occasione fa l'uomo ladro, la quale vuole appunto significare che noi siamo indotti a delinquere dalle occasioni che ci si presentano e non da una specie di pervertimento morale. E quando si parla di occasioni, naturalmente, non si fa altro che impiegare una parola diversa per indicare i casi in cui si è convinti di possedere una massa critica di potere. Neppure un ladro consumato si azzarderebbe a rubare se non ha la speranza di cavarsela. Né è men vero che anche un uomo onesto finirebbe per delinquere se ne avesse l'occasione, cioè il potere di farlo.

Ecco perché tutti noi, buoni e cattivi, ci raccomandiamo a Dio che non ci induca in tentazione. Noi sappiamo meglio di tanti esperti di politica che la sola speranza di non cadere non risiede nella nostra statura morale o nella minaccia di una sanzione, ma piuttosto nell'assenza di occasioni. Cosi si spiega anche perché le madri di tutto il mondo si siano da tempo convinte che l'unico sistema per proteggere la marmellata dalle incursioni dei loro figli è quello di non metterla a portata di mano. Non si può certo sperare di ottenere un eguale risultato raccontando la mitica storiella del ragazzo che, in un momento in cui non è visto da nessuno, resiste alla tentazione di rubare una mela e poi la riceve come ricompensa per la vittoria riportata su se stesso. Non neghiamo che qualcuno possa dare prova di una straordinaria forza di volontà, resistendo alla tentazione in virtù della sua semplice fortezza morale; ma il fatto stesso che anche costui sia costretto a ingaggiare difficili battaglie contro l'irresistibile attrattiva delle occasioni che gli si presentano, dimostra il carattere primordiale di questo elemento. Il primo peccato dell'uomo, il peccato originale, fu causato da un abuso di potere per impadronirsi dell'unico frutto che fra tanti era stato proibito. Nessun ammonimento, nessun appello alla ragione, nessuna minaccia di perdita del paradiso, potè trattenere Eva dal cadere. E da questo punto di vista non è cambiato nulla, da allora in poi. Difatti, il vizio e la virtù non sono prerogative dell'anima umana che

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possano essere influenzate dall'intelletto (il che avviene semmai in misura insignificante nell'area marginale di cui abbiamo parlato), ma la conseguenza automatica e il diretto riflesso di una condizione puramente esterna, costituita da una determinata disponibilità di potere.

Se ancora nutrissimo qualche dubbio sulla fondatezza di queste affermazioni, a dissiparlo basterebbe il ricordo delle mancanze grandi e piccole commesse nel passato. Chi di noi da bambino non ha rubato qualche dolciume ? Col tempo diventiamo più saggi e più consci dei valori morali, ma quel che ci rende migliori non è il passare degli anni o l'educazione a cui siamo sotto posti, ma il progressivo venir meno delle tentazioni. Quando, in età più avanzata, incidentalmente ci si presenta un'occasione, i nostri istinti primitivi si risvegliano subito. Ciò si verifica, ad esempio, quando le persone più rispettabili si mettono a rubare libri, se non nei negozi ove l'occasione si presenta di rado e il rischio è troppo grave, in casa dei migliori amici. Sono ben pochi coloro che, in un'occasione o nell'altra, non abbiano a cuor leggero approfittato indebitamente di facilitazioni di viaggio, usando, per esempio, biglietti a riduzione speciale appartenenti ad altre persone e non trasferibili, o comunque, evitando di pagare ogni volta che se ne presenta l'occasione. Io stesso, insieme a tanti colleghi universitari, commetto abitualmente molte infrazioni di questo genere 1. Gli agenti di polizia che, per il fatto stesso di essere incaricati di far rispettare la legge, si trovano nelle migliori condizioni per violarla senza correre il rischio di essere scoperti, sono per questa ragione tra coloro che professionalmente commettono le peggiori infrazioni ai nostri codici penali, come stanno a dimostrare tutti gli scandali che scoppiano di 1 I servizi pubblici sono sempre soggetti a truffe, anche da parte dei

migliori, come è il caso del popolo inglese, tradizionalmente onesto. Cosi, quando l'amministrazione inglese delle poste aumentò l' importo dei gettoni telefonici da due a tre pence, col 1° ottobre 1951, contava di evitare le perdite dovute all' impossibilità di cambiare subito tutte le sue cabine telefoniche, facendo appello al sentimento di onore dell' intera nazione. Ma dati non ufficiali (Dispaccio VP da Londra, del 30 settembre 1951) indicavano che l'amministrazione delle poste "aveva subito una dura lezione. Un giornale scoprì che il fatto di truffare l'esattore delle tasse non è considerato un atto illecito da molte persone altrimenti incensurate. E scoprì anche che l 'amministrazione delle poste faceva parte della stessa categoria". Ma soprattutto fa parte della categoria di quelle istituzioni che offrono una grande quantità di occasioni per commettere atti illeciti, occasioni alle quali anche persone incensurate difficilmente resistono.

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tanto in tanto negli ambienti della polizia nella maggior parte delle grandi metropoli. Gli impiegati di banca, che pure sono scelti con tanta cautela, sono talmente esposti alle tentazioni che, secondo il Presidente Truman, nel 1951 "si verificarono qualcosa come sei cento appropriazioni indebite" in seno a uno dei rami professionali più conservatori di tutti gli Stati Uniti. "Fu accertato che un funzionario di banca su trecento si era lasciato corrompere" 1. Si potrebbe supporre che almeno gli impiegati e i delegati delle Nazioni Unite, che sono cosi idealisti, non si lascino trascinare dalla tentazione di commettere le piccole disonestà umane. Eppure, neanche loro sembrano sfuggire alla regola. Secondo un articolo apparso nel "Time" un rapporto del Comitato dei trasporti della città di New York riferiva che nel 1946, periodo in cui i delegati delle Nazioni Unite tenevano le loro sessioni nella città, i distributori automatici di biglietti della metropolitana assorbirono 101.200 monete straniere2.

Pertanto quello che Bernard Shaw diceva della moralità femminile, che si risolve secondo lui nella mancanza di occasioni, si applica anche a tutte le altre virtù umane. Noi ci asteniamo dal commettere cattive azioni soltanto se le occasioni mancano e finché mancano. Ma quando esse ci si presentano e in modo inequivocabile, soltanto i santi saranno capaci di resistere. E qualche volta neanche loro, a giudicare da certe notizie provenienti da Pensacola, in Florida, secondo le quali "Henry Moquin, un detective privato che era anche stato presidente di un circolo cittadino di East Pensacola Height, si è dichiarato colpevole di aver rubato sigari a un cieco" 3. Quando ero ragazzo, ero considerato un modello di virtù dai miei genitori, i quali evidentemente erano completamente all'oscuro della segreta gioia che provavo nell'infrangere i vetri delle finestre. Se non ne rompevo molti ciò era dovuto solo al fatto che non mi si presentavano molte occasioni. Ma una volta una grandinata danneggiò alcune finestre della nostra camera da letto, che erano formate da innumerevoli piccoli vetri composti in grazioso mosaico, e sorretti da una grata di piombo, come se ne vedono nelle chiese. 1 Parole pronunciate dal Presidente Truman, il 29 settembre 1952.2 "Time", 23 dicembre 1946.3 "Time", 3 dicembre 1951. Secondo il "Washington News", anche i senatori

degli Stati Uniti non trovano degradante il fatto di approfittare di tanto in tanto dei giornalai ciechi situati all 'entrata del palazzo del Senato. La cecità, sia essa fisica, morale, o amministrativa, è sempre un invito a peccare.

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Trovandomi solo in casa mentre le strade erano deserte, mi resi improvvisamente conto che il mio potere aveva raggiunto la massa critica. L'occasione era magnifica. Feci una provvista di sassi nel giardino, mi piazzai sulla strada, e mi abbandonai, a spese delle mie finestre, alla più fantastica sassaiola della mia vita. Quando i miei genitori tornarono a casa, io naturalmente apparivo innocente come si può essere a quell'età, e mostrai di condividere il dispiacere di mio padre il quale si lamentava che l'uragano avesse, a quanto pare devastato la nostra casa. Tutto sarebbe andato liscio se io non avessi trascurato un particolare: i chicchi di grandine si sciolgono, ma i sassi no, e mio padre ne trovò dappertutto sul pavimento della nostra camera da letto. Così, alla resa dei conti, io non la feci franca, ma quel che importa è che pensavo di riuscirvi. Se mi astengo dal commettere ora simili atti di vandalismo, ciò non è certo dovuto al fatto che sia migliorato in me il senso di moralità e del rispetto della proprietà altrui. La ragione è che sarebbe troppo ridicolo per un professore di economia mettersi a rompere i vetri del l'Università in cui insegna. In altre parole, io non ho il reale potere di farlo. Se lo avessi...

Fintanto che noi ragioniamo in termini di esperienza personale, siamo pienamente in grado di comprendere che cosa significhi disporre di una massa critica di potere. Forse esiste qualcuno che ha avuto occasioni talmente scarse da non aver mai sperimentato la reazione che si prova quando si dispone del potere, ma certo la maggior parte di noi ha potuto rendersene conto osservando gli altri; basta pensare a quello che facevano i conducenti di taxi, gli addetti agli ascensori, i commessi di negozio, o i camerieri durante la Seconda Guerra Mondiale. Non appena costoro si resero conto della crescente autorità che stavano acquistando sui loro clienti, si trasformarono da servitori in insolenti padroni. Ho visto perfino funzionari della YMCA, che è una delle più umili e cristiane istituzioni, diventare aggressivi come Napoleone, arroganti come Hitler e sadici come Himmler, dopo che la guerra, rendendo preziosi i loro servizi, li aveva trasformati in personaggi importanti. Costoro, proprio in ambienti in cui meno ci si attendeva un fatto simile, hanno dato particolare risalto a quel malvezzo universalmente diffuso dell'Insolenza delle cariche che Shakespeare ha cosi magistralmente descritto nel grande soliloquio di Amleto. Il potere connesso alle cariche che si ricoprono prima o poi finisce per

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trasformarci in tanti prussiani 1. E la potenza militare, una potenza grande abbastanza da farci credere che essa non possa essere controbilanciata, ci trasformerà inevitabilmente in aggressori.

6. Perché i capi della Russia hanno superato i limiti della ragione

La conoscenza di queste verità, a mio avviso, ha un'importanza vitale. Fintanto che noi ignoreremo la natura e l'influenza del potere, attribuiremo sempre i suoi effetti a cause di altro genere e quindi erronee, come la volubile disposizione dell'animo umano, e cercheremo il rimedio nella direzione sbagliata. Questo, in fondo, è quanto stanno ancora facendo molti dei nostri diplomatici, sotto l'influenza di teorie che, per quanto superate, resistono tuttora tenacemente. Dopo essersi finalmente resi conto che l'attuale pericolo di guerra non proviene dai Tedeschi, braccati fino a ieri alla porta di casa loro, essi ora attribuiscono tale minaccia ai Russi, e in particolare alla depravata ambizione e alla mentalità di un gruppo ostinatamente perverso di dirigenti comunisti. Per conseguenza, essi si sforzano ancora una volta di fare ciò che un tempo tentarono senza successo coi capi nazisti: cercano cioè di mutare le loro pericolose inclinazioni con carezzevoli inviti alla calma, con appelli alla ragione e al senso di umanità, con la forza del ragionamento, e, se tutto questo non ottiene il risultato sperato, con la minaccia di sbalzarli dal potere. Ma, anche se il loro sforzo ottenesse un successo completo, il pericolo di una guerra non sarebbe scongiurato più di quanto non avvenne con la rimozione dei capi nazisti. La verità è che la Russia farebbe la stessa politica di aggressione anche se fosse guidata da una falange di santi, proprio come la Germania, la quale fu trascinata alla guerra aggressiva non soltanto da un uomo come Hitler ma anche da un sovrano come l'imperatore Guglielmo il quale, a differenza dell'empio e rozzo Fuhrer, era, se non proprio un santo, certo un devoto credente e il capo della chiesa protestante del suo paese. La Russia, nella sua attuale fase di espansione del potere, costituirebbe un pericolo per la pace mondiale anche se fosse nelle mani di un proconsole americano, proprio come la Gallia costituiva una costante minaccia per Roma sotto qualsiasi insegna, e in particolare sotto la temibile insegna degli stessi generali romani.

1 Io non penso naturalmente che l ' insolenza delle cariche sia una caratteristica tipicamente prussiana. Il termine prussiano è qui impiegato nel significato peggiorativo che altri autori gli hanno attribuito.

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L'attuale pericolo di guerra è costituito perciò non dall'esistenza di una mentalità aggressiva, ma dall'esistenza di un potere che è vicino alla massa critica, e che avrebbe prodotto una mentalità aggressiva anche se questa non fosse stata preesistente. Ne deriva che, se i capi russi agiscono come agiscono, ciò non e dovuto al fatto che essi siano cattivi, o che siano comunisti, o che siano russi; essi si comportano in modo aggressivo perché sono usciti dalla Seconda Guerra Mondiale con in mano un potere talmente vasto da essere indotti a pensare che, ora o in un prossimo futuro, esso non possa trovare in nessuna possibile coalizione un valido contrappeso. Tutte le volte che, in un passato ancora recente, essi maturarono questa convinzione, non esitarono ad attaccare, a invadere e a scatenare guerre. La Finlandia, l'Estonia, la Lituania, la Lettonia, la Cecoslovacchia e gli altri satelliti sono tutti monumenti al potere della Russia, e non alla mentalità o alla dottrina comunista. Se Mosca ha evitato di attaccare altri piccoli Stati come la Grecia e la Turchia, ciò è dovuto soltanto al fatto che questi Stati hanno potuto sempre contare sul formidabile appoggio degli Stati Uniti, che i padroni del Cremlino non si sentono ancora di potere sfidare impunemente. Appena avranno cambiato idea la Terza Guerra Mondiale sarà inevitabile.

Si afferma comunemente che i realistici governanti del Cremlino non ripeterebbero mai l'errore commesso da Hitler di entrare in guerra contro il mondo intero. Lo stesso Stalin si espresse in questi termini. Ma anche Hitler diceva di non voler ripetere l'errore commesso dal Kaiser di fare la guerra su due fronti, o l'errore in cui incorse Napoleone nel lasciarsi assorbire dalla sconfinata steppa russa. Eppure, alla fine, commise l'uno e l'altro. E Napoleone diceva di non voler mettere a repentaglio il suo impero facendo una guerra con lo Zar, col quale, in un primo tempo, stimava più saggio accordarsi piuttosto che urtarsi per dividersi il mondo. Eppure finì per fare proprio il contrario. Questi fatti dimostrano forse che quei geniali conquistatori avevano improvvisamente perso il loro equilibrio mentale? Certo no. Essi dimostrano semplicemente che non basta l'intuito, la saggezza o l'intelligenza a trattenere il potere dalle sue fatali degenerazioni, quando ha raggiunto la massa critica. L'unico sistema per prevenire le aggressioni non è quello di minacciare distruzioni o di appellarsi al buon senso e all'umanità dei capi, ma piuttosto quello di allontanare dal fuoco del potere la pentola in cui tali aggressioni arrivano lentamente a maturazione;

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proprio come l'unico modo per impedire all'acqua di bollire, quando ha raggiunto una certa temperatura, non è di fare affidamento sul fatto che normalmente essa è fredda, ma piuttosto di allontanarla da quella sorgente di calore che è la causa del suo riscaldamento.

Probabilmente, sia Napoleone che Hitler erano sinceri quando, in un primo tempo, esprimevano propositi di moderazione, perché, all'inizio della loro carriera di conquistatori, il potere che avevano in mano non consentiva loro di attaccar briga con tutti quelli che capitavano a tiro. Tale potere, infatti, aveva raggiunto un livello critico solo rispetto ad alcuni Stati e non al mondo intero. Perciò, dapprima essi si mostrarono aggressivi soltanto verso coloro coi quali sapevano di farla franca. Ma ogni successiva conquista aumentava la loro potenza, finché arrivarono a un punto in cui avevano tutti i motivi di credere che nessuna coalizione nemica sulla terra sarebbe stata in grado di opporsi alla loro marcia: era il momento in cui ambedue commisero quella che tempo addietro era apparsa una follia ma che ormai non lo era più. Questa è la ragione che potrebbe indurre gli ostinati realisti del Cremlino a tentare la conquista del mondo nonostante gli scoraggianti esempi del passato, e malgrado il proponimento fatto di essere più cauti dei loro predecessori. Quando la bilancia del potere penderà dalla loro parte, accadrà l'irreparabile. Giunta al livello critico, la potenza russa esploderà spontaneamente, anche se mancherà una deliberata iniziativa in tal senso da parte del Cremlino. L'unica speranza di evitare la guerra, mantenendo la potenza russa nelle attuali proporzioni, è quella di contrapporle un potere equilibratore di eguale grandezza, che funzioni come una specie di polizia di saturazione. Questo appunto è il metodo da noi attualmente seguito per preservare la pace. Ma operando su così vasta scala, l'equilibrio raggiunto è talmente precario che la deflagrazione può verificarsi con altrettanta facilità ad opera dello stesso potere equilibratore. Difatti, le considerazioni fatte sulla Russia valgono anche per gli Stati Uniti. Questo è il motivo per cui, a dispetto del nostro desiderio di pace, la Russia teme la potenza americana quanto noi temiamo la russa, e questo è il motivo per cui molto probabilmente le asserzioni di pace del Cremlino sono sincere quanto le nostre.

In conclusione, è sempre la disponibilità di un potere allo stato critico che trasforma gli Stati in aggressori, mentre l'assenza di un tale potere sembra costituire la condizione che assicura sempre il loro pacifismo. Perciò, tale pacifismo, lungi dal risolversi in un

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atteggiamento mentale o in una qualità acquisita che noi possiamo coltivare in noi stessi, è qualcosa che si impadronisce di noi automaticamente quando ci sentiamo fisicamente deboli: le tribù più selvagge sono pacifiche quando sono deboli; e per la stessa ragione, i popoli civili diventano selvaggi quando si sentono forti. Come una dose eccessiva di veleno è pericolosa per qualsiasi organismo, per quanto sano e forte possa essere, così il potere è pericoloso nelle mani di chiunque, anche di coloro che, come forza di polizia, sono incaricati di reprimere le aggressioni.

Ma, nell'esporre la teoria della guerra, non bisogna perdere di vista la vera causa primaria; perciò, dopo esserci a lungo soffermati, nelle ultime pagine, a parlare del concetto di potere, torniamo al problema della grandezza, ricapitolando ancora una volta brevemente i punti salienti della questione. Il potere, consistendo in una forza fisica e sviluppandosi in misura proporzionale all'estensione della società da cui promana, può arrivare al punto critico soltanto in una società che a sua volta ha raggiunto una grandezza critica. Il problema è ora di chiarire che cosa noi intendiamo esattamente per grandezza di una società. Quand'è che sipuò dire che una società sia più grande o più piccola? Visto che la grandezza sociale è una funzione della grandezza fisica, e che l'elemento ultimo da cui si può ricavare una unità di potere è l'individuo che fa parte del gruppo, la grandezza sociale sarà tanto più grande quanto più numerosa sarà la popolazione di quel gruppo. Dal punto di vista demografico, la società più estesa è quella composta dal più gran numero di persone. E la società critica è quella composta da ima popolazione che supera la somma delle popolazioni che possono essere schierate contro di lei.

Tuttavia, fintanto che varie società si trovano in differenti stadi di sviluppo, è necessario adottare alcuni criteri sussidiari per valutare esattamente l'effettiva grandezza di un gruppo. Difatti, la grandezza sociale di comunità diverse che non presentano lo stesso grado di civiltà, non è necessariamente proporzionale alla loro consistenza numerica. Come abbiamo già detto, una società a popolazione più densa può essere, per un certo tempo, più vitale e più potente di un'altra numericamente più ampia ; lo stesso dicasi di una società progredita rispetto a una arretrata, di una società attiva rispetto a una oziosa, o di una ottimamente organizzata rispetto a un'altra dotata di una organizzazione meno efficiente. Questo spiega come mai una minoranza ben organizzata possa spesso costituire, dal

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punto di vista sociale, una maggioranza, o come mai certi gruppi sociali meno popolosi spesso siano stati nella storia più aggressivi di altri più popolosi. Difatti, in periodi di transizione, il fattore organizzativo (come pure quello della densità e del dinamismo) agisce come un moltiplicatore della pura consistenza numerica, e come un acceleratore nel conseguimento di una grandezza socialepiù ampia, estraendo dallo stesso numero di persone una maggiore quantità di energia, ricorrendo semplicemente all'espediente di disporle in modo più razionale. Tuttavia, man mano che gli Stati continuano a popolarsi sempre di più, fattori come quelli rappresentati dalla densità, dal dinamismo e dalla perfezione organizzativa, finiranno per affermarsi spontaneamente anche in assenza di uno sforzo deliberato, tanto che nell'ultimo stadio di sviluppo — come è quello che stanno presumibilmente raggiungendo, in numero sempre crescente, molte società contemporanee — la grandezza sociale sarà di nuovo proporzionale alla consistenza numerica dei gruppi considerati, con la conseguenza che le società numericamente più ampie saranno quelle socialmente più potenti. Ed essendo più potenti, presenteranno più facilmente delle altre quegli squilibri e quelle difficoltà sociali la cui analisi costituisce l'oggetto di questo studio.

Un ultimo elemento che non deve essere trascurato, per amore di completezza, nella valutazione dell'effettivo potere sociale, riguarda la distanza geografica che intercorre fra il luogo in cui tale potere è esercitato e il luogo da cui esso scaturisce. Difatti, il potere effettivo, come il suono o la luce, diminuisce con l'aumentare della distanza. Questo spiega come mai gli imperi, pur occupando al loro centro una posizione di grandi potenze, sono inevitabilmente destinati a sgretolarsi alla periferia, a causa di una organizzazione locale meno efficiente. Le colonie americane, pur essendo costituite da una popolazione relativamente scarsa, furono in grado tuttavia di sviluppare una superiorità critica e di sfidare la potenza britannica la quale, pur essendo enorme in Europa, a distanza di tremila miglia appariva assolutamente insignificante. Se non fosse stato per il fatto che l'effettivo potere sociale è inversamente proporzionale alla distanza dal suo centro, i coloni di America difficilmente avrebbero preteso di subordinare l'obbligo di pagare i tributi alla concessione di un diritto di rappresentanza.

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7. Obbiezioni alla teoria del potere.

Molti non mancheranno di sollevare obbiezioni contro la teoria da noi esposta, sostenendo che essa si avvicina troppo a una interpretazione materialistica della storia. Ed è cosi. Ma non c'è niente di male in tutto ciò: il semplice fatto che l'interpretazione materialistica della storia sia stata per la prima volta esposta da Marx, non significa che essa sia infondata, e non è detto neppure che ogni interpretazione del genere debba essere necessariamente ateistica. Quella da noi esposta, ad esempio, non lo è. Noi viviamo in un universo materiale, e non si vede quindi che cosa ci debba essere di strano nel pensare che le circostanze materiali esercitino una irresistibile influenza sulla nostra condotta. È Dio e non Carlo Marx che ha creato il mondo a questo modo. Egli ci ha manifestato la Sua esistenza attraverso i sensi e attraverso la materia. I Suoi ordini ci pervengono attraverso le cose e le Sue leggi scaturiscono dal mondo delle cose . Il non tener conto della Sua creazione fisica nella interpretazione dei processi umani e sociali, sarebbe pertanto molto più empio che adottare l'interpretazione di Marx, la quale deve alla sua incompletezza piuttosto che alla sua fallacia il fatto di non essere pienamente soddisfacente. Marx nega l'esistenza di Dio, ma almeno ammette tutta la grandezza e la magnificenza del creato, il che non può essere sempre detto dei suoi detrattori. Come ci ha avvertito Churchill, noi plasmiamo la materia, ma è poi la materia che plasma noi.

Né sarebbe giusto dire che una interpretazione materialistica della storia esoneri l'uomo dalla responsabilità morale delle sue azioni, o lo privi dell'influenza che egli può concretamente esercitare sul corso della storia. È vero che la nostra condotta non è altro che una reazione a una condizione fisica esterna come quella rappresentata dalla quantità del potere che abbiamo a disposizione o, ancor meglio dalla grandezza della società, ma noi conserviamo tuttavia l'intelligenza e la libertà d'azione necessarie per determinare la natura delle condizioni fisiche che influiscono sulla nostra condotta. Se la nostra intelligenza ci dice che un certo grado di potere porta a una totale corruzione, non dobbiamo far altro che usare la nostra libertà d'azione per fare in modo che la quantità di potere sufficiente a corromperci non cada nelle nostre mani. E se noi sappiamo che questa quantità di potere si può accumulare soltanto in società che hanno raggiunto eccessive proporzioni, niente ci

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impedisce di essere ancora più previdenti e di fare il possibile per evitare che gli agglomerati sociali superino i loro limiti critici. Ulisse, il quale sapeva che nessun essere umano poteva resistere al canto delle sirene, non fu per questo condannato a diventare la vittima senza scampo della loro malia. Difatti, seguendo il suo buon senso e usando la sua libertà d'azione, ordinò ai marinai di tapparsi le orecchie, in modo che essi non potessero udire i suoi comandi. Indi, mise se stesso nella impossibilità di compiere un atto di pazzia altrimenti inevitabile, legando saldamente le sue robuste membra all'albero della nave, quando si trovò a passare in prossimità dell'isola pericolosa. Una interpretazione materialistica della storia non può fornire nessuna giustificazione moralmente valida del cattivo uso che un uomo può fare della sua intelligenza, quando non riesce a modificare l'ambiente fisico e sociale che lo circonda, in modo tale da far cessare automaticamente le reazioni umane che non si desiderano, provocandone, altrettanto automaticamente, altre che si ritengono più convenienti.

Per quanto la teoria qui esposta costituisca una interpretazione materialistica della storia, essa non è né amorale, né ateistica, come non lo è quella marxiana. Secondo Marx, la causa primaria che spiega l'evoluzione storica, e con essa il mutare delle azioni, degli atteggiamenti e delle istituzioni che caratterizzano la nostra vita, è il sistema di produzione che col tempo può cambiare. Secondo la teoria che è alla base di questo libro, tale causa primaria è data dalle dimensioni della società che anch'esse col tempo possono variare. Se la teoria di Marx rappresenta una interpretazione soprattutto economica, la nostra offre della storia una interpretazione soprattutto sociale o, se si vuol tener conto dell'importanza da essa attribuita alla grandezza fisica, una interpretazione fisica, o fisico-sociale. Essa cerca di colmare le lacune della teoria di Marx. Questo non significa che l'interpretazione marxiana non sia in grado di fornire una spiegazione in gran parte soddisfacente, tutt'altro. Difatti tale teoria rappresenta uno dei più lucidi strumenti di pensiero che siano mai stati messi a disposizione dell'uomo; vi sono tuttavia dei punti fondamentali sui quali cade in errore.

Per esempio, mentre la teoria del sistema di produzione di cui parla Marx fornisce una spiegazione del tutto persuasiva dei mutamenti che si verificano entro determinati periodi storici, essa non è in grado di spiegare in modo soddisfacente i mutamenti che si verificano fra un periodo storico e l'altro. Apparendo sempre come

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un deus ex machina , tale teoria è in grado di fornire una spiegazione di tutto, salvo della causa che ha determinato il suo sorgere e il suo declinare. Ad esempio, essa non spiega perché il sistema di produzione delle società primitive, basato sull'autosufficienza, abbia poi dato luogo al sorgere di metodi interdipendenti di specializzazione. La teoria del potere, invece, fornisce a tale proposito una risposta semplicissima: la specializzazione non e altro che l'adattamento spontaneo del sistema di produzione alle possibilità e alle esigenze di una società che ha raggiunto una certa grandezza fisica. Ancora un altro esempio. Quando la teoria marxiana cerca di spiegare la tranquillità della vita medioevale e la stabilità delle sue istituzioni collegando tali fenomeni alla lentezza di un sistema di produzione basato sul lavoro manuale, essa mostra notevole perspicacia. Ma, anche in questo caso, non riesce a fornire una spiegazione plausibile del perché tale sistema di produzione manuale sia sorto e sia stato lungamente applicato. Invece, affrontando il problema alla luce della nostra teoria, noi siamo in grado di comprendere non soltanto la tranquillità della vita sociale del Medio Evo, con la mentalità e i costumi che l'accompagnarono, ma anche il comodo sistema di produzione manuale che in esso vigeva. Difatti, un tranquillo sistema di vita, col suo senso di religiosità, la squisita delicatezza dei costumi, il rispetto delle regole di compitezza e di gerarchia, col suo concetto del giusto prezzo e del giusto salario, col suo dispregio dell'interesse, e infine col suo lento sistema di produzione, rappresentava non tanto il riflesso di attività economiche quanto di una vita che si svolge in piccole comunità. D'altra parte, ideali come l'eguaglianza, l'uniformità, il socialismo e il facile divorzio, che Marx attribuiva all'effetto livellatore della produzione in serie e alla fungibilità degli esseri umani addetti alle macchine, possono essere molto meglio compresi se noi li consideriamo, unitamente allo stesso fenomeno di produzione in serie, come il derivato di determinate esigenze di grandi società, e come la conseguenza dell'effetto livellatore di grandi moltitudini. Una volta raggiunto il limite che non permette più alle società in continuo sviluppo di soddisfare i loro bisogni attraverso la produzione manuale, si crea automaticamente quello slancio verso l'eguaglianza e quel clima di materialismo, di semi-paganesimo e di nuove invenzioni che costituiscono la causa piuttosto che l'effetto del sistema di produzione industriale.

Mentre non v'è alcun dubbio che il sistema di produzione agisca

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come un importante fattore secondario, come un moltiplicatore e un acceleratore delle tendenze, e sia per questo sempre utile tenerne conto nell'analisi storica, è certo che come causa primaria esso non sembra avere maggiore importanza di quella che Marx attribuiva alle idee politiche e agli istituti giuridici. Come i capitoli precedenti hanno mostrato a proposito di certe miserie e filosofie sociali, e come i capitoli seguenti si incaricheranno sempre più di chiarire a proposito di numerosi altri aspetti, buoni e cattivi, della vita economica, culturale, politica e filosofica, la causa primaria che influenza la vita e la storia umana, in ultima analisi, è quasi sempre rappresentata dalle proporzioni raggiunte dal gruppo sociale in seno al quale noi viviamo. Marx ignorava tale verità, ed e questo il motivo per cui la sua analisi, che per altri versi mostrava tanta acutezza di penetrazione, condusse a quegli sconcertanti errori su cui i suoi oppositori non si stancano mai di insistere (per quanto anch'essi solo raramente diano prova di comprendere come stanno le cose). Ad esempio, egli era convinto che il socialismo, sviluppandosi come un aborrito sottoprodotto del sistema capitalistico di produzione, si sarebbe dapprima affermato nei paesi capitalisti più progrediti. In realtà, esso si sviluppò dapprima in Russia, il paese più retrogrado. Il fatto e che la Russia era il paese più esteso, il che spiega l'errore. Difatti il socialismo, coi suoi piani di integrazione e le sue forme di controllo sociale, è il naturale sottoprodotto non di un sistema di produzione, ma di una società la cui estensione e le cui unità economiche sono diventate cosi ampie che il meccanismo autoequilibratore di una moltitudine di attività individuali in concorrenza fra loro, ha cessato di costituire un sistema efficiente 1. Marx era anche dell'avviso che un aumento della concorrenza avrebbe portato alla fine della concorrenza, che l'accumulazione dei profitti avrebbe provocato la fine di essi, che un incremento nella produzione capitalistica avrebbe portato alla impossibilità di vendere i prodotti, col risultato che il capitalismo avrebbe trovato in se stesso i motivi del suo annientamento. Questa

1 Come il socialismo è il naturale sistema politico di società eccessivamente ampie, esso è anche il sistema naturale di società troppo piccole. Ma le possibilità di sviluppo sono diverse. Col crescere, un'ampia società diventa più socialista, mentre una piccola società lo diventa sempre meno. Nel primo caso, lo sviluppo ulteriore ha un effetto di collettivizzazione, mentre nel secondo ha un effetto opposto. Si veda il saggio dell'autore intitolato: Economic Systems and Social Size t in Robert Solo, Economics and the Public Interest, Rutgers University Press, New Brunswick, 1955.

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opinione ha trovato una conferma in numerosi grandi Stati del mondo, che hanno mostrato la tendenza a una progressiva socializzazione. Ma essa si è rivelata falsa riguardo a piccoli Stati. La Svizzera è un paese capitalista, ma è florido più che mai. La ragione di ciò risiede nel fatto che il vero germe della distruzione, come Marx stesso deve aver avvertito a giudicare dalle frasi da lui usate a proposito di quelle che egli chiamava le contraddizioni del capitalismo, non è la concorrenza ma l'aumento della concorrenza; non i profitti, ma l'incremento dei profitti; non il capitalismo, ma l'illimitato sviluppo del sistema capitalistico. Ma affinché il germe possa crescere fino al limite della distruzione, esso ha naturalmente bisogno di un hinterland sociale abbastanza ampio per consentire prima di tutto questo suo sviluppo. Se l'analisi di Marx lasciava in sospeso degli sconcertanti punti interrogativi, possiamo ora dire di averli tutti risolti, considerando come fattore causale primario dello sviluppo storico, non già il sistema di produzione, ma le proporzioni raggiunte da una determinata società.

Molti si schiereranno contro la nostra teoria sostenendo anche che essa si basa su una concezione eccessivamente pessimistica dell'uomo. Costoro sosterranno che, lungi dall'essere attirati dal potere e stimolati da esso, noi siamo per lo più animati dagli ideali di convenienza, di giustizia, di magnanimità, e così via. Ciò è vero, ma soltanto perché, nella maggior parte dei casi, non disponiamo di quella massa critica di potere che ci dà la possibilità di compiere impunemente qualsiasi azione disonesta. Noi ci comportiamo come si deve, soltanto perché sappiamo che è più vantaggioso usare il limitato potere che abbiamo a disposizione per cose buone piuttosto che per cose cattive.

Questa asserzione non è un'accusa contro l'umanità più di quanto non lo sia la concezione di Adam Smith, secondo cui l'uomo d'affari capitalista è un astuto calcolatore che non pensa ad altro che al suo interesse, e che sta sempre a escogitare il sistema di arricchirsi alle spalle del consumatore. A quanto pare, siamo proprio su questa strada. Tuttavia Adam Smith, lungi dal vedere in questo fatto un valido motivo per combattere la libertà dell'individualismo capitalista, se ne fece sempre il più accanito difensore. Egli sapeva che l'ignobiltà dell'individuo è frenata dall'automatico espediente della concorrenza, la quale non è altro che un meccanismo per mantenere il potere del singolo uomo d'affari capitalista al di sotto del limite entro cui egli non può arrecare alcun danno. Se il moderno

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capitalista in cerca di profitti arriva al paradosso di agire come se fosse guidato da una mano invisibile per offrire alla società i migliori servizi, ciò è dovuto alla sua incapacità fisica di fare del male, non certo alle sue superiori virtù. Dal momento che i cattivi servizi da lui resi non gli arrecherebbero alcun profitto, egli, in forza del più puro egoismo, diventa altruista. Ma ogni volta che gli si presenta l'occasione di cospirare impunemente a danno del prossimo, ne approfitterà con gioia, come hanno dimostrato coloro che sono riusciti ad assicurarsi un monopolio. Costoro, a causa delle grandi dimensioni raggiunte dalle loro imprese, sono i soli, in una società capitalista a base concorrenziale, che possono impunemente fare il loro comodo, e subito ne approfittano fino a quando non trovano un contrappeso in un altro potere, quello del governo, che scaturisce da un centro di irradiazione ancora maggiore.

Il capitalismo concorrenziale, nel conseguimento delle finalità sociali, si è affidato di più alle imperfezioni dell'uomo che non alla finzione della bontà umana, e non sembra che abbia sofferto di questo fatto; del resto, tale finzione ha causato la disintegrazione dei progetti idealistici della maggior parte dei riformatori sociali. Né sembra averne sofferto la Chiesa Cattolica, che fu fondata su basi simili quando Gesù scelse come Suo successore non il nobile san Giovanni, ma il modesto Pietro, che era cosi pieno di debolezze da rinnegare per tre volte in una sola notte il suo Maestro. E tuttavia Gesù scelse Pietro e non Giovanni per edificare l'indistruggibile monumento alla Sua esistenza. Soltanto i socialisti fanno all'uomo il complimento di attribuirgli una natura fondamentalmente buona. Ma anch'essi, in fondo, fanno dipendere in qualche modo questo fatto da una condizione sociale esterna, rappresentata dall'assenza della proprietà privata risultante da un determinato sistema di produzione; per noi, come abbiamo visto, questa dipendenza si configura a una condizione fisica esterna, cioè l'assenza del potere che scaturisce dalle dimensioni raggiunte da una determinata società. Rimane comunque il fatto che il capitalismo, fintanto che si basò sull'idea dell'implacabile lotta concorrenziale, sembrò produrre valori economici e spirituali infinitamente maggiori di quelli prodotti dal socialismo, che si abbandonava alla benigna e utopistica convinzione che la natura umana potesse migliorare, modificando le condizioni economiche circostanti.

Si potrebbe a prima vista dire del socialismo che esso non ha mai avuto, come il capitalismo, l'occasione e il tempo di

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sperimentare il suo reale valore. Ma non è cosi. Le prime società umane hanno avuto un'impronta socialista, e nel corso della storia sono stati compiuti numerosi tentativi di costituire dei centri idealistici di vita comunitaria, emancipati dai degradanti effetti della proprietà privata. Questi tentativi hanno avuto tempo e circostanze favorevoli per affermarsi, ma, come la realtà dei fatti dimostra, prima o poi sono tutti falliti. E tale fallimento non fu dovuto al definitivo sviluppo della proprietà privata, ma al fatto che queste proprietà collettive, aumentando di dimensioni, divennero una fonte di potere. E come il potere ha sempre costituito l'elemento disgregatore delle comunità socialiste fin dal loro sorgere, cosi ora esso minaccia, con la creazione di monopoli, di disgregare le società capitaliste giunte al loro tramonto.

Infine, dobbiamo fare i conti con le obbiezioni di coloro che, come i teorici idealisti menzionati nel primo capitolo, credono che sarebbe pericoloso sottovalutare la influenza esercitata dalle idee come fattore determinante delle miserie sociali quali le aggressioni e le guerre. In realtà, la teoria del potere non sottovaluta le idee, limitandosi a sostenere che esse, come forze causali primarie, sono irrilevanti. Un'ideologia aggressiva come il fascismo, il nazismo o il comunismo, non è in grado di imporsi senza il potere, come dimostrano ampiamente gli esempi contemporanei della Spagna, del Portogallo e della Repubblica di San Marino. D'altra parte, e questo è quel che conta, se tale ideologia ha a disposizione il potere, diventa aggressiva proprio per questo, e non per il suo contenuto ideologico.

Pur negando alle ideologie come il nazismo o il comunismo un posto di primo piano, la teoria del potere non nega che esse possano avere un'influenza secondaria. Per quanto tali ideologie non possano — di per se stesse — causare delle guerre, esse sono in grado _ come abbiamo già detto — di accelerare il processo di accumulazione del potere, fino a un punto in cui questo esploderà spontaneamente senza tener conto di come e da chi sia stato creato. Ma anche sotto questo aspetto, l'efficacia di tali ideologie è molto limitata perché, nel presente stadio di sviluppo, la massa critica di potere può essere accumulata soltanto in Stati molto vasti. Ne deriva che le filosofie del potere, rivoluzionarie quanto si vuole, possono non dar luogo ad alcuna minaccia esterna fintanto che si affermano in seno a piccole società.

Vero è, invece, che, in grandi Stati, esse esercitano una certa

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influenza. In Germania, per esempio, l'ideologia nazista aspirava ad impossessarsi della massa critica di potere, concepito quest'ultimo non come accidentale sottoprodotto dello sviluppo conseguito, ma come fine a se stesso, e tale ideologia riuscì ad accelerare, forse di un quarto di secolo, l'inevitabile processo di accumulazione (che provoca, a un certo punto, la guerra). Ma quel che ci preme sottolineare è che la Germania, a causa del suo vasto potenziale di cui ha cominciato a disporre fin dalla sua unificazione, nel 1871 — potenziale che non è stato distrutto né nel 1918, né nel 1945, quando gli Alleati eliminarono il potere allora esistente ma non lo Stato di sessanta milioni di persone da cui tale potere scaturiva — sarebbe diventata aggressiva dopo la prima guerra mondiale anche senza il nazismo. La sola differenza è che, in mancanza di una filosofia del potere, ciò sarebbe avvenuto più tardi, cioè verso il i960 o 1970. Tale Stato si sarebbe sviluppato all'insegna della pace invece che della guerra, ma alla fine sarebbe esploso ugualmente, come una palla di neve che, scendendo da una montagna, si ingrossa fino a raggiungere proporzioni che sono di per se stesse catastrofiche, a prescindere dal fatto che sia stata messa in movimento da un innocente fanciullo o da un perfido calcolatore. Perciò, la cosa a cui devono fare attenzione coloro che tra noi si sforzano di difendere la pace, non è tanto il risorgere fra i Tedeschi del nazismo , quanto il risveglio, favorito dalle circostanze di fatto, di quel potere che essi potenzialmente posseggono. Il fatto è che tale potere, a meno che non sia mantenuto a un livello subcritico — il che non è facile quando ci si è avvicinati ad esso — non è meno pericoloso nelle mani di Adenauer o di un leader socialista antimilitarista, di quanto non lo sia nelle mani di un nuovo Hitler, di uno Stalin tedesco o, da questo punto di vista, di un capo supremo alleato. Le ideologie possono ritardare o affrettare certi fenomeni, non provocarli o impedirli.

8. Il potere negli Stati Uniti.

Un simile ragionamento vale anche per gli Stati Uniti che finora sembravano costituire una sorprendente eccezione alla teoria del potere. Ci troviamo di fronte a uno degli Stati più grandi che esistano sulla terra, forse il più potente, eppure esso, lungi dall'apparire il più aggressivo del mondo, come dovrebbe essere

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secondo la teoria da noi esposta, si dimostra addirittura contrario a ogni forma di aggressione.

Questo è senz'altro vero ma, come abbiamo visto, il potere, per produrre i suoi effetti, deve essere accompagnato dalla coscienza, in chi lo possiede, della sua grandezza. Entro i limiti dell'area marginale, non è la massa fisica che conta, ma lo stato d'animo che l'accompagna. Questa consapevolezza, che può essere definita l'anima del potere, a volte si sviluppa più rapidamente del potere stesso, mentre altre volte accade il contrario: questo è appunto il caso dell'America. Questo Stato, pur rappresentando già dalla prima guerra mondiale la più grande potenza fisica esistente sulla terra, e pur trovandosi quindi da molti anni a un livello critico, fino a tempo relativamente recente e stato oscurato come potenza politica e militare da tutti gli altri grandi Stati, proprio perché era sprovvisto di un'adeguata consapevolezza delle proprie forze. Le terrificanti energie di questo Stato, prive tuttavia di un coordinamento, potevano ancora essere utilizzate in mille altri modi, tanto che esso non vedeva la necessità di sperimentare la sua forza in competizioni internazionali, al di là dei confini dell'emisfero occidentale. Così, con un ardore che appare assolutamente incomprensibile alla mentalità europea, tale Stato, dopo la prima guerra mondiale, distrusse più presto che potè il suo potenziale bellico, e, invece di assumere atteggiamenti da conquistatore, divenne isolazionista, abbandonando completamente l'idea di esercitare, al di fuori dell'America, il ruolo di potenza mondiale. Ma, entro i confini dell'emisfero occidentale, anche gli Stati Uniti assunsero atteggiamenti che non potrebbero certo essere considerati come esempi di mansuetudine. In tale emisfero, gli Stati Uniti erano una potenza, che lo volessero o no, e si comportavano come una potenza.

Anche dopo la Seconda Guerra Mondiale, diedero l'impressione di voler distruggere il loro potenziale bel lico; ma il ritmo di tale smantellamento era notevolmente pia lento, tanto che, a un certo punto, si arrestò del tutto. Non vi è più la possibilità per gli Stati Uniti di non essere una grande potenza. Questa situazione ha avuto come conseguenza, forse involontaria ma inevitabile, raffermarsi di una particolare mentalità che ha avuto già modo di manifestarsi in numerose occasioni, come quando, ad esempio, il Segretario alla Difesa del Presidente Truman, Louis Johnson, indicò nel 1950 l'anno di una possibile guerra preventiva, o come quando il Generale Eisenhower, in un messaggio indirizzato al Congresso nello stesso

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anno, dichiarò che uniti potevamo sfidare il mondo. Questa affermazione è più degna di un Kaiser che non dell'allora Presidente della Columbia University. Per quale motivo un fautore della pace e un difensore della democrazia dovrebbe sfidare il mondo ? Espressa in termini non aggressivi, tale affermazione sarebbe stata che, qualora fossimo rimasti uniti, il mondo intero non avrebbe osato sfidarci. Comunque, ciò dimostra come la disponibilità del potere possa alimentare questo particolare stato d'animo, soprattutto in un uomo che, come il presidente Eisenhower, conosce quale sia la potenza degli Stati Uniti. Ciò dimostra anche che nessuna ideologia di pace, per quanto radicata possa essere nelle tradizioni di un paese, può impedire la guerra una volta che si sia giunti a un certo grado di potenza. Un'ideologia del genere può avere tutt'al più un'azione ritardatrice o di travestimento, come dimostra l'ingannevole mito della guerra preventiva, il quale perora l'aggressione proclamando solennemente di volerla evitare. È come se qualcuno volesse uccidere un uomo per evitargli il fastidio di morire!

Tuttavia si può dire che, in linea di massima, la mentalità degli Stati Uniti, che con tanta riluttanza si lasciano trascinare verso le soluzioni estreme, non corrisponda pienamente al grado di potenza raggiunto, almeno da un punto di vista interno. Ma un giorno la situazione cambierà, e quel giorno non dovremo ingannare noi stessi proclamandoci ingenuamente innocenti. Il potere e l'aggressività sono due inseparabili fenomeni che procedono di pari passo, non appena ci si avvicina al livello critico, e l'innocenza è una virtù soltanto fino a un certo punto e a una certa età. Se pure esistesse un potente Stato che non mostrasse il desiderio di sfidare e dominare gli altri, questo non sarebbe un esempio di virtù, ma di rimbambimento o di mongolismo. Negli Stati Uniti, comunque, la situazione è ben diversa. Pertanto, a meno che non si affermi che la definizione ciceroniana dell'uomo non si adatta al nostro caso, la massa critica di potere, anche nelle nostre mani, finirà per esplodere.

Con quel che abbiamo detto, siamo giunti per la seconda volta al punto di suggerire un rimedio per eliminare, basandoci sulla teoria del potere, una delle più tragiche calamità umane. Dopo aver accertato che lo stesso fattore che causa i crimini e la criminalità è responsabile anche della guerra e dell'ideologia aggressiva che l'accompagna, non ci resta altro che concludere che lo stesso espediente suggerito per la soluzione del primo problema debba essere applicato anche al secondo. Se le guerre sono dovute

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all'accumulazione di una massa critica di potere , e se la massa critica di potere può essere accumulata soltanto in organismi sociali di dimensioni critiche, è chiaro che i problemi come quelli delle atrocità e delle aggressioni possono essere risolti solo in un modo : riducendo le dimensioni di quegli organismi che si sono sviluppati in maniera da sottrarsi a ogni controllo umano. Come abbiamo visto, nel caso di miserie sociali di carattere interno, queste unità di eccessive proporzioni sono costituite dalle grandi città. Nel caso di calamità esterne, sono invece gli Stati che raggiungono le dimensioni critiche. Ciò significa che, se vogliamo liberare il mondo dalla minaccia continua di guerre aggressive, poco possiamo fare cercando di unirlo : non faremmo altro che aumentare il terrificante potenziale che si sprigiona dai grandi organismi. I nostri tentativi devono piuttosto orientarsi in senso opposto: favorendo cioè lo smembramento di quelle grandi entità nazionali che passano sotto il nome di grandi potenze. Difatti, solo tali potenze, nel mondo contemporaneo, posseggono le dimensioni adatte per provocare quegli sconvolgimenti sociali che invano cercheremo di evitare fintanto che non avremo eliminato il potere da cui essi sono causati.

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CAPITOLO TERZO

IL PRINCIPIO DELLA DIVISIONE

"Credo nel valore delle piccole nazioni".ANDRÉ G IDE

La nuova Carta dell'Europa. La soluzione del problema della guerra consiste nel rendere la guerra divisibile. L'automatica scomparsa dei problemi della minoranza. Il dissolversi dell'ostilità nazionale. Il carattere inoffensivo delle piccole guerre medioevali. In che modo la tregua di Dio rendeva la guerra divisibile nel tempo. L'effetto dell'eterna tregua di Dio voluta da Massimiliano: le guerre delle grandi potenze. Il terrore della guerra moderna. Le cause delle guerre moderne sono ridicole quanto quelle delle guerre medioevali. La grande potenza non è fonte di saggezza. Le opinioni del duca di Sully e di sant'Agostino sulle miserie della grandezza e sulla nobiltà dei piccoli Stati.

Il lato amaro delle conclusioni a cui siamo giunti attraverso la nostra analisi è che esse sono del tutto contrarie agli ideali per i quali il ventesimo secolo sembra battersi tenacemente. Tutto quello che i nostri uomini politici sembrano avere in mente per eliminare la minaccia della guerra atomica, è l'unificazione dell'umanità. Ma a che cosa condurrà un simile tentativo? Esattamente ai risultati a cui è giunto in passato. Unificare significa sostituire ai molti i pochi o, in termini politici, a molti piccoli Stati poche grandi potenze, col risultato che ora ha incominciato a ridursi non soltanto il numero dei piccoli Stati ma anche quello delle stesse grandi potenze. Prima della Seconda Guerra Mondiale, vi erano ancora gli otto Grandi. Dopo la guerra i Grandi erano cinque, poi quattro, infine ora sono tre. Tra poco avremo i due Grandi, e finiremo per averne uno solo, un unico Stato mondiale.

Però, come abbiamo potuto constatare analizzando la fisica della grandezza sociale, e come possiamo vedere gettando un semplice sguardo sul panorama politico dei nostri giorni, il processo di unificazione, lungi dal ridurre i pericoli di guerra, sembra proprio

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essere fatto apposta per aumentarli. Difatti, più uno Stato aumenta la propria potenza, più si trova in condizioni di accrescere la propria forza, fino al punto in cui essa diventa spontaneamente esplosiva. Ma questo processo di unificazione provoca le guerre non soltanto perché crea dei grandi Stati che, in ragione della loro superiorità, sono portati a scatenarle, ma anche perché esso ha bisogno di guerre, per sua stessa natura. La storia dimostra che nessuna grande potenza è stata mai creata in modo pacifico (eccetto, forse, l'Impero Austro-Ungarico sorto grazie a legami matrimoniali), anzi, ogni volta, più l'unità politica che sorgeva era grande, e più terribili e numerose erano le guerre necessarie per crearla. La Gran Bretagna, la Francia, l'Italia e la Germania sono sorte in seguito a una serie di guerre fra tanti piccoli Stati, che alla fine si sono uniti per effetto di successive conquiste, e non di loro spontanea volontà. La Società delle Nazioni e le Nazioni Unite sono sorte dopo due guerre mondiali. Né l'una né l'altra di queste due vaste e famose organizzazioni ha mai dimostrato di valere il prezzo pagato per esse, e c'è da rabbrividire pensando al prezzo che costerebbe un unico Stato mondiale.

Ma anche se si arrivasse a costituire tale Stato formato dalle Nazioni Unite, esso non risolverebbe nulla, perché continuerebbe ad essere composto da un ridotto numero di organismi statuali, aventi come nucleo le rimanenti grandi potenze. Non esiste fautore dell'unità mondiale, dotato di una certa autorità politica, il quale abbia pensato a un'organizzazione in cui gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Francia e la Russia potessero dissolversi, perdendo la loro individualità. Pertanto, qualunque fosse la struttura assunta dalle Nazioni Unite, le grandi potenze continuerebbero comunque ad esistere, e non ci sono motivi per ritenere che esse, una volta unite, si comporterebbero diversamente da come si comportano ora che sono divise. Come è stato dimostrato dalle campagne di Corea e d'Egitto, tali potenze, una volta divenute membri di un'organizzazione mondiale, si fanno guerra liberamente come se non lo fossero, e sempre per la stessa ragione: laddove esiste una grande quantità di potere allo stato critico, si verifica l'aggressione, e fintanto che tale potere rimarrà allo stato critico le aggressioni continueranno a verificarsi. A questo proposito, il Professor Henry C. Simons si è espresso con singolare chiarezza:

"La guerra è un processo di collettivizzazione, e il collettivismo su larga scala è per sua stessa natura causa di guerre. Gli Stati

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caratterizzati da un forte accentramento, anche se non sono militaristi per tradizione nazionale, lo diventano spinti dalla necessità di sostenere all'interno un caotico e "innaturale" accentramento del potere, stimolati dal minaccioso significato che ha per gli altri Stati la loro mobilitazione, spronati dalla inevitabile trasformazione dei loro rapporti commerciali che assumono l'aspetto di guerre economiche fra grandi blocchi economico-politici. Non vi può essere pace e ordine in un mondo composto da poche grandi potenze centralizzate" 1.

Dopo aver visto a quali risultati ci abbiano condotto le idee dei fautori dell'unificazione — cioè praticamente a un punto morto — cerchiamo ora di applicare la teoria del potere, per vedere quale soluzione — in senso del tutto opposto — essa possa offrirci. Invece di unire, dividiamo, invece di fondere i piccoli, smembriamo i grossi, invece di creare Stati meno numerosi e più grandi, creiamone di più piccoli e in maggior numero. A differenza di quanto finora abbiamo potuto constatare, questo sembra essere l'unico sistema capace di ridurre il potere alle dimensioni che consentano di evitare conseguenze catastrofiche, almeno sul piano dei rapporti internazionali.

1. La nuova carta politica dell'Europa.

Cerchiamo dunque di smembrare i grandi, e di misurare le conseguenze di tale smembramento. Per semplificare l'indagine applicheremo il principio di divisione soltanto all'Europa, e, per rendere la cosa ancora più agevole, escluderemo dalla nostra analisi la Russia. Siccome i più gravi problemi del nostro tempo trovano la loro origine storica in Europa, uno studio limitato al continente europeo, per la varietà di aspetti e di argo menti che esso presenta, e come se si riferisse al mondo intero.

Questa, a nostro avviso, sarebbe la nuova carta politica dell'Europa. Una volta eliminate le grandi potenze come la Gran Bretagna, la Francia, l'Italia e la Germania, al loro posto troveremmo una moltitudine di piccoli Stati come la Borgogna, la Picardia, la Normandia, la Navarra, l'Alsazia, la Lorena, la Saar, la Savoia, la Lombardia, Napoli, Venezia, uno Stato Pontificio, la

1 HENRY C. S IMONS , Economic Policy for a Free Society, The University Chicago Press, Chicago, 1948, p. 21.

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Baviera, il Baden, l'Hesse, l'Hanover, il Brunswick, il Galles, la Scozia, la Cornovaglia, e cosi via.

Ma uno smembramento puro e semplice delle grandi potenze non sarebbe sufficiente. Una volta scomparse la Francia, l'Italia, la Germania e la Gran Bretagna, gli attuali Stati di media grandezza come la Spagna, la Jugoslavia, la Cecoslovacchia, la Romania, e la Polonia, apparirebbero troppo potenti nel nuovo assetto politico del continente. In altre parole, tali Stati, lasciati nelle condizioni attuali, non sarebbero più di media grandezza, ma diventerebbero grandi potenze. Difatti, in tale ipotesi, il loro potere, che si trovava prima a un livello subcritico, arriverebbe al livello critico, e nessun vantaggio si ricaverebbe in tal caso dallo smembramento degli altri Stati. La conclusione è che anche queste potenze di media grandezza devono essere divise, in modo che sulla nostra carta appaia un altro gruppo di piccoli Stati come l'Aragona, Valencia, la Catalogna, la Castiglia, Varsavia, la Boemia, la Moravia, la Slovacchia, la Rutenia, la Slavonia, la Slovenia, la Croazia, la Serbia, la Macedonia, la Transilvania, la Moldavia, la Valacchia, la Bessarabia, e cosi via.

La prima cosa che risulta chiaramente da questa lunga lista di nomi, è che la nuova carta da noi proposta non presenta nulla di artificioso, dato che essa rispetta la naturale e originaria divisione geografica dell'Europa. Non vi sono nomi inventati. Al contrario, si tratta di popoli realmente esistenti i quali, come dimostrano i movimenti autonomisti dei Macedoni, dei Siciliani, dei Baschi, dei Catalani, degli Scozzesi, dei Bavaresi, dei Gallesi, degli Slovacchi o dei Normanni, hanno ancora una straordinaria vitalità. Sono le grandi potenze che hanno strutture artificiose a causa delle quali sono costrette a compiere sforzi disperati per mantenersi in piedi. Siccome esse non sono il risultato di una spontanea evoluzione ma di una serie di conquiste, possono preservarsi soltanto a prezzo di conquiste: la continua riconquista dei propri cittadini attraverso un flusso di propaganda patriottica che ci perseguita fin dalla nascita e cessa soltanto alla morte.

Ma ciò che ha bisogno di sforzi cosi colossali per sopravvivere non può che avere un carattere artificioso.

Se un abitante della Bretagna, di lingua celtica, sapesse per istinto o per tradizione di essere di nazionalità francese cosi come lo sono gli Alsaziani di lingua tedesca, i Borgognoni di lingua francese e gli abitanti della Francia meridionale di lingua catalana, non

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avrebbe bisogno di sentirselo ripetere tutta la vita. Malgrado questi sforzi, tuttavia, i vari gruppi etnici che compongono le grandi potenze non perdono occasione per sottrarsi a questa continua esaltazione della grandezza nazionale, cercando di racchiudersi, tutte le volte che possono farlo, entro gli stretti confini delle loro valli e province, in cui si sentono veramente a casa loro. Secoli e secoli di vita comune e di propaganda non hanno potuto sradicare tali sentimenti di autonomia, né hanno potuto creare quella naturale fedeltà e quel profondo senso di nazionalità a cui ogni piccolo Stato arriva spontaneamente.

Pertanto, lo smembramento delle grandi potenze, qualunque significato possa avere, lungi dal conferire all'Europa un assetto artificioso, segnerebbe il ritorno alla sua naturale conformazione. Ma tutto ciò non risolve ancora il nostro fondamentale problema il quale si pone in questi termini: un'Europa siffatta, sarebbe più pacifica?

2. La eliminazione delle cause della guerra.

La risposta è senz'altro affermativa. Questo è il secondo punto che emerge dalla semplice considerazione dei piccoli Stati che abbiamo enumerato. Quasi tutte le guerre sono state combattute in nome dell'unificazione, e l'unificazione è stata sempre dipinta come una pacificazione. Sicché si arriva al paradosso che quasi tutte le guerre sono state combattute in nome dell'unità e della pace, il che significa che, se non fossimo stati unionisti e pacifisti tanto accaniti, avremmo potuto evitare un buon numero di conflitti. La guerra più terribile degli Stati Uniti, quella di Secessione, fu combattuta per preservare l'unità del paese. In Europa, di solito, l'unificazione ha offerto il pretesto a un grande Stato per annettersi il territorio di uno Stato più piccolo. Questo fenomeno si è contemporaneamente verificato in vari punti del continente, che sono diventati i suoi centri di irradiazione, col risultato che i piccoli Stati hanno finito per essere gradualmente assorbiti dagli Stati centrali in fase di espansione, prima che le grandi potenze ora salite alla ribalta raggiungessero comuni frontiere. Tramontata allora ogni speranza di ulteriori espansioni, questi Stati hanno incominciato a disputarsi i loro ultimi acquisti, i loro territori di frontiera. Ma come si chiamano questi territori di frontiera che originariamente

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costituivano piccoli Stati sovrani, e che divennero la causa di terribili contese, non per loro natura, ma in seguito al loro assorbimento da parte di più grandi potenze? Sono gli stessi nomi in cui ci siamo imbattuti descrivendo la nuova carta dell'Europa: Alsazia, Lorena, Saar, Slevig, Holstein, Macedonia, Transilvania, Trieste, Slovacchia, Savoia, Corsica, Sud Tirolo, e tanti altri. Si tratta proprio di quegli Stati per il cui possesso sono state combattute la grande maggioranza delle guerre europee. Da allora in poi, essi hanno perso la loro indipendenza, diventando sinonimi non di progresso, ma di guerra. Ne deriva che essi non sono stati mai completamente assorbiti dalle potenze che li dominano, per cui continueranno sempre a rappresentare passivamente delle zone di attrito.

Pertanto, il ristabilimento della sovranità dei piccoli Stati, non soltanto soddisferebbe il loro desiderio, mai sopito, di riacquistare la propria indipendenza, ma eliminerebbe, come per incanto, la causa della maggior parte delle guerre. Non vi sarebbe più da discutere se l'Alsazia debba far parte della Francia o della Germania: se non si lasciasse più a questi due paesi la possibilità di accampare pretese su tale territorio, esso sarebbe l'Alsazia, e basta. Confinerebbe allora con il Baden e la Borgogna, due piccoli Stati non certo in grado di mettere in pericolo la sua esistenza. Non vi sarebbe più da discutere se la Macedonia debba appartenere alla Jugoslavia, alla Bulgaria o alla Grecia: essa sarebbe un paese indipendente; lo stesso dicasi della Transilvania che viene ora contesa fra l'Ungheria e la Romania e dell'Irlanda del Nord, la quale non costituirebbe più motivo di contesa fra la Gran Bretagna e l'Eire: essa non apparterrebbe a nessuno, e costituirebbe uno Stato a sé, l'Irlanda del Nord. Se tutti gli Stati fossero piccoli, cesserebbero di essere regioni di frontiera, con potenze confinanti sempre avide di conquiste. Ognuno di essi sarebbe troppo grosso per essere fagocitato dagli altri. In tal modo, l'intero sistema funzionerebbe come uno stabilizzatore automatico.

Sempre in riferimento al problema delle zone di frontiera che sono oggetto di contesa, un'Europa di piccoli Stati porterebbe alla eliminazione automatica di un'altra causa di conflitto: la questione delle minoranze. Siccome da un punto di vista politico non esistono limiti alle dimensioni di uno Stato sovrano, ogni minoranza, per quanto piccola sia e qualunque sia il fondamento del suo desiderio di autonomia, potrebbe diventare padrona della sua terra, parlare la sua

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lingua come e quando le pare, ed essere felice a suo modo. La Svizzera, che è un paese cosi saggio nella scienza e nella pratica di governo, ha dimostrato come sia possibile risolvere i problemi delle minoranze non conferendo loro dei diritti , ma facendo di esse degli Stati. Non ostante il fatto che i suoi cantoni siano già tanto minuscoli, essa non ha esitato a dividerne tre a metà, facendone degli Stati indipendenti, non appena si manifestarono in seno ad essi dei contrasti interni che avrebbero potuto creare problemi di minoranze, e che avrebbero avuto bisogno di un grado di reciproca sottomissione incompatibile con gli ideali di libertà democratica. Perciò, il piccolo Unterwalden , fin dal tredicesimo secolo è stato diviso in due cantoni distinti, l'Ob-walden e il Nidwalden, e ciascuno di essi, da allora in poi, ha avuto un suo proprio indirizzo nella politica svizzera. Nel 1597, sotto l'azione della Riforma, il cantone di Appenzell, invece di preservare a ogni costo la sua unità a spese dei gruppi ostili che più non la desideravano, si divise in due : si ebbe cosi il cattolico Inner Rhoden, dedito in prevalenza alla pastorizia, e il protestante Ausser Rhoden , a carattere prevalentemente industriale. Infine, nel 1833, il cantone di Basilea si divise nei due cantoni distinti di Basel City e di Basel Land, dopo che i distretti rurali si erano ribellati contro il governo non democratico delle corporazioni urbane dei mestieri. La divisione e non l'unione fu dunque l'espediente per mezzo del quale gli Svizzeri riuscirono a preservare l'unità e la pace del loro paese, risolvendo nello stesso tempo i problemi delle minoranze, come pochi Stati seppero fare.

Si può infine aggiungere che, adottando tale sistema, un altro grave problema del mondo cesserebbe automaticamente di esistere. Un'Europa di piccoli Stati vedrebbe scomparire, almeno nel e proporzioni devastatrici e patologiche oggi esistenti, quelle ostilità nazionali che prosperano in ambienti dominati da una mentalità del potere, la quale a sua volta è caratteristica di grandi Stati nazionali. I Tedeschi, i Francesi e gli Italiani, dominati dalla perversa influenza della loro storia piena di sangue e di stragi, si odieranno sempre fra loro. Nessun Bavarese, invece, ha mai odiato un Basco, né un Borgognone un abitante di Brunswick, né un Siciliano un abitante dell'Hesse, né uno Scozzese un Catalano. Nessuno sgarbo ha mai turbato la storia dei loro vaghi e lontani rapporti. Continuerebbero certo a esistere rivalità e gelosie, ma scomparirebbero quegli odii inveterati che caratterizzano i rapporti

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fra le grandi potenze, i quali dimostrano mancanza di spirito e ristrettezza di idee.

3. Le guerra fra piccoli Stati e il loro carattere inoffensivo.

A questo punto, non mancheranno certo le obbiezioni. Non è forse ridicolo sostenere che in un mondo di piccoli Stati non ci sarebbe più posto per la guerra? Che cosa dire allora dell'oscuro Medio Evo, durante il quale i piccoli Stati non facevano altro che combattere fra loro?

Certo. Ma lo scopo della nostra analisi non è di proporre imo di quegli utopistici piani di pace perpetua che oggigiorno vanno tanto di moda. Noi intendiamo semplicemente trovare una soluzione ai nostri peggiori mali sociali, senza pretendere di eliminarli. Il problema della guerra, al giorno d'oggi, non è rappresentato dal suo verificarsi, ma dalle sue dimensioni, cioè dalla sua grandezza devastatrice. Le guerre in quanto tali, naturalmente, esisteranno sempre, in un mondo di grandi potenze come in uno di piccoli Stati. In un mondo di piccoli Stati, scompaiono le cause più gravi di conflitto, ma rimangono sempre le altre. Non si può evidentemente sradicare l'istinto dell'aggressività o le altre tendenze perverse della natura umana. Né si può escludere la possibilità che anche i piccoli organismi sociali possano sviluppare una certa quantità di potere critico, capace di condurli ad azioni sfrenate. Ma il sistema da noi suggerito offre almeno la possibilità di rendere tali fenomeni controllabili, riducendo la loro efficacia, privandoli del loro aspetto più tragico, rendendoli insomma sopportabili.

Dal punto di vista della guerra, questo è tutto quanto si può sperare da un mondo di piccoli Stati. Esso riduce i problemi che affliggono i grandi alle proporzioni in cui possono essere fronteggiati anche dai piccoli. Dato che ogni problema assume le proporzioni dell'organismo in cui viene a crearsi, le orgogliose grandi potenze sono terrorizzate dai pericoli che i piccoli Stati superano senza paura. Questo è il motivo che spiega come mai un mondo di grandi potenze, resti cosi pateticamente avvinto alla fallace illusione dell'uomo buono con tutti i suoi lati migliori, e lotti in modo cosi disperato per assicurarsi la pace. Ogni più piccola malvagità e ogni minima e insignificante perturbazione spinge le autorità responsabili a ricorrere alle migliori risorse del loro ingegno e tormenta il loro cervello. Un mondo fatto di piccoli Stati

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non è soggetto a simili turbamenti. Le sue guerre sono di poca importanza e sono piccole come gli Stati che le combattono; gli odii si riducono a rivalità, e non si soffre la doppia angoscia di un mondo di grandi potenze che tenta sempre di raggiungere ciò che è irraggiungibile e soccombe poi fatalmente all'inevitabile.

Certo, è vero che un mondo di piccoli Stati non potrebbe mai essere del tutto pacifico, e che è destinato a rimanere continuamente in subbuglio a causa di guerre simili a quelle che caratterizzavano il Medio Evo. Ma in che cosa consistevano queste famose guerre medioevali? Il Duca del Tirolo dichiarò guerra al Margravio della Baviera perché gli erano stati rubati alcuni cavalli. La guerra durò due settimane : si ebbero un morto e sei feriti, fu occupato un villaggio e si fece man bassa del vino trovato nella locanda del luogo. Poi si fece la pace, e si fissò a cento talleri l'ammontare delle riparazioni. L'Arcivescovado di Salisburgo e il Principato del Liechtenstein, che sono a due passi, vennero a conoscenza dell'accaduto parecchie settimane più tardi, e il resto dell'Europa non lo seppe mai. Durante il Medio Evo, la guerra divampava in ogni angolo dell'Europa, quasi ogni giorno, ma si trattava di piccoli conflitti che avevano conseguenze trascurabili, perché gli Stati che li combattevano erano piccoli e dotati di modeste risorse. Siccome ogni campo di battaglia poteva essere abbracciato con lo sguardo dalla sommità di una collina, i generali avversi erano in grado, a volte, di terminare il combattimento senza perdite, e senza insistere nella lotta, quando si rendevano conto di essere stati irrimediabilmente battuti dal nemico. Da ciò l'espressione guerre di manovra le quali, incruente com'erano, potevano considerarsi guerre per modo di dire. Quale contrasto coi titanici conflitti di oggi che sfuggono al controllo dei generali più famosi, tanto che essi, come giganti orbi, non hanno altra alternativa, se vogliono conoscere chi sarà il vincitore, che quella di battersi disperatamente fino alla fine!

Quel che importa sottolineare è che, allora, la guerra come la pace erano divisibili . Il fatto di considerare questo elemento come un vantaggio, non mancherà certo di colpire i teorici di questa nostra epoca che cammina all'insegna dell'unità in tutte le cose. Eppure era senz'altro un vantaggio. Difatti, il mondo di allora, fatto di piccoli Stati, con la sua incredibile suddivisione in una miriade di territori sovrani, faceva sì che le guerre rimanessero localizzate e, ogni volta che ne scoppiava una, impediva che essa, espandendosi, divampasse sull'intero continente. Le numerose frontiere funzionavano

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costantemente da isolatori contro l'espansione di un conflitto, proprio come la struttura cellulare di una pila atomica funziona come barriera, non contro la possibilità di una esplosione atomica che, entro tali ristretti limiti, è innocua e controllabile, ma contro la devastatrice e incontrollabile reazione a catena che si verifica invece nella camera di reazione unica della bomba atomica.

Il risultato paradossale del continuo verificarsi di guerre durante il Medio Evo, era la simultanea prevalenza della pace. Noi spesso non riusciamo a renderci conto di questo perché la storia ricorda soprattutto le perturbazioni della pace, e non inesistenza di essa. Ne deriva che noi vediamo le guerre medioevali come vediamo la Via Lattea, che ci appare tanto densa di stelle soltanto perché osserviamo questa galassia discoidale dall'esterno, da un angolo piatto. Perciò, noi conosciamo i minimi dettagli di una guerra come quella scoppiata, a un certo momento, fra la Baviera e il Tirolo, mentre ignoriamo che nello stesso periodo la pace regnava in Boemia, in Ungheria, in Carinzia, a Salisburgo, nelle Fiandre, in Borgogna, a Parma, a Venezia, in Danimarca, in Galizia e in tanti altri posti. Il fenomeno della guerra medioevale rassomiglia a una di quelle piccole onde spumeggianti che si frangono sulla riva senza ordine, e che non si uniscono mai per formare un'ondata gigantesca come quella che, durante l'alta marea, investe un intero continente. Se vogliamo approfondire il nostro studio, è necessario certo tener conto delle guerre che si sono verificate in quell'epoca, ma soprattutto non bisogna trascurare i frequenti periodi di pace che la caratterizzarono. Come molti nostalgici viaggiatori, percorrendo l'Europa, possono rendersi conto, il Medio Evo ha costruito molto più di quanto abbia distrutto, il che sarebbe stato difficilmente possibile, se fosse esatta l'idea che noi abbiamo di tale epoca. La realtà è che l'oscuro Medio Evo sotto molti aspetti, ed anche dal punto di vista delle guerre, era un'età più progredita della nostra, cosi piena di desideri di pace e di persone pronte a criticare affrettatamente l'arretratezza medioevale.

4. La tregua di Dio.

Se il Medio Evo potè godere di periodi di pace relativamente numerosi, ciò non fu dovuto soltanto al fatto che la guerra e la pace erano divisibili nello spazio, data l'esistenza di un sistema di piccoli Stati con una fitta rete di frontiere; fu una prova di vera genialità

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l'aver reso tali fenomeni divisibili anche nel tempo. Gli uomini responsabili di allora non ebbero mai fiducia nell'assurda utopia di una pace perpetua, e perciò non sciuparono mai il loro tempo nel tentativo di realizzare questo impossibile ideale. Ben conoscendo di che materia è fatto l'uomo, essi saggiamente basarono i loro sistemi non sulle sue pretese, ma sulle sue debolezze. Nell'impossibilità di impedire la guerra, essi fecero l'unica cosa che si poteva fare: cercarono di controllarla. E questo loro tentativo ebbe successo, soprattutto attraverso un istituto che essi chiamarono Tregua Dei, cioè Tregua di Dio1.

Questa tregua era basata sul concetto che la guerra, come era divisibile nel senso dello spazio, cosi lo fosse nel tempo. Secondo le sue originarie clausole, ogni guerra doveva essere interrotta il sabato a mezzogiorno e non poteva essere ripresa che il lunedì mattina, in modo che la domenica potesse esser dedicata al culto del Signore. In seguito, il periodo della tregua fu esteso fino a comprendere il giovedì, in onore all'ascensione di Cristo, il venerdì, in reverente commemorazione della sua crocefissione, e tutto il sabato, in onore della sua sepoltura. Oltre a queste limitazioni temporali, numerosi luoghi furono dichiarati immuni da azioni militari. Pertanto, anche in piena guerra, le chiese, i cimiteri, e i campi nella stagione del raccolto, non potevano costituire teatro di guerra. Infine, interi gruppi di persone come donne, bambini, vecchi, o contadini occupati nei campi, furono posti sotto speciale protezione e non potevano essere molestati. Le infrazioni alla Tregua di Dio venivano punite sia dalla Chiesa che dallo Stato, e le violazioni particolarmente gravi avevano come sanzione un lungo periodo di esilio a Gerusalemme.

Tutto ciò non mancava di rendere estremamente difficile il compito dei poveri guerrieri che videro ridotte le possibilità di combattere a tre giorni per settimana, senza considerare che a volte essi erano costretti a cessare la battaglia quando avevano appena scoccato le loro prime frecce. Altre volte, la prolungata interruzione di fine settimana aveva un tale effetto che essi non riuscivano a riprendere daccapo le ostilità. Ma la caratteristica pili importante di 1 La prima prova documentata della tregua di Dio risale all 'anno 1041,

quando diversi vescovi francesi ne trasmisero lo schema al clero italiano per l'approvazione. Nel 1042, il duca Guglielmo la promulgò in Normandia. Nel 1095, Papa Urbano II la confermò come un'istituzione generale al Concilio di Clermont. Nel 1234, le sue regole furono codificate da Papa Gregorio IX, e incorporate nel Corpus juris canonici.

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questo singolare istituto era pur sempre questa: malgrado i numerosi periodi obbligatori di pace, vi era un ristretto numero di giorni in cui la guerra era legittima. Ci si preoccupava che funzionasse sempre la valvola di sicurezza attraverso la quale l'aggressività si stemperava in piccoli scontri controllabili. E il sistema funzionò fino a quando l'Imperatore Massimiliano I del Sacro Romano Impero non fece un passo fatale.

Massimiliano, che regnò fra il 1493 e il 1519, cioè in un periodo in cui dal Medio Evo si stava passando all'epoca moderna, era un grande idealista e viene spesso citato come l'ultimo Cavaliere . Sarebbe più appropriato definirlo il primo modernista. Difatti, alla maniera dei moderni teorici, egli riteneva che in questo mondo pieno di imperfezioni l'uomo, essere per natura imperfetto, potesse comporre in un quadro unitario e coerente i grandi disegni e i sublimi ideali della vita. Per questo egli si chiedeva: se la pace può essere preservata nelle chiese e nei campi coltivati, perché non può esserlo ovunque? Se la si rispetta nei confronti dei vecchi, delle donne e dei bambini, perché non la si deve rispettare nei confronti di tutti gli uomini? E se la pace esiste dal giovedì al lunedì, perché non dovrebbe esistere tutti i giorni, tutte le settimane, tutti gli anni? Perché non renderla indivisibile?

Questo è appunto quel che cercò di fare, promulgando l'Eterna Tregua di Dio. Come gli uomini politici di oggi avrebbero poi fatto secoli e secoli più tardi (abbandonandosi compiaciuti alla ricerca di soluzioni assolute come i trionfi totali, le rese totali, la pace totale), Massimiliano mise al bando la guerra, per sempre. E quale fu il risultato? Dopo la promulgazione dell 'Eterna Tregua di Dio , si fece la guerra non soltanto il lunedì, il martedì e il mercoledì, ma anche il giovedì, il venerdì, il sabato e perfino la domenica; non soltanto sui campi di battaglia consentiti, ma anche nei terreni coltivati a grano e nei cimiteri; e non solo contro i soldati, ma anche contro le donne, i bambini, e i vecchi. In verità, tutto era diventato totale fuorché la pace.

Prendendo dunque in considerazione il mondo medioevale, fatto di piccoli Stati, noi possiamo renderci conto che esso non offriva certo un esempio di divina perfezione. Al contrario, esso era pieno di insufficienze, di debolezze, e di problemi riguardanti la vita in generale. Ma — e questo era il suo grande lato positivo — tale mondo non fu mai terrorizzato dai problemi che doveva affrontare, perché anche i più difficili, su scala ridotta, assumevano proporzioni

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insignificanti. Questo è quel che sant'Agostino aveva in mente quando, contemplando l'informe miseria della grandezza, si chiedeva nella Città di Dio (Libro III, capitolo X) :

"Per quale motivo un impero, per diventar grande, dovrebbe essere in continua agitazione? Per questo fragile corpo umano, non è meglio avere una piccola statura e una salute di ferro, piuttosto che la corpulenza dei giganti e una quantità di malanni? Perché desiderare tale statura che non ci consente di riposare quando è necessario, e che ci arreca sofferenze ancora mag giori ?" ; o quando cita Sallustio elogiando quel mondo di assoluta libertà che sembra essere esistito ai primordi della storia :

"All'inizio i re erano diversi: alcuni esercitavano le loro facoltà fisiche, altri le loro facoltà spirituali, e la vita degli uomini, a quei tempi, si svolgeva senza allontanarsi dalle abitudini e dagli interessi loro propri, ciascuno rimanendo nel proprio ambito".

Come i re, cosi anche il Medio Evo era caratterizzato dal fatto che, malgrado le sue debolezze e i suoi conflitti, esso non esorbitava dalla cerchia "delle proprie tendenze e abitudini", mentre ogni problema poteva essere contenuto entro gli stretti limiti della sua "propria sfera".

5. La sventura dell'unificazione.

Lasciamo ora da parte il Medio Evo, e vediamo che cosa accadde quando il mondo di piccoli Stati, coi suoi feudi e le sue guerre da operetta, fu sostituito dal moderno sistema delle grandi potenze. Il motivo con cui tale nuovo sistema giustificò il suo sorgere agli occhi degli storici, fu l'esigenza di pacificare vaste regioni prima tormentate da guerre tribali. Indubbiamente da questo punto di vista ebbe successo e, siccome la maggior parte di noi gongola di gioia ogni volta che sente pronunciare la parola pace, tale sistema, fino ai nostri giorni, ha incontrato grande approvazione. Ma il risultato di questa pacificazione regionale è stato veramente la pace? Non si direbbe. Difatti, appena i nuovi Stati nazionali si furono consolidati, pacificando i nuovi territori acquisiti e coordinandoli in una superiore unità sistematica, la loro naturale aggressività cominciò a manifestarsi esattamente nello stesso modo in cui si manifestava al tempo dei piccoli Stati che li precedettero, e che essi distrussero per eliminare il turbamento alla pace creato dalla loro litigiosità. Non appena ebbero adeguatamente assimilato i nuovi acquisti, tali Stati

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presero a interessarsi dei territori situati al di là dei loro confini, che consideravano uno sbocco alle loro energie, e cosi cominciò un nuovo ciclo di guerre, le quali, però, erano qualitativamente diverse da quelle che si verificavano in passato.

Queste guerre che, dalla promulgazione dell'Eterna Tregua di Dio in poi caratterizzano l'evoluzione dei tempi moderni, hanno un elemento a loro favore: esse si verificavano a intervalli più lunghi rispetto alle guerre medioevali. Ed è questa caratteristica che ci induce spesso in errore quando noi ci illudiamo che la pacificazione di vaste regioni e la loro organizzazione in unità politiche più potenti, si sia risolta, in fin dei conti, in un vantaggio per l'umanità. Si è indotti a questo equivoco dalla constatazione che le guerre, pur non completamente eliminate, si sono però notevolmente ridotte di numero. Ma non è la quantità che conta, bensì la qualità. Queste guerre, essendo ingaggiate da grandi potenze, non si risolvevano più in piccoli conflitti con pochi morti e feriti, tendenti a ripetersi con la regolarità delle stagioni. Ora, si avevano prolungati periodi di pace, senza perdite di nessun genere. Ma quando alla fine le guerre scoppiavano, esse trascinavano ogni volta nel loro vortice una gran parte del mondo. Quel che poteva essere preservato in prolungati periodi di pace veniva improvvisamente distrutto con la rapidità del baleno. Un solo mese di guerra moderna fra grandi potenze costa più, in vite umane e in beni, di quanto potessero costare secoli e secoli di guerre medioevali.

Le grandi potenze, invece di pacificare il mondo, hanno semplicemente portato all'eliminazione delle ridicole guerre da operetta che caratterizzavano i secoli dell'oscurantismo, offrendoci in cambio qualcosa di più serio. A parte questo, il loro avvento non ha portato a nessun cambiamento. Le cause della guerra continuano ad essere ridicole come sempre, perché i grandi Stati nazionali, pur più potenti di quelli che li precedettero, non sono per questo diventati più saggi. In passato, quando sul ponte del Reno che unisce Strasburgo a Kehl due doganieri attaccavano briga e ciascuno sosteneva che l'uniforme del suo paese aveva subito un'onta e aveva diritto a una riparazione, il peggio che potesse capitare era una guerra tra il Baden e l'Alsazia. Gli Stati che si trovavano a cinquanta miglia di distanza da un lato e dall'altro, continuavano a vivere in pace. Non avendo particolari legami coi belligeranti, sarebbe stato sciocco mostrarsi offesi per un insulto diretto contro dei vicini coi quali essi non avevano politicamente niente in comune. Un incidente

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del genere, se si verificasse ai nostri tempi, potrebbe ugualmente provocare una guerra, e forse con maggiore probabilità, dato che i grandi sono più suscettibili dei piccoli. Ma una guerra simile non si arresterebbe alle frontiere dell'Alsazia e del Baden, che non costituiscono più due Stati distinti sulle due rive opposte del Reno. Oggi questi due Stati sono la Germania e la Francia, due grandi potenze. Ciò significa che nella lite scoppiata fra due doganieri su un lontano ponte del Reno oggi sarebbero coinvolti gli abitanti della Normandia che vivono sull'Atlantico, gli abitanti della Corsica che vivono in un'isola del Mediterraneo, la gente che abita nel Meklenburgo sulle sponde del Baltico, e quella che abita le Alpi della Baviera. E siccome le famose grandi potenze hanno meno fiducia nella loro capacità di combattere di quanta ne avessero i piccoli Stati, e sono perciò sempre timorose e sempre alla ricerca di alleati grandi e piccoli, uno scambio di schiaffi avvenuto a Strasburgo fra due doganieri quasi sicuramente darebbe luogo a episodi simili a Vladivostok o a Yokohama. Una volta abolite, all'insegna dell'unità, le frontiere dei piccoli Stati che funzionano da elementi isolatori, ogni più piccola controversia è in grado di provocare una reazione a catena di proporzioni catastrofiche. La guerra è diventata indivisibile.

Pertanto, il fatto che le guerre moderne siano meno numerose, difficilmente potrebbe essere considerato un apprezzabile contributo alla pace, se si tien conto delle miserie che tali conflitti seminano da un capo all'altro del globo. Un mondo di piccoli Stati non avrebbe mai potuto provocare catastrofi di tal genere, come dimostra la storia del Medio Evo, e come dimostra anche la storia contemporanea, limitatamente alla sola vasta area del globo, il Sud America, in cui ancora permane un sistema di piccoli Stati. Su quel continente, ci sono sempre guerre e rivoluzioni, guerre che nessuno nota, che vanno e vengono come temporali di primavera, e che si concludono senza l'ausilio di un costoso apparato come quello delle Nazioni Unite o di un supergoverno continentale; guerre che nel giornale della Storia, meritano, al massimo, un articolo di fondo. Il semplice fatto che esse ispirino compositori d'operetta piuttosto che acuti pensatori politici, i quali si irriterebbero se venissero seccati per questioni di cosi poco conto, è la migliore prova della loro innocuità. Allora, ci si domanda se non sia preferibile essere vittime di una ridicola guerra da operetta che fa furore a Hollywood, piuttosto che di una guerra fatta sul serio, come quelle scatenate

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oggigiorno dalle grandi potenze, che occupano pagine e pagine nei nostri libri di storia.

Le grandi potenze, sorgendo all'insegna del pacifismo, non hanno arrecato al mondo che sofferenze. Esse non rappresentano alcun progresso : difatti, invece di risolvere i problemi che affliggevano i piccoli Stati, li hanno aggravati a tal punto che ormai soltanto Iddio può risolverli, non certo le deboli forze umane. Questo accade perché, come già disse Aristotele, "esiste un limite alla grandezza degli Stati, come ne esiste uno alla grandezza delle altre cose, le piante, gli animali, gli oggetti". Ed egli aggiungeva: "Una grande città non deve essere confusa con una città popolosa. Non solo, l'esperienza dimostra esser difficile, anzi forse impossibile, che una città eccessivamente grande abbia un buon governo, come risulta dal fatto che tutte le città che hanno fama di buon governo hanno una popolazione limitata. Facendo appello al ragionamento, giungeremo alle stesse conclusioni. Difatti il diritto e ordine e le buone leggi sono garanzia di buon ordine; ma una moltitudine troppo vasta non può vivere ordinatamente: il mettere ordine nell'infinito è una prerogativa della potenza divina, cioè di quella potenza che regge l'universo"1.

A conclusioni simili giunse anche il Duca di Sully, Primo Ministro di Enrico IV di Francia, il quale, nelle sue Mémoires, cosi si esprimeva : "Si può osservare in generale che, più i regni sono estesi, e più sono soggetti a grandi rivoluzioni e calamità" 2. Con piena coerenza a queste sue convinzioni egli elaborò insieme al suo re quello che fu poi noto col nome di Grande Disegno. Lo scopo di questo piano era di "dividere l'Europa in un certo numero di potenze, in modo tale che nessuna di esse potesse trarre o invidia o timore dalle ricchezze o dal potere delle altre"3. Si sarebbero dovuti creare quindici Stati di uguali dimensioni; sei monarchie ereditarie: Francia, Spagna, Inghilterra o Britannia, Danimarca, Svezia e Lombardia; cinque monarchie elettive: il Sacro Romano Impero, il Papato o Stato Pontificio, la Polonia, l'Ungheria e la Boemia; e quattro repubbliche: Venezia, Italia, Svizzera e Belgio. La principale vittima di questa riorganizzazione dell'Europa doveva essere la strapotente dinastia imperiale degli Asburgo.

1 W. D. Ross, The Student's Oxford Aristotile , Oxford University Press, London, New York, Toronto, 1942, voi. 6, 1326 a.

2 Duca di Sully, Mémoires , Henry G. Bohn, London, vol. 4, p. 225.3 Ibidem , p. 244.

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Nessuno tuttavia è stato più mordace di sant'Agostino nel descrivere le deficienze e le miserie di società troppo vaste, e nel condannare i loro fautori. Sostenendo in un famoso passo (La Città di Dio , Libro III, Capitolo XV) che ci dovrebbero essere nel mondo tanti regni quante famiglie in una città, egli usa queste parole per inveire contro coloro che esaltano la grandezza degli Stati (Libro IV, Capitolo III):

"Vediamo un po' di accertare che cos'è questa vastità e continuità di potere, che costoro considerano una elargizione degli Dei a cui rivolgono caldi ringraziamenti;... ma prima, vedendo che non si riesce a trovare uno di questi Stati che sia felice, perché sono tutti ingolfati in guerre continue, tormentati dalle paure e da un doloroso senso di colpevolezza per aver causato spargimenti di sangue, sia pure di sangue nemico, mi piacerebbe domandare a costoro se sia logico e saggio esaltare tanto la grandezza dell'impero, quando la loro gioia è paragonabile a un vetro, splendido e fragile, che sempre più si teme che si debba improvvisamente spezzare".

Quale logica spinge gli uomini ad esaltare le grandi potenze il cui solo pregio è quello di essere grandi? E questo non è nemmeno un pregio, come il mondo ha dolorosamente sperimentato. Difatti, tale grandezza non produce né forza né coraggio. La politica dei grandi, sempre influenzata "dal timore e dal pericolo di rotture" è molto meno audace e coraggiosa di quella dei piccoli Stati. Prima della Seconda Guerra Mondiale, quando si trattava di fronteggiare la tracotanza di Hitler, soltanto piccoli Stati come l'Olanda, l'Austria o la Svizzera, osarono sfidare il suo potere. Essi difesero la loro indipendenza perché erano vivi e vitali, e non grazie alle garanzie graziosamente offerte dal dittatore, che essi respinsero sdegnosamente. D'altra parte, le grandi potenze, dominate dal vile ma giustificato timore che la minima perturbazione potesse provocare dei cedimenti nella loro ciclopica e inerte impalcatura, rinnegarono tutti i loro principii badando, senza tanti complimenti, alla loro pura convenienza, e accettando con riconoscenza, come la Francia, l'indegno peso della "protezione" straniera.

Se almeno le grandi potenze, durante il loro evolversi, avessero prodotto degli uomini all'altezza dei gravi problemi che dovevano affrontare! Ma, anche da questo punto di vista, fallirono, perché, come osservava Gulliver, "il senno non cresce con la mole del corpo"1. La saggezza politica, alla stregua di molte altre virtù,

1 JONATHAN SWIFT , op. cit,. p. 140.

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sembra essere una prerogativa dei piccoli Stati, come vedremo più avanti. Tali Stati dimostrano maggiore saggezza nella loro politica, proprio perché sono deboli, e i loro capi non potrebbero permettersi manifestazioni di inettitudine, neppure un attimo. Non è per caso che i paesi politicamente e socialmente più progrediti del mondo sono degli Stati come la Svizzera (4 milioni di abitanti), la Danimarca (4 milioni), la Svezia (7 milioni), la Norvegia (3 milioni), l 'Islanda (meno di 160 mila abitanti). Le grandi potenze, invece, possono permettersi atti di stupidità anche per lunghi periodi di tempo. E chi di noi, pur sapendo di potersi permettere di essere stupido, il che costa così poco sforzo, vorrà prendersi il fastidio e la pena di essere saggio?

Per tutte queste ragioni le grandi potenze, che sono sorte a spese dei piccoli Stati, dandoci in cambio niente altro che gravi problemi che esse stesse non sono più in grado di risolvere malgrado tutta la loro potenza, devono ormai essere a loro volta distrutte se vogliamo in qualche modo salvarci. La principale causa di turbamento della pace mondiale, è costituita proprio da loro e non dai piccoli Stati che tali potenze sono sempre pronte a criticare. Perciò, le affermazioni di sant'Agostino sembrano essere di attualità oggi quanto lo erano in passato, quando egli contemplava l'eccessiva grandezza dell'antica Roma, esprimendosi con queste pa role: "il mondo sarebbe governato nel migliore dei modi se esso consistesse non in pochi aggregati sociali consolidati da guerre di conquista, coi loro strascichi di dispotismo e di tirannia, ma in una comunità di piccoli Stati in rapporti di amicizia fra loro, rispettosi dei loro confini e non tormentati dalle gelosie" 1.

1 Questo riassunto delle idee di sant'Agostino è tratto da JOHN NEVILLE F IGGIS , The Political Aspects of S. Augustine's " City of God". Longmans, Green and Co., London, 1921, p. 58.

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CAPITOLO QUARTO

LA TIRANNIA IN UN MONDO DI PICCOLI STATI

"All'inizio i re erano diversi... e la vitadegli uomini, a quei tempi, si svolgeva senza allontanarsi dalle abitudini e dagli interessi loro propri, ciascuno rimanendo nel proprio ambito".SANT 'AGOSTINO

Su scala ridotta, tutti i problemi sono solubili. L'effetto del sistema di piccoli Stati sulla dittatura. Esso o riduce il governo dittatoriale o lo rende illuminato. Impedisce al germe della dittatura di espandersi. Che cosa sarebbe accaduto se Hitler avesse avuto successo nel putsch di Monaco, e fosse diventato un piccolo tiranno della Baviera. Il limitato potere e la breve vita di Huey Long dovute al sistema di piccoli Stati esistente in America. Il principio dei piccoli Stati risolve il problema dei grandi sindacati e monopoli. Il principio del materasso.

Come risulta dai precedenti capitoli, un mondo di piccoli Stati non basta per risolvere i problemi della guerra o quelli della criminalità interna degli Stati; questi problemi vengono in tal modo soltanto ridotti entro limiti sopportabili. Invece di tentare invano di adeguare le limitate capacità umane alla vastità dei problemi esistenti, tali problemi vengono ridotti alle proporzioni in cui essi possono essere risolti anche dalle limitate capacità dell'uomo. Su scala ridotta, essi perdono il loro significato e la loro gravità, e questo è quello che, in fondo, la società può sperare. Pertanto la nostra scelta non è fra il male e il bene, ma fra un male maggiore e uno minore; non e fra la pace e la guerra, ma fra guerre grandi e guerre piccole, fra guerre universali e indivisibili e guerre locali e divisibili.

Su scala ridotta, non soltanto i problemi della guerra e della criminalità diventano solubili, ma anche tutti gli altri perdono la

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loro gravità quando si riducono le proporzioni della unità sociale in cui essi si manifestano. Questa affermazione sembra particolarmente vera per quanto concerne una forma di calamità sociale che per alcuni e intollerabile quanto la guerra stessa: la tirannia!

Non vi è nulla nella natura degli uomini o degli Stati che possa impedire il sorgere delle dittature, fasciste o meno. I maniaci del potere esistono ovunque, e ogni comunità, prima o poi, passerà attraverso una fase di tirannia. L'unica differenza riguarda la misura di tale tirannia la quale, a sua volta, dipende dalle dimensioni e dal potere che caratterizzano i paesi che ne cadono vittime.

Noi che ci siamo appena liberati dalla tirannia del nazismo e che abbiamo avuto la ventura di assistere allo spettacolo della dittatura comunista, non abbiamo certo bisogno di fare sforzi di immaginazione per comprendere le conseguenze interne ed esterne della instaurazione di un potere dittatoriale in un grande Stato. All'interno, i mezzi a disposizione del dittatore sono cosi micidiali che soltanto un pazzo può trovare ragionevole di opporsi coraggiosamente al suo strapotere. La grande maggioranza è inesorabilmente condannata a una vita miserabile o a un servile conformismo. Ma il potere di una dittatura ha anche effetti esterni, straripando al di là delle frontiere e oscurando vicini grandi e piccoli. I piccoli perché, malgrado la loro formale indipendenza, non hanno nessuna possibilità di resistere, i grandi perché non sanno se una sfida lanciata al dittatore provocherà la sua o la loro distruzione. Cosi, anche loro sono alla mercé del dittatore. Quando egli si mette in movimento, il mondo intero risente gli effetti dei loschi complotti che egli trama di lontano. Soltanto una guerra sanguinosa e dall'esito incerto potrebbe liberare il mondo dal suo tremendo stato di incertezza.Dato che una grande potenza rappresenta per natura un elemento capace di turbare da solo l'equilibrio del mondo, un solo dittatore che si sia impadronito del potere in un grande Stato, basta a turbare la tranquillità di tutti. Ne deriva che un mondo di grandi potenze può essere tranquillo e al sicuro soltanto se il governo di ciascuna di esse è nelle mani di uomini onesti e saggi (una combinazione questa che è rara anche in Stati democratici). Oggi come oggi, però, il grande potere, per sua stessa natura, attrae i forti piuttosto che i saggi, e gli autocrati piuttosto che i democratici. Così, non sorprende il fatto che delle otto grandi potenze esistenti prima della Seconda Guerra Mondiale, ben quattro fossero rette a regime

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dittatoriale: la Germania, l'Italia, il Giappone e la Russia; e che dei cinque grandi del dopoguerra, due — la Cina e la Russia — si trovino nelle stesse condizioni. E sebbene oggigiorno i grandi Stati dittatoriali siano due soltanto, non vi è angolo del mondo che sia abbastanza remoto da potersi sottrarre alla terrificante minaccia della loro esistenza.

1. La limitazione del male.

Cerchiamo ora di vedere quale significato avrebbero gli stessi problemi in un mondo di piccoli Stati. Se un maniaco del potere si impossessasse di un governo, le conseguenze interne ed esterne di questo fatto sarebbero profondamente diverse. Dato che un piccolo Stato è per sua natura debole, il suo governo, che attinge la propria forza dall'ampiezza della comunità su cui domina, non può essere che debole a sua volta. E se il governo è debole, debole è anche il dittatore che ne assume le redini. E se un dittatore è debole, egli può essere spodestato con la stessa facilità con cui egli spodestò il governo che lo aveva preceduto. E se diventa troppo arrogante finirà impiccato a un palo o assassinato in un fosso, prima ancora che egli possa rendersi conto di aver perso il potere. Nessuna forza di polizia, in un piccolo Stato, può essere potente abbastanza per proteggerlo, neppure dalle ribellioni meno violente.

Il primo e più importante vantaggio offerto da un sistema di piccoli Stati, è dunque quello di abbreviare la vita dei dittatori, o almeno la durata del loro tirannico potere, a meno che essi non si decidano a metter giudizio invece di abbandonarsi a pericolose manifestazioni di potenza. E questo è il secondo lato positivo. Siccome l'arroganza e la prepotenza, in un piccolo Stato, comportano dei rischi, un dittatore che tenga alla sua pelle è praticamente indotto a esercitare i suoi poteri a vantaggio del popolo. Privato della possibilità di assaporare i piaceri del male, ripiegherà sull'altra soluzione, appagandosi con le più raffinate soddisfazioni che derivano dal bene compiuto. Farà ricorso all'opera di architetti e di pittori piuttosto che a quella di gene rali e di carnefici, e cercherà di migliorare le condizioni di vita dei lavoratori piuttosto che l'eleganza delle uniformi militari.

La storia mostra che le brevi come le benigne dittature sono fenomeni che si sono verificati soprattutto nei piccoli Stati. Le

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prime non hanno mai avuto una grande importanza a causa della loro corta durata, e anche le seconde non hanno fatto molto sentire il loro peso, a causa dei reali benefici che il mondo ha tratto dall'opera di dittature benigne. La storia delle antiche città-stato greche, delle signorie medievali italiane e tedesche, e delle moderne repubbliche sudamericane, offre numerosi esempi di queste due forme di dittatura. Se i fautori dell'unità si riferiscono a questi piccoli tiranni definendoli personaggi da opera comica , non fanno altro che descriverli per quel che sono, cioè uomini che non possono nuocere anche se sono cattivi. L'unica cosa che sembra fuori posto in queste definizioni, è il loro tono dispregiativo. Difatti, innocuità significa mancanza di potere per opprimere gli altri, e questo non è un difetto, ma un lato positivo, che dovrebbe essere accolto come una benedizione. Quando capiranno i nostri studiosi che il miglior regalo che potrebbero farci gli uomini politici è quello di riportare le sanguinose e gravi tragedie della nostra moderna esistenza di massa alle dimensioni di ridicole commedie?

Pertanto, esaminando la questione dal punto di vista interno , possiamo concludere che quando ci troviamo in presenza di un limitato potere sostenuto da un piccolo Stato, anche il peggiore dei dittatori non è in grado di terrorizzare i suoi sudditi pretendendo la più servile sottomissione, come invece la pretendono anche i dittatori più benigni quando sono a capo di grandi potenze. Il fatto è che il dittatore di un piccolo Stato pur ergendosi al di sopra dei suoi sudditi, non può mai veramente dominarli.

Comunque, quel che più interessa dal punto di vista internazionale, è che il dittatore di un piccolo Stato è completamente innocuo nei confronti degli altri Stati. Diversamente dalla potenza di Hitler che fu motivo di inquietudine per la Francia anni e anni prima che egli l'aggredisse e quando ancora questa era una grande potenza, il raggio d'azione delle piccole dittature non oltrepassa i confini nazionali. Essendo appena capaci di incutere timore all'interno, esse non hanno la forza di impaurire nessuno all'esterno. Le manie di un piccolo dittatore si esauriscono entro il suo territorio, i cui confini funzionano come le pareti imbottite del reparto isolamento di un manicomio. Qualunque forma di follia progressiva è destinata ad arrestarsi di fronte alla barriera invalicabile delle frontiere. Il comunismo, che è uno strumento cosi terribile nelle mani di una grande potenza a regime dittatoriale, nella piccola Repubblica di San Marino era cosi inoffensivo, dal punto di vista internazionale, che la

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maggior parte di noi non era nemmeno a conoscenza che esistesse uno Stato comunista al di qua della Cortina di ferro. Il fatto è che, mentre per porre un freno allo strapotere della Russia non basta tutta la potenza delle Nazioni Unite, per San Marino sono sufficienti una dozzina di carabinieri italiani.

Si potrebbe però osservare che, sebbene un sistema di piccoli Stati limiti il potere di un dittatore all'ambito del suo territorio, tuttavia il germe della dittatura può diffondersi e contaminare gli altri Stati. Questo non si può escludere, ma anche tale fenomeno non recherebbe molto danno perché in questo caso i governi dittatoriali aumenterebbero semplicemente di numero, senza crescere di dimensioni e senza rappresentare una maggiore minaccia per l'esterno, dato che gli Stati in cui tali dittature potrebbero attecchire sono portatori di interessi in conflitto, e tendono pertanto a equilibrarsi a vicenda. Essi non si prestano a favorire un processo di fusione e di concentrazione del potere. Inoltre, dato che un mondo composto di centinaia di piccoli Stati caratterizzati da sistemi politici diversi, sarebbe portato a reagire continuamente alle diverse forze e tendenze delle varie epoche, la diffusione dei regimi dittatoriali troverebbe un valido contrappeso altrove nella diffusione di sistemi democratici. Molto probabilmente queste tendenze dittatoriali, non appena avessero raggiunto le terre più lontane, comincerebbero ad attenuarsi sempre di più nei paesi in cui si erano per la prima volta affermate. Un mondo di piccoli Stati è caratterizzato da una continua osmosi e da continui cambiamenti, che non permettono mai lo svilupparsi di gigantesche forze sotterranee. Queste possono affermarsi soltanto in un sistema di grandi potenze, che assicura lunghi periodi di pace e che permette agli Stati di accumulare per decenni formidabili riserve di fiato al solo scopo di travolgere tutto quando, alla fine, essi cominciano a scatenare i loro uragani.

2. Hitler in Baviera e Long in Luisiana.

Tutti sanno quel che accadde nel mondo quando Hitler si impadronì della grande potenza della Germania. Egli fece di essa uno Stato che incuteva terrore anche in tempo di pace, e i vicini temevano le sue asserzioni di amicizia quanto le sue minacce. Ma facciamo il caso che lo stesso uomo avesse tentato di assumere

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poteri dittatoriali soltanto in Baviera, come effettivamente cercò di fare nel suo famoso putsch di Monaco, del 1923. Forse è stato un gran danno per l'umanità che questo suo primo tentativo sia fallito.

Nel 1923, la Germania, almeno in parte, era ancora organizzata in piccoli Stati. Siccome nei piccoli Stati la vita è più individualistica che nei grandi centri, di solito la gente, in questioni di governo, non perde la testa. Pertanto Hitler, o avrebbe fatto la fine di Kurt Eisner, il dittatore comunista della Baviera, che lo precedette nell'esperimento e che fu subito assassinato, oppure avrebbe conservato il potere per qualche anno senza far sentire la sua influenza al di fuori degli stretti confini della Baviera. Gli Stati vicini, com'è naturale, reagendo al successo di un governo di quel genere in uno Stato a loro contrapposto, avrebbero preso tutte le precauzioni possibili contro l'affermarsi, sul loro territorio, di un movimento simile, mentre Hitler, non essendo in grado di dare libero sfogo alla sua sete di potere, sarebbe stato ridotto all'impotenza dalla stessa situazione in cui si trovava. Una volta dittatore della Baviera, non sarebbe mai potuto diventare dittatore della Germania. Egli sarebbe rimasto probabilmente un semplice dilettante e un piccolo tiranno, con una vita più breve davanti a sé, dato che i piccoli Stati sono in grado di organizzare, nel giro di una notte, la caduta di un dittatore. Ma disgraziatamente il colpo della Baviera non gli riuscì, ed egli si impadronì invece della grande potenza della Germania. Il risultato fu che non soltanto divenne irremovibile, ma costrinse i più grandi uomini della sua generazione a cessare di definirlo, come avevano fatto fino ad allora, un pazzo romantico o criminale, inducendoli a domandarsi se egli non fosse veramente un supergenio, come Goebbels andava predicando. In Baviera, non potendo concedersi altri sfoghi, si sarebbe forse dato alla pittura, allietando o scandalizzando il prossimo coi suoi quadri, come un nuovo Grandma-Moses della Valle dell'Inn. In Germania lo stesso uomo, con le sue guerre, e stato in grado di sconvolgere l'umanità, come un Napoleone. Se egli fosse rimasto in Baviera i vicini Stati del Wurtenberg e dell'Austria avrebbero potuto competere con lui, come del resto fecero. Una volta diventato dittatore della Germania, le forze combinate della Gran Bretagna, della Francia, degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica, non sono state sufficienti per impedire alla diga del nazismo di esplodere.

Ma noi non abbiamo bisogno di limitarci a speculazioni ipotetiche, cercando di mettere in luce la innocuità delle dittature

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nei piccoli Stati. Negli Stati Uniti, dove effettivamente abbiamo una organizzazione basata su piccoli Stati, il problema della dittatura regionale non ha mai assunto aspetti allarmanti. Qualcuno dirà che gli Americani hanno troppo incarnato lo spirito della libertà per sottomettersi alla tirannia, o che il livello della nostra civiltà è troppo elevato per produrre dei dittatori, e che questa è la ragione a causa della quale la dittatura, da noi, non costituisce un problema. Ma né l'uno né l'altro di questi due argomenti sembrano validi. Anche nel nostro paese sono esistiti dei dittatori, e, con essi, la sottomissione alla dittatura. La nostra grande fortuna non è che i dittatori non possano sorgere, ma piuttosto che non possano diventare veramente potenti. La loro influenza si arresta immancabilmente ai confini del loro Stato, e per questo non è necessario alcun intervento federale. Qualunque sia il potere di cui questi tiranni locali possono disporre nei loro Stati, essi non rappresentano comunque nessun pericolo per gli altri. Huey Long era una figura odiosa quanto Hitler, e aveva le stesse aspirazioni totalitarie del dittatore tedesco. Se alla fine egli risultò inoffensivo, ciò fu dovuto al fatto che era a capo di un piccolo Stato, e per Hitler sarebbe accaduto altrettanto se gli fosse riuscito il colpo della Baviera, Non disponendo del potere necessario, i suoi loschi propositi non potevano andare al di là di un certo limite. Certo, il germe della dittatura si diffuse, ma Huey non potè espandere la sua influenza, ed anche la tendenza al totalitarismo non riuscì a propagarsi più di tanto, a causa dell'ostacolo rappresentato dalle frontiere1. Adesso, il germe della dittatura sta attraversando una fase

1. Sir George Thomson, in un articolo apparso nel "Listener" del 23 marzo 1950, descrivendo le condizioni che portano a una reazione atomica a catena, fornisce in seguito un'analisi, riferita al mondo degli atomi, che potrebbe benissimo applicarsi ai problemi del mondo sociale: "Il processo (della reazione a catena), una volta iniziato, è straordinariamente rapido e finisce in una violenta esplosione. In realtà, assomiglia piuttosto alla diffusione di una malattia, con gli atomi nel ruolo di pazienti e i neutroni in quello di germi. Ora, come una malattia si diffonde più rapidamente se la gente vive ammassata insieme in una città piuttosto che se vive disseminata in una vasta zona, cosi, nel nostro caso, occorre che la quantità di plutonio accumulata sia notevole perché essa possa esplodere. Se invece la quantità è piccola, oppure essa è disseminata in senso sparso, i neutroni si perderanno nello spazio senza imbattersi in un atomo da infettare, e l 'epidemia finirà per abortire sul nascere. In realtà, nell 'aria vi sono sempre dei neutroni e un pezzo di plutonio viene comunque leggermente infettato, ma non si verifica nulla di grave fintanto che il materiale esistente non è in quantità tale da provocare la

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di virulenza in Georgia, ma ancora una volta la sua azione è circoscritta, e quando esso potrà raggiungere la Florida, molto probabilmente avrà cessato di essere pericoloso in Georgia. Ma le dittature, anche negli Stati dell'unione americana in cui esistono, sono talmente deboli da non spaventare nessuno all'infuori degli uomini che sono al potere.

Ma facciamo l'ipotesi che, al posto di molti piccoli Stati, fosse esistito, nel Sud, un unico grande Stato, veramente potente. Huey Long, come si affermò in Luisiana, così poteva affermarsi in tale ipotetica comunità statuale; in questo caso, però, egli non sarebbe stato spodestato con tanta facilità, e avrebbe cessato di essere un personaggio da opera comica. Allora, egli sarebbe stato un capo arrogante, non soltanto per i cittadini del suo paese, ma anche per tutti gli altri Stati del continente. I suoi umori mattutini sarebbero stati spiati con interesse e speranza da New York a Los Angeles, ed egli, invece di essere punito e messo in ridicolo, avrebbe avuto decorazioni e onorificenze. E la sua incolumità personale sarebbe stata difesa dalle insidie di un attentatore, per mezzo di un esercito di SS che certamente uno Stato come la Luisiana non avrebbe mai potuto permettersi.

Ma vi sarebbero state conseguenze ancora più gravi. Difatti, le grandi dittature diventano temibili e praticamente irremovibili, non soltanto a causa della impressionante forza fisica che esse sono in grado di accumulare a loro difesa; ma soprattutto perché alimentano nel popolo, fino a un livello critico, un'adeguata filosofia della sottomissione. Più sopra, analizzando il valore della teoria del potere, abbiamo visto che la mentalità criminale non è causa ma conseguenza dell'acquisto di un potenziale aggressivo. Per lo stesso motivo, non è la tendenza alla sottomissione che porta alla tirannia, ma è il potere tirannico che, sviluppandosi secondo la grandezza della comunità, arrivato a un certo livello, conduce a un accomodante spirito di sottomissione. Pertanto, la tendenza alla

diffusione della reazione a catena, e quindi l 'esplosione della bomba. Quindi, per far esplodere la bomba, basta accumulare materiale sufficiente per superare quella che viene chiamata massa critica". Parimenti, il germe infettivo della dittatura non può provocare molto danno in un mondo di piccoli Stati le cui diverse frontiere impediscono l'accumulazione di una "massa sufficiente" per dar luogo a una reazione a catena. Se esistono soltanto piccoli Stati, o Stati con popolazione a scarsa densità, il che è lo stesso, il germe della dittatura, come un neutrone, si perderà nello spazio senza trovare atomi umani sufficienti da infettare.

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rassegnazione non è una qualità umana che possa essere spiegata, in modo persuasivo, come il frutto dell'educazione, della tradizione, del carattere nazionale, o del sistema di produzione. Come accade per la maggior parte degli altri atteggiamenti sociali, essa rappresenta una forma di duttile reazione dell'uomo di fronte al fenomeno dell'acquisizione del potere. Il grado di questo spirito di sottomissione varia in misura proporzionale rispetto al grado di potere ottenuto, proprio come la reazione opposta, cioè l'anelito di libertà, varia in misura inversamente proporzionale. Dove c'è potere, c'è sottomissione, e dove non c'è sottomissione, non c'è potere. Questo è il motivo per cui, storicamente, i popoli apparentemente più amanti della libertà hanno accettato la schiavitù con la stessa passività con cui si sono rassegnati ad essa i popoli apparentemente più remissivi1; per cui si può dire senza esagerazione che anche gli

1 Ciò può forse contraddire il lusinghiero autoritratto che molti si sono fatti, ma non i dati della storia. Si afferma, ad esempio, che il popolo francese, apparentemente amante della libertà, non si sottometterebbe mai alla tirannia nella misura in cui lo hanno fatto i Tedeschi. Eppure, quando i nazisti estesero il loro dominio sui Francesi, tale popolo, come del resto i Danesi, gli Olandesi, o i Polacchi, si dimostrò sottomesso alla loro tirannia quanto i Tedeschi. È vero che vi fu un movimento di resistenza, ma come fenomeno di massa esso fu caratteristico solo del dopoguerra, e non del vero periodo della dominazione tedesca. Nel dopoguerra, perfino i nazisti scoprirono di far parte della resistenza. Per quanto i Francesi abbiano fatto una quantità di rivoluzioni, nessuna di esse fu diretta contro governi forti. Sotto Luigi XIV e Luigi XV, essi accettarono senza fiatare le forme più oltraggiose di sfruttamento, di inutile sfarzo, di arroganza, di intolleranza, e di immoralità da parte del re" Ma quando il trono cadde nelle mani di Luigi XVI, un re simpatico, inoffensivo, umile e ben intenzionato, la cui più grande stravaganza era la sua tenera passione per i fiori, essi alla fine inscenarono la rivoluzione che fa ancora sentire sui posteri il peso dei suoi famosi principii, che non erano francesi, e della sua audacia che non fu certo molta. (I principii di libertà, uguaglianza, e fraternità sono stati praticati per secoli nelle montagne della Svizzera e del Tirolo, ed erano così estranei alla mentalità francese che furono introdotti in quel paese soltanto nel 1789. E anche allora furono praticati soltanto a brevi intervalli, prima che si affermassero definitivamente nel 1871). I Francesi avevano appena finito di ghigliottinare il loro re, e già accettavano con sottomissione la tirannia di Napoleone, seguendolo con un fanatismo che può essere paragonato soltanto a quello manifestato dai nazisti nei confronti di Hitler. È vero che si ribellarono anche contro Napoleone, ma solo dopo che egli era stato irrimediabilmente sconfitto sul campo di battaglia, cioè quando la ribellione non significava più amore della libertà ma tradimento. I popoli non si rivoltano mai contro i tiranni. Essi si

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Americani finirebbero per sottomettersi, se il nostro sistema federale permettesse la concentrazione della necessaria quantità di potere pubblico. Difatti, come Boswell giovane dichiarava cosi pateticamente nel suo London Journal , "Quando la mente è conscia di non potersi difendere lottando, essa si sottomette placidamente e senza reagire a qualsiasi peso le cada addosso" (il corsivo è mio).

3. Il principio del materasso.

Fortunatamente, però, gli Stati Uniti, dal punto di vista della loro struttura interna, non sono costituiti da un pericoloso insieme di grandi potenze — le quali avrebbero potuto accumulare il potere fino a un livello critico — ma da un certo numero di piccoli Stati. In tal modo, essi hanno potuto beneficiare della notevole flessibilità che caratterizza gli organismi costituiti da piccole cellule, rendendoli capaci di adattarsi al costante evolversi delle condizioni umane e sociali. Una unione costituita da piccole cellule presenta gli stessi vantaggi di certi materassi di nuova concezione, su cui oggi si fa tanta pubblicità, i quali vengono confezionati mettendo insieme un gran numero di molle piccole e indipendenti l 'una dall'altra, piuttosto che collegando strettamente tali molle in un tutto unitario. I motivi che spiegano la superiorità del sistema sono gli stessi. Difatti, sono soggette a compressione soltanto le molle su cui effettivamente il corpo si adagia, per cui l'insieme acquista una elasticità e una durata che prima non era mai stato possibile ottenere. Col vecchio sistema, infatti, la depressione di una singola molla si ripercuoteva su tutte le altre, per cui a lungo andare, nel

rivoltano soltanto contro i deboli. Se i Tedeschi non hanno avuto una rivoluzione romantica, ciò non è dovuto, come ritiene la teoria popolare, al fatto che essi sono più remissivi degli altri. La ragione è che, nel loro caso, soltanto raramente si è verificata la condizione storicamente necessaria per permettere una sollevazione popolare, cioè l' improvviso indebolimento di un governo precedentemente forte. Quando ciò si verificò, nel 1918, essi si ribellarono con vigore pari a quello dimostrato dai loro vicini, detronizzando non soltanto un sovrano, il Kaiser, ma tutti i loro re, granduchi, duchi, e principi. Esigenze di spazio ci impediscono di riferire al lettore tutto il divertente complesso di dati storici che potrebbe far cadere tante illusioni, dimostrando come tutti i popoli — Francesi, Inglesi, Cechi, Tedeschi — siano più o meno remissivi secondo il potere di cui dispone il governo a cui sono soggetti, e prescindendo completamente dal loro sentimento di libertà e dal loro carattere nazionale.

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posto in cui uno dormiva, veniva a crearsi una specie di avvallamento, che danneggiava anche le molle che praticamente non avevano sopportato alcun peso.

Gli Stati Uniti, però, non si manifestano a tutti gli effetti come un complesso di piccoli Stati, e quando ciò si verifica, ci troviamo di fronte allo stesso problema di dimensioni che è caratteristico di organizzazioni dotate di notevole ampiezza o di estesi poteri. Per esempio, il potere economico privato, a differenza del potere politico degli Stati, non incontra un limite nei confini statuali. Quindi, un gran numero di potenze e di imprese economiche sono state organizzate su vasta scala e su basi continentali. Ciò significa che ciascuna di esse e in grado di turbare l'equilibrio non soltanto di uno Stato ma dell'intera nazione, se particolari umori o ambizioni inducono a farlo.

Questa situazione assume un'evidenza drammatica per quanto concerne i grandi sindacati nazionali dei lavoratori, i quali offrono un esempio, particolarmente significativo, di organismi dotati di un potere che sfugge a ogni controllo. Se John L. Lewis inarca minacciosamente le sopracciglia, egli può paralizzare la vitale industria mineraria, e non in uno Stato o due, ma in tutti gli Stati dell'Unione. E il corrugamento della sua fronte può significare un freddo inverno per 165 milioni di persone. Basta una sua parola per fermare treni e per arrestare macchine di centinaia di industrie. Egli può privarci del gas e della luce, e un suo gesto, o quello di uno qualsiasi dei tanti dirigenti sindacali, può avere conseguenze catastrofiche per la nazione. I sindacati, organizzati su basi continentali, sfuggono ormai a ogni controllo, a causa dell'immenso potere che sono in grado di assicurarsi, un potere assolutamente non necessario per gli scopi da conseguire, o, per meglio dire, un potere che sarebbe stato non necessario se il sistema dei piccoli Stati fosse stato applicato anche nel campo economico. Fin tanto che non si sarà arrivati a tale risultato, le imprese giganti continueranno sempre a esistere, e fin quando conserveranno le loro gigantesche dimensioni, la legge dell'equilibrio esigerà la presenza di sindacati altrettanto giganteschi.

È facile rendersi conto di quanto siano insignificanti le difficoltà che si incontrerebbero nel controllare i movimenti sindacali in un mondo economico di piccoli Stati. In questo caso, John L. Lewis, come Long nella Luisiana, sarebbe sempre a capo di un sindacato, ma di un sindacato il cui potere non andrebbe al di là delle frontiere

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statuali. Nel corso di un'annata, si verificherebbero degli scioperi come ve ne sono ora, in parecchi o in tutti gli Stati dell'unione, ma, secondo il principio del materasso, tali agitazioni non sarebbero connesse o collegate. Esse conserverebbero la loro individualità, e si sa che i problemi, isolatamente presi, si presentano di più facile soluzione dei problemi che sono indissolubilmente intrecciati tra loro. I lavoratori vedrebbero ugualmente accolte le loro rivendicazioni, perché i datori di lavoro — messi nella impossibilità, in questo caso, di creare delle associazioni interstatuali — non oserebbero rifiutare delle concessioni speculando sul fatto che i sindacati sono locali invece che nazionali; al contrario, essi sarebbero più malleabili, perché anch'essi sarebbero più deboli. La vita, in fin dei conti, si vive localmente, e le pressioni locali sono quelle che contano. I problemi della vita industriale continuerebbero quindi ad esistere, ma non sfuggirebbero di mano. Essi potrebbero risolversi con una limitata quantità di potere, che sarebbe tale da soddisfare le esigenze dei lavoratori senza diventare a sua volta un problema, cioè senza creare dei problemi di potere accanto ai problemi del lavoro.

Queste considerazioni valgono anche in riferimento alle vaste e potenti associazioni dei datori di lavoro, per quanto, in questo caso, non vi sia molto bisogno di insistere sull'argomento, perché da tempo siamo al corrente dei pericoli rappresentati dalle unioni e associazioni dei datori di lavoro. Quando parliamo di monopoli" di associazioni industriali per l'artificioso rialzo dei prezzi, di holding companies , e di cartelli, abbiamo immediatamente un'idea di che cosa significhi la concentrazione di un vasto potere economico nelle mani di poche persone. Per questo, i nostri legislatori non hanno mai cessato di studiare il problema di come ridurre l'ampiezza di tali fenomeni. Ma il sistema più semplice, invece di sanzionare inutili proibizioni, sarebbe quello di applicare, anche nel campo economico, quel principio federale o dei piccoli Stati che ha avuto tanto successo dal punto di vista politico. Limitando l'influenza di ogni potere economico di natura privata o al servizio di finalità private, entro i confini del rispettivo Stato, verrebbe automaticamente a dileguarsi la minaccia di mostruosi organismi. Nello stesso tempo, verrebbe meno la necessità di creare, a tutela dei lavoratori, dei sindacati eccessivamente potenti, la cui sola valida giustificazione è che le imprese con le quali essi hanno a che fare sono altrettanto potenti. Siccome le frontiere dei nostri Stati non

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costituiscono una barriera al traffico, il sistema in questione non porterebbe alla creazione di barriere tariffarie. Né una riduzione del potere economico significherebbe una riduzione della produttività economica, e quindi un abbassamento del livello di vita. Come "vedremo nel capitolo VIII, il risultato è proprio l'opposto.

Possiamo quindi concludere che un mondo di piccoli Stati vedrebbe risolti non soltanto i problemi della violenza sociale e della guerra, ma anche quelli dell'oppressione e della tirannia, e in pratica tutti i problemi che traggono origine dal potere. In realtà, non esiste grave problema sulla terra che non possa essere felicemente risolto se affrontato su scala ridotta; d'altra parte, si può escludere che un problema su scala ridotta sia, proprio per questo fatto, irrisolvibile. Su vasta scala tutto è incerto, anche il bene, perché come apparirà sempre più evidente, l'unico e solo problema del mondo non è la perversità umana, ma l'eccessiva ampiezza degli organismi sociali; e il pericolo non è rappresentato da questo o quell'organismo che possa aver raggiunto vaste proporzioni, ma dalla vastità stessa di tali proporzioni. Questo avviene perché, attraverso l'unione e l'unificazione, che sono processi tendenti a espandere la consistenza, l'ampiezza e il potere delle unità sociali, non si può risolvere niente. Al contrario, le possibilità di trovare una soluzione diminuiscono in misura inversamente proporzionale alla rapidità con cui il processo di unione si realizza. Tuttavia, tutti i nostri sforzi collettivi, e tendenti alla collettivizzazione, sembrano diretti verso questo unico cervellotico fine: l'unificazione. Il quale, naturalmente, è un modo come un altro di risolvere i problemi, che consiste pero in un volontario suicidio.

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CAPITOLO QUINTO

LA FISICA DELLA POLITICA

"buona roba occupa poco spazio".Proverbio scozzese

"Gli alberi sono fatti in modo che non tocchino il cielo".

Proverbio tedesco

Limitare ogni sviluppo. L'universo come microcosmo. Le particelle prime di Lucrezio e i quanti di Plank. La teoria di Fred Hoyle sull'origine della terra. L'instabilità degli organismi troppo vasti. L'espediente della scissione. Equilibrio e unità come termini antitetici. La teoria di Schrodinger sulla piccolezza degli atomi. Il sistema delle piccole cellule come fondamento di un equilibrio dinamico. Equilibrio dinamico ed equilibrio statico. I turbamenti dell'equilibrio dovuti allo sviluppo di vasti aggregati sociali. Il principio della divisione. La divisione come principio di progresso e di benessere. L'infernale organizzazione.

L'argomento filosofico.

Finora ci siamo soffermati sull'idea di uno smembramento delle grandi potenze, partendo da un punto di vista pratico. Abbiamo visto che, riducendo sensibilmente le loro dimensioni, gli Stati perdono la capacità di seminare il terrore, mentre i problemi diventano meno difficili e gli squilibri sociali si attenuano sensibilmente.

Ciò non avviene a caso, perché la piccolezza non corrisponde soltanto ai criteri della convenienza, ma anche ai disegni

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dell'Onnipotente. L'intero universo è concepito sulla base di tale principio: noi viviamo in un microcosmo e non in un macrocosmo. La perfezione e una prerogativa delle piccole cose. Soltanto risalendo alle infinitesime parti della materia noi possiamo giungere a un limite, a qualcosa di determinato, a un confine, ove possiamo localizzare il mistero ultimo dell'esistenza. Muovendoci in senso opposto, non arriveremo mai a qualcosa di certo. Possiamo aggiungere e moltiplicare, ottenendo cifre e grandezze sempre maggiori, ma non arriveremo mai alla fine, poiché non vi è nulla che non possa essere a sua volta raddoppiato, il che, dal punto di vista fisico, significa ben presto rovina, disintegrazione, catastrofe. Vi è infatti un invisibile limite alla grandezza, oltre il quale la materia non può continuare ad accumularsi. Soltanto evanescenti calcoli matematici possono andare oltre. La divisione, invece, ci porta, come risultato finale, alla realtà ultima di tutte le cose, una realtà esistente anche se oscura, ci conduce insomma a quelle particelle infinitesimali che appaiono indivisibili. Esse rappresentano i soli corpi che la natura abbia dotato di vera unità, rendendoli indivisibili, indistruttibili, eterni. Lucrezio li ha chiamati i primi corpi o particelle prime e, in un memorabile passo del De rerum natura (Libro I, versi 610 e ss.), che dimostra tutta la profondità del suo pensiero, egli dice che essi soltanto

... sono compatti, strettamente uniti e fatti di piccolissime parti, non per questo formati dall'unione di esse, ma esistenti come unitàprimordiali ed eterne; la natura lor non concede di scindersi o staccarsi, ché li serba come semi delle cose. Se poi non si ammettesse un corpo indivisibile, anche l'atomo più piccolo consisterebbe di parti infinite, ché la metà della metà sarà ancora divisibile, in un processo senza fine. Quale sarà allora il divario fra il corpo più grande e quello più piccolo? Non esiste differenza; giacché, per quanto infinito possa esser l'universo, i piccoli corpi ugualmente saran composti di parti infinite. Ma se la ragione si rifiuta di crederlo e la mente lo esclude, non ti resta che cedere, riconoscendo il vero: gli atomi esistono e son formati di partì infinite

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che la natura aggruppa. E ammesso questo anche dovrai ammettere che gli atomi son solidi ed eterni.1

Tutte le altre cose non sono altro che combinazioni di queste particelle prime, combinazioni che sono infinite in numero e varietà, ma che traggono sempre origine dagli stessi elementi primordiali. Una prova del singolare intuito e delle straordinarie capacità deduttive di antichi filosofi come Lucrezio o come i suoi grandi predecessori Democrito ed Epicuro, è offerta dal fatto che la scienza moderna, con tutte le sue risorse e facilitazioni di laboratorio, non ha potuto far altro che confermare quelle verità a cui tanti filosofi erano giunti col semplice ragionamento , fantasticando sotto l'ombra di un pioppo. Difatti, Max Planck, nella sua famosa teoria dei quanti che, insieme alla teoria della relatività di Einstein, costituisce la base della fisica moderna, ha confermato sperimentalmente, nel secolo ventesimo, quella che è stata definita una delle più grandi scoperte di tutti i tempi, cioè che l'universo non è costituito da entità di vaste proporzioni, componenti un tutto unitario e infinito da un estremo all'altro, ma da particelle discontinue che si irradiano in piccoli fasci, i quanta. Egli si espresse appunto in questi termini : "Il calore radiante non costituisce un flusso continuo, indefinitamente divisibile. Esso deve essere definito come una massa discontinua fatta di unità che sono tutte simili l 'una all'altra". Sebbene queste unità, che sono i quanti o le particelle prime indivisibili, differiscano secondo la frequenza della loro radiazione, tuttavia esse sono tutte riducibili alla costante di Planck che rappresenta l'unico elemento apparentemente assoluto e perpetuo dell'universo fisico. Esso viene calcolato pari a 6,55 x 10 -27 erg-secondi.

Le nozioni desunte dalla teoria dei quanti ci hanno permesso di penetrare il segreto dell'atomo e, con esso, dell'intero universo. Abbiamo trovato la spiegazione del grande partendo dalla ricerca del piccolo, ed è significativo il fatto che la nostra epoca, tormentata dall'assillo di creare mastodontiche unità sociali e organizzazioni che abbracciano il mondo intero, non sia chiamata l'era del colossale, ma l'era dell'atomo, basando tale definizione su ciò che rappresenta non la più grande ma la più piccola unità di materia.

1 LUCREZIO , On the Nature of Things, Walter J. Black, New York, 1946, pp. 30 ss.

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1. La piccolezza come stabilità.

Qualunque cosa noi prendiamo in considerazione — il vasto universo o il piccolo atomo — possiamo riscontrare che la creazione si è manifestata in una multiforme varietà di piccole cose, piuttosto che nella semplicità di un'enorme massa. Ogni cosa è piccola, limitata, discontinua, disunita. Soltanto i corpi relativamente piccoli — sebbene non i più piccoli, come vedremo — sono dotati di stabilità. Al di sotto di un certo limite, ogni cosa fonde, si unisce o si accumula; ma al di là di un certo limite, ogni cosa si disintegra o esplode.

Basta guardare un cielo stellato, per renderci conto come esso abbia ristretti confini, e come esista un limite a tutte le cose. Le stelle più gigantesche sono semplici macchie nello spazio, e le più grandi galassie appaiono come semplici forme discoidali, che i nostri occhi possono abbracciare d'un sol sguardo. Fred Hoyle ci dà un quadro delle proporzioni celesti quando descrive il sole come una palla del diametro di sei pollici, e si domanda :

"Ordunque quanto distano i pianeti dalla nostra palla? Non già pochi piedi o una o due yarde, come molte persone hanno l'aria di ritenere secondo l'idea che si sono inconsciamente fatta del sistema solare, ma molto, molto di più. Mercurio dista circa 7 yarde, Venere 13, la Terra 18, Marte 27, Giove 90, Saturno 179, Urano circa 350, Nettuno 540, e Plutone 710. Su questa scala, la Terra è rappresentata da un granello di polvere e le stelle più vicine distano 2000 miglia"1.

Presi in sé e per sé, i corpi celesti sono immensi, ma che cosa rappresentano di fronte allo spazio? È vero che a volte essi crescono fino a diventare quelli che gli astronomi chiamano supergiganti, ma da questo momento in poi essi non sono sulla strada del progresso, ma della distruzione. Invece di generare energia cominciano allora ad assorbirla , come accade per le grandi potenze nell'universo politico. Il loro semplice sforzo per esistere li costringe a consumare più di quanto ricevano. Nella descrizione di Fred Hoyle, tali corpi celesti cominciano ad esaurire le loro riserve finché, nel loro spasmodico sforzo di espansione, la loro riserva di idrogeno finisce per esaurirsi. A questo punto, il loro breve spasimo di grandezza prende la sua rivincita. Essi crollano, ma la storia non finisce qui.

1 FRED HOYLE , The Nature of the Universe , Basil Blackwell, Oxford, 1950, p. 16.

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Nel cadere, le loro forze interne, sollecitate dal movimento rotatorio, si scatenano fino a raggiungere, a volte, uno stadio in cui "le forze rotatorie diventano comparabili alla stessa forza di gravità"1. Ciò avviene quando i giganti dell'universo danno luogo a quei fantastici fenomeni di esplosione che noi chiamiamo supernovae. Fred Hoyle sostiene che i pianeti del nostro sistema solare non sono altro che i resti di una stella gemella del Sole la quale "doveva essere notevolmente più grande del Sole stesso"2. Essa è esplosa, e invece di diventare il luminoso gigante che ci si attendeva, si è trasformata in un nano oscuro , vagante nella penombra, irriconoscibile agli stessi suoi discendenti. Le dimensioni gigantesche non sembrano corrispondere al modello della creazione. Ogni volta che esse si sviluppano, finiscono per annientarsi nella violenza della catastrofe.

Questo non significa che la grandezza ideale di tutte le cose debba essere senz'altro la più piccola possibile. Se cosi fosse, l'universo consisterebbe e non potrebbe che consistere di soli atomi e quanti. Ma è evidente come questo non sia l'intento della creazione. A giudicare dalla straordinaria varietà di forme e di so stanze, che si sono potute sviluppare soltanto in seguito a una miriade di combinazioni diverse, si direbbe che la vita trovi la sua più matura espressione in tali combinazioni, piuttosto che in semplici strutture monocellulari. Ne deriva che le cose possono essere troppo grandi e troppo piccole, con una instabilità che obbedisce all'una e all'altra forma di sviluppo. Questo è il motivo per cui l'universo, fintanto che rimase una polvere di atomi, non rappresentò altro che un instabile caos, che trovò una certa stabilità soltanto combinando e condensando le sue particelle sotto forma di stelle e di altri corpi di considerevole peso e solidità.

Questo, semplice processo, tuttavia, dimostra come la instabilità di ciò che è troppo piccolo non sia soltanto un problema minore, ma un problema che va nettamente distinto da quello della instabilità di ciò che è troppo grande. È in vista di una instabilità costruttiva che la natura ha predisposto un meccanismo di autoregolazione nel processo dello sviluppo. Attraverso tale meccanismo, i fenomeni di fusione e di combinazione vengono automaticamente incoraggiati, fino al raggiungimento di dimensioni adeguate e stabili, e fino alla

1 Ibidem , p. 77.2 Ibidem, p. 75.

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realizzazione della forma funzionalmente più idonea 1. Una volta ottenuto questo risultato, tali fenomeni, altrettanto automaticamente, si arrestano. Quindi a parte i casi patologici, non vale assolutamente la pena di preoccuparsi se esistono delle cose che hanno dimensioni troppo modeste.

Invece, l'instabilità dei corpi che hanno raggiunto eccessive dimensioni ha un carattere distruttivo. In questo caso, l'instabilità, invece di trovare nello sviluppo un motivo di stabilizzazione , trova in esso una causa di aggravamento. Lo stesso processo, cosi benefico al di sotto di un certo limite, diventa ora non un fattore di maturità ma di disintegrazione. Esso è stato utilizzato da esperti in botanica per eliminare alcuni tipi di erbacce, il che essi hanno fatto non cercando faticosamente di impedire la loro crescita, ma ricorrendo abilmente a un sistema molto più efficace, cioè quello di favorire al massimo il loro sviluppo, facendo crescere a dismisura ciò che volevano annientare. Sir George Thomson ha descritto il

1 L'unico problema è questo: quali sono le giuste dimensioni delle cose? Ciò dipende dalla loro funzione o, come D 9Arcy Wentworth Thompson spiega nel suo brillante ed esauriente lavoro On Growth and Form (University Press, Cambridge, 1942, p. 24): "L'effetto di determinate dimensioni dipende non già dalla cosa in se stessa, ma dalla cosa considerata in rapporto a tutto l 'ambiente circostante o milieu; il campo di azione e di reazione di tutte le cose, nell 'universo, è in rapporto al posto che esse occupano nel mondo della natura. Ovunque la natura funziona nel giusto modo, le cose hanno conseguentemente appropriate dimensioni. Uomini ed alberi, uccelli e pesci, stelle e sistemi solari, tutto ha dimensioni appropriate, tutto ha il suo più o meno ristretto limite di grandezze assolute. La misura dell 'osservazione umana si mantiene entro il ristretto ambito di pollici, piedi o miglia, tutte misure tratte dal corpo umano o dalle nostre azioni. Misure che comprendono anni-luce, parsecs , unità Angstrom, o grandezze atomiche o subatomiche, appartengono ad altri ordini di cose, e ad altri principii di cognizione". Ma qualunque sia la grandezza, in rapporto a tutto il creato anche le cose misurate in anni-luce sono di limitate dimensioni. Quindi non si tratta mai di vedere ciò che è grande e ciò che è piccolo, ma ciò che è più o meno piccolo, cioè l 'esistenza di "un campo più o meno ristretto di grandezze assolute", che dipende dalla funzione che le cose devono svolgere. Queste considerazioni valgono anche per gli Stati. Questi, essendo creazioni umane che non hanno nulla di sovrannaturale, devono avere dimensioni conformi alla statura dell'uomo, e quindi misurabili in miglia e anni, non in parsecs e in eternità.

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fenomeno della instabilità e dell'autodistruzione della grandezza in una similitudine che e tanto più interessante in quanto cerca di illustrare un processo fisico ricorrendo a un esempio tratto dal campo politico, proprio al contrario di noi che, in questo libro, cerchiamo di illustrare un fenomeno politico valendoci di esempi tratti dal campo fisico:

"Gli atomi di peso medio sono stabili e inerti, mentre quelli leggeri o pesanti sono pieni di energia. Per avere un'idea degli atomi più pesanti, basta pensare a quegli imperi eccessivamente estesi che sono ormai prossimi al disfacimento e che restano ancora in piedi solo grazie a particolari sforzi o forse alle straordinarie capacità di un genio; per farsi poi un'idea degli atomi più leggeri, si pensi agli individui che sono naturalmente portati ad aiutarsi a vicenda, e a riunirsi volontariamente in stabili tribù e comunità" 1.

Si tratta sempre della stessa osservazione: soltanto le piccole cose — siano esse atomi, individui o comunità — possono combinarsi alla ricerca di un'esistenza più stabile, ma questa tendenza conserva un carattere spontaneo soltanto fino a un certo limite. Oltre tale limite, quel che prima serviva a dar forma alle cose, serve ora a deformarle, col risultato che, continuando a svilupparsi, esse diventano più pesanti ed amorfe, perdendo quel solo carattere che per natura era loro destinato. Questo è il motivo per cui i paragoni politici di Sir George Thomson, e quelli fisici a cui io ricorro in questo libro, non sono in realtà delle analogie, ma delle omologie. Difatti, i due termini di paragone rappresentano due diverse manifestazioni dello stesso principio: cioè di quel principio universale secondo cui la stabilità e la solidità sono prerogative dei corpi di peso medio o, tanto per insistere su certi termini quando è necessario, di corpi che sono relativamente piccoli.

2. L'unità come fattore di squilibrio.

La fisica sembra dunque dimostrare in modo inequivocabile che l'universo non è monotono e semplice, ma multiforme e complesso. Invece di essere composto di un limitato numero di corpi aventi dimensioni quasi infinite, e che potrebbero continuare a sopravvivere solo grazie alla diretta volontà di Dio, esso consiste in

1 Sir GEORGE THOMSON, The Hydrogen Bomb: a Scientist View, in "The Listener", 23 marzo 1950.

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un infinito numero di piccoli limitati regni, che per rimanere in equilibrio non hanno bisogno di "particolari sforzi" né delle capacità di un "genio". Ma, allora, che cose che li tiene uniti? Si tengono uniti da soli! Questo incredibile risultato è ottenuto grazie a un meccanismo che, come molti altri espedienti della natura, è considerato al giorno d'oggi un detestabile indizio di macchinazioni reazionarie: alludo all'equilibrio; equilibrio di sostanze, di forze, di potenze, e di quant'altro uno voglia.

Due sono le forme di equilibrio attraverso le quali si può ottenere tale risultato: l'equilibrio dinamico, e l'equilibrio statico. Ambedue queste forme sono dotate di un potere di autoregolazione, quando agiscono nel loro proprio elemento. L'equilibrio statico è quello che caratterizza i corpi di enormi dimensioni, condannati alla più assoluta immobilità. Esso si verifica quando due oggetti si trovano in un rapporto che non è suscettibile di essere modificato, come avviene di una casa rispetto al suolo, o di una montagna rispetto all'attigua pianura. Questa forma di equilibrio, invece di creare armonia, plasma a unità le sue diverse parti. Essa, interessando dei corpi rigidi e fissi, potrebbe assurgere a principio universale soltanto se l'universo fosse ancora immobile e privo di vita. In questo caso, l'esistenza di pochi corpi di rilevanti dimensioni, o anche di uno soltanto, avrebbe un significato. Ma nella smisurata vastità dell'abisso della creazione, un sistema del genere potrebbe essere mantenuto in efficienza solamente per opera dell'onnipresente volontà di Dio il quale, per impedire che il tutto cada nel nulla, dovrebbe perpetuamente dirigere questo equilibrio con le stesse Sue mani.

Siccome questo non era certo il Suo intento, egli creò invece un universo dinamico, animato da un continuo movimento, mantenuto in efficienza non dall'unità ma dall'armonia, e basato non sullo statico equilibrio della morte, ma sul dinamico equilibrio della vita. A differenza dell'equilibrio statico, l'equilibrio dinamico è dotato di un potere di autoregolazione, dovuto non già alla fissità dei suoi rapporti, ma alla coesistenza di innumerevoli piccole parti mobili alle quali non è permesso di svilupparsi fino al punto di disturbare l'armonia del tutto.

Ciò significa che la piccolezza, lungi dal rappresentare un accidentale capriccio della natura, assolve a un'importante funzione, costituendo il segreto della stabilità e della durata di un'esistenza tranquilla e armoniosa, che non ha bisogno di onnipotenti

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coordinatori. Difatti, i piccoli corpi, che sono infiniti di numero e caratterizzati da un continuo movimento, si adattano spontaneamente al meraviglioso funzionamento di un equilibrio dinamico, la cui funzione, in un universo in continuo progresso, è quella di creare sistemi e organismi pieni di armonia, senza ostacolare l'anarchica libertà di movimento accordata alle particelle che li compongono. Erwin Schrodinger, considerando la piccolezza e l'infinito numero degli atomi come il requisito primo dell'ordine nel creato e della precisione delle leggi fisiche, si è felicemente espresso in questi termini : "Per quale motivo ciò non si può ottenere nel caso di un organismo composto soltanto da un moderato numero di atomi, e sensibile già all'urto di uno o pochi atomi soltanto? La risposta a questa domanda risiede nel fatto che gli atomi, come noi sappiamo, sprigionano continuamente un disordinato flusso di calore che, per cosi dire, ostacola il loro ordinato comportamento, impedendo ai fenomeni che si verificano nella cerchia di un piccolo numero di atomi di acquistare una loro fisionomia e di svilupparsi secondo leggi riconoscibili. Soltanto quando gli atomi sono in grande numero, le leggi statistiche acquistano un significato, controllando il comportamento di queste assemblées con una precisione che aumenta in misura proporzionale al numero degli atomi osservati. Soltanto in questo modo i fenomeni acquistano dei caratteri veramente definiti. Tutte le leggi fisiche e chimiche che, secondo le nostre conoscenze, hanno un ruolo determinante nella vita degli organismi, sono di questo tipo statistico; qualsiasi altra forma immaginabile di armonia e di ordine è destinata ad essere sempre turbata e resa inoperante dall'incessante flusso di calore degli atomi"1.

3. La fisica della politica.

Questo elastico principio dell'equilibrio, che ha trasformato l'anarchia di libere particelle in sistemi dotati di grande ordine, in seguito alla precisione statistica invariabilmente desumibile dalla casuale interazione di corpi numerosi e minuscoli, costituisce senz'altro lo strumento che impedisce all'universo di disintegrarsi; per questo, è sorprendente il fatto che molti nostri esperti di politica si siano scagliati con violenza contro tale principio, sostenendo che

1 Erwin SCHRONDINGER , What is Life?, University Press, Cambridge, 1951, p.8

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l'universo sociale ha un ordine del tutto opposto. Ogni volta che essi lo trovano esposto in chiave politica, come quando si parla del principio dell'equilibrio dei poteri, si affrettano a respingerlo, non soltanto come subdolo e machiavellico, ma anche come superato e pericoloso per la pace. Al posto dell'equilibrio essi invocano l'unità, anche se questa è presente soltanto nelle instabili particelle prime, o nella staticità della morte. In realtà, quello che essi auspicano, sia pure involontariamente, è lo squilibrio, giacché la sola alternativa all'equilibrio e la mancanza di equilibrio, e non l'unità. Essi sono cosi ostinati nelle loro convinzioni che anche oggi, malgrado i turbamenti provocati dai loro sforzi di unificazione, uno rischia di essere considerato irresponsabile o demente, o l'una cosa e l'altra, se ardisce sottolineare l'opportunità di un equilibrio di poteri.

Un fatto del genere è tanto più stupefacente se si considera che ogni cosa intorno a noi dimostra, nel modo più inequivocabile, che non esiste assolutamente nulla che non sia basato sull'equilibrio. Il nostro sistema solare è tutto un equilibrio fra il sole e i pianeti. La nostra Via Lattea si trova in equilibrio con altre galassie. Sulla terra, poi, è tutto un giuoco di equilibri fra montagne e pianure, fra terre ed acque, fra una stagione e l'altra, fra caldo e freddo, fra luce ed ombra, fra insetti e uccelli, fra suoni e silenzi, fra animali e piante, fra gioventù e vecchiaia, senza contare l'equilibrio più sorprendente, quello fra i due sessi. Ogni cosa, ovunque, si fonda sull'equilibrio, non sull'unità al punto che senza equilibrio non possiamo neppure camminare. Tale principio ha una cosi chiara evidenza che molti di noi concepiscono perfino Dio come Trinità, oltre che come unità.

Basterebbero questi motivi per ritenere che tale principio, di così universale applicazione nel mondo della natura, debba essere valido anche nel mondo fisico della politica. Questa verità dovrebbe apparire particolarmente evidente agli studiosi che vivono in Stati democratici, giacché non v'è sistema al mondo che si contrapponga tanto al concetto di unità quanto la democrazia, col suo delicato equilibrio di partiti e di poteri. Nessun americano, che abbia a cuore la sua salvezza, si alzerà mai in un congresso del Partito Repubblicano per dire : "In nome dell'unità, uniamoci ai Democratici!". E pochi si sentirebbero di spalleggiare un Presidente se questi, nell'interesse dell'unità e dell'efficienza amministrativa, ripudiando improvvisamente come reazionario il principio della divisione e dell'equilibrio dei poteri, pretendesse di unificare il legislativo, il giudiziario e l'esecutivo. Soltanto un totalitario può

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trovar congeniale al suo spirito l'ideale dell'unità e dell'accentramento, piuttosto che quello di un'armonia prodotta da una varietà di elementi contrapposti. E che cosa può guadagnarci? Scartando un sistema di equilibri che è dotato di un suo potere di autoregolazione, egli si trova ad aver bisogno del particolare sforzo di uno stabilizzatore, di un genio, cioè di un dittatore il quale sia in grado di assicurare quell'armonia che prima derivava automaticamente dal sistema. Non si dimentichi che anche l'unità ha bisogno di equilibrio.

4. Equilibrio dinamico ed equilibrio statico.

Ne deriva che il vero problema che angustia il mondo della politica — il quale, dopo tutto, è soggetto all'interazione fisica delle sue determinanti ne più e né meno che il mondo degli atomi e delle stelle — non si riassume nell'alternativa fra equilibrio o unità di potere, ma piuttosto in quella fra buon equilibrio e cattivo equilibrio. È in questa direzione che i nostri studiosi dovrebbero estendere la loro ricerca. Difatti, quello che appare come il difetto del nostro mondo politico, non è il fatto che sia equilibrato, ma piuttosto che sia malamente equilibrato. E il motivo di questo cattivo equilibrio è che, a differenza dell'universo fisico, il nostro mondo politico non si compone più di un grande numero di piccole unità dinamiche che, come abbiamo visto, sono essenziali a un sistema ordinato di vita, ma di un piccolo e sparuto numero di unità ciclopiche , immobili, sebbene ancora in movimento: le grandi potenze. Con il loro sorgere, l'equilibrio dinamico, che dipende dalla armonica coesistenza di piccole e innumerevoli unità, non è stato più in grado di funzionare in modo soddisfacente, ed è stato rimpiazzato da un equilibrio statico.

Con questo non si vuol dire che un equilibrio statico non abbia i suoi lati positivi. Per essere adeguato, un equilibrio deve avere un carattere automatico, in modo da esonerare coloro che lo hanno creato dal gravoso e sterile compito di sottoporlo a costante controllo. Esso deve funzionare da sé. In un mondo di inerte materia, un equilibrio statico soddisfa egregiamente questa condizione. Difatti, esso rappresenta la sola forma di equilibrio capace di garantire, fra i corpi inanimati, la sta ticità dei loro rapporti. Ma se esso si mostra perfettamente adeguato in un mondo inerte e privo di movimento, perde però la sua capacità di

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autoregolazione se viene applicato a un sistema dinamico e pieno di vita come è quello rappresentato dalla comunità internazionale. In questo caso, è necessario un equilibrio dinamico per garantire l'adeguato avvicendarsi e la necessaria correlazione dei cambiamenti che continuamente si verificano. Ma un equilibrio dinamico, come abbiamo visto poco sopra, è legato a un sistema di piccole cellule multiformi, che viene meno quando le cellule si uniscono cristallizzandosi in grossi organismi, che assumono l'aspetto di grandi potenze nel campo politico, e di proliferazioni cancerose nel corpo umano.

La fusione delle cellule, essendo un fenomeno che contraddistingue gli stati patologici e la vecchiaia, ogni volta che si verifica produce l'effetto di rallentare sensibilmente il ritmo della vita. In questo caso, ciò che prima appariva flessibile ed elastico, diventa lento e rigido. Ma l'equilibrio di ciò che è rigido non può essere che un equilibrio statico. Tuttavia, un sistema di grandi potenze che abbia perso la sua flessibilità, conserva sempre una certa dose di dinamismo e di vitalità, sia pure in misura ridotta, come accade ai vecchi. Ed è proprio questo fenomeno che dà origine alle difficoltà. Difatti, in questo caso, un equilibrio dinamico diventa impossibile perché viene a mancare l'elasticità della materia la quale conseguentemente si accumula in masse enormi ; d'altra parte, anche un equilibrio statico non è adatto, perché un sistema che si muove, sia pure lentamente, è purtuttavia ancora in movimento, come un vecchio che, malgrado la sua età, è ancora in vita. Eppure, in tali condizioni, l 'unico equilibrio che può funzionare è quello statico. Il suo funzionamento, però, non è più automatico, come invece dovrebbe essere in un sistema dotato dì perfetta armonia. Separato dal suo ambiente tipico — quello rappresentato da un mondo di cose rigide e morte — un equilibrio statico può essere preservato soltanto grazie a un vigilante e continuo controllo. Ogni volta che si verifica un movimento in un decrepito sistema sociale, è necessario l'intervento di una mano potente per trovare ima nuova forma di equilibrio alle sclerotiche cellule che lo compongono. Si comprendono cosi i fanatici tentativi degli uomini politici del nostro tempo, diretti a creare imponenti forme di supergoverni, come la Società delle Nazioni, le Nazioni Unite, gli Stati mondiali ; tentativi i quali poi dimostrano come un mondo di grandi potenze, nonostante venga tanto esaltato, non sia in grado di fare ciò che può fare, senza alcuno sforzo, un mondo di piccoli Stati: cioè governarsi da solo.

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Difatti, un sistema del genere presuppone l'esistenza di un soggetto che lo controlli dall'esterno.

E questo è l'aspetto tragico. Per quanto tale sistema abbia un disperato bisogno di un organo del genere, non esiste genio capace di compensare la sua mancanza di automaticità; e nemmeno esiste intelligenza umana che abbia, per un certo periodo di tempo, tanta autorità e saggezza da saper sviluppare le forze equilibratrici necessarie per far fronte anche ai minimi cambiamenti di posizione compiuti dalle imponenti carcasse dei vasti imperi. Questo è il motivo per cui, anche quando un'alleanza casuale sembra fornire il necessario potere, viene a crearsi un equilibrio, una pace, di fronte alla quale ciascuno si domanda se il mondo sia in grado di conservarla. E la ragione di queste perplessità è che la preservazione di tale equilibrio richiede uno sforzo continuo di tali proporzioni da causare la fine dell'equilibrio stesso, se i calcoli sono sbagliati. E ogni sforzo di tale ampiezza è soggetto a errori di calcolo, come ci dimostra il penoso esempio delle Nazioni Unite le quali, malgrado siano composte da tanti Stati amanti della pace, durante la loro breve esistenza hanno visto le guerre profilarsi all'orizzonte con maggiore rapidità e frequenza di quanto non sia accaduto a qualsiasi altra precedente assemblea umana. Pertanto, il sintomo principale di un cattivo equilibrio non è il fatto che esso sia dinamico o statico; ma che abbia bisogno di una autorità specificatamente destinata a regolarlo. Ciò avviene quando il suo impiego è fuori posto, come quando l'equilibrio dinamico che e caratteristico di situazioni che presentano una certa flessibilità, viene imposto a corpi dotati di rigidità o viceversa. Ne deriva che, un buon equilibrio, in un sistema pieno di movimento, deve essere un equilibrio dinamico, cioè un equilibrio la cui capacità di autoregolarsi derivi dall'esistenza di tante piccole parti componenti, collegate fra loro non già in stretta unità, ma in elastica armonia.

In ciò risiede il sottile fascino dei cosiddetti mobiles che gli artisti, forse per un istintivo rimpianto verso la perduta felicità del passato, hanno recentemente cominciato a produrre: delicate strutture composte di molte parti dagli imprevedibili intrecci. Quando uno ci soffia dentro, provoca un numero infinito di eleganti movimenti e di carezzevoli suoni, sconvolgendo l'assetto di quelle magiche diramazioni, senza mai turbare l'armonia del tutto. A differenza di quanto accade per i sistemi caratterizzati da unità, che alla minima perturbazione rischiano di sfasciarsi irreparabilmente, i

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turbamenti che si verificano nei sistemi dotati di armonia, anche quando sono gravi — il che è automaticamente e logicamente impossibile a causa delle modeste dimensioni degli elementi coinvolti nel fenomeno — provocano immediatamente una catena di movimenti interni di compenso che instaurano una nuova forma di equilibrio, come diretta conseguenza dello squilibrio prima esistente. La stessa cosa può dirsi di un sistema politico di piccoli Stati. Gli scompensi che in esso si verificano possono essere fronteggiati molto più facilmente di quanto non sia possibile fare in un sistema di grandi potenze, come avviene per una bilancia, in cui l'equilibrio eventualmente turbato può essere più agevolmente ristabilito se si dispone di un gran numero di piccoli pesi, invece che di pochi pesi più grossi. Difatti, mentre nel primo caso basta maneggiare semplicemente piccole pietre, nel secondo è necessario spostare macigni. E in quest'ultimo caso il problema è rappresentato dalla difficoltà di trovare un macigno abbastanza grosso per ristabilire l'equilibrio, o una forza abbastanza grande da spostarlo.

5. La divisione come principio di progresso.

Pertanto, la responsabilità dei mali che affliggono il mondo della politica non può essere attribuita al tanto bistrattato principio dell'equilibrio dei poteri, ma alla mancanza di automaticità provocata dall'esistenza di un mondo statico di grandi potenze, la cui crescente cristallizzazione determina un totale sfaldamento, rendendo inadeguato anche quel principio su cui sembra essere basato l'universo. Il compito che ci attende appare dunque chiaro: invece di ripudiare l'equilibrio dei poteri, sostituendolo con l'unità di uno Stato mondiale, noi dobbiamo eliminare l'attuale cattivo equilibrio, rimpiazzandolo con uno migliore. Ma come si può ottenere un tale risultato?

Se l'equilibrio dinamico, indispensabile per ogni sistema dotato di movimento, perde la sua funzionalità a causa di un eccessivo sviluppo di cellule o della fusione di varie parti in solidi agglomerati, è evidente come non sia possibile ristabilire tale funzionalità se non impedendo questa ipertrofia delle varie unità, cioè ristabilendo un sistema flessibile a base di piccole cellule. In altre parole, se la natura pone a misterioso fondamento del benessere il principio della piccolezza degli elementi del creato, indicando nel principio opposto la causa del loro malessere, il sistema di cura non

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può essere rappresentato che dal metodo della divisione, intesa come scissione in più parti degli elementi prima esistenti, in modo da trasformare un equilibrio statico controllato in una forma di equilibrio dinamico dotato di un autonomo potere di regolazione. Ma questo non è tutto, giacché una crescente "mobilità dei sistemi dinamici non porta soltanto a un ristabilimento delle loro migliori condizioni di vita, ma anche a un loro progresso rispetto ai sistemi dotati di minore mobilità. Pertanto, la divisione (o la moltiplicazione, che ha gli stessi effetti sulle dimensioni delle cose) rappresenta un principio di progresso oltre che di cura, mentre la fusione, che a tanti sembra un fenomeno evolutivo, rappresenta invece non soltanto una causa di malessere, ma anche un indice di primitivismo. Nel campo politico, l'unico mezzo per ristabilire un sano equilibrio nell'inquieta situazione internazionale, sembra essere costituito da quell'arma che, in base alle considerazioni sociali dei precedenti capitoli, era stata suggerita come un espediente e che le considerazioni fisiche del presente capitolo impongono invece come una necessità: la divisone di quelle unità sociali che hanno superato dimensioni controllabili; lo smembramento delle grandi potenze.

Se questa nostra idea dovesse ancora apparire come retrograda, basterebbe gettare uno sguardo a caso sulle altre forme di vita per renderci conto come ovunque, a un certo punto, la piena vitalità sia raggiunta attraverso un processo di divisione, e non di fusione. I libri sono più apprezzabili se appaiono divisi in parecchi capitoli. Lo stesso dicasi della giornata che, per le diverse attività che si devono compiere, può essere meglio impiegata se è divisa in ore. Anche le lingue si migliorano attraverso la divisione dei suoni, finché ogni sfumatura finisce per essere espressa da una parola diversa. Soltanto un uomo primitivo può accontentarsi di un vocabolario che si limita alle urla di Tarzan. L'area abitabile di una casa aumenta, non eliminando ma erigendo delle pareti, cioè non unificando ma dividendo lo spazio in cui si vive. Un giardino senza muro di cinta sembra che non contenga nulla: quattro zolle di terra recintate sono tutto un universo. Quando si vuole impedire che i ricevimenti divengano noiosi, non si riuniscono tutti gli invitati in un sol gruppo dominato da una personalità magnetica, ma si preferisce dissolvere questa temuta unità in molti gruppetti che si animano dà soli. Le lastre di pietra, che non hanno alcuna utilità quando sono troppo grosse, possono essere utilizzate in delicati mosaici o in imponenti cattedrali, dopo essere state tagliate in parti

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più piccole. Perfino il cancro, che fra i problemi di unificazione è quello più temuto, potrebbe essere curato se i medici trovassero ilsistema di combattere le cellule prepotenti, dividendole o riducendole entro i ristretti limiti dei loro originari confini 1.

La stessa considerazione si può fare nel campo della tecnologia, in cui la distribuzione delle forze, la suddivisione dei complessi, la moltiplicazione delle parti e la riduzione delle dimensioni sono tutti segni di progresso e non di peggioramento. Anche le navi da guerra diventano virtualmente inaffondabili dividendo lo spazio del loro scafo in una serie di compartimenti stagni. Quando poi si vuol domare l'impeto dei torrenti di montagna, si provvede a dividere la massa delle loro acque: se si trascura di farlo essi finiscono per devastare i campi, mentre divisi in piccoli canali servono a irrigarli e a renderli più fertili. I cuscinetti a sfera hanno permesso di risolvere il problema della frizione attraverso un semplice ma rivoluzionario espediente, che consiste nel sostituire a pochi e grossi

1 Per quanto per un certo periodo di tempo le malattie dello sviluppo possono essere fronteggiate, sia internamente dal corpo stesso che si adatta a compiti più duri, sia esternamente tramite l 'aiuto dei medici, tuttavia una situazione di vera tranquillità non può essere ottenuta se non quando tale sviluppo viene arrestato. Difatti, malgrado la nuova forma di equilibrio raggiunto, noi sappiamo che l 'equilibrio ottenuto a un livello eccessivo di grandezza non soltanto è precario ma è destinato a crollare sotto lo stesso sforzo necessario per mantenerlo. Invece di ristabilire la salute, noi non facciamo altro che acquisire un'altra malattia: una malattia di adattamento. I pericoli che scaturiscono da eccessivi sforzi interni di equilibrio, necessari per combattere l' infezione (uno sviluppo non equilibrato di certe cellule del sangue), sono stati esaurientemente illustrati da H. Selye. Dopo aver esposto certi animali ad agenti nocivi non specifici, egli ha osservato, in ogni caso preso in esame, una serie di fenomeni: 1) "la reazione di allarme"; 2) "la fase di resistenza"; 3) "la fase di esaurimento". La prima fase è caratterizzata da uno stato di shock, e la seconda da uno sviluppo di ormoni adreno-corticali dotati di un buon grado di stabilità; il terzo stadio si risolve in un fenomeno terminale dovuto a un venir meno del meccanismo di adattamento. Ciò significa che, una volta che al corpo viene imposto uno sforzo di resistenza eccessivamente grande, il semplice sforzo per mantenere il difficile equilibrio che si è venuto a instaurare fra grandezze che sono diventate troppo ampie, porta al suo crollo. Difatti "l 'organismo alla fine comincia ad essere danneggiato dai suoi stessi eccessivi sforzi di difesa che portano alla sua distruzione" in una specie di "suicidio biologico". Da ciò il termine usato da Selye "malattie di adattamento". Si veda Quarterly Bulletin of the British Psycological Society, vol. 2, n. 17, luglio 1952, p. 87.

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elementi di rotazione un numero maggiore di elementi più piccoli. Nelle macchine moderne il processo di moltiplicazione e di divisione è giunto a tal punto che ogni singolo ingranaggio, come ogni singolo Stato in un mondo di piccoli Stati, può smettere di funzionare senza danneggiare il sistema nel suo complesso. Un aereo, che prima era azionato da un solo motore, ora può disporne di quattro o sei, e solca sicuro gli spazi. La sua tavola di bordo è diventata un labirinto di leve e di bottoni, e la sua struttura è un insieme, non di centinaia, ma addirittura di migliaia di parti diverse. E tuttavia il volo è diventato molto più sicuro che in passato. La meccanica, solo quando è ancora in una fase di arretrato sviluppo, presenta degli strumenti composti da pochi e voluminosi ingranaggi, i quali con difficoltà riescono a controllare le forze che cercano di coordinare, e sono destinati inesorabilmente a fermarsi quando un singolo pezzo non funziona. Un meccanismo, invece, è tanto più equilibrato e perfezionato quanto più numerose sono le parti che lo compongono. Più i suoi elementi sono piccoli e complessi, e più rassomiglia al cervello umano (il quale pare che abbia sprigionato, come riflessi quasi automatici, le scintille del pensiero e della coscienza umana, in un giuoco di delicato equilibrio, non appena la sua sostanza si è cosi minutamente suddivisa da trasformarsi in milioni e milioni di cellule componenti).

La più eloquente dimostrazione del carattere evolut ivo del principio che stiamo illustrando è però offerta non dalla storia del progresso meccanico, ma dalla storia del progresso organico. La biologia moderna ha dimostrato più chiaramente di qualsiasi altra scienza che, quando la natura migliora le forme di vita, lo fa attraverso un processo di suddivisione e non di unificazione. Julian Huxley, impiegando un termine appropriato, ha chiamato tale processo radiazione di adattamento o spiegamento. Suddividendosi in una quantità di ordini, forme, classi, e sottoclassi diverse, un gruppo originariamente unitario si diversifica, col risultato che esso, invece di incontrare difficoltà di sviluppo a causa della sempre minore cooperazione delle sue unità componenti, è in grado di "sfruttare il suo nuovo ambiente molto più radicalmente" ed economicamente di quanto non sarebbe stato possibile se tale gruppo avesse mantenuto un'assoluta omogeneità 1. Ciò significa che il

1 Le citazioni di questo paragrafo e della successiva nota sono tratte da JULIAN HUXLEY , Biological Improvement , in "The Listener", novembre 1951, pp. 739 ss.

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fenomeno che Huxley chiama spiegamento , lungi dal risolversi in una semplice variazione, costituisce perfezionamento e progresso. Il primo passo verso forme più elevate di vita fu compiuto quando "la sostanza vivente si differenziò in quattro specie di meccanismi chimici" : le piante verdi, i batteri, i funghi, e gli animali. Un ulteriore progresso fu compiuto quando ciascuna di queste fondamentali branchie si sviluppò a sua volta in una miriade di specie, tipi, e gruppi, in modo tale che ciascuna nuova divisione rendeva le forme di vita che da essa scaturivano "sempre più adatte a vivere nel loro particolare ambiente". Gli animali, per loro conto, si sono suddivisi in varie categorie: alcuni si nutrono attraverso uno speciale organo che funziona da filtro, altri si procurano il cibo coi tentacoli; ve ne sono che mangiano sostanze vegetali o che ingoiano terra; altri ancora vivono di preda, e "se qualcuna di queste specie non si fosse sviluppata, una parte delle risorse alimentari disponibili sulla terra si sarebbe sprecata". Come sorprendente esempio del progresso raggiunto attraverso la moltiplicazione delle specie, Huxley cita i fringuelli delle Isole Galapagos, gli Geospizidae, i quali più di ogni altra cosa indussero Darwin a credere alla teoria dell'evoluzionismo. Si tratta di un piccolo gruppo di uccelli canori discendenti senza dubbio da una specie di fringuelli del Nuovo Mondo, che riuscirono a trasmigrare in tale arcipelago dell'Oceano dalla loro terra di origine. Attualmente, il gruppo si distingue in quattro generi diversi e in quattordici specie separate, che si sono adattate a diverse forme di vita. Alcune specie sono granivore, altre onnivore, altre insettivore, altre si nutrono di sostanze vegetali, mentre una vive beccando le sostanze esistenti nelle cortecce degli alberi.

Sebbene Huxley, trascurando in modo sorprendente i risultati e il significato delle sue ricerche, concluda che l'uomo è diverso da tutti gli altri esseri viventi e che è destinato a progredire, per ragioni che egli non chiarisce, non nel modo indicato dalla natura, cioè attraverso un processo di separazione, divisione o differenziazione, ma attraverso la creazione della varietà nell'unità, e quindi in virtù di fenomeni di fusione e di concentrazione, tuttavia lo sviluppo storico dimostra che la razza umana non costituisce alcuna eccezione

1 Anche i più eminenti scienziati moderni hanno la strana abitudine di contraddire in successive riflessioni quello che hanno cercato di provare in precedenti monumentali lavori. Marx, il quale ha sostenuto in maniera estremamente convincente che ogni sistema contiene i sé i germi della sua

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.Difatti, anche l'uomo, come i fringuelli delle Isole Galapagos, non

è rimasto sempre lo stesso ma si è differenziato in modo da progredire e da arricchire le proprie possibilità. Invece di rimanere un'entità in continuo aumento e destinata a una sempre più completa integrazione, esso si è suddiviso in razze e nazionalità diverse. E, a rendere più netta questa sua differenziazione si ebbero civiltà e lingue differenti, ciascuna delle quali era necessaria per poter utilizzare tutte le risorse materiali e intellettuali disponibili. Se tutti gli uomini fossero stati americani, la popolazione umana sarebbe stata molto minore, e noi non avremmo mai conosciuto una gran parte delle bellezze della vita. Difatti, quale americano si sarebbe sentito di vivere nella calotta polare, o sulle meravigliose ma sterili montagne dell'Asia entrale? Il fatto che la razza umana si sia ramificata in popolazioni come quelle degli Esquimesi e dei Tibetani ha permesso di vivere a un numero maggiore di uomini; e le nuove varietà umane hanno aperto alle vecchie nuovi orizzonti. Si può ben

stessa distruzione" ha fatto eccezione per il suo sistema preferito, il socialismo. Arnold Toynbee, dopo aver dimostrato che ogni civiltà è destinata a disintegrarsi appena arrivata alla fase di uno Stato universale, e che ogni civiltà finora ha sempre raggiunto prima o poi tale stadio, giunge alla conclusione che la civiltà occidentale, che — guarda caso — è proprio quella a cui egli stesso appartiene, sembra costituire la sola eccezione. E Julian Huxley, dopo aver dimostrato in una superba serie di studi che la natura migliora le sue forme di vita attraverso un incessante processo di divisione, di suddivisione, di radiazione, di spiegamento, di discontinuità, di differenziazione, giunge alla fine affermando che, nel caso della specie umana, che — guarda caso — anche questa volta è quella a cui egli appartiene, la natura opera diversamente. Giungendo a questa conclusione, egli espone il convincimento che "le scienze umane oggi si trovino press'a poco nella posizione occupata dalle scienze biologiche nei primi del 1800". Quei che egli scopre come esperto di biologia, ripudia come scienziato umano, nel qual atteggiamento egli non fa altro che razionalizzare i pregiudizi unitari del nostro tempo. Se è corretta l'analisi dei tutto convincente che egli fa del processo evolutivo, la causa della miseria umana deve ovviamente consistere nel continuo sforzo dell'uomo di fare un'eccezione per se stesso. Se la differenziazione costituisce la via che la natura segue per progredire e per utilizzare in maniera sempre più efficiente l 'ambiente che la circonda, per quale motivo il progresso dell 'uomo dovrebbe essere raggiunto seguendo il metodo esattamente opposto dell ' integrazione, cioè della "cooperazione di personalità umane integrate", o l ' idea di rendere ogni compito individuale una funzione della comunità?

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intuire quale grave perdita avrebbe sofferto la civiltà umana se, nello spirito di un ideale unitario, tutti noi avessimo parlato la stessa lingua e avessimo potuto comprenderci vicendevolmente. Non vi sarebbe stato bisogno che uno Shakespeare venisse dopo un Sofocle, o che un Goethe venisse dopo uno Shakespeare.

6. Organizzazione e inferno.

La scienza quindi dimostra inequivocabilmente come non soltanto il progresso culturale e tecnico ma anche quello biologico sia legato a un incessante processo di suddivisione il quale fa sì che nulla raggiunga dimensioni eccessive. E dimostra anche che nell'universo intero non esiste, a quanto pare, nessun problema importante che non sia fondamentalmente un problema di dimensioni o, per essere più esatti, un problema di eccessive dimensioni; difatti, problemi in senso opposto non esistono, dato che è lo stesso processo di sviluppo che provvede spontaneamente a risolverli. È vero che la natura risolve automaticamente anche i problemi rappresentati dall'eccessivo sviluppo di certi organismi, provocando spontaneamente la loro distruzione. Ma tale sistema di cura, se rappresenta una soluzione del tutto adeguata nell'inerte mondo della fisica, è lungi dall'essere soddisfacente in riferimento ai problemi personali e sociali. Perciò, in questo caso, dobbiamo adottare il metodo della divisione, vale a dire, invece di tollerare passivamente che le cose sfuggano al nostro controllo, dobbiamo ridurre la loro grandezza fino a una misura che sia adeguata alla statura dell'uomo. Su scala ridotta, difatti, ogni cosa diventa flessibile, sana, malleabile e piacevole.

Su larga scala, invece, tutto è instabile e assume proporzioni terrificanti, anche il bene. L'amore diventa passionalità, la libertà si trasforma in tirannia. L'armonia, articolata su un giuoco reciproco di innumerevoli, isolate e vivaci azioni individuali di natura diversa, viene sostituita da un sistema unitario che è caratterizzato da un'assoluta rigidità ed è mantenuto in efficienza attraverso un difficile lavoro di coordinazione e di organizzazione. Questo è il motivo per cui il grande eroe della nostra epoca, non è l'artista, il filosofo o l'amante, ma il grande organizzatore.

Ciò mi fa pensare alla storiella di quel professore di statistica 1 1 La storiella è stata pubblicata nel Simplicissimus di Monaco, prima

dell 'avvento di Hitler, ed io la riferisco a memoria.

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che, dopo la sua morte, si presenta con la borsa sottobraccio davanti al Signore lamentandosi della povertà e del modo antiquato in cui Egli aveva organizzato il mondo. "Io ho un piano molto migliore del vostro", egli dice, tirando fuori dalla sua borsa grafici e diagrammi. "La vita, oggigiorno, è fatta di molte piccole e monotone occupazioni e attività. La mattina ci alziamo dopo aver dormito otto ore, passiamo un quarto d'ora al bagno, e chiacchieriamo cinque minuti coi nostri familiari. Ci diamo alla lettura per dieci minuti, e facciamo colazione in un quarto d'ora. Mezz'ora per arrivare al nostro ufficio, dove lavoriamo per quattro ore. Ancora dieci minuti per pranzare, poi schiacciamo un pisolino per una mezz'ora. Un'altra mezz'ora per ritornare a casa, ove ci intratteniamo coi familiari per un'oretta. Un'altra mezz'ora ancora per la cena, dopo di che ci attendono di nuovo otto ore di sonno.

"Tutto questo spezzettamento delle attività della nostra vita porta a uno spreco notevolissimo di tempo. Ho fatto il calcolo che un uomo medio passa ventitré anni a dormire, due anni a mangiare, tre anni a camminare, cinque anni a parlare, quattro anni a leggere, due anni a soffrire, dieci anni a giuocare, e sei mesi a fare all'amore. Ora, perché non organizziamo il mondo con maggiore semplicità ? Perché non facciamo in modo che l'uomo svolga queste varie attività in forma continuativa, cominciando coi due anni di amara sofferenza, e finendo coi sei piacevoli mesi d'amore?".

Il Signore, secondo la barzelletta, permise allo statistico di mettere in pratica il suo piano. Ma il risultato fu negativo, e, come pena, egli venne cacciato dal paradiso. Arrivando all'inferno, egli chiese subito di essere condotto di fronte a Satana e, sperando questa volta in migliori risultati, gli sottopose il suo piano.

"Satana — esclamò svolgendo i suoi grafici e diagrammi — ho un piano per organizzare l'inferno".

Sentendo queste parole, Satana lo interruppe con una risata che fece vibrare ogni roccia delle infuocate caverne dell'oltretomba.

"Organizzare l'inferno? — gridò scoppiando dalle risate; — mio caro professore, l'organizzazione è l'inferno!". E la stessa cosa vale per l'unità che è creata dall'organizzazione e che da essa deriva!

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Capitolo Sesto

L'UOMO COME INDIVIDUO E L'UOMO MEDIO

"L'uomo medio... è per la storia quello che il livello del mare è per la geografia".

ORTEGA Y GASSET

La naturale democrazia interna di un piccolo Stato. La posizione dell'individuo in un piccolo Stato. Lo Stato di massa e la sua particella politica, l'uomo medio. La forma passiva di linguaggio del cittadino di uno Stato di massa. La trasformazione della quantità in qualità. La massa e l'uomo. La maggiore dignità personale del cittadino del piccolo Stato. La concezione di Aristotele sulle dimensioni ideali delle comunità politiche. La democrazia esterna di un mondo di piccoli Stati. Le possibilità di coesistenza per una moltitudine di sistemi politici. La libertà che ne deriva. La Torre di Babele. La naturale empietà delle unioni.

L'ARGOMENTO POLITICO

Nel capitolo V abbiamo cercato di dimostrare come il principio delle microcellule non rappresenti, diversamente da quello che affermano molti studiosi della politica, un concetto reazionario rispetto al moderno concetto dell'unificazione, ma al contrario un principio di avanzamento e di progresso o, ancor meglio, il principio su cui si basa l'intero universo. Per conseguenza, sembra legittimo ritenere che certe verità che si dimostrano valide se riferite all'universo nel suo insieme, o a speciali settori come quelli della biologia, della tecnica, dell'arte o della fisica, siano applicabili anche al mondo della politica. Se i corpi di eccessive dimensioni sono per loro natura instabili nell'universo fisico, con ogni

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probabilità essi lo saranno anche nell'universo politico. Se grosse cellule sono indizio di cancro nel corpo umano, probabilmente, se si manifestassero in un organismo politico, avrebbero lo stesso significato. E se il benessere e un sano equilibrio dei nostri organismi sono strettamente subordinati alla distruzione di tali cellule, parrebbe che la stessa esigenza s'imponga nei nostri sistemi sociali.

Accettando queste verità, ci sarà possibile comprendere il significato del principio dei piccoli Stati, e apprezzarne il valore molto meglio di quanto non sia stato possibile in precedenza. All'inizio della nostra analisi, noi abbiamo considerato tale concetto semplicemente come un espediente pratico che permetteva di risolvere una quantità di gravi problemi sociali, come ad esempio, la guerra. Ora, possiamo renderci conto che esso rappresenta non soltanto uno strumento suggerito dalla convenienza, ma qualcosa che fa parte di un disegno divino, e che, proprio per questa ragione , permette di risolvere tutti i problemi. Infatti, tale principio non rappresenta altro che l'applicazione, in campo politico, del più importante principio di organizzazione e di equilibrio attraverso il quale opera la natura. Più noi penetriamo nel suo mistero, e più siamo in grado di comprendere come mai la causa primaria dello sviluppo storico — che spiega il mutare delle istituzioni, delle forme di governo, dei sistemi economici, delle filosofie e delle diverse civiltà — non sia rappresentata dal sistema di produzione, dalla volontà dei capi, dall'indole di certi popoli, ma dalle dimensioni della società in cui viviamo. Se una società si sviluppa eccessivamente, essa è destinata a soffrire, per questo semplice fatto, delle calamità sociali come l'aggressività, la criminalità e la tirannia. Ma anche la sorte favorevole di una società dipende dalle dimensioni che essa ha raggiunto, e precisamente dal fatto che essa abbia mantenuto piccole dimensioni. Questa è la ragione per cui soltanto un sistema di piccoli Stati è in grado di garantire, sia all'interno che all'esterno, ideali come la libertà democratica e il progresso della cultura, e questo è anche il motivo che spiega come mai — e i capitoli seguenti si incaricheranno di dimostrarlo — il peggiore dei piccoli Stati sia in grado di assicurare all'uomo una felicità maggiore di quella che può garantirgli il migliore dei grandi Stati.

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1. LA DEMOCRAZIA INTERNA .

La ragione di ciò sembra chiara. La più grande fonte di felicità per l'uomo è rappresentata dalla libertà di cui può godere come individuo. Questa libertà è inseparabilmente connessa all'esistenza di un sistema politico a base democratica. Ma la democrazia, a sua volta, dipende inseparabilmente dalle dimensioni dell'organismo collettivo di cui l'individuo è parte, cioè lo Stato. In un piccolo Stato, in generale, la democrazia è destinata ad affermarsi, indipendentemente dal fatto che tale Stato possa avere una forma monarchica, repubblicana, o addirittura autocratica. Questa affermazione può sembrare un paradosso, eppure non è neces sario un grande sforzo per dimostrarne la rigorosa esattezza.

Un piccolo Stato è destinato, per sua stessa natura, ad avere una struttura interna democratica. In esso, l'individuo non può mai essere veramente sopraffatto dal potere dei governanti, la cui autorità è ovviamente limitata dalla ristrettezza del corpo sociale da cui scaturisce. Egli, naturalmente, deve riconoscere la superiorità dello Stato, ma sempre entro i limiti in cui tale superiorità si fa effettivamente valere. Questo è il motivo per cui, in un piccolo Stato, l'individuo non sentirà mai un senso di misteriosa soggezione nei confronti di chi governa. Egli è fisicamente troppo vicino per dimenticare la ragion d'essere del governo: cioè che esso è lì per servire lui, l'individuo, e non ha nessun'altra funzione. I governanti di un piccolo Stato sono, per così dire, i vicini di casa del cittadino. Ciascuno li conosce, e perciò essi non potranno mai celarsi sotto spoglie misteriose, che permettano loro di assumere l'aria distaccata e severa di superuomini. Perfino in quei paesi in cui il governo è nelle mani di un principe assoluto, al cittadino non sarà difficile, se lo Stato è piccolo, far valere i suoi desideri. Qualunque sia la sua designazione ufficiale, egli non sarà mai suddito. Il vuoto che esiste fra lui e il governo è così limitato, e così mobile ed elastico è l'equilibrio delle forze politiche, che egli sarà sempre in grado di colmare tale vuoto con un balzo, o di entrare direttamente nell'orbita governativa. Questo è il caso, per esempio, di San Marino, in cui si eleggono due consoli ogni sei mesi, col risultato che, praticamente, ogni cittadino ha la possibilità, un giorno o l'altro, di diventare capo del proprio Stato. Siccome il cittadino si mantiene sempre in una posizione di forza, il potere governativo non può essere che debole, e perciò può essere facilmente strappato a chi lo possiede. E anche

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questo è un essenziale requisito della democrazia.Mentre ogni piccolo Stato, sia esso una repubblica o una

monarchia, è per sua natura democratico, ogni grande Stato tende, per sua natura, ad essere non democratico. Ciò è vero anche nel caso di Stati che hanno il dichiarato carattere di repubbliche o di democrazie. Perciò, è del tutto naturale che alcuni dei più grandi tiranni del mondo, come Cesare, Napoleone, Hitler o Stalin, siano sorti in grandi Stati proprio quando lo spirito repubblicano e democratico sembrava aver raggiunto il culmine del suo sviluppo. Le monete francesi recavano la scritta: République Francaise, Napoléon Empereur , che soltanto apparentemente costituiva una contraddizione. Difatti, qualsiasi governo, in una grande potenza, deve essere forte, e qualsiasi grande moltitudine è destinata a fare l'esperienza di un accentramento di potere. Il fatto è che l'individuo è debole nella stessa misura in cui il governo è forte, col risultato che anche se la sua qualifica è quella di cittadino, la sua posizione è quella di suddito. L'equilibrio dinamico esistente fra i cittadini di un piccolo Stato si trasforma, in presenza di un grande potere, in una pesante forma di equilibrio statico che trova i suoi punti di appoggio, da un lato nella colossale e pericolosa massa popolare, dall'altro nell'altrettanto colossale e pericoloso potere di cui dispone il governo.

Un cittadino del Principato del Liechtenstein, la cui popolazione non arriva a quattordicimila abitanti, se desidera vedere Sua Altezza Serenissima il Principe Sovrano, che è insignito di una quantità di ordini famosi e Difensore di non so quante belle cose, non deve far altro che suonare alla porta del suo castello. Sua Altezza può essere "serena" quanto vuole, ma non sarà mai, per i suoi cittadini, un inaccessibile sconosciuto. Un cittadino della grande Repubblica americana, invece, se facesse un simile tentativo, incontrerebbe insormontabili difficoltà. Se cercasse di conferire col Presidente degli Stati Uniti, suo concittadino, rischierebbe di essere messo sotto osservazione in un manicomio o, nel caso che fosse giudicato in possesso delle sue facoltà mentali, correrebbe il pericolo di essere citato di fronte a un tribunale per aver commesso una grave infrazione. Fatti del genere sono realmente accaduti nel 1950. Nel 1951, un cittadino spese 1.800 dollari in undici mesi, nell'inutile tentativo di "attirare l'attenzione del Presidente" 1. Si obbietterà che

1 "New York Times", 13 dicembre 1951. Un altro incidente del genere ebbe come protagonista Dewey Williams, un cuoco di marina, che fu arrestato a

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in una grande potenza come gli Stati Uniti è praticamente impossibile che esistano fra governanti e cittadini quei rapporti che invece esistono in piccoli Stati. Ciò è verissimo, ma proprio questo è il punto. La democrazia, nel suo pieno significato, è impossibile in un grande Stato il quale, come già ha detto Aristotele, è "quasi incapace di avere un governo costituzionale" 1.

2. L'UOMO MEDIO

Il principale pericolo che corre la democrazia in una grande potenza deriva proprio da questa sua naturale incapacità di affermarsi senza tante cerimonie. Negli Stati di massa, l'individuo può far sentire l'influenza delle sue idee soltanto usando determinate forme o formule, e agendo attraverso gruppi organizzati. Questi si sostituiscono a lui e diventano sempre più i veri soggetti agenti nonché i detentori della sovranità politica, tanto che potremmo parlare di una democrazia di gruppo o di partito, piuttosto che di una democrazia di individui. Per conseguenza l'individuo, in quanto tale, perde importanza, e il suo posto viene occupato dal famoso uomo medio, che, secondo Ortega y Gasset "è per la storia quello che il livello del mare è per la geografia" 2. Ora, un individuo può permettersi di avere una sua volontà soltanto nella misura in cui si avvicina a questa mistica figura di uomo medio, e le sue aspirazioni hanno la possibilità di essere soddisfatte solo in virtù del fatto che egli sia un uomo medio, non un individuo. Nel Liechtenstein, non esiste un cittadino medio. Il cittadino Burger riesce a procurarsi quello che vuole lui, non quello che vogliono un certo numero di cittadini medi del suo paese. "Coloro che non sono simili a tutti gli altri — per citare ancora Ortega y Gasset — che non pensano come

Chicago, presso una stazione ferroviaria, e condannato a pagare una multa di dieci dollari per infrazioni alla legge, avendo telefonato alla Casa Bianca insistendo di voler parlare col Presidente Truman, nella speranza di riavere il proprio lavoro ("New York Times", 16 settembre 1951). Nel 1952, il Sottotenente dell 'Aereonautica Robert P. Hasbrook fu denunciato alle autorità militari da un detective d'albergo a Sant'Antonio (Texas) il quale lo aveva udito mentre cercava di telefonare al Presidente Truman. ("New York Times", 15 aprile 1952).

1 Aristotele, op. cit., 1326 b.2 ORTEGA Y GASSET , The Revolt of the Master, New York, The American

Library, 1950, p. 17.

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tutti gli altri, corrono il rischio di essere eliminati" 1.Ma chi è mai questo famoso, mistico, indistinto e fantomatico

uomo medio, che è tanto esaltato, adulato e corteggiato? Se esso non è un individuo in particolare, né l'insieme di tutti gli individui, in definitiva, non e un individuo. E se non e un individuo, non può essere che una cosa, cioè l'eco o il riflesso della comunità, della società, della massa. Ciò che noi veneriamo nella individualistica finzione dell'uomo medio, non è altro che il dio del collettivismo. Non c'è da meravigliarsi se noi siamo sopraffatti dall'emozione quando sentiamo parlare del governo del popolo, per il popolo, dal popolo, con il che noi esprimiamo la nostra adesione agli ideali della democrazia di gruppo o di massa, mentre, da veri democratici, non dovremmo pensare ad altro che al governo dell'individuo, per l'individuo, dall'individuo.

Pertanto, malgrado gli sforzi che una grande potenza può compiere per essere democratica, essa non potrà mai realmente essere una democrazia nel vero (anche se non originale) e stupendo significato del termine, cioè un sistema di governo al servizio dell'individuo. Le grandi potenze devono essere al servizio della società, per cui ogni genuino ideale di democrazia subisce un capovolgimento. Il ritmo della loro vita non dipende più dalla libertà degli individui e dal giuoco dei loro reciproci rapporti, ma è legato all'organizzazione. D'altra parte, una buona organizzazione presuppone una uniformità totalitaria e non una eterogeneità democratica. Difatti, se in un grande Stato ciascuno potesse decidere a modo proprio, la società non tarderebbe a crollare. Questo è il motivo per cui gli individui sono costretti a cristallizzarsi in pochi gruppi, in seno ai quali vivono in angosciosa tensione, come i viaggiatori della metropolitana nelle ore di punta quando sono costretti dalla folla che preme a compiere, tutti insieme, atti obbligati. L'uomo individuo, l'uomo attivo, negli Stati di massa e sostituito dall'uomo tipo, dall'uomo passivo 2. Questa trasformazione è illustrata in modo quanto mai eloquente dalla crescente preferenza che noi accordiamo, nel nostro linguaggio, alla forma passiva. Per esempio, non ci esprimiamo più dicendo che ci rechiamo in volo a Londra, ma preferiamo usare il passivo, dicendo, con una punta d'orgoglio, che siamo trasportati a Londra dalle ferrovie dello Stato

1 Ibidem , p. 12.2 Indice di questa trasformazione è il sorgere di nuovi simboli e di nuovi

termini come la "madre dell 'anno", il "ragazzo del mese", e via di seguito.

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o da una compagnia aerea. Non diciamo più che mangiamo, ma che siamo nutriti. Siamo inoltre alloggiati, mantenuti, dotati di scuole, sfollati e curati in mille altre maniere da mamma governo e da papà Stato1. Una volta, tolleravamo di essere trattati passivamente soltanto da bambini, da invalidi o da morti. Oggigiorno, siamo trattati a questo modo in continuazione, e invece di lamentarcene siamo noi a chiederlo. Si direbbe che la nostra intelligenza si sia collettivizzata insieme alla inevitabile collettivizzazione dei moderni Stati di massa, e si sia interamente affidata al governo, che sta cercando di sottoporre la nostra vita a un controllo sempre maggiore. Per quanto dolorosa possa sembrarci la cosa, lo Stato di massa non ci lascia altra alternativa. La legge della massa è l'organizzazione, il che significa, in altre parole, militarismo, socialismo o comunismo, a nostra scelta.

Questo stato di cose deve necessariamente produrre un radicale cambiamento nella mentalità del cittadino di un grande Stato. Trovandosi a vivere continuamente in mezzo a enormi moltitudini, è del tutto naturale che egli cominci ad esaltare ciò che, invece, per un abitante di un piccolo Stato, rappresenta un terribile incubo. Il cittadino del grande Stato comincia ad essere ossessionato dal complesso dei numeri, e fa salti di gioia ogni volta che la popolazione aumenta di un milione. Interpretando l'incremento demografico come un segno di grandezza, egli cade nell'errore contro il quale ci aveva messo in guardia Aristotele. Davanti ai suoi occhi abbagliati, la quantità si trasforma improvvisamente in qualità. Le insulsaggini, cantate in coro dalle moltitudini, gli sembrano inni meravigliosi. Un nuovo astro fiammeggiante sorge degli abissi infuocati: la società, il popolo, la nazione, l'umanità, tutte parole per indicare quel mostro il cui unico segno di vita sembra essere la sua insaziabile sete di vittime umane. Il cittadino di uno Stato di massa afferma estaticamente che il nuovo organismo che risulta dalla vita collettiva di una moltitudine, è più grande della somma degli individui che ne fanno parte; eppure questo essere superiore è completamente analfabeta, non è mai stato capace di pronunciare una sola parola, non ha mai scritto poesie o espresso pensieri, e non ha mai dato a nessuno una familiare manata sulle spalle. E ha bisogno continuamente di un governo come suo interprete, perché,

1 L'Autore, naturalmente, si riferisce a una trasformazione di linguaggio che si è verificata nella lingua inglese e che non trova riscontro nella nostra lingua (N. d. T.).

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affetto com'è da mongolismo, non è stato nemmeno capace di avere un proprio linguaggio. Dopo migliaia di anni, il Dott. Gallup è finalmente riuscito a insegnargli due parole : sì e no. Till Eulenspiegel, il burlone medioevale, da un asino ha ottenuto di più.

3. La collettivizzazione degli individui nei grandi stati

Eppure, il cittadino del grande Stato ha conferito a questo informe organismo che emette solo grugniti l'attributo della divinità. In contrasto con tutto il significato della creazione, ha incominciato a porre la società al di sopra dell'individuo, e a venerare ciò da cui, invece, dovrebbe essere venerato. Per lui, lo Stato non è soltanto qualcosa di diverso dall'individuo, ma di superiore, ai cui ordini bisogna sacrificare tutto ciò che è meno importante, come la moglie, i figli, se stesso. I suoi simboli, come gli inni nazionali e le bandiere, diventano sacrosanti, e le sue cariche vengono messe su un gradino superiore alle stesse persone che le ricoprono. Quando il Presidente Roosevelt, in occasione di una delle ultime cerimonie a cui presenziò, si mise su una tribuna che aveva il parapetto addobbato con la bandiera nazionale, fu insultato e accusato d'infamia da un gruppo di cittadini, sulla base del fatto che un semplice individuo aveva osato porsi al di sopra della bandiera, mentre la legge impone che la bandiera, come simbolo nazionale, debba sempre sventolare al di sopra delle persone. E quando il Presidente Truman, con un gesto di esasperazione dettato dal suo offeso orgoglio paterno, scrisse una violenta lettera a un giornalista che aveva criticato le doti canore di sua figlia, fu rimproverato perfino da qualche suo amico, il quale riteneva che la dignità della carica presidenziale non dovesse essere subordinata ai sentimenti personali.

Ma tutto questo culto per la massa, il popolo, lo Stato e gli organi che li rappresentano, non è altro che una forma di collettivismo, qualunque sia il nome che gli viene attribuito. E il collettivismo e inconciliabile con gli ideali della democrazia che, come la civiltà occidentale, è inseparabilmente legata all'individualismo. È una contraddizione logica rimproverare ai marxisti un pensiero collettivista, accusandoli di porre la società al di sopra dell'uomo, quando noi facciamo lo stesso, ponendo lo Stato al di sopra dell'individuo. O nessuna comunità è al di sopra dell'individuo, o lo sono tutte, che si chiamino popolo, Stato, impero, classe,

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proletariato, organizzazione, o nazione. La differenza fra l'individualista e il collettivista non consiste nel fatto che l'uno nega l'esistenza del gruppo, e l'altro l'esistenza dell'individuo. La differenza va ricercata nel diverso valore che ciascuno di essi attribuisce all'uno elemento in rapporto all'altro. Il collettivista ritiene che l'organismo di cui noi dobbiamo assecondare i fini sia la società, e che l'uomo abbia un valore secondario, che dipende dai servizi che esso è in grado di rendere alla comunità. Da ciò la comunità trae motivo per richiedere continuamente ai suoi membri le più diverse dichiarazioni di obbedienza e di fedeltà. L'individualista, invece, ritiene che noi abbiamo già le nostre finalità da raggiungere, e che quelle della società siano derivate, cioè concepite in funzione dell'utilità che possono arrecare all'uomo, e non all'uomo tipo, ma all'uomo individuo. Per l'individualista, dunque, lo Stato e i suoi simboli non sono superiori ma inferiori a lui, ed egli sarà disposto a servire lo Stato non per quello che esso rappresenta in se stesso, ma perché servire lo Stato significa soddisfare i suoi ideali, come egli lustra le sue scarpe non per rendere un servile omaggio alla loro bellezza, ma perché un paio di scarpe ben lustrate migliorano il suo aspetto. Perciò, a un individualista, la criticatissima lettera con cui il Presidente Truman minacciava di prendere a pugni un critico musicale, non non è apparsa come una cosa indegna dell'alta carica che egli ricopriva, ma come una lodevole manifestazione di quell'individualismo democratico, ancora vivo nella coscienza americana, secondo il quale non c'è barba di carica altolocata che meriti la considerazione riservata all'affetto che un padre può nutrire per sua figlia.

Tuttavia, le nazioni popolose, vaste e potenti, non possono resistere troppo a lungo alle tendenze collettivizzatrici che si manifestano, prima o poi, nella vita di una grande moltitudine. Debole com'è, l'individuo si lascia prima soggiogare dalla forza fisica, e poi ne viene affascinato. Rappresentando una parte infinitesimale della sovranità del suo paese, egli non ha alcuna possibilità di opporsi alla straripante potenza di un movimento di massa che, alla fine, è destinato a travolgerlo in un turbine di orgiastico e palpitante nazionalismo. Surclassato, dominato, premuto e intimorito da tutte le parti ad opera di gruppi, di associazioni, di sodalizi e di mille altre forme di vita associata, egli finirà per perdere la fede in un autonomo significato della sua vita, acquistando una fede nuova, quella nel gruppo organizzato. Una

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volta, per essere felice, gli bastava la sua casa e la cerchia dei suoi amici, ora la sua felicità è nelle parate, nelle grandi comitive, e nell'eccitamento che deriva dall'essere continuamente a contatto con le moltitudini. Il nuovo uomo del popolo, per il popolo, dal popolo, diventa per gli amici e per i familiari un individuo intrattabile quando questi pretendono di occupare un posto nella sua vita. Quando egli ode il selvaggio richiamo della massa, si alza precipitosamente da tavola, afferra il soprabito e la bandiera, calpesta i suoi figli piangenti per gettarsi nelle braccia del suo nuovo padrone, il popolo, al quale egli appartiene e al quale egli pensa di dovere la sua prima obbedienza. Se l'umanità glielo imponesse, ucciderebbe anche le persone più care, e la sua forza di carattere dimostrata nel fare una tale scelta sarebbe citata come un esempio di eroismo sulle pagine dei libri di storia, come è avvenuto di quel generale romano che ci insegnano ad ammirare perché ebbe il coraggio di uccidere suo figlio, colpevole di aver vinto una grande battaglia, disobbedendo agli ordini.

4. Il significato della vicinanza.

Fatti del genere non possono avvenire in un piccolo Stato, nel quale il potere organizzato del popolo non può mai diventare abbastanza forte da intimidire l'individuo, e da fargli perdere la fede nell'autonomo significato della sua vita e nel destino dell'uomo. I cittadini di un piccolo Stato, a differenza di quelli di uno Stato grande e popoloso, hanno una dignità personale molto maggiore, perché essi non rappresentano una parte infinitesimale della sovranità del loro Stato, ma hanno un'autorità che può spavaldamente affermarsi. Dato che la sovranità non migliora qualitativamente con l'aumento della popolazione — come i nostri teorici politici non hanno difficoltà ad ammettere quando accordano la precedenza agli Stati seguendo l'ordine alfabetico piuttosto che il loro peso politico e militare — l'effetto di un aumento della popolazione è quello di diminuire l'importanza dell'individuo. Un abitante del Liechtenstein partecipa per 1/13.000 alla sovranità del suo paese, un Russo vi partecipa per 1 /200.000.000.

Pertanto, più l'aggregato sociale aumenta di proporzioni, e più l'uomo diventa insignificante. Ma questo non è tutto, perché, diminuendo la sua quota di partecipazione alla sovranità dello Stato, diminuisce anche la sua partecipazione al governo. Dato che i

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parlamenti efficienti non possono aumentare il numero dei loro membri in misura proporzionale allo sviluppo dell'elettorato, l'aumento della popolazione, in definitiva, indebolisce l'istituto della rappresentanza politica. Nel 1790, negli Stati Uniti, il collegio elettorale di un membro della Camera dei Rappresentanti, era composto, in media, di 33.000 cittadini. Se si dovesse ancora seguire la stessa proporzione, la composizione della Camera si aggirerebbe ora intorno ai 4.560 membri, una cifra che renderebbe praticamente impossibile qualsiasi efficiente azione legislativa. Ne deriva che, siccome la nostra popolazione è aumentata, si è dovuto provvedere a un adattamento non aumentando il numero ma il peso dei rappresentanti, tanto che oggi il collegio elettorale di un membro del Congresso americano è composto in media di circa 350.000 elettori e in qualche caso arriva a 900.000. D'altra parte, come mostrano le cifre che stiamo per riferire, in uno Stato più piccolo il peso della rappresentanza è minore e la sua efficienza maggiore. Difatti, il collegio elettorale medio è di 81.000 elettori in Gran Bretagna, di 66.000 in Francia, di 42.000 in Belgio, di 30.000 in Svezia, di 24.000 in Svizzera, e di 11.000 in Israele1.

Tutto ciò dimostra che soltanto i piccoli Stati possono garantire nel loro ambito una vita individualistica e democratica. Individualistica , perché si adatta alla piccola statura dell'uomo molto meglio del gigantesco apparato delle grandi potenze che, lungi dal coprire e proteggere l'individuo, finiscono per soffocarlo. Democratica , a causa della sua pratica impossibilità di sopraffare l'individuo, il quale è sempre in grado, non soltanto di partecipare al governo, ma anche di resistere alla sua invadenza, senza l'intermediario di potenti organizzazioni. Il cittadino può andare per la sua strada, alla ricerca della sua felicità, senza essere obbligato a conformarsi a opinioni cristallizzate o a particolari sistemi di vita, unicamente perché questi sono sostenuti dalle moltitudini. Egli è libero, non perché la sua libertà sia affermata come un diritto costituzionale, ma semplicemente perché nessuna autorità dispone di potere sufficiente per soffocarla, il che costituisce una garanzia molto maggiore. Egli non sarà mai sopraffatto dalla "dignità" delle cariche, le quali sono fatte per restare a sua disposizione; del resto esse, così come appaiono, difficilmente lo indurranno nell'errore di

1 Le cifre che riportiamo sono desunte da EMANUEL CELLER , Can a Congressman Serve 900.000 People?, in "The New York Times Magazine", 11 marzo 1951.

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credere alla superiorità funzionale di coloro che sono costituzionalmente destinati a rimanere al servizio dei cittadini. La cosa è ben diversa in grandi Stati, ove a colui che si occupa delle latrine pubbliche, attribuiamo il titolo di Sua Eccellenza, non appena tali latrine hanno raggiunto un ragguardevole numero, e lo chiamiamo Ministro dell'Igiene, e ci stimiamo onorati se ci fa fare un'anticamera di soli quindici minuti.

Infine — e anche questo è dovuto ai limiti della nostra natura — noi possiamo sentirci veramente felici soltanto se rimaniamo nell'ambito di una zona geografica relativamente ristretta. Possiamo cantare quando vogliamo "Dalle montagne agli oceani", ma ci basta trasferire un patriottico montanaro su quell'oceano per cui si agita tanto, o un uomo di mare in un pacifico rifugio alpino, per avere un'idea di tutto il loro smarrimento e per capire come questi concetti dei grandi spazi perdano tutto il loro significato quando si ragiona in termini di felicità personale. Ciò che noi predilegiamo non è la distanza, ma le cose che ci circondano, che sono le sole ad avere per noi un significato. Questo è il motivo per cui il Presidente degli Stati Uniti, se vuol sentirsi veramente a suo agio, ritornerà sempre alla nativa Hydepark, Indipendence, o Gettysburg. Essere Presidente a Washington, malgrado il fascino e i poteri di tale carica, è un sacrificio inaudito. Le relazioni che egli può avere con le persone non hanno attrattiva alcuna, imbottite come sono di continue esibizioni oratorie, di preghiere e di citazioni bibliche. Ma per il Presidente degli Stati Uniti trovarsi a Indipendence, fra vicini e amici coi quali può scambiare quattro chiacchiere senza alcuna formalità, è una cosa ben diversa. Quel che era un peso si trasforma in un piacere, dato che tutto diventa semplice entro modesti limiti. Soltanto in piccole e ristrette unità sociali noi uomini, che abbiamo una statura modesta, possiamo sentirci a casa nostra.

5. La grandezza ideale degli Stati.

Vi è un'altra domanda a cui bisogna dare una risposta, in connessione col problema della democrazia interna degli Stati. Quali sono le dimensioni ideali di uno Stato? Fino a che punto una comunità politica può svilupparsi senza mettere in pericolo l'indipendenza dell'individuo? E inversamente, fino a che punto può rimpicciolirsi, senza venir meno allo scopo per cui esiste? È possibile configurare, accanto all'ipotesi di uno Stato troppo grande,

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quella di uno Stato troppo piccolo?Le dimensioni di ogni cosa, come abbiamo visto, sono

determinate dalla funzione che essa deve svolgere. La funzione dello Stato e quella di proteggere gli individui, e di assicurare loro certi altri vantaggi sociali di cui non si potrebbe godere vivendo isolatamente. Ciò fa pensare che uno Stato composto, poniamo, di cinque o sci famiglie soltanto, possa essere troppo piccolo. Ma abbiamo già visto che questo non costituisce un problema, perché, ogni volta che qualcosa difetta in grandezza o in densità — che si tratti poi di atomi materiali o sociali non ha importanza — si verificano spontaneamente dei fenomeni associativi, e le entità troppo piccole "si corrono naturalmente in reciproco aiuto, coalizzandosi prontamente e formando tribù e comunità stabili". La domanda quindi deve essere posta in questi termini: quand'è che una comunità diventa stabile?

Da un punto di vista politico, essa comincia a soddisfare gli scopi per cui esiste quando la popolazione ha raggiunto una cifra inferiore alle cento unità: qualunque gruppo che possa formare un villaggio, è in grado di costituire una società stabile e sovrana. Un paese come Andorra, con una popolazione che attualmente non arriva a settemila abitanti, ha condotto, dai tempi di Carlomagno, una vita perfettamente felice e tranquilla. Tuttavia, bisogna aggiungere che una comunità non ha soltanto finalità politiche, ma deve anche svolgere una funzione culturale. Quindi, mentre essa, pur avendo un'ampiezza molto limitata, è in grado di offrire un esempio di perfetta vita democratica, non può tuttavia presentare quella varietà di individui, di capacità, di gusti, e di funzioni che è indispensabile per lo sviluppo di una civiltà. Pertanto, da un punto di vista culturale, le dimensioni ideali di uno Stato devono essere un po' maggiori. Economicamente, uno Stato è grande abbastanza quando è in grado di provvedere all'alimentazione, agli impianti idrici, alle strade, e alla nettezza urbana; politicamente esso ha dimensioni sufficienti quando può garantire la giustizia e provvedere alla sua difesa; e culturalmente, quando esso può permettersi teatri, accademie, università, e collegi. Ma anche se si tiene conto di queste ultime esigenze, un aggregato sociale difficilmente ha bisogno di superare le dieci o ventimila unità, a giudicare dalle antiche città-stato della Grecia, dell'Italia o della Germania. Con una popolazione inferiore ai centomila abitanti, l 'Arcivescovado di Salisburgo costruì magnifiche chiese, una università, diverse altre scuole di alta

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cultura, e una mezza dozzina di teatri, contando solo quelli della piccola capitale. Quindi possiamo affermare che, per quanto esista un limite inferiore alle dimensioni ideali di una comunità, tuttavia tale limite è praticamente trascurabile, soprattutto se lo prendiamo in considerazione soltanto dal punto di vista economico e politico.

Il problema principale, come sempre, riguarda le dimensioni massime di una comunità. Aristotele ha dato ad esso una chiara e precisa risposta nel seguente passo della sua Politica (VII, 3):

"Uno Stato, dunque, incomincia ad esistere soltanto quando la sua popolazione ha raggiunto un'entità sufficiente per assicurare un buon sistema di vita nella comunità politica. È in ogni modo possibile che uno Stato assuma proporzioni più ampie in seguito a un aumento di popolazione, ma, come appunto dicevo, questo incremento non deve superare un certo limite. Quale poi debba essere questo limite potrà essere accertato facilmente attraverso l'esperienza. I governanti e i governati, infatti, hanno sfere distinte di attività e obblighi diversi da adempiere. Le funzioni specifiche di chi governa sono quelle di legiferare e di emettere sentenze Ma se i cittadini di uno Stato devono provvedere ad assicurare la giustizia e a distribuire le cariche secondo i meriti, è necessario che essi si conoscano l'un l'altro: altrimenti, la scelta della magistratura e la definizione delle controversie giudiziarie non avverranno nel modo migliore. In nessuno di questi procedimenti si può andare a caso, ma questo è quel che accade quando in uno Stato la popolazione è eccessiva. Inoltre, in uno Stato sovrapopolato, gli stranieri e i meteci finiranno ben presto per avvalersi dei diritti dei cittadini, giacché è molto difficile distinguerli dagli altri. Pertanto, è chiaro che la misura ideale della popolazione di uno Stato è quella rappresentata da un numero che sia tale da conciliarsi con le finalità che lo Stato si prefigge, e con una visione unitaria di esso" 1.

Da un punto di vista politico e culturale, questo è invero il limite ideale alla grandezza di uno Stato, un limite che garantisce una popolazione abbastanza ampia "per un buon sistema di vita nella comunità politica", e tuttavia abbastanza piccola per essere governata, potendo "essere abbracciata con un solo sguardo"2. 1 ARISTOTELE , op. cit. , 1336 b.2 Molti altri filosofi e riformatori politici tono stati più precisi, benché

meno profondi, di Aristotele, nel definire quella che essi consideravano la grandezza ideale delle comunità politiche. Ma è interessante riscontrare quanti abbiano attribuito una grande importanza alla piccolezza delle unità sociali. Platone riteneva che la popolazione ideale di una comunità fosse di

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Soltanto in questo tipo di Stato rappresentato ancora da alcuni cantoni svizzeri, noi possiamo trovare — gelosamente protetto — il vecchio istituto della democrazia diretta. Tali cantoni sono cosi piccoli che i loro problemi possono essere passati in rassegna dalla sommità di un campanile, e risolti da qualsiasi contadino, senza il prezioso ausilio di millantate teorie e di magici indovini. Tuttavia, i progressi del nostro tempo hanno conferito una certa elasticità a questo concetto elevando fino a otto o dieci milioni di abitanti la popolazione di società funzionali e ben organizzate. Oltre questo limite, però, la nostra visione si fa confusa, e i nostri strumenti di controllo sociale cominciano a palesare dei difetti che non possono essere eliminati né dalle scienze fisiche, né dalle scienze sociali. Difatti, arrivati a questo punto, noi ci troviamo di fronte a quella instabilità che è una naturale conseguenza di dimensioni eccessive. Fortunatamente, esistono poche comunità che superino di molto questo limite, se escludiamo le grandi potenze che non sono Stati omogenei a base tribale ma, salvo il caso degli Stati Uniti, dei conglomerati artificialmente fusi. Ed anche gli Stati Uniti, per quanto rappresentino una grande potenza dotata di omogeneità, sono composti di una quantità di piccoli Stati che potrebbero, alla fine, turbare l'attuale omogeneità.

6. La democrazia esterna.

Finora, abbiamo parlato in questo capitolo della naturale democrazia interna dei piccoli Stati. Se ora, ampliando la nostra visuale, prendiamo in considerazione l'esistenza non soltanto di piccoli Stati isolatamente presi, ma di un sistema di piccoli Stati,

5040 abitanti. Le città di Thomas More, nell'Utopia, raggruppavano 6000 famiglie. I falansteri di Charles Fourier, contenevano da 400 a 600 famiglie, oppure da 1500 a 1600 individui. I parallelogrammi di Robert Owens comprendevano da 500 a 2000 membri, e le associazioni di Horace Greeley erano composte da "qualche centinaio o al massimo da qualche migliaio di persone". William Morris prospettava il ritorno a una società caratterizzata dalla scomparsa di tutte le grandi città, e in cui Londra si sarebbe divisa in un certo numero di villaggi separati da boschi. È anche significativo il fatto che molte società ideali, come l'Utopia di More, la Città del Sole di Campanella, o la Nuova Atlantide di Bacone, fossero situate in isole, il cui fascino la nostra fantasia attribuisce al loro isolamento e alla ristrettezza dei loro confini. Come dice Marlowe, "in un piccolo spazio vi sono infinite ricchezze".

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tale da suddividere in piccole unità politiche interi continenti, la democrazia diventa una realtà anche dal punto di vista esterno , recando i suoi vantaggi non soltanto agli individui, ma anche ai diversi gruppi e alle diverse società. È del tutto naturale che le diverse aspirazioni e preferenze individuali e regionali possano essere molto meglio soddisfatte in un mondo di piccoli Stati piuttosto che in un sistema di grandi potenze o ancora peggio in un singolo Stato mondiale di dimensioni colossali. Per esempio, in un'unica grande potenza continentale a struttura rigidamente unitaria, composta di tre o quattrocento milioni di abitanti, la forma di Stato deve essere o repubblicana o monarchica, su tutta l'estensione del territorio statuale, e la forma di governo non può essere che democratica o totalitaria. Il suo sistema economico deve essere o capitalista o socialista. In ogni modo, il sistema in vigore in un angolo di tale Stato deve necessariamente valere per l'angolo opposto. Una grande massa di persone è costretta ad accettare un determinato sistema, anche se poco meno della metà è di gusti diversi. Quando in Italia, dopo la Seconda Guerra Mondiale, ebbe luogo il referendum per la forma di Stato, l'intera parte meridionale del paese, pur essendosi espressa a schiacciante maggioranza a favore della monarchia, fu costretta, contro le proprie aspirazioni politiche, a rassegnarsi alla volontà del resto del paese, proprio perché era inseparabilmente unita a un Nord in prevalenza repubblicano che, coi propri voti, non soltanto sconfisse i monarchici delle regioni settentrionali, ma anche un'intera popolazione di una regione geografica diversa, il Sud. Pertanto, la flessibile adattabilità alle diverse aspirazioni individuali, che è un elemento così essenziale alla vera democrazia, è completamente assente nella rigida struttura organizzativa di una grande potenza, la cui forma nettamente unitaria rappresenta un'opprimente caratteristica totalitaria.

Cerchiamo ora di vedere come apparirebbe il quadro dello stesso panorama politico nel caso di un sistema di piccoli Stati. Uno Stato di valligiani decide di diventare anarchico e abolisce completamente ogni forma di governo. Una città-stato vuole essere una repubblica; un'altra vuole essere retta da un principe ereditario; una terza desidera essere governata da un arcivescovo; una quarta da triumviri; una quinta da due consoli; una sesta da una monarchia costituzionale; una settima da una oligarchia; un'ottava da un presidente da eleggere ogni tre anni e dotato di poteri

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semidittatoriali; una nona da un presidente eletto ogni sette anni senza altre funzioni che quella di ricevere i diplomatici stranieri baciando la mano alle loro consorti; una decima vuole invece combinare socialismo, monarchia e democrazia; una undicesima desidera combinare il comunismo con la monarchia e l'assolutismo; e una dodicesima intende combinare un sistema cooperativo con una punta di aristocrazia.

Se l'uomo non avesse manifestato tante diverse aspirazioni politiche e concezioni economiche, la storia non avrebbe mai conosciuto tanta varietà di sistemi politici ed economici. Nessuno di essi, in sé e per sé, è superiore agli altri. L'unico loro valore è che essi sono scelti dai loro popoli. Ordunque, dato che ogni singolo sistema non racchiude in sé un valore assoluto, per quale motivo gli uomini non dovrebbero avere tanti sistemi quanti essi ne desiderano, invece di dover adattarsi tutti allo stesso quando la metà non lo considera di proprio gusto? Se la libertà di scelta è considerata un vantaggio dal punto di vista economico, perché non dovrebbe esserlo dal punto di vista politico? Difatti, quando in un'area abitata da centinaia di milioni di persone coesistono sistemi diversi, è matematicamente certo che il numero degli individui in grado di soddisfare le proprie aspirazioni è di gran lunga maggiore di quanto non sarebbe se la stessa regione dovesse accontentarsi di un unico sistema, come accade in un ristorante, ove, se il menù contiene una grande varietà di piatti, il numero delle persone che possono soddisfare i propri gusti è molto maggiore di quanto non sarebbe se vi fosse una sola pietanza, che potrebbe essere resa gradevole a tutti soltanto attraverso la propaganda di chi la cucina. Dato che la varietà e il mutamento dei sistemi politici rappresentano due fondamentali requisiti della democrazia, i sistemi uniformi, per quanto buoni possano essere, estendendosi in vaste regioni, sono necessariamente totalitari nello spazio e, dato che è quasi impossibile cambiarli, lo sono anche nel tempo.

Ma il principale lato positivo di un sistema di piccoli Stati non è tanto rappresentato dalla sua flessibile capacità di creare condizioni politiche tali da soddisfare un numero maggiore di individui rispetto a sistemi di grandi Stati; il suo maggiore vantaggio è il dono della libertà che difficilmente viene preso in considerazione quando se ne parla, perché appartiene a una specie che sembra essersi estinta da un pezzo. Noi non sentiamo più la sua assenza, talmente siamo abituati a vivere nell'attuale atmosfera di tensione. Intendo riferirmi

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a un particolare tipo di libertà, cioè alla libertà dall'incubo dei problemi.

7. La libertà dall'incubo dei problemi.

Il novanta per cento delle nostre sofferenze intellettuali sono dovute al fatto che quasi tutto nella nostra vita è diventato una difficoltà, un problema. Quando abbiamo intenzione di costruire una casa o una strada, ci troviamo di fronte l'ostacolo del piano regolatore, che è un campo di battaglia fra scuole tradizionali e moderne, fra concezioni funzionali e artistiche, fra tendenze americane e russe. In materia di sistemi educativi, ci troviamo davanti l'alternativa fra pragmatismo e pura erudizione. Quando discutiamo dei bambini, ci imbattiamo nella questione dell'inibizionismo o del sistema opposto. Sui problemi sessuali, da una parte ascoltiamo la voce di Freud, dall'altra quella di Jung. Non parliamo poi della politica dove non esiste una sola parola che non costituisca un problema. Gli artisti sono tormentati da un senso di colpevolezza se si accorgono di aver dipinto qualcosa che non ha niente a che fare coi problemi sociali che angustiano la nostra vita piena di incertezza. I professori provano un profondo turba mento quando scoprono di aver servito la causa della verità, invece che quella della comunità in cui vivono. Gli sforzi della nostra vita sembrano avere esclusivamente come scopo quello di scoprire da che parte siamo, in quale battaglia dobbiamo entrare, quale problema dobbiamo affrontare.

Ma che cosa sono i problemi? Scintille provocate da uno spontaneo arrovellamento dello spirito che volteggiano senza meta nel cervello dell'uomo, il quale funziona come involontario conduttore, perché nella moderna vita di massa noi viviamo troppo vicini gli uni agli altri per sfuggire al contagio. Essi costituiscono fenomeni incontrollabili di un'esistenza di massa, che si propagano attraverso l'intera crosta terrestre e che creano, in coloro che ne sono sfiorati, la necessità di prendere moralmente posizione di fronte a qualsiasi movimento che possa sorgere, in qualsiasi angolo del continente. Se un soldato coreano attraversa il 38° parallelo, le gravi ripercussioni di questo atto si fanno sentire fin nel New Jersey, e se un esquimese della Siberia starnutisce nelle vicinanze del Polo Nord, qualche cileno o qualche inglese sarà indotto ad assumere posizioni e atteggiamenti bellicosi al largo della costa argentina. Le

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questioni più insignificanti si ripercuotono da un capo all'altro del mondo, come le onde dell'alta marea, costringendoci a prendere posizione dovunque siamo, a discuterle a pranzo insieme agli amici in mille lingue diverse, o a iniziare le pratiche per il divorzio se nostra moglie, la sera a letto, dimostra di non condividere le nostre idee in merito. Nella unità intellettuale della nostra comunità mondiale, noi reagiamo a ogni forza come le molle collegate di quei vecchi materassi di buona memoria. Anche se non siamo direttamente colpiti da certi eventi, ne subiamo però inevitabilmente le conseguenze. In un mondo come il nostro, ogni dannata questione è diventata un problema per tutti.

Ormai sono chiari i vantaggi di un sistema di piccoli Stati. Data l'esistenza di innumerevoli frontiere che funzionano come elementi isolanti, i problemi di regioni remote, restano problemi remoti. Essi non possono ripercuotersi ovunque, perché ogni piccola regione ha da risolvere i suoi problemi locali, che, limitati entro ristretti confini, non possono diventare questioni di capitale importanza. Invece di trovarci in un continuo stato di guerra, vi saremo coinvolti soltanto se la guerra busserà alle nostre porte, il che accade piuttosto raramente. Invece di partecipare involontariamente a una serie continua di massacri, di assassinii, e di spargimenti di sangue, il che fa della nostra vita qualcosa di infernale, assisteremo a questi spettacoli soltanto quando essi si verificheranno molto vicini a noi, il che pure avviene abbastanza raramente. Invece di essere condannati a un perpetuo lutto, come accade ora che siamo costretti a non rimanere insensibili alla morte degli altri, saremo liberi di godere i piaceri della vita, sperimentando il dolore della morte soltanto quando la morte ci colpirà da vicino, il che è ancora una volta qualcosa che accade solo raramente. Un mondo di piccoli Stati, suddividendo le nostre calamità universali, permanenti e impersonali, in piccoli e discontinui episodi della nostra vita, ci riporta dall'oscura miseria di un'esistenza tormentata da tragedie senza senso di cui siamo scialbi protagonisti, alla beatitudine di una realtà che noi viviamo solo nella cerchia ristretta di un ambiente a noi più vicino. Solo allora, l'amore è amore, il sesso è sesso, la passione è passione. Se nutriremo odio per qualcuno non sarà perché è un comunista ma perché è un perfido, e se lo ameremo ciò avverrà non perché è un patriota ma perché è un gentiluomo. Nell'ambiente circostante, tutto farà parte della nostra esperienza personale, e i problemi non avranno un carattere anonimo, ma ci toccheranno da

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vicino. Il successo che ottengono i rotocalchi nel descrivere storie poliziesche, intrighi sessuali ed episodi di criminalità realmente accaduti, in un mondo in cui ogni cosa è diventata parte di solenni atteggiamenti sociali, dimostra una nostra ancora latente aspirazione verso quella sola forma di libertà che nessun teorico politico sembra tener nel dovuto conto e che tuttavia ha rappresentato il segreto della felicità delle passate generazioni, anche in assenza di altre forme di libertà : la libertà dall'incubo dei problemi.

8. Gli unificatori, Aristotele, Shaw, e Dio.

Abbiamo visto in questo capitolo che l'unica speranza di sopravvivenza per la democrazia e per i principi individualistici che ne costituiscono il fondamento, e rappresentata da un sistema di piccoli Stati, e che la minaccia più grave al nostro prezioso retaggio di libertà personale è costituita, non dalla disunione che preserva l'esistenza di piccole unità sociali, ma dal processo di unione che tende ad eliminarle. Eppure, i nostri maestri ci suggeriscono proprio questa seconda via. Non riuscendo a sottrarsi al fascino di un grande potere, il quale, pur essendo contro ogni regola di buon senso, esercita una forte attrattiva psicologica, essi scagliano i loro feroci strali contro tutto ciò che è piccolo, innalzando all'onore degli altari tutto ciò che rappresenta grandezza, volume, massa. Essi ci hanno persuaso a venerare il colossale e poi si sono stupiti che noi ci inchinassimo a Hitler che impersonava proprio questo ideale della grandezza. Hanno portato alle stelle la potenza dell'impero romano e poi si sono stupiti che noi ammirassimo Mussolini insieme agli antichi Cesari, i quali non possedevano altro che un grande potere. Hanno esaltato la formazione di grandi potenze, l'unificazione dell'Est con l'Ovest, la creazione prima di due mondi e poi, come non plus ultra , di un mondo unico, per quanto uno Stato mondiale non rappresenti altro che il totalitarismo proiettato sul piano internazionale.

Essi non sanno rendersi conto che la grande parola unità, che pronunciano con tanta solennità dall'alto dei loro pulpiti, rappresenta per un vero democratico quello che rappresenta per gli occhi di un pugilatore il pugno dell'avversario. Il processo di unificazione, se è troppo spinto, annienta non soltanto l'individuo ma anche lo Stato, come Aristotele, tanto per citare ancora una volta il più acuto fra i teorici politici, non ha mancato di osservare

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concisamente in questo altro passo della sua Politica (II, 2) :"Non è forse chiaro che uno Stato con questo processo inflessibile

verso l'unità finisce per perdere la sua genuina fisionomia? Difatti, la natura dello Stato è di essere una moltitudine, e, quando tende a una sempre maggiore unità, da Stato diventa famiglia, e da famiglia diventa individuo. Quindi noi, anche se fossimo in grado di farlo, non dovremmo mai esasperare questo processo di unificazione, perché, così facendo, distruggeremmo lo Stato. Inoltre, uno Stato non è solo composto da molti uomini, ma da molte specie di uomini, perché individui dello stesso tipo non basterebbero a formare uno Stato. Non si tratta di un'alleanza militare... Inoltre, anche da un altro punto di vista, questo processo di unificazione spinto all'estremo e assolutamente sconsigliabile; difatti, una famiglia è più autosufficiente di un individuo, e una città lo è più di una famiglia, e una città comincia ad esistere quando una comunità è ampia abbastanza da bastare a sé stessa. Se dunque è bene auspicare l'autosufficienza, bisogna anche però preferire a un'unità più stretta un'unità meno stretta".

L'unità ha un significato soltanto in periodi di crisi, quando gli individui e i popoli sono costretti a vivere in " alleanza militare", e molti dei nostri ideali debbono essere temporaneamente abbandonati. Ma in tutti gli altri momenti, l'unità, che è il grande ideale dei totalitari e dei collettivisti, rappresenta per i democratici il principale pericolo. Costoro, infatti, non desiderano avere un partito unico, ma più partiti, non vogliono uno Stato unico, ma più Stati. I loro principii si basano sulla varietà e l'equilibrio, non sulla unità e sulla sua naturale conseguenza, la tirannia. Questa è la ragione per cui gli Inglesi, una volta vinta la Seconda Guerra Mondiale, non prestarono orecchio agli appelli che auspicavano la continuazione di quel sistema unitario di governo che aveva dato prove superbe durante il conflitto, ma optarono per un governo di partiti che era molto meno efficiente e molto più confusionario. Parimenti, l'elettorato americano, in una coraggiosa affermazione di principii democratici, durante le elezioni presidenziali del 1948 votò contro quel candidato che aveva superbamente impostato la propria campagna elettorale sulla piattaforma dell'unità nazionale. Gli elettori non vedevano per quale motivo, finita la guerra, non si dovesse ritornare al tradizionale sistema di competizione fra partiti, adottando una forma di governo che, finché dura, costituisce sempre una garanzia di libertà nei confronti di quelle interferenze che lo

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Stato può avere nella vita di ciascuno.L'unità, per un democratico, è una cosa pericolosa che distrugge

l'autonomia dell'individuo. Ma, a parte questo, essa è profondamente contraria allo spirito della creazione, come si è visto nel precedente capitolo. La legge dell'universo è l'armonia, non l'unità, che noi siamo quasi incapaci di realizzare, anche dal punto di vista intellettuale. Ogni volta che mettiamo le mani su qualcosa che si manifesta come unità, come un tutto, questo qualcosa sembra dissolversi. Possiamo mettere le mani sullo spazio, e subito esso si dissolve nella incommensurabile profondità del tempo. Possiamo afferrare qualcosa come un pezzo di inerte materia, e improvvisamente essa scompare in un lampo e vibra sotto forma di energia.

I concetti di unione e di unità sono così contrari alla natura umana, che i tentativi di costruire sistemi che abbraccino il mondo intero appaiono quasi empi. Sarebbe auspicabile che i nostri moderni fautori dell'unificazione rileggessero la storia della Torre di Babele, per sapere cosa pensasse Dio stesso dell'unione. Questo servirebbe a curare almeno alcuni di loro della loro aberrazione mentale. Ai primordi dell'umanità, come accade ancora oggi, gli uomini erano presi dalla mania dell'unificazione, fino al punto da voler vivere non soltanto in un unico Stato, ma addirittura in una unica gigantesca torre che doveva essere perfino più alta degli edifici dove è situato attualmente il quartier generale delle Nazioni Unite, a New York. Ma, a differenza dei nostri uomini politici e di molti vescovi, Dio non vedeva di buon occhio una cosa simile, e la considerava come una sfida al suo supremo volere. Avendo creato gli uomini come meravigliosi individui fatti a Sua immagine, Egli si adirò con loro, perché non erano capaci di desiderare altro che un'esistenza di massa, vissuta nell'anonimo e animalesco ambiente di un alveare comune. Quindi, invece di lodarli, Egli considerò la loro impresa come un'offesa alla Sua divinità, e li punì privandoli perfino di quel piccolo legame che fino ad allora avevano posseduto, il legame di un linguaggio comune.

E ancor oggi l'unificazione rappresenta una cosa empia, che, come tale, porta non a un premio ma a un castigo. Le nazioni sono state create perché vivessero separate, e non unite, altrimenti non sarebbero mai sorte. Tale era l'opinione del Segretario Generale della Società delle Nazioni, non di quello vero naturalmente, ma di quello della commedia di Bernard Shaw, Geneva, il quale,

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contemplando i terrificanti effetti dell'unità, pensava:"Organizzare insieme gli Stati significa organizzare la guerra

mondiale. Quando due uomini vogliono battersi, cosa si fa per trattenerli? Bisogna dividerli, e non lasciarli insieme. Quando gli Stati vivevano appartati, la guerra era qualcosa di sporadico ed eccezionale : ora la Società grava sull'Europa come una continua minaccia di guerra"1.

1 GEORGE BERNARD SHAW , Geneva, Cymbeline Refinished, Good King Charles, Dodd, Mead Co., New York, 1947, p. 61.

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CAPITOLO SETTIMO

LA GLORIA DEI PICCOLI

"Tuttavia fu proprio in questa infinita costellazione di città-stato esistenti nella parte orientale dell'Egeo... che per la prima e forse per l'ultima volta nella storia tutti i più gravi problemi della società umana sembrarono simultaneamente risolversi".

Seton Lloyd

Che cosa induce i governanti dei piccoli Stati a diventare mecenati? Wolf Dietrich di Salisburgo. La ragione a causa della quale i piccoli Stati hanno tempo e modo di dedicarsi alle attività artistiche. Le eccessive esigenze sociali delle grandi potenze. Per quale motivo le grandi potenze onorano i tecnici più dei poeti. Gli individui dotati di capacità creative, secondo Toynbee, devono estraniarsi dalla vita sociale. I motivi per cui i piccoli Stati offrono più dei grandi la possibilità di sviluppare la cultura. I talenti specializzati del presente e i geni universali del passato. Esempi storici della produttività dei piccoli Stati: le città-stato greche, le città-stato italiane, le città-stato tedesche. La civiltà inglese si affermò in un periodo in cui l'Inghilterra era politicamente insignificante. La fine della produttività culturale come effetto dell'unificazione politica. La tesi di Toynbee sulla unificazione politica come causa di declino culturale.

L'argomento culturale

L'unica cosa che fa subito colpo nelle grandi potenze è la loro eccessiva forza materiale. Pertanto, esse possono aspirare a un posto d'onore soltanto in un mondo che ha più ammirazione per la prodezza fisica che per i valori intellettuali, e che è

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fondamentalmente collettivista anziché individualista. Per un individualista, l'eccessiva forza non rappresenta altro che una minaccia alla sua incolumità, e un invito a trascurare l'affinarsi del suo ingegno. Egli detesta il potere fisico, quando supera il grado che è necessario per far sì che egli possa godersi tranquillamente la vita. Egli si compiacerà di quelle doti fisiche che lo mettono in grado di partecipare a competizioni atletiche o a duelli come quelli combattuti dai cavalieri medioevali, che erano nobili perché erano personali. Ma non avrà nessuna simpatia per certe esasperate forme di accumulazione di potere, come quelle che si verificano in seno a masse anonime, ben organizzate, le quali sanno solo scagliarsi contro altre masse anonime, dotate della stessa buona organizzazione.

Ogni volta che entra in giuoco l'elemento massa, l'individuo è finito, anche se sopravvive fisicamente. Difatti, la vita dell'uomo consiste essenzialmente nello spirito, e lo spirito può affinarsi soltanto quando si vive nel tranquillo e libero rifugio di una piccola società. Perciò, non si deve attribuire a pura coincidenza il fatto che la cultura mondiale si sia sviluppata soprattutto in piccoli Stati. Ho detto in piccoli Stati, e non ad opera di piccoli Stati : questo è un punto su cui non si insisterà mai abbastanza in un'epoca come la nostra che vede tutto in funzione della collettività, e in cui gli Stati, le comunità, le nazioni o i popoli, di qualsiasi forma, specie e grandezza, servono solo a fornirci mezzi di trasporto, sistemi di sgombero delle immondizie e altri vantaggi puramente materiali, e non ad alimentare i nostri pensieri e le nostre idee. Questa è la loro grandezza e la loro gloria, e molte sono le ragioni che spiegano questo fenomeno.

1. Le energie aggressive al servizio della cultura

Il cittadino di un piccolo Stato non è per natura più buono o più saggio del cittadino di una grande potenza. Anch'egli è pieno di imperfezioni, di ambizioni e di vizi sociali; ma non ha in mano il potere sufficiente per dare libero sfogo a queste sue pericolose tendenze, dato che perfino la più potente organizzazione da cui egli potrebbe desumere la sua forza, cioè lo Stato, si trova permanentemente in condizioni tali da essere inoffensiva. Mentre con le ali della fantasia può librarsi dove vuole, in pratica non ha i mezzi necessari per compiere misfatti. Naturalmente, non si esclude

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con questo che gli individui che vivono nell'ambito di un piccolo Stato possano rendersi responsabili di assassinio o di violenze, ma non comunque nella forma cieca e sfrenata che si riscontra nell'ambito di grandi potenze, perché nei piccoli Stati gli individui incontrano, durante la maggior parte della loro vita, una serie di fattori di equilibrio che frenano la loro condotta.

Perciò, nei piccoli Stati, la politica raramente si trasforma in qualcosa di diverso da un puro e semplice giuoco, e non è mai tale da assorbire gli interessi e le ambizioni degli individui ad esclusione di qualsiasi altra attività. Che cosa può accadere quando qualcuno riesce abilmente ad insediarsi nella carica di presidente o primo ministro, oppure a imporsi a un popolo come sovrano o come dittatore? Il titolo può essere altisonante quanto si vuole, ma resta il fatto che una posizione del genere non potrebbe mai consentire grandi cose. Certo, un individuo che riuscisse in tale impresa, desidererebbe senz'altro di portare lo scompiglio nel mondo per lasciare nella storia segni indelebili del suo passaggio, seminando il terrore e abbandonandosi a inutili atrocità come Hitler o Stalin. Ma, ahimè, non sarebbe in grado di farlo. Dove troverebbe le armi e gli eserciti? Egli potrebbe tutt'al più compiere impunemente qualche assassinio, ma questo non basta per passare alla storia, e del resto un'attività del genere non potrebbe interessarlo al punto da non provocare alla fine un senso di noia. Sarebbe senz'altro un dominatore, ma non avrebbe abbastanza sudditi da dominare. Una serva qualsiasi troverebbe il coraggio di resistere alle sue profferte amorose, se egli dovesse contare unicamente sulla forza piuttosto che sulla galanteria. E ben poche, tra le sue eventuali vittime, non sarebbero in grado, come hanno fatto Dante, Schiller, o Wagner, di sottrarsi alla sua potestà con la fuga, a piedi o a cavallo, dato che in uno Stato così piccolo basterebbe un'ora di strada per rifugiarsi nel paese vicino. In tali condizioni, l 'abuso del potere arreca ben poca soddisfazione.

D'altra parte, però, anche nei piccoli Stati, l 'ambizione stimola coloro che governano. Quindi, vedendosi preclusa la solita strada che assicura una posizione di primo piano nella storia — come è quella della gloria militare che non richiede affatto spiccate doti intellettuali e che può essere percorsa con uguale suc cesso, senza una particolare preparazione intellettuale, sia da un ufficiale di carriera sia da un carrettiere afgano, da un tappezziere austriaco o da una prostituta di Bisanzio — costoro, se vogliono appagare la loro

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sete di gloria, non hanno altra scelta che impiegare la loro intelligenza a soddisfare le più alte aspirazioni umane. Questa via è più ardua, ma è la sola che offra la possibilità di vedere il proprio nome menzionato dopo quello dei grandi conquistatori.

Fu cosi che Wolf Dietrich, un famoso principe-arcivescovo di Salisburgo, — tanto per fare uno dei tantissimi esempi che potrebbero essere citati — appiccò il fuoco, secondo quanto si racconta, alla sua cattedrale, come Goering fece per il Reichstag, non però per animosità, ma per costruire un grandioso monumento a suo gusto, tale da oscurare la fama delle vittorie di Alessandro. Non avendo la possibilità di allargare la sfera dei suoi domini, egli sfogò la sua aggressività nella costruzione di una magnifica cattedrale stile rinascimento, la cui facciata divenne l'incomparabile sfondo di Jederman , che è la principale e ancora suggestiva attrazione dei festivals di Salisburgo. Coloro che vennero dopo di lui, costruirono altre chiese, tutte inutili ma ognuna più bella dell'altra, scavarono tunnels sotto la roccia, eressero teatri fra le montagne, graziose fontane e magnifiche piscine di marmo nelle quali i loro cavalli potevano immergersi durante l'estate, ed eressero in mezzo ai boschi castelli fiabeschi destinati alle loro prolifiche matrone. Così facendo, essi trasformarono Salisburgo, la piccola capitale di uno Stato composto da meno di duecentomila abitanti, in una delle gemme dell'architettura mondiale. Opere del genere rappresentano ben poca cosa, naturalmente, di fronte alle autostrade, alle linee Maginot e Sigfrido, agli incrociatori, ai razzi e alle bombe atomiche, tutte cose queste che possono essere realizzate soltanto da grandi potenze, le quali, per il solo fatto di essere in grado di produrle, sembrano tendere a non occuparsi d'altro.

Pertanto, la prima ragione che spiega l'intensa attività culturale dei piccoli Stati è rappresentata dal fatto che la mancanza di potere tende quasi sempre a trasformare in mecenati e protettori della cultura quei sovrani che altrimenti si sarebbero abbandonati a ogni sorta di violenza. Essi, infatti, non potrebbero mai permettersi di mantenere un esercito, mentre il mantenimento di una dozzina di artisti rientra nelle possibilità finanziarie di qualsiasi signore locale, anche del più povero. E siccome in un mondo di piccoli Stati, ciascuno è circondato da una moltitudine di altri, ogni impresa artistica realizzata in uno di essi susciterà negli altri un fiero sentimento di gelosia, che potrà placarsi soltanto quando sarà stata realizzata un'opera capace di oscurare in magnificenza quella del

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vicino. Questo fatto susciterà a sua volta nuovi tentativi di emulazione, sicché, in un sistema di piccoli Stati, la creazione artistica non conoscerà soste. Per renderci conto di ciò, basta gettare uno sguardo alle innumerevoli piccole città disseminate in tutta Europa. Proprio in queste piccole città — e non nelle grandi metropoli che a volte hanno preso il loro posto — troviamo i più importanti vestigi della nostra civiltà, perché quasi ognuna di esse, prima o poi, è stata la capitale di un piccolo Stato sovrano. Lo splendore e la magnificenza di tanti edifici, ponti, teatri, musei, cattedrali, università e biblioteche, sono dovuti non già alla liberalità di grandi imperatori o di dominatori del mondo, che spesso si vantavano di vivere asceticamente, ma a quei piccoli sovrani feudali che desideravano trasformare le loro capitali in città come Atene o Roma. E siccome ciascuno di essi ha lasciato nelle proprie creazioni l'impronta della sua personalità, oggi noi possiamo ammirare una sorprendente varietà di tendenze artistiche e di stili architettonici, che è ben diversa dalla monotonia e dallo scialbore delle gigantesche opere dovute ai ciclopici organismi politici successivi.

2. L'emancipazione dalla servitù sociale

La seconda ragione che spiega la fertilità culturale dei piccoli Stati, è rappresentata dal fatto che i loro cittadini, grazie alla limitata grandezza di tali Stati e quindi alla poca importanza dei problemi sociali che debbono affrontare, si trovano nelle condizioni migliori per favorire l'affermarsi di una grande arte. Le esigenze dell'attività di governo sono così trascurabili, che soltanto una minima parte delle energie individuali deve essere sacrificata in servizi di interesse collettivo. La società va avanti quasi da sola, permettendo alla maggior parte dei cittadini di dedicare la loro vita al miglioramento dell'individuo piuttosto che al servizio dello Stato. La situazione, invece, è ben diversa nelle grandi potenze, le quali hanno tali esigenze sociali da assorbire in pratica tutte le energie disponibili, e non soltanto dei funzionari dello Stato, ma anche dei cittadini in genere: tutti sono presi dallo sforzo di mantenere in vita gli informi e inerti organismi sociali di cui fanno parte, cercando di impedire la completa disorganizzazione dei servizi sociali esistenti. Vivendo sotto la continua minaccia di essere travolte dalla loro stessa mole, le grandi potenze non possono liberare i loro popoli

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dalla schiavitù di portare sulle spalle l'ingrato peso di una così stupenda costruzione. Per forza di cose, lo scopo di tali Stati non è quello di migliorare le condizioni di vita individuali, ma di stimolare il nobile sforzo della cooperazione, il quale, se costituisce la regola di alcune società animali altamente organizzate, originariamente non rappresentava certo la base del vivere umano.

Ne deriva che, per le grandi potenze, quel che conta non è più il progresso della cultura e delle arti, ottenuto in un'atmosfera sgombra dai problemi del giorno, ma raffermarsi di studiosi e di specialisti di questioni sociali, nonché il moltiplicarsi di esperti e di ingegneri. In una società del genere, i più alti onori non vengono riservati al grande poeta o all'audace architetto, ma a persone che sono utili alla società, come i tecnici, gli organizzatori e coloro che, con frase tanto espressiva, vengono chiamati esperti di relazioni umane.

Naturalmente, anche gli artisti e gli scrittori possono ancora incontrare il favore delle masse, ma soltanto nella misura in cui la loro opera ha un significato sociale. Nel caso contrario, cioè se essi non sanno esprimersi che in termini di antiquato individualismo, sono considerati parassiti temerari. Un cantante può essere ancora apprezzato, ma soltanto se provoca un delirio collettivo. Il valore artistico delle sue esibizioni può essere più o meno discutibile; quel che conta è che esse siano socialmente utili, il che evidentemente non si può mettere in dubbio quando interessano strati cosi vasti di persone. Comunque, i più grandi onori saranno sempre riservati a coloro che avranno assolto il compito più delicato che impone una società di grandi proporzioni: cioè quello di mantenerla materialmente in vita. Un fato del genere non deve destare sorpresa perché, secondo quanto dice lo stesso Aristotele, compiere un'impresa simile in una grande potenza è come "reggere l'intero universo". Siccome la vita dell'individuo è strettamente subordinata a quella della società a cui appartiene, ogni professione che ha un'incidenza quantitativamente positiva sulla realtà sociale, per questo solo fatto viene posta in grande risalto, mentre il criterio qualitativo perde qualsiasi significato. Un direttore di servizi pubblici, la cui attività in un piccolo Stato veniva giudicata servile, in una grande potenza diventa una figura di primo piano. Un allevatore di mandrie, se ha più di cinquecento capi di bestiame, cessa di essere un mandriano e diventa un individuo circondato dal fasto della regalità. Un addetto ai gabinetti, come già ho detto, se i

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cessi che egli deve mantenere in buone condizioni igieniche arrivano al milione, si veste con le code, ha un palco all'opera, e ha diritto al titolo di Eccellenza. Anche i truffatori, se lavorano in grande stile, vengono trattati col massimo rispetto, il che fa ancora pensare a sant'Agostino, il quale deprecava tutto ciò che ha proporzioni eccessive, tanto che nell'opera La città di Dio (Libro IV, Capitolo IV) racconta questo gustoso aneddoto : "fu veramente impeccabile la risposta che quel pirata dette ad Alessandro il Macedone, da cui era stato catturato; il re gli domandava come egli avesse il coraggio di infestare i mari a quel modo, ed egli replicò : E tu come osi infestare il mondo intero? Io lo faccio con una piccola nave e passo per ladro; tu lo fai con una grande flotta e ti chiamano imperatore".

La società moderna è così presa dallo sforzo di sopravvivere, sottraendosi alle letali conseguenze delle ciclopiche proporzioni da essa raggiunte, che non è motivo di meraviglia il fatto che sia indotta a considerare i progressi ottenuti nel campo delle scienze sociali della tecnologia, dell'igiene, e via di seguito, come il non plus ultra della civiltà1. Ma la realtà è che la civiltà non ha niente a che fare con queste cose. Le ferrovie sotterranee, gli impianti di riscaldamento e i bagni, sono tutte cose utili ed essenziali per assicurare, dal punto di vista materiale, confortevoli condizioni di vita, e per garantire la vitalità della massa; ma non sono certo espressioni di quella che noi chiamiamo cultura. La cultura può esprimersi nell'immagine di un angelo come nel ritratto di un monello, immagine o ritratto che un pittore moderno si sentirebbe autorizzato a dipingere soltanto in funzione di una certa problematica sociale, e che un vero artista dipinge invece soltanto per il gusto di dipingere, facendo astrazione da qualsiasi problema. La cultura si esprime nelle cattedrali e nelle loro sottili guglie, il cui solo scopo è quello di esaltare ciò che è bello. Dal punto di vista sociale, le cattedrali sono del tutto inutile. Nessuno si sentirebbe di impiegare le loro navate come garages, o di impiantare uffici nelle loro torri battute dal vento, o di usare le loro esotiche gronde come fonti di acqua fresca. Questo è il motivo per cui oggigiorno le cattedrali non vengono più costruite; difatti, in un'epoca tormentata come la nostra, chi troverebbe il tempo o la voglia di edificare

1 "Per questa ragione — scrive ORTEGA Y GASSET — come Spengler ha così bene osservato, era necessario, proprio come oggi, costruire enormi edifici. L'epoca delle masse e l'epoca del colossale. Noi stiamo quindi vivendo sotto il brutale impero delle masse" (op. cit., p. 13).

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qualcosa che ha come unico pregio quello di recar diletto a chi l'ha costruita o a Dio? I pochi monumenti di cui la moderna società di massa si fa ancora promotrice, devono sempre avere un carattere di utilità. Del resto, anche quei pochi non sono eretti a gloria di Dio, ma ad esaltazione della società stessa: basta pensare a quelli che vengono costruiti per onorare la memoria di coloro che muoiono in nome dello Stato a cui appartengono; e non è senza significato il fatto che tali monumenti raffigurino non già il figlio di una madre angosciata, ma la squallida e anonima figura di un milite ignoto. Proprio in omaggio a questo spirito utilitario, ci guardiamo bene dal costruire fontane barocche che sprecano acqua preziosa, e statue che richiedono metalli preziosi, e preferiamo edificare ospedali commemorativi, parchi commemorativi, aule commemorative. Tutto, assolutamente tutto, deve essere subordinato alle necessità sociali. È chiaro che, dal punto di vista culturale, un tale sistema di vita è del tutto sterile. Quei segni di vera civiltà che le attuali popolose nazioni del mondo ancora conservano, non sono dovute a un loro proprio sforzo creativo, ma rappresentano i vestigi di un passato che nulla ha lesinato alle esigenze della creazione artistica: né il tempo per meditare, né la necessaria lentezza dell'opera, né soprattutto l'emancipazione da tanti ridicoli oneri sociali.

Arnold J. Toynbee, nel suo volume intitolato A Study of History , ha messo in luce questo fondamentale rapporto esistente fra produttività culturale ed assenza di pesanti oneri sociali, ponendo l'accento sul fatto che le grandi creazioni della mente umana non sono favorite da una partecipazione alla vita sociale, ma al contrario si giovano di un allontanamento da essa. Egli riscontra l'esattezza di queste conclusioni "... nella vita dei mistici, dei santi, degli uomini politici, dei soldati degli storici, dei filosofi e dei poeti, come nella storia delle nazioni, degli Stati e delle Chiese. Walter Bagehot chiari proprio quello che noi stiamo cercando di esprimere quando scrisse : 'L'avvento delle grandi potenze è stato preparato nell'ombra e nel segreto, lontano da ogni distrazione' " 1.

In altre parole, le insigni opere di civiltà esistenti in grandi Stati, non sono state create in un periodo in cui il potere che essi detenevano li stimolava a conquistarsi una posizione di primo piano nella storia, ma in un'epoca in cui tali Stati erano piccoli e insignificanti. Nessuna grande potenza, assorbendo essa stessa in

1 ARNOLD J. TOYNBEE , A Study of History, versione abbreviata, Oxford University Press, New York 1947, p. 224.

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modo prevalente l'interesse dei suoi membri, avrebbe mai potuto garantire questa "assenza di distrazioni" producendo qualche genio "all'ombra e nel segreto".

Toynbee, a sostegno della sua tesi, cita esempi come quelli di San Paolo, San Benedetto, San Gregorio Magno, Buddha, Maometto, Machiavelli, Dante, e avrebbe potuto aggiungere a questa lista il nome di quasi tutti i grandi artisti, fino a Gauguin e Shaw. La torre di avorio dalla quale il nostro tempo pretende di scacciare ogni artista affinché si guadagni da vivere senza evitare i problemi della sua epoca e contribuendo agli sforzi collettivi di pace, di guerra o di qualsiasi altro genere, è invece il solo rifugio in cui, a dispetto del clamore delle masse, si possono ancora creare i monumenti di una vera civiltà.

3. La varietà dell'esperienza umana.

Esiste una terza ragione che spiega l'intensa produttività culturale dei piccoli Stati e la sterilità dei grandi. E si tratta della ragione più importante. Una società può anche essere governata da individui che assicurano alle arti tutto il loro appoggio, ma questo fatto conta ben poco se mancano gli artisti. Non basta creare le condizioni più favorevoli alla meditazione e allo sviluppo delle tendenze artistiche per produrre l'impulso creativo. Quel che occorre ancora è di assicurare agli individui dotati di capacità artistiche la possibilità di conoscere il vero, senza di che né l'arte, né la letteratura, né la filosofia possono sperare in un progresso. Ma tali individui, in un mondo poliedrico come il nostro, che si manifesta in tante forme e sotto tanti rapporti e aspetti diversi, devono poter vivere una grande varietà di esperienze personali. Quel che conta — si badi bene — non è il numero ma la varietà di tali esperienze. E ciò è infinitamente più facile in un piccolo Stato piuttosto che in un grande Stato.

Difatti, in un grande Stato, noi siamo condannati a vivere in compartimenti distinti, caratterizzati da un'intensa specializzazione, perché nelle società molto vaste la specializzazione su vasta scala costituisce non soltanto una possibilità, ma un vero e proprio bisogno1. Ne deriva che l'esperienza della nostra vita è limitata a un

1 Ciò non significa che la specializzazione in sé stessa sia indesiderabile. Al contrario, lo scopo di ogni comunità, come è detto nel capitolo precedente, è di incrementare tale specializzazione. Ma quando essa

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campo ristretto di cui non oltrepassiamo quasi mai i confini, ma in seno al quale diventiamo dei grandi esperti con una visuale molto ristretta. La vita sembra deformarsi assumendo colori diversi, come attraverso uno spettro: ora è tutta rosa, ora è tutta azzurra, ora è tutta verde. Essa assume il suo vero colore, il bianco, soltanto agli occhi di coloro che, situati nelle alte torri di controllo del governo, sono i soli ad avere una visione completa della realtà. Ma costoro sono talmente assorbiti dal loro compito di coordinazione, che non hanno tempo di trasmettere i risultati delle loro percezioni. Tutti gli altri sono condannati a vivere nell'ambito di un ristretto settore, puri e incontaminati nel loro isolamento, sottoposti a una instabilità di cui non hanno un'esatta percezione, e consci di rappresentare una vite di un più vasto ingranaggio che non conoscono.

Invece di vivere esperienze diverse, entro limiti controllabili, come accadeva ai nostri più fortunati antenati, noi facciamo l'esperienza, su vastissima scala, di una cosa soltanto. La novità consiste nel fatto che tale esperienza si ripete innumerevoli volte. Oggigiorno, i tecnici hanno a che fare soltanto con i tecnici, i medici coi medici, gli artisti di professione con altri artisti di professione, i sarti con altri sarti, i giornalisti con altri giornalisti. Le nostre moderne unioni sindacali e organizzazioni professionali, garantendo un certo genere di esistenza entro gli stretti confini di piccole sfere sociali a carattere omogeneo, traggono motivo di orgoglio dal fatto di aver provveduto a soddisfare tutte le esigenze dei loro membri, dagli svaghi all'assistenza scolastica, dalle prestazioni sanitarie alle ferie e financo alla sepoltura, senza che essi siano mai costretti a uscire dal comodo guscio delle loro organizzazioni. Avere a che fare con individui di altri ambienti è considerato come una prova di snobismo, come un atteggiamento sconveniente e proditorio. Se uno storico fa amicizia con uno psicanalista, corre il rischio di essere giudicato un pazzo. Se un uomo d'affari frequenta uno scultore corre il rischio di essere considerato un invertito. E se un ingegnere è in relazione con un filosofo è sospettato di spionaggio. Se un economista si azzarda a esprimere un suo giudizio su una questione che, in linea di principio, appartiene al campo delle scienze politiche, è considerato un venditore di fumo. Uno dei miei studenti

comincia a distruggere quella versatilità dell 'uomo che viceversa a un grado inferiore tende a stimolare, quelli che erano aspetti positivi si trasformano in gravi inconvenienti. Ciò accade nella specializzazione su scala troppo vasta che è possibile ottenere in grandi Stati.

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mi accusò una volta in piena classe di aver barato, perché avevo osato correggere un giudizio da lui espresso in merito alla vita politica inglese. Egli respinse le mie osservazioni sostenendo con veemenza che un economista non poteva assolutamente avere nessuna autorità in un campo diverso dal proprio. Lo studente proseguì affermando che se l'economista in questione pretendeva, nonostante tutto, di esprimersi su materie di cui non era competente, ciò avveniva o perché era un genio o perché era un impostore, facendo comprendere, senza possibilità di equivoco che, nel mio caso, propendeva per la seconda ipotesi. E aveva ragione, naturalmente, perché anche come economista io sono un imbroglione. L'unico campo in cui ho una certa competenza è quello concernente la documentazione delle unioni doganali internazionali. In questo settore io so tutto e, per quanto ciò possa avere poca importanza, rappresento forse nel mondo la più grande autorità in materia. In ogni altro campo, non posso che rifarmi ai risultati delle ricerche condotte da altri specialisti.

Siccome la vita moderna rende tecnicamente impossibile la partecipazione degli individui a una serie molteplice di esperienze, tutto quello che oggigiorno viene scritto nei grandi Stati non è tratto dalla vita ma da uno studio coordinato di essa. Il mondo non costituisce più un ostacolo per un autore: gli basta uscire dalla sua sfera per scoprirlo indirettamente, consultando con pazienza le enciclopedie e le varie monografie, nonché gli scritti di altri zelanti studiosi. Se ciò non gli è proprio possibile, egli affida l'incarico delle necessarie ricerche a un gruppo di esperti che studiano ed effettuano esperimenti per suo conto, senza sapere a che cosa serva il loro lavoro, mentre la funzione di tale autore si riduce a un computo meccanico delle cifre fornitegli, il risultato del quale è una sorpresa per lui come per qualsiasi altro 1. Nessun individuo singolo,

1 Una caratteristica descrizione dei nuovi sistemi con i quali gli autori moderni affrontano il compito di scrivere un libro, è fornita, nel passo che trascriviamo, da Ramon Cuthrie, un amico di Sinclair Lewis, quando descrive lo sforzo compiuto da questo autore per scrivere un romanzo ambientato nel mondo del lavoro : "Fu nel 1929 che Red (Sinclair Lewis) fece il suo primo tentativo di scrivere un romanzo sui problemi del lavoro. Egli viveva in quel tempo con Dorothy, nella sua fattoria del Vermont. Alcuni autorevoli esponenti del mondo del lavoro e della scienza economica, ecc., erano suoi ospiti, pronti ad essere consultati. Uno degli esperti era il fu Ben Stolberg; non mi ricordo più chi fossero gli altri. Tutti, fuorché Red, erano impegnati nella stesura del libro. Lui sembrava

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a meno che non sia veramente un supergenio, ha la possibilità di avere un'esperienza diretta del gran numero di problemi sociali ed umani che tutt'insieme costituiscono la vita. Ma siccome la cultura è il prodotto di una percezione individuale di tutto il vasto campo dell'esperienza umana, il grande Stato, che priva l'indi viduo dotato di capacità creative dell'ampiezza e della vastità di tale esperienza a favore di una comunità meccanicamente efficiente ma intellettualmente sterile, non potrà mai costituire il terreno adatto per il fiorire di una vera civiltà. Pertanto, il grande vantaggio di un piccolo Stato è che, una volta "raggiunta una popolazione sufficiente a garantire un buon sistema di vita nella comunità politica", esso non soltanto offre i vantaggi di un ragionevole grado di specializzazione, ma anche la possibilità per ciascuno di avere un'esperienza completa, affacciandosi semplicemente dalla propria finestra. Le passioni e i problemi che tormentano il cuore umano o che turbano la pace delle grandi potenze, non sono per loro natura tali da non potersi manifestare anche in seno a piccoli Stati. Però, a differenza di quello che accade nelle grandi potenze, in cui la portata di tali problemi non può essere esattamente percepita nell'ambito di un mondo fatto di innumerevoli suddivisioni e di sfere distinte caratterizzate da un'intensa specializzazione, tali problemi, nei piccoli Stati, appaiono invece in tutta la loro evidenza agli occhi di chiunque, senza bisogno dell'ausilio di analisti e di esperti, con una chiarezza di contorni e di scopi che non è dato riscontrare altrove. Un piccolo Stato ha gli stessi problemi di governo del più grande Stato esistente sulla terra, come è vero che una piccola e una grande circonferenza hanno lo stesso numero di raggi. Ma i problemi che in un grande Stato richiedono lo studio di un esercito di esperti in statistica e di interpreti specializzati, nell'antica Atene potevano invece essere facilmente compresi da qualsiasi vagabondo. Ne deriva che, se vogliamo veramente arrivare alla radice delle questioni, non ci resta altro, dopo aver fatto ricorso a Harvard e Oxford, che prendere dai loro polverosi scaffali le opere di Platone e di Aristotele. E in realtà, il merito di centri di studio come Harvard e Oxford consiste soprattutto nel fatto che le loro biblioteche sono

infastidito e sconcertato dall' invasione; avrebbe voluto giuocare a carte, far passeggiate, leggere libri gialli, ubriacarsi in santa pace, scrivere articoli remunerativi per il " The Saturday Evening Post ", mentre la commissione di esperti sedeva in solenne conclave per la stesura del romanzo ". (RAMON CUTHRIE , The Labor Novel that Sinclair Lewis Never Wrote , in "New York Herald Tribune Book Review", 1o febbraio 1952.

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ricche delle opere di questi grandi uomini che appartenevano a piccoli Stati.

Eppure costoro non erano dei superuomini. Il segreto della loro saggezza consiste nel fatto che essi vivevano nell'ambito di una piccola società, che svelava a chiunque tutti i segreti della vita. Essi vedevano ogni problema non una parte gigantesca di un quadro di inafferrabili proporzioni, ma una frazione di un quadro complesso a cui essi appartenevano. I filosofi, come i poeti e gli artisti, erano per natura geni universali , perché prendevano in considerazione la vita nella totalità delle sue espressioni e in tutta la sua ricchezza, varietà ed armonia, senza dover contare su informazioni di seconda mano e ricorrere a sforzi sovrumani. Senza essere costretti ad uscire dal loro campo o trasformare la loro attività in un lavoro caratterizzato da un'eccessiva specializzazione, essi potevano, nel breve volgere di un giorno, sperimentare il significato della gelosia, dell'assassinio, del rapimento, della magnanimità e della beatitudine. La loro vita era una costante partecipazione alle passioni umane e alle lotte politiche e non si esauriva, come accade oggi, in una serie di rapporti incestuosi unidimensionali con individui aventi gli stessi interessi, ma comprendeva contatti quotidiani con tutti, dalla ragazza di campagna all'uomo di governo. Questo è il motivo per cui essi potevano scrivere con uguale competenza sia su sottili argomenti di natura politica, sia sulla natura dell'universo o sulle sofferenze dell'amore. E i personaggi che essi scolpivano nel marmo o tratteggiavano nelle loro composizioni poetiche, non erano fatti per incarnare sinteticamente i problemi della massa, ma per vivere con una carica cosi vibrante di vitalità che il loro insuperabile realismo ancora affascina la nostra immaginazione.

4. La testimonianza della storia.

Queste tre ragioni spiegano come mai la stragrande maggioranza dei fondatori della nostra civiltà sia costituita da individui appartenenti a piccoli Stati. E questi sono i motivi per cui, ogni volta che piccoli Stati dotati di un certo patrimonio intellettuale si sono fusi per formare grandi potenze, essi hanno cessato di rappresentare centri di cultura.

La storia ci offre un'eloquente serie di esempi in tal senso. Tutti i grandi imperi dell'antichità, compreso il famoso Sacro Romano Impero, non sono stati capaci, nei millenni della loro esistenza, di

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produrre, dal punto di vista culturale, nemmeno una minima parte di quello che è stato prodotto in alcuni decenni dalle piccole città-stato della Grecia. Essendo durati tanto a lungo, tali imperi, naturalmente, produssero un certo numero di grandi menti con un codazzo di fedeli seguaci, ma le loro realizzazioni ebbero un valore tecnico e sociale, non culturale. Essi ebbero grandi amministratori, strateghi, costruttori di strade, e di gigantesche piramidi la cui forma potrebbe essere disegnata da qualsiasi bambino di due anni che giuoca sulla sabbia. Essi ebbero grandi legislatori e uomini di Stato, ma anche gli Unni ne ebbero. In fatto di vera cultura essi furono debitori dei Greci, degli Ebrei, o di altri individui provenienti da tribù prive di qualsiasi coordinamento e piene di contrasti, individui che essi acquistavano nei mercati di schiavi come beni mobili e dai quali, barbari quali erano, finirono per essere dominati e civilizzati. Sottolineando il rapporto esistente fra la produttività culturale e le dimensioni delle unità sociali, Kathleen Freeman cosi si esprime nella sua opera sulle Città-Stato della Grecia1 :"L'esistenza di centinaia di unità sociali, al giorno d'oggi, sembra un fatto antieconomico... Eppure, alcune di queste unità sociali hanno dato inizio a movimenti che hanno trasformato il mondo, consentendo infine all'uomo di esercitare l'attuale suo controllo sulle forze della natura... Fu proprio la piccola unità sociale, cioè la città-stato indipendente, in cui ciascuno era a conoscenza di quello che accadeva, che produsse dei geni come Tucidide e Aristofane, Eraclito e Parmenide. Se ciò non fosse vero, come si potrebbe spiegare il fatto che la filosofia, la scienza, il pensiero politico e le più alte forme di letteratura scomparvero con il crollo del sistema delle città-stato avvenuto nel 322 a. C., lasciandoci le opere indubbiamente interessanti ma meno profonde e originali di Epicuro e di Menandro? Dopo il 322, conosciamo un solo poeta di grande valore: Teocrito di Cos, un genio lirico di vero talento il quale tuttavia (a differenza di Saffo) scrisse anche molte cose di importanza secondaria, quando cominciò ad asservirsi a eventuali protettori come i sovrani di Alessandria e di Siracusa. La nazione moderna che ha rimpiazzato, come unità di governo, la polis greca, è mille volte meno feconda di essa dal punto di vista intellettuale, in proporzione alle sue dimensioni e alle sue risorse; perfino nell'edilizia, nelle arti e nei commerci, essa si dimostra in regresso,

1 KATHLEEN FREEMAN , Greek City States , W. W. Norton and Co., New York, 1950, p. 270.

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e la stessa cosa potrebbe dirsi, da un punto di vista relativo, della produttività"1.

Parimenti, anche l'Inghilterra produsse una splendida serie di nomi destinati all'immortalità; ma quando? Quando era un paese così piccolo e insignificante che durava gran fatica a vincere qualche battaglia contro gli Irlandesi e gli Scozzesi. È vero che essa riportò una storica vittoria contro la Spagna, ma la grandezza di questa vittoria, come nel caso delle guerre fra l'antica Grecia e la Persia, risiede precisamente nel fatto che fu ottenuta, non da una grande potenza, ma da uno dei più piccoli Stati d'Europa contro quella che allora poteva considerarsi la più grande potenza della terra. Proprio in quel periodo, tuttavia, l'Inghilterra, pur avendo una forza insignificante e una popolazione di appena quattro milioni di abitanti, dette la maggior parte del suo grande contributo alla nostra civiltà: Shakespeare, Marlowe, Ben Jonson, Lodge, e tanti altri insuperabili autori. Appena tale paese divenne più potente, i suoi uomini di maggiori risorse furono assorbiti dalle esigenze della guerra, dell'amministrazione, della colonizzazione e dell'economia. Se l'Inghilterra continuò a fornire al mondo dell'arte e della letteratura nomi di primo piano, ciò accadde grazie alla tenace

1 SETON LLOYD , in un articolo apparso nel "The Listener" del 19 aprile 1951, espone idee simili quando scrive: "Eppure, proprio in questa anonima costellazione di città-stato sorta nelle regioni orientali dell 'Egeo, ancor prima che Atene divenisse famosa, per la prima volta e forse per l 'ultima volta nella storia tutti i problemi della società umana sembrano essere stati simultaneamente risolti. Per un certo periodo di tempo la vita di gruppo su scala nazionale divenne possibile, corredata di tutte quelle libertà alle quali noi oggi aspiriamo con cosi scarso successo. Tanto per citare il Dr. Keith Monsarrat, "non soltanto la pace esisteva fra città e città, ma all ' interno di ognuna di esse anche gli uomini sembravano vivere in perfetto accordo. Essi trovavano il tempo per occuparsi di migliorare il loro proprio modo di vivere, e nel far questo scoprivano armonie di rapporti come nessun altro era mai riuscito prima di loro . È sorprendente in queste circostanze constatare che fra gli Stati non esisteva un senso di unità. Lungo le province costiere dell'Asia Minore, dalla Cilicia alla pianura di Troia, ogni valle e altipiano posto al riparo sembra abbia costituito uno Stato in miniatura, che dal punto di vista economico si accentrava intorno a una singola grande città. E ogni Stato aveva un proprio marcato carattere". L'unico commento da fare a tutto questo è che non era affatto strano che non esistesse "un senso di unità". Il motivo che spiega questa situazione paradisiaca è che essa era il risultato di un'armonia esistente fra gli Stati, e dovuta al fatto che essi non erano né uniti fra loro, né grandi.

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sopravvivenza, nell'ambito dell'impero in continua espansione, di piccoli gruppi come gli Scozzesi e gli Irlandesi. Non è dovuto a pura coincidenza il fatto che molti fra gli autori più eminenti e fecondi della moderna letteratura inglese, come Shaw, Joyce, Yeats o Wilde, siano irlandesi, cioè cittadini di una delle nazioni più piccole del mondo.

Ma nessun paese come l'Italia e la Germania può illustrare con maggiore evidenza la produttività culturale dei piccoli Stati e la sterilità dei grandi. Ambedue hanno, in tempi relativamente recenti, intrapreso la trasformazione da piccole unità sociali in potenti imperi unificati. Fino al 1870, ambedue questi paesi erano divisi in innumerevoli piccoli principati, ducati, repubbliche, e regni. A un certo punto, con l'approvazione del mondo di allora, che doveva poi fare la terrificante esperienza di tali avvenimenti, essi, obbedendo a un movimento di unificazione, si trasformarono in Stati potenti, ricchi e pacificati. Per quanto le due guerre mondiali abbiano un poco attenuato l'entusiasmo dei nostri intellettuali per l'unità della Germania, molti tendono ancora ad andare in estasi quando sentono pronunciare il nome di Garibaldi, l'uomo che ha unificato l 'Italia.

Fintanto che gli Italiani e i Tedeschi furono organizzati, o piuttosto disorganizzati, in piccoli Stati da operetta, essi non soltanto dettero al mondo i più grandi maestri dell'operetta ma anche, come già accadde nell'Inghilterra di Elisabetta, quando il paese non aveva che una minima importanza politica, una ineguagliabile serie di poeti, scrittori, filosofi, pittori, architetti e compositori. Un caotico insieme di Stati come Napoli, Sicilia, Firenze, Venezia, Genova, Ferrara e Milano produssero uomini come Dante, Michelangelo, Raffaello, Tiziano, Tasso e centinaia di altri, il meno importante dei quali sembra più grande del più notevole artista dell'Italia moderna, chiunque possa essere. La congerie di Stati come la Baviera, il Baden, Francoforte, l'Hesse, la Sassonia, il Nuremberg, diedero uomini come Goethe, Heine, Wagner, Kant, Durer, Holbein, Beethoven, Bach, e centinaia di altri il meno conosciuto dei quali sembra superare il più grande artista della Germania di oggi, chiunque sia1. Alcuni, come Richard Strauss, 1 Riportiamo le parole di Bertrand Russell: "Nelle epoche che hanno dato

grandi poeti" sono vissuti anche numerosi poeti minori, e in quelle che hanno avuto grandi pittori vi era un gran numero di pittori di più modesta levatura. I grandi compositori tedeschi fiorirono in un ambiente in cui la musica era apprezzata, e in cui molti compositori minori attendevano l 'occasione favorevole per emergere. In quei tempi, la poesia, la pittura e la

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hanno raggiunto una posizione di primo piano nella Germania moderna, ma la loro origine si ricollega al particolarismo che continuò ad esistere in Germania e in Italia, come pure in Francia e in Inghilterra anche dopo il trionfo del movimento di unificazione, e permise il fiorire di qualche tardo autore di rilievo.

Questo è il motivo per cui i piccoli Stati reazionari d'Italia e di Germania hanno dato al mondo belle città, cattedrali, opere, artisti e principi, alcuni illuminati, altri perversi, alcuni maniaci, altri geniali, tutti comunque di illustre stirpe, e non eccessivamente nocivi. Che cosa ci hanno dato le stesse regioni una volta divenute grandi potenze? Come imperi unificati, sia l'Italia che la Germania hanno continuato a gloriarsi dei monumenti di una grande civiltà che tuttavia era un prodotto del passato. Ciò che esse stesse sono state capaci di produrre è una masnada di uomini politici e di militari senza immaginazione, un Hitler o un Mussolini. Anche costoro avevano ambizioni artistiche e volevano abbellire le loro capitali, ma, invece di centinaia di capitali, essi ne avevano una ciascuno, Roma e Berlino, e invece di centinaia di artisti, due soli ne esistevano. Hitler e Mussolini. E la loro prima preoccupazione non fu di creare una civiltà, ma di costruire un piedistallo su cui ergersi. Tale piedistallo era la guerra.

musica, rappresentavano qualcosa di essenziale nella vita giornaliera dell 'uomo comune, oggi invece il loro posto è occupato dallo sport. I grandi poeti erano uomini che emergevano da uno stuolo di vati minori. L'inferiorità della nostra epoca a tale riguardo, è una conseguenza inevitabile del fatto che la società è caratterizzata da un tale grado di accentramento e di organizzazione, che l ' iniziativa individuale è ridotta al minimo. L'arte, nel passato, fiorì soprattutto fra piccole comunità che rivaleggiavano fra loro, come le città-stato della Grecia, i piccoli principati del Rinascimento italiano, e le piccole corti reali della Germania del diciottesimo secolo... Vi è qualcosa nelle rivalità locali che e essenziale in questi casi.. . ma tali patriottismi locali non si sviluppano con la stessa facilità in un mondo composto di imperi... Coloro che altrimenti potrebbero avere meritevoli ambizioni, a causa dell 'accentramento si trovano in concorrenza con un numero troppo vasto di rivali, e sono sottoposti a un eccessivo livellamento dei gusti. Se desideri essere pittore, non ti basterà schierarti contro coloro che nella tua città hanno la stessa aspirazione; vorrai invece andare in una scuola di pittura, in una metropoli, per concludere forse alla fine che sei un mediocre, e dopo esser giunto a una tale conclusione, ti metterai a far denaro o a bere. Nell'Italia del Rinascimento, avresti potuto sperare di essere il migliore pittore di Siena, e questa posizione sarebbe stata del tutto onorevole" (Bertrand Russell, Authority and The Individual).

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Poiché le piccole lotte fra i vari principati e repubbliche italiane e tedesche si erano ormai spente, essi cominciarono a coltivare ambizioni imperiali. Avendo a portata di mano il fasto e la gloria militare, si disinteressarono dei grandi intelletti e dei sommi artisti, eccitati da un forte desiderio di emulazione ogniqualvolta veniva riesumata dalla storia remota la figura di qualche conquistatore. Cominciarono a trascurare Goethe per Arminio, un generale teutonico che vinse i Romani; e a Dante cominciarono a preferire Cesare. Di fronte alla scelta fra una grande tradizione di civiltà e una grande tradizione di guerre, essi optarono per la seconda soluzione, come sempre avviene nelle grandi potenze. L'Italia e la Germania, paesi di poeti, di pittori, di pensatori, di amanti e di cavalieri, divennero fucine di pugilatori, di lottatori, di ingegneri, di corridori, di aviatori, di giuocatori di calcio, di costruttori di strade, di generali, e di prosciugatori di paludi. Invece di essere i capi annoiati di piccoli Stati, costoro divennero violenti predatori e cominciarono a pugnalare alle spalle prima i paesi vicini e poi il mondo intero.

E noi contemporanei, abbagliati come siamo dall'idea della grandezza, dell'unità e del potere, segretamente li approvavamo. I nostri intellettuali, prima di chiamare i dittatori criminali, assassini, e maniaci, li chiamavano geni. Solo quando questi cominciarono a trastullarsi con il loro collo, si decisero a rivedere i loro giudizi, e cominciarono a criticare severamente i dittatori. Ma mai si decisero ad abbandonare quel generale atteggiamento di servile sottomissione al potere che al contrario continuarono ad esaltare. Dato che le regole più elementari di decenza vietavano di venerare uomini come Hitler e Mussolini proprio quando questi due dittatori riportavano strepitose vittorie contro di noi, essi trasferirono il loro culto dai conquistatori contemporanei a quelli che li precedettero. Quel che essi ora apprezzavano meno in Hitler, esaltavano molto di più in Napoleone: il fatto cioè che egli volesse unificare l'Europa. Oggi, essi non sanno rendersi conto che tutto il nostro degradamento come individui e dovuto proprio a questo processo di unificazione sociale spinto oltre i limiti richiesti per garantire una esistenza tranquilla.

5. I romani e i fiorentini.

Ho scelto a bella posta il paragone fra Germania e Italia, analizzando la loro identica involuzione da raffinate forme di civiltà

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a un barbaro spirito di aggressione, dalla costruzione di cattedrali alla fondazione di imperi, dalla grandezza intellettuale accompagnata dalla debolezza politica, alla grandezza politica accompagnata da mongolismo intellettuale. Il motivo per cui ho tratteggiato questo paragone è che troppi studiosi sono convinti di trovarsi di fronte a due paesi dalle caratteristiche e dalla produttività culturale profondamente diverse quasi che soltanto uno di essi possedesse veri uomini di genio. In apparenza si direbbe che ambedue, in regime di dittatura, si siano comportati in modo ugualmente abominevole. Ma gli Italiani — si precisa — non avevano veramente tale intenzione. A differenza dei Tedeschi, essi hanno un vivo senso artistico e sono ardenti, allegri, e privi di un temperamento militaristico o imperialistico. Eppure, questo po polo eletto, al quale i nostri infatuati commentatori attribuiscono uno spiccato senso dell'arte, in complesso ha avuto cosi poca cura del suo patrimonio culturale, da lasciar marcire nella polvere la maggior parte dei suoi più antichi monumenti. Quel che resta a deliziare i nostri occhi, è dovuto all'opera di studiosi inglesi e prussiani, e non alla sensibilità artistica degli Italiani che hanno usato le pietre dei templi romani per costruire capanne e che non hanno esitato a vendere a bramosi stranieri tutte le monete e le statuette che potevano, quando si resero conto che esse fruttavano denaro. Ciò che i Medici avrebbero gelosamente custodito, altri hanno venduto per venalità. E per quanto concerne il loro antimilitarismo e antiimperialismo, è bene aggiungere che tutta la loro slealtà politica fu appunto dovuta al fatto che essi non si ritennero soddisfatti delle colonie ricevute all'indomani della Prima Guerra Mondiale. Ed avevano appena finito di perdere la seconda che già reclamavano di nuovo colonie.

Fin dal loro sorgere come grande potenza nel 1871, gli Italiani, nel complesso, non hanno più desiderato di farsi conoscere come artisti ma come padroni, non come pacifici agnellini, ma come conquistatori, non come Fiorentini ma come Romani. Il potere li ha trasformati in Prussiani, come è avvenuto dei Prussiani stessi, e il passo romano, che Mussolini non a caso introdusse nel suo esercito, corrisponde esattamente alla mentalità che si era venuta creando in Italia dopo il 1871, come è vero che la gentilezza, la sensibilità artistica, la grazia e la delicatezza non erano affatto estranei alla mentalità tedesca prima di tale data, cioè quando la Germania era ancora in gran parte divisa in un complesso di piccoli Stati. La

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cultura è il prodotto non già di popoli ma di individui e, come abbiamo visto l'arte non può fiorire nell'aria irrespirabile delle grandi potenze. Non ha importanza il fatto che si tratti di Tedeschi, Francesi, Italiani o Inglesi. Ovunque il processo di unione giunga alla sua logica conclusione, la fertilità culturale di tali popoli viene meno. Fintanto che la democrazia esiste, col suo giuoco di divisioni e fazioni e col suo equilibrio fra piccoli gruppi o, fintanto che il processo di consolidamento interno non ha raggiunto l'apice, apparentemente anche le grandi potenze possono beneficiare di un ultimo bagliore di vitalità intellettuale, senza però averne alcun merito. La grande potenza e la democrazia, come abbiamo mostrato nei precedenti capitoli, sono a lungo andare inconciliabili, dato che la grandezza, nell'ultimo stadio del suo sviluppo, può essere conservata soltanto attraverso una forma totalitaria di organizzazione politica.

6. LO STATO UNIVERSALE COME SIMBOLO E CAUSA DEL DECLINO CULTURALE .

Toynbee, nella sua opera A Study of History, che è uno studio sull'origine e il tramonto delle civiltà, ha tratteggiato fra unificazione politica e decadenza intellettuale un rapporto simile a quello da noi messo in luce. Egli fa riferimento al "fenomeno" secondo cui il penultimo stadio di sviluppo di ogni civiltà è caratterizzato da una "necessaria unificazione politica sotto la forma di uno Stato universale"1. Egli intende con questo termine indicare ciò che io chiamo grande potenza, cioè uno Stato comprendente tutti i membri di una particolare civiltà, e non tutte le nazioni esistenti. Ma egli trascura la grande importanza del rapporto causale quando considera lo Stato universale semplicemente come un sintomo, un "fenomeno", un "segno di declino", piuttosto che come la causa e come l'inconfondibile marchio del crollo di una civiltà. Tuttavia, a parte ciò, la sua analisi tocca a fondo il problema quando egli scrive:

"Per uno studioso occidentale l'esempio classico è quello dell'Impero Romano, in cui il mondo ellenico fu assorbito nella penultima fase della sua storia. Se ora noi gettiamo uno sguardo a tutte le forme di civiltà esistenti, diverse dalla nostra, notiamo che il

1 ARNOLD J. TOYNBEE , op. cit., p. 224.

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nucleo principale della Chiesa Ortodossa è sempre esistito in uno Stato universale come l'Impero Ottomano; che una ramificazione della Chiesa Ortodossa in Russia si affermò nell'ambito di uno Stato universale, verso la fine del quindicesimo secolo, dopo l'unificazione politica della Moscovia e di Novgorod; che la civiltà indù ha trovato il suo Stato universale nell'impero di Mughal e del suo successore, il Raj britannico; che il nucleo principale della civiltà dell'Estremo Oriente risiede nell'impero della Mongolia e in quello dei Manciù che ad esso succedette; e l'ultimo bagliore giapponese della civiltà dell'Estremo Oriente si è avuto all'insegna di Tokugawa Shogunate. Per quanto concerne poi il mondo islamico, possiamo forse individuare una anticipazione ideologica di uno Stato universale nel Movimento Pan-islamico" 1.

Per sottrarci all'azione del "fuoco lento e implacabile di uno Stato universale che finirà, a tempo debito, per trasformarsi in polvere e cenere"2, Toynbee suggerisce di ricorrere, non già a una soluzione unitaria di carattere generale, "ma ad alcune forme di organizzazione politica, affini forse alla omonoia o alla armonia predicate invano da certi uomini politici e filosofi ellenici" 3. Ma esiste un solo modo per instaurare tale omonoia o armonia, cioè quello di ristabilire quel mondo di piccoli Stati dal quale la nostra civiltà occidentale ha tratto origine e senza il quale essa non può sopravvivere. Difatti, l'evoluzione verso forme sempre più ampie di organizzazione politica, ci conduce inevitabilmente verso un'epoca di controlli, di tirannia e di collettivismo.

Scambiando la causa per un sintomo, Toynbee non è completamente arrivato a questa conclusione, che pure la potenza della sua argomentazione sembra imporre al lettore. Questo è il motivo per cui egli termina il suo lavoro con una nota di ingiustificato ottimismo, che s'accorda peraltro pienamente coi nostri tempi. Egli è del parere che "non esista nessuna legge conosciuta di determinismo storico" la quale induca il mondo occidentale a incamminarsi su quella stessa strada di distruzione che è stata a suo tempo percorsa da ogni altra forma di civiltà, cioè la strada che conduce, in Occidente, alla formazione di uno Stato o impero (questo sarebbe il termine più adatto) universale. Egli non si accorge che questo sviluppo è diventato inevitabile da quando gli

1 Ibidem, p. 244.2 Ibidem, p. 553.3 Ibidem, p. 552.

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Stati hanno superato quelle giuste dimensioni di cui parla Aristotele, per trasformarsi in complessi dotati di grande potenza. D'ora in poi ogni ulteriore sviluppo in tal senso, significa un avvicinarsi sempre più alla catastrofe. Ormai, incoraggiato dagli sforzi delle Nazioni Unite e del loro Istituto culturale, l'UNESCO, lo Stato universale occidentale ha superato da gran tempo la fase indistinta di una "anticipazione ideologica" ; difatti, i nostri uomini politici non sembrano aver altro in mente che la nostra unificazione, che, per preservare la nostra esistenza, condannerà la nostra civiltà.

Le dimensioni della società si dimostrano, una volta di più, come la causa che e all'origine di tutto: della fecondità culturale e della saggezza umana, se tali dimensioni sono ridotte; di una specializzazione che è solo ignoranza e di una cieca superiorità utilitaristica, se la società raggiunge eccessive proporzioni. Ancora una volta possiamo constatare che, mentre alcuni fattori storici ed economici, a cui si rifanno certi autori, come, ad esempio, resistenza di grandi capi, le tradizioni nazionali o il sistema di produzione, possono spiegare molte cose, la teoria del potere, da noi sostenuta, offre una spiegazione ancora più esauriente.

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CAPITOLO OTTAVO

LA EFFICIENZA DEI PICCOLI STATI

"Il lusso qui si risolve molto più in divertimenti che in consumi". ARTHUR YOUNG

Il più alto livello di vita nei piccoli Stati. Il moderno sistema di produzione su larga scala come strumento di schiavitù piuttosto che di elevamento del tenore di vita. La vita nel Medio Evo. Le depressioni cicliche sono caratteristiche non già del capitalismo ma di sistemi economici su vasta scala. La legge delle produttività decrescente. Le piccole unità produttive hanno una maggiore efficienza. Gli aggregati: l'oppio degli economisti. L'opinione di Lewis D. Brandeis sui limiti della grandezza. I monopoli sono per la scienza economica quello che le grandi potenze sono per la scienza politica. I piccoli Stati non costituiscono un ostacolo ad ampie zone di libero scambio. Le unioni internazionali di servizi. Le unioni doganali.

L'argomento economico

Abbiamo potuto constatare che il principio delle piccole unità è superiore a quello delle grandi unità in quasi tutti i campi, dalla fisica alla tecnologia, dalla politica alla cultura. Abbiamo anche potuto accertare che, in pratica, tutti i problemi dell'esistenza derivano da uno sviluppo eccessivo, e che debbono perciò essere risolti scomponendo ciò che è grande, e non unendo ciò che è piccolo.

Vi è tuttavia un campo in cui i nostri argomenti a favore di un ritorno a un sistema di piccoli Stati, sembrano perdere la loro validità. Alludo alla scienza economica. Un tale ritorno non

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provocherebbe il caos economico? E non sarebbe veramente reazionario erigere di nuovo una quantità di barriere che dividerebbero innumerevoli regioni l'una dall'altra, ostacolando il traffico e il commercio, e compromettendo il gigantesco progresso economico che è stato assicurato dall'esistenza di Stati di grande ampiezza, capaci di alimentare aziende colossali e di offrire i vantaggi della produzione di serie? Se il processo di integrazione ha ancora un significato, questo riguarda il campo economico, dato che senza tale integrazione il nostro tenore di vita, molto probabilmente, si troverebbe ancora al basso livello del Medio Evo.

Cerchiamo di vedere come si può rispondere a queste obiezioni, le quali, come subito accerteremo, sono, non soltanto dello stesso genere, ma anche della stessa superficialità di quelle sollevate contro lo smembramento politico delle grandi potenze. Esse, invece di testimoniare la validità delle teorie moderne, dànno un'idea di tutta la loro artificiosità. Difatti, anche nel campo economico, ogni singolo fatto dimostra che il processo di unificazione, lungi dal rappresentare la soluzione dei nostri problemi, ne costituisce la vera causa. Come in ogni altro altro campo, non è il sistema che fa difetto, sia esso capitalista o socialista, ma la sua applicazione su scala troppo vasta. Se il capitalismo ha avuto un successo cosi clamoroso nelle prime fasi del suo sviluppo, ciò non è dovuto allo stimolo prodotto dall'iniziativa privata. Le medaglie di Stalin hanno ottenuto gli stessi risultati. La ragione va invece ricercata nel fatto che il capitalismo si basa sul principio della concorrenza, il cui requisito fondamentale è dato dalla contemporanea possibilità di molti e piccoli e non di pochi e notevoli profitti, profitti che a loro volta richiedono non lo spreco di operazioni estensive ma l'economia di operazioni intensive. E se il capitalismo ha provocato, nelle fasi successive del suo sviluppo, delle gravi crisi, ciò non è avvenuto a causa delle sue deficienze sociali ma perché esso ha subito delle inquinazioni ad opera di organismi ciclopici come i monopoli o di zone di mercato di eccessiva estensione, le quali, lungi dal favorire il progresso economico, sembrano costituire il principale ostacolo.

1. L'argomento del livello di vita

Tuttavia, prima di discutere le conclusioni teoriche che è dato desumere dall'analisi di unità economiche eccessivamente vaste, è mia intenzione analizzare l'argomento più convincente esposto a

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sostegno di uno sviluppo su larga scala: l'argomento secondo cui tale sviluppo avrebbe migliorato il presunto basso tenore di vita che caratterizzava le economie dei piccoli Stati in precedenza esistenti.

Per poter comprendere il valore di questo argomento, che rappresenta la principale arma di difesa a favore di una economia a largo respiro, è necessario, prima di tutto, sapere che cosa noi intendiamo, non tanto per tenore di vita, ma per elevamento del tenore di vita. Posto che il livello zero, al di sotto del quale non si può scendere, sia rappresentato dal possesso di quei beni di consumo che sono necessari per sopravvivere, un elevamento del tenore di vita dovrebbe consistere in un margine crescente di beni di consumo, diversi da quelli essenziali, a disposizione dei vari gruppi che compongono una determinata comunità economica. In altre parole, un miglioramento del livello di vita deve essere misurato non già semplicemente in termini di beni, ma in termini di beni di consumo , dato che solo questi — a differenza dei beni di produzione — hanno una rilevanza dal punto di vista del tenore di vita. Inoltre, non ci si deve riferire semplicemente ai beni di consumo in generale, ma ai beni di consumo che sono in eccesso a quelli essenziali, cioè ai beni voluttuari. Pertanto, per poter affermare che lo sviluppo economico su vasta scala è stato accompagnato da un elevamento del tenore di vita, come asseriscono i suoi sostenitori, impiegando a tale proposito termini molto suggestivi come fenomenale, fantastico, inimmaginabile e inaudito, è necessario che tale fenomeno si sia manifestato sotto forma di un aumento del margine dei beni voluttuari, permettendo all'uomo moderno di soddisfare una più grande varietà di bisogni materiali, o la stessa varietà, ma in maggiore misura di quanto era possibile in precedenza.

Ciò che in realtà è accaduto, grazie ai vantaggi offerti dalla produzione in serie e da vasti mercati, è stato un fenomenale aumento nella produzione, non già di beni di consumo non essenziali, ma di beni essenziali, accompagnato da un incremento ancora più fantastico dei beni di produzione , come ad esempio le fabbriche, le quali non soddisfano direttamente bisogni umani, ma sono diventate necessarie per metterci in grado di far fronte ai nostri aumentati bisogni di beni essenziali. Dato l'enorme peso statistico delle cifre relative a queste due forme di produzione, non è motivo di grande sorpresa il fatto che i nostri studiosi di fenomeni macroeconomici abbiano potuto perdere di vista un lato molto meno confortante. Alludo al fatto che i beni voluttuari — cioè quei beni al

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di sopra del livello zero di sopravvivenza, che sono i soli atti a dare una misura del tenore di vita di un certo paese — non soltanto non hanno conosciuto un aumento insieme alla produzione degli altri beni, ma sembrano, in realtà, aver subito un grave declino. Ne deriva che, quello che, da un punto di vista statistico, poteva sembrare un progresso, si è praticamente risolto non in un elevamento del livello di vita, ma in un abbassamento di esso.

Per renderci conto di questo, non dobbiamo far altro che paragonare il tanto vantato livello di vita dei grandi Stati moderni, cioè delle grandi potenze, con quello di piccole entità economiche come la Svizzera di oggi, o lo Stato medioevale del Nuremberg. Dato che di solito si ritiene che i piccoli Stati medioevali abbiano avuto uno sviluppo economico più lento dei piccoli Stati del nostro tempo, è bene concentrare la nostra attenzione su di essi, piuttosto che sugli Stati moderni. Difatti, anche gli Stati medioevali, a dispetto di tutte le automobili, le stanze da bagno e i servizi sanitari e scolastici forniti dai grandi sistemi economici, mostrano che noi stiamo peggio di quei piccoli regni economici messi tanto in ridicolo, i quali facevano a meno di queste comodità perché erano più ricchi, e non perché erano più poveri: essi potevano permettersi di farne a meno.

Facciamo qualche esempio. È chiaro che nessuno Stato medioevale avrebbe potuto produrre in un secolo tante scarpe e camicie, quante una fabbrica moderna sarebbe capace di produrre in un solo anno. Ma questo non ci interessa, perché lo scopo dell'attività economica non e quello di aumentare la produzione, ma di soddisfare i bisogni umani. E in questo, il piccolo Stato medioevale era efficiente quanto la grande potenza moderna, soprattutto se teniamo conto che i suoi beni, essendo prodotti a mano e a un ritmo meno accelerato, erano, oltre tutto, migliori dei beni che si producono oggi. Il fatto che essi venissero impiegati per generazioni e generazioni, non testimoniava la miseria di un'epoca che non poteva permettersi di sostituirli, ma era una prova della bontà del sistema di produzione che rendeva superflua la creazione di una grande quantità di beni, anche se questa fosse stata possibile. Se le seggiole, i tavoli, le porte, i lavori in ferro battuto e i cassettoni fabbricati dai piccoli ma abilissimi artigiani di un tempo, costano di più dei beni corrispondenti che oggi vengono prodotti in serie, ciò non è dovuto al fatto che essi siano rari. Nessun uomo col cervello a posto è disposto a pagare caro un oggetto, semplicemente

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perché esso è vecchio e non può essere riprodotto. La realtà è che questi beni sono venduti a un prezzo più alto perché sono migliori dei nostri. E non si creda che questi mobili, che assicurano tanto prestigio ai loro attuali possessori, un tempo si trovassero soltanto nella casa del ricco. Essi erano, e a distanza di secoli si trovano tuttora, nelle case contadine di molti paesi europei, se non sono stati distrutti da eventi bellici o dalla deteriorazione del gusto che ha accompagnato l'avvento della nostra era, caratterizzata dalla produzione in serie; ed essi conferivano un'aria di sicurezza e di grande imponenza che invano cercheremmo nelle fragili case dei contadini di oggi, dotati di macchine e di televisore.

Quindi, benché i sistemi moderni producano senza dubbio, per individuo, un numero maggiore di beni rispetto alle botteghe artigianali di un tempo, ciò non indica il raggiungimento di un più alto livello di vita : infatti la qualità di questi beni più numerosi, e la loro suscettibilità a soddisfare i nostri bisogni, sembrano essere diminuite se teniamo conto della loro maggiore disponibilità. Noi, non soltanto abbiamo più scarpe e camicie, ma abbiamo bisogno di più scarpe e di più camicie, e questo semplicemente per mantenere il livello di vita passato. Pertanto, non si può affermare che l'attuale soddisfazione dei nostri bisogni abbia conosciuto un qualche incremento, basandoci semplicemente sul fatto che i beni essenziali sono diventati più abbondanti insieme al nostro aumentato bisogno di essi.

Ma che dire di quei beni come le automobili e gli aerei che, più di ogni altra cosa, sembrano simbolizzare il successo di un'economia come quella moderna, basata su una integrazione di vasto respiro? Anche in questo caso, non v'è alcun dubbio che tali beni non avrebbero mai potuto essere prodotti nell'ambito di piccoli sistemi economici, almeno nella quantità in cui vengono prodotti oggi. Ma, ancora una volta, dobbiamo porci questa domanda: l'incremento della loro produzione ha aumentato la soddisfazione del nostro bisogno di viaggiare? È difficile rispondere affermativamente! In un mondo di piccoli Stati le automobili non erano necessarie. Il piacere che noi ci ripromettiamo dai nostri viaggi, non consiste nel fatto di coprire certe distanze per il gusto di coprirle, ma piuttosto nel fatto di avere una varietà di esperienze diverse, che ci vengono offerte dalle varie regioni e dai vari ambienti sociali che abbiamo l'occasione di conoscere. Quello che noi deside riamo dai viaggi è l'avventura, non le automobili. Il mondo dei piccoli Stati, essendo

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anche un mondo di limitata estensione, ci ispirava tutto l'entusiasmo dei grandi viaggi, con la differenza che per questo non era necessario fare molto strada. Un viaggio di cinquanta miglia offriva all'attonito viaggiatore una varietà quasi infinita di panorami e di esperienze prima sconosciute. Camminando, poteva capitargli di imbattersi in avventure, corrieri, briganti, mercanti, monaci, e signori, e siccome tutta questa gente non poteva allontanarsi a cento all'ora come accade oggi, egli non soltanto poteva incontrarla, ma anche conoscerla. Poteva anche capitargli di passare davanti a fuligginose botteghe di fabbri, a imponenti locande, a vigneti e a miniere di stagno. Ogni città si presentava a lui come un mondo nuovo, con costumi diversi, con architetture, leggi e sovrani diversi. Bastava il colloquio con gli ufficiali di dogana per fornirgli più informazioni di quelle desumibili dalla lettura di una dozzina di moderne guide turistiche, la cui principale utilità — sia detto incidentalmente — è quella di guidare chi capita fra le rovine del passato. Con una escursione di cinquanta miglia egli passava attraverso mondi diversi, e acquisiva in merito a nuovi prodotti e nuovi ritrovati più notizie di quante non ne avesse mai apprese prima. E per percorrere cinquanta miglia, in un mondo sconosciuto, non erano necessari né automobili né aeroplani.

Per avere soddisfazioni simili, in un mondo come il nostro, dobbiamo viaggiare non per cinquanta ma per migliaia di miglia. Per far questo, abbiamo indubbiamente bisogno di automobili e di aeroplani, che vanno a cento e più miglia all'ora. Ma quali esperienze ci offrono questi mezzi di trasporto? Quasi nulla. Se noiviaggiamo per tremila miglia da New York a Los Angeles, incontriamo città identiche a quelle che abbiamo lasciato. Se ci rechiamo al villaggio di Hudson, uno dei luoghi più a nord lungo la Canadian National Railway, situato in mezzo al deserto di foreste vergini, ed entriamo in un ristorante, troviamo lo stesso ambiente che abbiamo lasciato a Brooklyn. Quel che ci poteva essere di diverso non lo abbiamo visto, perché le nostre superautostrade sono state spianate e raddrizzate a tal punto che noi non possiamo permetterci di perder tempo procedendo a modesta andatura. Possiamo correre in lungo e in largo attraverso l'intera America settentrionale senza veder altro che la stessa Main Street , affollata dallo stesso genere di persone, prese dagli stessi affari, intente alla lettura delle stesse barzellette e degli stessi editoriali, persone che hanno gli stessi idoli, gli stessi pensieri, le stesse leggi, la stessa

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morale, le stesse convinzioni. Questo è il motivo per cui oggigiorno, se desideriamo leggere racconti di avventure veramente eccitanti, dobbiamo tornare indietro nel tempo e rileggere Homer e Stevenson, i quali accumulavano, nei loro viaggi di poche centinaia di miglia, più episodi dei nostri moderni disegnatori di giornali che ritraggono navi spaziali che viaggiano a velocità supersoniche, e che ci conducono verso lontane stelle e remote galassie... ma a scoprire che cosa ? Che Kilroy c'era già stato, lasciando sul posto una copia della Costituzione e una bottiglia di birra, di quella che ha fatto la fama del Milwaukee.

Se in parecchi Stati europei di notevole estensione, come l'Italia, la Francia o la Germania, è ancora possibile, con viaggi relativamente brevi, fare l'esperienza di tante interessanti differenze che si stanno però attenuando, ciò è dovuto al fatto che la varietà degli Stati medioevali ha lasciato in essi un'impronta cosi duratura, che neppure il processo di unificazione ha potuto cancellarla. Per colmo di ironia, la fonte singola di più vasto reddito in alcuni di questi moderni Stati di vasta estensione, è spesso rappresentata non tanto dalle gigantesche industrie di cui vanno tanto orgogliosi, ma dal denaro speso dai turisti che vengono a godersi le bellezze e le opere create non da tali Stati ma dai loro piccoli e "arretrati" predecessori. Tuttavia, queste ultime vestigia della circoscritta vita di un tempo, minacciano di essere fagocitate dagli ulteriori e sempre possibili perfezionamenti dei nostri mezzi di trasporto. Data la possibilità di coprire con tanta rapidità distanze così notevoli, diventerà impossibile e antieconomico fermarsi in qualche posto, eccetto che nei luoghi di posteggio lungo le strade, e nelle città terminali delle autostrade, nelle quali sarà impossibile avvertire qualsiasi differenza. E in tal modo, verrà meno lo scopo di viaggiare.

2. LA CREAZIONE DEI BISOGNI.

Sembra quindi che le automobili ci abbiano arrecato meno soddisfazione di quella che arrecava ai nostri antenati un vecchio cavallo o un buon paio di scarpe. Si potrebbe obbiettare però che le automobili e gli altri moderni ed efficientissimi mezzi di trasporto, come le ferrovie sotterranee e i servizi di autobus, non sono più un lusso per soddisfare il nostro desiderio di viaggiare : essi sono diventati una necessità, per soddisfare dei bisogni fondamentali.

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Questo è senz'altro vero. Ma da quando la creazione di nuove necessità è un segno di progresso? I nostri fantastici mezzi di comunicazione e di trasporto, che noi consideriamo come un indice di un livello di vita più elevato, non sono altro, in realtà, che il sintomo della nostra crescente schiavitù. Senza di essi, non soltanto noi saremmo ridotti a vivere in uno stato di disperata prostrazione, ma, a differenza dei nostri antenati, saremmo condannati a morire. La loro introduzione nel nostro sistema di vita ci è costata molto, ma non ci ha portato un profitto. In passato, per raggiungere il nostro posto di lavoro, ci bastava spostarci comodamente poco più in là di casa nostra, o attraversare la strada. Siccome passavamo la maggior parte del nostro tempo in prossimità di casa, potevamo dedicarci ad abbellirla, contribuendo a creare le belle città del passato in cui era così piacevole vivere, a differenza di oggi, in cui la vita nelle grandi città e diventata una sofferenza. Nessuno aveva in mente di evadere: la chiesa, le taverne, le autorità, i teatri, gli amici, la campagna, tutto insomma era a portata di mano. Siccome tutto ciò che era necessario per garantire una pienezza e ricchezza di vita non era suddiviso come oggi, in una quantità di quartieri residenziali, teatrali, commerciali, bancari, governativi e industriali, una comoda passeggiata di mezzo miglio al giorno permetteva di far fronte a tutte le esigenze economiche, senza dipendere dal "miglior servizio ferroviario del mondo", la cui necessità prova ancora una volta la miseria della vita moderna, organizzata su vasta scala, all'insegna della meccanizzazione. Il Professor Schrodinger ha descritto fedelmente questa situazione esprimendosi in questi termini:

"Ma consideriamo soltanto la "meravigliosa riduzione delle distanze" nel mondo, dovuta ai fantastici mezzi moderni di trasporto. Tutte le distanze sono state ridotte quasi a nulla, se vengono misurate non in miglia ma in ore di trasporto, considerando i mezzi più veloci. Pure, se prendiamo in considerazione tali distanze dal punto di vista del costo dei trasporti più economici , è come se esse fossero raddoppiate o triplicate negli ultimi dieci o ventanni. Ne deriva che molte famiglie e molti gruppi di amici intimi sono stati dispersi sulla terra come mai era accaduto prima. In molti casi, essi devono rinunciare per sempre a rivedersi, in altri possono farlo a prezzo di terribili sacrifici e per un periodo di tempo limitato che si chiude con strazianti addii. Giova tutto ciò alla felicità umana?" 1.

1 Edwin Schrodinger, Science and Humanism, Cambridge University Press, London, 1951, p. 3.

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I risultati raggiunti dal gigantesco sviluppo economico dell'era moderna, sembrano quindi riassumersi in un fenomenale aumento della produzione non già di beni voluttuari — il che avrebbe invero portato a un elevamento del tenore di vita — ma dei beni di cui abbiamo bisogno per risolvere la gravissima difficoltà che tale sviluppo ha fatto sorgere. Esso ci ha fatto piovere addosso una quantità di beni, senza accrescere il valore di ciò che possediamo. Avendo creato distanze non necessarie fra amici e famiglie o fra residenza e luogo di lavoro, ci ha fornito anche le necessarie agevolazioni per percorrerle, ma, ancora una volta, con un sacrificio economico che soltanto poche persone possono permettersi senza ridurre progressivamente il consumo dei beni che recano maggiore soddisfazione. Esso ci ha dato l'aria condizionata, non come un progresso, ma come un qualcosa di necessario , dato che gli edifici moderni hanno perduto la magia delle deliziose temperature che caratterizzavano le costruzioni di un tempo, dotate di spesse pareti. E insieme con questo nuovo sistema di refrigerazione, esso ci ha insegnato dei modi di prendere la polmonite che prima non si conoscevano. Abbiamo avuto una riduzione dell'orario di lavoro, mentre il tempo che passiamo sui mezzi di trasporto, in una inattività non meno estenuante, è maggiore di quello ottenuto lavorando meno. Tale sviluppo economico ci ha dato la possibilità di avere una casa in campagna invece che nell'odiata città, ma la sua funzione si è ormai ridotta a quella di un dormitorio eccessivamente lontano, di cui siamo diventati gli stanchi e assenti proprietari. Esso ci ha fornito quelle famose vasche da bagno nelle quali certi teorici devono pensare che noi passiamo la maggior parte delle nostre ore insonni, a giudicare dall'orgoglio con cui parlano di questo particolare simbolo di un livello di vita elevato. Ma, nello stesso tempo, tale progresso ci ha resi cosi sporchi, dopo una giornata di lavoro, che a stento possiamo affermare di essere più puliti grazie alle nostre docce giornaliere. Esso ci ha dato la possibilità di recarci al lavoro con un veicolo personale, soltanto per farci ammattire alla ricerca di un posteggio. Ciò significa che ora noi abbiamo bisogno non soltanto di spazio, che scarseggia a causa dell'abbondanza di automobili, ma anche di una cura psicoanalitica, resa necessaria per eliminare gli effetti psichici provocati dalla nostra disperata ricerca di spazio. Il progresso ha abbassato il tasso della mortalità dei neonati, ma l'aumento della densità della popolazione ha elevato il tasso di mortalità delle persone di media età. Uno studio effettuato

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nel 1951 ha dimostrato che, negli Stati Uniti, "il tasso di mortalità, nel complesso, è uno dei più bassi del mondo; ma dopo i quarantacinque anni, gli Americani hanno meno probabilità di vivere che gli abitanti di molti altri paesi, come ad esempio l'Inghilterra, il Canada, l'Olanda, e specialmente la Danimarca e la Norvegia... Uno sguardo alle cifre dimostra che gli uomini americani hanno più incidenti mortali e più malattie di cuore. Le donne americane hanno più incidenti e più diabete" 1. Ma per quale motivo devono esserci più malattie di cuore e più incidenti in un paese fortemente progredito come gli Stati Uniti (popolazione 155.000.000) e, in ordine decrescente, in Gran Bretagna (51.000.000), in Canada (15.000.000), e in Olanda (9.000.000) piuttosto che in Danimarca (4.000.000) e in Norvegia (2.500.000), se non per il fatto che la tensione dovuta al sistema di vita moderno diminuisce non appena diminuiscono le dimensioni di un paese e il suo ritmo di vita?

Si afferma, comunque, che la vita moderna ha almeno insegnato a tutti noi a leggere e a scrivere, il che è vero. Sembra tuttavia che essa non sia riuscita ad elevare il nostro livello culturale. Affinché un nostro contemporaneo classificato "alfabeta" possa ritenere qualcosa, bisogna che l'argomento gli venga offerto in un linguaggio da rotocalco, già rimasticato e condensato. Il Manifesto Comunista di Marx, che un secolo fa poteva essere compreso dai lavoratori del mondo ai quali era indirizzato, non è più alla portata di uno studente medio del ventesimo secolo, educato in un grande collegio. La sua tanto vantata istruzione non sembra avergli conferito altra capacità che quella di rispondere sì o no alle domande che gli vengono formulate, e di riempire dei formulari che gli dànno diritto a pensioni di senilità intellettuale dall'età di venti anni in poi. I nostri antenati, incapaci di leggere e scrivere, avevano probabilmente sulla punta delle dita un'istruzione maggiore di quanta noi ne abbiamo nel cervello. Quando i fratelli Grimm scrissero i loro racconti fiabeschi, che avevano sentito narrare da analfabeti, crearono uno dei capolavori della letteratura. Nell'antichità, erano incapaci di leggere e scrivere non soltanto le persone comuni ma, come ad esempio in Grecia, anche alcuni dei più grandi poeti! Per questo essi cantavano i loro poemi epici! E di che poemi si trattava! E quali uditori avevano! Non sarà mai più possibile per un poeta, tradurre nella melodia dei suoi versi il suono del mare, o delle foglie che stormiscono dolcemente nella brezza, ora che la nostra tecnica

1 "Time", 3 dicembre 1951.

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progredita ci ha offerto la possibilità di ottenere lo stesso risultato con un sistema molto più pratico e alla moda, cioè schiacciando cubi di ghiaccio in un secchio da champagne.

Quindi, è vero che sistemi economici più piccoli producevano un minor numero di beni, ma è anche vero che questi erano più duraturi e più atti a soddisfare le esigenze di una società abituata ai piaceri e agli agi di un ritmo meno sostenuto. La vita, allora, era come un camminare su una striscia che si muova sotto i piedi, in direzione opposta. E siccome tale movimento era lento, bastava un piccolo sforzo per controbilanciarlo. Per vivere occorreva consumare poche paia di scarpe e poche energie 1. La vita su larga scala, d'altra parte, ha aumentato tremendamente la velocità di movimento di tale striscia, col risultato che oggi l'uomo che vuole eccellere non può contentarsi di camminare, ma deve correre. E i nostri esperti di produzione e di livello di vita guardano orgogliosamente chi corre esclamando: "Guardate che salute di ferro, che fisico, che muscoli, che torace, e pensate al cibo, alle vitamine, alle scarpe, alle vasche da bagno, di cui costui può godere grazie alla scienza moderna!". Tutto ciò ci sbalordisce. Ma quel che noi non consideriamo e che costui ha disperatamente bisogno di tutto ciò, e per fare che cosa ? Semplicemente per ottenere quello che il lento cittadino del piccolo Stato otteneva senza sforzo: controbilanciare il movimento della striscia. Niente di più, e forse nemmeno questo, perché più è elevata la velocità della striscia e più è facile che anche il miglior corridore rimanga indietro. E l'esperienza della storia sembra dimostrare proprio questo: l'espansione economica su vasta scala ha causato non un elevamento ma un abbassamento dei livelli di vita, e il fantastico aumento della produzione, a cui noi assistiamo, non è altro che una forma di inflazione. Oggi i beni si producono in gran quantità, ma

1 Che ciò non rappresentasse un basso livello di vita è stato ben illustrato da un viaggiatore del diciottesimo secolo che visitò l 'Italia e la Francia. Paragonando la vita apparentemente più povera di Venezia con quella della nativa Inghilterra, che stava già raccogliendo i frutti della rivoluzione industriale, egli osservava: "Il lusso qui si volge molto più verso i divertimenti che verso i consumi; ciò dipende in primo luogo dalla sobrietà della gente; ma soprattutto dalla natura del loro cibo; la pasta, i maccheroni e i legumi si trovano più facilmente del vitello e del montone. La cucina, come in Francia, permette a queste popolazioni di fare un pranzo spendendo la metà di quello che si spende in Inghilterra " (ARTHUR YOUNG , Travels in France and Italy , Everyman's Library, N. 720, pp. 254-5).

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essi non sembrano procurarci la soddisfazione che ci assicurava un piccolo numero dei vecchi 2.

3. Ricchi e poveri.

Finora, l'analisi comparativa da noi fatta sui vari livelli di vita è stata forse condotta in termini troppo generali per potere essere veramente accettabile. Allo scopo di ottenere un quadro più realistico, può essere di ausilio il tentativo di accertare gli effetti prodotti dallo sviluppo economico su piccola e su larga scala, sul tenore di vita di alcune particolari condizioni sociali, cominciando dai re fino ai più umili lavoratori. Tale analisi dimostrerà che, da qualsiasi punto di vista si affronti la questione, il risultato è sempre lo stesso, cioè si accerterà su tutta la linea non un progresso, ma un declino.

Per cominciare dai governanti , non v'è dubbio che i sovrani di piccoli Stati vivevano in mezzo a un fasto di gran lunga maggiore di quello di cui possono circondarsi i loro attuali successori che sono a capo di grandi potenze. Oggi, la Regina d'Inghilterra, potrebbe permettersi quello che potevano permettersi un tempo i sovrani più insignificanti? Per esempio, costruire una scuola di equitazione, un teatro, una galleria d'arte ? Gli appannaggi della regalità che ella oggi possiede, come i palazzi e i castelli, non le sono stati procurati dalla ricchezza del presente, ma sono una eredità del povero passato. Se il Presidente degli Stati Uniti volesse costruire una piscina per i suoi cavalli, sarebbe messo sotto inchiesta e probabilmente in stato di accusa per spese eccessive. Anche se egli potesse permettersi le stravaganze dei nostri antenati, la coscienza sociale della nostra

2 Come l' inflazione monetaria, secondo il Professor Anatol Murad della Rutgers University, è caratterizzata non da un'abbondanza ma da una deficienza di moneta, alla quale le banche devono cercar di far fronte con emissioni sempre maggiori per venire incontro alla crescente domanda del consumatore che ora ha bisogno di una maggiore quantità di moneta semplicemente per acquistare la stessa quantità di beni, così si può dire che una inflazione di produzione sia caratterizzata non da un'abbondanza ma da una deficienza di beni di produzione e di beni di consumo essenziali, deficienza alla quale gli imprenditori fanno fronte producendo un numero sempre maggiore di questi nuovi beni, semplicemente per ottenere lo stesso grado di soddisfazione che essi ottenevano in precedenza con un numero minore dei vecchi.

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epoca non glielo consentirebbe, e questo per un senso di rispetto verso l'inferiore livello di vita delle masse, non certo in omaggio a un tenore di vita superiore. Per quanto prospero possa essere questo secolo, è difficile poter dire che i nostri governanti ne abbiano tratto un vantaggio. E la stessa cosa vale per i ricchi. Infatti, l'abbassamento del livello di vita non è stato mai sperimentato in modo cosi drastico come nell'ambiente dei ricchi, e fra le sfere dirigenti di quegli Stati i cui sistemi economici sono conosciuti per aver registrato un cospicuo progresso.

Che dire di altre professioni, come quella dello studioso? I professori delle antiche Università di Bologna e di Praga — come quelli delle attuali Università svizzere o danesi — avevano un tenore di vita perfino superiore a quello dei nostri direttori di banca. Essi possedevano case imponenti, ricevevano ospitalmente studenti provenienti da tutte le parti del mondo, e offrivano ai loro ospiti dei pranzi che non avevano nulla da invidiare a quelli preparati dai migliori alberghi. I professori di oggi nei paesi a più alto tenore di vita, i quali fanno a lezione continue prediche sui progressi della vita moderna, insegnano dodici o quindici ore alla settimana, abitano in piccole villette con fondazioni in muratura, se sono benestanti, o prefabbricate in caso contrario, arrotondando lo stipendio con altre occupazioni e, se offrono un cocktail party ai loro colleghi più di una volta all'anno, rischiano di rovinarsi.

Gli studenti universitari, una volta, in paesi a cosiddetto "basso tenore di vita", passavano le loro vacanze estive a leggere, a meditare, a viaggiare all'estero, oppure a far poco o niente, giusto quanto era necessario per non perdere i frutti di un anno di studio. Gli studenti di oggi, invece, i quali sono così orgogliosi dei progressi raggiunti da un livello di vita, che tutti sono pronti ad esaltare ma di cui nessuno ha mai avuto una esperienza diretta, durante le vacanze devono lavorare come sguatteri, come postini, o come autisti, per raggranellare il denaro necessario per riprendere in autunno e poi terminare uno studio di cui non possono sentire i benefici, perché il "benessere" moderno non concede loro abbastanza tempo per assimilarne i risultati. È doveroso però precisare che non tutti gli studenti di un tempo godevano degli agi sopra descritti. Anch'essi, a volte, erano costretti a lavorare. Il Professor G. G. Coulton, allo scopo di richiamare alla realtà i troppo sentimentali ammiratori del Medio Evo, così scrive, riferendosi alla fine del quindicesimo secolo : "Se noi ci trovassimo all'Università di

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Cambridge di allora, riconosceremmo certo parecchi laureandi fra i contadini intenti alla mietitura; vedremmo gli studenti trascorrere le vacanze estive a raccogliere il fieno e il grano; ne vedremmo alcuni, come i loro confratelli dell'America di oggi, costretti ai lavori manuali per pagarsi in parte le spese di studio" 1. Senza dubbio questo era vero. Ma bisogna anche tener presente, in primo luogo, che l'Inghilterra del quindicesimo secolo, per quanto piccola, non aveva ancora raggiunto, a differenza di Bologna e di Firenze, uno stato di maturità economica, e pertanto non può essere usata come valido termine di paragone rispetto agli attuali sistemi economici che sono invece maturi. In secondo luogo, pur ammettendo che quella fosse una fase di ritardato sviluppo economico, la cosa più inesatta che il Professor Coulton poteva dire in un apparente tentativo di dimostrare il più basso tenore di vita del Medio Evo, era che "alcuni" studenti di quel periodo facessero ciò che un gran numero dei "loro confratelli" sono costretti ancora a fare nella ricca e prospera America di oggi : cioè lavorare per sovvenire in parte alle spese di studio. Questo può provare tutto quello che si vuole, ma non sembra certo provare un progresso nel tenore di vita degli studenti.

Possiamo prendere in esame quasi tutte le altre professioni per giungere alle stesse conclusioni. I calzolai e i sarti della città-stato di Nuremberg, a giudicare dalle descrizioni che se ne fanno oggi o dalle eloquenti illustrazioni pittoriche, vivevano da gran signori, conducendo un tenore di vita che pochi ricchi commercianti di oggi potrebbero permettersi. Gli operai specializzati potevano vivere come a stento possono permettersi, negli Stati Uniti, professori universitari al culmine della carriera. I lavoratori avevano le comodità materiali e i beni di cui possono anche godere i lavoratori di oggi, con la differenza, però, che quest'ultimi non sono più in condizioni di trarne uguale profitto, in questa epoca di fretta, di superficialità, e di specializzazione.

E le donne di casa? Ebbene, le donne di casa potevano contare sull'aiuto delle domestiche, che rappresentava l'aspetto più apprezzabile di un alto livello di vita, un lusso che nessuno oggi, nei paesi del mondo "ad alto livello di vita" è più in grado di permettersi. E i pochi che lo possono, hanno scoperto che è cosi difficile adattarsi agli umori delle persone di servizio che è meglio

1 G. G. Coulton, Medieval Panorama , Cambridge University Press, 1938, Macmillan, New York, 1945, pp. 69-70.

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farne francamente a meno. In Inghilterra, ad esempio, le padrone di casa, se vogliono che le domestiche ritornino al lavoro il giorno dopo, devono rassegnarsi a lavare i piatti della sera precedente. Oggigiorno, una donna non è più disposta a lavorare se la padrona di casa non ha fatto la maggior parte del lavoro. La qual cosa, dal punto di vista della padrona di casa, non può certo essere considerata un progresso. L'unico genere di attività che sembra aver conosciuto veramente un autentico progresso è proprio quella delle donne di servizio. E, per colmo d'ironia, questo è l'unico mestiere che, a causa del cresciuto livello di vita che consente, sta rapidamente scomparendo.

Ma la scomparsa delle domestiche — si afferma — è precisamente una delle prove più convincenti che il livello di vita sta migliorando, perché quelle che prima erano donne di servizio ora sono casalinghe, o impiegate, o donne d'affari. Ma in questo caso, è chiaro che esse devono essere paragonate, non con le donne di servizio di un tempo, ma con quelle che in passato svolgevano lo stesso lavoro che esse svolgono ora, cioè con le casalinghe, le impiegate e le donne di affari di allora. E queste, come abbiamo visto, potevano appunto permettersi quelle donne di servizio che le massaie, le impiegate e le donne d'affari di oggi non possono invece più permettersi. Il fatto che oggi sia aumentato il numero degli individui che esercitano professioni più elevate, non significa ancora che il livello di vita di tali professioni sia aumentato. Al contrario! Come ci dimostra la legge della produttività marginale decrescente, un aumento nel numero dei componenti un gruppo professionale non aumenta, ma semmai diminuisce, il tenore di vita dei singoli. E questo è proprio quello che è accaduto. Quindi, la scomparsa delle donne di servizio non dimostra un miglioramento della loro condizione, cosa questa che è senza senso dal momento che questa professione sta morendo e che i morti, fino a prova contraria, non hanno un tenore di vita di nessun genere; ma un abbassamento del livello di vita di quelle professioni le cui file esse hanno ingrossato, nella speranza di ottenere quei maggiori benefici che invece, proprio a causa del loro cambiamento di professione, stanno scomparendo. Quando esse entrarono a far parte della categoria delle casalinghe in un "numero senza precedenti" che ci è additato come il segno infallibile del progresso mentre esso indica semplicemente un processo inflazionistico di declino, esse speravano di avere a loro volta delle donne di servizio. Ma che cosa hanno scoperto? Che l' "elevamento"

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del loro livello di vita aveva portato all'eliminazione di quelle piacevoli comodità di un passato che veniva tacciato di "arretratezza". Il progresso, invece di trasformare le donne di servizio in padrone di casa, ha trasformato le padrone di casa in donne di servizio1.

Questi rilievi, che sono validi per le singole professioni, hanno un fondo di verità anche in riferimento alle classi e ai gruppi sociali. Anche i piccoli Stati naturalmente avevano la loro parte di povertà, ma, dato che i loro abitanti erano pochi, i poveri erano anche di meno. Ma il problema creato dalla loro esistenza non può essere minimamente paragonato a quello costituito dall'imponente e scandaloso fenomeno della disoccupazione di massa, che affligge le ricche e grandi potenze del nostro tempo. Inoltre, occorre precisare che i "disoccupati" di una volta, i mendicanti, non erano proletari colpiti dalla sventura, ma membri di un'antica e onorevole casta che si asteneva dal lavoro, non a causa della implacabile azione di una crisi economica, ma, come i re, all'insegna di un felice e dignitoso modo di vivere. Se un riformatore avesse loro offerto un aiuto, molto probabilmente essi avrebbero risposto come risposero nel 1951 i mendicanti di Lhasa quando i comunisti cinesi, che invadevano il Tibet, cercarono di "riabilitarli", di liberarli dalla "oppressione", e di migliorare le loro condizioni economiche fornendo loro un lavoro. Invece di mostrarsi grati, essi respinsero con fermezza l'idea di lavorare, affermando che essi seguivano la loro "tradizionale professione" a causa "dei peccati commessi nel passato" e non per una pretesa "oppressione". E quanto essi

1 Jane Whitbread e Vivian Cadden (The lntelligent Man's Guide to Women, Shuman, New York, 1951) hanno ben descritto i vantaggi del progresso quando scrivono: "Ogni espediente escogitato nel secolo scorso per risparmiare la fatica non ha fatto altro che aumentare il lavoro delle donne... Un uomo inventa l'aspirapolvere e... un altro cospira con lui a diffondere l'uso delle tende veneziane, sicché vi e qualcos'altro che l 'aspirapolvere deve fare "in un attimo". Qualcuno inventa una semplice macchinetta per ridurre il melone in pallottole, e non è più comme il faut servire una macedonia di frutta in cui vi siano pezzi di melone mal tagliati. Quando la birra arrivava in barili, era l 'uomo di casa che se la trasportava da sé. Ora che arriva in piccoli e maneggevoli recipienti, anche una donna, da un negozio, è in grado di portarsene a casa una dozzina. Un automobilista che sorpassa con indifferenza una donna costretta a fermarsi da una gomma a terra non può essere accusato di poca cavalleria. Egli sa che, coi cricchi che esistono oggi, anche una donna può cambiare una gomma".

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dovessero essere contenti di soffrire per i peccati commessi in precedenza, si può giudicare dalle parole pronunciate da uno dei loro portavoce: "noi siamo felici di mendicare, e inoltre non siamo abituati a lavorare" 1.

Spesso noi lamentiamo la povertà del Medio Evo, e subito dopo deploriamo la dissolutezza dei principi, che organizzavano per i loro sudditi feste sfarzose che duravano settimane, e la pazzia dei loro vescovi, che ogni mese proclamavano una mezza dozzina di feste religiose. In tal senso, il Professor Pasquale Villari scrive nel suo lavoro su Savonarola che Lorenzo il Magnifico "secondò il secolo in tutte le sue tendenze: di corrotto che era lo fece corrottissimo, spingendolo a ciò per tutte le vie: abbandonossi ai piaceri, e vi fece perdutamente abbandonare il suo popolo, per ubriacarlo e addormentarlo. Infatti Firenze era al suo tempo divenuta un'orgia di piaceri e feste" 2.

Da molte altre fonti sappiamo che questo quadro di baldoria e dissipazione principesca e popolare non è né esagerato né unico, in quanto prevalse in molti altri piccoli Stati. Ma è anche certo che, se questa gente poteva permettersi tali stravaganze concedendosi delle vacanze e il "letargo dell'intossicazione" che neppure il più ambizioso dirigente sindacale dei nostri tempi si sognerebbe di reclamare per i suoi protetti, il suo livello di vita deve essere stato notevolmente più elevato di quanto noi immaginiamo, e l'ultimo mendicante deve aver avuto più piacevoli distrazioni di un membro del potente sindacato minerario di John L. Lewis, che dispone di automobile e di vasca da bagno. Ciò è tanto più sorprendente perché, in contrasto con la sterile stravaganza degli attuali momenti di prosperità, quell'epoca era caratterizzata, non soltanto da un'abbondanza materiale, ma anche da una ricchezza intellettuale. In mezzo a queste baldorie e dissipazioni, sorgevano città di incomparabile bellezza prive di quartieri malfamati, si scrivevano libri che rivelavano un'incomparabile profondità di pensiero, e si dipingevano quadri di incomparabile fascino.

4. La teoria del potere e i cicli economici.

Se noi riuscissimo a respingere l'assurda pretesa di considerarci la

1 "New York Times", 11 novembre 1951.2 Pasquale Villari, Life and Times of Savonarola, Charles Scribner's Sons,

New York, 1896, p. 45.

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generazione più progredita, nonostante il fatto che nessun'altra si sia dimostrata cosi irrimediabilmente incapace di risolvere i propri problemi come la nostra, potremmo finalmente arrenderci all'evidenza dei fatti e comprendere che il mondo di piccoli Stati, dal punto di vita economico, era prospero e soddisfacente quanto altri mai. A prima vista, sembra essere stato meno soddisfacente del sistema su larga scala che lo ha seguito. Ma per quale motivo avrebbe dovuto esserlo? Finora abbiamo proceduto per paragoni, ora bisogna fornire una spiegazione. E il motivo che spiega l'involuzione economica dei tempi moderni è il solito, quello che spiega tutti gli altri problemi dell'universo, cioè che qualcosa aveva assunto proporzioni eccessive. E la cosa che sembra aver assunto proporzioni eccessive non è soltanto l'unità di produzione individuale di cui parleremo in seguito, ma l 'arca di produzione, il territorio economico integrato delle grandi potenze di oggi.

Come abbiamo già detto, la responsabilità del fenomeno non va attribuita a un sistema economico piuttosto che a un altro, ma alle dimensioni delle unità economiche. Tutto ciò che oltrepassa determinati limiti, si trova inevitabilmente di fronte al problema delle proporzioni incontrollabili. Quando ciò accade a una comunità, i suoi problemi non soltanto aumentano a un ritmo maggiore di quello del suo sviluppo; ma sono anche di tipo diverso, proprio perché sono connessi a tale sviluppo e non alla vita della comunità. In questo caso, non e lo sviluppo che è in funzione della vita, ma il contrario, che lo scopo dell'esistenza risulta sovvertito. Economicamente parlando, ciò significa che non appena una società supera le sue dimensioni naturali, dimensioni determinate dalla sua funzione di assicurare all'individuo il maggior numero possibile di vantaggi, una parte sempre maggiore della sua crescente produzione e produttività deve essere impiegata, per elevare non già il tenore di vita personale dei suoi membri, ma il livello sociale della comunità in quanto tale. Fino a un certo punto, i due fenomeni sono complementari e hanno uno sviluppo parallelo; ma poi essi si escludono a vicenda, perché ciò che era un perfezionato strumento di progresso diventa fine a se stesso. Da questo momento in poi, più una società diventa potente, più aumenta la parte della sua produzione che, invece di accrescere i consumi individuali, viene assorbita dalla necessità di risolvere i problemi causati dal sorgere del suo grande potere. Più aumenta la densità della popolazione, più si fa seria l'esigenza di sacrificare risorse sempre maggiori per

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affrontare i problemi provocati da tale crescente densità. Più la società progredisce, più aumenta la quantità di beni che bisogna sacrificare per risolvere i problemi creati da tale progresso. Esempi della prima categoria di questi beni "di sviluppo" che elevano il livello della società senza aggiungere nulla al benessere materiale dei suoi membri, sono quelli che potrebbero essere chiamati i vantaggi del potere , come i carri armati, le bombe, o il perfezionamento dei servizi pubblici necessari per amministrare un'accresciuta potenza. Negli Stati Uniti, l'aumento di produzione in questo settore fra il 1950 e il 1951, espresso in termini di aumento della spesa pubblica, ammontò a non meno di diciotto bilioni di dollari, ovverosia al 72 % del tanto vantato incremento di venticinque bilioni di dollari del prodotto nazionale lordo 1. I beni di sviluppo della seconda categoria, o vantaggi della densità, richiesti dall'incremento della popolazione, e certo non più adatti delle bombe a contribuire alla felicità degli uomini, sono servizi come l'illuminazione stradale, i posti di pronto soccorso, le ferrovie sotterranee, oppure fondi occorrenti per far fronte alle perdite che non si sarebbero mai verificate in società più piccole e meno colpite dalle calamità. Nel 1950, i fondi necessari per riparare i danni provocati dagli incendi negli Stati Uniti, ammontarono a quasi 700.000.000 di dollari2, e quelli necessari per far fronte ai 900.000.000 di casi di incidenti mortali occorsi lo stesso anno — dei quali 35.000 automobilistici, il che significa una perdita di vite umane superiore a quella di molte guerre — ammontarono a 7.700.000.0003 di dollari. I beni di sviluppo della terza categoria, che potrebbero essere chiamati vantaggi del progresso , rappresentano: a) miglioramenti resi necessari in seguito alla realizzazione di determinati perfezionamenti, come quelli apportati ai mezzi di difesa contraerea il cui costo è aumentato, fra il 1945 e il

1 Quanto all 'obbiezione secondo cui il periodo 1950-51 registrerebbe un aumento eccezionale delle spese di governo dovuto alle eccezionali esigenze della difesa, va sottolineato che in futuro gli elevati e crescenti stanziamenti per la difesa non saranno eccezionali ma normali, dato che il pericolo di guerra è un sottoprodotto non già eccezionale ma normale dell ' incerto equilibrio esistente fra le due potenze mondiali. Eccezionale semmai fu l' illusione che si aveva prima del 1950, che provocò una temporanea riduzione delle spese di governo fra il 1945 e il 1950, secondo la quale le spese per la difesa si sarebbero potute di nuovo ridurre.

2 Facts and Trends , National Board of Fire Underwriters, vol. VIII, n. 4.3 National Safety Council , 1950.

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1950, da 10.000 a 275.000 dollari, cioè più di ventisette volte, in modo da far fronte ai progressi realizzati, durante lo stesso periodo, dall'industria aeronautica la quale, a sua volta, ha dovuto mettere a punto nuove invenzioni per sottrarsi alla pericolosità dei migliorati mezzi antiaerei; b) quei beni complementari di cui non abbiamo un bisogno diretto, ma che dobbiamo procurarci insieme ai nuovi ritrovati del progresso che invece desideriamo: per comprendere questo rapporto di complementarietà, si pensi ai bolli di circolazione e allo spazio per parcheggiare rispetto alle automobili, ai lavori di riparazione rispetto agli apparecchi televisivi, alle oziose orchestre che si dedicano alle incisioni rispetto ai dischi che acquistiamo. La maggior parte dei progressi realizzati dalle attuali grandi potenze nel settore della produzione e su cui si insiste con tanto orgoglio, vengono assorbiti da beni di sviluppo che, pur non avendo un'immediata utilità personale, rispondono però a una necessità sociale. Essi incidono soltanto in modo fittizio sul nostro livello di vita, dandoci l'illusione di un accresciuto benessere mentre, come accade della moneta in caso di inflazione, essi non fanno altro che accrescere enormemente il prezzo e lo sforzo che una società in espansione pretende da noi per farci godere dei beni che desideriamo realmente1.

Ma anche se ci lasciamo momentaneamente impressionare dalle cifre sbalorditive registrate dalla produzione nell'ambito di sistemi economici a largo respiro; anche ammettendo che al giorno d'oggi la produzione possa raggiungere livelli così vertiginosi da elevare non soltanto il margine dei beni essenziali ma anche quello dei beni voluttuari; non possiamo tuttavia ignorare il fatto che all'esistenza di sistemi economici su vasta scala è legato il fenomeno dei cicli economici i quali, come faceva Penelope con la sua tela, disfanno nelle oscure notti di crisi quanto è stato creato nei giorni di prosperità. E i cicli economici non rappresentano un carattere peculiare del sistema capitalista, come sostengono in perfetto accordo autori capitalisti e socialisti. Questo è il motivo per cui sia gli uni che gli altri, per risolvere le attuali difficoltà economiche, 1 Il prezzo della società (prezzo di governo, più prezzo di sicurezza, più

prezzo dei beni di produzione necessari a procurarci i beni di consumo) e aumentato negli Stati Uniti dal 27 % del nostro prodotto nazionale lordo nel 1939, al 37 % nel 1951. Per quando l'ultimo dato rappresenti un declino rispetto al 51 % dell'anno 1945 culmine della guerra, la tendenza del costo della società ad aumentare in misura più che proporzionale rispetto all 'aumento del potere di essa, si è affermata in modo stabile fin dal 1947.

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suggeriscono diverse forme di economia controllata. La realtà è che tali cicli, con il loro caratteristico potere di distruzione, sono peculiari dei sistemi su vasta scala, essendo provocati da un eccessivo sviluppo economico. Sarebbe più esatto chiamarli cicli di sviluppo , dato che la loro natura e il loro potere di distruzione dipendono, non già dalla semplice esistenza di un sistema economico, ma dall'eccessivo sviluppo di esso, o, per meglio dire, dall'eccessivo sviluppo dell' industrializzazione e dell'integrazione economica1.1 I cicli economici, concepiti come fluttuazioni periodicamente ricorrenti

delle attività economiche, interessano tutti i sistemi economici esistenti, siano essi grandi o piccoli. Essi sono un segno di vita, e come tali non costituiscono un problema, né possono essere evitati. Ma, mentre esiste una causa generale di tali fluttuazioni che consiste nella stessa dinamica dell 'esistenza, vi possono essere cause speciali che hanno effetti moltiplicatori, sia su tutti i sistemi economici sia su alcuni di essi. Il problema quindi non è costituito dai cicli economici in se stessi, ma dai fattori che eventualmente ne moltiplicano la virulenza, proprio come nell 'uomo quello che desta preoccupazione non è il battito del cuore, ma il suo acceleramento. Prima del sorgere del capitalismo, le fluttuazioni cicliche delle attività economiche erano aggravate dalle fluttuazioni cicliche di forze non economiche, come il tempo, le malattie, o la guerra. Con l 'avvento del capitalismo, alle cause esterne non economiche si sono aggiunte le cause interne economiche, le quali aggravano le fluttuazioni naturali che derivano dal funzionamento stesso del sistema. I moderni teorici del ciclo economico hanno perciò perfettamente ragione quando sostengono che certi cicli, i cicli economici in senso più ristretto, sono caratteristici del sistema economico capitalista basato sul profitto. L'accumulazione del profitto, o come dice Marx, del plusvalore, deve condurre ogni tanto all ' impossibilità di smaltire l ' intera produzione, dato che coloro che sottraggono all 'attività produttiva il profitto in denaro non vogliono acquistare ciò che essi stessi producono in sovrappiù, mentre quelli che sarebbero disposti ad acquistare tale eccesso di produzione, cioè i lavoratori, non hanno un margine di guadagno che potrebbe permettere loro tale acquisto. Da ciò la restrizione dell 'attività produttiva, la disoccupazione, e l' idea che i cicli economia del capitalismo possano essere eliminati con l ' introduzione di un'economia pianificata. Fino a un certo limite, questa tesi tradizionale come pure l ' idea che un efficiente sistema di cura potesse essere quello di adottare forme di controllo, erano perfettamente valide. Però, con l' integrazione su larga scala delle economie moderne, derivante sia dallo sviluppo assunto dal capitalismo economico, sia dalla integrazione politica di unità sociali sempre più vaste, la peculiare causa capitalistica delle fluttuazioni cicliche ha perso gran parte del suo significato. Difatti, anche in regime capitalista, il vero problema delle fluttuazioni cicliche non è mai stato un problema di origine o di natura, ma

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Per avere un'eloquente conferma di quanto sopra affermato, basta dare uno sguardo alla Russia, in cui il comunismo è stato introdotto con la scusa di eliminare una volta per sempre la miseria e lo spreco delle fluttuazioni cicliche. Eppure, malgrado l'adozione di severe misure di controllo, in Russia le crisi si verificano con la stessa regolarità con cui si verificano in qualsiasi altro Stato di grande estensione. L'unica differenza consiste nel fatto che, in quel paese, esse non vengono riconosciute come tali e chiamate con il loro vero nome. Le autorità sovietiche, non riuscendo a comprendere come mai un fenomeno tipicamente capitalista, attribuito allo sforzo dell'uomo d'affari di accrescere il suo profitto, potesse infierire in un paese che rappresenta il centro del comunismo, in cui il profitto non è ammesso come incentivo e in cui si suppone che tutto sia sotto controllo, hanno risolto il dilemma attribuendo le crisi che si verificano con misteriosa regolarità anche nel loro sistema economico, o all'incompetenza o alla criminale negligenza dei "nemici del popolo", delle spie e dei deviazionisti borghesi, nazionalisti e Bukharin-Trotskysti 1. Questo è il motivo per cui le crisi che si verificano in Russia presentano la caratteristica di essere spesso accompagnate da campagne di epurazione nei quadri dirigenti, le quali hanno dato origine a un termine irriverente ma altamente espressivo, che è quello di ciclo di liquidazione. A parte questo, però, esse presentano tutte le caratteristiche tradizionali delle vecchie fluttuazioni cicliche: eccesso di produzione,

di dimensioni, proprio come il problema delle onde del mare non è quello di vedere se esse siano causate dal vento o da movimenti interni delle acque, ma se siano grandi o piccole. E la misura delle fluttuazioni, dipendendo non dal sistema ma dalle proporzioni del complesso sociale integrato attraverso il quale si trasmette il flusso delle attività eco nomiche, è in cosi stretto rapporto coi recenti processi di unificazione, che un'economia controllata è incapace quanto un'economia libera di fronteggiare tale fenomeno, perché anche l 'efficacia dei controlli è subordinata a dimensioni sodali limitate. Quindi, è vero che certi cicli sono originariamente peculiari del capitalismo, ma è altrettanto certo che essi hanno cessato da tempo di rappresentare per il mondo un grave problema. Il moderno problema della scienza economica, come della maggior parte degli altri settori, è un problema di proporzioni, il che rende ormai superata la distinzione fra i vari sistemi. In questo capitolo noi usiamo il termine di ciclo economico per indicare un ciclo di misure e di sviluppo, un ciclo di dimensioni.

1 Harry Schwartz, Russia's Soviet Economy, Prentice-Hall, New York, p. 210.

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disoccupazione, impossibilità di smaltire le riserve che si accumulano in zone che non ne hanno bisogno. A questo proposito, Harry Schwartz, nel suo libro Russia's Soviet Economy, cita le seguenti affermazioni di uno scrittore sovietico:

"le miniere, i macchinari e gli impianti delle industrie leggere e alimentari erano soffocate da un eccesso di produzione... Le ferrovie non erano nemmeno in grado di assicurare il trasporto delle rotaie, delle traverse e delle tubature necessarie per le esigenze stesse del trasporto ferroviario". Verso la fine del 1934, la situazione era peggiorata a tal punto che "vi erano più di tre milioni di tonnellate di legname in attesa d'imbarco, insieme a due milioni di tonnellate di carbone e quasi un milione di tonnellate di minerale. In complesso, un totale di quindici milioni di tonnellate di merce attendeva, in quel periodo, di essere imbarcata. L'industria pesante, da sola, aveva immobilizzati 650.000 vagoni, in attesa di trasporto" 1. E tutto ciò accadeva in una economia controllata.

Quale ne era la causa? Il comunismo? No, naturalmente, dal momento che nelle crisi dei paesi capitalisti accadono le stesse cose. Incapacità delle sfere dirigenti? Ciò è anche meno probabile, perché il dirigente sovietico sa che il suo insuccesso, a differenza di quel che accade nei paesi capitalisti, significa non soltanto la perdita del lavoro e del benessere, ma perfino della stessa libertà. Mancanza di esperienza e di capacità tecnica? Neanche questa sembra essere la vera causa, dato che i paesi capitalisti, nonostante l'esperienza e la capacità tecnica di cui sono indubbiamente in possesso, non hanno potuto evitare le loro crisi. La vera causa è l'incapacità, la pura e semplice incapacità dell'uomo moderno di risolvere i problemi creati da società che hanno raggiunto dimensioni eccessive. Ciò che Thomas Malthus diceva del rapporto esistente fra cibo e popolazione — cioè che la popolazione finirà per essere troppo numerosa rispetto alle risorse alimentari disponibili, a causa della sua tendenza a moltiplicarsi in ragione geometrica a differenza di tali risorse che aumentano in proporzione aritmetica — è vero anche del rapporto esistente fra capacità umana e problemi di grandezza. Infatti, mentre quest'ultimi si moltiplicano in ragione geometrica non appena un organismo comincia a oltrepassare i suoi limiti ideali, la capacità umana di risolvere tali problemi aumenta soltanto in proporzione aritmetica, e anche questo fino a un certo punto. Non v'è laurea, esperienza, istruzione o organizzazione al mondo che possa

1 Ibidem, p. 337.

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compensare la rapidità con cui questi problemi sfuggono al nostro sforzo di risolverli.

Questo è il motivo per cui nessun provvedimento di controllo, sia esso suggerito da Carlo Marx o da Lord Keynes, può offrire una soluzione di problemi che sono sorti proprio perché un organismo è sfuggito a ogni controllo umano. Perciò, la causa dei moderni cicli economici non può essere attribuita al naturale funzionamento del capitalismo, né all' immaturo e mal diretto funzionamento del comunismo. Essa deve essere piuttosto ricercata nelle eccessive dimensioni dei moderni sistemi economici. La ragione è quella che un acuto scrittore sovietico riuscì a dissimulare nel testo del Decreto 26 febbraio 1938, quando egli scrisse, allontanandosi involontariamente dal marxismo ortodosso, che : "Il più grave difetto nei progetti e nelle costruzioni è la gigantomania" 1. E la gigantomania non è una caratteristica del comunismo, ma di qualsiasi sistema che abbia raggiunto uno sviluppo eccessivo.

La tesi secondo cui le fluttuazioni cicliche, considerate come un problema estremamente grave, siano fenomeni non già del capitalismo ma di sistemi economici che hanno raggiunto eccessive dimensioni, sembra essere confermata dal fatto che, mentre esse si verificano nella Russia comunista, che è un grande Stato, hanno invece mancato di manifestare il loro potere di distruzione in alcuni paesi capitalisti, che sono rimasti piccoli sia dal punto di vista politico che dal punto di vista economico 2. Nessuno ha mai sentito parlare di crisi economiche in paesi capitalisti come il Liechtenstein e l'Andorra (la stessa cosa si potrebbe dire di qualsiasi paese che attraversa il primo stadio di sviluppo del capitalismo, il quale è sempre caratterizzato dall'esistenza di piccole unità a regime concorrenziale; l'osservazione vale anche per gli Stati a economia prevalentemente agricola, la cui struttura a base di regioni e di fattorie autonome spezza la loro unità economica). Le loro frontiere sono come dighe, come piloni che si oppongono fieramente alla violenza delle tempeste che sconvolgono gli oceani, permettendo

1 Ibidem, p. 309.2 Non è detto che le due cose debbano necessariamente coincidere. Il

Lussemburgo, politicamente, è uno Stato in miniatura, ma grazie alla sua gigantesca industria siderurgica, dal punto di vista economico rappresenta un'economia su vasta scala. Per queste ragioni, vi si riscontrano fluttuazioni cicliche di considerevole gravità, malgrado il fatto che si tratti di un piccolo paese, perché appunto esso è piccolo politicamente, non economicamente.

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soltanto a qualche piccola onda inoffensiva di penetrare nella raccolta tranquillità della rada. La Svizzera, la Danimarca, la Norvegia e la Svezia, avendo delle industrie la cui sfera economica ha oltrepassato i limiti delle frontiere na zionali, sono un po' più vulnerabili ma, dato che continuano ad essere piccoli Stati, i problemi creati dai cicli economici finora sono stati sempre alla portata delle naturali capacità dei loro risoluti uomini di governo. Qualcuno potrebbe attribuire questo fenomeno, specialmente per quanto concerne la Danimarca, la Norvegia e la Svezia, al fatto che in tali paesi il capitalismo è stato temperato da una politica economica socialista a carattere dirigistico, il che spiegherebbe come gli Stati scandinavi abbiano potuto combattere le crisi con maggior successo degli altri. È vero che essi hanno contenuto le crisi, ma ciò non è dovuto alle misure a sfondo socialista che essi hanno adottato. L'esempio che essi offrono prova soltanto una cosa, cioè che su scala ridotta tutto funziona, il capitalismo come il socialismo. Nell'ambito dei piccoli Stati, solo eventi naturali possono esercitare un'influenza depressiva, e a questi l'ingegno umano può porre riparo. Nei grandi Stati, invece, le crisi sono provocate non da fenomeni naturali ma dalla incapacità umana di far fronte a proporzioni mostruose. Ne deriva che soltanto in tali Stati noi possiamo riscontrare "una miseria in mezzo all'abbondanza". Solo in tali Stati capita di assistere allo spettacolo di fabbriche pronte all'uso, di lavoratori desiderosi di lavorare, di imprenditori ansiosi di produrre, tutti fermi, fianco a fianco, condannati all'inattività da una assoluta incapacità di produrre, della quale non si può dare alcuna spiegazione.

Pertanto, la conseguenza che deriva dal raggiungimento di dimensioni eccessive, è sempre la stessa: cioè l'incapacità di risolvere i problemi che scaturiscono da tale eccessivo sviluppo. Tutto ciò che i sistemi economici su vasta scala possono aver prodotto sotto forma di un aumento della produzione nell'unico settore che conta dal punto di vista dell'elevamento del livello di vita, cioè in quello dei beni voluttuari, viene polverizzato dalle distruzioni cicliche. E ciò che sfugge alla distruzione viene assorbito dalla necessità di dividere la maggiore produzione fra un maggior numero di persone, per soddisfare un maggior numero di bisogni, oppure viene messo da parte a titolo di oziosa riserva per far fronte all'incertezza del domani.

Perciò, si può affermare che i tempi moderni registrano un

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impressionante aumento del reddito totale e del benessere totale , solo se si prendono in considerazione gli agglomerati sociali nel loro complesso e le cifre del reddito nazionale, il che, per parafrasare Marx, rappresenta il soporifero di coloro che si lusingano all'idea di esperimenti macro-economici, che disgraziatamente sono diventati una necessità della vita macrosociale. Ma noi non viviamo in agglomerati macroeconomici, come dimostrava quel giovanotto il quale si lamentava esclamando : "Secondo i dati statistici, vi sono due donne e mezza per ogni uomo, eppure io non ne ho nessuna". Fin quando la società non sarà diventata una cooperativa anonima di api produttrici di miele, noi continueremo a vivere come individui microeconomici, in mezzo alla vita reale e non a medie consolanti. L'unico livello che conta è quello reale. Ed è sul terreno della realtà che noi possiamo capire ciò che non potremmo mai comprendere leggendo i nostri libri di testo, cioè che il tanto vantato sviluppo su vasta scala del nostro tempo non è altro che uno strumento di regresso. Esso tenta invano di andare contro le ferree leggi dell'economia che, come quelle dell'universo in generale, pongono un limite ad ogni espansione e accumulazione. I totali possono anche aumentare, ma i margini diminuiscono. Ed è ai margini che si determina il livello di vita e che noi possiamo constatare come, a ogni nuova solenne proclamazione di cifre record che esaltano il progresso raggiunto e il processo di integrazione, le strade che prima erano pulite diventino sporche; ai margini possiamo vedere come, ad ogni nuova concentrazione economica al centro, sorga un nuovo quartiere malfamato ai limiti della periferia che si ingrossa sempre più e vede sfaldarsi la sua struttura sociale, offrendo lo spettacolo di una miseria che un'economia su scala ridotta non aveva mai conosciuto. Perché, su scala ridotta, il taglio è netto, e non esiste una periferia che si ingrandisce.

Ignari della loro stessa incoerenza, alcuni dei nostri modernisti osservano che i piccoli Stati avevano un'esistenza più felice, essendo di dimensioni ridotte e avendo una popolazione limitata. Ma era proprio per questo! Proprio perché erano piccoli essi potevano risolvere i loro problemi meglio delle grandi potenze di oggi; e potevano farlo senza l'assistenza di menti ingegnose come quelle di Marx, Schacht, Cripps o Keynes. Essi non avevano bisogno di occuparsi di totali che, in grandi Stati, anche per la statistica sono oggetto di congetture e il cui significato non è sempre chiaro neppure agli esperti. La loro vita economica non aveva misteri, ed

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era aperta, visibile e controllabile, ed essi non avevano bisogno di operare sulla base di congetture di cui nessuno al mondo può provare la veridicità, per vasto che sia il suo sapere e numerose le sue lauree. Perfino un Ministro delle Finanze era in grado di capire quel che stesse accadendo, e di dirigere le attività economiche con perfetta consapevolezza, senza salti nel buio. E qualsiasi maestro elementare poteva essere Ministro delle Finanze.

Pertanto, quello che i nostri micro-economisti dovrebbero fare, non è di lamentarsi che i piccoli Stati non avevano grandi problemi perché erano troppo piccoli, consigliando quindi candidamente di eliminarli nell'interesse del progresso economico. Essi dovrebbero invece prima di tutto battersi per eliminare quelle condizioni di fatto che richiedono una organizzazione macro-economica. Se è vero che la gigantomania rappresenta il nostro principale problema economico, come sembra costituire il principale problema politico, è ovvio che la soluzione non va ricercata in un ulteriore processo di integrazione, ma nella restaurazione di un sistema economico microcellulare, in seno al quale tutti i problemi siano ridotti alle proporzioni in cui essi possano essere risolti da tutti, e non soltanto dai geni, che non sempre sono a portata di mano. Quando si parla di un sistema microcellulare , non si intende necessariamente un sistema di piccoli Stati. Ma esso si impone con tale evidenza come il solo rimedio possibile, che perfino la Russia è giunta alla conclusione di abbandonare il sogno di trasformare l'intero paese in una sola fabbrica. Essa piuttosto, come appare con sempre maggiore evidenza, sta adottando un sistema di piccole regioni economiche autosufficienti. Invece di abbattere le frontiere economiche, ha incominciato a ricrearle, con l'intenzione di farne, non già delle barriere doganali, ma delle pareti invisibili dietro le quali innumerevoli economie locali possono svilupparsi, assumendo proporzioni che non sfuggano al controllo di uomini normali 1. La stessa tendenza ha avuto modo di manifestarsi anche in seno a paesi capitalisti sotto la veste del movimento cooperativo , il quale, per eliminare i terrificanti effetti delle violenti fluttuazioni economiche, ha adottato, come principale espediente, quello di creare unità di produzione e di mercato di ampiezza così ridotta, da rendere possibile la valutazione e la predeterminazione della loro attività economica. Dato che le conseguenze del comportamento economico possono essere previste soltanto in unità economiche di modeste

1 S I veda HARRY SCHWARTZ, op. cit.

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dimensioni, la piccolezza del complesso economico è un carattere non già secondario ma fondamentale del fenomeno di cooperazione. Essa esclude per natura la gigantomania, come il primo capitalismo la escludeva per mezzo della concorrenza.

La superiorità produttiva dei piccoli sistemi economici , fondati su unità economiche relativamente modeste, è stata illustrata in un rapporto del Senato degli Stati Uniti, del quale David Cushman Coyle dà il seguente riassunto:

"Un rapporto senatoriale del 1946 paragonava le condizioni di vita di varie città di media grandezza dipendenti da aziende grandi o piccole, ma comunque di tipo molto simile. Nelle città A e C il 95 per cento dei lavoratori dell'industria risultavano impiegati in grandi società anonime; nelle città B e D tale percentuale oscillava fra il 13 e il 15 per cento. I salari erano più elevati nelle città A e C dotate di grandi aziende, ma anche la disoccupazione, nei momenti di crisi, era più grave. Nelle città A e C le scorte erano modeste a causa del grave rischio di disoccupazione, e la gente si recava in altri centri.

"Naturalmente, le città B e D dotate di piccole aziende, avevano fra i loro abitanti meno industriali e operatori economici, ma un numero molto maggiore di redditi da 10.000 dollari; inoltre, il numero dei contribuenti era più elevato, in ragione del 50 e a volte del 100 per cento in più. Ciò significa che la classe media e superiore erano più ampie, con una forma di tassazione soltanto locale. Per conseguenza, queste città dotate di piccole aziende, avevano un numero maggiore di servizi pubblici, una collaborazione più stretta fra il mondo del lavoro e quello delle amministrazioni civiche, e una città più accogliente in cui vivere. Le statistiche non facevano che provarlo. Le città con piccole aziende hanno il 50 per cento in meno di quartieri malfamati, e una mortalità infantile molto più bassa; esse hanno altresì più abbonati ai giornali, più telefoni privati, più contatori elettrici, più affiliati a qualche religione, e parchi e biblioteche più grandi" 1.

5. Il motivo che spiega l'illusione del progresso.

Da qualsiasi punto di vista la si consideri, l'idea che le grandi proporzioni del moderno sviluppo economico abbiano giovato ai

1 DAVID CUSHMAN COYLE , Day of Judgement, Harper and Brothers, New York, 1949, p. 116.

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livello di vita, non è altro che un mito, il quale è stato esaltato con tanta insistenza da assumere la parvenza di una verità irrefutabile. Come è potuta accadere una cosa simile, soprattutto in una epoca le cui velleità scientifiche esigono che ogni cosa sia provata da fatti e da cifre? Non è difficile trovarne la ragione. Prima di tutto, gli studiosi del nostro tempo, nonostante abbiano a disposizione una quantità di cifre, esitano molto a dare interpretazioni che smentiscano i pregiudizi accettati dalla massa. Essi fanno quel che fece quel tale esperto di sondaggi pre-elettorali, di Denver, nel Colorado, prima delle elezioni presidenziali del 1948, quando tutti i suoi calcoli gli davano per certa la vittoria del Presidente Truman. Siccome qualche influente eminenza grigia affermava ex cathedra che il Presidente Truman non aveva probabilità di essere eletto, egli non prestò pili fede ai suoi calcoli e, come egli stesso poi ammise, alterò le sue cifre nel timore che esse, pur essendo esatte, non venissero credute.

In secondo luogo, anche quando gli studiosi non manipolano il materiale che hanno a disposizione, ingenerano false impressioni scegliendo per le loro analisi comparative termini non appropriati. Invece di paragonare grandi e piccoli sistemi economici all'apice del loro sviluppo e in condizioni di piena maturità, come ad esempio quelli degli Stati Uniti e della Svizzera, paragonano il maturo sistema economico americano con piccole economie immature , come quelle della moderna Haiti o dell'Inghilterra medioevale. Per quanto concerne quest'ultimo paese, la cosa si spiega pensando che la storia medioevale dell'Inghilterra è più familiare alla maggior parte di noi di quella di altri paesi. Ma disgraziatamente si tratta anche di uno di quei paesi che nel Medio Evo erano fra i meno progrediti. Naturalmente, prendendo come termine di raffronto l'Inghilterra medioevale invece di Firenze, di Venezia e del Nuremberg, siamo in grado di costruire, riferendoci alla nostra epoca, un'illusione di progresso che non ha niente a che fare con la realtà. La stessa illusione si prova se paragoniamo le nostre case coloniche con quelle della moderna Haiti che, pur essendo piccola, si trova in uno stato di arretratezza. Per avere un quadro esatto, invece, noi dobbiamo paragonare le nostre case coloniche con quelle di piccoli Stati moderni a economia matura , come il Liechtenstein o la Svizzera. Allora, ci renderemo conto che, per esaltare il progresso della nostra epoca, è meglio riferirsi ad Haiti che non alle valli alpine.

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Ma l'errore più grossolano è stato compiuto non tanto rispetto ai paesi, ma ai periodi da confrontare. La ricchezza di fonti che il tenace lavoro di grandi economisti ha messo a nostra disposizione, ci ha abituati a stabilire un raffronto fra due secoli che offrono un'ottima documentazione, cioè il ventesimo e il diciannovesimo. Ambedue sono caratterizzati dallo stesso sviluppo su vasta scala. Riferendoci a questo periodo, noi abbiamo tutto il diritto di affermare che c'è stato un progresso economico. Ma in ciò non v'è nulla di straordinario, considerando che il primo effetto dell'integrazione economica e di uno sviluppo su larga scala è stato, non soltanto un aumento della ricchezza, ma anche della miseria. Marx ha spiegato questo fenomeno nella sua legge dell'accumulazione capitalista il cui solo errore è quello di aver attribuito al capitalismo, in quanto tale, ciò che invece era dovuto all'eccessivo sviluppo delle sue istituzioni 1. Prima che il capitalismo abbandonasse la sua iniziale struttura a base di piccole unità a regime concorrenziale, esso non risenti molto delle conseguenze negative del fenomeno di accumulazione. Difatti, fintanto che le sue cellule erano piccole, esso aveva automaticamente ciò che il nostro tempo cerca disperatamente di realizzare ricorrendo a una politica dirigista: cioè un'armoniosa distribuzione che, come prima cosa, impediva l'accumularsi sia di un'eccessiva ricchezza, sia di un'eccessiva miseria 2.

1 È strano che Marx abbia mancato di collegare la miseria alle dimensioni piuttosto che al sistema delle attività economiche, lui che meglio di qualsiasi altro ha dimostrato che la debolezza del capitalismo si manifesta soltanto quando si sono superati certi limiti. Nella sua opera Contraddizioni del capitalismo , come si è detto in precedenza, egli attribuisce il declino del capitalismo al fatto che il crescente plusvalore porterà a una dimi nuz ione dei profitti; il crescente sfruttamento del proletariato al suo rafforzamento; la crescente produzione a una diminuzione delle possibilità di vendita; la crescente concorrenza a una eliminazione della concorrenza; e il crescente colonialismo alla emancipazione delle colonie. In ogni caso, l'elemento di distruzione consiste nel fatto che ha luogo un aumento di grandezza, e che lo sviluppo si protrae oltre la misura che può essere vantaggiosa. Se Marx avesse tratto dalla sua stessa diagnosi la logica conclusione, egli avrebbe suggerito di impedire uno sviluppo eccessivo, e non di eliminare il capitalismo rimpiazzandolo col socialismo che, lungi dal prevenire tale eccessivo sviluppo, è basato fin dall ' inizio proprio su di esso.

2 Naturalmente, anche allora la ricchezza si accumulava in grandi quantità nelle mani dei principi e dei signori, ma ciò non era dovuto alla funzione

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Fu dunque questo periodo, caratterizzato dall'avvento non già del capitalismo ma di una integrazione economica su vasta scala resa possibile dalla rivoluzione industriale, che ci offri, come prima e caratteristica espressione del suo "stupendo progresso", certi quadri di miseria e certe forme di sfruttamento del lavoro infantile quali nessun arretrato stato medioevale avrebbe mai potuto conoscere. E fu questo periodo che, in modo altrettanto caratteristico, produsse i più grandi movimenti di riforma sociale che il mondo abbia conosciuto. Ma questo fenomeno è un segno di peggioramento e non di progresso. Se i riformatori sociali scarseggiavano nelle epoche passate, ciò è dovuto al fatto che tali epoche erano migliori della nostra. Dopo tutto, l'uomo del quattordicesimo secolo non era certo meno coraggioso e meno desideroso di felicità dei nostri contemporanei. Tutto quello che si può dire a favore dell'idea di un nostro progresso è che il livello di vita del precedente periodo basato su un sistema di piccoli Stati, aveva subito un cosi forte declino sotto il primo urto della rivoluzione industriale e delle sue gravi e sconvolgenti conseguenze, che il successivo miglioramento dimostra soltanto che il nostro attuale livello di vita è più elevato rispetto a quello del diciannovesimo secolo, non già necessariamente rispetto a quello dei periodi precedenti . Né si può dire che esso sia più elevato di quello che ancor oggi si può registrare in piccoli paesi come la Svizzera o la Svezia.

I grandi Stati di oggi, lungi dal risolvere gli insignificanti problemi dei piccoli sistemi economici, li hanno ingigantiti a tal punto che ora essi sfidano qualsiasi soluzione. Se cosi non fosse, come spiegare la servile dipendenza dall'America di grandi potenze come l'Italia, la Francia o la Germania? Come spiegare il fatto che la Gran Bretagna, lottando eroicamente per fare a meno di tale aiuto, non possa offrir altro ai suoi abitanti che le varie edizioni di una continua austerity? Come spiegare il fatto che la potente Russia, priva ormai dell'aiuto americano, non sia in grado di offrire alle sue provate popolazioni nessuna comodità di vita, e inoltre dipenda dai piccoli sistemi economici dei suoi satelliti fino a tal punto da non poter consentir loro, per questo motivo, di abbandonare la sua orbita? E come si può spiegare il fatto che un'altra grande potenza,

economica che essi esercitavano, ma alla loro posizione politica, come capi dei loro rispettivi principati. Come sarebbe assurdo oggi accusare un sindaco di avere a disposizione grandi ricchezze, cosi sarebbe assurdo formulare la stessa accusa nei confronti dei signori di un tempo.

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l'India, fin dal suo sorgere non si sia resa economicamente indipendente ma si sia aggiunta alla lista dei paesi a carico dell'America? Si potrebbe osservare che gli Stati Uniti, almeno loro, offrono l'esempio di un paese che ha felicemente sperimentato uno sviluppo economico su vasta scala. Ma dove sarebbero gli Stati Uniti se le altre grandi potenze non avessero cosi disperatamente bisogno del loro aiuto? Noi dipendiamo da loro nella stessa misura in cui esse dipendono da noi, e più noi dipenderemo da loro e peggio sarà.

D'altra parte, mentre le grandi potenze del mondo, così piene di boria e di presunzione, non sembrano avere altro al loro attivo che la loro incapacità di sostenersi, mostrando di essere buone soltanto a inviare a Washington una missione dietro l'altra, nella speranza di conservare ancora quel che resta della loro dilapidala grandezza, i piccoli Stati — che tali grandi potenze sono cosi bramose di spazzare dalla faccia della terra con la scusa che essi costituiscono degli anacronismi economici — continuano a fiorire con le loro sole risorse. Non si hanno notizie di missioni diplomatiche in cerca d'aiuto provenienti dalla Svizzera, dalla Svezia, dal Liechtenstein, o da quei remoti Stati himalayani come il Nepal, il Sikkim, il Bhutan, e molti altri dei quali non si è mai sentito parlare perché non hanno mai chiesto niente e perché sono in grado di assicurare ai loro cittadini, senza l'aiuto americano, un livello di vita più elevato di quello che possono permettersi, con tale aiuto, i loro potenti vicini. Se i loro rappresentanti di tanto in tanto fanno una capatina a Washington è per una visita di cortesia al Presidente, non certo per chiedere regali. Ciò sembra così incredibile, che i giornalisti di Washington stentano a credere ai loro orecchi quando il Primo Ministro neozelandese Sidney G. Hol land si rivolse loro in questi termini:

"Sto per ritornarmene a casa e sono venuto per porgere i miei rispetti. Ho detto al Presidente che noi non abbiamo da fare nessuna richiesta di nessun genere. Non v'è nulla di cui abbiamo bisogno che non possiamo procurarci con le nostre proprie risorse. Ho avuto occasione di dirgli che noi non siamo venuti in cerca di regali o di prestiti di nessun genere" 1.

Quale rappresentante di vasti regni economici come la Francia, la Gran Bretagna, l'Italia, la Cina o la Russia, potrebbe oggigiorno esprimersi in tali termini? Nessuno! Se a volte capita che anche piccoli Stati si trovino coinvolti in precarie situazioni economiche,

1 "New York Times", 8 febbraio 1951.

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ciò è dovuto al fatto che i loro problemi, come è accaduto nell'ambito della gigantesca area del Piano Marshall, sono stati abbinati a quelli dei loro vicini. Ma, anche in questo caso, essi hanno mostrato una maggiore vitalità dei loro compagni di sventura, come è dimostrato dal fatto che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, i piccoli Stati d'Europa come il Belgio, la Danimarca, il Lussemburgo o l'Olanda, hanno dato alla ricostruzione un impulso che le grandi potenze non hanno conosciuto.

6. La legge della produttività decrescente.

Tuttavia, il principale argomento contro il feticismo dei sistemi economici su vasta scala, non è fornito dalla analisi comparativa condotta sullo sviluppo economico di piccoli e grandi Stati, ma dalle leggi economiche. Ogni studioso di economia, nelle primissime lezioni, deve aver sentito parlare della legge della produttività decrescente come di uno dei principii fondamentali della scienza economica. Esso, però, non è altro che la versione economica del principio delle piccole unità che, come abbiamo visto, impronta di sé tutta la creazione.

La legge della produttività decrescente stabilisce che, se noi aggiungiamo unità variabili di un fattore di produzione a una quantità fissa di un altro fattore, si arriverà a un punto oltre il quale ogni unità addizionale del fattore variabile aggiungerà al prodotto totale meno dell'unità precedente.

Che cosa significa questo discorso? Gli economisti distinguono quattro fattori di produzione: la terra, il lavoro, il capitale e l'impresa. Supponiamo che il fattore variabile sia il lavoro, e che noi aggiungiamo varie unità di lavoro a una quantità fissa di terra. Il prodotto di questa quantità fissa di terra, se coltivata da un solo lavoratore, è, supponiamo, di 10 quintali di grano. Due lavoratori possono portare tale raccolto a 22 quintali, tre a 27, e quattro a 28. Se noi aggiungiamo un quinto lavoratore, il totale può addirittura diminuire, perché in questo caso ciascuno può dar fastidio all'altro, complicando il lavoro invece di accelerarlo. Noi possiamo trarre da questo esempio due conclusioni: ogni lavoratore addizionale, fino al quarto, è in grado di aumentare la produzione totale, ma dal terzo in poi ogni aumento di produzione, per ciascuna unità lavorativa, è caratterizzato da un tasso decrescente . Esprimendoci in cifre, ciò significa che, se noi impieghiamo soltanto due lavoratori, la loro

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produzione totale sarà di 22 quintali, mentre quella individuale di 11. Se ci decidiamo a impiegarne quattro, invece, potremo aumentare il totale di produzione solo di 6 quintali, portandolo a 28 quintali. Ciò significa che, pur disponendo di un numero maggiore di unità lavorative, la produzione individuale, espressa in quantità di grano, è molto minore, essendo scesa da 11 a 6 quintali.

L'applicazione di energie troppo rilevanti a una unità fissa di produzione, ha quindi l'effetto di diminuire l'efficienza individuale invece di aumentarla, per quanto questo fenomeno possa essere per un certo periodo dissimulato da un continuo aumento del totale. Nel caso da noi esaminato, sarebbe ovviamente più vantaggioso impiegare gli altri due lavoratori in una seconda unità di terra, a condizione, beninteso, che vi sia terra disponibile in quantità sufficienti, cioè a condizione che anche questo fattore sia variabile. In tal modo, avendo reso variabili ambedue i fattori, il prodotto per unità di terra scenderebbe da 28 a 22 quintali, ma la produzione individuale salirebbe da 7 a 11 quintali, e il complesso della produzione da 28 a 44. Rendendo variabili anche altri fattori, e ricorrendo a un numero sempre maggiore di piccole unità invece di trasformare un'unica cellula in un sistema di produzione accentrata, è possibile espandere l'attività produttiva ed aumentare l'efficienza generale, facendo fronte, per un certo periodo , all'inesorabile legge della produttività decrescente.

Ma — si potrebbe obbiettare — non è questo un argomento a favore di unità più grandi piuttosto che di unità più piccole? Fino a un certo punto sì, come è dimostrato dalla stessa legge della produttività decrescente, secondo la quale un declino della produzione si verifica soltanto quando è stata raggiunta una certa espansione. Perciò, non soltanto i criteri della logica ma anche quelli dell'economia consigliano di mettere insieme più appezzamenti , fino a raggiungere una grandezza ideale sotto forma di una fattoria. Oltre questo limite, però, il declino dell'efficienza produttiva non può più essere arrestato utilizzando la variabilità dei fattori, dato che uno dei fattori essenziali della produzione, che come gli altri non può sottrarsi alla legge, per sua stessa natura non è soggetto a variazione. Intendo riferirmi all'imprenditore o, nel caso del nostro esempio, al contadino. La capacità imprenditoriale, avendo limiti precisi e non essendo suscettibile di espansione una volta raggiunta la piena maturità, può far fronte soltanto ai problemi di una azienda limitata, una azienda, cioè, le cui attività non

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arrivino all'infinito. Per questo motivo, la legge della produttività decrescente rappresenta un argomento a favore, non già di una limitata espansione, ma di una limitazione, una limitazione proporzionata alle modeste capacità intellettuali dell'uomo.

Ogni produttore conosce ed applica questa fondamentale legge economica, che ne sappia o no il nome. Ed ogni consumatore ne applica una diversa versione che va sotto il nome di legge della utilità decrescente, in cui la produzione in questione non è la creazione di beni ma di soddisfazioni. Noi potremmo sfamarci con dieci unità di pane. Ma, se ne abbiamo la possibilità, preferiamo mangiare una sola unità di pane, insieme ad altre unità di cibi diversi, come la carne, il latte e la frutta. Prendendo soltanto le prime unità di merci diverse, invece che una sola grande unità dello stesso bene, evitiamo la spiacevole diminuzione di soddisfazioni che sarebbe causata da ciascuna unità addizionale dello stesso bene. In tal modo, noi siamo in grado di aumentare l'utilità totale dei nostri pasti, facendo di essi una successione di cibi diversi.

In altre parole, l'aumento della quantità, della mas sa, delle dimensioni, del potere, di qualsiasi altro elemento fisico che possiamo impiegare, non produce un corrispondente aumento nella produttività e nelle soddisfazioni. Fino a un certo punto sì, ma oltre no. Vi è un limite, e il limite ideale è sempre relativamente ristretto. Aristotele ha ancora una volta espresso il significato di uno sviluppo eccessivo nella sua Politica quando scrive:

"Vi è un limite alla grandezza degli Stati, come vi è un limite alle altre cose, le piante, gli animali, gli oggetti; difatti, nessuna di queste conserva il suo naturale potere quando è troppo grande o troppo piccola, e perde del tutto la sua natura, o si corrompe" 1.

Noi abbiamo un'esperienza diretta di questo fenomeno, nei tipici concorsi che vengono indetti oggigiorno per la produzione di frutti o di legumi di proporzioni inusitate. Essi hanno un aspetto veramente straordinario, ma non sono più gli stessi e hanno perso la loro natura. È come premiare l'obesità che, come tutti sappiamo, non è certo un segno di buone condizioni di salute. Che gusto proviamo a mangiare fragole enormi ma che sanno di birra inacidita, o pomodori di grandezza inusitata che sanno di acqua sporca? È il sapore che ci attrae nel cibo, non le dimensioni. E il sapore, come tante altre cose, non cresce con le dimensioni. Ciò che aumenta, ovviamente, se noi aggiungiamo unità di sforzo a quantità fisse, è la produzione

1 Aristotele, op. cit. , 1326 a.

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complessiva , che continua a crescere oltre il limite indicato dalla produttività decrescente. Ma, mentre noi disapproviamo il fatto che una donna cresca di peso oltre il suo giusto limite, ci lasciamo abbagliare e impressionare se un fenomeno simile si verifica nel campo economico, perdendo di vista il nostro fondamentale fine, che è rappresentato non dalla quantità ma dalla qualità, non dall'imponenza dei totali ma dalla armonia del l'unità, non dalla produzione totale, ma dalla produzione individuale . Quattro lavoratori producono più grano di due, ma se tutti e quattro lavorano sullo stesso piccolo pezzo di terra, la produzione individuale è molto inferiore a quella che si avrebbe se a lavorare fossero in due. Questo è quello che conta. Siccome la vita è caratterizzata da un affollamento sempre più intenso, noi non possiamo evitare l'abbassamento della produttività unitaria. Ma questo non è motivo per distrarre la nostra attenzione dalla ineluttabile realtà di una diminuzione dei redditi individuali, cercando di consolarci con certi aumenti fittizi che non contano niente, come quello del totale del reddito nazionale.

7. Le piccole e le grandi unità economiche.

Come la terra, anche le aziende industriali producono di meno per ogni unità aggiunta oltre un certo limite. Secondo la stessa legge della produttività decrescente, la capacità produttiva di un'impresa, quando essa abbia raggiunto determinate dimensioni, comincia a diminuire in proporzione alle risorse impiegate, malgrado la solita, fallace impressione di un continuo aumento della produzione. Questo fatto è così elementare che Louis D. Brandeis ha potuto esprimersi in questi termini :

"Una gran parte del nostro popolo ha anche imparato che nel campo economico efficienza produttiva non aumenta indefinitamente in proporzione alle dimensioni delle aziende. Molto spesso, un'azienda acquista una maggiore efficienza trasformandosi da piccola in grande azienda; ma, in un dato tempo, vi è per ogni azienda un'unità di massima efficienza, sicché, dal punto di vista dell'efficienza, un'azienda può essere troppo grande come troppo piccola"1.

Pertanto, un avveduto uomo d'affari non estenderà mai la sua 1 Louis D. Brandeis, The Curse of Bigness, The Viking Press, New York,

1935, p. 109 .

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produzione fino al limite massimo , ma piuttosto fino al limite migliore , il quale, comunque sia, è notevolmente più basso del massimo. Non sarà mai un gigante le cui forze non possono essere interamente utilizzate. Non vale la pena di spremere dalla propria azienda fino alle ultime gocce, perché queste costano talmente che è meglio farne a meno. Piuttosto, desiderando estendere la sua produzione, il produttore dovrà costruire un'azienda nuova e meccanicamente indipendente, e incominciare di nuovo la battaglia della produttività decrescente, ma con forze fresche, e adottando un sistema di piccole cellule. E quando anche la seconda azienda avrà raggiunto le dimensioni più adatte egli ne costruirà una terza, o meglio ancora egli farà costruire la seconda e la terza da altri, in modo che esse siano non solo meccanicamente ma anche finanziariamente indipendenti, e in modo da aggiungere non soltanto forze fresche ma anche una nuova vitalità e una nuova genialità. Questa è la base di un sano capitalismo, mentre il principale segreto del suo successo è la concorrenza. E siccome concorrenza significa coesistenza di un gran numero di aziende, è necessario che ciascuna unità produttiva sia relativamente piccola.

Pertanto, una sana economia capitalista, lungi dal trarre giovamento da un'eccessiva espansione, dipende più di ogni altro sistema dalla varietà e dal numero delle piccole aziende 1. Questo è quello che ci ha assicurato i più grandi vantaggi, garantendo alle aziende la maggiore efficienza, come possiamo facilmente renderci conto paragonando alcune esperienze personali con alcuni fatti impersonali.

Ognuno sa che cosa significa fare acquisti in grandi magazzini. Certo, è vero che si può comprare tutto in un solo posto, ma si può dire veramente che questo rappresenti un vantaggio? Prima di tutto questi magazzini sono situati in grandi città, e per arrivarci occorre un'ora buona. Inoltre, una volta arrivati, capitiamo in un ambiente

1 Con il termine "piccola" azienda, come con quello di "piccolo" paese, noi intendiamo riferirci, in questo lavoro, a entità che hanno raggiunto le dimensioni ideali. L'uso del termine "piccolo" invece di "medio" o "di media grandezza", a cui intendiamo praticamente riferirci, dovrebbe essere abbastanza eloquente per mettere in risalto il fatto che lo sviluppo verso dimensioni sempre maggiori incontra limiti relativamente ristretti. Nella direzione opposta tali limiti non esistono. Il Liechtenstein è un piccolo paese, e tale è anche la Svizzera. Difatti, malgrado la notevole differenza di estensione fra questi due Stati, sarebbe equivoco considerare la Svizzera una potenza media.

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superaffollato dove siamo assistiti da dinamici servizi d'informazione, spiati da discreti detectives, e sospinti a destra e a sinistra prima di arrivare al banco di vendita. Ci mettiamo in fila e attendiamo docilmente di essere processati senza poter contare sulla abituale cortesia di chi, negli altri negozi, si occupa solo di noi. D'altra parte, le insegne al neon sulle facciate o le iscrizioni sul petto delle commesse sovraccariche di lavoro, contengono belle frasi come Questo negozio vi offre un servizio di fiducia oppure La nostra parola d'ordine è la gentilezza . Per l'amor di Dio. Questa non è altro che una scusa collettiva anticipata di tutte le successive violenze individuali commesse ai danni del cliente. Ed è inutile lamentarsi perché la mancanza di educazione, come ogni altro difetto sociale, è direttamente proporzionata alle dimensioni dell'unità sociale entro cui ci muoviamo. All'ora di pranzo ci sediamo a un altro banco, la cui efficienza consiste nel farci piovere addosso in sessanta secondi le posate e il resto, più il sandwich, il caffè e lo scontrino, in modo da darci la possibilità di riempire lo stomaco in meno di cinque minuti. Infine, ci confondiamo nel vortice della folla che esce e ci ritroviamo nella sotterranea. Appena arrivati a casa, abbiamo bisogno di un bagno caldo e di bere qualcosa per riprendere fiato. In compenso, abbiamo comprato una cravatta risparmiando dieci cents, oppure abbiamo provato il piacere di avere tutto a portata di mano. In una piccola città che non può permettersi treni sotterranei o magazzini generali, noi possiamo procurarci le stesse cose a un prezzo forse leggermente più elevato, ma con un enorme risparmio di energie e di tempo. Non siamo processati ma serviti, e mangiamo in santa pace, senza fretta. Ogni sforzo procura un numero infinitamente maggiore di soddisfazioni, il che, tradotto in termini economici, significa maggiore efficienza. Il disco della vita, regolato al suo giusto ritmo, impiega più tempo a girare, ma in compenso ci fa sentire le belle melodie che il veloce grammofono di un'esistenza di massa trasforma in insopportabili rumori.

Quello che l'esperienza personale dimostra a proposito del consumatore, il quale esaurisce le sue energie alle prese coi supermagazzini e con le grandi città nel l'illusione di risparmiare qualcosa, è confermato da alcuni fatti e dati obbiettivi che si riferiscono al produttore. Quando viene organizzato un grande complesso attraverso la fusione, in una sola impresa, di un certo numero di piccole unità produttive, noi di solito non possiamo fare a meno di meravigliarci di fronte all'imponenza, senza precedenti,

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delle cifre che si riferiscono alla nuova produzione. Abbagliati come siamo da queste cifre, trascuriamo il fatto che il complesso che è stato creato, nella maggior parte dei casi, produrrà meno di quanto sarebbe stato complessivamente prodotto dalle unità in precedenza indipendenti, a meno che tale complesso mantenga alle varie unità che ha assorbito un'autonomia di funzionamento. Ma anche in questo caso, l'aggiunta di nuove fabbriche non potrà sfuggire all'inesorabile legge della produttività decrescente. Tanto per citare ancora una volta Louis D. Brandeis : "Il lavoro umano spesso supera la capacità dell'individuo singolo; a parte l'incidenza che può avere l'organizzazione, di solito è la capacità del singolo che determina il successo o il fallimento di una determinata impresa, sia dal punto di vista finanziario, come convenienza per i proprietari, sia dal punto di vista sociale, come servizio reso alla comunità. L'organizzazione ha certamente una grande importanza nel rendere più efficienti le aziende, e nel creare, in condizioni vantaggiose, unità produttive più ampie. Ma anche l'efficienza dell'organizzazione ha i suoi limiti, perché essa non è in grado di fornire quella capacità di giudizio, quello spirito d'iniziativa, quell'autorità che appartengono ai dirigenti delle aziende. La natura pone un limite al perfezionamento di tali qualità. Come dicono i tedeschi, 'Gli alberi sono fatti in modo che non tocchino il cielo' "1.

Numerosi studi recenti hanno chiaramente dimostrato che l'idea secondo cui grandi unità di produzione sarebbero più efficienti, più produttive e vantaggiose, per lo più non sembra essere altro che un mito. Il Twentieth Century Fund , a conclusione di un'analisi condotta sui dati statistici che si riferiscono ai redditi dell'anno 1919, ha accertato "che le società commerciali più grandi hanno guadagnato meno di quello che in media hanno guadagnato tutte le altre; che quelle con investimenti superiori ai 50.000.000 di dollari hanno guadagnato il minimo, mentre quelle con investimenti inferiori ai 50.000 dollari hanno guadagnato il massimo; e che i guadagni hanno mostrato una costante tendenza alla diminuzione con l'aumentare delle dimensioni delle unità produttive" 2. Un altro studio, che ha preso in considerazione i profitti dell'industria negli Stati Uniti, dopo aver passato in rassegna i dati che si riferivano a

1 Louis D. Brandeis, op. cit. , p. 117.2 Temporary National Economie Committee, Competition and Monopoly in

American Industry , Monografia n. 21, Government Printing Office, Washington, 1940, p. 311.

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2046 industrie di fabbricazione dal 1919 al 1928, è giunto alla conclusione "che le industrie con investimenti al di sotto dei 500.000 dollari hanno goduto di profitti più elevati di quelle con investimenti superiori ai 5.000.000 di dollari, e addirittura doppi di quelle con investimenti superiori ai 50.000.000 di dollari"1. Il quadro è cosi fedele che uno studio dalla Federai Trade Commission , compiuto per conto del Temporary National Economie Committee, è giunto alle seguenti conclusioni:

"I risultati complessivi dell'indagine mostrano che le aziende più grandi, nel complesso, hanno realizzato ben pochi profitti... Inoltre, le ricerche condotte sulla efficienza di gruppo hanno dimostrato che le aziende classificate di media e di piccola grandezza hanno avuto, in generale, costi medi di produzione più bassi o tassi di profitto, sui capitali investiti, più elevati dei gruppi di aziende di grandi dimensioni coi quali sono state messe a raffronto" 2.

Il fatto più sorprendente è che la stessa produzione in serie non sembra trovare le sue condizioni ideali in aziende di grandi dimensioni, se si escludono quelle imprese, come le ferrovie e l'industria siderurgica, che per loro stessa natura dipendono da una

1 Ibidem , p. 311.2 Temporary National Economic Committee, Relative Efficiency of Large,

Medium-sized, and Small Business , Monografia n. 13, Government Printing Office, Washington, 1941, p. 10. Sento il dovere di completare la citazione riportando il testo delle parole che io ho sostituito con i tre puntini; esse dimostrano ancora una volta la fastidiosa pusillanimità di certi autori che, quando i loro calcoli conducono senza dubbio in direzione opposta a quella di risultati accettabili, non osano trarre conclusioni proprie, o quando lo fanno, si affrettano a contraddirle in modo da renderle senza significato. Così, dopo aver detto che le ricerche effettuate rivelavano, a proposito delle grandi società commerciali, condizioni finanziarie meno floride, il rapporto prosegue in questi termini : "Con ciò non si deve credere che nelle ricerche effettuate tutte le società commerciali di medie o piccole dimensioni abbiano registrato costi più bassi o migliori tassi di profitto, rispetto alle società più grandi. La realtà è che, per la maggior parte, i costi più elevati sono stati riscontrati nelle società più piccole; il che a sua volta non deve essere interpretato nel senso che i costi medi delle grandi imprese siano stati necessariamente più bassi dei costi medi delle imprese di medie o piccole dimensioni". Nel testo di cui sopra, ho usato soltanto la prima parte di questo strano ragionamento, perché è chiaro che le grandi imprese o hanno registrato buoni profitti, oppure no. Secondo il rapporto esse non li hanno registrati, e questo è quello che conta; a noi non interessa che gli autori del rapporto abbiano poi attenuato, con dichiarazioni contraddittorie, la portata delle loro conclusioni.

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attrezzatura e da una organizzazione su vasta scala. Difatti, come la esperienza ha mostrato, "l'economia della produzione di serie nel suo vero significato... è più una questione di specializzazione raggiungibile nell'ambito di una singola industria, che non una questione di dimensioni dell' azienda nel suo complesso" 1.E anche nel campo della ricerca scientifica è difficile poter dire che le grandi industrie abbiano avuto quel successo che di solito viene loro attribuito, ma che i fatti non sembrano giustificare. Citando come esempio l'industria delle apparecchiature elettriche, per dimostrare la povertà d'invenzioni dei moderni laboratori mantenuti con forti spese da grandi industriali, T. K. Quinn, egli stesso grande industriale, ex vice Presidente della General Electric Company, presidente del consiglio di amministrazione della General Electric Finance Company, e presidente della Monitor Equipment Corporation, si è espresso in questi termini : "Nessun nuovo elettrodomestico è stato mai creato da alcuna delle grandi industrie; né la prima macchina per lavare, né altri apparecchi come il fornello elettrico, l'essiccatoio, il ferro da stiro, la lampada elettrica, il frigorifero, la radio, la gratella elettrica, il ventilatore, la termocoperta, il rasoio, la falciatrice da prato, la cella frigorifera, il sistema per l'aria condizionata, l'aspirapolvere, la lava trice per i piatti, e il forno elettrico. La funzione delle grandi industrie e stata sempre quella di piombare sul posto, di acquistare l'invenzione e di sfruttarla a cose già fatte"2.

Per tutte queste ragioni, sono proprio gli economisti che hanno riesumato il principio delle piccole unità produttive, e che suggeriscono di instaurare un sistema multicellulare caratterizzato dal più gran numero possibile di imprese indipendenti, sottolineando

1 Sono parole pronunciate dal Professor Frank A. Fetter nella sua deposizione resa di fronte alla Federal Trade Commission (Ibidem, pp. 404 e 405).

2 T. K. Quinn, Too Big , in "The Nation", 7 marzo 1953, p. 211. Illustrando la relativa sterilità dei grandi laboratori, Quinn continua a esporre i suoi argomenti contro le unità economiche di eccessive proporzioni, citando le seguenti parole del Dott. Clarence Cook Little, ex Pre sidente delle Università del Michigan e Maine : "La ricerca scientifica è uno sforzo squisitamente personale... come l'artista, lo scienziato deve avere la possibilità di perseguire le sue idee personali senza essere ostacolato da restrizioni imposte da gruppi organizzati. I grandi gruppi hanno dato contributi veramente notevoli soltanto quando una scoperta originale, fatta da un singolo individuo, si presta ad ulteriori elaborazioni tecniche".

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il fatto che esso sarebbe più sano, più produttivo, più efficiente e più vantaggioso di un sistema composto da aziende gigantesche che si espandono sulla crosta terrestre, prive di qualsiasi freno. Essi si stanno accorgendo che la legge della produttività decrescente è qualcosa di più di una mera formula da discutere nei corsi elementari di economia. Essa, difatti, è elementare: fino a un certo limite, l'aumento delle unità dei fattori produttivi, come avviene per le quantità addizionali di cibo nel corpo umano, accumula feconde energie; oltre tale limite, soltanto sterile grasso. Prima che le aziende o le unioni sindacali raggiungano dimensioni organizzative ideali, tali incrementi dei fattori produttivi vengono impiegati per garantire il compimento delle funzioni economiche di queste organizzazioni; oltrepassato tale limite, essi vengono dissipati in funzione di interessi personali o politici , in speculazioni sbagliate, in favoreggiamenti di una clientela di partito, in ingiustificate ostentazioni di potere, o nelle attività economiche più dispendiose: ad esempio, nella creazione di un margine passivo di sicurezza finanziaria, di cui le imprese eccessivamente sviluppate devono disporre per far fronte a disastri che non si verificheranno mai o che, anche se si verificano non possono essere arrestati.

Perciò i teorici capitalisti ed anche gli uomini d'affari capitalisti sono arrivati al punto di opporsi alla concentrazione economica piuttosto che favorirla 1, mentre molti hanno portato fino alle estreme conseguenze un terribile rischio della concentrazione economica, creando il monopolio. Ma che cos'è il monopolio nel mondo economico ? Né più né meno di quello che è la grande potenza nel mondo politico. Esso limita la produzione materiale e ci impone dei beni indifferenziati e standardizzati, proprio come la potenza politica limita la nostra produzione intellettuale, imponendoci un modo di pensare privo di qualsiasi originalità. Comunque, il problema del potere si manifesta sempre nello stesso modo, sia nel campo fisico, come in quello economico o politico.

1 Si noti che attualmente le imprese si sviluppano in senso biologico, cioè attraverso un processo di moltiplicazione e di divisione, e non in senso politico, cioè attraverso l'unione e l'accentramento. Invece di allargare e potenziare le fabbriche esistenti, se ne costruiscono di nuove su scala ridotta, che non vengono riunite ma distribuite su molte regioni geografiche. Un altro esempio è rappresentato dalla tendenza, affermatasi nei grandi magazzini di vendita, di spezzare la loro unità, creando ciò che Macy's a New York chiama la "sensazionale nuova esperienza" dei "piccoli negozi".

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Come afferma il Professor Henry Simons :"A nessun individuo, a nessun gruppo deve essere mai affidato un

potere eccessivo; sarebbe sciocco poi lamentarsi che i gruppi esercitino egoisticamente il potere che hanno a disposizione. L'errore consiste semplicemente nel fatto di avere permesso loro di possederlo. Il potere monopolistico non può dare luogo che ad abusi, non avendo altro scopo che l'abuso"1.

Ancora una volta ci troviamo dunque di fronte al problema del potere, e ancora una volta le conclusioni a cui siamo giunti ci dimostrano che l'unico modo di risolverlo non consiste nel controllare ciò che per natura è incontrollabile, ma nel suddividere in più unità ciò che ha raggiunto dimensioni eccessive. Anche i nostri macro-economisti suggeriscono la suddivisione, ma a sproposito. Essi cercano di risolvere i problemi economici provocati da ima ineguale accumulazione di ricchezza e di miseria, combattendo gli effetti invece della causa. Essi sono sempre ossessionati dall'idea di dividere, ridividere e ridistribuire il reddito, che è allontanato dalla corrente dinamica della produzione e trascinato verso acque stagnanti. Ma quello che si dovrebbe fare, non è di ridistribuire il reddito derivante dalla produzione, ma di ridurre le dimensioni dell'unità produttiva. Difatti, nelle piccole aziende poco si può risparmiare per accumulare il reddito e tenerlo immobilizzato. Ciò che occorrerebbe fare, dunque, è di ridurre le dimensioni delle imprese eccessivamente sviluppate, moltiplicandone il numero e rendendole più dinamiche. In tal modo, nessun economista sarebbe costretto a perdere tempo nel tentativo di assicurare ima giusta distribuzione del reddito, la quale è a buon diritto considerata come il requisito fondamentale di una sana economia e di una giusta politica di protezione contro le conseguenze eccessivamente gravose delle fluttuazioni cicliche. Difatti, tale distribuzione del reddito sarebbe automaticamente garantita se si attuasse una appropriata ed equilibrata distribuzione delle unità produttive. Un sistema a base di piccole cellule presenta sempre ed ovunque questo grande vantaggio: esso risolve problemi che nessun grado di pianificazione può risolvere quando si verificano su larga scala, riducendoli alle proporzioni in cui essi si risolvono da sé.

1 HENRY S IMONS , op. cit., p. 129.

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8. L'unione economica

Quindi, come possiamo constatare, né l'esperienza, né la teoria economica dimostrano che grandi entità territoriali unificate siano essenziali a un sano sviluppo. Se la forma più produttiva di impresa economica, nella maggior parte dei settori considerati, è rappresentata dalla piccola unità aziendale, non si vede perché si debba circondarla di una gigantesca sfera territoriale di espansione. Ne deriva che una sana economia su scala ridotta, per quanto non presupponga necessariamente un sistema di piccoli Stati, non può comunque trarne che giovamento. Infatti, la piccola impresa rappresenta dal punto di vista economico ciò che il piccolo Stato rappresenta dal punto di vista politico, e il suo sano carattere è dovuto alle stesse ragioni. Perciò, è uno strano paradosso il fatto che molti di coloro che, avendo scoperto la debolezza delle entità economiche eccessivamente sviluppate, si battono per smantellare le grandi industrie, sostengano in politica esattamente il contrario. In tale campo, essi sono talmente presi dall'idea di una progressiva integrazione, che vedrebbero con grande entusiasmo il sorgere di un mostruoso Stato mondiale. Dal punto di vista economico, più che da qualsiasi altro punto di vista, sarebbe molto più consona ai nostri ideali l'eventuale esistenza di migliaia di piccoli Stati piuttosto che di uno soltanto, di rilevanti proporzioni. Questo, naturalmente, se i nostri ideali sono individualistici, perché per un collettivista la cosa è diversa. Ma anche i collettivisti e i totalitari non sembrano più op-porsi allo sviluppo di piccoli sistemi economici autosufficienti, al posto di un incontrollabile e vasto accentramento, come hanno dimostrato i più recenti esperimenti tentati nell'Unione Sovietica.

Tutto ciò dovrebbe dimostrare che l'economia, che si riteneva fornisse il più valido argomento a favore dell'unificazione dell'umanità in sistemi di vaste proporzioni e addirittura in uno Stato mondiale, in realtà, con la legge della produttività decrescente, offre il più eloquente argomento a favore di un sistema di piccoli Stati. Invece di una integrazione centralizzata, essa suggerisce ancora una volta, come principio non già reazionario ma di progresso, lo smembramento di tutti quegli organismi che, come i trusts, i cartelli, le zone di mercato, o le grandi potenze, sono stati colpiti da un processo di elefantiasi.

Tuttavia, l'abbandono dell'attuale sistema di grandi potenze basato sull'esistenza di ampie aree unificate, a favore di un mondo di

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piccoli Stati, non significa necessariamente la distruzione di qualsiasi specie esistente di unità economica, cosi come l'abbandono di una dittatura accentrata a favore della libertà e autonomia dell'individuo, non significa il venir meno di tutti i legami sociali prima esistenti. In altre parole, il particolarismo politico non comporta automaticamente il particolarismo economico, come possiamo agevolmente constatare nel caso degli Stati Uniti o in quello dell'unione economica del Benelux, esistente fra Stati che politicamente godono di una piena indipendenza. Il particolarismo politico non comporta, soprattutto, la restaurazione di certe barriere economiche artificiali come le dogane e le limitazioni al traffico, operanti lungo le frontiere politiche dei piccoli Stati.

È la minaccia di questo risorgere delle frontiere che sembra suscitare tanto timore nei nostri fautori dell'unificazione, ma ciò avviene perché essi non si rendono conto che le frontiere non sono necessariamente delle barriere e che, appunto quando non lo sono, esse diventano per noi una fonte di benessere, non di miseria. Questo è il motivo per cui il nostro istinto ci spinge a creare delle frontiere e non ad abbatterle . Le erigiamo intorno ai nostri giardini sotto forma di steccati, o nell'interno delle nostre case sotto forma di pareti che dividono le stanze. Nei porti, costruiamo dei moli per difenderci dalle tempeste. I confini costituiscono una difesa e per questo devono essere circoscritti e a noi vicini. Eliminarli dalle società umane sarebbe come strappare il guscio dal corpo di una tartaruga, o separare la sponda dall'oceano. La verità è che le frontiere non sono delle barriere. Ciò che noi vogliamo tener lontano dal porto è la tempesta, non già il mare. Se noi trasformassimo una diga che serve a proteggerci in una barriera, respingeremmo l'oceano insieme alle tempeste, rendendo la sua funzione senza significato.

Pertanto, quello che nuoce allo sviluppo umano sono le barriere, non le frontiere protettive, la cui funzione è di mantenere le cose entro giusti limiti. E le barriere, che si potrebbero definire frontiere artificiali, arriverebbero al paradosso di non avere più significato nello Stato capitalista per eccellenza, basato su un sistema concorrenziale, in seno al quale ogni unità economica elimina le sue frontiere fino a trovare automaticamente un equilibrio nelle forze della concorrenza. Il quadro economico ideale di un mondo di piccoli Stati, sarebbe pertanto quello di un'area suddivisa da frontiere economiche di ampio respiro, dotate di un autonomo poteredi regolazione, e soggette a continui mutamenti, area però priva da

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ogni ostacolo artificiale, come le dogane e le barriere al traffico.Pertanto, il sorprendente effetto di un sistema di piccole unità

economiche sarebbe la scomparsa di tutti gli impedimenti che ostacolano i rapporti commerciali, cioè le barriere al traffico e al commercio, senza che ciò comprometta l'esistenza di confini politici o di altre frontiere naturali. La nuova carta economica dell'Europa, per esempio, non dovrebbe prevedere barriere di nessun genere. Difatti, su tale area, potrebbe essere costituita quella che gli economisti chiamano una unione doganale , cioè una zona di libero scambio che non frappone alcun ostacolo alla circolazione dei beni.

Si tratterebbe insomma di una zona unica, ma non unificata, che consisterebbe in una fitta rete di cerchi sovrapposti, alcuni più piccoli altri più grandi, corrispondenti alle sfere economiche delle singole imprese. Da un punto di vista economico, quindi, ogni industria sarebbe come un piccolo regno a sé. I negozianti locali avrebbero, come hanno sempre avuto, una sfera di poche miglia, mentre i loro fornitori all'ingrosso, mantenendo entro giusti limiti le loro dimensioni aziendali sotto lo stimolo della concorrenza, estenderebbero la loro influenza su una zona di alcune centinaia di miglia. Tale influenza potrebbe eventualmente farsi sentire al di là delle frontiere politiche. Alcune industrie, che si dedicano a particolari forme di produzione, come quelle dell'oro o dell'acciaio, avrebbero una sfera economica di forse un migliaio di miglia di diametro. Infine, quelle che, per loro stessa natura, forniscono i continenti o il mondo intero, avrebbero come sfera commerciale i continenti in questione o il mondo intero. In tal modo, senza ostacoli da parte delle autorità politiche, potrebbe svilupparsi una rete di regni economici ciascuno con le dimensioni adatte alle sue particolari finalità.

In tal modo, siamo giunti per via indiretta a prospettare una forma di unità che può essere accolta, dato che, non avendo un carattere istituzionale, non comporta una accumulazione di potere con tutti i pericoli relativi, ma si risolve in una unità di fatto che collega territori contigui e zone di mercato. Sotto questa forma, l'unità ha un significato, e in due sensi. Prima di tutto, frontiere o no, essa esiste comunque. In secondo luogo, essendo una realtà di fatto, deve essere assecondata, in modo che essa possa quasi automaticamente instaurarsi come sistema funzionante, superando tutte le frontiere create dall'uomo. Di questo tipo sono le unioni internazionali di carattere economico a differenza delle unioni

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politiche, come ad esempio la Compagnia Internazionale dei vagoni letto e ristorante, la Unione Postale Universale, e la Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio, creata di recente. Esse rassomigliano a monopoli naturali1 di servizi di carattere economico, e come tali rappresentano le sole unità di produzione per le quali è giustificato uno sviluppo su larga scala. La loro funzione, però, non è quella di unificare entità produttive o politiche, ma, al contrario, quella di facilitarne il funzionamento, mettendole in grado di conservare la loro autonomia e le loro modeste dimensioni. Il loro compito è di collegare, non di fondere, di adattare non di unificare: come le strade che passano attraverso i campi, le quali hanno la funzione non già di facilitare l'assorbimento dei vari poderi in un'unica grande proprietà, ma piuttosto di garantire la loro indipendenza e funzionalità.

Riassumendo, possiamo quindi affermare che anche la scienza economica non fornisce argomenti contro un mondo di piccoli Stati. Difatti, anche nel campo dell'economia, il solo autentico problema sembra essere quello rappresentato dalle dimensioni eccessive delle unità economiche, il quale trova la sua soluzione non già in un ulteriore sviluppo, ma in un arresto di tale sviluppo, non nella fusione ma nello smembramento di tali unità. Abbiamo visto che l'esistenza di alti livelli di vita in grandi Stati appare come un'illusione macroeconomica, mentre in piccoli Stati a economia matura sembra corrispondere a una realtà micro-economica. Abbiamo potuto anche vedere che, non appena aumenta la grandezza dell'unità di produzione, la sua produttività alla fine comincia a diminuire finché, invece di creare energia, produce solo sterile grasso. Abbiamo visto che ciò dipende dalla legge della produttività decrescente, che pone dei limiti alle dimensioni di ogni cosa. Infine, ci sembra di aver individuato l'unico settore economico in cui una forma di unione può avere qualche significato: cioè il settore delle unioni doganali e delle unioni economiche. Anche in questo caso, tuttavia, abbiamo constatato che lo scopo di tali unioni non è quello

1 I monopoli naturali sono rappresentati da quelle imprese che, come i servizi di interesse pubblico, trovano su base monopolistica una organizzazione migliore che su base concorrenziale, anche in sistemi che si fondano altrimenti sulla concorrenza. Questo è l'unico settore in cui la concorrenza sarebbe dannosa. Se in una città i servizi telefonici fossero organizzati da diverse società invece che da una soltanto, ciascun utente sarebbe costretto ad abbonarsi a tutte, per mettersi in comunicazione con tutti i soci e gli amici che possono servirsi di un'altra rete.

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di distruggere il sistema di piccoli Stati distinti con la scusa che esso è ormai superato dai tempi, abbattendo le loro frontiere che sono all'origine di tanta varietà di costumi, di gusti, di cultura, di tendenze artistiche, musicali filosofiche e letterarie, ma piuttosto di assecondare e di preservare l'esistenza di tale sistema.

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CAPITOLO NONO

L'UNIONE ATTRAVERSO LA DIVISIONE

"Bisogna smantellare questi mostri di nazionalismo e mercantilismo".

HENRY C. S IMONS

La piccolezza come fonte di felicità. Il più commovente ritratto di Dio: un bambino nelle braccia di Maria. Il principio delle piccole cellule, come principio basilare dell'unione federale. Tentativi riusciti di federazione: gli Stati Uniti, la Svizzera, il Sacro Romano Impero. Tentativi non riusciti: la Società delle Nazioni, la federazione germanica prima di Bismarck, le Nazioni Unite, gli Stati Uniti d'Indonesia. La causa del loro fallimento: il cancro. Il principio delle piccole cellule come principio di ogni governo. La sua applicazione in Stati centralizzati: Gran Bretagna, Francia, Germania di Hitler. La sua applicazione nelle città. La necessità di smembrare le grandi potenze per assicurare la sopravvivenza delle Nazioni Unite.

L'argomento amministrativo

Ci siamo finora sforzati di dimostrare che il principio delle piccole cellule è il segreto del benessere, mentre il principio della divisione rappresenta il criterio fondamentale di cura. Avendo seguito tali principii attraverso le loro più significative manifestazioni, abbiamo visto che quasi tutti i problemi perdono il loro significato se gli organismi ai quali si riferiscono assumono dimensioni meno ampie. Questo è il motivo per cui, nell'ambito di unità sociali più piccole, come la famiglia, il villaggio, la contea, o la provincia, l'uomo può essere quasi sempre felice, anche se non dispone di doti eccezionali di saggezza. Sono queste, anzi, le sole entità nell'ambito delle quali si può essere veramente felici, perché i problemi che vi sorgono possono essere controllati dall'uomo con la stessa facilità con cui si controlla la reazione a catena di una pila atomica.

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Ma non appena spingiamo lo sguardo oltre l'orizzonte, verso altri lidi, prendendo a cuore vaste moltitudini come le nazioni o l'umanità, tutto comincia a sfuggirci di mano. Quello che era nostro in uno stagno, si perde nella profondità dell'oceano, e le tranquille sensazioni di un tempo sono ora per sempre soggette ai turbamenti che si verificano, ogni momento, in un ambiente più vasto. Nei nostri villaggi, un raccapricciante fatto di sangue può verificarsi una volta in dieci anni, mentre in una grande comunità gli assassinii, i rapimenti, e i furti sono all'ordine del giorno; si direbbe quasi che, in qualche angolo remoto, se ne compiano di continuo. E siccome noi siamo in qualche modo legati anche ai luoghi più remoti, ogni incidente si trasforma in un problema, in una causa, in una calamità nazionale che ci avvelena l'esistenza, non una volta ogni dieci anni, ma continuamente. Dai nostri giornali locali possiamo renderci conto che non una sola delle grandi tragedie che sconvolgono il mondo si verifica nella nostra città. Eppure, dobbiamo soffrire perché i nostri fautori dell'unificazione ci hanno costretto a dividere il nostro destino con milioni di persone che non hanno niente a che fare con noi. Questo è il prezzo della moderna vita di massa. Ci siamo presi a cuore l'umanità intera, e ora dobbiamo dividerne tutte le sofferenze.

Pertanto, l'eccessivo sviluppo degli organismi sociali sembra costituire la vera causa dei nostri mali, come la piccolezza di essi è il segreto della nostra felicità. Questo è il motivo per cui noi ci immaginiamo Dio non come un'entità infinita che non potremmo raffigurarci, ma come un individuo. Invero, la più seducente immagine Sua, è quella di un bambino, un semplice bambino nelle braccia di Maria. Per avere un'idea di lui, nella nostra debolezza di essere umani, abbiamo bisogno di pensare a Lui come a un essere umano. Come Egli ci ha creato a Sua immagine, così noi lo abbiamo creato a immagine nostra. Noi perciò non colleghiamo il supremo concetto della potenza, della sapienza, della giustizia e dell'amore a qualcosa come una collettività di persone o uno Stato, che viene da tanti uomini politici esaltato come superiore all'individuo, ma piuttosto a una singola persona che esiste nella sua circoscritta individualità. Soltanto il collettivista non la pensa a questo modo: il suo dio è impersonale come gli enti che egli venera, quali il partito, il popolo, la nazione o l'umanità.

Tutta questa insistenza sulle piccole dimensioni degli organismi sociali offende i fautori dell'unificazione, che confondono la mole

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con la grandezza. Ma siccome la strada verso uno sviluppo sempre maggiore non ha mai fine, e siccome gli unificatori non potranno mai trovare un limite oltre il quale la massa cessi di accumularsi, essi non possono arrivare che nel regno dell'infinito. In tale regno, essi si faranno interpreti delle sofferenze dell'umanità, e non cesseranno mai di lamentarsi perché in un luogo o nell'altro vi è sempre un motivo per soffrire. Incapaci di godersi un momento di pace, essi sono portati a proiettare nel domani le sofferenze di oggi, e ad anticipare le sofferenze future per rendere più amaro il presente, scongiurando pericoli ancora inesistenti, e soffrendo di quelli che ancora devono venire. Essi tentano di risolvere i problemi di tutte le generazioni future pur essendo assolutamente incapaci di risolvere i loro. Come gli infelici abitanti di Laputa, "essi sono cosi tormentati dall'Apprensione di questi pericoli quasi incombenti, che non possono né dormire tranquillamente nel loro Letto, né avere alcun Gusto per i Divertimenti e i Piaceri comuni della vita" 1.

Ma la nostra posizione rivela ormai i suoi lati singolari. Dopo aver aspramente criticato la tesi degli unionisti e degli unificatori, dopo aver posto i piccoli sul piedistallo da cui abbiamo cercato di togliere i grandi, siamo giunti a un punto in cui i fautori dell'unificazione mondiale possono esserci grati. Difatti, i principii da noi sostenuti, risolvendo tanti altri problemi, risolvono anche quelli dell'unione. In realtà, essi rappresentano i principii fondamentali che sono alla base di tutte le unioni regionali e continentali, e di tutte le forme di Stato mondiale che hanno avuto successo. Soltanto i piccoli Stati possono fondersi in organismi più ampi e più sani. Soltanto i piccoli Stati sono federabili. Ogni volta che un grande Stato partecipa a un'unione federale, la federazione non può durare. Alla fine, essa o diventerà uno Stato accentrato operante nell'interesse del suo membro più forte, o si dissolverà nelle sue parti componenti, non appena sarà scomparsa la causa immediata che ha portato alla sua creazione, come può essere, ad esempio, la paura di un comune nemico. Se in casi simili si desidera la sopravvivenza di tali organismi, essa può essere assicurata soltanto applicando il principio della divisione a tutti quei membri eccessivamente potenti che rappresentano per una federazione quello che il cancro è per il corpo umano. Ciò può anche essere impossibile a realizzare. Ma se i grandi Stati membri che fanno parte delle Nazioni Unite, dell'Organizzazione del Patto Atlantico, o del

1 Jonathan Swift, op. cit., p. 186.

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Consiglio d'Europa non possono essere divisi, la loro unione non può durare, anche se è tecnicamente possibile crearla. La sola cosa che può garantire la vita di una unione è l'applicazione, in seno ad essa, di un sistema di piccole cellule esente da fenomeni degenerativi.

1. Gli esperimenti che hanno avuto successo.

Per comprendere meglio quanto sopra esposto, esaminiamo prima alcuni tentativi di federazione che hanno avuto successo, analizzandone poi altri che si sono invece risolti in un fallimento. Dei primi, gli esempi più conosciuti sono quelli degli Stati Uniti e della Svizzera i cui governi, eccetto nei momenti di crisi, sono così deboli che il mistero della loro coesione ha fatto lambiccare il cervello a molti teorici della politica in cerca di una formula di unione. Siccome tali Stati in apparenza funzionavano quasi automaticamente, senza bisogno di un forte governo centrale che ne cementasse gli elementi, si concluse che il segreto del loro successo andava ricercato nella buona volontà dei loro cittadini, e nel comune fondamento culturale dei loro popoli. Ne deriva che la prima preoccupazione di ogni unificatore del mondo è quella di creare sulla terra una buona volontà, e dì favorire il formarsi di una cultura comune "a prescindere dalla razza, dal colore e dal sesso", utilizzando strumenti come l'UNESCO, i cui zelanti esponenti, predicatori di un vangelo dell'uniformità, sono stati spiritosamente chiamati da un francese, preso da un senso di giustificato disgusto, "ces gens sans race, sans couleur, sans sexe".

Ma la realtà è che né gli Stati Uniti, né la Svizzera si basano sulla buona volontà o su comuni tradizioni culturali. Se così fosse, tali Stati sarebbero crollati da un pezzo, e forse non sarebbero mai esistiti. Per quale motivo i popoli della Svizzera si sarebbero uniti con estranei, piuttosto che coi loro parenti di sangue Tedeschi, Francesi e Italiani? E per quale motivo l'America avrebbe lottato per separarsi dall'Inghilterra alla quale ancor oggi essa è legata da una comune cultura? I vincoli culturali sono così irrilevanti, dal punto di vista politico, che Bernard Shaw ha giustamente attribuito la corrente sotterranea di ostilità che esiste fra Inglesi e Americani, al fatto che essi parlano una lingua comune e lottano per gli stessi ideali.

La grande lezione che si può trarre dagli esempi della Svizzera e

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degli Stati Uniti, non è che il loro esperimento abbia avuto successo grazie alla buona volontà e a una comune cultura, ma che essi abbiano felicemente superato la prova malgrado gravi manifestazioni di cattiva volontà e, nel caso della Svizzera, malgrado l'assenza di una cultura comune. Questi due paesi non rappresentano certo delle istituzioni sempre pacifiche, che possono contare in ogni momento sulla serafica accondiscendenza e sulla straordinaria saggezza politica dei loro cittadini. Al contrario! La loro struttura di base ha una tale intrinseca solidità che — a differenza delle Nazioni Unite, le quali rischiano di disgregarsi alla minima difficoltà, per quanto possano vantarsi di disporre del più alto concentrato di saggezza diplomatica che esista al mondo — essi sembrano in grado di resistere a ogni tipo di corrente e a ogni grado di imbecillità politica, senza subire danni di nessun genere.

Come già abbiamo detto, la ragione che spiega il loro successo è molto semplice. Esso non si può certo attribuire al fatto che i loro membri non desiderino staccarsi dall'unione. Il fatto è che non possono farlo, come possiamo arguire dalle numerose tendenze secessioniste che si sono apertamente manifestate in regioni come il Texas, o come il Midwest, in quest'ultimo caso ad opera del Colonnello McCormick. Essi mancano del potere necessario per dividersi dall'unione. E non dispongono di tale potere perché queste unioni sono basate su un sistema che non è affetto dal cancro politico. Né gli Stati Uniti né la Svizzera, che sono rispettivamente uno dei più grandi e uno dei più piccoli paesi della terra, comprendono nel loro ambito un membro tanto forte da poter sfidare l'autorità federale. Difatti, volutamente o meno, ambedue hanno applicato al loro sistema politico il sano principio delle piccole cellule. Ed è proprio questo, e non la saggezza politica o la comune cultura, che è responsabile del loro successo. Perché ?

Il problema fondamentale di ogni governo federale è quello di possedere un potere esecutivo sufficiente per imporre a tutti i suoi membri l'osservanza delle leggi. Per ottenere questo, è necessario che il governo federale sia leggermente più forte del più forte Stato membro della federazione. Questa non è teoria politica, ma aritmetica amministrativa. In una organizzazione a base di piccole cellule, il problema della superiorità del governo federale sul più forte Stato membro è presto risolto, perché anche lo Stato membro più forte in realtà è debole. In un sistema di grandi potenze, invece, questo è assolutamente impossibile. In primo luogo, la forza di

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polizia che si renderebbe necessaria costerebbe cifre iperboliche. In secondo luogo, nessuno degli Stati membri più potenti sarebbe disposto a sottoscrivere i fondi per mantenere un organo esecutivo capace di oscurare la sua posizione. D'altra parte, gli Stati membri di dimensioni più modeste non sarebbero in grado di provvedere a tale necessità, senza il concorso dei grandi. Da ciò si spiega la patetica insistenza con la quale certe unioni formate da grandi potenze come le Nazioni Unite o il Consiglio d'Europa, si richiamano alla buona volontà degli Stati membri. Ma la buona volontà degli Stati membri. Ma la buona volontà non basta ad assicurare un potere esecutivo, e senza potere esecutivo un organismo politico non può esistere. Ne deriva che le unioni formate da grandi potenze, conducono un'esistenza precaria che dipende dalla volontà degli Stati membri più potenti, i quali sono in grado di paralizzarne a piacimento l'attività, come non mancano spesso di fare.

Possiamo renderci conto quanto sia essenziale alla vita dell'unione federale il principio delle piccole cellule, immaginando cosa accadrebbe se, ad esempio, gli Stati Uniti, che ora sono costituiti da un insieme di quarantotto piccoli Stati, dovessero adottare il principio opposto. Dovremmo allora ragionare in questo modo : "Sbarazziamoci di tutti questi enti politici distinti e del costoso duplicato di governi, di parlamenti, di tribunali e di leggi. Semplifichiamo tale struttura, riducendo il loro numero a quattro o cinque unità integrate su base regionale. Ciò sarebbe del tutto logico, perché gli Stati Uniti, dal punto di vista economico, non sono divisi in quarantotto zone diverse, ma in quattro o cinque soltanto".

Quale sarebbe il risultato di tale sistemazione che, come ben si comprende, si avvicina al sistema suggerito su scala ancor più vasta dai fautori dell'unificazione mondiale? Anch'essi, infatti, sostengono che in primo luogo si debbano creare delle unioni regionali attraverso l'eliminazione delle unità-Stato ora esistenti, per poterle poi fondere in una superunione. Un sistema del genere, applicato agli Stati Uniti, significherebbe la loro fine. I sentimenti di dissidenza e i propositi di secessione, che sono caratteristici di ogni Stato o provincia ma che in fin dei conti recano poco danno in piccole unità politiche, in organismi più ampi si svilupperebbero in tale misura che ben presto sfuggirebbero a ogni controllo. Mentre tutto il mondo rise quando il Colonnello McCormick dell'Illinois,

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notevole personaggio di uno Stato che aveva il difetto di essere piccolo, riferendosi ai membri del governo nazionale di Washington li chiamò "stranieri", lo stesso mondo sarebbe stato preso dal panico se il Colonnello in questione avesse fatto parte di un importante e potente Stato unificato del Midwest. La sua frase, allora, avrebbe veramente potuto trasformare in stranieri i membri del governo di Washington. Parimenti, mentre un Huey Long o un Herman Talmadge, fintanto che rimangono confinati alla Luisiana e alla Georgia, possono dare ben poco fastidio a un governo federale anche debole, come governatori di un grande Stato del Sud, che fortunatamente non esiste, diventerebbero dei temibili Hitler ed anche un potente governo federale non riuscirebbe ad aver ragione di loro.

Per imporre l'osservanza delle sue leggi, Washington, come capitale di una federazione di piccoli Stati, ha bisogno soltanto di essere più forte di New York, uno Stato che sembra gigantesco se paragonato al Rhode Island, ma che in realtà è insignificante rispetto all'unione presa nel suo complesso. Come capitale di una federazione di grandi Stati, invece, composta di quattro o cinque membri fra i quali, supponiamo, uno Stato del Midwest di cinquanta milioni di abitanti, le sarebbe impossibile disporre del potere esecutivo necessario per tenere insieme potenze di tale entità. Come nel caso delle Nazioni Unite, il governo federale potrebbe funzionare soltanto col consenso dei suoi quattro o cinque grandi, i quali, non soltanto pretenderebbero di avere il diritto di veto sulle decisioni federali di qualsiasi specie, ma, in caso che venisse loro negato, lo eserciterebbero comunque per altra via. Difatti, il potere di veto non deriva da un diritto che si possiede ma dalla forza di cui si dispone, cioè dal fatto di trovarsi in condizioni tali da poter sfidare l'autorità del governo federale anche più forte.

Pertanto, il tentativo di semplificare la struttura delle attuali Nazioni Unite, organizzandole sulla base di un numero ristretto di grandi potenze, lungi dal giovare alla loro efficienza, come molti sembrano credere, comprometterebbe quella esistente, rendendo insolubile il problema puramente matematico della imposizione coercitiva delle leggi federali. Invece di garantire una migliore funzionalità della istituzione, questo sistema porterebbe a una ripetizione dell'esperienza europea, con tutto il seguito di lotte e guerre continue. Invero, quando l'unione americana, all'inizio della sua esistenza, era composta da così pochi membri che alcuni fra essi

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si ergevano quasi come grandi potenze rispetto agli altri, il sentimento di ostilità reciproca era a volte così violento da essere paragonabile a quello nutrito nei confronti dell'Inghilterra, e le minacce di guerra e i movimenti di secessione erano tanto frequenti quanto ora sono rari. Se una situazione del genere sembra oggi inconcepibile, ciò si spiega non perché tali Stati siano diventati più saggi, ma perché il potere che può eventualmente sostenere le ambizioni regionali è diminuito con la rigida applicazione del nostro attuale sistema di piccoli Stati distinti. Ma quando, nel corso della nostra storia, un certo numero di Stati, prima reciprocamente collegati soltanto dalla loro comune obbedienza al governo federale, cominciarono improvvisamente a coalizzarsi su base regionale in una forma degenerativa, non soltanto l'unione federale rischiò di spezzarsi, ma la divisione del Nord dal Sud offri al mondo il triste spettacolo di una delle sue più grandi catastrofi, cioè la Guerra Civile americana del 1861. La buona volontà, e la comunanza di cultura, di lingua, di storia, e di tradizioni militari, si rivelarono fattori del tutto insufficienti a risolvere i problemi amministrativi, provocati non dalla fallibilità della natura umana né dalle ostilità locali, ma dalla eccessiva grandezza raggiunta dalle diverse regioni che si erano coalizzate fra loro1.

Un quadro simile ci è offerto dal superbo funzionamento dello Stato federale svizzero, che molti dei nostri esperti politici hanno l'abitudine di esaltare a sproposito. Essi lo additano al mondo come un esempio di vita pacifica condotta in comune da alcuni fra i popoli più diversi della terra. In realtà, nulla è più lontano dal vero di

1 Che differenza rispetto alla facilità con cui, trentanni prima, il Presidente Jackson risolse un problema quasi identico di secessione! Il South Carolina cercò di invalidare una legge tariffaria federale e, in pratica, minacciava di compromettere l' integrità dell'unione, adottando la famosa Ordinanza di annullamento del 1832. Per quanto tale Stato fosse arrivato al punto di reclutare un esercito di volontari, il sistema allora prevalente di piccoli Stati mise Jackson in condizioni di ottenere, con un semplice, energico gesto della sua mano presidenziale, ciò che Lincoln quasi non riuscì a realizzare con l'appoggio di un gigantesco esercito e per mezzo di una guerra rovinosa. Ciò dimostra quanto sia essenziale al successo dell 'unione federale un sistema di piccoli Stati. E ciò mette anche in risalto il pericolo potenziale rappresentato da certe manifestazioni, finora poco importanti, di integrazione regionale, come quelle che si sono avute nel corso dei congressi regionali dei governatori, che hanno luogo di tanto in tanto. Se gli Stati dovessero progredire su questa infida strada dell 'unione regionale, ciò segnerebbe la fine della federazione nazionale.

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questa affermazione. La percentuale dei tre gruppi nazionali svizzeri (senza parlare del quarto, il romancio, che è di ampiezza molto limitata) sono grosso modo le seguenti: 70 per cento di lingua tedesca, 20 per cento di lingua francese, e 10 per cento di lingua italiana. Se le basi di questa famosa unione fossero quelle indicate, il blocco di lingua tedesca finirebbe inevitabilmente per esercitare un predominio sulle altre due nazionalità, che sarebbero logicamente degradate al rango di minoranze comprendenti non più del 30 per cento dell'intera popolazione. Le regole della democrazia non impedirebbero ma favorirebbero tale sviluppo, e le comunità di lingua francese e italiana non avrebbero nessun interesse a rimanere in un organismo prevalentemente tedesco. Un'unione di questo genere, non avrebbe conosciuto maggiore successo di quello ottenuto da Stati nazionali come la Germania, la Francia e l'Italia. In realtà, ciò che spiega il successo della Svizzera non è il fatto che essa sia una federazione di tre nazionalità, ma una federazione di ventidue Stati, i cantoni , i quali, lungi dal costituire un elemento di coesione per i loro ineguali blocchi nazionali, li hanno divisi in parti cosi numerose e minute, che nessuna singola unità federale ha una apprezzabile preponderanza su qualsiasi altra. In tal modo, è stata soddisfatta la condizione essenziale che garantisce il buon funzionamento di una federazione: cioè un sistema che assicura armonia ed elasticità, garantendo un equilibrio fisico e numerico fra le sue parti, le cui dimensioni sono mantenute entro limiti tali da consentire a una autorità centrale anche debole di imporre l'osservanza delle sue leggi.

Il segreto della formula adottata dalla Svizzera è rappresentato pertanto dalla piccolezza delle sue cellule componenti, dalla quale essa ricava le sue garanzie. Lo svizzero di Ginevra e lo svizzero di Zurigo non si differenziano in ragione della loro diversa nazionalità, francese e tedesca, ma in ragione della loro appartenenza a due cantoni diversi, la Repubblica di Ginevra e la Repubblica di Zurigo. Il cittadino del cantone di Uri, di lingua tedesca, è straniero rispetto al cittadino dell'Unterwalden, pure di lingua tedesca, quanto lo è rispetto al cittadino del Canton Ticino, di lingua italiana. Proprio come non esiste fra il Wisconsin e Washington un governo intermedio, cosi non esiste fra il cantone di San Gallo e lo Stato Federale Svizzero una organizzazione intermedia sotto forma di una sub-federazione di lingua tedesca. Il potere delegato ai governo di Berna appartiene alle piccole repubbliche che fanno parte della

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federazione, e non alfe varie nazionalità, perché la Svizzera è un'unione di Stati e non di nazioni.

Bisogna dunque tener conto che in Svizzera vivono (grosso modo) 700.000 Bernesi, 650.000 Zurighesi, 160 mila Ginevrini, ecc., non già 2.500.000 Tedeschi, un milione di Francesi, e 500.000 Italiani. Il gran numero di fieri cantoni democratici e semisovrani, e il piccolo numero di popolazioni cantonali diverse, eliminano qualsiasi possibile ambizione imperialistica da parte di un singolo cantone, perché questo sarebbe sempre superato da una coalizione anche modesta di altri cantoni, la quale non mancherebbe di schierarsi in caso di bisogno a favore del governo federale. Se un giorno, sotto l'impulso delle nostre attuali manie di unificazione e semplificazione, dovesse aver successo il tentativo di riorganizzare la Svizzera sulla base dei suoi gruppi nazionali, i suoi ventidue Stati dichiarati "superflui", coi loro parlamenti e governi separati, diventerebbero tre province della Germania, della Francia e dell'Italia.

2. Altre federazioni che hanno avuto successo.

La struttura a base di piccoli Stati, che è la sola a spiegare il successo di federazioni come gli Stati Uniti e la Svizzera, perché è la sola a risolvere il fondamentale problema di un'autorità esecutiva in grado di imporsi, è responsabile anche del successo di tutti gli altri esperimenti di unione internazionale. Essa prevale nelle federazioni dell'Argentina, del Brasile, del Messico e del Venezuela, come pure in quelle dell'Australia e del Canada. Se tale principio si dimostra meno efficiente in quest'ultimo paese, in cui ogni tanto si verificano delle frizioni nazionali fra popolazione di lingua francese e popolazione di lingua inglese, ciò è dovuto al fatto che esso non è stato applicato in Canada con i dovuti accorgimenti. Due delle sue province, quelle dell'Ontario e di Quebec, comprendenti più di sette milioni di abitanti sui quattordici dell'intero paese, sono diventate così ampie, rispetto a tutte le altre, che potrebbero finire col compromettere l'integrità dell'unione coi loro potenti complessi intrafederali. Siccome la restaurazione di un sano equilibrio fra le ineguali province può essere attuata soltanto applicando il principio della divisione, sono state già avanzate delle proposte "per dirimere le controversie fra una provincia e l'altra, portando il loro numero a

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20"1. Il grave pericolo che corre il Canada, a differenza della Svizzera, è che uno dei due gruppi nazionali vive in un unico grande Stato, la provincia di Quebec, creando in tal modo la base di una coscienza e di una forza nazionale che è stata eliminata in Svizzera grazie al frazionamento dei vari gruppi nazionali e alla creazione di una coscienza cantonale.

Tuttavia, una delle più significative dimostrazioni del valore di questo principio della divisione, concepito come il segreto che spiega il successo di certi esperimenti federali, è offerta non già da esempi contemporanei, ma da una delle più singolari strutture politiche del passato, per quanto il solo nominarla faccia invariabilmente ridere i nostri sofisticati teorici moderni. Intendo alludere al Sacro Romano Impero, a proposito del quale Lord Bryce giustamente ha osservato che esso non era né un Impero né Sacro, né Romano. Si trattava in realtà di una blanda forma di federazione, che riuniva in un solo organismo la maggior parte degli Stati tedeschi e italiani, e che è durata per il fantastico periodo di un millennio. Tuttavia, i nostri teorici, che sono infatuati dall'idea della longevità concepita come simbolo di forza, e che cionondimeno hanno escogitato sistemi che raramente hanno più di un decennio di vita, sorridono con sciocca indulgenza quando sentono parlare del Sacro Romano Impero. Eppure, con tutta la sua debolezza, esso arrivò dove non riuscirono ad arrivare, con tutta la loro forza, uomini come Napoleone, Hitler e Mussolini. E malgrado il suo superstizioso misticismo, tale organismo realizzò quello che gli esperti del nostro tempo non riescono a realizzare con tutto l'ausilio del a loro scienza.

Il motivo che spiega il suo singolare successo e la sua straordinaria durata è che esso era facile da governare. Ed era facile da governare perché era composto di piccole parti. Come ogni organismo politico, esso era tormentato da una quantità di contrasti e di problemi, ma nessuno di questi sfuggì mai al controllo del suo governo centrale, che pure disponeva di limitato potere. Nel suo ambito, anche l'unità politica più vasta era cosi debole che un insignificante Conte svizzero, o un margravio della Baviera, o un duca del Lussemburgo, era in grado di preservare la sua unità con un pugno di soldati e il simbolo della corona imperiale. Comunque, tale simbolo aggiungeva cosi poco al limitato potere di cui costoro

1 Si veda l 'articolo di fondo in "Ottawa Citizen" del 13 ottobre 1948, il quale si occupa della proposta del Professor A. R. M. Lower della Queens University di Kingston, nel Canada.

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disponevano, che Edward Gibbon poteva scrivere del grande Carlo IV, che governò dal 1347 al 1378 e che proveniva dal Ducato del Lussemburgo, che "tale era la vergognosa miseria dell'Imperatore Romano che egli fu fermato da un macellaio per le strade di Worms, e fu trattenuto in una locanda pubblica come pegno o ostaggio per il pagamento dei suoi debiti"1. Quando, alla fine, l'Impero cominciò a disintegrarsi, ciò non fu dovuto al fatto che esso era debole e vacillante, perché, al contrario, questo era il segreto del suo successo. La vera ragione fu che alla fine, dopo quasi mille anni di una esistenza romantica e inoffensiva, cominciarono a svilupparsi sul suo territorio dei movimenti accentratori, che condussero alla creazione di grandi potenze unitarie come la Prussia e l'Austria. Tale unionismo regionale pertanto non preservò ma distrusse questo regno che, nonostante sia stato messo tanto in ridicolo, aveva una sua grandezza e un carattere veramente internazionale. Ciò che era sopravvissuto alla sua vita millenaria, imperniata su un sistema di piccoli Stati, fu alla fine distrutto dalle grandi potenze che si formarono nel suo seno.

Dunque, ogni felice esperimento di federazione internazionale rivela sempre lo stesso segreto: l'esistenza di un sistema di piccole unità sociali. Non pecchiamo quindi di presunzione né forziamo la realtà quando riteniamo che la presenza di tale elemento comune non possa essere attribuita a pura coincidenza. Al contrario, esso rappresenta il segreto del successo di tali federazioni, come la sua assenza è il motivo del loro fallimento, a prescindere dagli auspici sotto i quali tali federazioni vennero costituite, dalla buona volontà che può averle animate, e dalla decisione con cui è stato compiuto il tentativo di farle vivere. Questa conclusione sembra ancor più inevitabile se noi, all'esame delle federazioni che hanno avuto successo, aggiungiamo l'analisi di un certo numero di esperimenti falliti, come quelli della federazione germanica pre-bismarckiana, della Società delle Nazioni, dell'Unione Occidentale, dell'Unione Indonesiana, del Consiglio d'Europa, o delle Nazioni Unite. Può essere macabro e irrispettoso scrivere orazioni funebri mentre qualcuno di questi organismi è ancora in vita. Sarebbe però ancora più macabro contare sulla loro sopravvivenza, quando la previsione del loro sicuro collasso può evitarci di essere colti alla sprovvista e può risparmiarci un'inutile delusione.

1 EDWARD G IBBON , op. cit. , vol. 5, pp. 308-9.

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3. Esperimenti federali che non hanno avuto successo.

Come vi è un carattere comune a tutte le federazioni che hanno avuto successo, cosi ve n'è uno comune a tutte quelle che non lo hanno avuto : nessuna ha applicato alla sua struttura interna il principio delle piccole cellule, e tutte soffrono di cancro politico. Tutte hanno preteso di realizzare un sistema in base al quale nessun organismo può sopravvivere: hanno cioè tentato di fondere piccoli e grandi Stati, senza aver prima ridotto questi ultimi alle proporzioni che potevano assicurare la loro incondizionata subordinazione a un governo federale. Questi tentativi sembrano essersi sempre risolti allo stesso modo, cioè con la distruzione. Soltanto il tipo di distruzione è diverso: se una federazione ha, come Stati membri, diverse grandi potenze, essa finirà per scindersi. Se ne ha una soltanto, gli Stati membri più deboli finiranno per trasformarsi in strumenti del più forte, e si avrà un fenomeno di assorbimento.

Ambedue queste forme di degenerazione si sono verificate nella Germania pre-bismarckiana. In un primo tempo, la federazione si disintegrò in seguito ai conflitti di supremazia scoppiati fra le sue due grandi potenze, la Prussia e l'Austria. Questa fase terminò con l'espulsione dell'Austria nel 1866. In seguito, si ebbe una nuova federazione che comprendeva gli Stati tedeschi più piccoli insieme alla Prussia, che era il colosso uscito vittorioso dal conflitto con l'Austria. Questa nuova federazione non aveva davanti a sé che due vie possibili. Essa poteva disintegrarsi alla maniera precedente, come quasi avvenne, oppure i suoi organi centrali dovevano risolvere il problema di acquistare un potere uguale a quello di cui disponeva lo Stato membro più potente, cioè la Prussia. Ma praticamente vi era solo un sistema per accumulare il potere necessario a imporre coercitivamente l'osservanza delle leggi federali agli Stati più piccoli e alla stessa Prussia: cioè quello di fare uso del potere della Prussia stessa. La imposizione coercitiva delle leggi a Stati più deboli, come la Baviera e la Sassonia, non avrebbe costituito un problema, dato che la forza necessaria poteva essere facilmente ottenuta, attraverso i contributi militari di una mezza dozzina di altri Stati. Ma nessuna coalizione di Stati membri avrebbe mai potuto procurare il potere necessario per imporre alla Prussia l'osservanza delle leggi federali. Questo poteva farlo solo la Prussia stessa. Pertanto, se la nuova federazione tedesca voleva

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sopravvivere come organismo politico unitario, non aveva altra alternativa che diventare lo strumento del suo membro più forte, dato che contro la sua volontà non era in grado di imporre nulla, mentre senza la sua cooperazione non poteva continuare a vivere. Malgrado il radicato particolarismo degli Stati tedeschi, alimentato dalle loro istituzioni monarchiche, la struttura federale, una volta decisa la seconda soluzione, divenne una finzione storica, e quel che emerse non fu una più grande Germania, ma ima più grande Prussia. Pertanto, l'esperimento federale tedesco finì in un duplice fallimento, prima come parziale disintegrazione causata dall'espulsione dell'Austria, la grande potenza rivale, e poi sotto forma di un accentramento di potere compiuto dalla grande potenza che era rimasta, cioè la Prussia.

Un suggestivo esempio moderno che rappresenta un altro caso di distruzione per accentramento, dovuta al fatto che un membro dell'unione federale è una potenza eccessivamente grande, è offerto dagli Stati Uniti d'Indonesia, che hanno avuto una breve vita. Quando furono creati nel dicembre 1949, essi erano composti di sedici Stati, fra i quali ve n'era uno così forte che il suo assoggettamento all'unione, senza il suo stesso consenso, era impossibile : la repubblica di Giacarta. Questo significa che l'unione era sorta malata già di cancro. Come era inevitabile che avvenisse in condizioni simili, Giacarta assunse il nobile compito dell'unificazione e, per usare le stesse parole del "New York Times" dell'8 aprile 1950, "essa minò sistematicamente e progressivamente l'idea federale". Ne derivò un movimento di reazione da parte degli altri membri decisi a distruggere nell'altra maniera, cioè attraverso la scissione, la inattuabile federazione.

Essendo troppo piccoli, però, tali Stati, che si erano ingenuamente e incautamente uniti a Giacarta, non avevano più probabilità di sottrarsi alla sua supremazia imperiale di quante non ne avessero gli Stati tedeschi nei confronti della Prussia dopo l'esclusione dell'Austria. Essi furono perseguitati e oppressi secondo il costume delle grandi potenze finché, sei mesi dopo la proclamazione dell'unione, si trovarono degradati al rango di province centralizzate di uno Stato che esercitava in modo soffocante le sue prerogative di Stato unitario. La federazione si sfasciò, non perché mancasse la buona volontà o il desiderio di autonomia e di libertà, ma perché era priva del solo carattere capace di assicurarne il successo: cioè una struttura microcellulare.

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La stessa debolezza strutturale, e niente altro, ha causato il fallimento della Società delle Nazioni. Questa idealistica iniziativa funzionò bene soltanto per quel che riguardava i piccoli Stati membri che ne facevano parte e che, naturalmente, erano di dimensioni tali da poter essere facilmente controllati. Ma, come è accaduto di altre unioni male organizzate, la Società era afflitta dal cancro delle grandi potenze. Mentre bastava poco per richiamare all'ordine i piccoli Stati, la Società, per avere un controllo effettivo su tutti i suoi componenti, avrebbe dovuto disporre, in termini di pura aritmetica, di un potere esecutivo maggiore di quello di cui poteva disporre il suo membro più forte. E un potere del genere poteva essere fornito soltanto da tale membro, che era la Germania. Per conseguenza, la Società poteva funzionare soltanto come uno strumento della Germania, proprio come la federazione tedesca poteva funzionare soltanto come uno strumento della Prussia. Tuttavia, poiché la Società non era composta da una sola grande potenza, il suo crollo non poteva avvenire attraverso un fenomeno di accentramento, ma sotto forma di disintegrazione. E così avvenne. Quando mostrò tutta la sua impotenza di fronte all'aggressione giapponese della Cina, alla aggressione italiana della Etiopia, e alla aggressione russa della Finlandia, essa si dissolse in cenere. E per quale motivo? Il motivo è sempre lo stesso, e cioè che nessun organismo politico formato da grandi Stati ad esso subordinati, può disporre del potere necessario per mantenerli uniti.

Ciò che ha fatto naufragare la Società delle Nazioni ha causato anche il crollo dell'Unione Occidentale , cioè di quel tentativo già dimenticato, compiuto da un gruppo di Stati membri delle Nazioni Unite, di creare una unione regionale a sé, con la significativa funzione di difendersi da un altro gruppo di membri delle stesse Nazioni Unite: le stesse Nazioni Unite che furono ostentatamente create per rendere superflue tali particolari associazioni di mutuo aiuto. Per quanto fosse composta da un gruppo di Stati amici — la Gran Bretagna, l'Olanda, il Belgio, e il Lussemburgo — l'Unione Occidentale si sfasciò poco dopo la sua creazione, non per mancanza di entusiasmo, ma perché due dei suoi membri erano troppo forti per lasciarsi assorbire.

E ancora una volta i risultati furono gli stessi. Non soltanto gli Stati fondatori erano incapaci di risolvere il problema del potere esecutivo, ma ogni manifestazione di vita minacciava di trasformarsi in un problema, e ogni problema, a sua volta, minacciava subito di

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assumere proporzioni incontrollabili. In una federazione di piccoli Stati come ad esempio quella americana, nessuno di essi arriverebbe al punto di protestare contro la nomina di un Capo di Stato Maggiore per il fatto che proviene dalla Virginia o dal Missouri, o perché non è di New York. Ma nell'Unione Occiden tale, invece, la nomina, nel 1949, di un inglese alla carica di Capo di Stato Maggiore e di un francese a capo delle forze navali, provocò una tale ondata di risentimenti nazionalistici fra le popolazioni dell'unione, apparentemente in perfetta armonia, che tanto il governo inglese come quello francese si videro costretti a placare l'opinione pubblica dei due paesi, assicurando che le truppe francesi sarebbero state comandate da un generale francese, e che la flotta inglese sarebbe stata comandata da un ammiraglio inglese 1. Il che era come dire che nessuna delle grandi potenze facenti parte dell'unione si era mai sognata di accettarne i presupposti, se non per fare di essa uno strumento della sua politica. La conseguenza fu che un altro esperimento federale fallì miseramente, vittima di un cancro politico che non era stato curato.

Ci resta da parlare del Consiglio d'Europa e delle Nazioni Unite. Non c'è nessun motivo di ritenere che tali enti abbiano più probabilità di successo delle organizzazioni che li hanno preceduti. Difatti, anch'essi rappresentano patetici tentativi di vivere malgrado il cancro politico da cui sono affetti, comprendendo nel loro ambito parecchie grandi potenze la cui struttura non è stata in alcun modo modificata. Come suggeri Milton Eisenhower a proposito delle Nazioni Unite nel corso della conferenza dell'UNESCO che ebbe luogo a Beirut nel dicembre 1949, e come molti altri con uguale cognizione di causa hanno suggerito a proposito del Consi glio d'Europa, per rendere efficienti questi organismi sarebbe necessario mettere a loro disposizione una forza di polizia più potente delle forze armate di qualsiasi Stato, o di quelle di "qualsiasi eventuale coalizione di Stari" 2. Però, anche in questo caso, soltanto le grandi potenze, in seno a queste due associazioni, avrebbero la possibilità di fornire collettivamente forze così colossali. Ma che cosa sono le grandi potenze? Sono Stati che per definizione non riconoscono

1 Un'identica difficoltà sorse nel 1951 fra le grandi potenze del Patto Atlantico, quando la nomina di un americano a Comandante in capo delle forze navali, fu considerata un cosi fiero colpo all 'orgoglio britannico che, invece di rinserrare i legami fra gli Stati membri, minacciò di allentarli.

2 "New York Times", 8 dicembre 1949.

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autorità loro superiore. Ben si comprende come esse non abbiano alcun interesse al mondo a favorire la costituzione di un'autorità internazionale, la cui efficienza segnerebbe il loro declino. Non sorprende il fatto che i Cinque Grandi si siano trovati una volta tanto d'accordo nel proporre, attraverso il Comitato di Stato Maggiore delle Nazioni Unite, la creazione di una forza mondiale di proporzioni così ridicole da potersi occupare "soltanto delle controversie fra piccole e medie potenze", dato che in ogni modo le Nazioni Unite sarebbero "incapaci di fronteggiare l'aggressione da parte di una delle cinque grandi potenze" 1. Come se fossero i piccoli Stati a turbare la pace e a costituire la minaccia contro cui una pomposa organizzazione mondiale deve mettersi in guardia!

Ma supponiamo che le grandi potenze siano disposte a dotare organizzazioni internazionali come il Consiglio d'Europa o le Nazioni Unite, delle forze necessarie per renderle efficienti anche nei confronti dei loro membri più potenti. Ne risulterebbe, per il mondo, un onere economico e militare di proporzioni così mo struose che esso non potrebbe essere a lungo sostenuto, dato che le grandi potenze, oltre i loro contributi federali, continuerebbero naturalmente a sostenere le fortissime spese di armamento necessarie per non perdere quella preminenza diplomatica a cui non sanno rinunciare. E anche se tale onere potesse essere sostenuto a lungo, sarebbe necessario creare un organo di controllo così formidabile che il mondo perderebbe in libertà quello che guadagnerebbe in unità. Difatti, soltanto un'autorità esecutiva dotata della più tirannica onnipotenza potrebbe impedire a tali colossi informi, irrequieti e travagliati, di disintegrarsi in una violenta esplosione.

Questo spiega perché nessuno degli esperimenti di unione che si tentano oggigiorno su vasta scala sia in grado di portarci un reale sollievo. Invece di liberarci dall'apprensione e dalla guerra, essi ne moltiplicano i rischi, e noi da tempo ci siamo resi conto nel nostro subcosciente che, più tali unioni riescono a consolidarsi, più esse si avvicinano a quella massa critica in presenza della quale la disintegrazione è un fenomeno spontaneo oltre che inevitabile e senza speranza. Prima che esse esistessero, il mondo aveva almeno di tanto in tanto uno spiraglio di tranquillità e di pace. Ora esso è diventato un'arena nella quale i fautori dell'unificazione dell'umanità cercano di unirci insieme prospettandoci, come fanno molti sacerdoti nella predica domenicale, non già la beatitudine del paradiso, ma gli

1 THOMAS J. HAMILTON , nel "New York Times", del 20 aprile 1950.

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orrori dell'inferno. Indubbiamente essi ci offrono l'unità e la pace, ma una pace fatta di minacce, un'unità fatta di terrore.

Pertanto, se noi abbiamo interesse a creare unioni internazionali in modo pacifico, democratico e non troppo oneroso, e in maniera da garantire la loro efficienza, dobbiamo rifarci al principio organizzativo che è il solo a contenere la chiave del successo, cioè al principio delle piccole cellule, applicando il criterio curativo della divisione a ogni struttura federale comprendente grandi potenze. Quindi, se gli attuali fautori dell'unificazione vogliono veramente attuare i loro piani è necessario che prima di unire essi disuniscano. Se l'unità europea deve essere realizzata sotto gli auspici del Consiglio d'Europa, prima bisogna smembrare le grandi potenze che ne fanno parte in modo che, come avviene in Svizzera e negli Stati Uniti, a nessun membro sia lasciata una sensibile superiorità nei confronti degli altri. Nella loro attuale struttura, la Germania, la Francia e l'Italia, non riusciranno mai ad unirsi. Né possono farlo la Francia e la Gran Bretagna, come se ne è avuta la prova nel caso dell'Unione Occidentale. La cosa è invece possibile se ad unirsi sono piccoli Stati come l'Alsazia, la Borgogna, la Navarra, la Baviera, la Sassonia, il Galles, la Cornovaglia, la Scozia, la Lombardia, il Piemonte. Questi, non soltanto hanno le dimensioni ideali per unirsi, ma a differenza delle attuali grandi potenze, hanno una storia che non conosce il peso di sorde e antiche ostilità, come quelle che disturbano i rapporti fra Inghilterra, Francia e Germania a tal punto che una loro unione non riuscirebbe a cancellarle. La stessa cosa dicasi per le Nazioni Unite, se qualcuno si preoccupasse di mantenerle in vita. I due attuali grandi antagonisti che lottano nel loro ambito, cioè gli Stati Uniti e la Russia, devono essere anch'essi smembrati, per evitare che la loro lotta per l'egemonia comprometta l'esistenza di un ente che essi non possono che dominare o abbandonare. Le grandi potenze, però, sono ribelli a ogni cura quanto il cancro, e attuare lo smembramento non è sempre una cosa facile. Ma, in questo caso, anche l'unione è impossibile.

4. Il principio di governo.

È doveroso esporre un'ultima considerazione a proposito del principio delle piccole unità, concepite come sola base possibile di un'organizzazione sociale. Esso rappresenta il segreto del successo

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non solo di tutti i governi federali , ma di tutti i governi in genere, federali o unitari. In altre parole, esso costituisce non soltanto un principio di governo, ma il principio di governo, e la politica, per quanto ciò possa apparire incredibile ai politicanti da strapazzo, non può violarlo come la fisica non può violare la legge di gravità.

Per questa ragione, gli amministratori, i sovrani e i conquistatori avveduti, invece di mettere in ridicolo tale principio, ne hanno fatto la chiave del loro successo. Da tempo immemorabile, essi hanno cercato di rafforzare il loro potere diminuendo in pari tempo i loro problemi di governo, il che hanno fatto non seguendo il difficile metodo di aumentare il potere governativo, ma scegliendo la ben più facile soluzione di ridurre la grandezza delle unità governative. I Medi e i Persiani costruirono i primi grandi imperi della storia suddividendo le loro conquiste in numerose piccole satrapie, che erano facili da dominare quanto sarebbe stato difficile dominare sterminate regioni. L'impero di Alessandro, che non riuscì a organizzarsi secondo questo sistema, ebbe bisogno di un Alessandro per rimanere in piedi, e crollò subito dopo la sua morte. Ma i Romani applicarono di nuovo tale principio, dividendo il loro vasto e secolare impero in un numero incalcolabile di piccole province facilmente controllabili, in seno alle quali non poteva affermarsi un potere capace di competere col potere relativamente modesto dei Proconsoli Romani. Anzi, essi dettero al principio la sua classica formulazione: divide et impera, dividi e comanda. E la Chiesa Cattolica ha applicato lo stesso principio su scala ancora più vasta, dividendo il mondo intero in una rete cosi fitta di diocesi , da poter imporre la sua legge soltanto grazie alla sua autorità morale.

Come gli imperi, anche i singoli Stati hanno applicato tale principio. Napoleone, da quell'abile amministratore che era, quando riorganizzò la Francia in un moderno Stato unitario, suddivise i pochi ducati dominati dal particolarismo, come la Borgogna, che erano di dimensioni diverse, in più di novanta piccoli dipartimenti, matematicamente snazionalizzati. Questi soltanto potevano essere facilmente governati da Parigi, senza bisogno di forze eccessive che, essendo reclutate fra Stati in precedenza ostili, potevano rappresentare, oltretutto, più un pericolo che un utile strumento nelle mani del governo centrale. Perciò la Francia, politicamente, non conosce più una Borgogna, una Picardia o un'Alsazia. Esse sono state suddivise non in uno ma in parecchi dipartimenti, in modo da impedire ogni futuro affermarsi di un potere regionale autoctono sui

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territori che in passato appartenevano a ducati sovrani.Un sistema simile è stato adottato dalla Gran Bretagna, la quale è

riuscita a cementare il legame fra Stati di diversa ampiezza turbati da una reciproca ostilità, distruggendoli come entità politiche, e sostituendoli con piccole unità di ampiezza quasi uguale, facilmente controllabili: le contee. Politicamente , oggi non esiste più un'Inghilterra, una Scozia, o un Galles. Un'unione di nazioni britanniche piuttosto che di contee britanniche avrebbe avuto scarsissime probabilità di sopravvivere, come si può arguire dal fatto che non appena una di esse, l'Irlanda, riuscì a riorganizzarsi in una unità nazionale, incrinò la solidità del Regno Unito, uscendone. Simili tentativi di riorganizzazione nazionale si verificano in Scozia e nel Galles. Se essi un giorno avessero successo, segnerebbero per sempre la fine del Regno Unito, spezzando quella organizzazione basata su piccole contee che oggi permette al governo di Londra di far sentire la sua autorità in ogni angolo delle Isole Britanniche. Se un giorno questi tentativi aprissero la strada a forme di organizzazione nazionale , il governo di Londra dovrebbe affrontare accumulazioni di potere politico tali da poter essere tenute sotto controllo soltanto grazie a pressioni militari di tale ampiezza che, come ha provato il caso dell'Irlanda, anche una grande potenza finirebbe per non poterne sostenere l'onere.

Lo stesso espediente amministrativo è stato impiegato in Germania quando tale paese fu riorganizzato, sotto il nazismo, in uno Stato rigidamente centralizzato. Per rafforzare il suo potere, Hitler abolì il precedente sistema imperniato su ampie circoscrizioni, adottando una struttura a base di piccole unità amministrative. Nella sua mente, gli Stati storici tedeschi, diversi com'erano in dimensioni e potere, avrebbero costituito un pericolo anche per la strapotenza del nazismo. Così, come la Francia divise i suoi Stati di antica e perigliosa gloria in dipartimenti, e la Gran Bretagna i suoi in contee , la Germania suddivise i suoi antichi e storici Lander in distretti (gaue) di nuova concezione. In tutti e tre i casi, la ragione che suggeriva tali trasformazioni era la stessa. Le nuove unità, artificialmente create, non avevano storia, né ostili inimicizie, né ambizioni concorrenti, e non disponevano del potere sufficiente per opporsi alle norme del governo centrale, intento a dominare un massimo di territorio con un minimo di mezzi. L'espediente in questione ha consentito di raggiungere tali risultati. La Prussia fu pertanto divisa da Hitler, e non dagli Alleati, come

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questi hanno creduto. E se egli non alterò i titoli e i nomi storici, fu soltanto per dissimulare la grande portata delle sue innovazioni, e per addolcire la pillola dei suoi provvedimenti rivoluzionari. Ma dove egli li applicò con spirito di vendetta, come nel caso dell'Austria che in passato gli aveva procurato tanti fastidi e che per così lungo tempo aveva osato sfidarlo, egli non soltanto eliminò lo Stato come unità amministrativa, ma cercò anche di cancellare per sempre il suo nome dalle pagine della storia.

Infine, per completare il quadro, il sistema delle piccole unità che abbiamo visto applicato alle organizzazioni politiche federali e unitarie, prevale anche nel campo del governo locale. I singoli Stati che fanno parte della federazione americana sono a loro volta suddivisi in un gran numero di contee di dimensioni approssimativamente uguali. Inoltre, ogni volta che una di esse mostra la tendenza a svilupparsi eccessivamente, gli organi gerarchicamente superiori, istintivamente preoccupati di preservare la struttura microcellulare, impugnano immediatamente il coltello e tagliano, riducendo le dimensioni, tracciando nuovi confini o creando addirittura nuove contee. Ciò vale infine anche per le città che, applicando un principio di sana amministrazione, noi siamo indotti a suddividere in mandamenti. E questo non è l'ultimo grado di suddivisione, perché i mandamenti vengono distinti in quartieri, e i quartieri in unità più piccole. Al di sotto di queste, l'organismo sociale comincia a dissolversi nella sfera dell'esistenza individuale, e solo allora il processo di divisione si arresta, quando ormai è giunto alle porte di casa nostra.

In conclusione, ovunque noi posiamo lo sguardo nell'universo politico, constatiamo che gli organismi sociali che hanno un soddisfacente funzionamento, siano essi imperi, federazioni, Stati, contee o città, nella loro diversità di lingua, costumi, tradizioni e sistemi organizzativi, hanno in comune un carattere e uno soltanto : una struttura microcellulare. Permeando di sé tutto il sistema, tale principio trova un'infinità di applicazioni in un interminabile processo di divisioni e suddivisioni. Il grande segreto del buon funzionamento di un organismo sociale sembra pertanto risiedere non nella sua unità ma nella sua struttura, mantenuta in condizioni efficienti da un meccanismo di divisione che preserva la sua vitalità, operando attraverso una miriade di frazionamenti cellulari e di ringiovanimenti che si verificano sotto la liscia epidermide di un corpo che apparentemente resta immutato. Nei casi in cui, a causa

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dell'età o di subdole macchinazioni, il processo di suddivisione dà a sua volta luogo a un processo di calcificazione cellulare, le cellule, sviluppandosi sotto la protezione delle loro irrobustite strutture oltre i limiti loro assegnati dai disegni divini, cominciano, come nel cancro, a trasformarsi in potenti agglomerati ostili e arroganti, che non si estinguono se non quando l'organismo colpito è completamente divorato dal male, o quando una coraggiosa operazione riesce a restaurare il sistema microcellulare.

Questo è il motivo per cui certe unioni internazionali come il Consiglio d'Europa o le Nazioni Unite sono condannate al fallimento se mantengono la loro attuale composizione. Comprendendo nel loro ambito un certo numero di inassimilabili grandi potenze, esse soffrono della mortale malattia del cancro politico. Per salvarle, bisognerebbe seguire i consigli del Professor Simons che, riferendosi agli Stati nazionali eccessivamente sviluppati, si è espresso in questi termini:

"Questi mostri di nazionalismo e di mercantilismo devono essere smantellati, sia per preservare l'ordine mondiale sia per conservare la pace interna. I loro poteri di fare la guerra e di creare impedimenti al commercio internazionale devono essere sacrificati a un qualche Stato sovranazionale o a una società di Stati. Gli altri poteri e funzioni di cui dispongono devono essere diminuiti a favore degli Stati, delle province, e, in Europa, dei piccoli gruppi nazionali"1.

Questa è, invero, l'unica maniera nella quale il problema del governo internazionale può essere risolto. Le grandi potenze, questi mostri di nazionalismo, devono essere smembrate e rimpiazzate da piccoli Stati; difatti, come forse alla fine finiranno per capire anche i nostri diplomatici, solo i piccoli Stati sono saggi, modesti, e soprattutto deboli abbastanza per accettare un'autorità superiore alla loro.

1 Henry C. Simons, op. cit., p. 125.

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Capitolo Decimo

LA ELIMINAZIONE DELLE GRANDI POTENZE

La instabilità delle attuali unioni. Lo smembramento delle grandi potenze è un passo necessario. Il problema non è Se un tale risultato possa essere ottenuto, ma Come si possa ottenerlo. La divisione attraverso la guerra. La divisione per rappresentanza proporzionale. L'attribuzione di un maggior numero di voti alle grandi potenze, alla condizione che i rappresentanti federali siano eletti non già al livello nazionale ma al livello distrettuale. La federalizzazione delle grandi potenze. Il graduale e impercettibile smembramento. I distretti corrispondono alle antiche suddivisioni statuali: la divisione perciò non deve essere artificiale. L'innato particolarismo come fattore che assicura l'approvazione popolare. Non si può tornare indietro. La necessità di prevenire la riunificazione dei piccoli Stati.

Si può arrivare a tale risultato?

Nel capitolo precedente abbiamo dimostrato che nessuna soddisfacente organizzazione locale, nazionale, o internazionale può funzionare se non è basata su un sistema di piccole unità componenti. E si tratta del solo sistema che risolve il problema di un'amministrazione efficiente. Da ciò sembrerebbe che né uno Stato mondiale né un'Europa Unita possano durare a lungo basandosi sugli attuali sistemi che raggruppano un'informe accozzaglia di piccoli e di grandi Stati. Organizzazioni di questo genere mancano di quel vitale equilibrio interno che potrebbe assicurare alla struttura federale qualcosa di più che un effimero successo. Perciò, le varie unioni internazionali del nostro tempo, nella loro attuale struttura, possono rimanere salde soltanto sotto la pressione di una forza esterna come la minaccia di un'aggressione. Passato questo pericolo, esse non possono che disintegrarsi, o crollare, o trasformarsi in tirannie di una singola potenza. In quanto libere, le unioni democratiche di Stati non possono sopravvivere.

Per quanto un equilibrio federale, in teoria, possa essere ottenuto

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anche sulla base di un sistema di grandi unità componenti, lasciando cioè intatte le grandi potenze e unendo come contromisura i piccoli Stati finché anch'essi formino potenti blocchi, un equilibrio di questo genere darebbe luogo a un ordinamento così goffo ed informe che ogni sforzo o scossa più leggera metterebbe in pericolo la sua esistenza. Dal punto di vista pratico, perciò, le unioni internazionali debbono cercar di realizzare non il pesante equilibrio statico delle grandi potenze, ma il fluido equilibrio dinamico di sistemi multicellulari a base di piccoli Stati. La soluzione dei loro problemi dunque va ricercata nel campo micropolitico e non in quello macro-politico. Esse debbono | eliminare dai loro sistemi non i piccoli Stati, ma le grandi potenze. Questo è il solo espediente che metterà il loro meccanismo interno in grado di far fronte alle quotidiane frizioni della vita sociale, senza dover ricorrere a un apparato governativo di proporzioni gigantesche il quale, anche se potesse essere creato, non potrebbe essere a lungo mantenuto.

Ma ora s'impone una domanda, anche per coloro che sono stati convinti dalle argomentazioni di questo libro: tutto ciò può essere realizzato? Le grandi potenze possono essere divise? L'Unione Sovietica e gli Stati Uniti saranno disposti ad accettare il loro smembramento, semplicemente per salvare le Nazioni Unite? E la Francia, l'Italia, la Gran Bretagna e la Germania daranno il consenso alla propria liquidazione, semplicemente perché ciò sarebbe saggio? Si può tornare indietro nel tempo?

Si potrebbe facilmente rispondere a questa domanda dicendo che essa è mal posta. Se le regioni come l'Europa desiderano veramente unirsi, la domanda a cui rispondere non è se le grandi potenze possano essere eliminate, ma in che modo possono essere eliminate. Se le regioni che comprendono grandi potenze vogliono unirsi, esse devono smembrare le grandi potenze. E ciò che deve essere fatto, può essere fatto. Anche il tempo può tornare indietro, questo sia detto tanto per usare una di quelle espressioni prefabbricate con le quali i nostri teorici cercano spesso di respingere certe argomentazioni senza affrontarle veramente. Coloro che usano questo slogan per dimostrare l'assoluta impossibilità di smembrare le grandi potenze, sono spesso gli stessi che, nel campo economico, sostengono la necessità di abbattere i cartelli, e distruggere i grandi imperi economici, senza rendersi conto che anche questo significa tornare indietro nel tempo. Ciò che essi considerano reazionario nel campo politico, diventa per loro una fonte di progresso nel campo

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economico. Nessun ingegnere penserebbe mai di mettere in pratica questo slogan se scorgesse delle crepe in un ponte quasi finito. Invece di dire che ormai non si può più tornare indietro, cercherà di fare proprio il contrario, se tiene alla sua reputazione. Demolirà quello che aveva già costruito per ricominciare tutto daccapo. Nessun autore, giunto a un vicolo cieco, manterrà le sue insostenibili posizioni, con la scusa di essere ormai giunto troppo avanti nel lavoro per tornare indietro. Potrà anche continuare, ma in questo caso la sua opera sarà destinata al fallimento. Se invece si deciderà a cambiare tutto, potrà ancora farne un capolavoro. Infine, anche nel suo più stretto significato letterale, il famoso slogan del tempo, che ha causato tanti danni nel campo intellettuale, è senza valore, non soltanto nelle sue applicazioni analogiche, ma anche in senso assoluto, perché in realtà poche cose sono così facili come il tornare indietro nel tempo. Basta provare. La cosa è tanto semplice che non è nemmeno necessario ricorrere a speciali accorgimenti. Senza tanti sforzi, il tempo ogni ventiquattro ore ritorna al punto di partenza, rifacendo a ritroso il suo lento e facile percorso.

Quindi, si può ritornare indietro, e le grandi potenze possono essere eliminate, con la stessa facilità con cui la Francia e la Germania di Hitler furono in grado di eliminare nel loro ambito gli agglomerati sociali troppo potenti, senza dare ascolto ai fautori del particolarismo i quali affermavano che una cosa del genere era impossibile. E invece era possibilissima, e divenne un fatto compiuto. Quindi la sola domanda a cui si deve rispondere è questa: in che modo si può arrivare a un tale risultato ?

Un sistema possibile è quello di ottenere lo smembramento delle grandi potenze attraverso la guerra. Un uomo come Hitler, non avrebbe esitato a farlo, e se ne avesse avuto la possibilità, lo avrebbe fatto senz'altro. La stessa cosa hanno fatto gli Alleati vittoriosi con la Germania la quale, per la prima volta in cento anni, poiché la Prussia è stata divisa in un certo numero di Stati più piccoli di eguale grandezza, ha la possibilità di trasformarsi con successo in una federazione. Adottando lo stesso sistema, gli Alleati, con un piccolo sforzo in più, avrebbero potuto smembrare quello che ancora restava del nucleo centrale della Germania. Ma nessuno potrebbe suggerire un metodo così crudele e sanguinoso per distruggere le grandi potenze, senza essere considerato un fomentatore di guerre. Noi lo abbiamo menzionato soltanto per dimostrare che hanno torto coloro che sostengono che sia

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impossibile smembrare le grandi potenze. Una cosa del genere, se non è realizzabile con altri mezzi, lo è almeno con la forza delle armi, e siccome anche questo è un metodo, ecco provato che lo smembramento è possibile.

Ma fortunatamente la guerra non rappresenta il solo mezzo attraverso il quale si può raggiungere un tale risultato. Le grandi potenze, essendo inclini a un'infantile esaltazione e attribuendo una straordinaria importanza al fatto di essere grandi e potenti, non possono certo venir persuase ad attuare spontaneamente questo smembramento. Ma proprio in ragione del loro infantilismo e della loro facile esaltazione, possono essere abilmente indotte a compiere tale passo. Mentre esse respingerebbero l'idea di un loro smembramento, se venisse presentata sotto forma di richiesta, potrebbero essere inclini ad accettarla, se essa apparisse come una cosa vantaggiosa. Il vantaggio potrebbe consistere nel fatto di poter contare su una rappresentanza proporzionale in seno agli organi di governo dell'unione federale di cui esse entrerebbero eventualmente a far parte. L'accettazione di questa offerta significherebbe la loro scomparsa come grandi potenze.

1. La divisione attraverso la rappresentanza proporzionale.

I sistemi tradizionali di governo, in seno alle federazioni, attribuiscono un ugual numero di voti a ogni Stato membro, senza tener conto della grandezza e dell'entità della popolazione. Ciò è del tutto logico, dato che il diritto internazionale pone sullo stesso piano tutti gli Stati, e non fa dipendere il grado di sovranità da considerazioni quantitative. La Francia, coi suoi quarantacinque milioni di abitanti, non è più sovrana del Liechtenstein, la cui popolazione non arriva a tredicimila. Mentre come potenza è senz'altro superiore, giuridicamente è sullo stesso piano del piccolo principato. E anche la sua entità fisica è unica. Per questa ragione, i grandi Stati membri di organizzazioni internazionali non fanno altro che battersi a favore di una rappresentanza proporzionale, affinché si tenga conto, in modo più realistico, della loro superiorità demografica. Ma finché il diritto internazionale continuerà a considerare gli Stati su un piede di perfetta parità, le grandi potenze non avranno alcuna speranza di soddisfare l'ardente desiderio di veder ufficialmente consacrata la loro superiorità e di ottenere un maggior numero di diritti.

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Sfruttando abilmente questa insoddisfatta aspirazione, si può indurre le grandi potenze ad accettare volontariamente la propria liquidazione. Bisogna conceder loro ciò che tanto desiderano, ma con una contropartita. Ci sia concesso illustrare questo punto con l'esempio del Consiglio d'Europa, che è composto da quattro grandi potenze, cioè la Gran Bretagna, la Francia, la Germania e l'Italia, e da un certo numero di piccoli Stati come il Belgio, il Lussemburgo, la Danimarca, o l'Olanda. Il principale problema che affligge questo organismo e che ne minaccia la sopravvivenza è rappresentato dalla presenza, nel suo ambito, di quattro grandi potenze che, in ragione del loro egoismo, non sono disposte a collaborare. La Francia — tanto per illustrare la tecnica della divisione riferendoci a un paese che rimane avvinto con particolare tenacia ai concetti di potenza e di gloria — non accetterebbe mai di essere suddivisa nelle sue storiche e originarie regioni. Ma certamente non respingerebbe l'invito di far parte degli organi rappresentativi del Consiglio d'Europa se potesse contare, supponiamo, su venti seggi con diritto di voto, a differenza dei tre attribuiti alla Danimarca, dei cinque spettanti al Belgio e all'Olanda, e del solo seggio concesso al Lussemburgo.

Tuttavia, mentre la Francia e gli altri Stati ugualmente favoriti, come la Gran Bretagna o la Germania, accetterebbero senza esitare una tale ridistribuzione di voti, il Lussemburgo, il Belgio, la Danimarca e l'Olanda sarebbero di parere contrario, per la semplice ragione che tale sistema lascerebbe impregiudicata la preminenza delle grandi potenze in seno al Consiglio d'Europa. Anzi, si finirebbe per legalizzare una situazione di fatto che è già insoddisfacente. Ma gli Stati più piccoli avrebbero ben poche obiezioni da sollevare se i venti membri della delegazione francese fossero eletti non su base nazionale , ma su base regionale , in modo che essi avessero delle responsabilità regionali e una rappresentanza regionale . Un tale cambiamento apportato alle origini della delegazione, modificherebbe l'in tero quadro in modo impercettibile ma pure radicale e fondamentale. Questo è l'espediente che potrebbe provocare lo smembramento della Francia. Perché?

La Francia, come è stata spinta da esigenze di amministrazione interna a suddividere il suo territorio in pili di novanta dipartimenti , cosi ora sarebbe indotta dalla prospettiva di aumentare la sua possibilità di voto, a dividersi in venti distretti federali, a tutto vantaggio del Consiglio d'Europa. Ognuno di questi distretti eleggerebbe direttamente i suoi rappresentanti in seno ai vari organi

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federali, e avrebbe il potere esclusivo di formulare le istruzioni necessarie per dirigere la loro attività. Quindi, i venti membri eletti nei vari distretti francesi, non apparirebbero nelle assemblee federali come un tutto unico, ma come venti delegati distinti, rappresentanti non uno ma venti corpi elettorali, non una ma venti maggioranze, e non una, ma venti regioni diverse. Questi delegati sarebbero al servizio soltanto di due organismi politici, il loro distretto e il Consiglio d'Europa, così come gli Svizzeri fanno gli interessi di due unità politiche, il loro cantone e l'intero Stato federale. E, come già abbiamo osservato, proprio come la Svizzera non riconosce alcuna organizzazione intermedia sotto forma di una subfederazione di cantoni tedeschi o francesi, suscettibile di provocare una frattura fra cantone e Stato federale, così il Consiglio d'Europa o, come potrebbe essere eventualmente chiamato, gli Stati Uniti d'Europa, non riconoscerebbero alcun organismo intermedio sotto forma di una subunione di distretti francesi. Da un punto di vista federale pertanto, sia la Francia, come la Gran Bretagna, la Germania e l'Italia, cesserebbero di esistere come membri componenti dell'Unione Europea.

Tuttavia, la semplice suddivisione della Francia in vari distretti del Consiglio d'Europa, non sarebbe sufficiente. La Francia, infatti, è uno Stato rigidamente unitario, e, come gli altri, deve il suo sviluppo come grande potenza proprio a questo fatto. Fintanto che esisterà accentramento, esisteranno le grandi potenze, e qualsiasi forma di smembramento, in queste condizioni, non sarebbe altro che una finzione. Per rendere effettiva tale divisione, le grandi potenze dovrebbero intraprendere una radicale riforma interna. Come passo preliminare verso una loro effettiva integrazione nell'ambito di un'organizzazione internazionale più vasta, esse dovrebbero prima di tutto trasformare la loro struttura amministrativa interna in un sistema federale decentrato. Ciò renderebbe effettiva la loro divisione, e aprirebbe veramente la strada a un loro graduale smembramento. Carattere peculiare delle vere federazioni è che la maggior parte del potere pubblico è affidato alle piccole unità politiche che le compongono, mentre una quantità di potere sempre minore è riservato agli organi di governo gerarchicamente superiori. In tal modo, il potere è nelle mani di chi non può recar danno, ed è negato a quelle unità politiche che potrebbero assumere pericolose proporzioni ed essere tentate di abusarne. Se in seno a una federazione gli organi gerarchicamente superiori non hanno poteri

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eccessivi loro propri, non può svilupparsi alla sommità nessuna accumulazione di potere capace di compromettere l'esistenza dell'insieme. Ne deriva che sarebbe relativamente facile trasferire a un'autorità internazionale più vasta quel limitato nucleo di poteri che ancora appartengono al governo centrale. In tal modo, lo smembramento sarebbe realizzato, in forma inoffen siva, attraverso la federalizzazione interna delle grandi potenze, ottenuta proponendo di sostituire alla rappresentanza nazionale una forma di rappresentanza proporzionale. Il Professor Simons ha suggerito un'idea simile quando si è espresso nei seguenti termini:

"Un grande vantaggio del federalismo o del decentramento applicato in forma radicale nell'ambito delle grandi potenze, è il fatto che esso facilita il loro avvicinamento a forme di organizzazione mondiale e il loro agevole assorbimento in federazioni ancora più vaste. Se i governi centrali non esercitassero gli ampi poteri di cui sono depositari e li possedessero semplicemente per impedire il loro esercizio da parte delle unità componenti o di organismi extragovernativi, si arriverebbe facilmente, se non addirittura in forma quasi spontanea, a creare delle organizzazioni sopranazionali. Invero, tale decentramento dei grandi Stati rappresenta nello stesso tempo il fine e il mezzo delle organizzazioni internazionali" 1.

Il punto ora è questo: si può indurre la Francia o qualsiasi altra grande potenza ad accettare tale autodivisione attraverso la federalizzazione? La risposta è affermativa, e per una quantità di ragioni. In primo luogo, come abbiamo già detto, tale divisione verrebbe presentata come una cosa vantaggiosa. Ai Francesi (non alla Francia in quanto tale) invece di un solo seggio in seno al Consiglio d'Europa, ne verrebbero offerti venti. Siccome la federalizzazione verrebbe attuata gradualmente e non comporterebbe l'estinzione dei poteri governativi ma semplicemente una redistribuzione degli stessi, né sanzionerebbe ufficialmente la fine della Francia come Stato, i sentimenti patriottici non ne sarebbero feriti. Il rivoluzionario cambiamento conserverebbe un carattere puramente interno. Si tratterebbe di una distruzione che non distruggerebbe nulla di veramente importante, insomma di una eliminazione che non farebbe vittime. Non vi sarebbero leggi straniere o occupazione straniera, né alcuna variazione nel traffico, nel commercio o in altri settori, a parte il fatto che le autorità e i

1 HENRY C. S IMONS , op. cit., p. 21.

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poteri costituiti vivrebbero più a contatto dell'individuo, permettendogli di avere, nella più piccola sfera delle nuove unità sovrane, una dignità e un'importanza che prima non possedeva. Egli troverebbe il cambiamento piacevole, e non sgradevole. Difatti, il suo distretto conoscerebbe una nuova vitalità, e il suo capoluogo di provincia un nuovo fascino, mentre il suo prefetto si trasformerebbe da funzionario di nomina governativa a capo elettivo di uno Stato. Tutta una nuova serie di complicate attività si svolgerebbero allora vicino a casa sua, invece che nella lontana Parigi; sorgerebbero nuovi governi e nuovi parlamenti e potrebbero essere soddisfatte le ambizioni di molte persone invece che di poche soltanto.

Il reale smembramento politico e internazionale della Francia si attuerebbe così senza essere praticamente avvertito, il che non diminuirebbe la sua effettività. I delegati provinciali della Normandia, della Picardia o di Pau, non si riunirebbero più a Parigi, ma in una nuova capitale federale che potrebbe aver sede a Strasburgo, o altrove. Siccome questa sarebbe la capitale di un'area più ampia della Francia, tali delegati potrebbero incontrarne altri provenienti da altre regioni dell'unione, anch'esse organizzate in forma federale. Mentre in un primo tempo potrebbe ancora persistere una parvenza di unità tradizionale in seno ai gruppi dei de legati francesi, tedeschi, italiani, o inglesi, in seguito il sorgere di particolarismi regionali e di contese individualistiche presto distruggerebbe gli ultimi vestigi degli attuali blocchi nazionalistici delle grandi potenze. Senza un'autorità che funzioni da fattore intermedio di unificazione, vedremmo presto dei conservatori della Borgogna schierarsi a fianco di conservatori Bavaresi contro socialisti Sassoni o Normanni, spinti in ciò dalle stesse ragioni che inducono i rappresentanti politici Svizzeri o Americani a formare alleanze non sulla base di raggruppamenti regionali ma di affinità intellettuali o ideologiche. Alla fine di questo processo di evoluzione, Parigi, come Olimpia o Atene dell'antica Grecia, rappresenterebbe il mero centro culturale del mondo di lingua francese, mentre la sua autorità politica non si estenderebbe oltre i confini del suo piccolo Stato, l 'Ile de France . Col passaggio dei fondamentali poteri di governo dallo Stato al distretto, i distretti diventerebbero automaticamente i veri membri sovrani della Federazione Europea. Allora, la rappresentanza proporzionale potrebbe nuovamente dar luogo alla rappresentanza statale. Siccome i distretti sarebbero di grandezza approssimativamente uguale,

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potrebbe essere rimesso in vigore il tradizionale principio federale dei voti uguali per sovranità uguali.

2. La restaurazione dei vecchi Stati d'Europa.

Siamo così giunti al secondo motivo che indurrebbe la Francia e le altre grandi potenze ad accettare il loro smembramento. Ho chiamato queste nuove suddivisioni distretti. Come abbiamo visto nel capitolo III, si tratta dei vecchi Stati della Francia e dell'Europa. La loro restaurazione pertanto, non significherebbe la creazione di un sistema artificioso, ma il ritorno alla naturale suddivisione politica dell'Europa. Non sarebbe quindi necessario inventare nuovi nomi, dato che esistono ancora i vecchi, come esistono le regioni e i popoli che essi indicano. Sono le grandi potenze che mancano di una base reale e che sono prive di fonti proprie e autonome di energia. Sono esse che hanno strutture artificiali, che raggruppano un'accozzaglia di piccoli gruppi più o meno recalcitranti. In Gran Bretagna, non esiste la "Grande Nazione Britannica". Quello che troviamo sono gli Inglesi, gli Scozzesi, gli Irlandesi, gli abitanti della Cornovaglia, i Gallesi, e gli abitanti dell'isola di Man. In Italia, troviamo i Lombardi, i Tirolesi, i Veneziani, i Siciliani, o i Romani. In Germania troviamo i Bavaresi, i Sassoni, gli abitanti dell'Hesse, gli abitanti del Reno, o i Brandenburghesi. E in Francia troviamo i Normanni, i Catalani, gli Alsaziani, i Baschi, o i Borgognoni. Queste piccole nazioni si sono formate spontaneamente, mentre per creare le grandi potenze si ricorre alla forza e a una serie di sanguinose guerre di unificazione. Non una sola regione di questi grandi Stati accettò spontaneamente di unirsi alle altre. Tutte vi furono costrette con la forza e si riuscì a mantenerle insieme soltanto adottando il sistema di suddividerle in contee, in distretti (gaue), in dipartimenti.

Ma i nostri moderni fautori dell'unificazione potrebbero obbiettare che, anche se ciò fosse vero, secoli e secoli di vita in comune hanno fuso inseparabilmente queste regioni, apportando dei cambiamenti che sarebbe reazionario distruggere. Non si può — ahimè ancora la stessa frase — tornare indietro. Ma non è cambiato proprio niente. La fusione che si è verificata è così precaria che, ogni volta che si allenta il morso della grande potenza, le sue parti componenti, lungi dall'accorrere in suo aiuto, tentano di tutto per acquistare la libertà. Quando Hitler crollò, i Bavaresi volevano

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staccarsi dalla Germania e restaurare il loro antico regno. La stessa cosa cercò di fare la Sicilia dopo la caduta di Mussolini. Gli Scozzesi di oggi sono scozzesi quanto lo erano trecento anni fa, e il fatto di vivere insieme agli Inglesi è servito solo ad accrescere il loro desiderio di libertà. Nel 1950, essi inviarono una petizione al Re chiedendo che venisse istituito ad Edimburgo un parlamento separato, e pochi mesi più tardi dettero una prova drammatica del loro sempre vivo spirito nazionalistico, "liberando" dal suolo "straniero" la Pietra di Scone 1, che da tempo era nell'Abbazia di Westminster. In Cornovaglia, le guide turistiche salutano l'inglese di passaggio dicendogli, sia pure con garbo e con una vena di umorismo, che finché esso si trova sulla terra di Cornovaglia deve considerarsi uno straniero. E in Francia, anche in tempi relativamente calmi e tranquilli, vi è sempre una corrente sotterranea di sentimenti e di movimenti separatisti, non solo fra gli Alsaziani, ma anche fra i Catalani, i Baschi, i Bretoni e i Normanni.

Così in Europa i sentimenti particolaristici, malgrado siano stati per lungo tempo soffocati dai grandi Stati unitari e sottoposti all'incessante martellamento di una propaganda a favore dell'unificazione, ancora esistono conservando immutato il loro vigore, e ben poche delle piccole e numerose nazioni d'Europa, ora unite insieme nell'ambito di grandi potenze, potrebbero essere lasciate in libertà per una sola settimana senza cor rere il rischio di vederle subito all'opera per rivendicare una propria sovranità, e un parlamento e una capitale propria. Naturalmente esistono individui — come i maestri elementari, i nazionalisti, i militari, i collettivisti, i maniaci dell'umanità, ed altri che in costruzioni unitarie trovano un motivo di esaltazione, i quali tutti, con cieco fanatismo e con reazionaria violenza, si oppongono al concetto dei piccoli Stati democratici : come se la natura avesse scelto la reazione a suo modello. Ma la maggior parte degli abitanti degli Stati che dovrebbero essere restaurati, hanno ripetutamente mostrato di pensarla diversamente. Essi non vogliono vivere in grandi regni senza significato, ma nelle loro province, sulle loro montagne, nelle loro valli. Insomma, vogliono vivere a casa loro. Questo è il motivo per cui essi sono rimasti così tenacemente avvinti al loro colore locale e al loro provincialismo, anche quando sono stati assorbiti in grandi imperi. Alla fine, comunque, sono sempre i piccoli Stati, e

1 Si tratta di una pietra di valore storico, sulla quale venivano incoronati, in passato, i re celtici [N. d. T.].

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non gli imperi, che finiscono per sopravvivere. Ecco perché essi non hanno bisogno di essere artificiosamente creati, ma solo liberati dalla loro schiavitù.

3. La preservazione del sistema dei piccoli Stati.

Un'ultima obbiezione a cui rispondere è la seguente : una volta attuato il sistema da noi suggerito, i piccoli Stati non cominceranno subito a perseguire nuove e pericolose alleanze con l'intenzione di ingrandirsi? Non lo si può escludere, perché nulla dura all'infinito. Ma per far questo, occorrerebbe loro un numero di secoli pari a quello che è stato necessario per permettere alle attuali grandi potenze di costituirsi. Non bisogna dimenticare che la creazione di un sistema di piccoli Stati divisi può avere nello stesso tempo il significato di una loro integrazione in una federazione internazionale più vasta. Ciò significa che esisterebbe allora un governo federale effettivo, il cui compito sarebbe, non soltanto di mantenere uniti i vari Stati membri, ma anche di preservare la loro indipendenza e autonomia. Non vi sono motivi di ritenere che in un sistema di piccoli Stati, creato col semplice scopo di rendere effettivo il governo federale, la prevenzione di alleanze interstatali causerebbe difficoltà maggiori di quelle che lo stesso problema solleva ai governi degli Stati Uniti, del Canada, del Messico, e della Svizzera. Una volta assicurato al governo federale un buon margine di superiorità sui singoli piccoli Stati o anche su una loro eventuale coalizione, il pericolo che le grandi potenze si riformino di nuovo è soltanto una remota possibilità.

Tutto ciò ci dimostra che gli ostacoli tecnici che si frappongono allo smembramento delle grandi potenze o al mantenimento di un sistema di piccoli Stati, sono tutt'altro che insormontabili. Ricorrendo all'espediente della rappresentanza proporzionale e facendo appello ai potenti sentimenti particolaristici che sono sempre latenti in seno ai vari gruppi sociali, non occorrerebbe certo far uso della forza o della violenza per instaurare un sistema di piccoli Stati, il quale rappresenta un imprescindibile requisito che condiziona il successo delle unioni internazionali. Far questo significherebbe abbandonare alcuni sciocchi slogans , a cui pure si tiene tanto, e dar prova di un po' di tatto e di una certa diplomazia.

Tutto ciò si può fare, e se vogliamo che le unioni sopravvivano, deve essere fatto !

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Capitolo Undicesimo

MA SARÀ FATTO?

No!

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CAPITOLO DODICESIMO

L'IMPERO AMERICANO

"Oggigiorno, esistono due grandi Stati almondo che sembrano tendere allo stesso fine, pur partendo da basi diverse: alludo allaRussia e all'America... Il loro punto di partenza è diverso, e il loro cammino non è lo stesso; eppure si direbbe che per volontàdivina ambedue siano destinate a decidere della sorte di mezzo mondo".TOCQUEVILLE

Lo spirito del tempo. Il numero delle grandi potenze si riduce sempre più. La predizione di Tocqueville. "Noi modelliamo le nostre costruzioni, e le nostre costruzioni modellano noi". L'anti-impero dell'America. Le nostre nuove colonie. L'imperialismo dei giornali. L'affermazione del predominio americano. L'impero a prezzo di sacrifici. La Coca-colonizzazione. Godiamoci l'impero. La funzione delle Nazioni Unite come strumento d'imperialismo. Le due Nazioni Unite. Lo Stato mondiale finale. Ancora sui piccoli Stati.

No, non sarà fatto! Sembra una triste conclusione per un libro come questo il cui

scopo principale era appunto di provare che tale conclusione poteva essere facilmente più ottimistica. E le conclusioni tristi non vanno d'accordo con lo spirito del tempo , del quale i nostri esperti di opinioni ci dicono che è opposto alle analisi puramente distruttive, mostrando in tal modo di ignorare che il maggiore prodotto intellettuale della nostra epoca è l'esistenzialismo, il quale è il più impetuoso vento di distruzione che il mondo abbia mai conosciuto per secoli e secoli. Nessuno sarebbe tanto ingenuo da cercare in Sartre delle felici conclusioni! Ma se il desiderio di un roseo finale, espresso da un pubblico di vecchie zitelle, è giudicato infantile nella

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letteratura e nella filosofia, perché non dovrebbe essere la stessa cosa in politica? E chi è questo nuovo autocrate, questo spirito del tempo , che anche nelle democrazie tenta di limitare il dibattito, permettendo la critica soltanto a condizione che i nostri fondamentali principi non vengano toccati? È sempre il vecchio e astuto tiranno che noi abbiamo già incontrato travestito in mille modi diversi, ora come uomo medio, maggioranza, popolo, ora come patria, proletariato, linea di partito. In questo caso si nasconde sotto la veste del tempo il quale esige, presumibilmente, che io finisca questo libro con una nota meno pessimistica di quel che non sia la confessione della mia incapacità di credere nelle possibilità di applicazione pratica delle mie stesse conclusioni.

Eppure, per quanto ciò non possa cambiare le cose, le mie conclusioni non sono né ciniche, né distruttive. Lo scopo di una analisi è di analizzare, di concludere, di avanzare suggerimenti. Questo io l'ho fatto. Quanto all'abbandonarsi a risonanti appelli all'umanità o a dichiarazioni di fede nella sua saggezza politica, che oggi sono cosi di moda, si tratta di una cosa ben diversa. Nel mio particolare caso, quasi tutti riconosceranno che il credere nella volontà delle grandi potenze di farsi promotrici della propria liquidazione allo scopo di liberare il mondo dal terrore che esse soltanto sono in grado di suscitare, non sarebbe una prova di fede ma di pazzia, come è una prova di pazzia e non di fede il fatto di credere che le bombe atomiche possano essere prodotte senza che per questo debbano essere usate.

Cionondimeno, sono concorde nel ritenere che questa analisi non possa chiudersi semplicemente con una dichiarazione di mancanza di fede. Vi è ancora una domanda a cui bisogna dare una risposta: se non vi è nessuna probabilità di restaurare un mondo di piccoli Stati, per il fatto che le grandi potenze non sono disposte ad applicare a se stesse il principio della divisione, cosa si può fare allora?

1. La strada della grandezza.

Ovviamente, l'unica alternativa alla soluzione da noi additata è quella di seguire la soluzione opposta, cioè l'unica cosa che il mondo può fare se non è disposto a tornare indietro è di andare avanti, percorrendo fino in fondo la strada del potere. Dove ci conduce tale strada ?

Abbiamo detto più avanti che la strada del potere è caratterizzata

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da una graduale diminuzione del numero delle grandi potenze. Siccome alcune di esse continuano a ingrandirsi, altre devono necessariamente scomparire. Non è stato sempre così, dato che in passato le grandi potenze potevano soddisfare il loro appetito di espansione a spese dei piccoli Stati. Ma la riserva di piccoli Stati per soddisfare tante esigenze si è esaurita con la fine del diciannovesimo secolo, quando quelli ancora esistenti, entrando a far parte dell'orbita politica, se non proprio della sfera territoriale, dei loro potenti vicini, non furono più disponibili per un ulteriore assorbimento. Quindi, da allora in poi, le grandi potenze sono state costrette a scagliarsi le une contro le altre. Fu così che la Prima Guerra Mondiale conobbe, per la prima volta in tanti secoli, la scomparsa non già di piccole ma di grandi potenze, come la Turchia e l'Impero Austro-Ungarico. La Seconda Guerra Mondiale ne ha eliminate tre altre, cioè il Giappone, l'Italia e la Germania. E non è tutto. Quando la pace fu ristabilita, si scoprì che due altre erano rimaste per strada, in uno stato di completa prostrazione, cioè la Cina e la Francia. Incapaci prima di rialzarsi e, una volta rialzate, di rimanere in piedi con le sole loro forze, questi due Stati portano il nome di grandi potenze, ma è chiaro che tale definizione è inadeguata alla realtà.

Delle nove grandi potenze che esistevano all'inizio di questo secolo, ciecamente fiduciose, come al solito, nella loro indistruttibilità, soltanto tre si può dire a rigore che abbiano raggiunto il traguardo della metà del secolo, cioè la Russia, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. E anche fra loro il processo di un'ulteriore riduzione ha già cominciato a manifestarsi, tanto che prima o poi ne sopravvivranno soltanto due, la Russia e gli Stati Uniti. Per quanto queste due si siano affermate per ultimo con la loro potenza, esse erano destinate fin dall'inizio a superare tutte le altre, grazie all'azione combinata della vastità dei loro territori e del loro schiacciante potenziale umano. Invero, il corso della loro storia era così obbligato che Alexis de Tocqueville, fin dal 1840, fu in grado di prevederne lo sviluppo punto per punto, con una tale precisione di dettagli che ciò che egli scrisse sarebbe una delle più grandi profezie della storia se non fosse semplicemente un capolavoro di ragionamento deduttivo basato su premesse che non permettevano con clusioni diverse. Cosi egli scrive: "Verrà quindi un giorno in cui nel Nord America vivranno centocinquanta milioni di persone, uguali di condizione, di razza, e di origine, e appartenenti alla stessa civiltà; esse avranno la stessa lingua, la stessa religione, le stesse abitudini, gli stessi modi di

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fare, le stesse opinioni, diffuse nello stesso modo. Il resto è incerto, ma questo è certo; e si tratta di un fatto nuovo per il mondo : un fatto accompagnato da conseguenze di tale portata da mortificare gli sforzi dell'immaginazione.

"Oggigiorno, esistono due grandi Stati al mondo che sembrano tendere allo stesso fine, pur partendo da basi diverse: alludo alla Russia e all'America. I loro progressi sono passati inosservati; e mentre l'attenzione del mondo era concentrata altrove, essi hanno assunto in breve tempo una posizione di primo piano fra le nazioni; e il mondo si è accorto della loro esistenza e della loro potenza quasi all'improvviso.

"Tutti gli altri Stati si direbbe che abbiano raggiunto i loro limiti naturali, e che si preoccupino soltanto di consolidare le posizioni raggiunte; ma questi sono ancora in fase di progresso; tutti g li altri sono fermi, o continuano a progredire con estrema difficoltà; mentre questi due stanno avanzando con grande facilità e rapidità, percorrendo un cammino a cui l'occhio umano non può assegnare un termine. L'Americano lotta contro gli ostacoli naturali che gli si frappongono; il Russo ha come avversari altri uomini; il primo cerca di combattere tutto ciò che vi è di barbaro e di selvaggio nella vita; il secondo combatte la civiltà con tutte le sue armi e con tutte le sue forze; le conquiste dell'uno sono segnate dall'aratro, quelle dell'altro dalla spada. Gli Anglo-Americani, per raggiungere i loro fini fanno affidamento sullo stimolo dell'interesse personale, e lasciano piena libertà all'iniziativa individuale e al buon senso dei cittadini; i Russi accentrano tutto il potere della società in una sola mano; il principale strumento degli uni è la libertà, degli altri la schiavitù. Il loro punto di partenza è quindi diverso, ed anche diverso è il loro modo di procedere; eppure si direbbe che per volontà divina siano ambedue destinati a reggere le sorti di mezzo mondo" 1.

Nel frattempo, la situazione prevista con tanta lucidità è diventata una realtà politica. Il mondo ha scelto la strada del potere, preferendola a un sistema di piccole comunità, e la conseguenza di tale scelta si è avverata con tale puntualità, che oggi sono rimasti due soli Stati veramente sovrani, gli Stati Uniti, che sono una nazione "di centocinquanta milioni di abitanti", e la Russia. Ne deriva che quel che abbiamo oggi non è un mondo dominato per metà dalla Russia che impone il principio della servitù, e composto per l'altra metà da nazioni libere unite per conseguire scopi comuni. Quello che abbiamo è un mondo diviso in due imperi, ciascuno dei 1 ALEXIS DE TOCQUEVILLE , Democracy in America , Oxford University Press,

London, 1946, pp. 286-7.

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quali è arbitro dei destini di mezza umanità, e non cerca altro che soddisfare i propri interessi. Questo ci mette in grado di rispondere alla domanda quale sia l'alternativa a un mondo di piccoli Stati: tale alternativa è costituita da un mondo diviso in due imperi che si mantengono reciprocamente in un incerto e terrificante stato di equilibrio.

2. L'anti-impero

Naturalmente non siamo noi a rallegrarci di vedere applicato questo termine proprio all'America, e, nel-l'impiegarlo, decliniamo ogni responsabilità. Tutta la nostra storia non è forse caratterizzata da una continua lotta, non a favore, ma contro l'imperialismo? Anche oggi il nostro solo obbiettivo è quello di liberare il mondo, e non di dominarlo. Infatti, se noi siamo così decisi a metterne almeno la metà sotto la nostra protezione, è per creare non già un impero, ma un anti-impero.

Questo non si può negare. Ma le situazioni di fatto creano una particolare mentalità che prescinde delle nostre idee personali. Questa è, ancora una volta, una interpretazione materialistica della storia, ma è ne più né meno quello che intendeva dire Winston Churchill quando, battendosi per la ricostruzione della Camera dei Comuni britannica, usando il suo stile originale, fatto di suggestive figurazioni, esclamò: "Noi modelliamo le nostre costruzioni, e le nostre costruzioni modellano noi". Quindi, come l'essenza della democrazia britannica, col suo culto del dibattito brillante e il suo ripudio di una piatta oratoria, rappresenta, secondo uno dei suoi più strenui difensori, non già un lusinghiero aspetto del carattere nazionale, ma il frutto di una intimità imposta ai suoi uomini politici dalla ristrettezza del luogo in cui si riuniscono (e, si potrebbe aggiungere, della intimità imposta ai cittadini dalla ristrettezza delle osterie inglesi), così il fatto che un paese sia predestinato a costituire un impero, non dipende dalle sue ambizioni storiche, ma dalle proporzioni che esso ha raggiunto.

L'imperialismo può essere anche contrario a tutti i nostri progetti, a tutte le nostre aspirazioni, ma se non lo volevamo, non dovevamo far altro che organizzarci in modo da impedirlo. Dovevamo costruirci una casa diversa, come hanno fatto gli abitanti della Nuova Zelanda che si sono accontentati di vivere entro i

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confini relativamente ristretti di un'isola. Invece noi fin dall'inizio della nostra storia, ci siamo preoccupati di abbattere tutte le frontiere, per creare un paese di tale ricchezza e estensione che, una volta raggiunta una certa densità, era inesorabilmente destinato a diventare non soltanto una grande potenza, ma addirittura una potenza che alla fine avrebbe avuto un solo rivale. Insomma, noi siamo un impero per nascita.

È vero, noi non abbiamo mai voluto il dominio del mondo, ma tale dominio ci è stato quasi imposto dai fatti. Che importanza può avere per gli stranieri che fanno l'esperienza del nostro nuovo imperialismo, il modo in cui ci siamo arrivati? Come Tocqueville ha detto, il nostro punto di partenza era diverso da quello dei Russi. Noi credevamo nella libertà, ed essi nella schiavitù, noi nell'aratro ed essi nella spada. E la strada che abbiamo percorso non è mai stata la stessa. Noi abbiamo avuto involontariamente e quasi contro il nostro consenso ciò che i Russi sono riusciti a ottenere con la forza. Gli Stati che sono dalla nostra parte si sono schierati con noi di propria volontà, mentre quelli che si sono uniti a Mosca lo hanno fatto sotto la minaccia della violenza. Eppure, i risultati sono gli stessi. Noi ci troviamo ad essere padroni di una metà del mondo, come i Russi sono padroni dell'altra metà. Il nostro proposito era di costruire un anti-impero, ma un anti-impero è pur sempre un impero, come possiamo vedere dal fatto che la capitale del mondo al di qua della Cortina di Ferro non è la sede delle Nazioni Unite, ma Washington. È qui che gli uomini di Stato del mondo libero vengono a fare le loro riverenze.

3. L'IMPERO PER IMPLICAZIONE

Se noi nutriamo ancora illusioni sugli aspetti imperialistici del nostro potere, pochi altri ne hanno. Per quanto essi si siano uniti a noi spontaneamente, hanno scoperto da tempo che, malgrado i notevoli vantaggi materiali che hanno avuto, la loro alleanza non è su un piano di parità, e che nel nuovo sistema c'è un solo Stato veramente libero, cioè lo Stato imperiale, l'Ame rica1. Questo è il

1 Interpretando questo sentimento, il settimanale conservatore di Pa rigi "Le Monde" del 12 giugno 1951, ai esprime, per esempio, in questi termini sulla struttura del Patto Atlantico: "La fondamentale ineguaglianza del Patto si sta trasformando sempre di più in un larvato protettorato, in cui le proteste di orgoglio nazionale non sono sufficienti per compensare il

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motivo per cui essi ci offrono quel misto di odio, di insulti e d'umiltà che i popoli soggetti manifestano sempre nei confronti dei loro padroni. Essi sono umili perché senza il nostro aiuto, non possono mantenere il loro livello di vita; ci odiano perché non possono avere il nostro aiuto senza obbedire alle nostre direttive; ci insultano perché, malgrado l'innegabile esistenza del nostro potere imperiale, noi abbiamo fatto del tutto per conservare la finzione della loro libertà e della loro eguaglianza, non tanto per rispettare i loro sentimenti, quanto i nostri. Difatti, siamo noi che non riusciamo a renderei conto di aver creato un impero non loro. E siamo noi che, in virtù delle nostre tradizioni, siamo portati a non trovare nessuna attrattiva nell'idea imperiale, non loro che, minacciati dalla vicinanza dell'imperialismo russo, hanno capito prima di noi che la loro unica alternativa al farsi assorbire dall'Est, era di mettersi sotto la nostra protezione. Ma che significato può avere la protezione se non quello che i paesi che la cercano sono diventati nostri protettorati?

Per loro stessa ammissione, alcuni Stati prima pieni di orgoglio come la Francia, l'Italia, la Grecia, esistono soltanto grazie alla nostra forza e protezione. A differenza della Gran Bretagna, essi non si sono mostrati disposti a seguire la via dell'austerity, e a fare a meno del nostro aiuto, che essi chiedono non solo per il presente ma anche per il futuro, e non si tratta soltanto di un aiuto militare, necessario per la loro difesa, ma anche di un aiuto economico, indispensabile per conservare inalterato il loro livello di vita. Ma questi Stati, che dipendono così strettamente e continuamente dal nostro aiuto da aver consacrato questa loro dipendenza nelle loro costituzioni, che cosa sono se non protettorati o colonie dell'America?

Rendendosi conto di questo fatto meglio di noi, essi non hanno perso tempo ad aggiornare la loro politica. Prima di tutto, ci trattano esattamente come noi vogliamo essere trattati. Ci mandano in continuazione missioni diplomatiche e personalità politiche, le quali ci chiamano liberatori, e ci promettono solennemente di esserci fedeli, di considerare i nostri nemici come i loro, e di non rimanere

progressivo asservimento. L'Impero Romano aveva i suoi cittadini, i suoi alleati, i suoi stranieri. Il nuovo impero ha gli alleati della prima zona (gli Americani), quelli della seconda zona (i Britannici) e i protégés continentali: malgrado la loro superbia, questi ultimi stanno diventando sempre di più le Filippine dell 'Atlantico".

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neutrali in caso di guerra. Quando l'allora Presidente Auriol venne in visita a Washington, il "New York Times", facendo il resoconto dell'avvenimento, intitolava cosi il suo articolo: "Il Capo del governo francese assicura che il suo Stato non rimarrà neutrale e che sarà fedele al suo alleato americano" 1. Ma è chiaro che un paese che esprime il proponimento di essere fedele a un qualsiasi potere diverso dal proprio, può farlo soltanto se è subordinato a tale potere. Nessun Presidente francese avrebbe potuto impegnare il proprio Stato a una politica di fedeltà all'Inghilterra, senza essere accusato di tradimento. Né è concepibile che un Presidente degli Stati Uniti prometta che il suo Stato farà di tutto per rimanere fedele alla Francia, senza esporsi al furore dei nostri commentatori politici e dell'elettorato. La fedeltà a qualcuno indica un rapporto a senso unico dell'inferiore nei confronti del superiore.

D'altra parte, i nostri alleati usano nei nostri confronti un linguaggio offensivo, suggerito, questa volta, non dal loro stato di soggezione, ma dal fatto che noi non abbiamo ancora capito il ruolo di potenza dominante che siamo tenuti a svolgere. Ogni volta che noi cerchiamo di disinteressarci della loro vita politica, obbedendo alla nostra originaria illusione di essere intervenuti soltanto per garantire la loro libertà, sostengono che dobbiamo essere impazziti. Invece di esserci grati si dimostrano insolenti, e invece di rinunciare ai nostri aiuti ci minacciano senza preamboli di passare dalla parte dei comunisti se la nostra assistenza, lungi dall'esser sospesa, non venga intensificata, accresciuta, e accelerata, sfruttando così il nostro disagio con quel sottile sadismo che è tipico di coloro che si trovano in un irrimediabile stato di soggezione. In tale loro atteggiamento si dimostrano quasi cinici, come se non facesse differenza per loro stare con noi o coi comunisti ben sapendo che la loro fedeltà all'Occidente è infinitamente più importante per noi che per loro. E in fondo, non hanno torto. Mentre in pratica il 100 per cento degli Americani hanno interesse che l'Italia resti fedele all'Occidente, solo il 60 per cento degli Italiani la pensano allo stesso modo.

Ma per quale motivo noi, a Washington, dovremmo sentirci in pericolo se un'Italia cosiddetta indipendente decidesse di passare al di là della barricata, se non per il fatto che essa è diventata in pratica una parte del nostro sistema difensivo, dal quale non possiamo permettere che essa esca, anche se lo vogliamo, perché la sola alternativa a cui essa si trova di fronte è quella di unirsi al

1 "New York Times", 30 marzo 1951.

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sistema difensivo dell'altro impero, nostro rivale? Però, è chiaro che, se l'Italia fa parte del nostro sistema difensivo, è come se i nostri confini fossero in Italia. Ciò significa che, quali che siano le nostre dichiarazioni, noi riteniamo nel nostro subcosciente che tale paese sia implicitamente uno dei nostri dominii, e che pertanto sia libero di scegliere la sua strada soltanto nei limiti di ciò che ci aggrada. E a conclusioni simili si può giungere per quanto concerne tutti gli altri paesi dell'Europa occidentale. Per renderci conto di questo, basta scorrere i titoli dei nostri giornali i quali, nella loro forma succinta, a volte dànno del vero significato di un articolo un quadro più vivace dello stesso articolo che essi cercano di sintetizzare. Cosi il "New Leader", un grande settimanale liberale che certo non può essere sospettato di spalleggiare ambizioni imperialistiche, in una serie di numeri del 1951 portava i seguenti titoli, indicativi dell'avvento del nostro impero: "Il Proconsole del Giappone"; "Solo l'America può salvare la Francia"; "la Turchia, bastione del Medio Oriente"1. Bastione di chi? Certo non del Belgio o dell'Italia, né di chi sarebbe in grado di spendere sì e no un penny, per fortificarla. Essa rappresenta il bastione dell'organismo il cui centro nervoso è a Washington. E siccome un bastione deve essere all'interno e non all'esterno di una determinata orbita, la Turchia è quindi implicitamente considerata entro l'orbita degli Stati Uniti. Ma un'orbita più ampia di quella circoscritta dai confini di uno Stato, non è un'orbita nazionale, ma un'orbita imperiale: soltanto un impero può estendersi oltre i limiti di un paese.

4. Gli atteggiamenti dell'imperialismo.

Bisogna inoltre precisare che, anche nell'ambito della nostra sfera, la consapevolezza di costituire un impero non è più una specie di timore inconscio che affiora soltanto nei titoli dei giornali, senza lasciare tracce nella nostra mente. Quei nostri ufficiali che, in virtù della loro posizione, hanno una completa familiarità con questa idea di supremazia, manifestano tutti i sintomi di tale coscienza , giungendo a formulare critiche come quelle avanzate da Eisenhower sulle autorità civili dei paesi dell'Occidente europeo: "A volte, penso che gli uomini politici non facciano un buon lavoro"2; tali atteggiamenti provocano a volte violenti controattacchi come quello 1 "New Leader", 19 marzo 1951, 25 dicembre 1950, 5 marzo 1951.2 "New York Times", 20 settembre 1951.

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sferrato dal Segretario canadese agli Affari Esteri, Lester B. Pearson, il quale ha affermato che "le facili e quasi scontate relazioni" con gli Stati Uniti "appartengono al passato" e ha tenuto a sottolineare il fatto che i Canadesi non sono "disposti a fare i pappagalli degli altri" 1. Può darsi che non siano disposti, ma difficilmente potranno cambiare l'inderogabile corso della storia.

Molti altri incidenti illustrano questa tendenza. Infatti, ogni volta che, in questi ultimi anni, un paese straniero ha insistito un po' troppo nel voler esercitare una sovranità che un tempo possedeva ma che ora non possiede più, i nostri uomini di governo non hanno esitato a stigmatizzare il fatto usando, in generale, termini più rudi di quelli contenuti nel garbato richiamo rivolto da Eisenhower agli uomini politici dell'Occidente il cui compito, fino a prova contraria, è di accontentare il loro elettorato e non un generale degli Stati Uniti.

Così, quando Israele prese l'iniziativa di bombardare per rappresaglia, nell'aprile 1951, alcune località di frontiera della Siria, né le Nazioni Unite, né Parigi, né Londra si occuparono in modo particolare dell'episodio. Ma Washington inviò subito a Tel Aviv un severo "cicchetto", senza preoccuparsi minimamente del fondamento giuridico di una tale iniziativa, benché il nostro governo non avesse alcun diritto di interferire nelle decisioni di uno Stato situato a cinquemila miglia di distanza, sulle coste orientali del Mediterraneo2. Una ramanzina simile, anche se per ragioni diverse, toccò all'Italia quando, con una punta d'orgoglio, essa dette l'annuncio di essere riuscita a pareggiare il bilancio del 1950. Il Governo italiano confidava in tal modo di mettere in risalto l'uso assennato che aveva fatto degli aiuti americani, senza rendersi conto, però, che da lungo tempo l'idea di un bilancio in pareggio aveva cessato di rappresentare negli Stati Uniti un segno di fiorente amministrazione pubblica. Così, invece di ricevere le attese congratulazioni, l 'Italia ebbe la sorpresa di veder arrivare a Roma un modesto funzionario dell'ECA, venuto a impartirle una severa lezione sui principii keynesiani della spesa deficitaria, insieme all'avvertimento che, se avesse pareggiato un'altra volta il proprio bilancio, il suo nome sarebbe stato cancellato dalla lista di coloro che ricevevano aiuto dall'America. Al Governo italiano, per metà sbalordito e per metà felicemente sorpreso da un tale atteggiamento,

1 "New York Times", 11 aprile 1951;2 "New York Times", 10 aprile 1951.

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non restò altro che accettare il cicchetto del padrone, portando subito il deficit al livello voluto.

Una lezione ancor più dura fu impartita alla Grecia quando il governo di quel paese decise saggiamente di acquistare uno yacht per il re, in modo da risollevare il morale del popolo offrendo al suo rappresentante un simbolo di quell'agiatezza che i cittadini non potevano permettersi. Questa è appunto una delle grandi funzioni di una corte reale, come gli Inglesi hanno così ben dimostrato durante i lunghi anni di ininterrotta austerity . Eppure, i funzionari della nostra ambasciata, che educati a uno stile di vita diverso, non hanno mai fatto l'esperienza della profonda avidità emotiva che accompagna la miseria, reagirono in modo così violento di fronte a questa pretesa provocazione dell'opinione pubblica americana (è sintomatico il fatto che non si accenni all'opinione pubblica greca) che l'imbarazzato governo di Atene non ebbe altra alternativa che ritirarsi in buon ordine e rinunciare a una spesa in cui non era impegnato un solo dollaro americano 1.

Ma il prepotente sistema di imporre la nostra volontà imperiale ad altri paesi, è stato sperimentato anche nei confronti della Gran Bretagna che, dopo tutto, è ancora di pieno diritto una quasi grande potenza. Eppure, quando decise di negare il suo appoggio al nostro governo nel sostenere la risoluzione delle Nazioni Unite che accusava la Cina comunista di aggressione, spinta ad assumere tale atteggiamento dall'esigenza di conformarsi all'opinione pubblica inglese e non alla nostra, e al giudizio degli uomini di governo inglesi e non dei nostri, la Gran Bretagna fu immediatamente sottoposta a tali massicce pressioni che finì anch'essa per cedere. E quale fu l'arma usata per arrivare a un tale risultato? Una bomba atomica? No. Piuttosto, la semplice minaccia di conseguenze catastrofiche sull'opinione pubblica del popolo americano, che è padrone di molti e non è schiavo di nessuno. Noi permettiamo a tutti di scegliere la strada che preferiscono, fuorché nel caso di un conflitto di interessi. Insomma, è la nostra scelta e interpretazione che conta, non quella degli altri, e neppure quella di un'autorità internazionale, come mostra una divertente vignetta umoristica raffigurante un Senatore americano, pieno di boria, il quale, battendosi energicamente per l'adesione degli Stati Uniti a una Corte Internazionale di Giustizia, affermava pomposamente : "Come non abbiamo mai perduto le guerre, così non perderemo mai le cause".

1 "New York Times", 8 giugno 1951.

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Non dovremo mai perderle.

5. I sacrifici dell'imperialismo.

Ma l'imperialismo americano non si manifesta soltanto in esibizioni più o meno volute di un potere che sfugge a ogni controllo. Esso si rivela nell'onere che deve sopportare. Siccome è un impero di dominio, esso è anche un impero di sacrificio. E almeno sotto questo aspetto esso sembra essere diverso dall'imperialismo russo. A differenza di questo, noi facciamo fronte con le nostre forze, e non a spese dei satelliti, ai sacrifici necessari per difendere la nostra sfera di influenza. Mentre la Russia fece la guerra di Corea senza parteciparvi ufficialmente, lasciando che a morire fossero i Cinesi, noi vi eravamo dentro fino al collo. Per quanto la chiamassimo una guerra delle Nazioni Unite, gli eserciti che vi furono coinvolti, anche quelli di altri paesi, erano equipaggiati con materiale che apparteneva all'America e non alle Nazioni Unite, e i soldati che morirono furono in maggioranza soldati americani, non quelli dell'Organizzazione in nome della quale si combatteva, come dimostra l'enorme differenza di mortalità che risulta da questo prospetto pubblicato nell'aprile 1951:

Stati Uniti 57.120Turchia 1.169Regno Unito 892Francia 396Australia 265Olanda 112Siam 108Grecia 89Canada 68Filippine 55Nuova Zelanda 9Unione Sudafricana 6Belgio 0Lussemburgo 0

Nell'aprile 1951, gli Stati Uniti, con una popolazione di centocinquanta milioni di abitanti, lamentavano 57.120 morti, mentre tutti gli altri paesi che partecipavano alla guerra al nostro

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fianco, con una popolazione complessiva di duecentoventi milioni di abitanti (senza contare la Corea 1, uno Stato non membro, né gli altri membri delle Nazioni Unite che non partecipavano alla guerra) avevano avuto soltanto 3.169 morti. L'opinione pubblica americana non avrebbe mai tollerato una distribuzione così straordinariamente ineguale di sacrifici, se tale distribuzione non le fosse apparsa come uno specchio assolutamente fedele degli interessi coinvolti.

Noi sopportiamo la maggior parte dei sacrifici ne cessari per consolidare la nostra posizione di potenza imperiale, non soltanto dal punto di vista militare, ma anche dal punto di vista economico. Mentre i Russi agguantano dalle dispense dei loro satelliti tutto quello che capita sotto i loro occhi, noi non facciamo altro che riempire quelle dei nostri con ogni sorta di beni, che prendiamo dalle provviste di casa nostra. Mentre l'impero sovietico deprime il tenore di vita potenzialmente più elevato delle nazioni sottoposte, fino a portarlo al basso livello della razza dominatrice, noi eleviamo il basso e declinante tenore di vita degli Stati che dipendono da noi, portandolo al livello ancora relativamente alto a cui siamo abituati. Ovunque arriviamo, giungiamo coi prodotti della nostra terra, e non con la temibile potenza della nostra spada.

E invero proprio questo particolare mette in risalto la fondamentale differenza esistente nel modo in cui Russi e Americani organizzano i loro rispettivi imperi. Noi usiamo le armi della seduzione, gli altri quelle della forza. Noi cerchiamo di assimilare il mondo coi nostri beni, gli altri con la loro ideologia. Mentre per l'unità dell'Est ogni Ceco, Russo o Cinese, deve diventare comunista, per l'unità dell'Occidente ogni Francese, Olandese o Italiano diventa americano. Ciò è preferibile, suppongo, ma comporta ugualmente una perdita dei caratteri nazionali da parte dei popoli interessati. Possiamo certo dire che una volta divenuti americani questi popoli dell'Occidente si sentiranno liberi, ma la stessa cosa si può dire dei Cechi o dei Cinesi, quando saranno diventati comunisti convinti. L'assimilazione non distrugge la libertà, ma la rende senza significato.

Così, gli Europei si assimilano e si uniscono all'insegna dell'America e non dell'Europa. Se i loro eserciti sembrano già uno strumento comune di difesa, ciò non dipende dal fatto che abbiano sviluppato caratteri europei e che si siano posti sotto un comando

1 I morti avuti dalla Corea del Sud nello stesso periodo ammontarono, secondo il "Time" del 9 aprile 1951, a 168.652.

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europeo ; la cosa si spiega, invece, perché stanno tutti usando materiale americano e sono agli ordini di generali americani. Parimenti, se le differenze di abitudini e di gusti prima esistenti fra questi popoli stanno già visibilmente scomparendo, ciò non è dovuto al fatto che essi apprezzino in comune tutto ciò che è europeo, ma perché hanno un comune interesse per tutto ciò che è americano. La loro unità è un prodotto degli Stati Uniti. Non è il Chianti italiano, il Borgogna francese, l'Akvavit danese o la birra tedesca che li tiene uniti; al contrario, queste cose sono un motivo di distinzione e di differenza fra loro. Ciò che li tiene uniti è il fatto che stiano tutti prendendo fatalmente gusto alla coca-cola. Per quanto essa rappresenti il più innocuo simbolo della vita americana, questa bevanda incarna in modo così significativo i nostri pacifici tentativi di costruire un impero (a differenza della maniera forte usata dai Russi) che gli irati Francesi sono arrivati a vedere in essa la più grave minaccia alla loro libertà, e hanno dato a questo fenomeno l'appropriato nome di coca-colonizzazione. Essi hanno capito da tempo che una bottiglia di coca-cola, o di qualsiasi altro prodotto piovuto prodigiosamente su di loro alla minima richiesta, è uno strumento di assimilazione potente quanto una spada, ed anche più pericoloso. Difatti, mentre ciascuno si accorge di una spada e del dolore che essa provoca, ben pochi sapranno resistere all'inebriante effetto di una bevanda. Abbiamo solo bisogno di metterla sulla loro tavola e, di lì a poco, saranno loro stessi a prenderla. Ma chiunque cominci a berne, alla fine della cura cesserà di essere italiano, francese, o tedesco, e, almeno spiritualmente, diventerà americano.

E questo è proprio il processo di trasformazione in atto tra gli europei e molti altri popoli. I prodotti, i gusti, i consiglieri e i generali americani sono diventati il loro comune denominatore, e l'unica forma di unione a cui giungeranno sarà quella realizzata all'insegna della merce americana e degli Stati Uniti. Ecco perché un paese come la Siria, che cerca ancora di sottrarsi al vortice della coca-colonizzazione, ha annunciato in tono di sfida, senza che nessuno glielo avesse domandato, che non avrebbe richiesto aiuti in base al Punto Quattro, nel timore che l'imperialismo occidentale potesse insinuarsi nel suo territorio sotto forma di pacchi dono. Quanto questo paese avesse ragione si può arguire dal tono leggermente offeso con cui il "Time", commentando l'episodio, ha parlato di una "lezione per gli Stati Uniti" :

"Non basta offrire aiuti ai paesi arretrati; gli Stati Uniti devono

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anche persuadere i governi interessati a impiegarli a reale beneficio dei loro paesi, oppure trovare uomini disposti a collaborare con gli Stati Uniti. È un compito veramente difficile, e spesso gli Stati Uniti non sono riusciti ad assolverlo; ma se non lo si assolve, e nel modo dovuto , i progetti americani di aiuti ai paesi arretrati saranno destinati al fallimento"1.

I corsivi sono miei. Ma questo subdolo linguaggio degno dei paesi al di là della Cortina di Ferro, che fa appello a tutti i mezzi, dalla forzata persuasione alla ricerca di uomini disposti a collaborare e a comprendere i reali benefici delle merci accantonate per loro, è quello del "Time", una rivista americana molto autorevole. L'imperialismo russo e quello americano cominciano ad impiegare un linguaggio molto simile quando si tratta di spiegare, dall'alto del loro piedistallo, che cosa sia un reale beneficio.

6. Le due Nazioni Unite

Pertanto, ovunque volgiamo il nostro sguardo, ci troviamo di fronte alla inequivocabile realtà di un mondo diviso in due emisferi politici, che per giunta, malgrado la differenza degli scopi che perseguono e dei metodi che usano, stanno assumendo caratteri simili. Ambedue si stanno consolidando attorno a due nuclei fondamentali, dando luogo alla formazione di imperi composti, al centro, da grandi potenze, e intorno, da una fascia difensiva di Stati satelliti. Perciò, i due blocchi che alla fine si troveranno contrapposti, non saranno la Russia e le Nazioni Unite, ma la Russia e gli Stati Uniti.

Non è necessario essere dei Tocqueville per rendersi conto di questa evoluzione, dato che le condizioni descritte si sono già verificate. Perciò, non riesco a capire per quale motivo noi dovremmo continuare a ripudiare un destino che è il nostro, anche se noi non ne vogliamo sapere, e a rifiutare le inevitabili conseguenze di un imperialismo nel quale ormai siamo in pieno coinvolti; e tutto questo semplicemente perché "impero è una parola tanto brutta", come mi disse una volta uno dei miei studenti con la faccia più sconsolata di questo mondo. Questo può essere anche vero, ma, se non assumeremo in proposito un atteggiamento più schietto e più realistico, diventeremo una nazione di ipocriti e di neurotici, e non

1 "Time", 18 giugno 1951.

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riusciremo a ottenere quell'approvazione degli altri per la quale sembriamo mostrare un così patetico interesse. Molti popoli hanno fondato imperi, e invece di tormentarsi per questo, ne hanno approfittato nella misura che hanno potuto. Perché noi non dovremmo far lo stesso? Tanto, comunque sia, continueremo ad essere un impero e, quel che è peggio, continueremo ad essere accusati di imperialismo anche quando non sarà vero. Questo non significa che io voglia difendere l'imperialismo; al contrario, la mia tesi è di instaurare un sistema di piccoli Stati. Ma noi abbiamo un impero, quindi io non sostengo che bisogna procurarci qualcosa che non abbiamo, ma semplicemente che non possiamo non approfittare di quello che abbiamo. Se abbiamo il morbillo, non possiamo far altro che tenercelo. Tanto, anche se non vogliamo averlo, non per questo il morbillo se ne andrà via.

Ma che dire delle Nazioni Unite? Non costituiscono almeno esse un segno che il nostro emisfero è diverso da quello dominato dalla Russia, e che si evolve, in fin dei conti, verso una libera associazione di Stati? Altrimenti, per quale motivo dovremmo aderire a tale organizzazione con una fede e un entusiasmo sempre crescenti? A questa domanda si potrebbe dare un'ovvia risposta: noi aderiamo con tanta fede e tanto entusiasmo alle Nazioni Unite perché ci stiamo accorgendo sempre di più quale sia la loro reale funzione: cioè quella di rappresentare un paravento e uno strumento del nostro imperialismo. Questo spiega perché la prima dimostrazione di genuino entusiasmo popolare verso tale organizzazione si sia avuta, nel nostro paese, quando scoppiò la guerra di Corea, nella quale le Nazioni Unite si trovarono coinvolte più per nostra che per loro volontà. Prima di allora, noi eravamo più inclini a considerarle come uno strumento dell'ostruzionismo russo, come sarebbero probabilmente rimaste se la Russia non avesse insensatamente ecceduto un po' troppo disertando le riunioni. Il che ci dette la prima occasione di trasformarle in uno strumento della nostra politica, e tali sono rimaste da allora in poi. Riportiamo le parole del "Washington Banktrends", un realistico periodico commerciale che non indulge a sentimentalismi :

"Il nostro Stato, in apparenza, sembra destinato a un ruolo eroico nel campo delle relazioni internazionali. Ma la funzione di guidare il mondo e di mantenere l'ordine comporta molte nuove forme di attività, che sono costose. Per esempio, bisognerà mantenere in permanente efficienza un'industria per la fabbricazione delle

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munizioni... Questa è una nuova forma di economia a cui ci stiamo adattando: un'economia da potenza mondiale, con continue ordinazioni di materiale per la difesa del mondo. Insieme alla continua produzione di armi e di munizioni, ci saranno anche in permanenza grandi eserciti e flotte aeree e navali. Per svolgere questo eroico ruolo nel campo della politica mondiale, non si può fare a meno di ricorrere a una qualche organizzazione militare su base permanente. L'espediente delle Nazioni Unite può servire soltanto per un periodo transitorio a vantaggio di coloro che trovano difficile affrontare in pieno la realtà, ma prima o poi il peso di tutto ricadrà sulle spalle degli Stati Uniti" 1.

Non c'è alcun motivo di versare lacrime sul crollo di un grande ideale, perché le Nazioni Unite non hanno mai impersonato grandi ideali. È vero che originariamente esse non intendevano trasformarsi in uno strumento del nostro imperialismo, ma è anche vero che non intendevano neppure essere lo strumento delle nazioni libere. Se questo fosse stato il loro intento, esse avrebbero dovuto evitare di ricorrere all'arma non democratica del veto e di trasformare il Consiglio di Sicurezza in una riserva speciale delle grandi potenze, la cui pretesa di occupare una posizione privilegiata si fonda, non sul buon senso, ma sulla forza. Ad essere indulgenti, quel che si può dire delle Nazioni Unite è che esse sono sorte, non come strumento delle nazioni libere, ma come arma delle grandi potenze, e che, se non era nel loro intento di spalleggiare l'imperialismo di un solo Stato, certo esse erano destinate, dietro il "paravento" di una verbosità democratica, a perpetuare l'imperialismo dei cinque Grandi.

Quel che conta, comunque, è che, anche se le originarie intenzioni dei fondatori delle Nazioni Unite fossero state idealistiche come sembravano, lo sviluppo successivo sarebbe stato in ogni caso lo stesso. Abbiamo visto, analizzando esperimenti simili, che nessuna organizzazione internazionale è mai riuscita a rimanere un'associazione di Stati liberi e uguali, se fra i suoi membri annoverava alcune potenze eccessivamente grandi. In questi casi, è inevitabile che si manifesti il cancro politico. E le conseguenze sono sempre le stesse : dovunque si facciano simili tentativi, la lotta per la supremazia, fra i membri più potenti di tali organizzazioni, incomincia quasi contemporaneamente al loro sorgere, terminando

1 "Washington Banktrends", Washington News Features, Washington 5, D. C., 5 gennaio 1953.

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soltanto con la sottomissione o l'espulsione di uno dei due finalisti. Se gli Stati rivali possiedono un potere veramente eccessivo in condizioni di equilibrio, come la Prussia e l'Austria nel caso della federazione germanica pre-bismarckiana, o gli Stati Uniti e la Russia nelle attuali Nazioni Unite, la sottomissione di uno dei contendenti è naturalmente impossibile. In questa ipotesi, pertanto, l'unica alternativa a un collasso interno dell'organizzazione stessa è l'espulsione di uno dei due Stati rivali, mentre l'organizzazione è destinata a diventare gradualmente ma inevitabilmente lo strumento della grande potenza che è rimasta nel suo ambito.

Come abbiamo mostrato più avanti, quest'ultima forma di distruzione federale si è verificata nella confederazione degli Stati tedeschi che, dopo l'espulsione dell'Austria nel 1866, si trasformò in uno strumento della Prussia. Ma un processo simile si sta anche verificando nell'ambito delle Nazioni Unite con contorni così netti, che noi abbiamo incominciato a considerare tale organizzazione come uno strumento del mondo occidentale, benché la Russia continui a farne parte come Stato membro.

Ma cosa accadrebbe il giorno che essa decidesse di ritirarsi? L'Unione Sovietica, partecipando alla vita dell'organizzazione, sia pure come Stato che è messo sempre in minoranza, si è resa talmente conto dei vantaggi offerti da una tribuna multinazionale come strumento di sondaggio delle opinioni altrui, che difficilmente si contenterebbe di un semplice atto di recesso. È più probabile, invece, che essa faccia coincidere il suo atto ufficiale di recesso col simultaneo annuncio di aver costituito un'altra organizzazione del genere, composta però questa volta di popoli veramente liberi e democratici, capaci di dimostrare una obbiettiva sensibilità di fronte a ogni problema; il quartier generale, in questo caso, sarebbe fissato a Leningrado, cioè a una distanza da Mosca, vantaggiosa quanto quella che separa la sede delle Nazioni Unite occidentali dalla capitale degli Stati Uniti. Per conseguenza, avremo probabilmente due distinte Organizzazioni delle Nazioni Unite al posto di una soltanto, e, invece di trarre da questo fatto un motivo di differenziazione a nostro vantaggio, avremo ancora una cosa di più in comune con l'impero dell'Est.

Queste dunque sono le prospettive del mondo nel prossimo futuro. Man mano che il processo di consolidamento del potere progredirà, i due imperi dell'Est e dell'Ovest si travestiranno sotto le spoglie di due liberali Organizzazioni delle Nazioni Unite. Ma la funzione di

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queste due Organizzazioni, nell'un caso come nell'altro, sarà di servire i loro padroni, offrendo un comodo palcoscenico sul quale il forte può recitare la sua parte favorita, quella dell'agnello. A differenza di quello che accade nelle attuali Nazioni Unite, né la Russia né gli Stati Uniti, nei sistemi politici che seguiranno, reclameranno particolari privilegi come ad esempio un potere di veto che apparirebbe ormai senza significato, o un seggio permanente nei vari organi. Al contrario! Invece di occupare posti d'onore, si mostreranno del tutto soddisfatti di quelli che saranno assegnati loro seguendo l'ordine alfabetico. Insistendo sull'eguaglianza di tutti, permetteranno anche ai delegati dello Stato più insignificante di abbandonarsi a una volubile oratoria e di prendersi la libertà di lanciare insulti dietro le loro spalle. La Presidenza di tali nuovi organismi sarà attribuita con un sistema di rotazione, e le Assemblee rassomiglieranno all'antico Senato romano in cui Cesare, aveva la possibilità di provare che egli era un membro qualsiasi di quel venerabile consesso, chiedendo ai suoi colleghi di appoggiarlo in questa o in quella iniziativa, ammesso naturalmente che ciò non fosse contrario alla loro augusta volontà, alla quale egli era pronto in ogni momento ad inchinarsi. Eppure, come nessuno ai tempi di Roma si sarebbe lasciato ingannare dalle ostentazioni di umiltà di Cesare, così oggi nessuno si farà ingannare dal ruolo assegnato alle varie Nazioni Unite. Come il Senato Romano, esse saranno organismi aventi sede in qualche famoso edificio, e dotate del privilegio di ascoltare e di accettare, con opportune osservazioni laudatorie, le decisioni prese dai loro veri padroni a Mosca o a Washington, secondo il caso.

Vi saranno altri punti di somiglianza fra queste organizzazioni e l'antica Roma, che le precedette nell'elaborare gli espedienti dell'imperialismo. La Russia ha già incominciato a sperimentarli estendendo il diritto fondamentale del suo emisfero — cioè l'appartenenza ai grandi organi consiliari del comunismo — a prominenti personalità degli Stati satelliti. Seguendo la stessa strada, noi cominceremo a conferire a meritevoli stranieri il diritto fondamentale del nostro emisfero: la cittadinanza americana. Sceglieremo per primi i capi di Stato stranieri, i membri di governo, gli uomini politici, e i soldati desiderosi di combattere nei nostri eserciti. Successivamente, insieme alla cittadinanza, concederemo a personalità straniere di particolare rilievo non soltanto il privilegio personale ma anche il diritto ex officio di rivolgere messaggi agli

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organi supremi delle Nazioni Unite a New York, ed anche al vero centro del potere, cioè al Congresso americano. Tendenze di questo genere sono già chiaramente visibili. Se del caso, al più meritevole di tutti concederemo un seggio in seno al nostro Senato, finché un giorno o l'altro queste persone si accorgeranno di governare i loro rispettivi paesi, non più in virtù delle elezioni che in essi si sono avute, ma nella loro veste di senatori degli Stati Uniti. Quando avremo raggiunto questo stadio, potremo anche decidere di togliere al nostro sistema imperiale l'etichetta delle Nazioni Unite, chiamandolo semplicemente Stati Uniti.

Così, come Roma romanizzò il mondo estendendo, con manifestazioni sempre più ampie di generosità imperiale, la sua cittadinanza a popoli sempre più lontani, cosi noi, con un processo identico, trasformeremo in America la parte del mondo che è sotto il nostro controllo1. Solo gli Americani avranno tutti i diritti di libertà, ma questo non avrà grande importanza quando praticamente tutti saranno cittadini americani. Una situazione simile si verificherà in Russia, con la sola differenza che il suo comune denominatore sarà rappresentato da una ideologia piuttosto che da una nazionalità. Ma anche questo non crea rispetto a noi una grande differenza, se teniamo conto che il comunismo rappresenta non soltanto il sistema naturale attraverso il quale un organismo gigantesco può affermarsi, ma anche il solo sistema per mezzo del quale esso può sopravvivere.

1 Gibbon ci ha dato un'eccellente descrizione della impercettibile romanizzazione del mondo antico ottenuta con lo stesso sistema con cui, sia gli Stati Uniti sia la Russia, stanno oggi tentando l 'assimilazione dei loro rispettivi domini: cioè con la colonizzazione di precedenti alleati addolcita con la simultanea concessione della cittadinanza. "Quei sovrani — egli scrive — a cui l'ostentazione della gratitudine o della generosità permise per un certo periodo di conservare, sia pure in condizioni precarie, lo scettro del comando, furono detronizzati non appena ebbero assolto il compito loro fissato di abituare al giogo le nazioni vinte. Gli Stati e le città libere che avevano abbracciato la causa di Roma, erano compensati con una alleanza nominale, mentre in realtà si avvicinavano sempre di più alla schiavitù. I poteri pubblici erano ovunque esercitati dai ministri del senato e degli imperatori, e tali poteri erano assoluti e senza controllo. Ma le stesse salutari massime di governo che avevano assicurato la pace e l 'obbedienza dell 'Italia, furono estese alla maggior parte delle lontane conquiste. Una nazione di Romani veniva gradualmente formandosi nelle province, usando il duplice espediente della fondazione di colonie e della concessione, ai provinciali più fedeli e più meritevoli, della cittadinanza romana " (EDWARD G IBBON , op. cit., vol. I, capitolo 2, p. 35).

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Le enormi proporzioni di un organismo sociale, come abbiamo visto, presuppongono cosciente direzione, supervisione, controllo, obbedienza, conformità, efficienza, standardizzazione, disciplina, affinità di abitudini e di mentalità, e accentramento : tutti concetti che, presi insieme, costituiscono l'essenza e la base operante del socialismo. Siccome il nostro impero ha proporzioni gigantesche quanto quelle della Russia, e richiede lo stesso continuo stato di preparazione, esso avrà bisogno della stessa dose di accentramento e di dirigismo, e per quanto noi possiamo chiamarlo anticomunista ritenendolo conforme allo spirito del tempo, esso sarà tutt'uno col comunismo. Così, verrà un giorno in cui i due emisferi del mondo, organizzati secondo sistemi tanto diversi, differiranno soltanto nel nome. E la ragione di ciò è la stessa che spiega come mai l'unica cosa che rassomigli perfettamente al Polo Nord sia esattamente il suo opposto, cioè il Polo Sud. E questa sarà la fine del processo di consolidamento del potere.

7. La guerra, lo Stato mondiale e il mondo di piccoli Stati.

Ma non sarà la fine della storia. La coesistenza degli ultimi due blocchi rappresentati dalla Russia e dagli Stati Uniti, avrà come effetto la guerra. Ciò non sarà dovuto al fatto che una parte vorrà sopraffare l'altra; al contrario. I due Stati superstiti del processo di eliminazione delle grandi potenze, saranno i più patetici fautori di pace che la storia abbia mai conosciuto. Essi avranno l'esatta percezione che soltanto la pazzia potrebbe indurli a provocare la catastrofe finale, la cui minaccia li manterrà in continua apprensione, paralizzando i loro pensieri. Non v'è alcun dubbio che soltanto la pazzia potrebbe in tali circostanze spingere alla guerra. Ma la costante paura, il continuo terrore suscitato, se non dalle intenzioni, certo dalla potenza dell'avversario, può far diventar pazzo anche l'uomo più sano di mente. In uno schieramento di tali proporzioni, nessuna forza umana è in grado di controllare il potere che gli antagonisti superstiti posseggono e che mai saranno disposti ad abbandonare essendo reciprocamente diffidenti.

Quindi, a meno che i due imperi, per una qualche miracolosa ragione non finiscano per disintegrarsi, vittime delle gigantesche proporzioni dei loro sforzi, accadrà l'inevitabile. La massa di potere accumulata fino a un livello critico da uno dei due antagonisti, finirà un giorno o l'altro per entrare in collisione in qualche parte del

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mondo con quella contrapposta, esplodendo con la spontaneità di una bomba atomica.

La guerra che ne risulterà, potrà durare una settimana, un mese, o un secolo. Qualunque sia la sua durata, essa avrà un solo superstite, il quale sarà finalmente in grado di realizzare quel mostruoso ideale dei nostri aridi pianificatori, ottenuto senza nessun risultato a un così terribile prezzo: lo Stato mondiale, l'impero dell'unità, dell'uguaglianza e della pace. Essendo americano, io ho il fiducioso presentimento che tale impero superstite sarà americano, per quanto ciò non conterà per i suoi futuri cittadini più di quanto contava per i Romani del tardo impero il fatto che molti loro antenati fossero Cartaginesi sconfitti, i quali un tempo avevano sperato di soggiogare il mondo sotto di loro. L'uomo ha la tendenza ad abbracciare la nazionalità o l'ideologia che gli viene imposta con sufficiente determinazione e, come dimostra il successo di tanti sistemi politici diversi, quasi tutti sono in grado di renderlo felice : il che, per quanto non torni a suo merito, rappresenta la sua salvezza.

Avremo dunque, a lungo andare, quell'unico Stato mondiale a cui si è inneggiato con tanto entusiasmo. Nessuna autorità, però, sarebbe potente abbastanza per preservare la sua compattezza per un certo periodo di tempo, se le nazioni che lo compongono, come la Germania, l'Inghilterra, l'Italia o la Francia fossero lasciate intatte, sia pure affidate al governo dei proconsoli più leali e fidati. Molto presto, le vecchie potenze riprenderebbero forza e sfiderebbero l'autorità centrale, per quanto potente possa essere. Per conseguenza, l'impero superstite, dovendo assolvere il compito di amministrare il mondo intero da una sola torre di controllo, e senza l'effetto equilibratore e moderatore esercitato da una potenza rivale, sarebbe costretto a fare quello che tutte le altre potenze mondiali hanno fatto, dai Persiani ai Romani, dalla Chiesa Cattolica a Carlomagno, da Napoleone a Hitler : cioè, dovrebbe applicare il principio della divisione ai grandi blocchi nazionali ancora esistenti, suddividendoli in unità amministrative piccole abbastanza per essere governate senza necessità di ricorrere a un apparato amministrativo eccessivamente dispendioso. In altre parole, lo Stato mondiale, organizzando l'umanità intera in un grande organismo politico, se vorrà sopravvivere oltre il decennio occupato dai sanguinosi avvenimenti che avranno condotto alla sua creazione, sarà costretto a riesumare ciò che si poteva immaginare esso avesse distrutto per sempre : un mondo di piccole unità, un mondo di piccoli Stati.

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Spero pertanto che le conclusioni di questo mio lavoro, dopo tutto, non saranno giudicate così superfi ciali, distruttive e negative come esse sono apparse quando io ho detto, nel capitolo XI, con la sola parola in esso contenuta, che il principio della divisione e quello delle piccole unità, che avevo elaborato nei precedenti dieci capitoli, non sarebbero mai stati applicati. La realtà è che essi saranno applicati, ma per nostra disgrazia non prima ma dopo un'altra guerra fra grandi potenze, e in nome non già della libertà, ma del potere. Ed essi saranno applicati dallo Stato mondiale superstite, e non ha importanza che questo sia la Russia o gli Stati Uniti.

Ma, siccome in questo mondo che è in continua evoluzione nulla è definitivo, si potrebbe sicuramente spingere un po' più oltre la profezia o piuttosto le deduzioni logiche di Tocqueville affermando che, qualunque cosa avvenga, lo Stato mondiale superstite percorrerà la stessa strada degli altri Stati mondiali superstiti della storia: dopo un periodo di sorprendente vitalità, esso si esaurirà. Non saranno necessarie guerre per provocare la sua fine; e non esploderà. Come i corpi celesti, esso si sfalderà gradualmente all'interno, lasciando come suo principale retaggio alla posterità i suoi frammenti, i piccoli Stati : finché il processo di consolidazione delle grandi potenze comincerà di nuovo. Non è piacevole fare una tale anticipazione. Quel che è piacevole, invece, è la constatazione che, nel periodo intercorrente fra le epoche di sterilità intellettuale che sono segnate dal dominio delle grandi potenze, la storia molto probabilmente si ripeterà e il mondo, ancora una volta piccolo e libero, conoscerà un altro di quegli sprazzi di grandezza culturale che hanno caratterizzato i piccoli mondi del passato, come quelli del Medio Evo e dell'Antica Grecia.

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APPENDICI

IL PRINCIPIO DELLA FEDERAZIONE

ILLUSTRATO IN CARTINE GEOGRAFICHE

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APPENDICE IUn felice esempio di federazione. Gli Stati Uniti sono composti

di 50 Stati, tutti press'a poco della stessa grandezza e potenza, e nessuna autorità, eccetto il governo federale, è in grado di imporre ad essi, presi nel complesso, la sua volontà. Tale organizzazione di piccoli Stati rende impossibile ai singoli membri di svilupparsi fino a raggiungere proporzioni eccessive. Il potere federale, anche se modesto, supera quello di uno qualsiasi degli Stati membri in ragione di 50 a 1, ed è perciò sempre efficiente.

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APPENDICE IIUn altro felice esempio di federazione. La Svizzera, che

rappresenta il più antico esperimento federale, è organizzata sulla base di 22 Stati (Cantoni), e non sulla base dei suoi quattro differenti gruppi nazionali. La divisione in Stati, prescindendo dalla nazionalità, ha eliminato lo squilibrio dei gruppi nazionali, creando al suo posto il famoso equilibrio politico della Svizzera e la sua democrazia.

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APPENDICE IIIUn caso non riuscito di federazione. I piccoli Stati della

Germania erano federati con una grande potenza, la Prussia, la quale, con una popolazione di quaranta milioni di abitanti, divenne naturalmente lo Stato dominante della federazione. La Germania cadde cosi sotto il dominio della Prussia e non sotto quello di un'autorità federale, che non avrebbe potuto imporre l'osservanza delle sue leggi senza il consenso di tale potenza.

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APPENDICE IVUn tentativo di federazione destinato all'insuccesso. La

federazione europea, basata sui suoi grandi blocchi nazionali, disuguali in grandezza e in potenza, finirebbe per diventare una federazione nell'interesse della Germania, perché soltanto la Germania avrebbe la forza necessaria per imporre l'osservanza delle leggi federali, mentre nessuna legge potrebbe essere coercitivamente imposta senza il consenso di tale potenza. La Germania quindi sarebbe arbitra della situazione, e assumerebbe una posizione dominante.

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APPENDICE VUn tipo di federazione destinata all'insuccesso. Se la Svizzera

fosse organizzata su basi nazionali come è indicato in questa cartina, la parte tedesca prevarrebbe sugli altri gruppi nazionali in ragione di 2 a 1. I Francesi, gli Italiani e i Romanci costituirebbero delle minoranze. Suddividendo i blocchi nazionali in numerosi piccoli Stati, ciascuno di tali gruppi ha uno o più Stati, e non rappresenta più una minoranza.

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APPENDICE VIUn altro tipo di federazione destinato all'insuccesso. Se

l'America fosse organizzata come è indicato qui di fronte, col sistema europeo di blocchi semplificati ma disuguali, Washington sarebbe un centro puramente decorativo come Ginevra per la Società delle Nazioni. Per imporre la sua volontà, il governo federale dovrebbe chiedere l'appoggio di potenti Stati membri. La guerra sarebbe frequente come in Europa.

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APPENDICE VIINella precedente cartina abbiamo mostrato un'America

"semplificata" secondo il sistema europeo , senza più l'equilibrio e l'armonia dei suoi 50 Stati. Nella presente cartina mostriamo l'Europa suddivisa secondo il sistema americano. Le vecchie grandi potenze, arroganti, piene di orgoglio e di boria, restie a ogni forma di cooperazione, lasciano il posto a piccoli Stati che potrebbero essere governati da Ginevra con la stessa facilità con cui gli Stati Uniti sono governati da Washington. Un maniaco del potere che ottenesse un successo locale, rispetto alla federazione nel suo insieme sarebbe innocuo come lo fu Huey Long.

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APPENDICE VIIILa divisione puramente geometrica dell'America dovrebbe però essere modificata in Europa, seguendo i confini tradizionali delle varie unità sociali. Questa cartina mostra, in modo approssimativo, le genuine parti componenti dell'Europa, che suddividono storicamente le grandi potenze, e che hanno un carattere naturale e non artificiale. Essendo di dimensioni uguali, esse sono particolarmente adatte per formare una federazione destinata al successo. Quindi, il problema dell'Europa — come quello di qualsiasi federazione — è un problema di divisione e non di unione.

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