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PREFAZIONE IVI ilioni, se non decine di milioni, di americani soffrono in qualche periodo della loro vita di gravi turbe dell'umore e di ansia. Molti, purtroppo, non si rendono conto di essere affetti da una malattia biologica provocata da uno squilibrio chimico nel cervello. Attribuiscono i loro sbalzi d'umore, le loro ansietà o i sintomi a esse collegati, come il mangiare in modo compulsivo e tossicodipendenze di vario tipo, a difetti della loro personalità, a problemi di rapporti sociali o ad altri fattori esterni. Spesso sono rafforzati in tali convinzioni dalla letteratura popolare o da messaggi dei media che oscurano il fatto che si tratti di disturbi curabili medicalmente. Alle donne affette da bulimia viene detto che i loro problemi sono dovuti all'oppressione sociale del sesso femminile, o a rapporti deteriorati nelle loro famiglie. A uomini e donne che fanno abuso di determinate sostanze viene detto che il loro problema consiste nel fatto che sono "dipendenti"1 e può non essere mai presa in considerazione la possibilità che sotto ci sia una malattia psichiatrica. E molti uomini, donne e bambini con sindromi

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PREFAZIONE IVI ilioni, se non decine di milioni, di americani soffrono in qualche periodo della loro vita di gravi turbe dell'umore e di ansia. Molti, purtroppo, non si rendono conto di essere affetti da una malattia biologica provocata da uno squilibrio chimico nel cervello. Attribuiscono i loro sbalzi d'umore, le loro ansietà o i sintomi a esse collegati, come il mangiare in modo compulsivo e tossicodipendenze di vario tipo, a difetti della loro personalità, a problemi di rapporti sociali o ad altri fattori esterni. Spesso sono rafforzati in tali convinzioni dalla letteratura popolare o da messaggi dei media che oscurano il fatto che si tratti di disturbi curabili medicalmente. Alle donne affette da bulimia viene detto che i loro problemi sono dovuti all'oppressione sociale del sesso femminile, o a rapporti deteriorati nelle loro famiglie. A uomini e donne che fanno abuso di determinate sostanze viene detto che il loro problema consiste nel fatto che sono "dipendenti"1 e può non essere mai presa in considerazione la possibilità che sotto ci sia una malattia psichiatrica. E molti uomini, donne e bambini con sindromi

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depressive o ansiose possono soffrire per anni, senza che il loro vero stato sia riconosciuto e diagnosticato. Turbe depressive e ansiose possono presentarsi in molte forme. La depressione grave, una delle forme più comuni, può togliere a un individuo il suo interesse per la vita, e compromettere profondamente sonno, appetito, attenzione, memoria, e la capacità di eseguire i compiti d'ogni giorno. La sindrome maniaco-depressiva (sindrome bipolare) può provocare degli "alti" - settimane o mesi d'innaturale euforia, estrema agitazione, irritabilità, eretismo psichico, insonnia e comportamento anomalo - che si alternano a protratti "bassi" di depressione grave. Malattie strettamente correlate comprendono sindrome da ansietà come la sindrome d'improvvisi attacchi di panico e l'agorafobia, la paura di uscire in luoghi affollati. La sindrome ossessivo-compulsiva, un'altra sindrome da ansietà, può provocare invalidanti comportamenti compulsivi in cui spesso il paziente spreca ogni giorno deDe ore in rituali insensati, lavandosi incessantemente le mani o continuando ad andare a controllare che la porta sia ben chiusa. La ricerca ha

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indicato che la famiglia delle turbe dell'umore e delle sindromi ansiose comprende anche la bulimia nervosa, la sindrome caratterizzata da un rimpinzarsi in modo compulsivo e successivamente provocarsi il vomito, che colpisce una sensibile percentuale delle giovani donne americane. Anche un'altra grave causa di sofferenza fra le donne, la sindrome premestruale, appare biologicamente collegata alle turbe dell'umore. E i comportamenti di dipendenza, compresa la dipendenza da alcol, marijuana e cocaina, possono spesso svilupparsi perché una persona ha senza saperlo tentato di "autocurarsi" da sottostanti turbe dell'umore o da una sindrome ansiosa. È importante sottolineare che ormai da anni i medici sono in grado di curare efficacemente queste condizioni con medicinali sicuri e non tali da creare dipendenza, fra cui gli antidepressivi, il litio e una quantità di nuove sostanze. Eppure si calcola che solo una piccola percentuale - forse meno del 10% - delle persone affette da turbe dell'umore vengano adeguatamente curate. Perché? Nella maggior parte dei casi, il problema è semplice- mente di disinformazione da parte sia dei pazienti sia dei loro medici.

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Prima di tutto, le vittime di questi disturbi spesso non si rendono conto che il loro caso è facilmente curabile, e trascurano di rivolgersi a un esperto. In secondo luogo, anche quando si rivolgono a un esperto - assistente sociale, psicoterapeuta, medico di famiglia o psichiatra - alcuni studi hanno mostrato che la maggioranza di questi pazienti riceve un trattamento inappropriato o inadeguato. Da ttent'anni sappiamo, per esempio, che la sindrome degli attacchi di panico di solito risponde in modo drammatico a dosi anche modeste di farmaci antidepressivi. Queste medicine non provocano assuefazione né hanno effetti nocivi a lungo termine sul corpo. Eppure la maggioranza dei pazienti affetti da queste crisi di panico passa inutilmente mesi o anni in psicoterapia, dove gli viene detto, scorrettamente, che gli antidepressivi sono "stampelle" da evitare. Allo stesso modo, a pazienti affetti da depressione grave vengono spesso fatte diagnosi sbagliate o viene negato un tentativo di cura con antidepressivi mentre vengono somministrate altre terapie di cui non è stata dimostrata l'efficacia. E quando questi pazienti vengono curati con antidepressivi ricevono spesso

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dosi inadeguate o subiscono evitabili effetti collaterali, perché molti medici generici e perfino psichiatri semplicemente non conoscono a sufficienza il corretto impiego di questi farmaci Analogamente, spesso donne affette da bulimia nervosa vengono sottoposte a trattamenti psicologici inefficaci. A volte, per esempio, alla paziente viene detto che il suo disturbo dev'essere la conseguenza di un dimenticato abuso sessuale subito durante l'infanzia: nonostante il fatto che non esista nessuna prova scientifica accettabile che le molestie sessuali siano più comuni nelle storie di donne bulimiche che nella popolazione generale. Esiste invece una rigorosa dimostrazione scientifica del fatto che i farmaci antidepressivi possono arrestare o ridurre di molto l'impulso delle pazienti bulimiche a rimpinzarsi e la loro continua ossessione del cibo. Eppure soltanto con una minoranza delle bulimi-che viene tentata la terapia con antidepressivi, e anche quando essa viene applicata, troppo spesso viene condotta in modo incompetente. Insomma, le turbe dell'umore, la depressione, l'ansietà e le altre forme morbose collegate possono

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essere causa di sofferenza evitabile, più di qualsiasi altra patologia. Che fare dunque? La risposta chiave consiste nell'informazione. Bisogna che la gente impari che queste affezioni mentali sono in sostanza di natura medica, imputabili a squilibri biologici localizzati nel cervello e prontamente curabili con farma-ci di ampio impiego e sicuri. Soltanto quando verranno sfatati i miti e i preconcetti che circondano le turbe dell'umore e l'ansietà le persone che ne sono affette sapranno che esistono, medicinali efficaci, che esse hanno diritto a questa cura e che non dovranno sentirsi soddisfatte finché non l'avranno ottenuta da un professionista in grado di somministrarla in modo competente. In questo libro Colette Dowling fornisce informazioni preziosissime per i milioni di persone che sono affette da turbe dell'umore e da ansietà. Forse più di qualsiasi altro libro che si sia occupato di questa tematica, esso integra dati e indicazioni che provengono sia dal lato umano sia da quello scientifico della biopsichiatria. Per quanto concerne il lato umano, abbiamo testimonianze personali, comprese alcune basate sulle esperienze dell'autrice e su quelle di membri

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della sua famiglia, che illustrano la natura di questi disturbi e fino a che punto possano costare in termini di sofferenza. Questi casi appariranno subito familiari ai lettori che abbiano patito essi stessi di tali scompensi o ne abbiano osservato le conseguenze in amici o congiunti. Dal punto di vista scientifico, il libro fornisce, sulla base di un'accurata ricerca, una sintesi delle più recenti scoperte scientifiche su questo tipo di patologie. La Dowling sfata abilmente molti del preconcetti spesso condivisi da pazienti e medici; in particolare la credenza che il paziente sia in qualche modo responsabile dei suoi sintomi e ne possa essere liberato soltanto attraverso un duro lavoro. Nel capitolo in cui si spiega come ottenere una buona cura, l'autrice fornisce informazioni pratiche e scientificamente accurate sui trattamenti disponibili per questa categoria di disturbi, e sul modo di ottenere tali rimedi. Informazioni che saranno di valore inestimabile per chi ha sofferto a lungo di depressione o di altre turbe deD'umore e ora può finalmente approfittare degli ultimi progressi della psichiatria biologica. Harrison

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Pope e James I. Hudson* 'Ringraziamenti L1 primo esperto con cui ho discusso di depressione e delle altre turbe dell'umore è stato, nella primavera del 1990, Michael Lowry, psichiatra presso il Wasatch Canyon Hospital di Salt Lake City, neH'Utah. Da lui appresi che il National Institute of Mental Health, preoccupato per l'ampia diffusione di queste patologie negli Stati Uniti, aveva lanciato il programma D'ART (Depression Awareness, Recognition and Treatment: Consapevolezza, riconoscimento e cura della depressione): un'imponente campagna per insegnare ai medici e agli operatori nel campo della salute mentale le metodiche per identificare e curare queste malattie. Lowry e i suoi colleghi hanno istituito un workshop intensivo di tre giorni per il programma D'ART, presentandolo a medici dell'intero paese. Dopo aver letto il materiale per il workshop di Lowry, mi sono resa conto che è così grande il mutamento intervenuto nella comprensione scientifica della depressione, dell'ansia e della dipendenza da sostanze che sarebbe necessario uno sforzo di gruppo per mettere insieme la storia di questi progressi. Innanzi tutto, c'era un nuovo campo - la biopsichiatria - i

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cui ricercatori hanno sviluppato un diverso modo ai considerare queste turbe. Ho voluto parlare con questi ricercatori per scoprire in che cosa consistevano le nuove cure, nonché le teorie che ne sono il fondamento. Ho voluto anche parlare con medici e terapeuti che offrivano questi trattamenti e con persone che hanno ottenuto aiuto. Ho chiesto a mio fratello, il dottor William H. Hoppmann HI, di aiutarmi per le interviste. Bill è uno psicoterapeuta che dirige un ambulatorio psichiatrico che fa pane del Nothern Southwest Communky Mental Health di Pittsburgh. Egli ha dato un grande contributo a questo libro, sia con le sue interviste a colleghi sia in virtù della sua lunga esperienza con pazienti affetti da turbe dell'umore. Uno degli esperti con cui Bill ha parlato diffusamente è stato Karen Gainer, una terapeuta della famiglia e delle psicopatologie infantili che lavora per il sistema Alle-gheny East MH-MR di Pittsburgh. Essa lo ha messo a parte delle sue ampie conoscenze circa la depressione nei bambini. La cura psichiatrica di minori affetti da tossicodipen-denze e turbe dell'umore è un campo nuovo. Il dottor Oscar Buckstein, del Western Psychiatric Institute, ha

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discusso per esteso con Bill dei particolari problemi della "doppia diagnosi" emessa per adolescenti e dei nuovi metodi per aiutarli a migliorare. D dottor Moshe Torem, direttore del reparto di psichiatria delI'Akron Medicai Center di Akron, Ohio, si è incontrato con Bill e me per parlare dell'importanza di stabilire organiche strategie di cura. Torem è convinto che anche se la biopsichiatria ha apportato un importante contributo alla nostra comprensione della biologia delle turbe dell'umore, queste malattie non sono semplicemente un fatto di bizzarrie nel chimismo del cervello. È necessario che l'intera persona venga riconosciuta: e curata. Le concezioni di Torem, comunicateci fin da quando il libro era ancora alla fase preparatoria e di ricerca, ci ha fornito una nuova importante ottica con richiami a un senso di equilibrio. Quando appare qualcosa di così appassionante come la biopsichiatria, col suo potenziale terapeutico per malattìe che in passato hanno distrutto delle vite, ci si può sentire tentati - imboccando una strada sbagliata - di voltare le spalle a tutto quanto d'altro è stato così laboriosamente appreso sulla condizione umana. Sono

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grata al dottor Torem per la sua guida sotto questo punto di vista. Mia figlia, Gabrielle Dowling, che ha collaborato a stretto contatto con me alla preparazione di questo libro in tutte le sue fasi, ha avuto numerosi e illuminanti colloqui con Jeffrey Jonas, specialista di biopsichiatria delle turbe dell'alimentazione presso il Fair Oaks Hospi-tal di Summit, nel New Jersey. Jonas ha compiuto ricerche sul chimismo cerebrale sia nelle turbe dell'alimentazione che negli abusi di sostanze, e innovative osservazioni sulle coincidenze fra le due patologie. A suo avviso, bulimia e alcolismo, che spesso coesistono, forse condividono la stessa anomalia in termini di patofisio-logia del cervello. Eric Peselow, direttore medico della Foundation for Depression and Manie Depression di New York, si è generosamente incontrato con Gabrielle e me per parlare delle sue ricerche sulla depressione. Di particolare interesse è uno dei recenti studi di Peselow, perché rivela che gli episodi depressivi più gravi producono minori distorsioni cognitive a lungo termine (per esempio negativismo e problemi di autostima) dei tipi di depressione più lievi ma più cronici Un'importante implicazione del lavoro

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di Peselow è che la depressione andrebbe curata il più presto possibile, perché maggiore è la sua durata più sono durature le sue conseguenze sulla personalità. Inoltre il dottor Peselow ci ha messe in contatto con pazienti che erano disposti a parlare delle loro esperienze con turbe dell'umore. Colloqui con Jack Mendelson e Roger D. Weiss, del McLean Hospital di Belmont, Massachusetts, ci hanno permesso di approfondire le nostre conoscenze sulla nuova ricerca circa il rapporto fra tossicodi-pendenze e turbe dell'umore. Il McLean possiede il più grande laboratorio di ricerca psichiatrica del paese. Mendelson dirige la ricerca sulle tossicodipenden- ze, e Weiss è incaricato del programma di cura dell'abuso di droga. Myra Schwartz, assistente sociale scolastica di Kingston, New York, ha intervistato coniugi e genitori di persone con turbe dell'umore. Secondo tutti questi ricercatori, i medici non fanno abbastanza per educare i familiari dei pazienti, e quindi c'è un grande procedere a tentoni da parte di persone che si sforzano di capire, da sole, che cosa ha provocato la malattia dei loro cari, che cosa ci

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si deve aspettare, come aiutare e cosa riserva il futuro. Robert Hausman, un terapeuta specializzato nell'aiutare le famiglie a comprendere e trattare le turbe dell'umore, ha offerto la sua valida concezione della famiglia come componente del gruppo che ha in cura il paziente. Una nuova comprensione della coazione a ipernutrirsi sta emergendo dai laboratori di biologi e neuroscienziati. Ho parlato con la bioioga cellulare e nutrizionista Judith Wurtman nel suo ufficio al M.I.T. dei progressi compiuti in questo campo. Particolarmente interessante è il suo lavoro volto ad aiutare persone con sindrome d'ipernutrizione compulsiva a capire che questo fenomeno è biochimico: e può essere cambiato alterando il chimismo cerebrale. Moke persone non potrebbero giovarsi delle nuove cure che la scienza ha reso disponibili se non fosse per quegli esperti psicoterapeuti che hanno approfondito l'importante componente biologica delle turbe dell'umore. Rima Greenberg, di Manhattan, ha spiegato in che modo gli psicoterapeuti possono lavorare di concerto con gli psicofarmacologi per fornire le più complete cure ai pazienti per cui la psicoterapia da sola non basta.

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Estremamente importanti per noi sono state le nostre protratte conversazioni con Harrison Pope e Jim Hud-son, professori di psichiatria presso la facoltà di medicina di Harvard e psichiatri al McLean Hospital Hud-son e Pope hanno compiuto ricerche in tutti i campi da noi trattati in questo libro ma forse sono noti soprattutto per aver scoperto che i tarmaci antidepressivi costituiscono una cura molto efficace per la bulimia. Si deve in parte alle vaste implicazioni del lavoro di Hudson e Pope se il nostro modo d'interpretare la parola "depressione" sarà probabilmente nettamente diverso fra cinque o dieci anni. Gabriele ed io abbiamo avuto parecchi incontri e scambiato una notevole corrispondenza con questi due scienziati, che ci hanno aiutate a scoprire il significato di parte della nuova ricerca attualmente effettuata in biopsichiatria. Inoltre hanno accettato di esaminare meticolosamente il testo definitivo, per accertare che il materiale medico e scientifico fosse corretto. Può essere difficile, nello scrivere di scienza^ medicina, interpretare la ricerca originale più recente. È necessaria l'assistenza di scienziati interessati a informare il pubblico.

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Harrison Pope e Jim Hudson sono due scienziati di questo tipo, a cui va la mia gratitudine per il loro assiduo interessamento e incoraggiamento. In ogni progetto di questa portata, ci sono sempre persone che hanno lavorato instancabilmente e con intelligenza per contribuire a far assumere al testo la sua forma definitiva. Desidero ringraziare il mio editore, Barbara Grossman, per il suo costante entusiasmo e in generale per la sua intelligenza. Ivan Strausz, ginecologo di New York e mio buon amico, si è sollecitamente prestato a rivedere con cura il manoscritto, con una particolare attenzione al capitolo sulle donne. Ringrazio l'amica e scrittrice Rebecca Daniels per aver trascritto le registrazioni su nastro e messo a mia disposizione servizi informatici che mi hanno permesso di lavorare più rapidamente di quanto abbia mai fatto a un progetto basato su un'enorme mole di ricerca. Un ultimo riconoscimento va a mia figlia per la sua collaborazione. L'acutezza di Gabriele nell'intetpretare la ricerca psichiatrica ha informato questo libro dall'inizio alla fine. I suoi principali contributi sono stati al quarto capitolo, "La fame morbosa: un

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disturbo del cervello" e all'ottavo capitolo, "Ottenere aiuto," che tratta di nuove cure e nuovi farmaci. La voglia di star bene è stata un'impresa formidabile per entrambe. Gabrielle ricevette una diagnosi di depressione grave nella primavera del 1989. La sua esperienza è stata il nucleo emotivo di questo libro, e la sua intelligenza ha contribuito a plasmarne sia il contenuto sia il tono. Imparare insieme che cosa significano depressione e tossicodipendenza è stato una di quelle esperienze che trasformano una vita. Ci è stato dato modo di conoscere un settore della scienza che sta cambiando -completamente - vecchie idee sulla salute mentale. Così facendo, mia figlia ed io abbiamo condiviso un'appas-sionante avventura. 1 "Magari ci fosse una pitbla!" Verso la fine degli anni sessanta, mio marito, Ed, io e i nostri tre bambini abitavamo nell'Upper West Side di Manhattan. Il quartiere attirava scrittori, attori e musicisti. Come comunità, eravamo orgogliosi della nostra coscienza politica, del nostro impegno nei confronti dei meno privilegiati di noi. Ci faceva sentire in colpa il fatto che in un

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certo senso ci trattassimo troppo bene, anche se nessuno di noi due scialava. Io lavoravo come scrittrice indipendente di notte, di giorno badavo ai figli. Ed era redattore di una rivista. Eravamo sposati da sette anni quando fece quello a cui da allora penso come "quel fatale viaggio a Portorico." Era soltanto per una settimana, per andare a trovare degli amici, la sua prima vacanza in parecchi anni. Avevo insistito che andasse senza di noi, dato che non avevamo i soldi per andare in viaggio con tutta la famiglia. Al suo ritorno fu subito chiaro che c'era qualcosa che non andava. Ed era allegro, molto allegro. Ma era anche irrequieto e agitato. La prima notte che passò a casa dopo quel viaggio non dormi bene. La seconda notte quasi non dormì affatto. Ogni tanto scendevo dal letto e lo trovavo che andava su e giù per il soggiorno, con le luci tutte accese e la sua macchina da scrivere elettrica che ronzava. Era febbrilmente creativo, esplodeva d'idee, giochi di parole, facezie, ridacchiava da solo per la contentezza. Al suo secondo giorno di ritorno in ufficio, il suo capo redattore telefonò per dire che era

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preoccupato. Ed aveva stracciato le bozze che dovevano andare in stampa, dicendo che erano degli "idoli." Anche se ne fui terrorizzata per lui, sorrisi quando udii della sua rivolta contro la rivista di cui non condivideva la politica editoriale, che aveva sempre giudicato compromessa da interessi commerciali "Abbiamo cercato di convincerlo a farsi vedere da un medico, ma lui si è offeso ed è uscito furente," disse il capo redattore. Le sue parole confermavano in modo atroce il mio sospetto che in lui ci fosse qualcosa di tremendamente fuori posto. Ma che cosa? Quel pomeriggio, sul tardi, Ed mi telefonò, dicendo che si trovava al Big Wilt Chamberlain, un popolare bar di Harlem. Voleva farmi sapere che sarebbe tornato a casa di li a poco. "Sono nei paraggi della tomba di Grant," soggiunse in tono di trionfo, come se la semplice vicinanza all'ultima dimora del generale confermasse che stava da dio. Lo supplicai di tornare a casa subito. Rincasò poco dopo tutto sudato, a riprova della sua lunga e veloce camminata, con un ampio sorriso sulla faccia. Avevo temuto che si fosse ubriacato. Ubriaco non era, ma su di giri sì, molto su di giri, raggiante senza nessun vero

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motivo. Eppure non sembrava rendersi minimamente conto che non età in condizioni normali. Si comportava in modo sconcertante. Un modo che anche spaventava. Quella sera mi rivolsi allo psichiatra che aveva condotto il gruppo terapeutico a cui avevamo partecipato Ed e io. Anche se il medico conosceva molto bene Ed, il suo parere, dopo aver ascoltato i fatti delle quarantot-t'ore precedenti, fu questo: "Chiunque può arrivare a dare i numeri per mancanza di sonno." Furono queste le sue esatte parole. Non cercò mai di sapere che cosa avesse potuto provocare l'insufficienza di sonno, ma scrisse una ricetta per della dorpromazina, un potente farmaco contro le psicosi II farmaco esercitò evidente- mente il suo effetto, mettendo a dormire Ed per più di ventiquattr'ore. Quando si svegliò era di nuovo se stesso, anche se fragile e scosso. Ci sentimmo sollevati, ma anche confusi e preoccupati per quanto era accaduto. Sarebbero passati altri due anni prima che venissimo a sapere che quello che Ed aveva patito era stato un episodio maniacale, la fase dell'esaltazione di una forma di disturbo dell'affettività detta

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sindrome bipolare. Affine al più comune tipo di depressione unipolare, è caratterizzata da volubili sbalzi da un senso di esultanza e di grandezza alla più nera disperazione. Era strano e terrificante vedere l'uomo che avevo conosciuto e amato per sette anni scivolare da una settimana all'altra in una sorta d'inferno. Bruciavo dal desiderio di sapere cosa gli stesse succedendo. Che cosa l'aveva colpito? Solo fino a poco tempo prima era sano e nel fiore dell'età. Che cosa avrebbe significato quella malattia per il resto della sua vita, e che cosa avrebbe significato per i nostri figli? Erano questi gli interrogativi che mi ossessionavano. E sono certa che ossessionavano anche lui. Aveva lasciato un'esistenza normale, anche se movimentata, e, per motivi che non conoscevamo, era entrato nell'oscuro tunnel di una condizione gravemente alterata. C'erano i farmaci, naturalmente, anche se allora sembravano primitivi. Il litio mise sotto controllo la mania. Oltre al litio, a Ed fu ordinata la dorpromazina per renderlo meno agitato mentre aspettava che il litio facesse effetto. La dorpromazina rendeva la sua faccia rigida come una maschera; il litio gli provocava un

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tremore alle mani. Di notte, queste immagini di Ed, e della sua innocenza di fronte a quanto gli stava succedendo, mi si affacciavano alla mente, e mi mettevo a piangere. Nel 1971 Ed e io ci separammo. Nei suoi periodi di stabilità psichica continuò a venire a trovare i bambini, e noi due ci tenemmo in contatto, a volte andando a prendete un caffè insieme in un vicino ristorante. Coll'andar del tempo cominciai a chiedermi se fosse stata la nostra separazione a peggiorare la sua malattia. A quei tempi imperava l'interpretazione psicologica della depressione maniacale, e sapevo che il senso di perdita era considerato un importante fattore. Non poteva essere stata la fine del nostro matrimonio a far riaffiorare i sentimenti legati a qualche perdita precedente, distruggendo la pace mentale di Ed? Alla fine avrei imparato che, anche se la tensione può scatenare l'instaurarsi di un episodio maniacale, non lo provoca. Nondimeno, per molto tempo mi sentii chiamata in causa. E facile sentirsi responsabili Se solo avessi fatto le cose in modo diverso, se fossi stata più sensibile, più sollecita alle sue necessità! Noi ci assumiamo la

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responsabilità in parte perché questo è meno pauroso dell'alternativa, che consiste nel riconoscere che non c'è nessuno in particolare che può causare l'insorgere di questa malattia. Non c'è nessuno che possa controllarla. Com'è caraneristico dei pazienti affetti da sindrome bipolare, Ed non fu in grado di riconoscere i primi segni del suo problema di umore. Di solito era molto su, molto ottimista, straripante di energia. Oggigiorno questo tipo di umore sarebbe definito "ipomaniacale." Anche se apparentemente si seme meglio degli altri, uno che è ipomaniacale in realtà è ansioso e agitato e spesso ha difficoltà nei rapporti con gli altri. L'ipomaniacale fa un dramma di ogni minuzia e reagisce con eccessiva sensibilità quando si sente respinto. Medici e psicoterapeuti spesso non riconoscono i segni di questa particolare forma di malattia depressiva. Gli scienziati hanno imparato, all'incirca nell'ultimo decennio, che esistono molti tipi di depressione, ciascuno con la sua gamma di sintomi, ciascuno col suo tipo di cura. I vari tipi sono graduati secondo uno spettro di gravita. H più grave di tutti è la sindrome bipolare, o "depressione

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maniacale." Infamiglia Quando qualcuno in una famiglia è molto ammalato, è abbastanza naturale sperare che la sua malattia si fermi a questa persona. Ma è raro che le cose vadano così. È più facile che la malattia allarghi i suoi effetti, toccando la vita di tutti. Le conseguenze della sindrome bipolare del padre si riverberano tuttora nelle esistenze dei miei figli. Crescendo, sono venuti a sapere che era ammalato. Alla fine, dato che non poteva più lavorare, dovette accettare il sussidio di disoccupazione. Eppure rimase un padre amorevole, veniva spesso a trovare i suoi figli, li portava a fare delle gite fuori città e faceva loro dei regalini per i compleanni e per le feste. Anche se non parlarono della cosa finché non furono più grandicelli, erano preoccupati di questa malattia in famiglia e di quello che avrebbe potuto significare pet loro. Ero preoccupata anch'io. La ricerca scientifica aveva cominciato a mosttare che le persone sono geneticamente predisposte a quella che allora era chiamata affezione maniaco-depressiva. Quando i miei figli arrivarono all'adolescenza, il momento in cui la malattia fa spesso

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la sua prima comparsa, cominciai a osservarli per vedere se riuscivo a cogliere in loro i segni della mania: l'insonnia, le fughe di pensieri esaltati e confusi, i progetti grandiosi Ma i miei figli, anche se vivaci e intellettualmente esuberanti, non si perdevano in pensieri confusi. Sembravano, il più delle volte, felici, bene organizzati, ottimisti. Eppure, quando uscirono dall'adolescenza e passarono i vent'anni, cominciò a essere evidente che la mia figlia maggiore non era più felice come una volta. All'inizio i segni in Gabrielle furono lievi: una certa gravita, o tetraggine, che oggi può essere riconosciuta in istantanee scattate più o meno nel periodo compreso fra i suoi diciassette e i suoi ventitré-ventiquattro anni, e un quasi impercettibile calo della sua curiosità intellettuale. Infatti, aveva frequentato un solo anno di università e poi aveva voluto tornare a casa. Avevo sempre pensato che il fatto di avere diciassette anni e di lasciare la nostra cittadina agricola per l'atmosfera turbinosa e competitiva di Harvard fosse stato troppo per lei. Fra qualche anno, pensavo, tornerà a studiare; se non a Harvard da qualche altra parte. Ma

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Gabrielle non aveva in programma di tornare all'università. Lavorava parte della giornata in qualche ristorante e di sera usciva con le amiche. Le amiche e le uscite serali sembravano a quel punto le uniche cose della vita che realmente le importassero. Quando mi trasferii a New York anche Gabrielle venne in città, trovò un lavoro e andò ad abitare nel suo appartamento. In qualche modo, però, la sua vita sembrava più monotona. Dopo il lavoro andava a casa e guardava la televisione. Nei fine settimana passava il suo tempo con le amiche, ma spesso si lamentava di essere stanca. Quando veniva a trovarmi nella mia casa di campagna dormiva fino a mezzogiorno. Quando ci ritrovavamo tutti quanti in famiglia per le feste non sembrava mai veramente soddisfatta, felice. Oggi, guardando le foto prese in quelle occasioni, vedo chiaramente dall'espressione di Gabrielle che qualcosa non andava. Ma allora pensavo: "E io, quanto ero felice io a quell'età?" Confrontando il suo umore giovanile col mio, ne deducevo non che la mia infelicità da ragazza era stata innaturale, ma che l'infelicità di mia figlia era naturale perché era simile alla mia!

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Fa specie, effettivamente, quanto sia difficile ammettere che non siamo contenti: che, anche se possiamo tirare avanti, la nostra esperienza è priva di piacere, o di brio. Noi cominciamo a razionalizzare la depressione quasi nel momento stesso in cui compaiono i primi sintomi. "Passerà," diciamo, oppure "Ma sì, conosco forse qualcuno che sia davvero felice?". Mentre mia figlia diventava sempre più triste e spenta, io cominciai a pensare: fra poco si sposerà, avrà dei bambini, e allora tutto andrà a posto. Pensavo questo perché cosi era successo nel mio caso. Avere dei figli mi aveva sollevata per un certo tempo, e senza dubbio mi aveva resa meno concentrata su me stessa, sulle mie difficoltà. Ma nella vita di una donna può succedere che nel rispondere alle necessità altrui essa ignori un senso di vuoto che si annida nella sostanza di ogni cosa. Quando si scopre che una figlia sta male Quando Gabrielle compì venticinque anni, fu chiaro che le stava succedendo qualcosa che il fatto di avere dei bambini non avrebbe risolto. La sua affidabilità di una volta stava lentamente declinando. Un giorno mancò a un appuntamento con me: eravamo

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d'accordo che saremmo andate a colazione fuori. "Mi sono dimenticata," fu la sua scusa. Parecchie volte le telefonai nel suo ufficio nelle ultime ore della mattinata scoprendo che i suoi colleghi si aspettavano che arrivasse ancora più tardi. Quando, in queste occasioni, le chiedevo il motivo, dava sempre la colpa a un raffreddore, a un'influenza o a un mal di stomaco. Si lamentava sempre più di sentirsi affaticata. Da ragazzina Gabrielle era stata bulimica per parecchi anni, e ora mi chiedevo se il suo apparato gastrointestinale non fosse rimasto compromesso dalle sue intemperanze alimentari e dal suo abuso di lassativi. Le suggerii di farsi visitare, ma dopo un po' i disturbi scomparvero e il medico fu dimenticato. In seguito, però, i malesseri e i dolori tornarono. Si può immaginare quali furono le mie supposizioni. Pensai alle droghe, pensai all'alcol, pensai che forse era ancora bulimica. A volte osservavo che mi sembrava depressa. "Forse sono stata davvero depressa e non me ne sono accorta," commentò una volta. I nostri colloqui non andarono mai oltre a questo. In qualche modo pensavo che stesse a lei scoprire

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cosa c'era che non andava. E così che ci è stato insegnato a pensare circa i problemi che consideriamo psicologici Comunque ero preoccupata. Mi sembrava che la faccia di mia figlia avesse perso parte della sua mobilità di espressione. Sorrideva di rado. Le sue risposte erano sempre più secche, noncuranti. Tutti noi non lo sapevamo, ma Gabrielle stava vivendo un'imponente parabola di cambiamento umorale che si protraeva da mesi. Ingannevole era anche la sua apparente capacità di funzionare nella vita di tutti i giorni. Svolgeva un lavoro impegnativo, come assistente del direttore di una piccola agenzia di pubbliche relazioni. Da quando era andata a vivere per conto suo non aveva mai chiesto un aiuto finanziario. Ora pensavo che avesse bisogno di un altro tipo di assistenza, ma non sapevo bene di che genere, e neppure se sarei stata in grado di fornirgliela. H mio analista m'incoraggiò a smetterla di sentirmi responsabile. "Non è più una bambina," osservò. "Sa cos'è la terapia. Se la vuole, l'avrà." Questa, in realtà, è un'idea sbagliata quando si tratta di turbe dell'umore, anche se è la convinzione

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di molti psicoterapeuti. Chi è depresso ha bisogno che altri riconoscano i suoi sintomi e può anche aver bisogno di essere aiutato a ottenere aiuto. I sintomi progrediscono gradualmente, insidiosamente, cosi che è difficile riconoscere cosa sta avvenendo. Il modo di pensare stesso risulta compromesso, così che il paziente finisce col colpevolizzarsi per la propria inefficienza. Ne consegue un circolo vizioso, in cui egli non può muoversi perché è depresso, ed è sempre più depresso perché non può muoversi! Come tutte quelle persone - e sono un gran numero - che continuano a cercare di farcela mentre intimamente sono sempre più disperate, Gabrielle continuò a lavorare, sperando che qualsiasi cosa fosse ciò che le stava rendendo cosi difficile compiere il proprio lavoro sarebbe scomparso. Alla fine si trovò ridotta a non potersi recare in ufficio la mattina. Le ci vollero alcune settimane prima che si decidesse a dirmi che stava male e aveva bisogno di aiuto. Seriamente preoccupata e senza avere idea di cosa ci fosse in lei che non andava, Gaby se ne stava tutta sola nel suo appartamento e non rispondeva alle telefonate. Per pagare le bollete

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stava andando in rosso con le sue carte di credito. In viaggio d'affari in Europa, le avevo telefonato e scritto da Amsterdam, Francoforte e Milano. Per mesi la sua segreteria telefonica aveva trasmesso un messaggio che era in superficie cortese e spigliato, ma in sostanza lontano in modo inquietante. Sentendolo giorno dopo giorno da un altro continente, lo trovai sinistro. "E stata una giornata normale qui a New York," annunciava mia figlia in tono sommesso. "Gab se ne stava tranquillamente oziando ma poi ha sentito bussare alla porta, dei colpi che non poteva ignorare, e così è uscita nella zona dell'ignoto, ma pensiamo che tornerà a casa, perciò siete pregati di lasciare un messaggio." Dopo queste parole si sentiva il prevedibile segnale acustico e poi più niente. Avrò sentito questo triste messaggio una dozzina di volte. Alla fine, da Venezia -erano le due di mattina, ora locale - la supplicai in termini espliciti, dicendole quanto le volevo bene e quanto ero preoccupata, e che per l'amor di Dio mi telefonasse. E questa volta finalmente mi chiamò, dicendomi che si stava mettendo molto male. "Bisogna che parli con qualcuno," ammise. Le chiesi se

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voleva che l'aiutassi a trovare uno psicoterapeuta. Rispose di sì. "Non credo di averne l'energia," aggiunse. Quattro giorni dopo ero di ritomo a New York. Una nuova comprensione Quello che ora capisco è che Gaby mostrava i sintomi di una grave depressione, parte di un intero spettro di turbe dell'umore che sono ampiamente diffuse nella nostra popolazione. Scoprendo la natura biologica della depressione, gli scienziati hanno compiuto progressi sensazionali. Quanto sta oggi avvenendo nel campo della biopsichiatria è rivoluzionario. Si è scoperto che minuti turbamenti nell'equilibrio dei neurotrasmettitori, i messaggeri chimici che regolano l'umore, provocano importanti modificazioni nel comportamento e nel pensiero, e perfino nel sistema immunitario. E per questo motivo che i depressi perdono la capacità di pensare in modo corretto e si ha un calo di energia, appetito e libido. Le turbe dell'umore non influiscono soltanto sull'umore. Sono malattie complesse che ci colpiscono sia tisicamente sia mentalmente. È una fortuna che la scienza stia facendo passi da gigante nella comprensione delle turbe dell'umore, perché esse sono sempre

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più diffuse. Una donna su quattro e un uomo su dieci - ovvero un totale di 13,7 milioni di persone negli Stati Uniti - possono aspettarsi di subire almeno un episodio debilitante dì turba dell'umore nel corso della vita. Negli individui nati dopo la seconda guerra mondiale, il tasso di depressione è in aumento. Sono stati suggeriti molti motivi per questo fenomeno, compreso l'aumento del consumo di droghe e di alcol e della disoccupazione, anche se in realtà nessuno conosce realmente il motivo dell'incremento della depressione. Una volta la depressione era una malattia degli anziani. Adesso non è più cosi Un nuovo studio governativo ha riscontrato che sono i giovani a essere più soggetti alla depressione. Sono inoltre più soggetti a suicidarsi. In parte, si deve sia alla gravita sia alla diffusione di queste patologie se la ricerca ha conosciuto un boom. Progressi sensazionali sono stati compiuti nella classificazione, nella diagnosi e nella cura della depressione e dell'ansietà, e anche delle tossicodipendenze. Eppure c'è un divario enorme fra quello che la scienza sa sul trattamento di questi disturbi e quello che i medici conoscono e

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applicano. La maggior patte di loro si sono laureati prima di questo nuovo fervore di ricerca e prima che i suoi risultati si rendessero disponibili, e molti tuttora 1 ignorano. Spesso perfino alcuni psichiatri non riescono a mantenersi al passo con i progressi compiuti in campo farmacologico. Uno studio condotto dal National Institut of Meritai Health (NIMH)1 ha mostrato che a oltre la metà dei pazienti depressi, compresi quelli con forme gravi e protratte della malattia, venivano somministrati ì farmacì sbagliati... quando pure gli veniva prescritto qualcosa! I tranquillanti sono ancora le medicine più comunemente usate per curare la depressione, anche se non esercitano nessun effetto sulla malattia. Ma soltanto a un terzo delle persone che si mettono in cura vengono prescritti i farmaci giusti, indica lo studio del governo, e solo in un caso su dieci essi sono stati somministrati nelle dosi adeguate. La disinformazione imperante fra medici e psicoterapeuti ha indotto il NIMH, a istituire un programma del costo di molti milioni di dollari con lo scopo di educare medici e specialisti di salute mentale. Nel 1988, sotto gli auspici del governo, gruppi di

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esperti cominciarono a battere l'intero paese, impartendo minicorsi intensivi su come riconoscere - e curare - la depressione. Secondo il NIMH, la depressione è una malattia per cui esiste una cura notevolmente efficace, ma la maggior parte dei pazienti depressi non vengono curati. O in primo luogo non si rivolgono al medico, nell'errata convinzione che la depressione sia qualcosa a cui non dovrebbero "cedere", oppure i medici non forniscono una cura adeguata. In effetti la quantità di diagnosi sbagliate, o la totale mancanza di diagnosi di depressione, nel nostro paese è impressionante. H governo ha scoperto che la maggior parte dei medici sbagliano completamente la diagnosi. Non sono aggiornati sulle nuove informazioni. Addirittura possono non sapere che la depressione ha una base biologica, e che spesso bisogna ricorrere alla cura con farmaci antidepressivi. La grande maggioranza dei medici prescrivono tranquillami e ansiolitici, che non fanno assolutamente niente per curare la depressione. Su questa allarmante realtà si fece luce con uno studio epidemiologico condotto dal NIMH all'inÌ2Ìo degli anni ottanta, da cui sono scaturite informazioni che nella loro totalità sono state pubblicate

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di recente in Psychiatric Visorders in America. "Si tratta di una base di dati senza confronti," affermano Lee N. Robins, Ben Z. Locke e Darrel A. Regier. "È la più valida e fondamentale massa d'informazioni sulla portata e suEa varietà delle turbe psichiatriche che sia mai stata raccolta".2 Furono ptese in considerazione oltre ventimila persone in cinque parti degli Stati Uniti. Studi del genere condotti in passato sono stati fatti su scala molto minore, e hanno riguardato individui che erano già stati identificati come ammalati: pazienti, insomma. Questo studio scopre per la prima volta quante siano le persone affette da vari disturbi psichiatrici nella popolazione in generale. Rivela quanti sono ammalati senza che la loro malattia sia stata identificata o curata. Le cifre sono inquietanti. Un americano adulto su tre ha sofferto in un momento o l'altro della sua vita di un disturbo psichiatrico: un 36% degli uomini a lato di un 30% delle donne. Negli anni ottanta, quando fu condotto lo studio epidemiologico, il 20% degli americani erano attivamente ammalati. Le turbe dell'umore vere e proprie sono piuttosto comuni, essendosi manifestate nefl'8% della popolazione

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adulta. Ma secondo Myrna Weissman, che era stata incaricata di raccogliere e interpretare i sondaggi sulla depressione condotti per conto del NIMH in vista della pubblicazione di Psychiatric Disorders in America, "gravi e persistenti sintomi della sfera affettiva sono ancora più comuni, e alcuni sono stati riscontrati in circa un terzo della popolazione adulta." D NiMH decìse di promuovere la sua campagna educativa sulle turbe dell'umore, perché sono fra i più comuni - e più curabili - problemi psichiatrici. Oggi sappiamo che la maggior parte degli individui con turbe dell'umore non ricevono l'assistenza che potrebbe cambiare la loro vita. Alcuni soffrono per mesi, perfino per anni, di subdole forme di depressione cronica che impediscono loro di avere buoni rapporti e di svolgere un lavoro gratificante. Altri hanno depressioni gravi ed episodiche i cui sintomi sono ancora più acuti e debilitanti. In realtà, queste depressioni "gravi" sono di solito più facili da curare delle più lievi forme croniche, ma i loro sintomi sono così allarmanti che la maggior parte dei pazienti ne soffrono in silenzio, cercando di aspettare che passino senza

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rivolgersi al medico. La depressione è episodica, e anche nella sua forma "cronica" alla fine entra in remissione. Nel frattempo, però, le persone patiscono sofferenze psichiche e fisiche che provocano una terribile difficoltà nella loro esistenza. Inoltre, quando la depressione non viene curata, spesso peggiora. Oltre sedicimila americani si suicidano ogni anno, di solito a causa della depressione. Molti depressi diventano schiavi delle droghe o dell'alcoL Lo studio epidemiologico del NiMH ha appurato che metà delle donne alcolizzate hanno una storia di depressione grave; in due terzi di loro la depressione precede l'alcolismo. È indubbio che la depressione ha un costo molto pesante. Uno studio recente mostra che è più debilitante e provoca più giorni di degenza a letto delle altre otto malattie croniche più gravi, comprese le affezioni cardiache.5 Rimane questo interrogativo: perché la gente continua ad assoggettarsi passivamente a questa dolorosa malattia? Sicuramente il timore della disapprovazione sociale svolge il suo ruolo. Il NIMH ha riscontrato un'enorme resistenza nel pubblico, in generale, alla richiesta di cura per

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la depressione. Peggio ancora, ha trovato un'analoga resistenza alla diagnosi e alla cura di malattie depressive da parte di medici! Il costo a carico degli individui, e dell'economia, è enorme - stimato in 16,3 milioni di dollari all'anno negli Stati Uniti. Eppure, anche se miliardi di dollari sono stati spesi in ricerche che hanno prodotto progressi sensazionali nella cura di queste malattie, il pubblico continua a restare disinformato. E a soffrire. I depressi tendono a negare, o a fraintendere, i loro sintomi. Attribuiscono i sintomi fisici della depressione a un"'influenza," e i sintomi mentali all'affaticamento, o a una dieta sbagliata. Nel sondaggio Roper del 1986, soltanto il 12% degli intervistati dichiararono che avrebbero preso farmaci contro la depressione se fossero stati messi a loro disposizione. Il 78% affermarono che avrebbero aspettato il recedere spontaneo della malattia.4 La negazione della depressione è dovuta, in ampia misura, al pregiudizio sociale. Nessuno vuole ammettere di essere depresso. È come ammettere di avere una scarsa forza di volontà. In qualche modo ci siamo fatti l'idea che i coraggiosi non si lasciano

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andare alla depressione. Quando le persone sono depresse, anche gravemente, tendono, ad attribuirsi la colpa del loro stato letargico, della loro incapacità di "darsi una mossa." Se fossimo migliori non ci "lasceremmo andare" così. Quello che finiamo per sconfessare è una malattia che ha bisogno di cure urgenti come il diabete o il mal di cuore. Migliaia di scienziati sono alla ricerca di metodi migliori di trattamento e di prevenzione, e stanno facendo progressi straordinari. I passi avanti compiuti nell'ultimo decennio hanno cambiato enormemente la situazione. Oggi nove pazienti su dieci affetti da turbe dell'umore o da ansietà hanno ogni motivo di aspettarsi una cura efficace. E, come è stato scoperto di recente, lo stesso vale anche per altre persone colpite da malattie che sono biologicamente correlate alla depressione. Le malattìe della sfera affettiva: un'ipotesi radicale Nel 1990 una nuova e radicale teoria della malattia mentale emerse dal laboratorio di ricerca psichiatrica del McLean Hospital, nei dintorni di Boston. Si basava su un'importante scoperta scientifica fatta nello stesso laboratorio - e dagli stessi

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scienziati - un decennio prima. All'inizio degli anni ottanta, due dei più noti ricercatori in campo psichiatrico, James Hudson e Harrison Pope, della facoltà di medicina di Harvard, scoprirono che la bulimia, un disturbo dell'alimentazione consistente in fame morbosa e conseguente assunzione di lassativi o vomito autoindotto, è provocata da uno squilibrio chimico all'interno del cervello, forse per un'insufficienza di un "neurotrasmettitore," la serotonina. Quando il loro livello di serotonina viene aumentato, la maggior parte dei pazienti affetti da bulimia smettono di rimpinzarsi. Questo misterioso disturbo dell'alimentazione, che per anni aveva suscitato la perplessità dei medici, finalmente cominciava a essere compreso. E per fortuna, poteva essere curato con la medicina! (Il trattamento medico di vari tipi di disordini alimentari compulsivi viene discusso per esteso nel quinto capitolo). Nello stesso tempo, altri studi cominciavano a mostrare che la bulimia è collegata alla depressione grave. E inoltre è collegata all'ansietà e all'abuso di alcol o di droghe. La cosa più interessante, però, fu la scoperta che tutti questi problemi si concentravano a parenti

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di persone affette da bulimia. Le persone bulimiche hanno genitori che presentano abitudini alimentari patologiche e/o sono depressi e/o fobici e/o soffrono di sindrome panica e/o sono alcolisti o tossicodipendenti Una donna bulimica può essere depressa e alcolista e fobica. Mentre gli studi su situazioni familiari cominciavano a mostrare una relazione fra depressione, bulimia e altri disturbi, gli psicofarmacologi fornivano dati clinici che confermavano la stessa relazione. I tarmaci amidepres- sivi, scoprirono, esercitano un effetto potente su molte malattie, non solo sulla depressione. Per esempio, nella sindrome ossessivo-compulsiva, che è estremamente debilitante, il miglioramento è sensazionale. Dopo qualche settimana di somministrazione di un antidepressivo molti pazienti affetti da sindrome ossessivo-compulsiva smettono di continuare a lavarsi le mani, di contare le cose o di "controllare". H panico e la fobia rispondono altrettanto rapidamente agli antidepressivi. Ne trae giovamento la bulimia, come scoprirono Hudson e Pope. Lo stesso dicasi di certe forme di fame

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ossessiva di carboidrati che portano all'obesità. Col progredire della ricerca sulle malattie sensibili all'azione di questi antidepressivi, Hudson e Pope cominciarono a rendersi conto che esiste una sindrome, una rete di malattie in precedenza considerate completamente a sé stanti, che sembravano invece collegate fra loro. Innanzi tutto, erano scatenate dall'assetto genetico. Andando a indagare nelle storie familiari, Hudson e Pope trovarono che i depressi avevano genitori, zii, cugini e nonni che non solo soffrivano di depressione, ma anche di alcolismo o problemi di dipendenza, bulimia, attacchi di panico o qualche debilitante combinazione di queste patologie. In secondo luogo, tutte queste affezioni reagiscono a farmaci che accrescono i livelli di serotonina e di altri neurotrasmettitori nel cervello! Per Hudson e Pope, ciò sollevava uno stimolante interrogativo. Queste malattie non potevano essere in realtà manifestazioni di un unico disturbo organico? E, ancora più audacemente, la scienza non avrebbe potuto alla fine trovare un unico farmaco per tutte quante? In un saggio pubblicato nel 1990, che segnò una svolta, gli scienziati

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presentarono per la prima volta la loro teoria sul rapporto fra tutte queste patologie, che hanno classificato "malattie della sfera affettiva". Più recentemente hanno scritto che "l'impulso del cleptomane a rubare, quello della bulimica a mangiare srnodatamente, quello dell'ossessivo-compulsivo a compiere rituali insensati, quello del giocatore patologico a giocare d'azzardo e quello del tricomaniaco a strapparsi i capelli possono tutti dipendere da anomalie del sistema nervoso centrale simili a quelle che si presumono in atto nelle turbe gravi dell'umore". Quest'idea è corroborata da studi biochimici, oltre che da certe evidenti analogie fra le varie manifestazioni morbose.6 Più gli scienziati elaborano questa ipotesi della "sfera affettiva" più si convincono di essere sulla pista giusta. "Noi prevediamo che alla fine verrà trovata un'anomalia fisiologica in pazienti colpiti dalle varie affezioni che abbiamo elencato nella categoria della sfera affettiva," ci disse Harrison Pope, nel suo studio al McLean Hospital. "E se avessimo ragione, se la nostra ipotesi trovasse conferma, ciò dimostrerebbe che questa è forse la singola

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malattia più devastante dell'umanità. Nella loro totalità, le varie forme di turbe della sfera affettiva colpiscono forse circa la metà della popolazione del mondo. E la scopetta deE'anomalia, ammesso che essa esista, significherebbe un formidabile balzo in avanti, perché ci permetterebbe di andare alla fonte di molti di questi disturbi anziché doverci limitare a cercare di studiarli singolarmente." // secondo stadio: alla scoperta del collegamento II primo stadio della rivoluzione della biopsichiatria è consistito nella scoperta di farmaci che influiscono sull'umore e sulla psiche. Nel secondo stadio, gli scienziati stanno scoprendo perché queste sostanze esercitano i loro effetti e in che modo le malattie da loro influenzate sono collegate fra loro. Un fondamentale interrogativo a cui gli scienziati del secondo stadio devono dare risposta è questo: che cosa succede nel cervello di coloro che sono ossessivi, che sono ansiosi, che mangiano compulsivamente, che soffrono di fobie, che abusano di sostanze modificatoci dell'umore? Qual è il nesso? Esistono determinate disfunzioni del cervello che tutti questi pazienti condividono? Se è così, non è più

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facile che le storie familiari, i fattori di rischio e la potenziale prevenzione dei disturbi possano essere spiegati da lievissime disfunzioni metaboli-che anziché da tutte le teorie psicosociali messe assieme? Con la loro nuova teoria, Hudson e Pope suggeriscono che le varie forme di quelle che chiamano "malattie della sfera affettiva" rispondano allo stesso tipo di farmaco perché processi cerebrali simili funzionano in modo anomalo in tutte. Certi neurotrasmettitori che regolano l'umore non fanno quello che dovrebbero; nel panico come nella bulimia, nella depressione come nell'emicrania. Una connessione fondamentale fra questi disturbi è un ormone del cervello, la serotonina. Quello che gli antidepressivi fanno in tutti questi pazienti è un accrescimento del livello della serotonina. Quindi le malattie della sfera affettiva sono in qualche modo collegate a un abbassamento del livello della serotonina o di altri neurotrasmettitori: e la predisposizione a tale basso livello, secondo Hudson e Pope, è ereditaria. Moltissime turbe psichiatriche una volta ritenute del tutto localizzate "nella mente" cominciano a essere viste come di origine più biochimica

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che psicologica. Il concetto stesso di nevrosi è oggi sotto assedio. I tarmaci che influiscono sulla produzione di neurotrasmettitori non solo equilibrano l'umore ma si ripercuotono anche sul modo di pensare, di creare e di rapportarsi agli altri. Le sostanze chimiche del cervello che regolano l'umore influiscono sulla totalità della nostra personalità. L'approccio biochimico sta esercitando un effetto strepitoso sia su terapeuti (alcuni dei quali vorrebbero minimizzare l'importa iza degli apporti della biopsichiatria) sia su pazienti, che ora sono in grado di vedere i loro problemi sotto una luce meno spietata. Gli individui affetti da turbe dell'umore, da ansietà e da dipendenze da sostanze possono cessare di colpevolizzarsi. Non hanno più bisogno di sentirsi in colpa per le attività lavorative e le relazioni che si sono deteriorate, perché loro erano troppo ammalati per "funzionare" adeguatamente. Possono cominciare a concentrarsi invece sul compito che hanno davanti, quello di guarire. Per molte delle malattie che una volta erano considerate puramente "psicologiche" c'è una pillola. La cura medica, naturalmente, non è una semplice panacea a effetto immediato.

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Nondimeno, le ramificazioni delle nuove teorie e strategie di cura sono straordinarie. Farmaci che accrescono il livello di serotonina e di altri neurotrasmettitori sono stati gettati su un mare tempestoso di malattia mentale, raccogliendo, come un'enorme rete protettiva, ogni sorta di problemi chimici, compresi disturbi dell'alimentazione, emicranie, sbalzi d'umore, e, perché no, perfino tossicodipendenze. Studiosi delle tossicodipendenze sono arrivati alla conclusione che l'abuso di sostanze è spesso collegato alle malattie della sfera affettiva. Come trovare l'aiuto giusto La cosa strana, la cosa di cui non sono ancora oggi sicura, è come finii per adottare con Gabrielle quella particolare linea d'intervento. In parte dipese da alcuni colloqui che avevo avuto con Èva, una mia vecchia compagna di stanza dell'università, una donna che non vedevo da anni e la cui figlia era stata curata farmacologicamente per la sua depressione. Inoltre il marito di Èva era maniaco-depressivo, e alla fine si era suicidato. La figlia, Nikka, al suo secondo anno di università sprofondò in uno stato depressivo tale da non poter studiare per prepararsi agli esami e da far fatica a scendere dal letto. Èva le

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aveva detto: "Prendi un aereo e vieni a casa stasera stessa." "Ma siamo alla fine del semestre," aveva replicato sua figlia, "ci rimetterai la retta." "Prendi l'aereo," aveva insistito la mia amica. "Ora non è il caso di pensare ai soldi." Il primo psichiatra a cui si rivolsero stabilì che non c'era niente che non andava, salvo che la ragazzi era preoccupata per i suoi esami, ma Èva obiettò: "Come sarebbe a dire che non c'è niente che non va? Se ne sta a letto in posizione fetale tutto il giorno." Ala fine, un altro psichiatra trovò che Nikka soffriva di ciclotimia, una versione meno grave della sindrome bipolare da cui era stato affetto suo padre. Col litio, la ragazza non tardò a migliorare enormemente, e poco dopo andò a Londra a proseguire gli studi. Come non avrei potuto restare colpita dalle analogie fra la storia di questa famiglia e quella della mia? Mi eccitai molto, perché sembrava che la depressione di Gabrielle, come quella di Nikka, potesse avere un'origine biologica. Se era cosi avrebbe potuto essere curata con farmaci. Le telefonai e le dissi: "Penso che dovremmo andare da uno psicofarmacologo per vedere se quello

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di cui soffri è depressione." Le raccontai dell'esperienza di Laurie. Gabrielle ascoltò, lasciò passare qualche minuto e poi commentò: "Ma come la mettiamo se non sono depressa?" Poi rise; una bella risata. La diagnosi di Gabrielle richiese un fuoco di fila di domande e una visita medica. Alla fine lo psichiatra m'invitò nel suo ufficio e mi disse che mia figlia soffriva di depressione grave, una malattia con episodi ricorrenti della durata di sei mesi o più. Era la forma unipolare, a suo avviso, non il tipo maniacale di cui aveva sofferto suo padre. La depressione non viene necessariamente trasmessa alla generazione successiva nella stessa forma, spiegò. È più facile che il figlio di un genitore affetto da depressione bipolare finisca con una depressione unipolare. D medico era certo che Gaby avrebbe potuto essere aiutata con un antidepressivo. Sarebbe stata controllata ogni settimana per osservare gli effetti collaterali e constatare i miglioramenti Alla fine del colloquio, il medico si rivolse a me e chiese: "Perché non si è fatta vedere prima?" Era una domanda ben precisa. La depressione di Gabrielle gli sembrava dolorosamente familiare.

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Volle conoscere i particolari della sua storia, per aggiungerli alla sua casistica di famiglie con questa malattia per tanto tempo incompresa, e spesso negata. Eppure mi era difficile fare a meno di pensare che se mia figlia fosse stata visitata prima le sarebbero srati risparmiati parecchi lunghi episodi di malattia, il primo dei quali, ora ce ne rendevamo conto, era occorso dieci anni prima, quando stava per terminare il liceo. Per sua fortuna, la battaglia di Gabrielle sarebbe finita ben presto. Un mese dopo l'inizio del trattamento, la depressione che l'aveva trascinata sempre più giù allentò la sua morsa. L'effetto del farmaco su di lei parve quasi magico. Una rinnovata energia, uno spirito rinnovato e un atteggiamento positivo, fiducioso, nei suoi rapporti con gli altri presero il posto dei suoi vecchi sentimenti di ansia e di scoraggiamento. Fatto notevole, l'inversione di rotta si verificò nel giro di qualche settimana: virtualmente non appena iniziò l'effetto del farmaco. Essa si rivolse a uno psicoterapeuta perché aveva bisogno di aiuto per riorganizzare la propria vita. Ma i suoi atteggiamenti negativi e di

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paura scomparvero così immediatamente, cosi totalmente, che fu chiaro che questo lo si doveva al farmaco. Esso aveva riequilibrato le sostanze chimiche nel suo cervello. Prima che Gabriele venisse visitata, mi aveva detto, alla fine di una delle sue brutte giornate: "Vorrei che ci fosse una pillola!" E, con un mesto sorriso, aveva aggiunto: "Certo, lo so che è una scappatoia." Questo successe quasi due anni fa, nell'estate del 1989. In quanto a me, più che pensare che fosse una scappatoia, pensavo: "Chi non vorrebbe una pillola?" La lentezza e la rigidità dei suoi movimenti, il carattere assolutamente fisico del suo stato di malessere, che aveva colpito il suo modo di parlate, il suo volto, la sua voce - così da far pensare che fosse diventata letargica, infettata da qualche morbo tropicale - erano impressionanti Per tre settimane prese regolarmente la sua medicina e soffri degli stordimenti e dei dolori muscolari che erano gli effetti collaterali temporanei Venne in campagna, e tutti noi ci demmo il turno per farle dei massaggi al collo. Un'amica di famiglia che aveva lavorato in un ospedale psichiatrico spiegò che gli effetti cottaterali

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erano segno che il farmaco stava avendo effetto. È difficile lottare con gli effetti secondari fisici di un farmaco quando ci si sente giù di morale e non si è sicuri che dallo sforzo sortirà qualcosa di buono. La rassicurazione fornita dalla nostra amica aiutò Gabrielle a tollerare questi effetti indesiderati, e non passò molto che regredirono. Gabrielle si rese conto che l'antidepressivo aveva cominciato ad agire a livello terapeutico quando successe qualcosa di strano. Essa fu destata nel cuore della notte da un sogno straordinario: una serie di enormi dipinti astratti a colori sgargianti Era così eccitata dalle immagini del sogno che cercando una penna svegliò sua sorella. Le forme e i colori di quei quadri onirici erano di una suggestione così irresistibile che voleva descriverli per non dimenticarli La mattina dopo Gaby disse che era da tanto tempo che non riusciva ad avere un'esperienza creativa, e che questo la rattristava. Questo tipo di tristezza non era depressione, ma un normale senso di rammarico per una perdita reale. Quando si sentì più su di morale, la prima cosa che Gabrielle volle fare fu una ripulita al suo appartamento. H suo psicoterapeuta le

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aveva chiesto: "Non può chiedere a un'amica di darle una mano?" Gabrielle aveva risposto di no. Non che non avesse amiche, ma era troppo imbarazzata per la sua situazione. Le chiesi se io potevo aiutarla, e lei disse di sì. Una settimana dopo ci mettemmo insieme all'opera. Le grandi pulizie in casa di una figlia sono qualcosa che non avrei mai pensato di dover fare: a meno che, beninteso, non fosse malata. E Gabrielle era malata, ed era chiaro come il sole che aveva bisogno di essere aiutata in quest'impresa degna di Èrcole. C'era da mettersi le mani nei capelli di fronte a quel caos, ma pensai bene di far finta di niente. Quello che mi fece più impressione fu il tubo della doccia. I suoi armadi erano talmente in disordine da essere diventati inservibili, e lei appendeva i vestiti al tubo orizzontale della doccia. Rimaneva soltanto uno stretto varco attraverso cui poteva intrufolarsi fino alla vasca. Questa disorganizzazione mi sconvolse e mi amareggiò molto. Mi rammaricai di non aver capito prima in che condizioni disperate si fosse trovata. Tuttavia, il nostro sfaccendare in quell'appartamento trascurato, per renderlo di nuovo pulito, ridente e

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ordinato, si tradusse per entrambe in una grande esperienza di comunione. Imperversava la canicola d'agosto, e il condizionatore d'aria era guasto. Lavoravamo con addosso solo la biancheria intima, con rivoli di sudore che ci scorrevano lungo il corpo, mentre i tre gatti di Gaby assistevano allo spettacolo. Ridevamo, mangiavamo yogurt ghiacciato e bevevamo litri di Diet Pepsi. Fregavamo il pavimento ascoltando musica rock dallo stereo. Dopo aver pulito il pavimento, tinteggiammo le pareti. Gabrielle continuava a correre all'emporio a comprare vernici e piccoli contenitori per sistemarvi tutto quanto. L'intero lavoro ci prese due settimane. E poi Gabrielle cominciò a comprare fiori. Ne comprava ogni giorno. "Ci crederesti, mamma? Solo tre dollari," diceva, mostrando un grosso mazzo. C'era un uomo sulla sesta strada che li vendeva a prezzi buoni: tulipani, fresie, giaggioli. Un giorno entrai nel suo appartamento e lo trovai tutto adorno di fiori. Ce n'erano dappertutto: sul tavolo, sul davanzale, in alto sull'appa- recchio stereo, e poi in cucina, nella stanza da bagno, sul tavolo accanto al suo letto. E i suoi gatti, quei tipi turbolenti che forse,

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pensavo, l'avevano salvata, si comportavano come se tutto questo fosse stato fatto per loro, ed erano al settimo cielo. Oggi la scienza ha chiaramente stabilito l'importanza della biochimica del cervello nella maggior parte delle turbe dell'umore e delle tossicodipendenze, eppure sono in molti ad aver difficoltà nel prendere atto di queste informazioni, nell'usarle per svecchiare le loro idee. Noi pensiamo ancora che diventiamo depressi perché "non ce l'abbiamo fatta," perché "non ci siamo fatti valere" col coniuge, col fratello o con la sorella, oppure col capufficio, perché non ci siamo "separati" dai nostri genitori. La nostra lista di motivi a cui attribuire il fatto che siamo ossessionati da sbalzi d'umore e dipendenze da sostanze continua all'infinito. Non siamo "andati al fondo" delle cose. Non abbiamo imparato ad amare noi stessi. Come criceti in una gabbietta, corriamo sulla ruota di un incessante autoesame. Frattanto i nostri problemi peggiorano. Ora sta emergendo un nuovo concetto. Il piatto, disanimato limbo deDa depressione comincia a essere visto non come "mentale," nel vecchio senso, ma come biochimico. Alla fine,

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la biopsichiatria aiuterà le persone a comprendere che le distorsioni cognitive e il negativismo che accompagnano la depressione ne sono non la causa, ma l'effetto. Quando si sarà arrivati a questo, forse il pregiudÉio e quasi la condanna associati a un gruppo dì malattie di cui soffrono senza colpa milioni dì persone - e da cui la maggior parte di loro possono essere guarite - cominceranno a regredire. Mi rattrista pensare che forse mio marito non fu curato con successo perché egli rappresentò uno dei primi casi sperimentali d'impiego del litio nel nostro paese. Per esempio, il medico che gli ordinò le medicine non gli consigliò anche la psicoterapia. Senza un sostegno psicologico, chi è affetto da sindrome bipolare trova difficile accettare di avere una malattia cronica. Particolarmente disorientanti sono i periodi di umore normale. Molti di questi pazienti sono tentati di smettere il trattamento, nel desiderio di credere che sono guariti, che non avranno più una ricaduta. Ed non fu diverso in questo. Ma ogni volta che smetteva di prendere il litio diventava maniacale nel giro di settimane. Quando usciva da questo stadio, diventava

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gravemente depresso. Col passare degli anni, sia i periodi maniacali sia quelli di depressione peggiorarono. Ed fece ogni sforzo per continuare a leggere, ascoltare musica, cercare di scrivere, ma alla fine non fu più in grado di guadagnarsi da vivere. Poi, un giorno, dieci anni dopo l'insorgere della malattia - era l'estate del 1979 - entrò nel reparto di pronto soccorso di un grande ospedale di New York accusando dolori allo stomaco, e due ore dopo era morto. Un medico interno, giovane e preoccupato, mi avvertì per telefono. Ormai abitavo coi bambini fuori città ed ero separata da Ed da otto anni. Chiesi al medico come si erano svolte le cose. Non fu in grado di dirmelo. Più tardi il referto dell'autopsia rivelò una peritonite, anche se essa non fu presentata come la causa del decesso. L'ospedale non riuscì a riscontrare altro che le possibili conseguenze di una vecchia ulcera, tanto tempo prima guarita. Ancora oggi, i suoi figli e io non sappiamo che cosa 10 uccise, ma io non ho mai dubitato che la sua mortesia stata collegata alla sua malattia. Sappiamo che avevasmesso di prendere la sua medicina. Parecchi mesi prima

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di morire si era unito a un gruppo di alcolisti anonimi,ed era stato energicamente incoraggiato a smetterla con 11 litio. Cercai di convincerlo che questo era pericoloso,ma lui era sotto l'influenza del suo gruppo, che nontollerava i medicinali Molti dei membri dell'associazionedegli alcolisti anonimi non comprendono che per certe forme di depressione la terapia farmacologica è una necessità, e che i farmaci, non determinando dipendenza, non compromettono la sobrietà. Quando Ed si rivolse al pronto soccorso era da settimane che non prendeva il litio ed era in preda a un grave stato maniacale. Al tempo della malattia di Ed, secondo gli psichiatri non rientrava nella pratica della loro professione dedicare molto tempo al compito di sensibilizzare i pazienti e i loro familiari. Purtroppo è spesso ancora così. È stato riconosciuto che le turbe dell'umore e perfino le tossi-codipendenze hanno un'importante componente biologica. E questa scoperta ha portato a un'esplosione di informazioni che riempiono di ottimismo e di speranza; eppure, in prevalenza, il pubblico ne rimane

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all'oscuro. Disgraziatamente, circa I'80% di coloro che soffrono di depressione non riescono a riconoscere la malattia e ad ottenere la cura che li aiuterebbe. Molte nuove acquisizioni scientifiche possono favorire la cura della depressione e portare, alla fine, alla sua stessa prevenzione. La creazione di criteri diagnostici standardizzati ha reso più facile a psicoterapeuti, medici e professionisti di varie specializzazioni nel settore della salute mentale il riconoscimento delle turbe dell'umore e dell'ansia, almeno quando imparano a servirsene. La sempre più puntuale tipizzazione e sottotipizzazione della depressione ha reso più sofisticata la diagnostica e accresce le probabilità di successo della cura. Curare i diversi tipi è diventato molto più coronato di successo, grazie a farmaci nuovi e più selettivi Se, oltre al numero recentemente scoperto di "depressi puri" consideriamo anche le turbe della sfera affettiva che a volte coesistono con la depressione, e che pari-menti vengono alleviate dagli antidepressivi - panico, fobia, sindrome premestruale, tossicodipendenze, bulimia, emicrania e perfino, come certi ricercatori

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hanno cominciato a sospettare, la sindrome da affaticamento cronico - stiamo parlando di una porzione della popolazione ampia in modo allarmante, tutti casi di sofferenza prodotta da un sopravvenuto squilibrio di determinate sostanze chimiche nel cervello. Non potrebbe darsi, come gli scienziati hanno cominciato a suggerire, che questi disturbi, anziché "mentali" nel vecchio senso della parola, siano in realtà malattie fisiche con conseguenze cognitive, ovvero distorsioni mentali che recedono una volta che si è intervenuti sullo squilibrio chimico? La predisposizione o la vulnerabilità a queste malattie le ereditiamo dai nostri genitori e dai nonni? E i nostri figli, a loro volta, le erediteranno da noi? Questo modello biologico dei disturbi dell'affettività che si sta gradualmente consolidando è di per sé deprimente, disperante, oppure offre possibilità di cura, o addirittura di prevenzione, che non ci eravamo mai neppure sognati? Sono questi gli interrogativi che oggi si pongono ai ricercatori e ai medici che stanno lavorando alle frontiere della biopsichiatria. Quello che hanno scoperto, e continuano a scoprire,

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praticamente da un giorno all'altro, è sia affascinante sia estremamente incoraggiante. Il mio scopo nello scrivere questo libro è di raccontare la storia di come e perché la psichiatria ha spostato la sua teoria delle turbe dell'umore, dell'ansia e delle tossicodipen-denze su un piano biomedico, e di descrivere le nuove cure che possono alleviare sensibilmente i sintomi, spesso fino a eliminarli del tutto. Prese nella loro totalità, queste patologie colpiscono più persone di quanto si sia mai sospettato: "forse metà della popolazione del mondo," come ci ha detto Harrison Pope. Eppure una massiccia percentuale di casi non vengono curati. Questo perché ci portiamo ancora dietro un atteggiamento di stigmatizzazione e un'ignoranza quasi medievali Pensiamo a quanto siamo aggressivi nel curare malattie che consideriamo fi iche, mentre evitiamo di intervenire su quei disturbi che distorcono le nostre emozioni e le nostre facoltà mentali. La paura e il sospetto abbondano. Questo è uno ostacolo che va rimosso. Milioni di esseri umani sono colpiti da queste malattie che oggi definiamo della sfera affettiva. Molti conducono vite che sono limitate, se non straziate

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dalla sofferenza. Ma, con una diagnosi e una cura adeguate, esse possono rapidamente trasformarsi in vite più piene: dinamiche, creative e arricchite dalla meraviglia dell'esistenza. La "serotonin connection' tontificare è un'amica tattica di difesa. Quando mi sento frustrata dal rifiuto di qualcuno di ascoltare quello che dico, è facile che io monti in cattedra, appellandomi a fonti, citando dati, tenendo una specie di conferenza come se ne andasse di mezzo la mia vita. È successo poco tempo fa a un pranzo con invitati. Si venne sull'argomento dei disturbi dell'alimentazione. (È sorprendente quanto spesso si discuta di disordini alimentari mentre si è a tavola). Qualcuno chiese: "Ma cos'è insomma che provoca questi disturbi?" Col tono di sfida che s'insinua nella mia voce quando mi aspetto di non essere creduta, risposi: "Probabilmente è un fattore chimico." "Chimico?" fece eco un altro commensale. Tutte le teste si rizzarono di scatto dai piatti "Cosa intende per chimico?" "Be', la bulimia va spesso e volentieri a braccetto con la depressione, e tutte e due rispondono agli antidepressivi. Ci sono due scienziati a Harvard che giurano che i disturbi

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dell'alimentazione sono ereditali, come le turbe dell'umore." Seguì quel tipo di silenzio che cala quando il resto dei presenti sono in fervido dissenso ma non ne capiscono U motivo. Poi, inevitabilmente, uno psicanalista espresse il suo disaccordo: "Io penso che queste cose siano squisitamente psicologiche," sentenziò col tono placido di chi è abituato ad avere l'ultima parola. Non c'era altro da aggiungere. La discussione era chiusa. Avevo passato l'anno precedente osservando mia figlia migliorare sempre più nel suo lavoro e nella sua vita personale, avevo sentito il sorriso nella sua voce quando ci parlavamo per telefono, avevo assistito ai progressi nella sua attività di lavoro e nella sfera delle amicizie. Era bene organizzata, curiosa, intellettualmente impegnata come non era stata per almeno un decennio, e questo lo si doveva in misura rilevante all'intervento di un farmaco, la fenelzina. Ogni mattina essa depone quattro pillole rosse sul contatore della cucina accanto alle sue vitamine e col trascorrere delle ore le conta e le riconta per sapere quante ne ha già prese. Questo piccolo rituale, ne è certa, è un prezzo esìguo da pagare per il dono

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che ha ricevuto: oggi è libera di essere se stessa. Quando fui a pranzo con quello psicanalista, Gabriel-le e io avevamo compiuto ricerche nel campo della biopsichiatria per mesi. Sapevo che l'idea dell'analista che le turbe dell'umore e malattie come la bulimia fossero "principalmente psicologiche" era datata: un retaggio del passato. ìleffetto del cervello sul comportamento e sull'umore Nei due decenni scorsi, la biopsichiatria ha gradualmente ma costantemente accresciuto la sua influenza. Oggi il parere degli scienziati è che le turbe dell'umore sono provocate da certe sostanze chimiche presenti nel cervello. Esse, note come "neurotrasmettitori", inviano segnali elettrici da una cellula nervosa all'altra. La segnalazione chimica mette in moto complesse alterazioni neuronali che influiscono sui nostri comportamenti e sentimenti: perfino sui nostri pensieri. Uno dei più importanti di questi neurotrasmettitori (anche se tutt'altro che l'unico, attualmente studiato in rapporto alla depressione) è la serotonina} Fabbricata nel corpo da un aminoaddo, il triptofano, sembra che intervenga sia nel sonno sia nella regolazione dell'umore. Quando

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i livelli di serotonina si abbassano troppo, si ha una depressione dell'umore. Una volta che si determina questo sbalzo chimico, lo stimolo del sonno, l'appetito e la libido diminuiscono. L'attività e la parola rallentano, l'autostima si volatilizza e una sorta di nastro continuo di musica negativa comincia a risuonare a intermittenza nella mente: sono un disastro e tutti lo sanno, niente andrà più a posto, perderò tutto quanto. La cosa stupefacente è che questo nastro continuo può contribuire a riportare nel cervello la serotonina dal suo basso livello a quello normale. I biopsichiatri pensano che il sistema più potente per farlo - anche se non l'unico - sia attraverso un intervento chimico diretto. Gli antidepressivi funzionano perché correggono il metabolismo difettoso del cervello, permettendo agli ormoni del cervello connessi con l'umore di reintegrarsi. Esistono altri metodi per ottenere questo, fra cui l'attività fisica e l'esposizione alla luce. Ma per le turbe dell'umore abbastanza gravi da compromettere il lavoro e i rapporti con gli altri è necessario intervenire chimicamente sul sistema della serotonina. L'esercizio fisico e i bagni di luce

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da soli non producono lo stesso effetto. La serotonina, a quanto si comincia a scoprire, è implicata in molte altre malattie oltre alle turbe dell'umore. "Può essere importante nel provocare disturbi dell'appetito e nello sviluppo di ossessioni e comportamenti compulsivi," secondo James M. EUison, professore di psichiatria presso la facoltà di medicina di Harvard.2 Il sospetto che tutte queste malattie siano scompensi biochimici curabili con farmaci ha sollecitato migliaia di studi clinici e di laboratorio. "Ogni volta che viene scoperto un nuovo farmaco, un'altra malattia scompare," dichiarò lo psichiatra Paul Wender durante un'intervista nell'autunno del 1990. "Quello che stiamo per scoprire sul cervello da le vertigini."3 Quello su cui neuroscienziati e biopsichiatri vanno facendo luce altererà in modo fondamentale il nostro modo di considerare la malattia mentale. Iniziando dal cervello, la malattia mentale è sostanzialmente biologica. Appare inoltre sempre più chiaro che è di origine genetica. L'ereditarietà è stata da lungo tempo sospettata per la scbizofrenia ma non per la depressione "coltivata", per l'ansia e le "sciocche" fobie. Quello che la

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scienza ha scoperto è che non esistono depressioni coltivate, non esistono sciocche paure e fobie. Quello che le persone provano quando sprofondano in un baratro di depressione, o hanno paura di salire sugli aerei, non è "nevrotico". I dati scientifici indicano che queste malattie non sono meno "fisiche" del diabete, non più "mentali" dell'emicrania. La ricerca che ha condotto alle rivoluzionarie innovazioni del finire degli anni novanta è proseguita per circa tre decenni, ma solo di recente si è avuta una conferma ufficiale dei nuovi concetti della biopsichiatria. H modello biologico per la depressione, per esempio, fu approvato cinque anni fa, a un congresso svoltosi sotto gli auspici del NIMH. In quell'occasione, un gruppo concorde di esperti di varie specializzazioni stabilì che i farmaci antidepressivi non solo curano gli episodi acuti di turbe dell'umore ma anche accrescono la probabilità di prevenire ulteriori episodi. Gli esperti raccomandarono che gli antidepressivi fossero usati "ne! contesto di una relazione di supporto fra medico, paziente e i suoi familiari."5 Nei cinque anni intercorsi da quel congresso, molte

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altre malattie hanno cominciato a rotolar giù dal tettino dell'analista. Panico e fobia, disturbi ossessivo-compul-sivi e tossicodipendenze sono solo alcune di queste. Fra i ranghi degli psicoterapeuti serpeggia della tensione. In effetti, la rivalità fra gli psicoterapeuti che si basano sulla parola e i biopsichiatri è diventata così accesa che il bene del paziente è finito in secondo piano. Mi sono stupita per il numero delle persone da noi intervistate che gli psicoterapeuti avevano scoraggiato da un tentativo di cura con antidepressivi, anche quando le turbe dell'umore erano persistite per anni L'atteggiamento di uno psicoterapeuta che sconsiglia a un paziente costantemente depresso un tentativo di cura con antidepressivi è più ispirato da un preconcetto contro i farmaci che da considerazioni razionali, come appare evidente se solo si pensa che gli antidepressivi non creano dipendenza. Cosa c'è da perdere nel tentare? Una nuova idea che incontra resistenza "La soluzione rapida, facile e senza sforzo sarà sempre popolare," afferma Michael Yapko, autore di When Living Hurts. Yapko predica l'astensione dalle medicine. Secondo lui la depressione

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non è una malattia ma uno "stile di vita", il risultato del modo in cui una persona interpreta la vita e reagisce a essa, un "modo prevedibile d'interagire col mondo."6 Gli psicoterapeuti che condividono questa concezione credono che il loro compito sia quello di impiegare le ore del trattamento per aiutare il paziente a trovare nuovi modi d'interagire col mondo. Quando il disturbo dell'umore persiste, dedicano più ore (o settimane o mesi o anni) alla stessa imptesa, resistendo fermamente alla soluzione "rapida". Altri psicoterapeuti "ricorrono" al farmaco soltanto in extremis. "Se sono costretta a scegliere fra gli antidepressivi e l'ospedalizzazione, ricorro alle medicine," afferma la psichiatra del Maryland, Loren Mosher.7 Soltanto quando i pazienti soffrono a tal punto da diventare a rischio di suicidio dottori come Mosher offrono assistenza medica: un gioco senza cuore, e chiaramente pericoloso. Purtroppo, la stigmatizzazione delle terapie chimiche impedisce a molti di ottenere l'aiuto di cui abbisognano ed è almeno in parte perpetuata dagli psicoterapeuti Formatisi su teorie d'indirizzo psicologico, credono all'idea - su cui in certa misura

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s'impernia la loro carriera - che alla radice di tutto ci sia la "psiche", non il cervello. Per alcuni di loro, i biopsichiatri sono diventati il nemico. "Molti si comportano come se il moderno psicanalista dovesse sottomettersi alla nuova biologìa e barattare i suoi lettini con un nuovo apparecchio per l'endoscopia del cervello," deplorò con fastidio Theodore Shapiro, direttore del prestigioso Joumal of thè American Psycho-analytic Association, in un editoriale del 1989.8 Psicoterapeuti come Shapiro continuano a insistere che i farmaci sono solo per casi di estrema gravita. L'implicazione è che per chiunque altro prendere deEe pillole è la cosa da fare moralmente peggiore. Martin Seligman, uno psicologo famoso per la sua teoria che la depressione è qualcosa che impariamo, si fa paladino dello stesso tipo di scrupolo umanistico fuori luogo quando scrive nel suo heameà Optimism: "E paziente efficacemente drogato non può ringraziare se stesso per aver saputo plasmare la sua felicità e la sua capacità di funzionare con un'apparenza di normalità; deve ringraziare le pillole."9 I depressi da me intervistati provarono un

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immenso senso di sollievo dopo aver recuperato l'umore normale. A chi o a che cosa andasse il merito, per loro non era un problema. L'idea di "plasmarsi" la propria felicità con la terapia della parola è, in ogni caso, una nozione moralistica, se non semplicemente una nozione degli psicoterapeuti Quando una medicina può sopprimere uno squilibrio chimico e alleviarne i sintomi, perché mai dovremmo essere indotti a credere che prenderla equivale in qualche modo a comportarsi in modo irresponsabile? Condanniamo forse gli ipertesi per la loro dipendenza da prodotti che abbassano la pressione del sangue? Qui c'è un'altra importante questione, che autori come Seligman spesso ignorano. Molti tipi di turbe dell'umore e di ansia non guariscono senza medicine. Possono migliorare leggermente con la terapia della parola, ma resta sempre un residuo di malessere. Espressioni come "plasmarsi la propria felicità" rivestono un tono di superiorità, poiché implicano che l'adozione della linea del massimo sforzo rende una persona se non migliore almeno più forte. "Migliore", naturalmente, è ridicolo. In quanto a "più forte", assolutamente niente dimostra che la terapia senza farmaci rappresenti una

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cura più efficace. Se non altro, studi rivolti all'efficacia hanno dimostrato il contrario: i pazienti con turbe dell'umore che non sono curati in modo completo peggiorano con l'andare del tempo. Un intervento tempestivo - con farmaci, quando è il caso - si riflette beneficamente sia sulla gravita sia sulla frequenza di successivi episodi, gravita e frequenza che svolgono un rilevante ruolo sull'acquisizione o meno della "forza" emotiva da parte del paziente. Gli psicoterapeuti della famiglia sono stati fra quelli che più si sono opposti all'impiego di medicinali. Lo psichiatra Salvador Minuchin, uno dei più stimati di questi specialisti, ha detto che in tutti i suoi anni di pratica della professione non ha mai trovato necessario ordinare un farmaco a un paziente. Fortunatamente, altri terapisti della famiglia hanno cominciato a diventare meno rigidi. La psichiatra della famiglia Carol Anderson è stata una pioniera nello sforzo di sensibilizzare i suoi colleghi sulla follia di negare al paziente la terapia farmacologica. "Tu non chiederesti a una diabetica di non prendere l'insulina e, invece, di lavorare sul pancreas per cambiarlo," argomenta. "Noi

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implicitamente colpevolizziamo i nostri clienti quando presumiamo che siano sempre colpevoli della loro depressione."10 "La terapia della famiglia ha un indirizzo esattamente opposto a quello di ricercare la causa di una patologia in una deficienza biochimica dell'individuo," scrive Laura M. Markowitz in The Family Therapist Networker.1 Cita un caso tratto da un testo di terapia della famiglia dove Edith e Bob si mettono in terapia "per la depressione di Edith, che ha organÌ2zato il loro matrimonio per i trascorsi vent'anni. Bob si è accollato le faccende domestiche e accudisce Edith, iperfunzionando per compensare all'ipofunzionamento della moglie. Non le lascia neppure portare a spasso il cane da sola, perché ha paura che possa cercare di farsi male. Mentre Edith risponde alla cura e comincia a mostrare segni di miglioramento, Bob tenta il suicidio." H libro spiega che quello su cui deve fecalizzarsi la terapia in una situazione del genere è lo sforzo di far luce sui motivi latenti alla base del "sintomo" della depressione nel matrimonio, per scoprire la "funzione" a cui ha servito "non al livello individuale, per Edith, ma nell'ambito della loro

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relazione." Povera Edith, E, come la Markowitz sembra lasciar intendere, povero Bob. Nella primavera del 1990, assistetti al congresso annuale dell'associazione psicanalitica americana, che si tenne nel salone da ballo del Waldorf-Astoria. Volevo sapere come la pensassero gli analisti sulla farmacoterapia nella cura della depressione, e proprio questo argomento fu il tema di un seminario che durò un pomeriggio. La sala era stipata di psicanalisti, in completo scuro, in prevalenza maschi Parecchi interventi descrissero come alcuni pazienti avessero tratto risultati soddisfacenti dall'impiego di farmaci abbinato al trattamento analitico. L'atmosfera nel salone era sovraccarica di elettricità. Le domande che furono poste dagli analisti presenti ruotavano intorno a questioni come le possibili ripercussioni del "dover prendere medicine" sul senso di autonomia dei pazienti, sulla loro dipendenza dall'analista e sui loro sentimenti nei suoi confronti, nonché -particolare importante - sulla possibilità che il solevo dei .'intorni sabotasse la motivazione a proseguire la psicjterapia. Molti parvero non accorgersi dell'assurdità della questione. I

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sintomi sono quelo che mantiene la gente in terapia. Alcuni degli analisti si dissero preoccupati della possibilità che gli antidepressivi alleviassero in modo rilevante la depressione, perché in questo caso i pazienti avrebbero smesso la psicoterapia, lasciando irrisolti importanti conflitti che compromettevano la loro pienezza di vita. Un altro motivo per cui gli psicoterapeuti spesso resistono all'alternativa psicofarmacologica, sostiene lo psichiatra Peter Kramer, è la paura che il farmaco "minacci quello che noi amiamo fare: essere empatia con le persone e aiutarle a rivelare se stesse." Rivelando il marcio, aggiunge: "C'è poi l'aspetto economico. Se una medicina fa sì che un cliente si senta meglio, c'è il rischio che non voglia pagare per la psicoterapia." Gli psicoterapeuti si trovano in una posizione particolarmente forte quando scelgono d'influenzare pazienti vulnerabili per spingerli nella direzione che preferiscono. Lo psichiatra della famiglia Frederick Brewster racconta che quando qualcuno gli chiedeva un antidepressivo "gli mostravo il Physician's Desk Reference e gli facevo leggere una descrizione del farmaco. E gli dicevo: 'Questa è la

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roba che vorresti Cacciani in corpo. Pensaci' " Ma negli ultimi tempi ha cominciato a rivedere la sua posizione. "Adesso non sono più per una linea così dura." Quello che fa cambiare idea agli psichiatri è vedere cosa può succedere a un paziente che riesce ad avere il farmaco adatto. Brewster ricorda di aver seguito qualche anno fa una famiglia che descrive come "allo sfascio". I ragazzi erano fuori controllo il matrimonio era in pericolo e il marito era depresso. "Lavorammo per parecchi mesi e io provai ogni tipo d'intervento per loro, ma il progresso era lento. Poi, di colpo, quasi per magia, non ci fu più patologia: ciascuno era felice, calmo e inappuntabile." Poco dopo, Brewster scoprì che quel padre di famiglia si era curato con un antidepressivo. Questo ammise, lo costrinse a un ripensamento. "Co- minciai a chiedermi se ciò non significasse che tutto quello che serve a certuni sia una medicina che permetta loro di tirare avanti" II dissidio nel trattamento delle turbe dell'umore è causa di sofferenza per molti. Sia il dissidio che questa sofferenza sono vividamente rivelati dalla storia di un medico che nonostante una patologia sempre più

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grave, fu deliberatamente trattato senza farmad. II 2 gennaio 1979 il dottor Rafael Osheroff, di quarantadue anni, fu ricoverato al Chestnut Lodge, una prestigiosa dinica psichiatrica del Maryland. Medico internista, sposato e con tre figli,12 aveva sofferto a intermittenze per tutta la sua vita di adulto di brevi periodi di depressione e di ansia. Solo un decennio dopo sarebbe stato rivelato dalla stampa il trattamento subito dal dottor Osheroff al Chestnut Lodge. I particolari più significativi furono divulgati su un numero del 1990 delT'American Journal of Psychiatry". "D dottor Osheroff ha sofferto di sintomi ansiosi e depressivi per circa due anni ed è stato curato come paziente esterno con psicoterapia individuale e farmari antidepressivi triciclici," scrisse U dottor Gerald Herman, uno psichiatra noto per le sue ricerche sulla depressione. Herman riferì che, secondo annotazioni scritte dal medico che aveva ordinato le medicine, il dottor Osheroff era migliorato moderatamente ma non si era attenuto alla dose raccomandata. In seguito a ciò le sue condizioni peggiorarono al punto da richiedere la sua ospedalizzazione." Fu al

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Chestnut Lodge che cominciò la sconcertante odissea ospedaliera del dottor Osheroff. Abbandonati l'esercizio della sua professione e la sua famiglia, rimase nella clinica per sette mesi In questo periodo "fu trattato con psicoterapia individuale quattro volte alla settimana," scrive Herman. "Perse diciotto chili e soffri d'insonnia grave e di un'intensa agitazione psicomotoria. La sua agitazione, manifestata da un incessante misurare a passi la stanza, era così estrema che i suoi piedi diventarono gonfi ed escoriati, tanto da richiedere una medicazione." Comprensibilmente, i suoi familiari erano preoccupa-tissimi. Si rivolsero a uno psichiatra estemo, che parlò all'ospedale a nome del paziente. Fu tenuto un consulto per rivedere la cura del dottor Osheroff, ma l'ospedale decise di non apportare nessuna modifica rilevante: e, specificatamente, di non introdurre la farmacoterapia. Le condizioni cllniche del dottor Osheroff continuarono a deteriorarsi. Dopo sette mesi la sua famiglia lo fece dimettere dal Chestnut Lodge e ricoverare presso la Silver Hill Foundation, nel Connecticut, dove gli fu emessa una diagnosi di reazione

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psicotica depressiva. L'ospedale lo sottopose immediatamente a terapia con antidepressivi In capo ed alcune settimane il dottor Osheroff diede segni di miglioramento. Fu dimesso da Silver Hill tre mesi dopo. Non passò molto che il dottor Osheroff tornò a esercitare. Ricevette psicoterapia e tarmaci e, scrive il dottor Herman, "da allora non è più stato ricoverato né ha più patito nessun episodio di sintomi depressivi abbastanza grave da interferire con la sua vita professionale o sociale." Un medico fa causa Tre anni dopo, nel 1982, il dottor Osheroff intentò causa al Chestnut Lodge. Sostenne che in seguito alla mancata cura farmacologica, che l'avrebbe portato rapidamente a una vita normale, aveva dovuto interrompere una brillante carriera con un grave danno finanziario, ci aveva rimesso la reputazione agli occhi dei colleghi e aveva perso la custodia dei figli. Alla fine l'ospedale addivenne a un patteggiamento privato. Dato che nel 1979 i farmaci costituivano un trattamento ampiamente noto della depressione grave alcuni pensano che il comportamento dei medici di quella cllnica sia stato riprovevole. In ogni caso, l'azione legale intentata da Osheroff

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contro il Chestnut Lodge continua a suscitare pareri contrastanti. Nel definire e attuare questo piano terapeutico, il Chestnut Lodge aveva seguito il tradizionale approccio psicanalitico. Anche se la depressione del medico venne riconosciuta e inclusa nella sua diagnosi, i medici dell'ospedale avevano altre idee sulle condizioni del dottor Osheroff. Nella sua deposizione, l'ospedale dichiarò che il vero malanno era un "disturbo della personalità di natura narcìsistica". La depressione, specificò, era "secondaria": il risultato di una ferita nardsistica sofferta dal medico quando la sua terza moglie l'aveva lasciato. D Chestnut Lodge aveva deciso di concentrarsi sul presunto narcisismo del dottor Osheroff e di astenersi da una cura farmacologica, sulla base della teoria che la depressione si sarebbe risolta non appena il natcisismo fosse stato curato. Herman scrisse in un suo articolo dal titolo "D diritto dei pazienti psichiatrici a una cura efficace": "È difficile giustificare le considerazioni su cui si basò il Chestnut Lodge nel definire il suo piano di cura." Esisteva un corpo di prove scientifiche sostanziate da

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trattamenti controllati che "attestavano il valore della somministrazione di farmaci e/o terapia elettroconvulsiva per il tipo di depressione grave che i medici della cinica diagnosticarono per il dottor Osheroff. Non esisteva nessuna prova scientifica del valore della psicoterapia individuale intensiva né per la depressione del paziente né per la parte della sua diagnosi descritta come turba della personalità. Herman è dell'opinione che i pazienti hanno il diritto di venire informati. Hanno il diritto di essere messi al corrente dell'esistenza di trattamenti alternativi e della loro relativa efficacia e sicurezza. In quanto alla psicoterapia, l'atteggiamento di Herman è piuttosto provocatorio. Gli psicoterapeuti credono incondizionatamente alle metodiche con cui affrontano i problemi emotivi Uno può rivolgersi a un chirurgo e chiedergli-, "Quali altri sistemi di cura esistono per la mia milza oltre ai vostri?", ma probabilmente il consumatore di psicoterapia non può aspettarsi che uno psicoterapeuta dispieghi una rosa di approcci alternativi che possano essere efficaci come i suoi L'efficacia è una questione

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importante per Herman, come lo è per il governo degli Stati Uniti. Studi farmacologici accurati e condotti in condizioni controllate cominciarono a prendere l'abbrivo dopo l'approvazione nel 1962 degli emendamenti Kefauver-Harris alla legge su alimenti, tarmaci e cosmetici, che imponevano ale case farmaceutiche di dimostrare l'efficacia dei loro prodotti13 Non ci si poteva limitare a dichiarare che uno specifico antidepressivo alleviava la depressione: prima di metterlo in fiale e venderlo bisognava darne dimostrazione finché l'organismo competente, la Food and Drug Administration, non si fosse ritenuto soddisfatto. Intorno agli anni settanta, scrive Ellison, di Harvard, le due principali fazioni che in America si dividono il settore della sanità mentale, quella biologica e quella psicodinamica, venivano sollecitate a una maggiore integrazione. A iniziare dal 1976, l'American Psychiatric Association esortò gli psichiatri a "espandere i loro obiettivi professionali e a puntare meno sull'approccio psicanalitico più rigido."16 La commissione del presidente Carter sulla salute mentale sfidò la psichiatria accusandola di basarsi su

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congetture con uno scarso fondamento su dati empirici. Per porre rimedio a ciò fu offerto un incremento dei fondi federali che pose le basi per importanti progressi nella ricerca in campo psichiatrico. Per anni gli analisti hanno minimizzato la nozione di efficacia sostenendo che la salute dell'intimo della persona non può essere misurata in laboratorio. È possibile, naturalmente usare l'argomento dell'efficacia come un'arma di offesa contro un'arte delicata e spesso giovevole, ma è anche vero che la psicanalisi sta scom- parendo rapidamente nel suo etere teoretico. "Vent'anni fa," osserva Herman, "la psicoterapia psicodinamica era il paradigma dominante in psichiatria negli Stati Uniti, soprattutto nei centri accademici." Ma non è più così, e di conseguenza, argomenta, "la psicanalisi è sulle difensive, come scienza e come professione." Non è stata riferita nessuna storia cllnica "che suffraghi le asserzioni di efficacia della psicanalisi o della psicoterapia individuale intensiva basata sulla teoria psicanalitica per qual-siasi forma di depressione" (il corsivo è mio). In parte, ciò si deve alla mancanza d'interesse da parte

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degli analisti a offrire qualche prova che quello che fanno funziona. Per più di quarantanni il Chestnut Lodge fu un importante centro di teoria e pratica cllnica, specializzato nel tipo di psicoterapia individuale intensiva che offrì al dottor Osheroff. Negli anni cinquanta e sessanta, questo cominciò a cambiare. La neuroscienza cominciò a esercitare la sua influenza sull'insegnamento, sulla pratica e sulla ricerca psichiatrica, e nel suo ambito emersero nuove terapie che non si basavano sulla teoria psicanalitica. La terapia cognitiva: ci si poteva sollevare dalla depressione cambiando il proprio modo di vedere le cose. La teoria comportamentale: si poteva "disimparare" una fobia esponendosi ripetutamente alle cose che si temevano. La terapia della famiglia: non era l'individuo che era "ammalato" ma la famiglia l'oggetto della disfunzione. (Gli psicoterapeuti della famiglia, fino a pochissimo tempo fa sono stati monoliticamente "anù-farmaci".17) Si accese una controversia all'interno della professione. Come valutare i meriti delle varie terapie, psicoanalitica, comportamentale, della famiglia e di gruppo? Quale,

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insomma, funzionava? Oppure un paziente doveva rimbalzare dall'una all'altra, prendendo una "bottavella" da tutte quante? Nel 1979, quando il dottor Osheroff fu curato per depressione psicotica, esistevano prove eccellenti deffefficacia di due sensazionali trattamenti per la depressione clinica: la terapia elettroconvulsiva e gli antidepressivi. Trent'anni fa, un uomo con una depressione grave come quella del dottor Osheroff avrebbe dovuto essere ospedalizzato per molti mesi, indipendentemente dalle conseguenze che questo avrebbe potuto avere sulla sua carriera e sul suo matrimonio. Ma non nel 1979. E non oggigiorno. Eppure la professione psichiatrica si divideva e tuttora è divisa, sulla questione se depressioni come quella del dottor Osheroff abbiano origine principalmente nella "mente" o siano dovute ad anomalie chimi-che all'interno del cervello. Uarrivo della pillola L'era moderna della farmacoterapia iniziò nel 1949, quando uno psichiatra australiano, John Cade, scoprì per caso una cura per la mania. "Quello che successe fu uno di quei colpacci a sorpresa che fanno di questo genere di ricerca un

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affascinante gioco d'azzardo ma anche una lezione d'umiltà," ha scritto il famoso psichiatra e ricercatore Nathan Kline, nel tracciare la storia degli albori degli psicofarmaci nel suo libro From Sad to Glad.18 Cade non cominciò aspettandosi chissà che. Sospettava che il comportamento maniacale potesse derivare da qualche sostanza tossica originata dal sistema nervoso, e si chiese se quantitativi in eccesso di tali sostanze potessero finire nelle urine. Per confrontare l'urina di maniaco-depressi con quella di depressi semplici, schizofrenici e soggetti normali di controllo, si basò su un metodo che egli riconosceva primitivo. Iniettò in cavie campioni di urina provenienti dai quattro tipi di soggetti Certi animali virtualmente non reagirono; altri furono colti da violente convulsioni. Un fatto fu subito chiaro: l'urina dei maniaco-depressi provocava questi attacchi in dosi da tre a quattro volte minori dell'urina proveniente dagli altri gruppi. Cade pensò che neffurina dei maniaco-depressi doveva essere presente un catalizzatore: forse acido urico. Rifece gli esperiementi con un'altra iniezione di acido urico, che diluì in una

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soluzione usando sali di litio, perché si combinano rapidamente con l'acido. Quando vide che la soluzione era effettivamente meno tossica provò col litio da solo: e fece tredici. Il litio produsse sensibili effetti calmanti sugli animali da laboratorio. Cade provò ad applicare questa sua nuova idea a dieci pazienti maniaco-depressi, con risultati sensazionali. Uno dei suoi pazienti era "un grinzoso ometto di cinquantun anni che era stato in una condizione di eccitazione maniacale cronica per cinque anni." Agitato, sudicio e fastidioso, era considerato la peste del reparto degli incurabili, e "tutto lasciava presumere che ci sarebbe rimasto," riferì Cade, "per il resto dei suoi giorni."19 La cura cominciò il 29 marzo 1948. Cinque giorni dopo fu evidente che l'uomo era più calmo, più pulito, meno disinibito. "Da allora si notò un rapido miglioramento, tanto che solo tre settimane dopo si godeva gli agi insoliti e del tutto inattesi di una corsia per convalescenti." In capo a due mesi, il "grinzoso ometto" che era stato ospedalizzato per anni fu in grado di tornare a casa e a una vita normale.20 Ci volle l'accurato lavoro di altri ricercatori, in

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particolare del danese Mogens Schou, per stabilire che Q litio è affidabile nella terapia di mantenimento a lungo termine della sindrome bipolare (sindrome maniaco-depressiva). Negli anni sessanta il litio era impiegato con successo in una quarantina di paesi: ma non negli Stari Uniti. Qui rimase limitato all'uso sperimentale fino al 1971. "Quando ce ne lagnammo, fummo informati che gli altri paesi erano privi dei nostri elevati standard di sicurezza," scrisse Nathan Kline, un pioniere della farmacoterapia per la malattia mentale negli Stati Uniti Agli inizi degli anni sessanta ebbi occasione di conoscere Kline. Giovanissima, ero una scrittrice alle prime armi, e lui era all'apice della sua carriera. La rivista "Esquire" aveva deciso che i nuovi tarmaci erano un argomento "caldo" e mi mandò a intervistarlo. Solo parecchio tempo dopo avrei avuto dei motivi personali per essere interessata alle scoperte del dottor Kline, comunque trovai il suo lavoro affascinante. Egli stava cercando di curare le distorsioni della mente e dell'umore apparentemente più complesse con una pillola. Ho più impresse nella memoria le circostanze del nostro incontro che il suo contenuto. Il

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dottor Kline mi aveva concesso un'ora, alle sette di mattina, in un caffè fra la Madison e l'Ottantaseiesima strada. Quella notte non avevo chiuso occhio per l'agitazione. Era ancora buio quando mi vestii per andare a fare l'intervista, lasciando a mio marito l'incombenza di preparare la colazione per i nostri bambini. Le strade vuote attraverso cui sfrecciò il mio taxi avevano qualcosa, ricordo, che mi calmò. Quando arrivai al caffè, Kline era già là, davanti a una ricca colazione. Aveva aspettato il mio arrivo prima di cominciare. Notai il taglio elegante del suo completo mentre armeggiavo col mio registratore. Da quel momento dimenticai le mie apprensioni mentre Kline si lanciava nella descrizione della grande passione della sua vita: lo studio del come e del perché certi farmaci sono in grado di curare le distorsioni mentali prodotte da difetti metabolici nel cervello. Eravamo all'inizio, come avevano intuito i redattori di "Esquire", di una rivoluzione nel campo della psichiatria biologica. "In un solo grande anno decisivo, il nostro gruppo americano introdusse il primo inibitore delle MAO, un gruppo di ricercatori svizzeri produsse il

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primo farmaco triàdico e uno psichiatra danese recuperò la semidimenticata scoperta del litio," avrebbe scritto in seguito lo stesso Kline. "Se, per un caso della vita, ci fossimo venuti a trovare insieme tempo prima, avremmo appreso con stupore che eravamo tutti bene avviati sulla stessa pista."2 Fu nel 1957 che il gruppo di ricercatori di Kline scoprì i potenti nuovi inibitori delle MAO (monoaminoossidasi). Egli aveva avuto la sua parte anche nello sviluppo della prima categoria mai scoperta di antidepressivi, i triciclici. Gli inibitori delle MAO funzionavano quando i triciclici non funzionavano. Non si tardò quindi a capire che questi farmaci avrebbero permesso a persone che in precedenza sarebbero state forse affidate a ospedali psichiatrici di condurre esistenze normali. Quando i triciclici furono scoperti, si trovò che non avevano effetto sulla schizofrenia, ma potevano giovare a molti pazienti depressi Oggi i triciclici fanno parte della categoria più comunemente prescritta di antidepressivi. (Altre categorie sono gli inibitori delle MAO, come la fenelzina e la tranilcipromina, che fra poco vedremo, e un terzo gruppo, scoperto

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negli anni ottanta, di cui è rappresentativo la fluoxerina. I tre gruppi agiscono biochimicamente in modi abbastanza diversi. Benché denominati antidepressivi, si è visto che i triciclici sono utili nella cura di numerosi disturbi. "Di particolare importanza per gli psicoterapeutici," consiglia Effison, "è l'efficacia dei triciclici nella cura di attacchi di panico, agorafobia, sindrome ossessivo-compulsiva, nar-colessia bulimica, enuresi infantile (i bambini che fanno la pipì a letto) e scarsa capacità di attenzione o iperat-tività dell'età infantile."22 Anche gli inibitori delle MAO e la fluoxetina sembrano efficaci nella stessa ampia varietà di patologie. (Diversi tipi di depressione, ansia e panico sono discussi per esteso nel capitolo successivo. Per fondamentali restrizioni dietetiche che accompagnano l'impiego degli inibitori delle MAO, il lettore è rimandato all'ottavo capitolo e all'appendice C.) Come arrivano i messaggi che controllano l'umore Un motivo per cui è difficile avere un quadro completo del modo in cui agiscono i farmaci psicotropi è che nel cervello tutto succede su scala minuscola. Un

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cervello medio del peso di un chilo e trentacinque grammi è stipato di circa dieci miliardi di cellule nervose. "Ogni cellula nervosa funziona come una sorta di stazione radio a onde corte, che trasmette e riceve messaggi in codice," spiega Kline. Come viaggiano i messaggi chimici da cellula a cellula? All'estremità di ogni cellula nervosa, o neurone, c'è un ciuffo di antenne che consistono di dendriti, attraverso cui arrivano agli impulsi. All'altra estremità del neurone si prolunga il suo cavo di trasmissione, l'"assone". Negli assoni sono presenti delle minuscole sacche, o vescicole, dove sono immagazzinate serotonina, noradrenalina e dopamina, i "messaggeri" chimici la cui azione favorisce l'inoltro dei segnali nervosi. I segnali nervosi sono trasmessi sotto forma d'impulsi elettrochimici. Quando il dendrite raccoglie un segnale in arrivo, crea uno squilibrio nel rapporto fra sodio e potassio all'interno del corpo cellulare, facendo partire una scarica dall'assone. In questo modo i segnali vengono trasmessi da una cellula all'altra attraverso l'intero Tutti deteniamo un oppiaceo: nel nostro cervello Nei primi anni settanta, le tossicodipendenze erano

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diventate un tale incubo per la classe media americana che il governo cominciò a stanziare un po' di soldi per la neuroscienza nella speranza che fosse trovata una cura. Nel 1973, Solomon Snyder e Candace Pert, del Johns Hopkins Hospital, cercavano di capire come mai un composto chimico, il naloxone, è in grado di far rinvenire all'istante le persone colpite da coma da eroina. In un famoso studio in cui furono usati marcatori radioattivi in cervelli dì animali sottoposti a iniezioni di morfina, Snyder e Pert fecero una sensazionale scoperta. Trovarono che il cervello ha i suoi recettori, o siti speciali di giunzione, per gli oppiacei!23 Come vedremo nel sesto capitolo, questa scoperta avrebbe portato a una nuova comprensione del processo e degli effetti della tossico-dipendenza e dei nuovi modi di curarla. Si scoprì che nel cervello il posto dove gli antidepressivi esercitano il loro effetto è la sinapsi: lo spazio fra un neurone e quello contiguo. Un messaggero chimico -detto neurotrasmettitore per il compito che svolge - reca il segnale attraverso questo spazio. Il neurotrasmettitore guizza attraverso la sinapsi e, inserendosi nei recettori, che sono

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come piccole serrature che danno sul neurone successivo, ne accende il sistema elettrico. Dopodiché torna alla sua sede. L'intera transazione richiede circa un millesimo di secondo. Poi parte un altro impulso elettrico dall'altra estremità. Il lavoro di Pert e Snyder stimolò una valanga di nuove ricerche. Sicuramente, dedussero gli scienziati, il cervello non aveva evoluto i suoi recettori di oppiacei per accogliere le droghe che si spacciano agli angoli delle strade. Devono esistere nel corpo delle sostanze morfi-nosimili che leniscono il dolore: non solo il dolore fisico, sospettarono, ma anche il dolore emotivo. La notadrenalina e la serotonina erano già prese in considerazione nella ricerca sulla depressione. La serotonina, già studiata per il suo ruolo nelle turbe del sonno, era di particolare interesse dal momento che quei disturbi si accompagnano alla depressione. La serotonina e la noradrenalina erano neurotrasmettitori? Svolgevano un ruolo nelle alterazioni dell'umore? Se sì, dovevano esistere dei recettori per loro. Più avanti negli anni settanta emerse l'ipotesi che gli oppiacei dovevano congiungersi in

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siri specifici, o recettori, nel cervello. La giunzione, o interazione a livello di tessuto, produce determinate risposte farmacologiche a un farmaco: bloccando il dolore, per esempio, o inducendo euforia. I siti dei recettori possono essere occupati soltanto da molecole di una determinata struttura; si ha così un "adattamento" fra una molecola del farmaco e il sito del recettore. "Questo può spiegare l'azione specifica degli oppiacei- essi si legano a questi siti e non ad altri," scrive Kenneth Blum. Si scoprì alla fine che un antidepressivo, l'imipramina, si lega ai recettori di neurotrasmettitore nel cervello. Quando è assunta sotto forma di compressa, l'imipramina entra nel flusso sanguigno, arriva al cervello e si riversa in un recettore nella parte del cervello che regola l'umore. Anche la morfina influisce sul sistema dei neurotrasmettitori, elevando la soglia del dolore in modo tale che chi la usa va su di giri. Ma questo "sballo," si vide ben presto, non si ha con l'imìpramina, che agisce in un modo che è sia più sottile sia più specifico della morfina. In breve i ricercatori scoprirono un recettore per il neurotrasmettitore GABA (acido gamma-

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aminobutirrico), che ha un effetto calmante sul cervello. Trovarono che l'anfetamina produce il suo effetto eccitante influendo su dopamina e noradrenalina. Queste scoperte avvenivano sporadicamente in labo-ratori diversi. Ma Jon Franklin, un giornalista vincitore di un premio che intervistò numerosi scienziati impegnati nella ricerca in campi affini, potè rendersi conto che si stava per giungere a una svolta decisiva. "Sul finire degli anni settanta e agli albori degli anni ottanta, le scoperte si susseguirono," scrisse nel suo libro Molecules of thè Mini. "L'indirizzo deUa ricerca, nello svilupparsi, evidenziò la crescente consapevolezza che la mente era diretta da fenomeni chimici"25 Per Franklin, la "nuova psicologia", basata sulla biologia, era uno sviluppo importante come la fissione dell'atomo o la scoperta del codice genetico. Ratti depressi Modelli animali illuminanti venivano sviluppati per lo studio delle turbe dell'umore. Un gruppo di studiosi dava molto credito alla teoria che un sufficiente stress può scatenare i sintomi biologici della depressione. Alcuni ratti furono messi in una gabbia dal pavimento metallico ed esposti a

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scariche elettriche occasionali ma imprevedibili Se c'era un ripiano su cui i ratti potessero sfuggire, erano in grado di restare nella gabbia elettrizzata per protratti periodi di tempo e, nonostante ciò, sembravano normali. Ma se la fuga era resa impossibile, l'effetto sugli animali da laboratorio era drammatico. Sviluppavano turbe del sonno e dell'alimentazione, cessavano di accoppiarsi e non erano più capaci di uscire da un labirinto. Una volta che arrivavano a questo punto di stress, le loro condizioni continuavano a deteriorarsi Messi in gabbie dove esistevano vie di fuga, non cercavano neppure di approfittarne e sembravano arrendersi. Il quadro, secondo gli scienziati, assomigliava in modo impressionante a quello indotto negli esseri umani da stati di stress tanto pesanti da provocare depressione. Un gruppo di scienziati, guidati da Fritz Henn, dell'università statale di New York, a Stony Brook, cominciarono ad analizzare cervelli di ratti, in cerca di modificazioni chimiche a vari stadi del processo di stress. Quando i ratti diventavano depressi, mutamenti prevedibili s'instauravano nei recettori del cervello, e questi cambiamenti si determinavano nello stesso tempo in

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cui cambiava il loto comportamento. Così gli scienziati furono in grado di vedere cosa succedeva a livello neurochimico quando cambiava il comportamento. "Trovo questo fatto enormemente stimolante," disse Henn, come leggiamo nel libro di Franklin, "ci dimostra che il cervello cambia con l'esperienza." Tuttavìa gli studi non fornivano nessuna nuova informazione su che cosa, oltre all'ambiente, può contribuire alla depressione. Se si applica un sufficiente stress, i ratti, come gli esseri umani, subiscono un prevedibile peggioramento dell'umore. La ricerca, a questo punto, sembrava solo rafforzare quello che gli psicologi avevano sempre creduto: che l'ambiente è la causa principale della depressione. Ma quando Henn cercò di ripetere le sue procedure, successe qualcosa d'inaspettato. Usando un ceppo diverso di ratti, non riuscì a riprodurre i risultati dei suoi studi precedenti, ma conducendo più esperimenti col ceppo originario ottenne gli stessi risultati La conclusione? Deve esistere una qualche distinzione genetica fra i due ceppi. H ceppo A, cioè, sembrava essere stato predisposto a reagire allo stress con la depressione, mentre il ceppo B resisteva bene.

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Questo studio apparentemente anodino ebbe un effetto dirompente. La scoperta di Henn di mutamenti in cervelli di ratti aggiunse importanti prove biologiche a precedenti studi su gemelli e bambini adottati indicanti che le turbe dell'umore sono genetiche. L'idea che la malattia mentale fosse ereditaria sarebbe diventata uno dei temi più esplosivi della biologia moderna. L'inizio del dibattito natura-cultura All'inizio del secolo, la scienza documentò il primo esempio di un tipo di malattia mentale di origine genetica: la corea di Huntington. Questo morbo, che colpiva le persone verso la metà della vita, le faceva uscire di senno e poi le uccideva, sembrava chiaramente ereditario. Quando un genitore ne cadeva vittima, anche metà dei suoi figli ne avrebbero seguito la sorte. Anche se la follia era un sintomo impressionante, la malattia non fu mai considerata "mentale," perché le sue prime avvisaglie - spasmi muscolari invalidanti - erano fisiche. Nondimeno, era degno di nota che la corea di Huntington era di natura genetica e che, più tardi nel suo decorso, produceva sintomi mentali Non poteva darsi che esistessero altre forme

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morbose più puramente psichiatriche, anch'esse ereditarie? La schizofrenia è una malattia caratterizzata da una percezione distorta della realtà, da allucinazioni e illusioni, e da un'estrema apatia. I farmaci possono tenere sotto controllo i sintomi più appariscenti della schizofrenia, ma finora una cura non si è trovata. Considerata la più invalidante di tutte le turbe mentali, la schizofrenia affligge oggi circa 2,8 milioni di americani. Nel 1916 lo scienziato tedesco Ernst Rudin studiò le vittime della schizofrenia e i loro parenti e trovò che essa serpeggiava in certe famiglie. Anche se le probabilità - una su venti - non erano eccezionali, era chiaro che c'era qualcosa che non andava. Molti, a questo punto, sostennero che la malattia non era genetica ma ambientale. Il dibattito natura-cultura era partito in quarta. "Anche mentre Rudin stava calcolando il maggior rischio a cui sono esposti le sorelle e i fratelli degli schizofrenici," scrive Franklin, "John B. Watson, già un gigante della psicologia, sosteneva che i geni non svolgevano nessun ruolo nella determinazione della personalità." Watson era straordinariamente sicuro dì sé. "Datemi una dozzina di neonati

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sani, ben fatti, e il mio particolare mondo dove educarli," insistette, "e garantisco di prenderne uno qualsiasi a caso e di addestrarlo a diventare un qualsiasi genere di specialista a mia scelta: medico, avvocato, artista, uomo d'affari di successo e, perché no, addirittura mendicante o ladro, indipendentemente da talenti, inclinazioni, tendenze, capacità, vocazioni e razza dei suoi antenati"27 Altrettanto autocratici erano gli "eugenisti," convinti com'erano che "tutte le forze e debolezze umane, comprese quelle psicologiche, fossero un prodotto dell'educazione," osserva Franklin. Gli eugenisti, fra cui scrittori famosi come H. G. Wells e George Bernard Shaw, erano un gruppo influente. Dal loro campo emergevano idee pericolose, come la nozione che criminali e altri individui giudicati moralmente biasimevoli andassero sterilizzati. Fatto degno di nota, durante il primo terzo del secolo l'eugenetica imperversò in America, portando alla sterilizzazione di sessantamila americani e a gravi restrizioni all'immigrazione di appartenenti a culture non bianche. La rivolta finale contro l'eugenetica fu in parte stimolata dalla presa di

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posizione di Hider e di un pugno di scienziati che finirono al suo servizio. Rudin, per esempio, fu uno degli autori del libro ufficiale nazista sulle norme relative alla sterilizzazione. In America l'opinione pubblica cominciò a passare alla sinistra psicologica. Dagli anni quaranta fino a tutti gli anni sessanta, la maggior parte degli stanziamenti per la ricerca furono investiti negli studi sugli effetti dell'ambiente sul comportamento. Durante questi decenni, la parte più consistente della ricerca nel settore della scienza sociale sostenne la nozione che la personalità è influenzata in modo drammatico da forze come l'economia e l'influsso degli individui di pari condizioni I progressi della scienza La ricerca scientifica, che alla fine avrebbe portato a un cambiamento nel nostro modo di comprendere la malattia mentale, cominciò a intensificarsi quando piccoli stanziamenti si resero disponibili per la ricerca genetica, prima sulla schizofrenia e poi sulla sindrome maniaco-depressiva. Più o meno in questo periodo, i farmacologi stavano sviluppando farmaci che alternavano in modo drammatico gli sbalzi d'umore, le fissazioni e le allucinazioni All'inizio non sapevano

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perché i farmaci esercitassero quegli effetti La scienza medica è sempre stata incalzata dalla necessità di apportare sollievo; spesso il perché e il come di una cura non vengono che in seguito. Come tutte le medicine, le nuove sostanze psicotrope producevano effetti collaterali; rimaneva da compiere molto lavoro sperimentale. Nondimeno, questi composti avrebbero finito per creare un cambiamento rivoluzionario. L'insufficiente sviluppo del carattere, o "nevrosi", sarebbe passato in sottordine, e si sarebbe capito che erano i nostri agenti chimici con effetto sugli stati d'animo - gli "oppiacei del cervello" da poco scoperti -a svolgere un ruolo di primaria importanza nelle turbe dell'umore. L'evolversi della farmacologia andò di pari passo con quello di un suggestivo nuovo campo, quello della psicogenetica. A Londra, due genetisti psichiatrici completarono un affascinante studio sulla schizofrenia osservando gemelli geneticamente identici Non diagnosticarono personalmente i gemelli, ma raccolsero e registrarono su nastro informazioni ottenute dai pazienti e dai loro fratelli e sorelle. Le diagnosi furono emesse da

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psichiatri indipendenti. I risultati, pubblicati nel 1966, erano impressionanti: quando un gemello identico diventava schizofrenico, c'era un 58% di probabilità che anche l'altro contraesse la malattia. Se venivano incluse anche diagnosi di casi limite, la percentuale saliva al 67%. Fra i gemelli non identici, la percentuale era solo del 12%. Nella popolazione generale, era dello 0,50%.28 Gli scettici però obiettarono che poteva essere stato il fatto di essere cresciuto a fianco di uno schizofrenico a produrre la malattia nel secondo gemello. Ma questo fu contestato da uno studio su consanguinei di schizofrenici che erano stati adottati da piccoli. Anche quando allevati in famiglie separate, entrambi i gemelli identici avevano molte probabilità di essere schizofrenici, ammesso che questa malattia esistesse. La controversia che si era trascinata per decenni sulla natura della schizofrenia - condizione psicologica prodotta da fattori sociali o malattia provocata da modificazioni all'interno del cervello - giunse a una conclusione nel marzo 1990. D "New England Journal of Medi- cine" pubblicò uno studio che, secondo Lewis Judd, direttore del

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NIMH, offriva una "prova irrefutabile che la schizofrenia è uno scompenso del cervello."29 Ancora una volta, furono usati gemelli identici, ma questa volta la nuova tecnologia aveva reso possibile "esplorare" i loro cervelli con l'impiego della tecnica di visualizzazione mediante risonanza magnetica (MRI). Questo metodo d'indagine presenta l'anatomia del cervello nei più minuti dettagli. Si trovò così che i cervelli dei gemelli schizofrenici avevano spazi più ampi della norma nelle pieghe alla superficie della corteccia, il che "suggeriva un'atrofia o un mancato sviluppo delle cellule cerebrali," fece osservare Richard Suddah, lo psichiatra che diresse lo studio. Inoltre, varie parti dei cervelli degli schizofrenici erano più piccole della norma. Anche se il mistero della schizofrenia non è ancora stato svelato, assicura Judd, "siamo in una fase avanzata di studi che ci condurranno alla scoperta delle sue basi biologiche."30 Un altro tassello del rompicapo: come prevedere il suicidio Quando fu analizzato il liquido spinale di un gruppo di pazienti depressi,31 si trovò che un gruppo aveva bassissimi livelli di acido 5-idrossindolacetico (5HIAA), un prodotto di disgregazione

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della serotonina, mentre l'altro gruppo non presentava questa particolarità. H gruppo con un basso livello di 5HIAA aveva un tasso molto superiore di gravi tentativi di suidicio.32 Un'ulteriore ricerca trovò che la serotonina era correlata alla tendenza al suicidio indipendentemente dalle turbe psichiatriche. Negli anni ottanta, alcuni ricercatori studiarono i cervelli di persone che si erano suicidate. Scoprirono così che questi cervelli avevano un numero minore della norma degli speciali "siri di giunzione" che permettono l'accoglimento e la distribuzione della serotonina. In capo a cinque anni o giù di lì, nuove tecniche di risonanza magnetica renderanno possibile lo studio del tessuto cerebrale in pazienti viventi a rischio di suicidio: coloro che hanno già compiuto tentativi di suicidio. Per il momento, secondo John Mann, la più probabile spiegazione del suicidio è da ricercare in bassi livelli di serotonina nel cervello. L'interrogativo che rimane senza risposta è questo: perché, in primo luogo, i cervelli di certe persone non contengono abbastanza serotonina? La causa più probabile è, secondo Mann, un difetto a livello enzimatico

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della capacità del cervello di sintetizzare serotonina. "Ciò potrebbe essere di origine genetica, oppure dovuto a un evento dello sviluppo, o perinatale oppure intervenuto in una fase precoce dello sviluppo." Lo stress, cioè, può alterare l'equilibrio quando, in primo luogo, le sostanze chimiche del cervello regolatrici dell'umore sono geneticamente vulnerabili. "Il nostro obiettivo," sottolinea Mann, "è quello di affinare una serie di procedure biologiche e chimiche in grado di prevedere la tendenza al suicidio." Il gruppo di studiosi sta lavorando in questa direzione in un centro fondato di recente da Mann, che è il primo negli Stati Uniti dedicato allo studio del comportamento suicida: il Suicide Clinical Research Center, presso il Western Psychia-tric Institute.33 Alcuni studi suggeriscono che i comportamenti aggressivi - omicidio compreso - possono essere collegati ad anomalie chimiche del cervello come quelle che producono la depressione. Modificazioni nel livello di serotonina potranno un giorno far prevedere la "probabilità che una persona stia per agire stimolata da un pensiero: o un pensiero di suicidio o uno

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aggressivo."54 La ricerca farmacologica convalida le idee di Mann. In una struttura medica della California fu somministrato a carcerati violenti del litio, che agisce sul sistema della serotonina. H farmaco ridusse considerevolmente il com- portamento irascibile e rissoso di molti. Joseph Tupin, direttore del gruppo di ricercatori dell'Università della California che condusse lo studio, afferma che il litio può essere efficace "nella riduzione a lungo termine del comportamento aggressivo."35 Accennai a questa ricerca a un'amica che pratica la terapia di gruppo per uomini che hanno un comportamento violento in famiglia. Mi aveva detto con quanto impegno e quanta frustrazione questi uomini si sforzassero di smettere di staffilare e percuotere le loro mogli e i loro figli. Poco tempo prima un uomo era arrivato a uno di questi incontri annunciando in tono di trionfo: "Questa settimana ce l'ho fatta a non picchiare nessuno!" "Lo sai, Martha," le spiegai, "magari alla fine si scoprirà che questo tipo di comportamento è in realtà indotto chimicamente, una faccenda di livelli di neurotrasmettitori nel cervello di questi uomini." L'idea era

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inquietante per lei. Ha dedicato anni del suo lavoro di psicoterapeuta al tentativo di aiutare degli uomini a controllare i loro impulsi violenti attraverso tecniche introspettive e comportamentali I progressi che essi compiono sono lenti e le ricadute molte, ma gli sforzi di Martha sono stati gratificami. Adesso arrivavo io ad avanzare l'idea che un giorno la terapia di gruppo per individui con uno scarso controllo dei propri impulsi potrà diventare obsoleta. Non era quello che ci si aspettava da un'amica. E se, putacaso, far del male agli altri - con le parole oltre che fisicamente - fosse sìntomo di uno squilibrio chimico? Allora il lavoro che questi ricercatori stanno compiendo sugli ormoni cerebrali regolatori dell'umore potrà condurre a un intervento chimico tale da risparmiare a uomini come i padri e i mariti violenti curati da Martha - e ai loro cari - anni di sofferenza. Lamia: un sovraccarico chimico La ricerca sull'ansia fece il suo primo grande passo in avanti verso la fine degli anni settanta, quando fu scoperto nel cervello un recettore per farmaci tranquillanti come il diazepam. Si scoprì che i tranquillanti alleviavano l'ansia potenziando l'azione del

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neurotrasmettitore calmante che è presente nel cervello, il GABA. Nel 1988 fu tenuta una conferenza stampa per annunciare l'avvento di un antidepressivo, la clomipramina, per la cura della sindrome ossessivo-compulsiva. Questa turba ansiosa gravemente invalidante, che aveva per tanto tempo resistito agli sforzi degli psicoterapeuti, rispondeva in modo drammatico alla clomipramina. In molti pazienti, i sintomi cessavano nel volgere di settimane dall'inizio della cura, come se fosse stato girato un interruttore. Si è riscontrato che altri antidepressivi hanno effetto sugli attacchi di panico. Anche l'ansietà più generalizzata è spesso sensibilmente attenuata dai nuovi farmaci che alzano il livello di serotonina. Di conseguenza, gli atteggiamenti nei confronti dell'ansia stanno mutando. Non è difficile immaginare che le personalità ansiose di certi soggetti abbiano cause che non sono affatto psicologiche, osserva lo psichiatra Arnold Cooper, della facoltà di medicina della Cornell University, ma siano l'effetto di una "disfunzione biologica". Parlando a un simposio verso la metà degli anni ottanta, Cooper, già presidente dell'American Psychoa-nalitic Association, presentò

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ai suoi colleghi un'idea rivoluzionaria: molti pazienti cronicamente ansiosi o fobici o soggetti ad attacchi di panico forse soffrivano di un "sistema d'allarme iperattivo", conseguenza di un lieve difetto nel metabolismo nel cervello. I neurotrasmettitori GABA - gli agenti calmanti del corpo - non scaricano adeguatamente. Paradossalmente, l'intervento di Cooper giunse oltre due decenni dopo che la psichiatria aveva scoperto che k cura con antidepressivi fa cessare il panico. Oggi questo trattamento contro gli attacchi di panico è ampiamente riconosciuto.36 Anche la psicoterapia può essere utile. Aiuta le persone a "disimparare" i comportamenti da loro sviluppati per far fronte alle imprevedibili ricadute in uno stato di panico. Ma per i sintomi di panico fisicamente intensi, quelli che fanno temere al paziente di essere sul punto di morire, niente ottiene un più rapido effetto dei farmacl Sono sempre di più gli psicoterapeuti che se ne rendono conto e consigliano ai loro pazienti soggetti a queste crisi, di rivolgersi a uno psicofarmacologo. Dopo l'analisi, ancora il panico Arnold Copper riferisce la storia di una donna che

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andò da lui accusando principalmente sintomi di ansia e che egli curò con l'analisi. Alla fine, come egli confessò ai colleghi al simposio, cambiò idea sul trattamento." La donna aveva avuto una storia di depressione. Era timida con gli uomini e tremendamente sensibile al rifiuto. Ogni volta che cercava di avere una relazione con un uomo, questa era dominata dalla paura che egli la lasciasse. Ciò la rendeva così ansiosa e furente che assumeva atteggiamenti tali da provocare proprio il risultato che temeva. Cooper pensò che l'ansia della sua paziente affondasse le radici nelle sue esperienze d'infanzia. Da bambina diventava così ansiosa quando i suoi genitori uscivano la sera che le ci volevano ore per calmarsi Inoltre soffriva di fobia della scuola. C'erano però parecchie "bandierine rosse" nella storia della donna che avrebbero messo in guardia uno psìcobiologo. Sua madre era stata una depressa cronica. Sua zia era stata ospedalizzata con una diagnosi "incerta" di schizofrenia. (Le turbe dell'umore, specie la depressione bipolare, sono spesso scambiate per schizofrenia). Suo padre, quando essa aveva dieci anni, era caduto in un profondo stato

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depressivo ed era diventato estremamente assente. Chiaramente, la depressione era la malattia di famiglia. Una componente genetica così forte è indice della presenza di una turba dell'umore a base biologica. L'analisi del dottor Cooper fu diretta a cercare di arrivare al fondo delle sue ansie. Gradualmente, la donna riusci megEo nella sua carriera ed ebbe relazioni abbastanza più soddisfacenti con degli uomini. Ma i sintomi a carico dell'umore con cui affrontò l'analisi - depressione, ansia, sentimenti di vergogna e d'inadeguatezza - tornarono ripetutamente. La fine della sua analisi fu "negoziata con successo," nelle parole di Cooper, ma i sintomi non la lasciarono mai. Due anni dopo, mentre era in vacanza, fu colta da un attacco di panico e gli telefonò. Questa volta egli le consigliò un antidepressivo. La donna rispose in modo sensazionale, sentendosi sollevata e risìstemata, "come se un'intrusione dall'esterno nella sua vita fosse cessata." Cooper disse ai suoi colleghi che, curata col farmaco, la donna "ebbe la sensazione di esercitare in qualche modo un maggiore controllo su se stessa di quanto fosse mai riuscita a fare." Arnold Cooper è stato la punta

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di diamante del movimento che invoca una revisione dell'idea dei farma-ci come semplici lenitivi di sintomi "C'è un gruppo di pazienti cronicamente depressi... la cui regolazione dell'umore è modificata in modo rilevante dai tarmaci antidepressivi. L'ingresso di queste nuove molecole nel loro metabolismo altera il loro modo di vedere il mondo, di combattere coi loro super-io e di reagire alla separazione dall'oggetto, e tende a normalizzarli." Quello che sembrava implicito nel suo discorso era che i farmaci possono effettivamente produrre mutamenti di personalità. Quali sarebbero state le conseguenze di ciò sulla teoria psicanalitica, e sulla cura? Sarebbe stato divertente essere una mosca su una parete dell'istituto psicanalitico di Pittsburgh quando Cooper tenne questo discorso nel 1984. Ho idea che esso fece molto scalpore, tanto appassionato fu il suo appello affinchè gli analisti cominciassero ad assumere un diverso atteggiamento circa l'ansia e le turbe dell'umore. Arrivò a suggerire che se avesse prima di tutto ordinato un antidepressivo alla sua paziente con attacchi di panico, le cose avrebbero potuto andare meglio, e più in

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fretta.38 Nel discutere il caso, Cooper fece un'altra osservazione che è estremamente importante. La maggior parte delle psicoterapie implicano che il paziente sia responsabile del modo in cui si sente. Nella terapia analitica, precisa, "questa responsabilità è pressoché totale." Ma Cooper ha cambiato idea su questa nozione di responsabilità; quando si tratta di ansia e di turbe dell'umore, pensa che i pazienti non debbano essere ritenuti responsabili. Gli psicoterapeuti spesso esortano i pazienti soggetti a sbalzi di umore a credere di avere un maggiore controllo sul loro modo di sentire di quello che effettivamente hanno. Cooper lo ammette: "Forse noi abbiamo cospirato con questi pazienti assecondandoli nel loro bisogno di costruirsi un mondo apparentemente razionale, dove si ritengono inconsciamente responsabili di quanto gli accade." Il depresso cerca dei motivi che spieghino i suoi stati d'umore. Fa meno paura pretendere di avere il controllo delle proprie condizioni psichiche "che ammettere la completa impotenza di essere alla mercé di stati d'umore che sopraffanno senza nessun motivo apparente," spiega Cooper. Forse gli psicoterapeuti che si servono

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d'interpretazioni psicologiche per rendere comprensibili gli sbalzi d'umore dei loro pazienti perpetuano "un crudele fraintendimento dello sforzo del paziente di razionalizzare la sua esperienza di vita, e questo può avere come risultato un rafforzamento delle difese masochistiche." In altre parole, è possibile che gli psicoterapeuti, nell'incoraggiare le persone a costruire un castello di carte psicologico per spiegare le loro turbe dell'umore, aggravino le sofferenze dei loro pazienti. Verso un'integrazione di due approcci D dissidio fra psicologia e psichiatria consiste sostanzialmente in questo: gli psicoterapeuti, influenzati dalla psicologia dì Freud, vedono la depressione come un prodotto della mente, e ne parlano in termini di pulsioni, difese, regressioni e problemi d'identificazione e di autostima. Quelli influenzati dalla psichiatria biologica vedono la depressione come un prodotto del cervello, provocato da variazioni che intervengono fra ormoni e neurotrasmettitori. Shepard Kantor, uno psichiatra che fa parte del corpo insegnante della facoltà di medicina e chirurgìa della Columbia University, cerca dei sistemi che

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portino a un'integrazione dei due approcci. Le "produzioni mentali" dei pazienti depressi provengono da modificazioni chimiche nel sistema nervoso centrale, e non hanno una causa psicologica. Questo è un grosso sviluppo nel pensiero psichiatrico. Kantor non crede più che i folli pensieri che accompagnano la depressione siano scatenati da eventi esterni o siano il residuo, per esempio, d'interazioni infantili coi genitori. Crede invece che i folli pensieri che accompagnano la depressione siano provocati dalla situazione chimica stessa. Ma qual è l'effetto dei traumi infantili, potremmo chiedere? Indubbiamente essi non possono essere completamente privi di rapporto con la depressione. Kantor suggerisce che le alterazioni mentali che vanno di pari passo con la depressione possono derivare da certe sensazioni e tracce di memoria che risalgono alle "calamità dell'infanzia". Tali calamità producono modificazioni nei livelli dì neurotrasmettitori o nei siti recet-tori, secondo la sua teoria. E non sono soltanto i traumi infantili a provocare ciò. Ferite emozionali in qualsiasi momento della vita possono produrre simili alterazioni chimiche nel cervello. Studi condotti sui

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primati mostrano che percezione, memoria ed emozione dipendono da un sistema di circuiti che collega fra loro le strutture del sistema nervoso centrale. Se teniamo presente questo fatto, dice Kantor, non ci vuole poi molto a immaginare come le più minute perturbazioni biochimiche in uno qualsiasi di questi siti possano evocare ricordi e stati d'animo le cui origini affondano nell'infanzia. Kantor ha un'altra idea. Una delle svolte della neurologia moderna fu la scoperta di Wilder Penfield che la stimolazione di certe zone del cervello con impulsi elettrici produce immagini visive e uditive e ricordi. Kantor pone questo stimolante interrogativo: non è possibile che i segnali generati da neurotrasmettitori possano funzionare come gli "equivalenti interni" degli elettrodi stimolatori applicati esternamente di Penfield? Se fosse così, sostiene, "questo indurrebbe i pazienti a riferire sentimenti, reminiscenze e idee generati non da conflitti, dalla fantasia o derivati da impulsi, ma da stimoli chimici." Le congetture di Kantor non sono ancora state suffragate dalla ricerca, ma sono tutt'altro che peregrine, perché molto di quanto è già stato appurato punta nella stessa

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direzione. Per il momento, Kantor rimane saldo nella sua convinzione che gli psichiatri dovrebbero imparare a comprendere - e ad accettare - la natura chimica delle turbe dell'umore.40 Chiaramente, eventi dell'età infantile producono un'esperienza ulteriore: sentimenti e atteggiamenti che non ci abbandonano più, che influenzano immensamente la nostra vita. La questione su cui dibatte oggi la psichiatria è in che modo questi eventi di potente risonanza interagiscono coi deficit di neurotrasmettitore producendo sbalzi di umore che a volte sono passeggeri e a volte insidiosi. Ci sono differenze individuali, dopotutto, nell'intensità di trauma e di stress che avvertiamo, e nel grado di vulnerabilità chimica che ereditiamo. Nessuno vive in una condizione perfetta di equilibrio chimico. Quando, allora, possiamo parlare veramente di deficienze di neurotrasmettitore? Queste situazioni deficitarie sono riscontrabili in tutti quelli che sviluppano turbe dell'umore o soltanto nei pazienti affetti da forme gravi di tali malattie? Shepard Kantor suggerisce una sorta di equazione fra la gravita della malattia e la rilevanza delle modificazioni chimiche. In individui

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con depressioni lievi le alterazioni chìmiche sono minime, e quindi gli effetti rimangono blandi e localizzati. Con la depressione grave i mutamenti chimici nel cervello sono maggiori, e riverberano i loro effetti sull'intero sistema nervoso centrale. A questo punto ne risultano perturbati il sonno, l'appetito e la libido. Ne sono compromessi gli stessi processi mentali, comprese la memoria e la capacità di compiere associazioni Alcuni pazienti possono sviluppare, come successe a mia figlia, ritardo psicomotorio, un rallentamento della parola e del pensiero che certi hanno descritto come la sensazione di essere "schiacciati da un peso" o di "trovarsi sott'acqua". Io non ho provato il tipo di depressione di Gabriele, anche se certamente sono stata depressa. La differenza, secondo Kantor, è quantitativa. Il calo di serotonina è maggiore nelle depressioni più gravi Ma essa diminuisce anche nelle depressioni più lievi, producendo modificazioni che mettono a terra, anche se possono non essere così drasticamente distruttive. Tutti noi, quando siamo depressi, abbiamo bisogno di serotonina o di qualche altra sostanza chimica cerebrale di cui

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possiamo essere a corto. Se la deficienza è abbastanza lieve, possiamo essere in grado di compensarla con un bagno di sole, con l'esercizio fisico (le endorfine, che sono prodotte dall'esercizio, producono modificazioni cerebrali simili a quelle prodotte dalla serotonina), o innamorandoci. Sicuro, è stato dimostrato che l'amore determina effetti incrementami sulle sostanze chimiche che regolano l'umore. "Quando ci innamoriamo," scrive Maggie Scarf, "aumentano i livelli di noradrenalina e di dopami-na, inondandoci di sentimenti di speranza e di gioia." Le relazioni, romantiche o d'altra natura, sono influenzate dalle turbe emotive. Nuovi studi mostrano che l'intervento chimico influisce sensibilmente sul modo di relazionarsi con gli altri. "La cura con antidepressivi migliora drammaticamente il funzionamento autonomo dell'io," spiega Eric Marcus, del collegio dei medici e chirurghi della Columbia Universiry.41 L'io, affrancato dalle tempeste degli sbalzi d'umore, è meglio in grado di osservare se stesso con un certo distacco, e di valutare la realtà. I sentimenti fluiscono più facilmente, e la

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persona è capace dì regolarli, anziché esserne sopraffatta. Queste facoltà rendono l'interazione con gli altri una gioia anziché un peso. Gli psicanalisti non sono i soli ad aggrapparsi alla vecchia nozione che le turbe dell'umore sono radicate nella psiche. Voi e io siamo probabilmente irriducibili resistenti al fondamentale cambiamento introdotto dalla nuova biopsichiatria. Devoti seguaci di Freud (che lo sappiamo o no), pensiamo alle emozioni e alla psiche con un fervore quasi mistico. Noi crediamo nelle contorsioni e nelle involuzioni che la mente assume quando l'infanzia ci ha lasciati non abbastanza amati. Abbiamo trascorso le nostre esistenze sforzandoci di capire precisamente quale sfumatura della nostra arroganza sia il risultato del narcisismo del padre e della sua fusione con l'atteggiamento remissivo della madre. Dove sarebbe Morte di un commesso viaggiatore se a Willie Loman fosse stata diagnosticata una turba dell'umore? La vita è appiattita, noi sentiamo, da un approccio unidimensionale, chimico, al cervello: appiattita, banalizzata e resa orribilmente prevedibile. C'è anche la paura che un tale approccio alle malattie

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mentali conferisca un eccessivo potere a scienziati e medici. Dove rischieremmo di arrivare se li lasciassimo manipolare gli agenti chimici del cervello per produrre alterazioni nello stato emotivo e nella personalità? Chi può sapere quali potrebbero essere le conseguenze a lungo termine di tutto ciò? Forse faremmo meglio a sforzarci di farcela senza psicofarmaci e continuare a mangiare la nostra crusca d'avena e a prendere compresse di vitamina B6. Non è facile rinunciare a idee in cui si è creduto a lungo. Per reazione alle rivoluzioni politiche, la gente si spaventa e rimane salda nelle proprie posizioni, tentando c!i restare fedele al vecchio ordine. Con le rivoluzioni scientifiche non è molto diverso. Ci attacchiamo ai nostri modi di considerare le cose. Che cervellone era quell'Einstein, diciamo. Siamo troppo giovani per ricordare come la gente perse la tramontana per via della formula E-MC2. Probabilmente noi non la comprendiamo neppure, ma qualcuno sì, c'immaginiamo, e dato che è in circolazione da parecchio tempo è diventata un buon sistema per rendere plausibili i misteri dell'universo. Quando venne fuori la nuova fìsica

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quantlstica noi resistemmo, com'era inevitabile. Anche se sì era alle soglie di qualcosa di estremamente eccitante, di una nuova ed enormemente più sofisticata comprensione della materia e dell'energia e della loro fondamentale identità, parte di noi non volle neanche sentirne parlare. Il nostro disagio derivò non in piccola parte dal fatto che la nuova fìsica è addirittura più difficile da capirsi di quella vecchia. Quando la smetteranno, "loto", di cambiare le regole, vorremmo sapere? E verrà mai il giorno in cui la verità sarà finalmente fissa e conoscibile? H giorno dopo quel banchetto in cui avevo discusso di quanto avevo imparato sulle turbe dell'umore, mi venne fatto di pensare alla resistenza viscerale di moke persone all'idea che la depressione è scatenata da una disfunzione metabolica del cervello. A un certo livello la troviamo affascinante, ma a un livello più profondo siamo spaventati. La depressione una malattia del cer- vello? Che la predisposizione a questa disfunzione possa essere ereditata sembra aggravare il senso globale di... diciamo futilità. Va bene la farmacologia ha così

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migliorato le cose che oggi le turbe dell'umore possono essere curate con successo, e forse un giorno potranno addirittura essere prevenute. Ma se quattro pillole rosse su un contatore sono la chiave al benessere emotivo, la paura è queDa di un avverarsi prossimo venturo per l'umanità della visione di OrwelL 3 Cosa mi sta capitando? ilnche con anni di psicoterapia, non avevo mai veramente riconosciuto una turba deH'umore o uno stato d'ansia in me stessa o in un mio congiunto. Eravamo semplicemente una comune famiglia nevrotica come tante, con buoni valori e intenzioni onorevoli. Eppure parecchie volte quando avevo circa vent'anni, e di nuovo verso i trenta, ebbi delle esperienze molto preoccupanti. Non le associai mai alla depressione. Non le collegai mai a niente. Erano episodi sporadici, che non sembravano avere niente a che fare con me. Questa continuò a essere la mia sensazione riguardo a ciò, nonostante una lunga terapia psicanalitica. I sintomi più sconvolgenti erano stati ansia e attacchi di panico accompagnati da palpitazioni, vertigini, sudori e una tremenda paura. Le crisi erano sempre stranamente autonome; cominciavano di colpo e terminavano mesi dopo,

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praticamente nello stesso modo fulmineo in cui erano cominciate. Oggi ho idea che sotto quei sintomi allarmanti probabilmente si celasse una turba dell'umore. Allora, ricordo, mi sentivo molto strana, come se fossi solo io a manifestare sintomi del genere: come se tutti gli altri miei familiari fossero robusti come querce e io fossi in qualche modo difettosa, un fragile arbusto che non avrebbe potuto sopravvivere all'inverno. Mio padre mi diceva spesso di avere una personalità portata alle tossicodipendenze e lasciava intendere che sen2a dubbio io avrei finito per somigliargli anche in questo, dato che ero la sua "copia genetica". Aveva dovuto compiere sforzi sovrumani per sfuggire alla trappola della tossicodipendenza, e io avrei dovuto fare lo stesso. Me lo disse quando avevo quindici anni e mi sorprese nel locale drugstore mentre fumavo una Lucky Strike. Come scienziato, mio padre si rese conto del nesso genetico prima della maggior parte della gente. Nondimeno, ero contraria a credergli. Mi ribellai alle sue fosche previsioni, respingendo una vita cauta come la sua, col suo rifiuto di fumare, i suoi rari viaggi o rari strappi a una

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regola abitudinaria, col suo rigoroso regime di due once di gin ai giorno. Era così assiduo nell'evitare situazioni che avrebbero potuto renderlo ansioso che per anni non guidò una macchina. In effetti, sia lui sia io avevamo superato la boa dei quarant'anni prima di accettare questa rischiosa attività. E io non riconobbi che il volante mi creava un problema finché l'uomo con cui allora vivevo protestò perché toccava sempre a lui scarrozzarmi in giro. Questa storia andò avanti pec sette anni. Mi ci vollero molte sedute psicanalitiche per intaccare quella che alla fine avrei classificato come una fobia, anche se resistetti a lungo a questa definizione. Avevo preso l'abitudine di evitare situazioni che m'ingeneravano ansia, compresi i viaggi, certi tipi d'interazioni sociali (erano soprattutto i festini a rendermi nervosa) e la guida dell'automobile. Negando che ci fosse qualcosa di esagerato nel mio rifuggire da queste cose, mi giudicavo riservata, indipendente, bene organizzata. Per cinque anni ho vissuto in un villaggio rurale e se dovevo andare in qualche posto o andavo a piedi o prendevo un taxi Le mie puntate a New York erano brevi e con uno scopo

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preciso: vedevo il mio analista e tornavo col treno della sera. Rimanevo spesso sveglia la notte. Per me l'insonnia era diventata uno stile di vita, e saltava fuori ogni volta che c'era qualcosa di nuovo da fare, qualche cambiamento nel mio tran tran, o del lavoro extra, o una nuova persona da incontrare. Cercando più lontano nel mio passato, ricordai che parecchi anni dopo l'università avevo subito per sei mesi l'assedio di un'ansia quasi intollerabile. Il suo manifestarsi fu drammatico: quello che gli psichiatri definiscono "spontaneo", infatti non sembrava essere stato provocato da nessun evento particolare. Ero stata al Brooklyn Museum per un servizio per una rivista quando un'ondata di vertigini mi travolse con una violenza tale che dovetti mettermi a sedere e affondare il capo fra le ginocchia per non svenire. Un attacco d'ansia. L'intensa ansia che iniziò in quel momento non si placò per sei mesi, quasi esatti. Una mattina mi svegliai liberata: il panico se n'era andato. Potevo tornare a leggere, pensare, rilassarmi, divertirmi Ma cos'era successo? A un dato momento un medico mi aveva consigliato di rivolgermi a uno psichiatra. Mi ero rifiutata. Avevo ventitré anni e non

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volevo nessuna prova ulteriore che ero candidata al manicomio, come avevo spesso pensato durante quell'episodio. Parlai mai delle mie esperienze ai miei genitori? Probabilmente no. Ero una giovane donna che cercava di farcela da sola a New York. U mio atteggiamento era: "Questa cosa la devi controllare. Cerca di farti forza." A quel tempo non sapevo che una delle mie zie soffriva di una turba dell'umore che l'avrebbe spinta a tentare il suicidio. E fu solo dopo i quarantanni che scoprii che il mio bisnonno si era ucciso in soffitta un giorno del Ringraziamento. Nel 1972, un anno dopo la fine del mio matrimonio, i sintomi di panico tornarono, con la differenza che questa volta cominciarono con incontrollabili crisi di pianto. Dopo la festicciola per il sesto compleanno della mia figlia minore sbottai a piangere e non riuscii a smettere per parecchie ore. Ero pervasa da un'insopportabile disperazione: cos'avessi da disperarmi tanto, non ne avevo idea. Provavo anche un terribile senso di colpa. Fu questo l'episodio che alla fine mi mandò in analisi Cominciammo i nostri colloqui con quello che era successo

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la sera dell'ultimo attacco. Io m'identificavo con la mia figlioletta, suggerì l'analista; forse la sera del suo compleanno ero stata sconvolta da qualcosa che mi era successo quando avevo la sua stessa età. Per mesi andammo a rovistare fra le frammentarie reminiscenze del mio sesto anno ma non trovammo niente. Gli attacchi di panico si erano amplificati in un'agorafobia generalizzata così grave che non riuscivo a trattenermi in un supermercato quanto bastava per fare la spesa. Teatri e ristoranti diventarono proibitivi. Impossibile fare la fila davanti a uno sportello bancario. D mondo dove potevo agire liberamente si fece sempre più angusto. Per fortuna, come scrittrice potevo compiere il mio lavoro nella sicurezza del mio studio. Fatto interessante, le palpitazioni, i tremori e la difficoltà di trovarmi con le persone ebbero una remissione dopo circa sei mesi: lo stesso periodo di tempo, cioè.del primo assedio. Pensai che la mia guarigione fosse il risultato del mio trattamento psicanalitico. Adesso ne sono tutt'altro che sicura. Paura e fobia: nel cervello o nella mente? Attacchi di panico colpiscono in un periodo o l'altro della vita due

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milioni di americani. Solo di recente sono stati classificati come una forma a sé stante di ansia. Oggi certi scienziati pensano che siano una turba in parte medica e in parte psicologica. Altri la ritengono interamente medica. Jeffjonas, uno psichiatra ricercatore del Fair Oaks Hospital di Summit, nel New Jersey, afferma che il successo della biopsichiatria nella cura del panico ha fatto sì che le teorie psicodinamiche di questo tipo di ansia siano state "rapidamente abbandonate". Forse saranno state abbandonate dai biopsichiatri, ma certamente non lo sono state da moki psicoterapeuti Eppure oggi sappiamo molto di più su questa malattia. Essa ha un decorso molto particolare, e risponde a trattamenti molto specifici. È una delle turbe psichiatri-che di cui è più facile sbarazzarsi, ma la maggior parte dei pazienti devono subirla per mesi, o addirittura per "Diversamente da un paziente con una patologia ansiosa generalizzata, che è più o meno sempre ansioso, quello affetto da attacchi di panico diventa ansioso in crisi improvvise e imprevedibili," distingue Jack Gor-man, del collegio dei medici e chirurghi della Columbia University.

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Questo è precisamente il tipo di panico di cui soffrii quando avevo circa vent'anni e poi verso i trenta. Magari avessi saputo allora cosa mi stava succedendo! Sarebbe stato un grande sollievo sapere che non stavo diventando pazza. Gorman riferisce di una donna, una neurochirurga, che ebbe il suo primo attacco di panico nel recarsi al lavoro in automobile, mentre passava su un ponte. "Tutt'a un tratto sente il cuore batterle all'impazzata, le si mozza il fiato, ha delle palpitazioni, dei tremiti, è sicura di stare avendo una crisi cardiaca."2 L'ultima parte del viaggio fino all'ospedale dove lavorava la fece nella corsia d'emergenza. Appena arrivata convinse la squadra medica del pronto soccorso che era in preda a un attacco di cuore. Le fecero un elettrocardiogramma e parecchie analisi del sangue. Tutto normale. Si sentì sollevata, ma la storia non finì lì. Ebbe altri terrificanti attacchi, ciascuno della durata di una ventina di minuti. E la coglievano dovunque: in casa, sul lavoro, alla guida. Cominciò a preoccuparsi dell'attacco successivo: "ansia anticipatoria", è la definizione degli psichiatri. Prese l'abitudine di evitare i posti dove

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l'avevano colta attacchi in passato e scopri che non poteva andare da nessuna parte, a meno che non_ fosse accompagnata da un'amica. Questa è agorafobia. E virtualmente sempre il risultato finale degli attacchi di panico che non sono curati psichiatricamente. Si sapeva fin dagli ultimi anni sessanta che il panico può essere efficacemente curato con medicine. La maggior parte dei farmaci antipanico sono antidepressivi. Alleviano i sintomi in un modo così eclatante che i biopsichiatri si chiedono perché mai gli psicoterapeuti continuino a cercare dì bombardare i pazienti con le vecchie teorie dell'ansia che tirano in ballo l'infanzia. Ancora oggi la maggior parte delle persone affette da panico non vengono curate farmacologicamente. La fobia è un altro tipo di ansia. Si basa su paure irrazionali di particolari eventi o situazioni, paure che diventano così dolorose da costringere i pazienti a evitare quello che le provoca. Perché possa realmente essere classificata come fobia, una paura deve compromettere gravemente l'attività normale. "Una persona che ha paura del paracadutismo non ha una fobia, perché la maggior parte di noi vivono perfettamente bene senza saltar giù

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da degli aerei," scrive Jack Gorman in Psycbia-tric Drugs, un libro che è prezioso sia per medici sìa per comuni lettori.3 Negli ultimi anni si è giunti a distinguere tre tipi di follia: agorafobia, fobia semplice e fobia sociale. L:'agorafobìa, come abbiamo visto, è una complicanza della sintomatologia panica. È curata congiuntamente agli attacchi di panico; guarito il panico, scompare anche l'agorafobia. La cura coi farmaci è così efficace che non c'è bisogno di soffrire per mesi e anni di questa malattia. La fobia semplice è una paura di qualcosa di molto particolare: i luoghi elevati, l'acqua, cani ringhiosi. I bambini sono così spesso affetti da queste paure che la maggior parte dei medici le considerano una parte normale dello sviluppo. Non ci sono farmaci che curino le fobie semplici, che di solito rispondono alla psicoterapia. La fobia sociale è la paura delle situazioni pubbliche: parlare davanti a un gruppo di persone, conversare a una festa, prendere la parola in classe. Nel testo di Gorman leggiamo che ci sono pazienti che vengono assaliti dall'ansia quando devono firmare un assegno davanti a un cassiere. "Ogni volta che temono di essere osservate," scrive, "le

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persone affette da fobia sociale diventano estremamente ansiose, hanno palpitazioni, si agitano, arrossiscono e tremano. Poi pensano che gli altri possano vederli turbati e rossi in volto e diventano ancora più nervosi" Una volta la fobia sociale era chiamata "paura del palcoscenico", e c'era chi passava anni in terapia nel tentativo di liberarsene. Una volta conobbi una violinista meravigliosa, che non aveva difficoltà a suonare in un'orchestra sinfonica ma non riusciva assolutamente a ingranare in un complesso da camera. Tutt'a un tratto, le cose diventavano troppo piccole, troppo vicine, troppo visibili, e l'archetto le tremava a tal punto da non farle azzeccare una sola nota. Invece era capace di suonare nella grande orchestra perché la situazione non scatenava la sua fobia. L'ultima cosa che ho saputo di lei è che era in terapia da cinque anni per cercare di risolvere il suo problema. Amava la musica da camera e voleva disperatamente essere in grado di suonarla in un complesso. Di recente è stato scoperto che la fobia sociale risponde bene ai farmaci, idealmente in combinazione con la psicoterapia. L'ottavo capitolo fornisce ì particolari della cura

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della fobia e degli attacchi di panico. Molti di coloro che vengono colpiti da questi attacchi hanno parenti che sono andati soggetti agli stessi disturbi, o che hanno sofferto di turbe dell'umore, o anche di entrambe le patologie. Gabrielle disse di non aver neppure mai saputo di avere problemi di ansia -compresa la fobia sociale - finché non iniziò la cura con gli antidepressivi Improvvisamente i problemi scomparvero. Potè andare alle feste, mescolarsi alla gente e divertirsi. Riuscì a tener testa a rudi tassisti e a ottenere dalla banca un pronto riscontro di un errore nel suo conto. Comportamenti che allora vedevo come problemi di dipenderla - l'incapacità di farsi valere e di prendersi cura di se stessi - sono, in chi è affetto da fobia sociale, miracolosamente guaribili. La persona timida e ritirata sembra ergersi fieramente da un giorno all'altro, come una pianta appassita dopo una buona annaffiata. Hudson e Pope pensano che questi problemi siano così correlati fra loro e cosi intergenerazionali che i depressi possono aspettarsi che i loro figli avranno problemi di panico o di depressione o saranno vulnerabili alle tossicodipendenze. L'obiettivo è

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di familiarizzarsi con la nuova interpretazione biologica di queste patologie abbastanza da poterne cercare i segnali; esattamente come teniamo d'occhio i nostri bambini per riconoscere in loro i sintomi del morbillo o della varicella. Fu nel leggere della nuova ipotesi di Hudson e Pope sulle malattie della sfera affettiva che cominciai a pensare al modo in cui tutte queste malattie - depressione, panico, fobia sociale - si sono manifestate nella mia famiglia. Evidentemente, i miei figli non avevano soltanto ereditato i geni del loro padre: avevano ereditato anche i miei La depressione di Gabrielle non rappresentava soltanto un fatto isolato nella nostra famiglia, così come la depressione di suo padre non era un fatto isolato nella famiglia di lui e i miei problemi di panico e periodicamente d'umore non sono esempi isolati nella mia famiglia. Questa notizia è deprimente oppure fa sperate? Secondo me fa sperare. Le nuove cure di queste malattie sono così efficaci che i pazienti affetti da fobie gravi e turbe dell'umore acute non devono più necessariamente finire col rovinarsi la vita. Né devono necessariamente passare mesi e anni in psicoterapia per avere sollievo. E

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neppure devono sentirsi come dei paria, in famiglia o nel mondo esterno. Queste sono malattie genetiche di cui non hanno, come Cooper cercò così strenuamente di convincere i suoi colleghi, nessuna colpa. E problema diventa quello di cercare di capire cosa c'è che non va. Le persone colte da attacchi di panico non dovrebbero essere costrette a correre terrorizzate dai loro cardiologi Quelle che soffrono di depressione dovrebbero essere in condizione di dire: "Oh, io lo so cosa mi sta capitando. Sono depresso!" E poi di ricevere assistenza. Depressione: l'esperienza Joann aveva trentotto anni quando fu liberata da una sindrome depressiva che aveva funestato tutta la sua esistenza da adulta. Prima di essere finalmente assistita si sentiva più giù che mai. "Soffrivo spaventosamente, nella morsa di un'atroce, implacabile angoscia che peggiorava di giorno in giorno. Mi sembrava di essere in un baratro senza fondo, e sapevo che non avrei resistito ancora per molto."4 Anche se un evento personale particolarmente stressante può scatenare un inferno del genere, esso può non avere un'origine riconoscibile. Oppure, come nel caso

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di Joann, può insinuarsi così insidiosamente che la malattia non è mai riconosciuta pienamente. "Non era successo niente per cui dovessi sentirmi così male," scrive. "Eppure la mia vita era stata lentamente prosciugata da ogni goccia di colore: così gradualmente che non mi ero neppure accorta di quanto mi stava capitando. Poi, di colpo, non rimase più nessuna traccia di gioia nelle mie giornate. Non c'era nessun piacere nel risvegliarmi a un nuovo giorno, nel trovarmi con delle amiche o nel fare qualcuna delle mille e mille cose che amo fare. Davanti a me non si estendevano che una solitudine e un vuoto tormentosi Niente aveva significato. Niente recava piacere. Volevo disperatamente ridere e divertirmi di nuovo, ma il dolore si aggravò." Va notato che Joann continuò a lavorare. In un primo tempo il lavoro fu una distrazione: un modo di distoglie- re la mente dai suoi guai. Ma alla fine diventò anch'esso una croce, mentre lei si sforzava di mantenere una pretesa di normalità. In ufficio evitava i colleghi. "Era terribilmente importante per me nascondere la mia sofferenza a tutti quanti, tanto più che non riuscivo a spiegarla. Mi sforzai di controllare

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le mie emozioni Non capivo cosa mi stesse capitando, e avevo l'impressione che anche nessun altro avrebbe potuto capirlo." Quando un episodio depressivo non viene curato, peggiora. Dopo un po' di tempo, Joann dovette smettere di fingere che tutto andasse per il meglio. Dimenticava le cose, evitava le telefonate, diventava sempre più irritabile. "Posta, messaggi telefonici e solleciti di pagamento cominciarono ad ammucchiarsi Ero tremendamente confusa, mi sembrava di non riuscire a star dietto a tutto. Non riuscivo a concentrarmi abbastanza da leggere. Anche le mansioni di minor conto cominciarono a sembrare difficilissime." Joann assicura che una volta trattare con la gente era una delle cose che le riuscivano meglio, ma adesso fraintendeva quello che gli altri dicevano e gonfiava a dismisura ogni piccolo incidente. Scoppiava a piangere per un nonnulla, anche fuori casa. Alla fine sopravvenne il disprezzo di sé. "Cominciai a giudicarmi una frana che era riuscita a ingannare gli altri per tanto tempo ma che sarebbe stata presto smascherata come stupida e sbadata, una che non era in grado di fare il suo lavoro." La vita diventò "un'interminabile confusa foschia". A

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questo punto, Joann non riusciva quasi più a scendere dal letto per andare in ufficio. Una volta fi, passava le sue giornate attanagliata dalla paura e dall'ansia, e quando rincasava si sentiva esausta. "Smisi di cucinare, di fare il bucato e perfino di portar fuori il cane. Calai di peso. Il sonno diventò la mia unica fuga, e cercavo di dormire più che potevo. Non mi svegliavo mai veramente riposata. Quando mi andava peggio mi svegliavo di colpo alle prime ore della mattina, con un terribile nodo allo stomaco." È diffìcile afferrare l'idea che una disperazione così totale può essere arrestata in tre o quattro settimane, ma è esattamente questo che accadde. Alla fine Joann andò a farsi vedere da uno psicofarmacologo. La sua analista gliel'aveva raccomandato per mesi, ma Joann era stata in apprensione. Era la sua ultima speranza, dopotutto. Se lo psichiatra non avesse potuto aiutarla, chi allora avrebbe potuto farlo? Ma lo psichiatra l'aiutò. Dopo aver raccolto accuratamente la sua storia clinica, "compose l'intero quadro," essa ricordò. Egli aveva portato alla luce i suoi sintomi di turbe dell'umore nell'infanzia e nell'adolescenza, e anche i problemi

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di dipendenza da sostanze di certi suoi parenti. Un'accurata valutazione di questo tipo richiede parecchie ore. È necessario farsi comunicare una gran quantità di dati per poter determinare quale tipo di depressione è all'opera. Questo, oltre alla storia familiare, è di grande importanza per decidere quali sono i farmaci più indicati. In capo a un mese dall'inizio della cura con antidepressivi, Joann sentì i plumbei sintomi della depressione alleviarsi Quello che la colpì, guardandosi indietro, fu quanto tutto prima fosse stato completamente confuso, e come adesso fosse chiaro. Né lei né le sue amiche e neppure il suo psicoterapeuta avevano capito cosa le stava succedendo, e tutto questo era andato avanti per mesi "Io sono una persona intelligente," dice. "Perché non ho riconosciuto i miei sintomi e saputo che avevo una malattia chiamata depressione? Perché non ho visto un rapporto fra questo episodio e altri simili, anche se non altrettanto gravi, che avevo avuto in passato?" Un'esperienza sconcertante D termine "depressione" può essere ambiguo, perché è usato in molti modi diversi. Nel linguaggio comune, descrive il "sentirsi giù", ossia l'umore malinconico che

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ciascuno prova di tanto in tanto. In psichiatria,5 però, si riferisce all'incapacità di provare piacere in un qualsiasi modo. Questa sensazione di vuoto, di disperazione, è nota dioicamente come anedonìa. Quelli che la provano tendono a descriverla soltanto con metafore. "È come una nube nera che t'inghiotte," dicono. "Ti taglia fuori dal resto del mondo." L'anedonìa è uno dei sintomi principali della depressione. Un altro è la difficoltà di concentrarsi, il che porta a una perdita d'interesse per cose che una volta erano stimolanti. "D paziente diventa annoiato molto facilmente," spiega Max Hamilton.6 Noia può essere il termine usato dal paziente, ma questa sensazione, o meglio mancanza di sensazione, è depressione. "Obiettivamente, appare come una riluttanza, che si fa gradualmente sempre più grave, a prendere parte alle normali attività," scrive Hamilton in un suo testo di psichiatria.7 Diviene più difficile lavorare. La concentrazione diminuisce, le decisioni vengono evitate e le cose non fatte cominciano ad accumularsi: la roba da lavare, le bollette da pagare, la cartella delle tasse. "Alla fine il paziente si trova davanti una tale

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mole di lavoro da sbrigare che non ce la fa più e getta la spugna." Hamilton evidenzia un fatto interessante: le donne depresse riescono a stare dietro alle loro incombenze molto più a lungo degli uomini depressi. "Anche quando raggiungono lo stadio in cui gli uomini lasciano andare completamente il loro lavoro, spesso esse continuano a darsi da fare, anche se a un livello minimo e incostante," scrive. Quando una depressione è "grave" Depressione psicotica e depressione nevrotica sono termini leggermente caduti in disuso. Una psicosi è una condizione caratterizzata da perdita di contatto con la realtà. Anche se certi casi di depressione della sfera affettiva sono abbastanza gravi da provocare sintomi "psicotici", come le allucinazioni, la maggior parte delle persone ne sono esenti La parola "grave" può essere intesa nel senso che la depressione è debilitante e vivida nella sua sintomatologia. Una persona in preda a un episodio grave non può sfuggire. D cambiamento d'umore è inesorabile, e uniforme. I piccoli piaceri della giornata non allietano più. Anche i grandi motivi di eccitazione lasciano indifferenti.

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Il depresso semplicemente non può provare eccitazione. Lo psichiatra Francis Mondimore fa notare che i suoi pazienti possono spesso prevedere la data dell'inizio del cambiamento. Dicono di sentirsi molto diversi dal consueto. Certi affermano di non sentirsi particolarmente depressi "Di solito, quello che sembrano intendere è che non sono tristi e non sentono voglia di piangere, ma sicuramente sono infelici," osserva Mondimore. "Sembrano essere semplicemente di cattivo umore, molto irritabili, impulsivi, impazienti e irrequieti, incapaci di rilassarsi, incapaci di esprimersi in modo positivo su persone o cose."8 La depressione grave è presente ogni giorno. È invadente, e pervade e influenza ogni cosa. "Molti pazienti trovano che il cambiamento d'umore li disturba perfino nel loro sonno sotto forma di brutti sogni Temi di morte, perdita e dolore sono frequenti," riferisce Mondimore nel suo libro Depressioni The Mood Visease. Abraham Lincoln, che indubbiamente soffriva di turbe dell'umore, aveva sogni di morte e di agonia durante le depressioni che l'ossessionarono per anni, ci ricorda Mondimore. "Poco prima del suo assassinio, disse a sua moglie di

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aver sognato di trovare un cadavere esposto su un catafalco in una camera ardente che era la sala est della Casa Bianca. Che si fosse trattato di una sorta di rivelazione mistica della propria morte imminente è una questione che lascio ai parapsicologi, ma è certo che era un sintomo tipico della depressione della sfera affettiva."8 I depressi gravi sono tormentati da pensieri e questioni che non li preoccupavano prima che diventassero depressi. Alcune donne con figli diventano inclini a sentirsi inadeguate come madri. Quando ebbi quella crisi di pianto la sera del sesto compleanno di Rachei fui sopraffatta da sentimenti di rimorso. Improvvisamente, come un fulmine a ciel sereno, mi assalì fl senso di essere una madre tremenda. In complesso, mi ero sempre sentita competente come madre, e quindi questa esperienza rappresentò un cambiamento sensibile e drammatico. Di colpo, fui completamente, morbosamente pervasa da un senso di colpa per il mio fallimento nel mio ruolo materno. I depressi gravi si accorgono che le loro menti tornano continuamente agli stessi pensieri spiacevoli. "Anche se si sforzano di scacciarli, la loro attività mentale

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è attratta dallo stesso tema deprimente come per una forza simile al magnetismo o alla gravita," scrive Mondimore. In psichiatria queste idee sono dette pensieri ossessivi Certi soggetti non accusano mai sintomi abbastanza gravi da dover ricorrere al medico. "Si limitano a tirare avanti tristemente, forse nella convinzione che tutti si sentano male come loro ma che loro non sono capaci di dissimularlo come gli altri," continua Mondimore. "Diventano così abituati a questa sofferenza cronica che semplicemente imparano a convivere con essa."9 Questo tipo cronico di depressione è definito distimia. H prefisso dis denota qualcosa di abnorme, o di compromesso, e la radice timia si riferisce all'umore. La sìndrome distimica è una nuova classificazione della depressione. La distimia non è acuta come la forma grave di depressione che abbiamo visto, ma un suo episodio dura molto più a lungo. In base ai criteri diagnostici, una persona è definita affetta da distimia se è depressa per la maggior parte del tempo per almeno due anni. Anche se in forma attenuata, molti dei sintomi sono gli stessi della depressione grave: turbe dell'appettilo e del sonno, scarsa

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energia, scarsa autostima. È davvero tanto importante sapete qual è il tipo di depressione di cui si soffre? Sì. L'emissione di una diagnosi specifica aiuta il medico a determinare quale cura avrà più probabilità di risultare efficace.10 Segni e sintomi: ì dolori "fantasma' I medici sanno che molti dei pazienti che si rivolgono a loro lamentandosi di mali di testa e di stomaco soffrono in realtà di depressione. I loro disturbi passeggeri, e a volte non tanto passeggeri, sono stati descritti come "fantasma" perché in passato si pensava che non fossero provocati da fattori organici Oggi i ricercatori la pensano diversamente circa i dolori e i disturbi a livello corporeo che così spesso fanno parte della depressione. Sono giunti alla conclusione che si tratti di una reazione sistemica al calo dei livelli di neurotrasmet-titori Una buona visita fìsica generale contribuirà a rivelare se questi disturbi e dolori sono imputabili alla depressione o a qualche altra causa. H quadro dinico può essere integrato con uno dei nuovi sofisticati questionali sulla depressione oggi usati dagli psicofarmacologi Fisicamente, la depressione fa diminuire la

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salivazione; anzi, deprime l'intera attività gastrointestinale.11 Non stupisce che secchezza del cavo orale, dolori di stomaco, gonfiore addominale e funzione intestuiale alterata accompagnino la condizione depressa, osserva Hamilton. In un certo senso, lo stesso tratto gastrointestinale è depresso, come il sistema immunitario. Semplicemente, tutti i sistemi funzionano male. D primo sintomo gastrointestinale della depressione è una lieve diminuzione dell'appetito a cui a volte si accompagna un cattivo sapore in bocca. Il cibo diventa sempre meno interessante. La persona depressa trova necessario ricordarsi di mangiare. Col peggiorare della malattia, ci dovrà essere qualcuno che la esorti a mandar giù un boccone. Altri depressi smettono di mangiare per un motivo diverso: il senso di colpa. Certi pensano che non meritano di mangiare perché sono cattivi II rifiuto completo di mangiare è segno di uno stadio avanzato di depressione e può essere anche sintomo di anoressia nervosa. E disinteresse per il cibo si traduce in perdita di peso, anche se essa è evidente anche in coloro che non hanno cambiato le loro abitudini di alimentazione. Gli

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amici notano le facce affilate e gli abiti che stanno larghi. Purtroppo le donne tendono ad apprezzare il sintomo della perdita di peso. Possono addirittura derivare un passeggero miglioramento dell'umore dal fatto di essere dimagrite. Un giorno una mia amica venne a trovarmi e notai che era molto più esile dell'ultima volta che l'avevo vista, solo poche settimane prima. Sapeva di essere depressa ma non diede importanza alla perdita di peso, dicendo che in ogni caso aveva desiderato dimagrire. Neanche prima era grassa. "Quanto hai perso?" chiesi. "Quattro o cinque chili," rispose. "Be', più probabilmente sei o sette." C'è anche una forma più rara, "atipica" di depressione, in cui i pazienti tendono sia a mangiare in eccesso sia a dormire in eccesso. La maggior parte delle depressioni sono accompagnate da un calo della libido. Molti uomini lamentano difficoltà di erezione e di eiaculazione, e alla fine possono diventare completamente impotenti. Le donne possono diventare anorgasmiche. La perdita di desiderio sessuale si ha sia negli uomini sia nelle donne. Secondo Hamilton, la perdita d'interesse per il sesso è uno dei primi sintomi depressivi che si

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manifestano, e non è insolito che sia uno degli ultimi a scomparire quando il paziente migliora. H termine clinico piuttosto allarmante di "ritardo psicomotorio" descrive l'effetto rallentante che la depressione esercita in circa metà di coloro che ne sono affetti ("Ritardo", qui, riveste il suo significato letterale di "rallentamento" e non ha niente a che fare col termine "ritardo mentale", che si riferisce a un basso quoziente d'intelligenza.) Nei primi stadi, i segni di ritardo possono essere impercettibili. Il volto si fa leggermente meno mobile, la voce un po' più atona, la postura acquista una certa rigidità. Durante le interviste a pazienti depressi, Hamilton cerca segnali di ritardo restando in silenzio per qualche tempo. In questa situazione, la maggior parte s'innervosiscono sempre più, finché si sentono costretti a rompere il silenzio. Ma non i depressi ritardati. Questi pazienti "rimangono a sedere zitti e immobili, evidentemente immersi nei loro tristi pensieri e totalmente refrattari a questa mancanza di riguardo." Le depressioni accompagnate da ansia rendono agitati. Tre donne depresse su quattro sono agitate anziché

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ritardate. Quando l'ansia è acuta, è spesso vista come la malattia principale. Una depressione che le sta alla base - spesso il problema chiave - può passare inosservata. Fra i sintomi meno comuni della depressione ci sono vaghe e indistinte idee paranoidi. Si manifestano in un paziente su dieci, precisa Hamilton, e di solito questo paziente le esterna solo se abilmente sollecitato dal medico. Pensieri negativi ossessivi - "La mia vita è un disastro e tutti lo sanno" - sopravvengono all'inizio della depressione e scompaiono a guarigione avvenuta. Anche rituali ossessivi - il lavarsi le mani, il controllare, il contare -accompagnano a volte la depressione e anch'essi vengono eliminati dalla cura. Le stesse turbe ossessivo-com-pulsive vere e proprie rispondono spesso in modo drammatico agli antidepressivi, e perciò gli scienziati pensano che possano avere in comune con la depressione delle anomalie simili a livello cerebrale. Il deteriorarsi delle facoltà cognitive Uno dei sintomi più impressionanti della depressione è il deteriorarsi delle facoltà cognitive. "Si osserva una lentezza o difficoltà del pensiero, spesso accompagnata da una povertà

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d'idee, di cui i pazienti sono ben consapevoli," scrive Hamilton. Certi si lamentano non tanto di torpore mentale o d'incapacità di pensare quanto "del girare incessante dei pensieri intorno alle stesse preoccupazioni." Molti pazienti che riescono a recarsi in ufficio mostrano uno scarso rendimento, perché i loro processi mentali sono rallentati. Un uomo da me intervistato mi riferì di una donna che si dimostrò molto efficiente quando lui l'assunse, ma che poi parve andare sempre più a rilento. "Non riuscivo a farle eseguire il suo lavoro a meno che non le stessi letteralmente sopra, e anche in questo caso aveva difficoltà a farlo." "Aveva forse un problema di alcol o di droga?" gli chiesi "Niente che io abbia potuto scoprire," rispose. "Non aveva mai odore di niente, non aveva mai gli occhi arrossati, o le pupille dilatate, o era nervosa. C'era soltanto questo rallentare, come se fosse sotto una campana di vetro." Una volta essa non si presentò in ufficio per una settimana, e anche se si preoccupò di telefonare, il motivo di quelle assenze non fu mai chiaro per il suo principale o per i suoi colleglli. "Una dele segretarie aveva bisogno di

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qualcosa che era nell'ufficio di questa donna, e trovò tutte quelle paia di scarpe," raccontò il suo principale. "Un mucchio di gente lo fa, lavora con ai piedi scarpette comode e tiene scarpe in ufficio, ma questo faceva pensare alla mania di Imelda Marcos. In qualche modo Katy non riusciva a organizzarsi, e pensare che nei primi tempi era favolosa. Non ci capivo niente." È facile immaginare che molti dirigenti possano restare disorientati dalla nebbia che periodicamente cala su dipendenti che in altri momenti si dimostrano bravi lavoratori. 11 fatto è altrettanto sconcertante per gli impiegati che si trascinano fino all'ufficio e ce la mettono tutta per fingere di essere a posto, sperando che "quella cosa" se ne vada spontaneamente. Jim Dailey, un uomo con una lunga storia di depressione cronica, descrisse vividamente l'effetto della malattia sulla sua capacità di funzionare come avvocato. Aveva avuto fin dall'inizio difficoltà ad "adattarsi" alla sua professione, affermò, e non riuscì mai a capire perché. "Gli altri continuavano a dirmi che potevo farcela. I punteggi dei test d'intelligenza dicevano che potevo farcela. Ma, col passare degli

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anni, la tensione dei tentativi e dei fallimenti, e del semplice sopravvivere, è stata immensa." Il problema di Jim non era l'intelligenza. "Io avrei tutte le doti per scrivere bene, vocabolario, grammatica, punteggiatura, ci so fare con le parole, come si dice, ma trovo una difficoltà assurda quando si tratta di produrre del lavoro scritto. È come se non potessi accedere in modo efficiente alle mie conoscenze quando cerco di sintetizzare qualcosa di coerente dall'informazione che ho raccolto." Jim ha sofferto di questo problema, e ne è stato sconcertato, per tutta la vita. "Nei test standardizzati per la valutazione del quoziente d'intelligenza ho sempre totalizzato un brillante 98% o più, eppure sono stato bocciato in pieno al mio esame di storia all'università: non ho saputo rispondere a tutte le domande del saggio. Non esagererò mai tutta la sofferenza che mi è costato lo scrivere; le ore interminabili che ho passato bloccato, confuso, incapace di connettere i pensieri, e men che meno di metterli sulla carta." Per Jim il lavoro preparatorio per una causa è spaventosamente diffìcile. "Certe volte lo sforzo per liberarmi da questo blocco della scrittura mi

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sfinisce. H tempo passa, il lavoro fatto da mostrare è zero, e lo stress è tremendo. "Eppure ha compiuto sforzi immani per vederci chiaro nel suo problema: per scoprire dove le sue capacità sono intatte e dove sono state intaccate dalla depressione. "Io posso elaborare molto bene l'informazione concreta in piccole porzioni, e posso servirmi molto bene del linguaggio allo stesso modo," osserva. "Posso rispondere a un fuoco serrato di domande specifiche su un dato argomento, ma ho una grossa difficoltà a rispondere quando mi si chiede di dire tutto quello che so sullo stesso tema." Il pensiero si offusca Recentemente i neurobiologi hanno cominciato a determinare alcuni dei modi in cui la depressione compromette la nostra capacità di pensare e di ricordare. Uno studio dimostra che i depressi, quando ricevono in visione un elenco casuale di parole, provano una grande difficoltà a ricordarle. Quando si trovano davanti a del materiale nuovo hanno più difficoltà dei non depressi a collegarlo a conoscenze preesistenti. Non gli impongono quell'organizzazione che facilita l'apprendimento e la memoria, secondo Harold Sackheim e Barbara L. Steif.12 H tipo di ricerca neurologica sulla

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depressione che questi due studiosi stanno effettuando è nuovo e importante. Esso aiuterà la gente a diventare più consapevole del grave fardello di sofferenza imposto dalla depressione. Fondamentalmente, quello che sappiamo di queste difficoltà del pensiero può essere usato per rassicurare coloro che ne soffrono. Sackheim e la Steif dicono che i particolari tipi d'indebolimento delle facoltà cognitive causati dalla depressione si rendono evidenti in modo drammatico in compiti che richiedono "un'elaborazione complessa, e/ o una strutturazione indipendente d'informazione relativa a una conoscenza preesistente." Il lavoro creativo, in altre parole: temi d'esame, fascicoli processuali, tesi di laurea, testi pubblicitari e, Dio ce ne guardi, lo scrivere libri. Durante i suoi episodi di depressione, Jim Dailey è sconcertato dal fatto che può continuare a compiere certi tipi di processo mentale ma trova così diffìcile scrivere. Gli psicoterapeuti a cui Jim si rivolse suggerirono varie cause possibili di quanto gli stava succedendo. "Paura del fallimento" e "paura dell'umiliazione" erano in cima alla lista. "Magari saranno fattori, senza dubbio," obietta Jim,

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"ma a me non sono mai parsi una spiegazione della tremenda difficoltà che provavo." Dopo anni di sforzi per compiere il suo lavoro riuscendo soltanto a mantenersi a galla, Jim si fece fare dei test neurologici. Apprese con immenso sollievo che i suoi problemi non erano qualcosa che si era creato ma la conseguenza della sua depressione. "La compromissione delle facoltà cognitive è subdola e incide sul prestare attenzione a più di una cosa alla volta. Questo è saltato fuori in un test dove dovevo ascoltare tre lettere dell'alfabeto, poi fare dell'aritmetica mentale e infine ricordare le lettere. 'Lettere? Quali lettere?' In un altro test, una serie di numeri era registrata su nastro. Io dovevo ascoltare i primi due numeri, addizionarli a dire la somma, ascoltare il terzo numero e aggiungerlo alla somma, e così via. In questi test ho fatto un fiasco completo." Jim ebbe difficoltà anche a imbastire una storia su un disegno che gli fu mostrato. "Sono riuscito solo a descrivere molto bene quello che vedevo sulla carta, ma non a creare una storia." Questo non era dovuto a difficoltà di linguaggio. H quoziente d'intelligenza verbale di Jim è superiore a 150. Il tipo di

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depressione di cui soffre Jim è cronico, col massimo sollievo che interviene durante i periodi meno stressati della sua vita. Lo sforzo di compiere il suo particolare tipo di lavoro aggrava il suo stress; non sorprende che egli non ami poi tanto il suo lavoro. Avendo scoperto che i suoi "deficit cognitivi" (come sono chiamati dai neurologi) sono reali, Jim sta ora progettando di cambiare professione. Una delle scoperte straordinarie di Sackeim e della Steif è che il nesso fra difficoltà dell'attenzione e turbe dell'umore può essere così potente da protrarsi nei periodi in cui le condizioni dell'umore sono normali. Questo sarebbe indubbiamente un ulteriore motivo per intervenire sull'umore alterato. Un sonno agitato Quattro depressi su cinque vedono avvicinarsi l'ora di andare a letto con vari gradi di terrore. A letto si girano e si rigirano, rimuginando senza sosta pensieri negativi Sono ossessionati da una sciocchezza che hanno fatto, o che credono di aver fatto, al patty della sera prima. Si preoccupano dei soldi, delle tasse, temono che i denti gli caschino dalle gengive. Quando diventai depressa, dopo un lungo periodo di anemia (le malattie

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croniche spesso producono depressione), mi sorpresi a preoccuparmi che il mio studio potesse crollare nel fiume su cui si affaccia. Sapevo che era un pensiero irrazionale, ma mi sentii impotente a controllare quello che la mia mente stava facendo. Il corso del pensiero partì da un minutissimo nocciolo di realtà. L'argine del fiume era intaccato qua e là, danneggiato da torrenziali piogge primaverili. Quando il livello delle sostanze chimiche del mio cervello si alterò, l'erosione diventò sempre più imponente nella mia immaginazione: prima fino alla perdita del mio studio e infine alla perdita della mia casa. Forse, mi, dissi, dovrei vendere prima che il mio nido venga spazzato via per intero dalle devastazioni prodotte dalla natura; d'altra parte, però, il mercato immobiliare è così in crisi, forse non riuscirei a trovare un'altra casa, e via di questo passo. Dopo un po' di riposo, mi svegliai tornata alla razionalità. "La mia casa è in piedi dal 1775. Sicuramente ci starà ancora per qualche anno." Ma nel cuore della notte le stesse tormentose preoccupazioni mi riassalirono. I risvolti biologici di questi pensieri ansiosi diventarono

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chiari quando, dopo che ebbi assunto ferro per circa un mese, i miei globuli rossi tornarono a un livello normale. Di colpo - veramente, da una settimana all'altra - le preoccupazioni per l'imminente sfascio della mia bicentenaria casa di campagna svanirono. I miei pensieri delle ore del giorno diventarono brillanti e positivi, e quelli della none tornarono al mondo dei sogni, loro legittima patria. Svegliarsi presto, sentendosi turbati e ansiosi, è considerato un segno dì depressione anziché di ansia. La difficoltà ad addormentarsi è di solito collegata all'ansia. Nel caso delle depressioni più lievi, può andare persa solo un'ora di sonno o giù di L Quando la depressione è più grave, la perdita può arrivare a parecchie ore. Certuni affermano di non dormire per niente, oppure di addormentarsi poco prima dell'ora in cui dovrebbero alzarsi. Le persone sulla sessantina, sulla settantina o sull'ottantina che hanno difficoltà ad addormentarsi dovrebbero farsi visitare: se non ci fosse una causa organica alla base dì questo disturbo del sonno potrebbe trattarsi di depressione. Certi medici pensano che lo scarso sonno sia inevitabile nei pazienti più

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anziani. Non è così, e bisognerebbe intervenire con una cura. Anche se i disturbi del sonno sono considerati uno dei sintomi più chiari di depressione, possono non esserlo nel caso di persone giovani, che possono essere depresse senza avere disturbi del sonno. D'altra parte, il fatto che Suzy vada a letto a mezzanotte e si alzi all'una del pomeriggio non significa certamente che Suzy non ha problemi di sonno. Al contrario, Suzy un problema di sonno ce l'ha. Coloro che non vorrebbero mai uscire dal letto manifestano segni di patologia, e questo vale per gli adolescenti come per qualsiasi altra fascia d'età. Questo bisogno di una quantità più che normale di sonno è detto "ipersonnia". Nelle depressioni che sono descritte come "atipiche" l'ipersonnia spesso si accompagna a eccessi alimentari Le sostanze chimiche del cervello hanno semplicemente un effetto diverso che nella depressione tipica caratterizzata da difficoltà nel mangiare e nel dormire. Quali che siano i primi modi di manifestarsi del disturbo del sonno, esso si aggraverà con l'inasprirsi dell'episodio depressivo, estendendosi fino a comprendere altri tipi d'insonnia. Possono aversi

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terrificanti sogni depressivi e risvegli improvvisi fra i singhiozzi. L'insufficienza del sonno, naturalmente, produce fatica diurna. I depressi sono spesso stanchi. La fatica può diventare così grave da dominare il quadro clinico. C'è il rischio che medici e altri operatori del settore della salute si affrettino a emettere una qualsiasi diagnosi diversa da quella di un problema d'umore. Spesso la colpa viene attribuita al virus di Epstein-Barr e alla sindrome da affaticamento cronico. Queste sono diagnosi che piacciono in modo particolare ai praticanti della medicina olistica. Chiunque rimanga affaticato per più di qualche settimana dovrebbe prendere in considerazione la possibilità di essere affetto da depressione prima d'imbottirsi per vìa endovenosa di vitamina nella speranza di ottenere sollievo. Certe malattie organiche producono sintomi di depressione. Di solito essi scompaiono una volta che la malattia è curata. Bassi livelli di ormone tiroideo (ipoti-roidismo), che possono provocare depressione grave, si manifestano più spesso di quanto sia generalmente riconosciuto: specialmente nelle donne. Quando qualcuno si lamenta di senso di

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fatica bisognerebbe sempre controllare i livelli dell'ormone tiroideo. La cura della tiroide, nel correggere i livelli di ormone, corregge anche la depressione che si accompagna a questa condizione: sempre che, cioè, la persona non sia anche affetta da una turba dell'umore, e i ricercatori hanno trovato che questo non è infrequente. In effetti, alzare il livello dell'ormone tiroideo è qualcosa che gli psicofarmacologi tentano quando i pazienti depressi non rispondono pienamente agli antidepressivi. E accertato che la cura della tiroide è un potenziatore di certi tipi di antidepres- sivi: essa accresce la loro efficacia anche quando i livelli dell'ormone tiroideo sono normali (vedi cura all'ottavo capitolo). L'anemia è un'altra malattia che produce depressione. Una volta che il tasso di emoglobina è ridiventato normale, anche il livello di energia e l'umore si normalizzano. Si sa che certi ormoni rendono depressi. Le pillole anticoncezionali sono notoriamente generatrici di depressione, anche se spesso i medici non mettono in guardia da ciò. I progestinici, che vengono a volte prescritti per forti emorragie mestruali, possono

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provocare tremende crisi depressive. Anche il danazolo, un preparato ormonale usato in rari casi per arrestare l'emorragia da fibromi mettendo le donne in una menopausa artificiale, produce depressione. Ironicamente, molte delle medicine somministrate alle donne per curare problemi che hanno a che fare col loro sistema riproduttivo finiscano col renderle depresse (vedi quarto capitolo). Le malattie croniche, come I'AIDS e la sclerosi multipla, arrecano depressione. La malattia cronica deprime il sistema immunitario, e sembra esserci un nesso fra immunità e depressione. I ricercatori stanno cominciando a mettere a fuoco gli aspetti depressivi della sindrome da affaticamento cronico. Le analogie fra questa e la depressione grave sono così grandi che certi scienziati si chiedono se non si tratti in realtà di un tipo di depressione. Dato che gli anziani soffrono frequentemente di malattie che sono più o meno croniche, vanno spesso soggetti alla depressione; dovrebbero ricevere la diagnosi ed essere curati. Per lungo tempo, la depressione è stata associata al semplice fatto della tarda età. "Be', è naturale che sia depressa, ha

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ottant'anni!" si diceva. Oggi la medicina illuminata riconosce che la depressione è patologica negli anziani come lo è nei giovani. Spesso le turbe dell'umore sono prese per "senilità", un concet- to che non ha più nessun significato dinico. Le persone sono ammalate o depresse, o entrambe le cose, ma non sono "senili". La depressione è una malattia i cui esordi sono subdoli. Acquista forza così gradualmente che chi ne è colpito non si accorge di stare ammalandosi Qualcosa non va, ma cosa? In un primo tempo, e per un lungo periodo, la malattia si manifesta con sintomi che sembrano rappresentare qualche altro problema. Questo in parte perché non ci è stato veramente insegnato a riconoscere i sintomi caratteristid, così che essi rimangono, in un certo senso, misteriosi. Molte persone che sono depresse si lamentano di sentirsi vagamente malate. Si sentono affaticate, a volte in modo profondo. Spesso ci sono dolori inspiegabili che vanno e vengono: i "dolori fantasma" che abbiamo già visto. Comuni sono i disturbi gastrointestinali, nonché mali di testa, dolori muscolari e "senso di pesantezza" al capo o al petto. Una volta un nostro vicino fu portato

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d'urgenza all'ospedale nel cuore della notte con dolori al petto. "Ansia," decise il medico del pronto soccorso, e lo mandò a casa con delle pillole che rilassano i muscoli Poi si vide che l'uomo era depresso oltre che ansioso, ma, come un gtan numero di soggetti che soffrono di turbe dell'umore, non ricevette la diagnosi esatta, e i suoi dolori e le sue paure continuarono per molti anni. Ogni volta che arrivava quel senso di pesantezza al petto, diceva a se stesso: "Ansia," e teneva duro finché non era passato. Intanto conduceva un'esistenza ristretta, controllata, mentre tentava di tenere a bada i demoni del suo umore. Migliorando Per un paziente che si trova nel mezzo di un episodio di depressione grave, la risposta agli antidepressivi è dapprima lieve. E facile che amici e parenti si accorgano dei cambiamenti in atto prima che l'individuo senta che il suo umore sta cambiando. La seguente storia, presa dalla casistica del libro del dottor Mondimore, è tipica: "Un uomo si accorge che sua moglie, una settimana dopo aver iniziato la cura con un antidepressivo, s'interessa molto di più al proprio aspetto, e le fa osservare che evidentemente la sua medicina sta

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funzionando. 'Vuoi scherzare?', ribatte lei 'Questa roba non mi fa niente. Mi sento ancora malissimo.' Ma una settimana dopo deve ammettere che il suo umore è migliorato."13 D miglioramento del sonno è spesso il primo segno che il paziente si sta rimettendo. Molto prima di sentirsi sollevato, il depresso si addormenta più facilmente e dorme tutta la notte. Poi ritorna l'appetito. La perdita di peso cessa. Può essere utile per il depresso fargli osservare questi progressi. "Guarda, qualcosa sta succedendo! Hai ripreso a dormire. Quello che mangi ha un sapore migliore. Fra poco ti sentirai molto meglio." Non tutti i depressi trarranno beneficio dalla cura medica per la depressione, ma gli esperti concordano che parte dei depressi - forse un gran numero di loro - soffrono di una malattia radicata nel funzionamento biologico o chimico del cervello. Per loro, assicura Mondimore, l'intervento medico è necessario. "H trattamento psicologico da solo non basta."14 Il sollievo dalla depressione dovrebbe essere completo. L'obiettivo è questo. Molte persone - e moiri psicoterapeuti - accettano la guarigione incompleta. "Mi sento meglio di com'ero prima," dice la

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persona depressa, e - ancora depressa - pensa di non doversi veramente aspettare di più. Medici, amici e familiari dovrebbero dirle di aspettarsi di più. H più è qua; il più è disponibile. Quelli che non si sentono più depressi trovano un enorme piacere nella vita. "Ho passato questa mattina lavorando nel mio giardino," scrive Joann, finalmente guarita dalla malattia che spesso la faceva diventare così ritirata che aveva finito coli'allontanare da sé amici e familiari. In un rapporto scritto per il suo psichiatra, Joann descrive come si sente adesso.15 "Benché sia solo la metà di febbraio, i miei asfodeli stanno facendo capolino, e le rose mostrano nuovi germogli di un rosso acceso. Provo una gioia immensa mentre scopro ogni nuova meraviglia, e mi stupisco che i miei fiori stiano risvegliandosi da un altro inverno." Ciascuno si merita di risvegliarsi dall'inverno. 4 Xa biologia e la depressione delle donne lu solo dopo la nascita di Ben che Hannah riconobbe, per la prima volta, che qualcosa non andava. Quando aveva avuto Johnnie, era stato diverso. Era così esausta che faticava a restare sveglia. Quando i bambini facevano un pisolino, si

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addormentava all'istante, e quando si svegliavano faticava a trascinarsi giù dal letto. Tutti le avevano detto che con due figli sarebbe stata dura. Hannah aveva la sensazione di non avere quello che ci voleva per farcela. Dal momento in cui si alzava la mattina era stanca, irritata e preoccupata dell'effetto del suo umore sul neonato e sul piccolo Johnnie. Si sentiva bisbetica. Aveva l'impressione di stare diventando invisibile, come se niente di quanto faceva o pensava avesse la minima importanza. Hannah rievocò questa sua situazione di quand'era agli inizi della sua vita di madre conversando con me nella mia stanza d'albergo. Quello che le era successo dopo la nascita del suo secondo figlio era un episodio di turba dell'umore. Di episodi del genere ce ne sarebbero stati altri. Ci sarebbero anche stari momenti d'inesplicabile eccitazione - momenti d'intensa carica, ansiosa energia - che essa non riuscì mai a far quadrare realmente col resto della sua vita. Quando questi strani periodi, coi loro spesso strani comportamenti, erano finiti, Hannah si sforzava di non pensarci più. Fra questi alti e bassi, era una buona moglie e madre. Ma quando avvenivano i grandi sbalzi d'umore (e

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nei primi anni succedeva spesso), si sentiva come nell'occhio di un ciclone. Parlandomi ora della sua esperienza, Hannah cominciò a riconoscere per la prima volta fino a che punto quelle tempeste umorali avessero influenzato il corso della sua vita. Hannah e io c'incontrammo per la prima volta dopo una conferenza che avevo tenuto in una città dell'Okla-homa. Era venuta a trovarmi perché sapeva che lavoravo a un libro sulle turbe dell'umore e sulle tossicodipendenze e voleva mettermi a parte delle sue esperienze. Oggi, a cinquantanni, Hannah vive da sola e si guadagna da vivere come artista grafica. Ha splendidi, morbidi capelli neri e occhi grandi H suo volto è cosi giovanile che è difficile vederla come madre di figli cresciuti Mi mostra delle foto del suo villino e dello studiolo sistemato in un angolo del soggiorno. Noto l'estremo ordine di tutto quanto, i suoi pennelli e colori, la sua batteria da cucina, la disposizione dei cuscini sul divano. Dice che è la più graziosa casa immaginabile, molto migliore dell'appartamentino dove abitò per anni, prima che si rendesse disponibile il villino a un affìtto alla sua portata. Parecchi anni prima

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Hannah aveva introdotto importanti cambiamenti nella sua vita. Si era data alla meditazione e aveva chiuso con la marijuana, che aveva fumato per diciotto anni. Negli ultimi anni ha condotto una vita tranquilla, per lo più casta, ma ora ha cominciato a vedere qualcuno parecchie notti alla settimana, e, nonostante sia su di morale, è anche agitata. "Succede sempre così quando cerco di avviare una relazione," osserva tristemente. Le chiedo di raccontarmi la sua storia dall'inizio. Comincia con la depressione che si abbatte su di lei dopo la nascita di Ben, ma poi s'interrompe di colpo, riconoscendo che, dopotutto, non era stata la prima volta. "Sono diventata depressa nei primi anni dela scuola media, e sono rimasta così per tutto questo corso di studi. Penso di non aver mai classificato quello che mi ha preso in quegli anni orribili come depressione." A quanto pare, però, si trattò proprio di depressione. Quando aveva tredici, quattordici, quindici anni, Han-nah aveva bisogno di farsi un sonnellino ogni giorno dopo la scuola. Spesso, la mattina, non ce la faceva ad alzarsi in tempo per prendere lo scuolabus e doveva essere condotta a scuola da sua madre, che la sgridava

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dandole della pigrona. Alle medie, Hannah si sentiva sempre giù, aveva poche amiche e si considerava un fallimento nei rapporti con gli altri. "Ero addirittura convinta che tutti mi detestassero." A scuola, comunque, Hannah aveva sempre avuto un buon profitto. All'università continuò ad andare bene, e improvvisamente - sarà stato intorno al secondo anno - tutto assunse un tono più roseo. Oggi pensa che questo improvviso cambiamento d'umore fosse dovuto al suo successo nella vita di relazione. Piaceva ai ragazzi. Si sentiva sessualmente attraente. H suo morale sai "E difficile capire come potessi andare bene a scuola dato che ero sempre in giro. Ero impegnata in una quantità di faccende. Dirigevo il giornale scolastico, recitavo, ero sull'albo d'onore del preside, e stavo via per tutto il weekend. Avevo un'enorme energia." A questo punto, Hannah ricorda di aver avuto un'enorme energia anche da bambina: prima dì cominciare la media ed entrare in quel buio tunnel "Da bambina ero molto creativa, sempre piena di progetti. Tenevo un diario, scrivevo commedie, non smettevo mai di fare, fare, fare. E se non avessi fatto tutte quelle cose, ora che ci ripenso, mi sarei sentita spenta. Non

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avrei sentito niente, come morta." Era poco più che ventenne quando s'innamorò di un uomo che conobbe nel suo primo posto di lavoro, a San Francisco, e lo sposò. "Sono rimasta subito incinta, e quella prima gravidanza è stata meravigliosa. E venuto al mondo Johnnie, e anche lui era meraviglioso. Ma poi sono rimasta incinta di Ben, e per tutta la gravidanza mi sono sentita a terra." Il suo umore si fece ancora più tetro dopo la nascita del bambino, e Hannah fu colta da depressione puer-perale. Col passare dei mesi peggiorò. Era irritabile, coi nervi scoperti e stanca dalla mattina alla sera, ma non pensò mai di soffrire di "depressione". Pensava invece che non sopportava più suo marito, e che l'unico modo di uscire dalla densa nebbia che la imprigionava sarebbe stato quello di andarsene. H matrimonio la stava soffocando. Si era sposata troppo presto, non aveva realmente trovato se stessa, e ora doveva andarsene e ricominciare la vita da capo. Ma riusciva a malapena a muoversi! Si fece comunque forza e parlò a suo marito, WiD, della sua idea di separarsi. Era convinta che la libertà così ottenuta l'avrebbe sollevata. Will era certo che essa

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non fosse in condizione di portare con sé i bambini. "Non ho potuto fare a meno di trovarmi d'accordo con lui, dato che non c'era una cosa come l'asilo nido. Questo succedeva, ricorda, all'inizio degli anni sessanta. Pensavo che non appena mi fossi rimessa in sesto mi sarei ripresa i bambini. Ma le cose non sono andate così." Provando un'improvvisa carica di energia - e quindi sentendosi certa di aver preso la decisione giusta -Hannah volle troncare rapidamente il matrimonio. Era pronta ad andarsene. Volò a Juarez per ottenere il divorzio, laggiù conobbe un altro uomo e divorziò e si risposò in meno di un mese. "Tutti mi supplicavano di non farlo, ma io mi sentivo divinamente e pensavo di sapete quello che stavo facendo." Questo fu il primo matrimonio-lampo di Hannah, ma non sarebbe stato l'ultimo. Durò soltanto pochi mesi ("Una bella mattina noi due ci siamo guardati in faccia e abbiamo detto: 'Cosa ci stiamo a fare qua?'") Depressa e insicura, Hannah rimase sola per un anno. Tirò avanti alla meno peggio, lavorando come cameriera. Poi ci fu un altro uomo, e un nuovo matrimonio. Ma questa volta aveva venticinque anni. Seria,

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intelligente, misurata, oggi Hannah non ha l'aria di un donna che ha avuto una gioventù tempestosa. C'era stato un marito che l'aveva fatta soffrire. C'era stato un tentativo di suicidio. C'era stato un lungo periodo di lavoro accanito a San Diego, dove era rimasta agganciata a un teatro e aveva lavorato fino a tardi per sei anni. "Quello è stato uno di quei periodi di straripante energia. Non sapevo che cosa fare di preciso con tutta la mia energia. Praticamente mandavo avanti da sola il teatro. Di notte fumavo marijuana per potermi addormentare." Attraverso tutte queste vicende, Hannah sentì enormemente la mancanza dei suoi figli. Non erano mai tornati con lei Era stato questo il motivo principale del suo terzo matrimonio - il nuovo marito aveva accettato di aiutarla a farsi affidare i ragazzi e a fargli da padre -ma per un motivo o per l'altro il tribunale dei minori non le aveva dato ragione. La custodia dei ragazzi era andata al padre. "Forse è stato meglio così," mormora, ma piange nel dirlo. I nonni dei suoi figli li hanno mandati in buone scuole. Oggi John è avvocato, e Ben sta ancora studiando per diventare neurochirurgo. "Abbiamo rapporti eccellenti; li vedo un paio di volte

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all'anno. Ma naturalmente non è la stessa cosa." Anche se Hannah ha ricevuto per anni dosi massicce di psicoterapia, ora sta cercando di farcela con l'aiuto della meditazione e di sedute di gruppo con altre persone con problemi di tossicodipendenza. L'uomo con cui aveva una nuova relazione stava tirandosi fuori dalla cocaina, e anche se lei non aveva più sniffato da quattro anni lui aveva voluto che partecipasse a un corso di terapia di gruppo in dodici fasi Egli pensava che essa si aggrappasse troppo a lui Lei voleva un futuro. Lui non era pronto per questo, le disse. Hannah la prese male. Venendo alla fine della sua storia, mi confidò di aver sempre avuto difficoltà con le relazioni. In qualche modo l'agitazione che provava con questo nuovo uomo ricordava molto quello che aveva patito in passato. Alzò lo sguardo su di me e disse fra le lacrime: "Mi sento come se l'unico modo di tenermi a galla fosse quello di tirare avanti con questa vita quanto mai ristretta: nien-t'altro che lavoro e meditazione ed esercizio. Devo mantenermi su una lama di rasoio giusto per rimanere stabile." Saltò fuori che ad Hannah non era mai stato chiesto prima di

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raccontare la sua storia dal principio alla fine, e quindi neppure lei si era resa conto del fatto che le sue esperienze erano cicliche, erano come marosi che andavano e venivano. Aveva sempre attribuito i suoi guai alle difficoltà con le relazioni. Non le era mai venuto in mente che forse la volubilità delle sue interazioni con gli altri potesse essere dovuta a un problema preesistente. Adesso, esponendo l'intera storia, vide per la prima volta che tutta la sua vita era stata squassata da tempeste emotive. Non solo aveva avuto depressioni periodiche fin dall'infanzia; aveva avuto anche degli "alti" in cui non poteva prendere sonno e si comportava in un modo impulsivo, che aveva avuto un effetto tremendamente negativo sulla sua vita. Non era soltanto una figlia degli anni sessanta, una figlia intelligente ma scriteriata e impreparata a vivere nel mondo. Era stata affetta da uno squilibrio chimico, e per questo aveva pagato un prezzo terribile. Aveva perso i suoi figli. Non aveva mai avuto una relazione stabile e improntata all'appoggio reciproco. Non era mai stata in grado di compiere il lavoro creativo che, ne era certa, sarebbe altrimenti rientrato nelle sue

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possibilità. "Io sono una persona intelligente, e sento che nella mia vita non ho mai fatto le cose che avrei dovuto essere in grado di fare." Perché le donne? Le donne sono molto più a rischio degli uomini per quanto riguarda la depressione. Questo vale per donne bianche, nere e ispaniche, e indipendentemente da livello di reddito, scolarizzazione o occupazione. All'in-circa, per ogni uomo depresso ci sono due donne depresse. È stato accertato mediante rigorosi studi epidemiologia che questa percentuale non è il risultato di una maggior inclinazione delle donne a riferire al medico i loro sintomi depressivi Le depresse sono effettivamente di più dei depressi. L'interrogativo a cui chiunque vorrebbe poter dare risposta è: perché? Se potessimo scoprirlo, potremmo trovare dei sistemi per ridurre il numero delle depresse. Per pareggiare un po' di più le percentuali, per così dire. Dio sa se le donne non hanno motivo di essere depresse. Basta andare a vedere le statistiche sulla povertà, sui mariti maneschi, sulle violenze sessuali su ragazze e donne, e si capisce subito che ben difficilmente le donne potrebbero sfuggire ale conseguenze

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psicologiche di tutto questo. Potremmo dire che è una doppia disgrazia. Le donne patiscono l'ineguaglianza, e per giunta ne subiscono le conseguenze emotive. D discorso si fa delicato quando si suggerisce che parte della vulnerabilità delle donne alla depressione possa essere biologica: una conseguenza del loro sesso. Dato che abbiamo sofferto così a lungo di concezioni come quella di Freud secondo cui "l'anatomia è destino" (egli pensava che la depressione avesse alla base il rammarico delle bambine per la mancanza di un pene), il semplice accenno alla biologia, quando si parla di depressione, diventa causa di allarme. Preferiamo pensare che i problemi emotivi delle donne siano dovuti a cause sociali, a cominciare dal nostro retaggio di pregiudizio e di maltrattamento. Ci piacerebbe dire: "E naturale che le donne siano depresse!" e fermarci qua. Eppure ci balzano agli occhi certi fatti che ci costrin- gono a riconoscere che la biologia, anche se può non essere un destino, interviene effettivamente negli stati d'umore delle donne. Consideriamo per un attimo una manciata di statistiche. Una donna su dieci dopo il parto diventa gravemente depressa.

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H novanta per cento delle donne accusano sintomi di abbassamento del tono dell'umore nei periodi premestruali. Non tutte soffrono di turbe dell'umore sufficienti per una diagnosi di sindrome premestruale, ma qualcosa succede alla maggior parte delle donne in periodo premestruale. Le donne affette da depressione ascrivibile a questa patologia hanno livelli inferiori dì serotonina rispetto al periodo successivo e rispetto alle donne immuni da questa sindrome. La psicosi depressiva puerperale, benché rara, è una malattia particolarissima. Principalmente, colpisce donne senza una precedente storia psichiatrica. Molti ricercatori pensano che la psicosi post parto meriti di essere classificata separatamente da altri tipi di psicosi1 Se si arrivasse a questa decisione, essa diventerebbe la prima forma specificamente femminile di turba psichiatrica. Ma le psicologhe femministe stanno protestando vivamente per garantire che questo non succeda. Temono che una qualsiasi malattia psichiatrica attribuita unicamente alle donne possa venire usata per discriminarle. Ma qual è la verità a questo proposito? Certo, pur difendendo le donne non vogliamo ostacolare la

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ricerca scientifica per il timore che possa bloccare il nostro processo di emancipazione. L'influenza del femminismo sulle scienze sociali - in particolare la psicologia - ha spesso avuto l'effetto di rendere difficile alle donne farsi curare per le loro turbe dell'umore. Questo vale in modo particolare per le sindromi premestruali. Le femministe non vogliono che vengano imputati gli ormoni delle donne. Malgrado ciò il funzionamento ormonale non può non essere consi- derato come un fattore nella depressione delle donne. Le donne hanno un'accresciuta vulnerabilità alla depressione dopo il parto, prima delle mestruazioni e durante la pubertà. La pubertà, anzi, fa pensare a una specie di Waterloo muliebre. Secondo uno studio, l'età compresa fra i dódici e i tredici anni è quella in cui è più probabile che le persone di sesso femminile vadano incontro a un episodio depressivo acuto. Patrìcia Cohen, un'epidemio-loga psichiatrica che lavora al New York State Psychia-tric Institute, studiò 1500 giovani della zona di Albany e trovò con sua sorpresa che la depressione in forma grave rende disabili il 7% delle ragazze di questa età. "C'è un tremendo rischio

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di depressione nelle ragazze negli anni che seguono la pubertà," afferma la Cohen. H fenomeno è collegato agli ormoni? Senza dubbio, questo è un campo che richiede una ricerca maggiore e più di qualità. Sarebbe un grande errore imporre l'alt ai nuovi sforzi della biopsichiatria per comprendere gli aspetti biologici degli sbalzi d'umore nelle donne. Su ciò si fecalizzerà questo capitolo. Prima però diamo uno sguardo ad alcune delle condizioni sociali in cui vivono le donne. Non potrebbero essere questi i motivi per cui ci sono più depresse che depressi? Discriminazione e depressione Negli anni sessanta, Betty Friedan, nel suo innovativo The Femmine Mystique, osservò che le donne erano depresse perché erano sottovalutate dalla società e spesso trovavano insoddisfacente il lavoro di casalinga a tempo pieno. Oggi sono molto meno le donne che rimangono in casa. E aumentato in modo imponente il numero di quelle con un impiego retribuito, spesso in professioni un tempo dominate dai maschi, come la medicina e la magistratura. Negli anni novanta, la maggior parte defle donne sentono di poter fare delle scelte. Molte aspettano di essere intorno ai trentacinque

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anni per sposarsi o decidono di non sposarsi affatto. L'immagine della massaia "confinata in periferia" appare datata come Edith Bunker e Ali in thè Family. Eppure le donne hanno ancora il doppio di probabilità degli uomini di ammalarsi di depressione. La domanda è: perché? Indubbiamente non possiamo ignorare il fatto che le donne continuano a guadagnare meno degli uomini e a subire una sfacciata discriminazione nelle assunzioni e nefle promozioni. Le donne con un lavoro e una famiglia sulle spalle fanno ancora la parte delle leonesse nelle faccende domestiche e nell'accudire i figli in sostanza, svolgono due attività a tempo pieno mentre i loro mariti, una volta rientrati, si mettono in panciolle davanti alla televisione. "Come si fa a non essere depresse?" vien fatto di ripetere. Indipendentemente dalla questione se passare l'aspirapolvere sulle tendine sia noioso o no, rimane il fatto, scoperto dalla nota epidemiologa Myrna Weissman, che chiunque abbia un ruolo unico nella vita è a rischio per quanto riguarda la depressione. Se questa fonte di gratificazione si prosciuga improvvisamente - come succede alle casalinghe a tempo pieno quando i loro figli lasciano la famiglia -

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l'umore può precipitare in verticale. Il lavoro e la capacità di coltivare amicizie si sono arrugginiti, e mamma si sente ridotta ai minimi termini in quanto alla sua capacità di farcela nel mondo. Che cosa le resta da fare ormai, mettersi a pitturare uova pasquali? H fatto di avere troppo poche fonti di gratificazione, indica lo studio della Weissman, predispone le donne alla depressione.2 Ma anche le donne che lavorano fuori casa hanno i loro problemi. Ci si aspetta che siano materne e passive nei loro rapporti con gli uomini, ma che sul lavoro si facciano valere senza tanti riguardi per nessuno. Come Giano, hanno due facce - o "personalità" - con cui operare: una docile e seducente a letto, e un'altra aggressiva ed efficiente in ufficio. Certi studio- si di scienze sociali credono che il conflitto fra queste due "personalità" predisponga le donne alla depres- Rzgzzze con sensi d'inferiorità, donne depresse C'è anche la questione del senso d'inferiorità. Alcuni studi mostrano che a motivo del loro condizionamento sociale le donne hanno un minor senso della propria competenza. A confronto coi maschi, interpretano gli eventi in un modo più negativo, si valutano

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più severamente, si impongono obiettivi inferiori e si basano di più su riscontri esterni per i loro giudizi su se stesse. Restano prese in una trappola di pensieri negativi che conducono a problemi di motivazione, realizzazione, autostima e, inevitabilmente, o così vuole questa linea di pensiero, alla depressione. Prima della pubertà, i bambini non rivelano differenze riguardanti il sesso nei tassi di depressione, oppure i maschi sono leggermente più su di morale. Poi, improvvisamente, con l'arrivo della mestruazione, avviene qualcosa di drammatico. Come a un segnale, fra i tredici e i quattordici anni, le femmine cominciano a diventare depresse a schiere. Le adolescenti superano rapidamente i maschi in fatto di depressione in un rapporto di due a uno, e certi studi hanno trovato che la percentuale è molto maggiore. "L'adolescenza è stata tradizionalmente considerata una fase in cui la maggior parte dei giovani attraversa una tormentosa autoanalisi e frequenti periodi di ansia e di depressione," afferma Susan Nolen-Hoeksema, che insegna psicologia alla Stanford University.3 L'immagine della ragazza adolescente che gironzola come un'anima in pena,

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racconta a tutti quanto è depressa, s'ingozza ingordamente di quantitativi enormi di schifezze e chiacchiera morbosamente con le sue amiche al telefono, è diventata una sorta di macchietta culturale. Per la ragazza adolescente la vita è un grosso punto interrogativo. Essa non fa che chiedersi se ha un aspetto passabile, se è abbastanza intelligente, se è troppo intelligente, abbastanza spiritosa, abbastanza popolare, e così via. I genitori si torcono le mani, sperando che quando le loro figlie arriveranno all'università si distrarranno da tutte queste preoccupazioni solipsistiche e, in parte grazie al fatto di lasciare la famiglia, si metteranno su un binario più realistico. In molte, però, queste preoccupazioni adolescenziali non sono "legate all'età," ma sono sintomatiche. È necessario che noi cominciamo a osservare più attentamente gli stati d'umore e i comportamenti delle nostre ragazze adolescenti Molte sono depresse, e questo è un problema grave: sia per le ragazze stesse sia per la società. Dopo tutto, le giovani donne sono le future lavoratrici e madri d'America. La bambina che è depressa (come vedremo nel sesto capitolo) diventa

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l'adulta depressa: a meno che la tendenza della bambina non venga bloccata e il suo ciclo depressivo non venga arrestato. In uno studio condotto su tredicenni, // .57% delle ragazze denunciò livelli di depressione da moderati a gravi!4 Soltanto il 23% dei ragazzi riferì di soffrire di turbe analoghe. In un altro studio su centocinquanta adolescenti dai quattordici ai sedici anni, il 29% delle ragazze si lamentò di una depressione almeno moderata, a confronto con un 10% dei ragazzi.5 I giovani non esagerano quando si autodiagnosticano affetti da depressione. Alcuni studi hanno dimostrato che la descrizione dei minori delle loro condizioni emotive collimano strettamente con la loro valutazione dinica da parte degli psichiatri: e poco con le valutazioni emesse da genitori e insegnanti!" Spesso i genitori non pensano che i loro ragazzi siano depressi, mentre questi sanno di esserlo. La depressione e la ragazza violentata Ci sono certe situazioni angosciano di cui le donne soffrono molto più frequentemente degli uomini. La violenza sessuale, per esempio. "I tassi di violenza sessuale su ragazze aumenta sensibilmente nella prima

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adolescenza, e molte vittime di questi abusi continuano a subirli per tutti gli anni della loro adolescenza," scrive Susan Nolan-Hoeksema. In una recente campionatura casuale di novecentotrenta donne adulte, il 12% aveva subito qualche tipo di molestia sessuale grave da parte di un membro della famiglia prima dei diciassette anni, e il 26% aveva patito una violenza grave da parte di un estraneo entro questa età.7 // maggior aumento dell'esperienza di abuso sessuale di ragazze si aveva fra i dieci e i quattordici anni. Altri studi hanno riscontrato che fra le ragazze la fascia d'età più a rischio di stupro è compresa fra i quattordici e i quindici anni Si possono immaginare le inevitabili conseguenze di una violenza del genere sullo sviluppo sessuale ed emotivo, nonché sullo sviluppo intellettivo. Infatti la depressione, come abbiamo visto, influisce sul funzionamento cognitivo. Molte ragazze non parlano mai degli stupri che hanno patito e così hanno poche probabilità di ristabilirsi. Si portano dentro la ferita, e la depressione peggiora. Man mano che le ragazze procedono attraverso l'adolescenza, non è che le cose migliorino. Secondo il

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rapporto della speciale task force dell'American Psycho-logical Association sulle donne e la depressione, il 37% delle donne hanno una rilevante esperienza di violenza fisica o sessuale prima dell'età di ventun anni? Dal 12 al 14% di tutte le donne sono state violentate dal marito o da un conoscente. Come è ampiamente noto, lo stupro durante un appuntamento o una festicciola - una versione alla Ivy League del vecchio stupro di gruppo - è diventato un problema nelle migliori università. Nell'autunno del 1990, le studentesse della Brown University furono applaudite da donne di tutto il mondo quando denunciarono gli stupri avvenuti nel loro campus, scrivendo i nomi dei colpevoli sui muri dei gabinetti. Le percosse sono la principale causa di lesioni nelle donne. Secondo le statistiche dell'FBi, ogni quindici secondi una donna viene picchiata dal suo partner. La cifra attuale è di sei milioni di donne all'anno. Gli studi sulle connessioni fra brutalizzazione subita e depressione sono solo agli inizi, ma quelli finora compiuti sono rivelatori. Due hanno riscontrato elevati tassi di depressione sia in adolescenti sia in adulte che da bambine erano state

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vittime di molestie sessuali. Il tipo e la gravita dei sintomi psichiatrici di queste donne variavano a seconda dell'età in cui erano state molestate la prima volta e del lasso di tempo per cui le molestie erano continuate. Data l'atmosfera di violenza in cui viviamo, non sorprende che ragazze e donne sentano di avere uno scarso controllo su quanto accade nella loro vita. La violenza produce la sindrome nota come "senso d'impotenza appreso", che secondo alcuni porta a una vulnerabilità, alla depressione. I biopsichiatri pensano che lo stress possa scatenare la depressione, anche se solo in coloro che sono biologicamente vulnerabili. Le donne, ad ogni modo, hanno particolari fattori di tensione con cui lottare. Le donne che hanno subito violenza soffrono spesso di turbe dell'umore, che persistono a lungo e richiedono di frequente una cura farmacologica. Forse le psicotera-peute femministe saranno diffidenti a questo riguardo. La speciale task torce dell'American Psychological As-sociation ha suggerito che una "terapia migliore" può consentire alle donne vìttime di violenza di "affidarsi meno ai farmaci".9 Una raccomandazione del genere implica che "affidarsi" a delle medicine è il risultato di

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una debolezza, o di un difetto del carattere, che gli antidepressivi vanno evitati quando possibile e che la psicoterapia è in qualche modo "più sana" e migliore delle pillole. Naturalmente, le preoccupazioni delle femministe hanno qualche fondamento. Qualche anno fa, fu appurato che era molto maggiore il numero di ricette per tranquillanti come il meprobamato e il clordiazepossido emesse per le donne che per gli uon>ini. Le case farmaceutiche facevano pubblicare sulle riviste mediche una pubblicità che presentava la paziente ansiosa o depressa come una lagna e un peso per il suo medico. "Ecco qua un sistema per zittirla una volta per tutte," lasciava intendere l'inserto. Giustamente irritate, alcune scrittrici femministe lanciarono l'allarme: le donne venivano imbottite dì psicofarmaci e non ascoltate. Ancora una volta, venivano placate e messe a tacere. Ma la farmacoterapia ha fatto dei passi avanti, da trent'anni a questa parte. Gli antidepressivi non rientrano nella categoria dei farmaci che servono per rendere innocue pazienti fastidiose. Non ottundono i sentimenti e non inficiano in nessun modo la capacità di una paziente di pensare con la propria testa. Al

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contrario, rendono fisicamente possibile avere dei sentimenti ed esprimerli. Eliminano la difficoltà a pensare, la confusione mentale. Le donne depresse non sono in grado di agire autonomamente perché la loro capacità di sentire è compromessa e perché sono svuotate di energie. Corrono il rischio di rivolgersi agli psichiatri disinformati, che le privano della cura farmacologica, contribuendo così a farle rimanere in condizioni d'umore gravemente distruttive per la loro esistenza. Mentre lavorano sui loro "conflitti ulteriori", le depresse abbandonano gli studi, rifiutano promozioni, riducono ai minimi termini i loro rapporti ìnterpersonali e sotto tutù i punti di vista si escludono da un processo di crescita e di sviluppo. Si lasciano coinvolgere in relazioni con uomini che le maltrattano, si mettono a bere o a prendere droghe, falliscono come madri: e in molti casi questo avviene perché non hanno ricevuto i farmaci che avrebbero corretto i loro squilibri chimici permettendo loro, in un tempo sorprendentemente breve, di recuperare energia e forza di volontà. Questa forza non viene "dall'esterno", come pretendono certi psicoterapeuti, col risultato che le

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donne si sentono ancora più vittime. È precisamente lo stesso tipo di forza che ogni ex paziente avverte in sé quando guarisce. C'è sollievo, e c'è gioia. Non c'è per nulla il senso di "non avercela veramente fatta da sola", a meno che amiche o familiari fuori strada non bombardino la donna depressa con questo messaggio. Questo è molto grave, perché essa, oltre a essere a terra, è incline ad assumersi ogni colpa che le venga attribuita dagli altri. Il grande dibattito sulla sindrome premestruale Pochi argomenti hanno sollevato le ire delle studiose femministe più della depressione premestruale. Libri vengono scritti nel tentativo di documentare esattamente, quanti studi sono apparsi a sostegno della sua esistenza e quanti contro. Autrici femministe contestano queEe che sono prosindrome, interrogandosi su quelli che potrebbero essere i loro scopi (implicitamente nascosti). Alcune femministe sembrano più preoccupate dalla questione se si debba ammettere l'esistenza della sindrome premestruale piuttosto che della questione se le donne ne soffrano realmente, e in caso affermativo del modo in cui possano essere aiutate. H motivo dell'accresciuta attenzione che il settore della salute mentale

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oggi rivolge a questa sindrome è la preminenza delle turbe dell'umore nella maggior parte delle donne con sintomi correlati alle mestruazioni cosi gravi da dover ricorrere al medico. "In tutto il paese schiere di donne chiedono aiuto ai reparti di psichiatria di molte cliniche specializzate nello studio e nella cura di questa condizione," scrivono Sally Severino e Marga-ret Moline. Entrambe insegnano alla facoltà di medicina della Cornell University, la prima psicologia e la seconda psichiatria. Sono autrici di Premenstrual Syndrome, dove passano in rassegna virtualmente tutta la ricerca finora compiuta sull'argomento. I disturbi psichiatrici sembrano intervenire in questo quadro clinico in un così gran numero di donne che l'American Psychiatric Association decise di compiere il lavoro necessario per determinare se il disturbo potesse essere classificato come una vera e propria patologia. In altri termini, la sindrome premestruale è una malattia psichiatrica oppure no? La stessa idea di far luce su questa questione ha fatto tremare le psichiatre femministe del comitato donne dell'American Psychiatric As-socation. Nel 1985, i medici

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incaricati di aggiornare il terzo rapporto di questa associazione, Manuale diagnostico e slatitistico delle turbe mentali, nominò un comitato di esperti col compito di considerare l'opportunità di includere la sindrome premestruale nella terza edÌ2Ìone riveduta. La prima cosa che il comitato consultivo fece fu di elaborare criteri diagnostici e di decidere il nome da dare al disturbo. Dato che i sintomi associati alla sindrome premestruale possono determinarsi anche in donne che non hanno mestruazioni (in donne che hanno avuto isterectomie in cui le ovaie sono rimaste intatte, o anche in donne le cui ovaie sono state asportate, ma in modo incompleto, cioè in cui è rimasto del tessuto residuo), il comitato decise di sopprimere il termine "premestruale" e alla fine scelse il lugubre "turba disforica della tarda fase luteale" (Late Luteal Phase Dysphork Disorder, LLPDD). Il comitato donne dell'American Psychiatric Association si oppose con veemenza all'inclusione di questa disfunzione nel terzo rapporto sulla sindrome premestruale. Tuttavia, con l'eccezione di due dei suoi membri, il comitato consul- tivo era fortemente in favore

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dell'inclusione delTiAPDD, il che ne avrebbe fatto una malattia ufficialmente riconosciuta. Ne seguì un'accanita battaglia, con oppositóri all'inclusione, rappresentanti molti gruppi professionali, che montarono un'accesa campagna con l'invio di lettere di protesta e la mobilitazione dei mass media. Alla fine, l'American Psychiatric Association decise che I'LLPDD era in effetti un'entità dirtica; come contentino per il comitato donne, tuttavia, l'incluse soltanto in un'appendice del terzo rapporto riveduto sulla sindrome premestruale. "Ancora oggi," scrivono la Severino e la Moline, "gli ambienti contrari alla categoria LLPDD continuano a battersi contro la diagnosi in base all'idea che essa danneggi le donne. Noi non crediamo che sia così." "La sindrome premestruale è stata caratterizzata come una spada a doppio taglio," osserva un articolo del "Womens's Right Law Reporter". "Se sarà negata o presa alla leggera, i ricercatori la ignoreranno e donne i cui sintomi potrebbero essere curati continueranno a soffrire. D'altro canto, dato che il ciclo mestruale è una delle poche reali differenze biologiche fra le donne e gli uomini, quando noi riconosciamo i

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problemi premestruali essi vengono ritenuti una prova della nostra inferiorità biologica. "A noi sembra," scrivono la Severino e la Moline, "che l'aspetto della stigmatizzazione rifletta in realtà la persistente stigmatizzazione della malattia mentale, non la stigmatizzazione delle donne." Inoltre, il fatto che certe donne hanno un disturbo ciclico associato al ciclo mestruale "non implica sicuramente che tutte le donne che hanno mestruazioni siano ammalate." In effetti, è stato dimostrato che la maggior parte delle donne non subiscono fluttuazioni dell'umore col ciclo mestruale. Ma hanno le donne una particolare vulnerabilità? "Sì," rispondono la Severino e la Moline. "Esattamente come gli uomini sono più soggetti a sviluppare determinate disfunzioni, lo stesso vale per le donne. Non è 'contro le donne' riconoscere I'LLPDD più di quanto non sia 'contro gli uomini' riconoscere la gran quantità di malattie che sono più comuni negli uomini." E probabilmente vero che un datore di lavoro può essere riluttante ad assumere una donna che ammetta di soffrire di LLPDD. Nondimeno, continuano con una logica inattaccabile, "un datore di lavoro

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può anche essere riluttante ad assumere una donna affetta da un qualsiasi disturbo mentale o fisico in grado di compromettere le sue capacità lavorative. Se la donna è effettivamente inabilitata per quanto riguarda il lavoro, il diniego del datore di lavoro non è un'ingiusta discriminazione. Se la donna non è disabile, allora la soluzione al problema dell'ingiusta discriminazione sul lavoro non è sicuramente quella di fingere che non esista." Perché certe soffrono e altre no Prima o poi ci saremo tutte chieste perché mai i cicli mestruali siano così dolorosi per certe donne e non per altre. Secondo i ricercatori, il ciclo coinvolge gli ormoni ovarici, l'estrogeno e il progesterone. "Gli ormoni sono, per definizione, sostanze che fungono da messaggeri rivolti agli organi bersaglio," scrivono la Severino e la Moline. Nelle sindromi premestruali, gli "organi bersaglio" sono il cervello, il seno e l'utero, con effetti secondari che si ripercuotono sulla tiroide e sulla corteccia delle ghiandole surrenali. La nuova ricerca si concentra sul cervello. La regolazione del ciclo mestruale implica complesse interazioni fra i neurotrasmettitori del cervello, gli

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ormoni dell'ipofisi e gli ormoni femminili delle ovaie. Non sono quindi soltanto le ovaie a provocare le difficoltà mestruali. Entrano in azione anche la sua serotonina, la sua dopamina e la sua noradrenalina. In qualche modo gli ormoni ovarici interagiscono con i neurotrasmettitori del cervello, e il risultato finale è lo sbalzo d'umore! Come ciò avvenga - e perché e quando e in chi - è ancora oggetto di rigoroso studio, se non di controversia. La ricerca sul ciclo mestruale è relativamente nuova. La Severino e la Moline ritengono che dobbiamo prestare maggior attenzione al cervello "come organo che risponde agli steroidi ovarici e svolge quindi un .ruolo nella produzione dei sintomi premestruali." È solo di recente che gli scienziati hanno cominciato a concentrarsi sul contributo ai cambiamenti d'umore mestruali prodotti dalle sostanze chimiche cerebrali delle donne. Essi sanno, per esempio, che gli estrogeni inibiscono la produzione di un enzima, la tirosina, il che a sua volta abbassa il livello di dopamina nell'ipotalamo del cervello. La dopamina contenuta nell'ipotalamo controlla l'ovulazione. Quello che s'ignora è in che modo le variazioni

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dei livelli di ormoni influiscono sui neuroni di una donna, inducendoli a rilasciare dei neurotrasmettitori. Quando avremo compreso ciò capiremo meglio perché Betty si abbuffa durante le mestruazioni mentre Helen trova che esse - specie nel periodo che le precede - la rendono di malumore e irritata. Perché una donna è afflitta dalla sindrome premestruale una sola settimana al mese e un'altra ogni tre settimane? Perché certe avvertono solo una lieve malinconia e altre gravi cali del tono d'umore che rovinano le loro esistenze? E perché altre ancora stanno benone per l'intero ciclo, come succede per una minoranza di donne, spensierate e pimpanti come le modelle della pubblicità televisiva? Come abbiamo visto nel secondo capitolo, la capacità del cervello di regolare i neurotrasmettitori è fortemente influenzata dalla genetica. Anche gli ormoni delle ovaie lo sono. Quindi, oltre a scoprire in che modo l'estrogeno influisce sulla produzione di serotonina nelle donne in generale, dobbiamo arrivare a comprendere in che modo l'estrogeno della singola donna influisce sulla sua particolare capacità di regolare la serotonina. Se ha ereditato un'anomalia che

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riguarda la serotonina, essa entrerà certamente a far parte dell'equazione che deter- mina la natura del suo ciclo e i sintomi e le condizioni d'umore da esso eventualmente ingenerati. C'è anche la questione degli stessi ormoni femminili Questi ormoni hanno un ruolo negli sbalzi d'umore premestruali? Se è cosi, quale nesso esiste, se esiste, fra gli ormoni femminili e i neurotrasmettitori cerebrali regolatori dell'umore? "E realmente soltanto negli ultimi vent'anni," sottolineano la Severino e la Moline, "che siamo giunti a renderci conto che l'estrogeno e il progesterone influiscono direttamente sulle funzioni della cellula nervosa e quindi esercitano profonde influenze sul comportamento, sull'umore e sull'elaborazione sensoriale: tutti che fluttuano, come è stato accertato, durante il ciclo mestruale normale." Uno dei modi in cui determinano ciò è modulando l'azione dei neurotrasmettitori. Le prime ricerche che collegano i sintomi di sindrome premestruale a deficienze di serotonina furono compiute verso la fine degli anni ottanta. Due studi accertarono che nella settimana prima delle mestruazioni le donne con sindrome

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premestruale avevano livelli di serotonina più bassi.10 Un altro srudio trovò che nelle donne con sindrome premestruale i livelli di serotonina erano più bassi prima del periodo ma non dopo, e che erano più bassi dei livelli di serotonina riscontrabili nelle donne che non vanno soggette a sindrome premestruale." La Severino e la Moline sono colpite dalle implicazioni Comincia a sembrare evidente che le donne che soffrono di sintomi premestruali si differenziano dalle donne che ne sono esenti per minori livelli di serotonina nel cervello. La nuova ricerca indica che gli ormoni ovarici sono solo un fattore negli sbalzi d'umore femminili: forse non più importanti delle fluttuazioni di neurotrasmettitori che sono all'opera nella volubilità d'umore di chiunque, uomo, donna o bambino. Eppure qualunque donna che soffre di alterazioni dell'umore mestruali, se ne è prima o poi vergognata, si è sentita impotente, priva di autocontrollo. Essa può trovare l'esperienza profondamente alienante. Comunque possa essere come donna nel periodo premestruale, lei non è "veramente" cosi In quelle condizioni può litigare con suo

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marito. Può dire cose terribili ai suoi figli. Non ha pazienza col cassiere della banca ed è scortese col vigile davanti alla scuola. Per giunta, sa bene che il suo comportamento è irrazionale e si odia per questo. Probabilmente si sente in colpa quando suo marito esprime giudizi negativi su di lei, sapendo che si sta effettivamente comportando in modo irrazionale. Le reazioni di lui al suo modo di fare in questi momenti minano ancora di più la sua autostima. Tutta la faccenda diventa un angosroso ciclo che si autoperpema. Per quanto di origine fisica, gli sbalzi d'umore e gli strani comportamenti che moke donne associano alla sindrome premestruale possono trarre beneficio dall'assistenza di uno psichiatra. Anche il semplice fatto di ottenere una diagnosi dei sintomi può essere un sollievo. Successe così con Ellen, che soffrì di un complesso di sentimenti, comportamenti e distorsioni del pensiero che secondo la Severino e la Moline sono tipici della sindrome premestruale: anche se a lei parvero strani e addirittura a quel tempo terrificanti. Trentenne, divorziata e con tre bambini, Ellen alla fine si rivolse a uno psichiatra perché era quasi sempre arrabbiata e

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si sentiva in colpa perché faceva delle sfuriate ai piccoli. Andava soggetta a incidenti. Certe volte la prendevano crisi di collera così irrazionali che non riusciva quasi a contenersi. Una volta, mentre preparava da mangiare per degli ospiti e vide che nessuno veniva a darle una mano, piantò lì tutto, uscì dalla cucina, montò in macchina e, senza sapere quello che stava facendo, mise in moto e sfondò U porta del garage.12 Cos'altro succedeva nella vita di Ellen in quel periodo? Sentendosi annoiata in casa e invidiando suo marito perché gli erano risparmiate le responsabilità domesti-che, era da poco tornata al lavoro. Adesso si sentiva quasi sempre stanca, e, come aveva fatto sua madre prima di lei, scaricò sulla figlia maggiore la maggior parte delle cure da dedicare ai più piccoli Dopo qualche mese di psicoterapia saltò fuori qualcosa d'interessante. I sintomi di Ellen si manifestavano soltanto nel periodo precedente alle mestruazioni In questa fase del mese sviluppava quello che chiamava "deformazione" del suo pensiero e si sentiva incapace di controllarlo. Disse al suo terapeuta che si sentiva "pazza," come "una strega a cavallo

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di una scopa." Man mano che la sua storia veniva dipanata nello studio dello psichiatra, essa cominciò a vedere che le sue difficoltà con suo marito non erano costanti ma sopravvenivano soltanto quando stava per entrare nel periodo mestruale. Si chiese come mai questo avesse potuto passare sempre inosservato prima di allora: da lei, da suo marito, dalle sue amiche. Prima che si arrivasse a capire che gli sbalzi d'umore di Ellen erano mensili, le fu diagnosticato un problema nevrotico: "conflitti edipici irrisolti". A questo punto lo psichiatra le aveva raccomandato una terapia di orientamento introspettivo. Quando però fu chiaro che le fluttuazioni del suo comportamento e del suo umore avvenivano soltanto in periodo premestruale, la sua diagnosi fu cambiata in quella di sindrome premestruale. Invece di concentrarsi su Edipo, la terapia fu rivolta alla sua autostima rimasta compromessa. Purtroppo, molte donne con sintomi come quelli accusati da Ellen sono ossessionate dalla paura di stare impazzendo ed evitano di cercare aiuto perché temono che la loro paura trovi conferma. Depressione o sindrome premestruale: c'è una differenza? Uno degli aspetti

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controversi della sindrome premestruale è la sua somiglianzà a una turba grave dell'umore. Come fa una donna a sapere se sta soffrendo di una sindrome premestruale, di depressione o addirittura d'ipotiroidismo, che presenta sintomi molto simili a quelli della depressione? La diagnosi è un'arte. Per esserne esperti bisogna avere una profonda conoscenza di una vasta gamma di diverse possibilità. Quando gli sbalzi d'umore sono abbastanza gravi da interferire con la vita di una donna, è necessario ricorrere alle capacità diagnostiche di uno psichiatra. Marge era certa che i suoi problemi fossero di natura premestruale fin da quando qualcuno le aveva detto che il fatto di avere "una settimana buona al mese" metteva una donna nella categoria della sindrome premestruale. Marge almeno aveva questa settimana buona. Aveva sempre potuto contare su questo periodo di benessere. Ma ora anche questa settimana stava svanendo. Negli ultimi sei mesi il suo ciclo era sceso da ventotto giorni a ventitré, così che ora la depressione sembrava non darle più tregua. I suoi problemi erano tali che da tempo Marge aveva cominciato a chiedere consiglio al

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suo pastore. Adesso era cosi accasciata che egli le suggerì di rivolgersi a uno specialista. Essa consultò uno psichiatra e gli riferì che un anno prima, dopo la morte di sua madre, aveva sofferto una grave depressione. Faceva fatica a dormire, a nutrirsi e anche a parlare speditamente. La sua depressione si era un po' attenuata quando aveva cominciato a confidarsi col pastore, ma conviveva con quegli sbalzi d'umore da così tanto tempo che li avvertiva come una componente integrante della sua "personalità". Coli'andare degli anni, diventa difficile sapere dove i nostri sbalzi d'umore finiscono e dove comincia la nostra individualità. Per cominciare a riconoscere la ciclicità di una turba dell'umore, è utile per la paziente ripercorrere a ritroso la propria vita, in cerca di episodi precedenti. Marge, per esempio, aveva avuto una depressione postparto mode- ratamente grave cinque anni prima, quando era nata sua figlia. Da allora in poi aveva cominciato a soffrire di nausee durante la sua settimana premestruale, e i suoi sbalzi d'umore avevano cominciato a diventare più gravi. Col passare del tempo, tutti i sintomi che aveva sempre attribuito alla sindrome premestruale si

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aggravarono: depressione, irritabilità, difficoltà del sonno. Per fortuna, il suo pastore a cui aveva chiesto consiglio aveva riconosciuto in Marge dei sintomi che richiedevano l'esperienza di uno psichiatra. Questi trovò un'importante traccia nella storia familiare di Marge. Una nonna materna e una zia avevano sofferto entrambe di crisi depressive gravi Quest'informazione, collegata alla depressione puerperale di Marge, indicava la presenza di una grave turba dell'umore. Dato che essa passava rapidamente dall'euforia alla sensazione di essere "alla fine del mondo", lo psichiatra concluse che era affetta da una forma di sindrome bipolare e le prescrisse i tarmaci del caso. Una volta che le turbe dell'umore vengono curate, gli sbalzi emotivi premestruali scompaiono. Molte donne patiscono di lievi depressioni che passano inosservate finché non si aggravano nel periodo premestruale. La Severino e la Moline assicurano che qualsiasi tipo di turba psichiatrica tende a crescere e a calare, di conserva col ciclo mestruale. Le donne con attacchi di panico trovano che questi le tormentano senza sosta nelle settimane prima delle mestruazioni.

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Le donne affette da sindrome ossessivo-compulsiva trovano più gravose del consueto le faccende domestiche. Le bulimiche stramangiano di più. (Una studio trovò un tasso maggiore di eccessi alimentari che andava dai quindici ai trenta giorni. I ricercatori pensano che ciò possa essere dovuto al fatto che gli ormoni riproduttivi inducono in tutte le donne un impulso biologico a mangiare di più nel periodo premestruale). Donne come Marge che soffrono di una sindrome bipolare trovano spesso che i loro sintomi si acuiscono prima del loro periodo. La sindrome bipolare richiede farmaci speciali e dev'essere distinta da quella premestruale. Secondo la Severino e la Moline, la cura di prima scelta per le donne che vanno soggette a sbalzi d'umore, particolarmente violenti prima delle loro regole, consiste in dosi quotidiane di litio.13 (Vedi ottavo capitolo.) Ormai forse chi legge penserà: "Ma cosa si può fare per la vecchia sindrome premestruale semplice?" Una psichiatra di Pittsburgh, la dottoressa Christine Sievers, ha dichiarato in un'intervista che ottiene buoni risultati curando le donne affette da tale patologia con dieta, esercizio fisico e integratori

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vitaminici Ma il programma non è facile. "Devono attenersi a una dieta che è relativamente povera di sale, e poi niente zucchero, niente caffeina, niente alcol," essa spiega. Vuole che le sue pazienti mangino in quantità alimenti del complesso dei carboidrati, ma niente zuccheri. "E per loro è un grosso sacrificio, perché con la sindrome premestruale si è avide di zuccheri, cioccolato, cibi al forno eccetera." La maggior parte delle pazienti che non sgarrano dal programma arrivano a controllare i loro sintomi in tre cicli mestruali, assicura la Sievers, ma sono in molte a cedere. "Quello che io chiedo alle mie pazienti di fare è difficile, ma non ho trovato un sistema per renderlo più facile." I sintomi più comuni della sindrome premestruale sono irritabilità, depressione, dolorini al seno e gonfiore di stomaco. "Si hanno anche in varia misura fame morbosa di carboidrati e senso di affaticamento," aggiunge la Sievers. I sintomi possono disorientare. Essa chiede a ogni paziente che si sospetta affetta dalla malattia di assegnare ogni giorno ai suoi sintomi un punteggio che va da 0 a 5. Per essere idonea a una diagnosi di sindrome premestruale, una donna deve

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avere una settimana al mese esente da sintomi; in caso contrario, è probabile che soffra di una turba dell'umore. Quelle che si trovano nella categoria di depressione fra lieve e moderata possono trarre giovamento dal programma nutrizionale basilare della dottoressa Sie-vers, che può richiedere a molte un importante cambiamento nel loro stile di vita. Alle donne che hanno figli viene raccomandato di compiere vigorosi esercizi di ginnastica aerobica quasi ogni giorno. "Devono fare l'equivalente di una passeggiata di un'ora, cinque giorni alla settimana. Se fanno di più, tanto meglio, ras meno non è accettabile. Non produce abbastanza endorfine da determinare una differenza." Non c'è dubbio che le endorfine riducono il dolore. La Severino e la Moline riferiscono che le endorfine naturali dei nostri corpi sono da cinque a dieci volte più potenti della morfina. La sfida consiste nel compiere abbastanza attività fisica da mantenere il pompaggio di questa produzione di endorfina. Quando i sintomi di sindrome depressiva sono gravi - e in tali casi sono invariabilmente presenti anche altre turbe psichiatriche - gli antidepressivi

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sono necessari. Va notato che molti psichiatri ricercatori e ginecologi contestano il trattamento della sindrome premestruale con vitamine ed erbe, sostenendo che ci sono pochi studi a suffragio della sua efficacia. Ci sono però prove aneddotiche. Esistono degli studi che dimostrano che la vitamina B6 allevia i sintomi depressivi della sindrome premestruale. Si presume che concentrazioni superiori di B6 incrementino la conversione da parte del cervello del triptofano in serotonina, che a sua volta allevia la depressione. Dosi molto elevate di B6 possono però produrre tossicità." La "serotonin connection: nuove speranze contro la sindrome premestruale Alcuni studi del MIT condotti da Richard J. 'Wurtman, professore di neuroscienza e specialista di biochimica cerebrale e da sua moglie, Judith Wurtrnan, bioioga cellulare e nutrizionista, hanno scoperto dati affascinanti sia sul "perché dell'avidità morbosa di carboidrati in periodo premestruale sia un nuovo sistema per curarla. Le loro ricerche indicano che la depressione, la fame di carboidrati e alcuni altri sintomi della sindrome premestruale possono essere sensibilmente ridotti con un

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farmaco che influisce - ormai non ci sorprende - sulla serotonina. La D-fenfluramina è ancora in fase sperimentale negli Stati Uniti ma è in uso, per la fame di carboidrati in Europa da vent'anni (È un composto diverso dalla fenfluramina, che è già sul mercato). Gabrielle e io abbiamo intervistato Judith Wurtman nel suo studio presso il suo laboratorio al MIT. È una donna piccola ed energica, una scienziata che può contribuire in modo incisivo ad alleviare le sofferenze mestruali che affliggono così tante donne. La Wurtman ci ha detto che s'interessò al programma per via di storie cliniche in cui delle donne descrivono i cambiamenti che intervengono nelle loro abitudini alimentari intorno al periodo della mestruazione. "Poco prima di avere le mestruazioni, molte provano una brama irresistibile di cibi dolci e ricchi di amido. Le sentite dire: 'Potrei uccidere per del cioccolato.' Noi volevamo sapere se le donne accrescono realmente la loro assunzione di cibo - in particolare di cibo dolce e ricco di amido - o semplicemente pensano di farlo perché il loro desiderio è così intenso." I ricercatori guidati dai coniugi Wurtman condussero un'indagine su un gruppo di donne soggette a sindrome

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premestruale e un altro gruppo di donne esenti dai suoi sintomi. A tutte fu offerta una scelta fra una varietà di cibi: alcuni ricchi di carboidrati (patate, riso, focaccine, paste, ciambelline salate) e altri ricchi di proteine (pollo, formaggio, insalata di tonno). "Quello che abbiamo appurato," ci ha informato Judith, "è stato che le donne con sindrome premestruale mangiavano grandi quantità di cibi a base di carboidrati, ma soltanto per tre o quattro giorni prima delle loro regole. Le donne del gruppo di controllo - quelle senza sindrome premestruale - mangiavano esattamente come sempre." Le donne affette da sindrome premestruale, che avevano tutte un peso normale, aumentavano la loro assunzione di carboidrati di circa 500 calorie prima delle mestruazioni. Quelle del gruppo di controllo - quelle senza sindrome premestruale - no. I Wurtman volevano arrivare a comprenderne il motivo. Fecero consumare alle stesse donne un pranzo a base di carboidrati all'inizio e alla fine del loro ciclo mestruale. Il pasto consisteva in una grande tazza di fiocchi di granturco: "un alimento neutro, a forte contenuto di carboidrati," nota la Wurtman. Gli umori delle donne -si

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sentivano liete, tristi, irritabili? - furono controllati prima che si mettessero a mangiare, e di nuovo un'ora dopo. Un sostanzioso pasto di carboidrati accresce il livello di serotonina nel cervello. "E quando la serotonina nel cervello aumenta, c'è un miglioramento in certi tipi di stati emotivi. Le persone si sentono meno depresse, più calme, meno irritabili, più capaci di attenzione, meno soggette a distrarsi, più tranquille. Noi sapevamo che se i carboidrati - in questo caso i fiocchi di granturco - avessero fatto qualcosa, probabilmente l'avrebbero fatto aumentando la serotonina." Dopo il pranzo, le donne riferirono di sentirsi effettivamente meno depresse. "Erano decisamente più calme, sensibilmente meno stanche e più vivaci," testimonia la Wurtman. "Questa era una magnifica scoperta, perché significa che quando le donne scelgono di mangiare carboidrati alla fine del loro ciclo mestruale, lo fanno per potersi sentire meglio. Inoltre ci ha confermato che questa sostanza chimica del cervello, la serotonina, può intervenire in alcuni dei cambiamenti d'umore tipici della sindrome premestruale." Non si sa ancora quale sia il ruolo esatto svolto dalla serotonina, né il modo

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in cui i suoi livelli vengono alterati da un consumo di carboidrati. Ma per il momento la Wurtman pensa che, prima di avere le mestruazioni, le donne dovrebbero "arricchire considerevolmente la loro dieta di carboidrati". Questo non deve continuare per sempre, e ha il suo inizio, la sua metà e la sua fine naturali. E, naturalmente, questa dieta esclude i grassi La Wurtman suggerisce che le donne in periodo premestruale si nutrano di alimenti ricchi di carboidrati come riso, patate, pasta, lenticchie o fagioli, "con magari in aggiunta dei carboidrati dolci se sentono una voglia abbastanza forte di questi cibi." E stato trovato un nuovo composto, non ancora in vendita, che influisce sulla serotonina del cervello in un modo simile a quello del consumo di carboidrati, ma con maggiore potenza. I Wurtman hanno compiuto cicli di cura sperimentali (vedi quarto capitolo) che dimostrano come la D-fenfluramina sia efficace nella cura dell'obesità provocata dalla fame di carboidrati. Questa sostanza, come altre, potrà fra breve essere immessa nel mercato come specifico per la depressione premestruale. La futura ricerca sulla sindrome premestruale, è convinzione

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della Wurtman, sarà mirata alla creazione di farmaci del genere. "Anziché manipolare ormoni come l'estrogeno e il progesterone, come è stato fatto per molti anni senza grandi risultati, quello che ora va fatto è cercare di capire che cosa, nel cervello, provochi queste moàifìccaxoni dello stato emotivo." (il corsivo è mio). È stato dimostrato che un antidepressivo già nell'elenco dei farmaci ammessi allevia le depressioni da sindrome premestruale. Nel primo studio, divulgato nel 1989, alcune donne si dichiararono "molto, o moltissimo" migliorate dopo una cura con un antidepressivo triàdico, la nortriptilina.15 Anche se è necessaria una ricerca più approfondita, molti psichiatri si servono già degli antidepressivi per curare sindromi premestruali che vanno da quelle moderate a quelle gravi Non c'è dubbio che qualsiasi donna soffra di oscillazioni di umore e/o di depressione tre settimane su quattro, possa voler prendere in considerazione questo tipo di trattamento. Anche il litio è efficace nella cura di certi tipi di depressione da sindrome premestruale. All'inizio degli anni ottanta conobbi a Dallas

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una donna d'affari che mi assicurò che un anno di trattamento col litio le aveva cambiato la vita. "Prima di allora", disse, "ero in condizioni pietose due settimane su quattro. Non riuscivo a immaginare cosa avessi che non andava, e neppure i miei ci capivano niente, sta di fatto che in quelle due settimane ero depressa e coi nervi scoperti, e nelle altre due stavo bene. Non era vita quella, mi creda." Studi sull'impiego del litio per la cura delle sindromi premestruali furono iniziati verso la metà degli anni sessanta, e più recentemente sono stati pubblicati rapporti con casistiche di cure riuscite." Una diversa direzione di ricerca che pone in luce il rapporto fra serotonina e depressione premestruale proviene dall'University of California a San Diego. Barbara L. Parry ha scoperto che i livelli di melatonina, un ormone secreto di notte dalla ghiandola pineale, si riduce in modo rilevante in donne con depressione premestruale.17 La melatonina deriva dalla serotonina, e il suo rilascio varia ritmicamente col ciclo buio-luce. Secondo la Party, un basso livello di melatonina nelle donne dimostra che i disturbi dei ritmi circadiani, ovvero gli squilibri negli orologi biologici del

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corpo, possono contribuire alla depressione premestruale. In futuro, il trattamento con la luce potrà essere usato per la cura della sindrome premestruale, così come è attualmente usato per persone affette dalla sindrome affettiva stagionale {seasonal affettive disorder, SAD). Quando il parto genera depressione La nascita di un figlio, generalmente considerata un lieto evento, paradossalmente reca alla madre un rischio accresciuto di malattia emotiva. Come è stato accennato prima, una donna su dieci ha un episodio di depressione grave dopo il parto. Gli esperti di depressione puerpe-rale ne distinguono tre livelli La più lieve, detta negli Stati Uniti matemity blues, è di breve durata. Colpisce dal 50 al 70% delle madri. Questa blanda depressione puerperale comprende crisi di pianto, inquietudine, sensi d'irrealtà e di confusione, e, meno di frequente, sensi di spersonalizzazione e di colpa, e sentimenti negativi nei confronti del marito e del neonato. Questi sentimenti possono scomparire entro una settimana.18 Non si è ancora potuto appurare se la depressione di tipo matemity blues sia provocata da eventi esterni nella

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vita della donna o sia dovuta a modificazioni endocrine o metaboliche, o a entrambe le cose. Che gli ormoni intervengano almeno in parte, tuttavia, si è reso perfettamente chiaro. Cinque giorni dopo il parto si ha un drammatico calo dell'estrogeno e del progesterone e un forte aumento della prolattina. Studi correlanti i livelli di ormone con l'umore sia prima sia dopo il parto hanno mostrato che più gli estrogeni calano, peggio la puerpera dorme." Anche un drastico calo del progesterone è foriero di problemi. Più il tasso di progesterone si abbassa, più è probabile che la puerpera diventi depressa entro i primi dieci porrti dal parto? Nuovi interrogativi affiorano sulla possibilità e sull'opportunità di curare preventivamente queste depressioni. Anche depressioni lievi avranno un effetto sulla relazione fra neonato e madre. Dal 10 al 20% delle donne che hanno appena partorito accuseranno una depressione moderatamente grave che durerà da sei settimane a un anno o più. D contenuto specifico dette preoccupazioni che seguono il parto sembra distinguere questa depressione dalle turbe dell'umore che si hanno

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in altri periodi Le madri depresse dopo il parto provano sempre un'ansia estrema per il benessere dei loro piccoli e dubitano della loro capacità di avere sentimenti materni normali Una percentuale ridottissima di donne - dallo 0,1 allo 0,2% - va incontro alla psicosi puerperale, una malattia grave che colpisce fra il terzo e il quattordicesimo giorno dopo la nascita del bambino. (Praticamente non sono mai stati registrati casi di un suo manifestarsi nei primi due giorni dopo il parto.) Anche se questa drammatica e impressionante turba dell'umore è rara, riveste un grande interesse per gli scienziati, molti dei quali oggi la considerano una malattia psichiatrica a sé stante. Quando colpisce, colpisce in fretta. Ciò che a un primo sguardo sembra un umore lievemente depresso può rapidamente intensificarsi fino a trasformarsi in un fenomeno completamente diverso. Le infermiere dei reparti di ostetricia sanno che devono tenere d'occhio le puerpere che manifestano segni di depressione perché c'è il rischio che insonnia, spossatezza, agitazione e irritabilità possano aggravarsi fino a diventare una vera e propria psicosi, con stati aitemi di

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esaltazione e depressione, illusioni e allucinazioni. La psicosi puerperale non solo si manifesta più rapidamente, con sintomi che diventano gravi nel giro di qualche giorno, o addirittura di qualche ora; nella maggior parte dei casi non c'è nessuna avvisaglia. Nel 70% dei casi non c'è neppure una storia psichiatrica precedente.21 La psicosi puerperale spesso non presenta nessun rapporto evidente con eventi della vita della donna: a eccezione dell'evento del parto. L'esistenza stessa di questa strana malattia, pur nella sua rarità, è un'ulteriore conferma dell'interpretazione biologica delle turbe dell'umore in generale. Lo stato emotivo della puerpera Una donna di trentotto anni madre per la prima volta cosi descrisse il suo stato d'animo nei primi mesi dopo il parto: "Non ce la faccio più. Ogni mattina mi sveglio nel terrore. Non posso affrontare un altro giorno di allattamenti e pannolini e brevi puntate al parco del quartiere. H massimo che posso sperare di fare è di vestire il bambino e andare al supermercato, niente di più e niente di meglio. Sento di stare scoppiando. Ogni giorno è interminabile e identico al giorno

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prima. Ho l'impressione di aver fatto uno sbaglio tremendo." Per aiutare nuove madri come questa, l'assistente sociale Ruth Nemtzow, dei servizi assistenziali della comunità ebraica di Long Island, ha diretto gruppi di mutuo appoggio che si riunivano settimanalmente per dodici settimane. Le donne dei suoi gruppi soffrivano d'ansia, conflitti psicologici relativi al loro ruolo e, precisa la Nemtzow, "umore da lievemente a moderatamente depresso, che faceva pensare a una depressione puerpe-rale." Una delle donne, per esempio, temeva di finire "esattamente come mia madre. Mia madre si preoccupava di ogni cosa." Tutto quello che riguardava la sua famiglia era fonte di apprensioni. "Mia madre non faceva che immaginare disastri. Io non potevo andare a nuotare, non potevo andare sui pattini a rotelle, non potevo neanche andare in gita scolastica su uno scuolabus. In tutti i miei ricordi di quand'ero bambina, sento aleggiare la presenza soffocante di mìa madre. Mi ero ripromessa di essere diversa. Ma adesso ho paura di essere come lei. Sto a preoccuparmi per un'ora chiedendomi se il bambino avrà bisogno della maglia di lana. Io non voglio essere cosi. Tutto questo

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preoccuparmi mi sfinisce." D gruppo, scrive la Nemtzow,22 aiutò Linda a "vedersi distinta da sua madre," e a convincersi di poter adottare un atteggiamento diverso. Anche se pochi contesterebbero l'utilità di questo tipo di appoggio per una neomadre, la breve dichiarazione di Linda evidenzia segni di depressione clinica, una depressione che sembra ereditaria e che potrebbe facilmente ripercuotersi sul bambino. Quello che uno psicoterapeuta d'indirizzo biologico troverebbe significativo nella testimonianza di Linda è che sua madre era fobica ("... non potevo neanche andare in gita scolastica su uno scuolabus"), aveva pensieri negativi circa il futuro, si preoccupava in modo ossessivo ed era di umore malinconico. Appare probabile che sua madre soffrisse di depressione, e forse anche di altre turbe psichiatrìche. Linda si vede scivolare sulla stessa china e vuole reagire. Riferisce di essere irresoluta (le ci vuole un'ora per decidere se il bambino ha bisogno della maglia di lana), soggetta a ossessioni, spaventata e sfinita: tutti segni di depressione da moderata a grave. Alla luce dei sintomi di sua madre, quanto rivelato

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da Linda assume una distinta connotazione biologica. Anche se la Nemtzow non lo suggerisce, la sua "Linda" accusa quel genere di sintomi che potrebbero trarre beneficio dall'intervento medico. Anche se evidentemente gli psicoterapeuti devono essere sensibili agli eventi che si verificano nella vita delle pazienti, attribuire un'eccessiva importanza alle tensioni sociali può condurre a tentativi di approccio terapeutico inefficaci. A volte gli psicoterapeuti possono attribuire un peso eccessivo a uno scarso accordo col marito, per esempio, come motivo della depressione della neomadre. Certo, un marito dall'atteggiamento distante non aiuta, e le statistiche mostrano che la mancanza di appoggio da parte di un marito, o la sensazione di non essere amata da lui, sono forti fattori che lasciano prevedere l'instaurarsi della depressione nella donna, specialmente dopo la nascita di un figlio.23 Ma gli psicoterapeuti che minimizzano gli aspetti biologici della depressione trascurano il fatto che molte donne rimangono in matrimoni con mariti che non le sostengono moralmente proprio perché sono depresse. In un caso del genere, la soluzione non consiste nel dare una

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regolata al marito o nel trovarne uno migliore, ma nel curare la depressione così da infondere nelle donne l'energia - e l'autostima - in grado di cambiare la loro vita in qualsiasi modo abbiano scelto. I biopsichiatri si preoccupano del problema della mezza cura. Gli psicoterapeuti possono incoraggiare le donne così da apportare loro un sollievo temporaneo, pur lasciandole sostanzialmente depresse. Se la depressione puerperale è diffusa, e spesso grave come è mostrato dagli studi compiuti, può spesso richiedere una cura medica oltre alla psicoterapia a breve termine.24 Sbalzi d'untore e menopausa Se la menopausa provochi o no la depressione nelle donne è stato per anni motivo di controversia. Intorno all'ultimo decennio, studiose femministe hanno cercato di scoprire almeno un brandello di prova di un rapporto fra rischio di depressione e cessazione delle ovulazioni. Quello che sono riuscite a trovare è ben poco; alcune direbbero che non c'è nessunissima prova. "Il nesso fra menopausa e depressione è stato inventato," assicura la dottoressa Ruth Formanek, capopsicologa dell'organismo assistenziale di Long Island per cui lavora anche la

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Nemtzow. Questa nozione della depressione legata alla menopausa è una costruzione sociale fittizia che è stata sempre in circolazione fin da quando le femministe iniziarono la loto critica alla ginecologia una trentina di anni fa. Comunque, questa particolare idea necessita di una certa revisione. La controversia verte sulla questione se sia la menopausa a provocare la depressione, non se le donne verso la metà della vita diventino depresse; tutte noi sappiamo che questo avviene. L'interrogativo è questo: la depressione ha a che vedere con eventi che sopravvengono nella loro vita o con lo Sturm und Drang delle tempeste umorali concomitanti con l'interruzione dell'attività ova-rica, o con entrambe le cose? Prima di tutto, ci sono i miti. La menopausa è stata a lungo considerata un accadimento che segnalava la fine del valore di una donna. La letteratura del diciottesimo e del diciannovesimo secolo abbonda di descrizioni della lamentevole sorte delle donne una volta che non sono più in grado di generare figli. Esse sono presentate come grasse, sudice e svogliate, e soprattutto in via di perdere qualsiasi capacità di pensare che possano aver avuto la

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fortuna di possedere. Mentalmente confuse, apatiche e fisicamente prive di fascino e di energia, si riteneva che le donne non avessero gran che da scegliere oltre il trascorrere gli ultimi anni aspettando con sopportazione e - si sperava - in silenzio la morte. Tutto questo orrore si supponeva dovuto interamente alla perdita di estrogeno che si verifica quando le ovaie cessano di funzionare, nonché all'inevitabile presa di coscienza da parte di una donna del fatto che avendo perso la capacità di concepire non aveva più nessuna funzione sulla tetta. Gli uomini, naturalmente, non avevano un'analoga diminuzione di poteri nella mezza età, ma anzi diventavano più ricchi, più potenti e di aspetto più "interessante". Povere donne! Condannate all'inizio, e condannate alla fine. Non sorprende che il movimento femminista si sia opposto a questo distruttivo stereotipo e così abbia contribuito a restituire alle donne la seconda metà della loro vita. Tuttavia, il problema di che cosa realmente avvenga alle donne verso la metà della vita rimane complicato e richiede una gran mole di ulteriore ricerca. Indubbiamente le donne subiscono imponenti modificazioni

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ormonali, e a volte - come per esempio nel caso della menopausa "indotta chirurgicamente" (con la rimozione delle ovaie) - sopravviene con sconvolgente subitaneità. L'isterectomia è traumatizzante per moke donne, anche quando lascia intatte le ovaie. Come vedremo, un nuovo studio effettuato in Inghilterra mostra che molte donne diventano affette da ipotiroidismo in questo periodo della vita, una condizione che invariabilmente provoca depressione. E indubbio che un'infinità di cose possono succedere a una donna: eventi fisici direttamente collegati alla sua menopausa che possono provocare lievi, e non tanto lievi, modificazioni dell'umore, dell'energia e della capacità di pensare in modo normale. Più è misteriosa la malattia, più è difficile la diagnosi 'I miei occhi stanno piangendo ma io no," Ruth ricorda di aver detto a suo marito. Nel suo caso, versar lacrime senza sentirsi veramente triste era un indice che le stava succedendo qualcosa: un'intera sindrome di sintomi che, essa decise dopo aver consultato il suo ginecologo, dovevano avere a che fare con gli ormoni. Ruth, che aveva da poco

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superato la cinquantina, decise di ricorrere a una terapia a base di estrogeni. "Per me," assicurò, "il prima e il dopo sono una prova sufficiente della bontà della cura. I miei livelli di estrogeno erano bassi, il mio ormone follicolo-stimolante era esaurito, e io ero in menopausa, nessun dubbio su ciò. Inoltre ero nervosa, irritabile e mortalmente stanca. Tutto questo è cambiato non appena ho cominciato a portarmi addosso un cerotto agli estrogeni Adesso nuoto ogni giorno, faccio ginnastica aerobica, sto scrivendo due libri, e mi piace ancora fare l'amore." Dato che gli sbalzi d'umore avvengono prima, durante e dopo la menopausa, possono essere interpretati come suoi effetti Le cose possono stare così oppure no. La menopausa è probabilmente una delle grandi aree della salute deUa donna non ancora studiate. Il manuale di duemila pagine Comprehensìve Textbook ofPsychiatry dedica la bellezza di ventun righe all'argomento! Potrebbe davvero trattarsi di un cambiamento dell'umore che si determina in alcune donne quando i loro livelli di estrogeni diminuiscono? Molti ricercatori pensano che sia probabile, dato che forme analoghe di

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modificazione ormonale si hanno notoriamente durante la pubertà, durante le mestruazioni e dopo il parto: altre occasioni in cui le donne appaiono soggette a cambiamenti dell'umore. "Gli steroidi gonadici esercitano un effetto profondo su certi enzimi collegati a neurotrasmettitori e recettori nel cervello, compresi recettori che si presume siano il sito dell'azione del farmaco antidepressivo," scrivono i noti ricercatori Myrna Weissman e Gerald Herman.27 Gli ormoni sessuali, a loro avviso, esercitano realmente un qualche tipo di effetto sull'umore, anche se non se ne comprende ancora il meccanismo. La Weissman e Herman pensano che il rapporto fra fisiologia endocrina e umore sia un campo importante per la ricerca futura. Certe malattie che con maggiori probabilità colpiscono la donna verso la metà della vita possono recare con sé depressione. Un recente studio compiuto in Gran Bretagna indica che un basso livello di tiroide è la causa probabile dell'abbassamento dell'umore nelle donne intorno alla menopausa. Alcuni ricercatori hanno condotto uno studio su ottantacinque donne nell'ultima fase del periodo anteriore alla menopausa, controllando la loro

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attività ormonale e sottoponendole a interviste psichiatriche standard. Di tutti gli ormoni controllati -compresi quelli sessuali, l'ormone follicolo-stimolante, la prolattina, e il cortisolo - quello che si connetteva meglio a elevati livelli di depressione era l'ormone stimolatore della tiroide Co tirostimolante) in una con-centrazione superiore alla norma. Questo ormone interviene quando la tiroide è ipoattiva. Le donne di questo gruppo che erano depresse avevano tutte tiroidi ipoattive. I ricercatori sono rimasti così colpiti dalla scoperta da suggerire che lo scarso funzionamento della tiroide potesse essere la causa dei problemi umorali che si sono evidenziati in altri studi su donne alle soglie della menopausa i cui livelli di ormone tiroideo non erano stati testati28 L'ipotiroidismo è noto come il grande "simulatore" della depressione, perché le due affezioni hanno in comune moltissimi sintomi È possibile che sia sintomatico anche quando i livelli di ormone della tiroide sono normali-bassi, il che corrisponde a uno stato della malattia definito "subclinico". L'ipotiroidismo è qualcosa da cui le donne in particolare dovrebbero stare

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in guardia, poiché si è visto che il 70% delle persone che ne sono colpite sono donne: e il problema è maggior- mente diffuso di quanto sia riconosciuto. Per molte, la funzione della tiroide può essere tutto quello che è necessario correggere. I sintomi depressivi scompaiono alcune settimane dopo l'inizio della terapia, che prevede la sostituzione dell'attività tiroidea con gli effetti di un prodotto di sintesi, la tirosina. Indubbiamente, ci sono fattori stressanti, culturali che possono scatenare la depressione in donne giunte alla mezza età: fra cui la povertà e la perdita di amicizie, mariti e figli. Anche il radicale scossone ormonale che avviene nelle donne di questa fascia d'età, in combinazione con lo stress sociale, può sp;ngerci verso scombussolamenti emotivi L'importante è che le donne prendano abbastanza sul serio le loro condizioni ulteriori da chiedere di essere curate. Donne a cui è stata data l'informazione, forse inesatta, che "la menopausa non provoca depressione," in questa fase della vita possono sentirsi in colpa per i loro cambiamenti d'umore ed evitare di rivolgersi al medico. Oppure possono sentirsi riluttanti ad andare da uno psichiatra e particolarmente

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nervose all'idea di prendere medicine. La documentazione di sicurezza sugli antidepressivi è maggiore di quella riguardante la terapia di sostituzione con estrogeni. Nei trent'anni o più in cui sono stati usati nel nostro paese, gli antidepressivi non sono mai stati collegati al cancro. Se le donne hanno problemi di umore verso la metà della vita - ed essi possono determinarsi e si determinano per molte ragioni oltre alla menopausa di per sé - possono prendere in considerazione una cura di prova con antidepressivi per diversi mesi per vedere se è di giovamento. Dato che gli antidepressivi non creano dipendenza, è facile smettere di prenderli, anche se alcuni richiedono una diminuzione graduale delle dosi (vedi ottavo capitolo). Per le donne di mezza età che cercano di decidere cosa fare per l'umore depresso, la situazione è a dir poco ingarbugliata. La buona notizia è che gli scienziati stanno finalmente conducendo ricerche sui problemi che sono a volte associati al sistema riproduttivo delle donne, al fine di trovare metodi che consentano loro di sentirsi meglio e funzionare normalmente nell'intero corso della loro esistenza. Nel frattempo, le

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donne dovrebbero prendere sul serio le loro turbe dell'umore, ogni volta che le avvertono, e chiedere di essere curate. Verso la stabilità Hannah mi telefonò quattro mesi dopo il nostro colloquio per aggiornarmi su quanto era avvenuto nella sua vita. Aveva rotto con quell'uomo, che non sopportava più e che l'aveva resa così agitata. E aveva deciso, dopo una nuova relazione intollerabilmente instabile, di consultare uno psicofarmacologo. Aveva cominciato una cura con la tranilcipromina, un inibitore delle MAO, da meno di un mese da quella conversazione con me. "Quando il dottore mi ha fatto la diagnosi, ha definito il mio tipo di depressione come 'reattiva'. Sostanzialmente reagisco in modo eccessivo a tutto quello che succede intorno a me. Se qualcuno mi fa dei complimenti o lusinga il mio amor proprio o mi fa un regalo il mio umore sale alle stelle, ma altrettanto facilmente ho un crollo se mi sento respinta o criticata." Hannah ricordò l'irritabilità che le aveva sempre reso difficile sopportare gli altri. "Se sono in una lunga coda alla banca o al supermercato o in qualche altro posto e c'è qualcuno che vorrebbe fare il furbo, non so trattenermi dal

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protestare. Altre volte rimbecco la vicina, o qualcun altro che secondo me mi sta pestando i piedi, divento una càrognetta. In certe situazioni non sono mai stata capace di dominarmi Sì, ho sempre pensato che avrei dovuto essere capace di tollerare qualche disappunto senza dar fuori di matto, ma spesso non ce la facevo." Dopo averle fatto descrivere i suoi sintomi fisici, i suoi sentimenti, i suoi modi d'interagire con gli altri, il suo medico le chiese una storia dettagliata della sua famiglia. "Mi ha chiesto se qualcuno dei miei familiari, dei miei parenti consanguinei, avesse sofferto di qualche tipo di malattia mentale o di tendenze suicide o cose del genere, qualsiasi tipo di dipendenza da sostanze, qualsiasi turba dell'umore. Nei miei familiari più stretti non c'erano dipendenze da sostanze. Ma turbe dell'umore, queDe sì, posso dirlo senz'altro. Mio padre non sapeva controllare i suoi impulsi Era enormemente suscettibile, molto instabile. Pieno di una collera che non riusciva a dominare. E mia madre era estremamente depressa e ansiosa. E, certo, prima di cominciare questa cura sentivo che stavo diventando sempre più come loro." Il medico

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concluse, dopo aver ordinato a Hannah la tranilcipromina, che soffriva di uno squilibrio biochimico, a cui la sua famiglia era geneticamente vulnerabile. Le chiesi come avesse accolto questa diagnosi "Mi sono sentita sollevata," rispose. "Per tutta la vita mi sono sforzata disperatamente di controllarmi. Per ventitré anni ho cercato con tutte le mie forze di arrivare a un certo equilibrio e a una certa soddisfazione nella mia vita, e anche se ho fatto qualche progresso mediante una quantità di tecniche per ridurre lo stress e controllando la mia dieta, e dandomi una seria regolata circa il mio modo di pensare a tante cose, sostanzialmente mi sono sentita ancora priva di controllo. E soprattutto tutte le volte che ho cominciato una relazione intima con un uomo. Tutte le volte è stato un bello scivolone. In questi casi avevo un bel mettermi in terapia o in..." "Meditazione?" "Già. O un bel mettermi a dieta o impegnarmi nella meditazione o nello voga. Potevo mettercela tutta, ma niente da fare... reagivo sempre in modo sbagliato, me ne rendevo conto... in modo eccessivo. Come in quest'ultima relazione. Mi chiedo se in primo luogo mi ci

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sarei impegolata se non fossi stata così incapace di controllare le mie emozioni." "Può entrare un pochino più nei dettagli?" "C'è una forma di suggestionabilità... come se non ci fossero confini... È come un'ameba, e tu la colpisci e... più o meno così mi sentivo. Come uno di quegli organismi unicellulari, sa. Tu fai qualcosa e quello reagisce immediatamente, e poi fai un'altra cosa e immediatamente reagisce di nuovo. E non c'era... io non avevo un senso di separazione..." "In che modo questo influiva all'atto pratico sulla sua vita?" Hannah confessò che si era sempre sentita incapace di scegliere se reagire o no. "Ora comincio a provare molto di più un senso di scelta circa le mie reazioni." M'interessavano l'esperienza di Hannah con il lavoro e il suo atteggiamento mentale: in particolare, se atteggiamenti, o sentimenti o abitudini di lavoro stessero cambiando da quando aveva intrapreso la cura. "Ho sempre avuto una tremenda difficoltà a concentrarmi sul mio lavoro," disse. "Una volta fumavo un mucchio di erba, perché pensavo che mi aiutasse a dipingere. Almeno mi teneva buona sulla mia sedia." "Questo perché alleviava l'ansia?" "Già, la usavo

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per la pittura. La usavo per fare l'amore. Dopo un po', per tutto. Ma senza l'erba, e perfino con l'erba, mi capitava molto spesso di cascare addormentata quando cercavo di dipingere. E questo non aveva niente a che fare con quanto avessi dormito o con quanto fossi stanca. Semplicemente cascavo giù come una pera. Tutto dipendeva dal dover tollerare delle frustrazioni, secondo me. Dal dover dominare i miei sentimenti, essere capace di fare la coda, tutte queste cose. Dunque, quello che ho notato, dopo due settimane e mezzo di tranikipromina, è che ho cominciato a sentire una chiarezza mentale e una capacità di concen-trazione molto maggiori. Questo si è manifestato in modi diversi Una mattina ho avuto un'esperienza nuo- va quando ho deciso di cimentare la mia mano in qualcosa di nuovo, una tecnica pittorica che non avevo mai provato prima. Mi sono messa giù e in un'ora ho fatto una cosa che mi ha riempita di entusiasmo. Lo dico sul serio, il pensiero che questo farmaco possa facilitare il mio processo creativo è forse ancora più elettrizzante per me dell'idea che potrebbe rendere possibile una relazione. "Io ho cinquantun anni, e

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non voglio passare il resto della mia vita come una bambinata emotiva, davvero, sempre costretta a rimediare ai casini che combino e a essere incapace di realizzare tutte le mie potenzialità di membro produttivo e maturo della società." Le chiesi cosa pensava della preoccupazione delle femministe circa la cura farmacologica delle donne per stabilizzare l'umore. "Non mi sembra una questione di femminismo," rispose. "È questione di senso di autocontrollo. Io sono stata in terapia, ogni genere di psicoterapia, tutti i tipi di gruppi per la realizzazione del potenziale umano. Gruppi per uscire dalle dipendenze, gruppi d'introspezione, programmi in dodici fasi. Ho esplorato ogni genere di terapia di orientamento psicologico o spirituale. Cioè, ho osservato intensamente me stessa e il mio comportamento da questi punti di vista per anni e anni. E ho sempre pensato alle mie emozioni e al mio comportamento nei rapporti con gli altri come a qualcosa che avrei potuto mettere a1 posto se solo avessi gridato abbastanza o mi fossi arrabbiata abbastanza o avessi pregato abbastanza o imparato i concetti giusti, o qualsiasi altra cosa, se l'avessi fatto sarei

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riuscita a controllare queste cose. Insomma, ho proprio l'impressione di aver affrontato la situazione con un atteggiamento da 'guerriera'. Attività fisica regolare. Passeggiare quasi ogni giorno. Yoga parecchie volte alla settimana. Ho eliminato le droghe. Sono sei anni che non prendo più nessuna droga. Niente alcol, pochissimo zucchero. Caffeina, il minimo. E con tutto questo il problema persiste. Adesso, vedo decisamente progressi importanti nella stabilità dei miei stati d'animo. Anche se vorrei aggiungere, e penso che sia importante che la gente lo sappia, che questa medicina non mi fa sentire felice di continuo. Certe volte mi sento triste, mi sento in collera. Quando ho avuto le mestruazioni mi sono sentita irritabile." "E fatto di essere in cura, allora, non la fa sentire di umore stabile." "Il mio umore fluttua, ma non... fluttua molto meno. E in modo sopportabile. Anche se mi sento triste tutto il giorno perché ho buoni motivi per sentirmi così, non ho la sensazione di non riuscire a tollerarlo. Non sento l'impellenza di fare qualcosa, come telefonare al mio ex o a tutte le mie amiche per dire quanto mi sento a terra o infelice o sull'orlo del

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suicidio, che ne so. Posso sentirmi triste e basta." "Se sentissi che questa medicina mi fa male, non la prenderei. E sono stata molto attenta e costante nel prenderla. Ho preso appunti ogni giorno su tutte le reazioni che avevo. Mi sono tenuta in contatto frequente col dottore che me l'ha ordinata. E se avessi pensato che questa medicina mi avrebbe trasformata in una specie di zombi o in qualche modo avrebbe appannato le mie percezioni, la mia vitalità, non l'avrei presa. Quello che mi propongo nella vita adesso è espandere la mia vitalità, espandere la mia creatività, espandere la mia capacità di avere relazioni intime." Donne e/armaci: la controversia Non sorprende molto che le donne siano indecise sul modo di affrontare la depressione quando i nostri principali maestri in materia di salute mentale - i nostri psicoterapeuti - spesso spacciano per buona l'idea che a provocare la depressione non sia la malattia ma il conflitto, ossia il sistema sociale. Alcuni arrivano addirittura a sostenere che gli antidepressivi sono nocivi, specie per le donne. Idee del genere sono superate, e fintante che sopravvivono - per qualsiasi motivo ideologico -

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le donne vengono ostacolate anziché aiutate. Le donne devono rendersi conto che molti psicoterapeuti senza un'adeguata formazione medica non hanno un'idea corretta defla farmacopea antidepressiva. Alcuni dicono che allevia i sintomi e soltanto i sintomi, e questo è inesatto. Altri si riferiscono ai tarmaci come a un "supporto chimico", lasciando intendere che sono un semplice complemento della terapia della parola. Altri ancora asseriscono che i farmaci sono pericolosi per le donne, il che non è dimostrabile sulla base di dati esistenti La psicoioga Randy S. Milden ammette che le donne con turbe dell'umore - anche nelle forme più lievi - sono spesso aiutate dai farmaci, ma avverte che le donne che prendono antidepressivi "non si sentono complete e in controllo di se stesse. È stato loro detto che, durante un episodio, sono governate dai loro neurotrasmettitori, e che vengono salvate dai farmaci," scrive. "Esse interpretano ciò nel senso che sono neuro-biologicamente incomplete, e che hanno bisogno di materie esterne con la funzione di fare da complemento a quanto percepiscono come le loro personalità deficita-rier Chi gli dice questo? Ovviamente,

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i medici non informano le pazienti che sono "governate" dai neurotrasmettitori e "salvate" dalle medicine. Questo è un linguaggio inficiato dal pregiudizio. Chiunque sia ammalato deve ricorrere ai farmaci, nonché al medico che li somministra. Per poter trarre il massimo benefìcio dagli antidepressivi, la paziente ha bisogno di psicoterapeuti che l'aiutino a liberarsi da qualsiasi suo eventuale senso di essere "difettosa". Non esiste organismo perfetto, e mentre una persona può avere qualcosa che non va al ginocchio e un'altra vederci male, un'altra ancora può avere una disfunzione del metabolismo della serotonina. Forse è questo che psicoterapeuti cauti come la dottoressa Milden cercano di far capire, ma un testo del genere da l'impressione che chiunque "deve" prendere antidepressivi dovrebbe sentirsi minorato in qualcosa. Gli psicoterapeuti rischiano di indurre questa sensazione quando ammoniscono le pazienti contro il rischio di diventare "dipendenti" da farmaci che stabilizzano l'umore, si chiedono se l'umore di una donna sia "abbastanza cattivo" da giustificare il ricorso ai farmaci, o sostengono che i

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soggetti depressi possono bandire la prostrazione se solo sono disposti ad "affrontare" le loro paure e debolezze. Le donne depresse - esattamente come gli uomini depressi - fanno fatica ad affrontare i loro problemi perché sono depresse, non viceversa. Prendere una medicina può risultarci difficile, perché fa vacillare il nostro senso d'immortalità, la nostra convinzione narcisistica di essere "al di sopra" di una cosa come la malattia. Neghiamo di sentirci abbattuti, di andare soggetti a periodi di scarsa energia, di fare fatica a concentrarci nel nostro lavoro e a sentirci competenti e a nostro agio con gli altri. Non ci va l'idea di dover prendere una medicina, eppure quando si tratta di una medicina per qualsiasi altra cosa tendiamo a minimizzare il nostro fastidio. Se ci viene fatta una diagnosi di diabete, o di sindrome da affaticamento cronico, o d'influenza, non ci è difficile accettare in modo più positivo la nostra fragilità. "Tutti quanti hanno qualcosa che non va,", ci diciamo. Perché non dovremmo adottare lo stesso atteggiamento verso le turbe della sfera affettiva? Veniamo confuse circa i nostri stati d'umore, e questo può essere acuito

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dalla confusione da parte dei nostri stessi psicoterapeuti. Perfino loro possono vedere i farmaci come qualcosa di "esterno", qualcosa a cui le pazienti sono "costrette ad affidarsi", o come qualcosa da cui dovrebbero astenersi il più a lungo possibile. A una donna da noi intervistata lo psicoterapeuta aveva detto che la sua depressione non era abbastanza grave da giustificare il ricorso ai farmaci. Poi, un giorno, essa gli disse che aveva paura di diventare manesca col suo bambino. Questo lo convinse di colpo a fare qualcosa e finalmente la mandò da uno psicofarmacologo. In tre settimane di cura, la donna si senti meglio, e cominciò a pensare che avrebbe dovuto prendere antidepressivi molto prima. Espresse al medico il suo sdegno per l'insistenza con cui l'aveva convinta per così tanto tempo a farne a meno. "Lui ha chiesto scusa, ma ha aggiunto che non si era reso conto che fossi conciata così male. Mi ha detto: 'Dopo tutto, Barbara, non avevi perso il controllo di te stessa.' E io ho replicato: 'Forse aspettavi che perdessi il controllo prima di permettermi di avere questa cura che mi ha tirata su così tanto?'" La Milden osserva che certe donne

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possono percepire l'affidarsi ai farmaci come "una ricetta per la regressione". Nel loro desiderio di far sì che il problema sia risolto da qualcosa di diverso dai loro sforzi, spiega, rinunciano a qualsiasi senso di autonomia abbiano guadagnato. Nel 1990, nel suo rapporto Women and Depression: Risk Faeton and Treatment hsues l'American Psycholo-gical Association lanciò avvertimenti simili a quelli della dottoressa Milden. "È necessario che sappiamo se esiste un pericolo che gli antidepressivi possano incoraggiare nelle donne la dipendenza, la passività e una psicologia vittimistica, che con l'andar del tempo potrebbero rafforzare la depressione," si affermava. Preoccupazioni di questo tipo appaiono basate su un errore fondamentale. Non c'è motivo per cui una donna che ha lavorato con il massimo impegno per risolvere i suoi conflitti e accrescere il suo senso d'indipendenza debba rinunciare a questi risultati decidendo di prendere compresse che contribuiranno a curare la sua malattia e a farla sentire meglio. Se le donne hanno problemi di dipendenza, e io sono certa che li hanno, hanno bisogno di aiuto per risolverli Donne con turbe

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dell'umore possono trovare che questo aiuto proviene in parte da farmaci che non danno assuefazione e restituiscono sia l'energia sia un senso di potere. Le donne intervistate da Gabrielle e da me a cui erano stati prescritti antidepressivi avevano un senso di controllo sulla loro vita che non provavano da tanto tempo. Ripresero gli studi. Avanzarono nelle loro professioni. Trovarono che potevano farsi nuove amicizie e migliorare i loro rapporti con quelle di vecchia data. La depressione debilita. Porvi fine fa sentire le persone di nuovo integre. Quello che succede a moltissime donne quando non ricevono cure con antidepressivi è questo: rimangono mesi e anni in terapie che possono aiutarle a funzionare ma che non sfiorano la loro prostrazione e la loro irritabilità. Imparano a farsi valere, ad analizzare i sentimenti che provano per i loro psichiatri, a tenere diari di sogni, a fissare priorità, a non buttarsi giù, ma malgrado tutto questo non si sentono bene. Queste donne possono finire con il sentirsi in difetto e passive non a causa di un qualche senso interiorizzato d'inferiorità, ma perché - ancora una volta - non sono state curate in modo adeguato.

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JLafame morbosa: un disturbo del cervello V»£ uand'ero al liceo nessuno conosceva veramente la bulimia," scrive Gabrielle, ricordando l'atmosfera sociale in cui cominciò innocentemente a indulgere a certi comportamenti alimentari che alla fine sarebbero sfociati in una malattia vera e propria. "Ma tutte parlavano dell'anoressia. La maggior parte delle ragazze anoressi-che avevano un aspetto inequivocabile: diventavano incredibilmente secche e i loro capelli cominciavano a diradarsi. La loro 'malattia mentale' alimentava le chiacchiere, e ogni studentessa che perdeva molto peso diventava sospetta. 'Secondo te Lisa (o Karen, o Gina) ha...' ci bisbigliavamo nei corridoi della scuola. Segretamente, però, molte di noi erano invidiose della loro figura snella. Mentre noialtre eravamo alle prese col nostro peso, dandoci a una nuova pazzesca dieta non appena quella precedente aveva fatto fiasco, le anores-siche dimagrivano senza sforzo apparente. Non che volessimo sembrare proprio delle vittime di Auschwitz. 'Se solo potessi avere un filino di anoressia,' desideravamo in cuor nostro. "Quando Mary Jamison ha annunciato nello spogliatoio delle ragazze che aveva cercato di

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provocarsi il vomito per non acquistare peso per via di tutte le schifezze che aveva mangiato la sera prima, alcune di noi hanno drizzato le orecchie. Io pure. D mio primo, e unico, pensiero è stato: che idea geniale! Se riuscissi a vomitate a comando, potrei mangiare tutto quello che voglio senza dovermene preoccupare. Basta con le diete! Un paio di giorni dopo ho fatto la prova e ho visto che non era troppo difficile. E più lo facevo, più diventava facile. Ho trovato liberatorio poter mangiare quanto volevo senza paura di ingrassare. Non avevo idea di essermi avviata su una brutta china, quella di una malattia che avrebbe finito per dominare là mia vita per i sei anni successivi" La bulimia, come oggi i medici sanno, è strettamente collegata alla depressione. Le sue radici, come quelle della depressione, sono nel funzionamento metabolico del cervello. Quando Gabrielle soffrì di questa malattia la scoperta era appena stata fatta e non era ancora filtrata dai laboratori di ricerca psichiatrica. All'inizio degli anni ottanta, si riteneva che le donne con abitudini alimentari anomale soffrissero di disturbi psicologici, di gravi conflitti attinenti alla

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sfera sessuale, all'indipendenza, alle relazioni con la madre. L'idea che la malattia potesse in realtà essere di origine fisica era inconcepìbile. Più tardi, quando dati a sostegno di quest'ipotesi emersero finalmente dal laboratorio, molti psicoterapeuti si mostrarono poco convinti. H libro di Hudson e Pope New Hope far Binge Eaters, pubblicato nel 1984, fu accolto con favore dalle donne bulimiche ma con scetticismo, a dir poco, dagli psicoterapeuti.1 Su mia sollecitazione, Gaby si rivolse a uno psicoterapeuta, anche se per breve tempo. Aveva la netta sensazione che quei colloqui non la stessero portando da nessuna parte. Io interpretai il suo disinteresse per la psicoterapia come un suo timore di affrontare il proprio problema. Tutte le persone da me incontrate che sostenevano di avere una conoscenza anche minima dei disturbi dell'alimentazione dissero che non ci si poteva rimettere in sesto senza psicoterapia, anni di psicoterapia. "In certe donne queste cose non scompaiono mai," mi assicurarono nel 1981 due infermiere psichiatriche che avevano fondato a Toronto una dinica per pazienti affetti da disturbi dell'alimentazione. "Possono essere

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sulla quarantina, sulla cinquantina, e ancora bulimiche." Uno psicoterapeuta di Macon, Geòrgia, che parlò con me dopo una conferenza che tenni in quella città, mi riferì: "Ho delle pazienti sulla settantina che non hanno perso l'abitudine di vomitare." Eppure, miracolosamente, il rimpinzarsi e il purgarsi di Gabrielle finirono quando essa arrivò ai ventun anni In seguito avremmo appreso perché. "Ho sempre pensato di aver smesso perché avevo lottato con tanto impegno," riconosce Gabrielle, "ma dopo aver letto i rapporti su quegli studi mi rendo conto che non ho lottato più forte per liberarmi dalla bulimia alla fine di quanto non avessi fatto all'inizio. L'ingurgitare-rigurgitare è finito quando la bulimia è andata in remissione. Tutto questo non ha avuto veramente niente a che fare con i miei sforzi" Mentre gli scienziati cominciavano a scoprire le origini di questa malattia strana e debilitante, noi scoprivamo che l'insopprimibile coazione a ingurgitare-rigurgitare di Gabrielle non era per niente una conseguenza della sua personalità, del suo retroterra psicosociale o della forza o debolezza della sua volontà. La sindrome dell'ingur-gitare-rigurgitare è il rovinoso

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risultato di una condizione che è fisica. Modificazioni nei livelli di certi neurotrasmettitori, come la serotonina, nel cervello di Gabrielle l'avevano resa preda di quel debilitante e ossessivo impulso a ingurgitare e rigurgitare. I biopsichiatri non comprendono ancora il nesso fra la chimica del cervello e la bulimia, ma sanno che il ristabilimento dei livelli adeguati di neurotrasmettitore fa cessare nella maggior parte dei casi la sindrome. Sanno anche che quando la malattia non viene curata, alla fine va in remissione spontanea, esattamente come la depressione. La bulimia di Gabriele andò in remissione senza trattamento. Per sei lunghi anni la malattia l'aveva sballottata come un maremoto. Poi, un giorno, improvvisamente come l'aveva travolta, la depositò su un'altra spiaggia. Di colpo, l'impulso a ingurgitare e rigurgitare era scomparso. Ma i suoi episodi depressivi peggiora- rono. Le donne e il cibo Alcuni studi mostrano che oggi un numero spaventosamente alto di giovani donne si preoccupano ossessivamente del cibo e delle diete. Molte finiscono per diventare adulte ossessionate dalla necessità

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di mettersi a dieta, o dalla paura di mangiare troppo. Certe diventano schiave delle pillole dietetiche. Altre, prigioniere di cicli alterni di dimagramento e d'ingrassamento, non sembrano mai in grado di stabilizzarsi su un peso accettabile. La gara con la bilancia diventa una costante nella loro vita. Per molte, se non la maggioranza, il mangiare non è un'esperienza naturale e piacevole, ma gravata dall'ansia e da una sorta di coazione. Per molto tempo si è pensato che i problemi alimentari delle donne fossero causati dalle pressioni sociali che imponevano un ideale di donna sottile e bellissima. Nell'ultimo decennio, però, la biologia ha aggiunto una nuova interpretazione. L'alimentazione influisce sulle sostanze chimiche del cervello che regolano l'umore, e ne è a sua volta influenzata. La scienza ha scoperto un rapporto fra questa malattia e le turbe dell'umore. La nuova informazione è importante per chiunque si senta incapace di "controllare" le proprie abitudini alimentari, non esclusivamente per le persone con veri e propri disturbi della funzione nutrizionale. I comportamenti alimentari patologici sono sintomi di un'affezione

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biologica: e fortunatamente sono curabili I disordini alimentari colpiscono milioni di donne e una piccola percentuale di uomini Anche se le cifre fornite dai vari studi mostrano un certo divario, sono tutte allarmanti. Un'indagine condotta su studentesse universitarie ha riscontrato un 12% di bulimiche.2 Un'altra su studentesse di liceo ha trovato un 20% di ragazze con problemi di dipendenza dal cibo, mentre un altro 27% di intervistate si sono dette "incapaci di controllarsi".3 Di solito la bulimia colpisce le donne subito dopo i vent'anni, anche se è stato appurato che può manifestarsi fin dai dodici anni di età. Nei casi estremi, la malattia può persistere per anni ed è devastante sia psicologicamente sia fisicamente. Certe donne finiscono con una grave erosione dello smalto dei denti o turbative dell'equilibrio elettrolitico; in rari casi si determinano perforazioni dell'esofago. Le conseguenze mentali della bulimia - i pensieri ossessivi incentrati sul cibo e sul mangiare, il senso di colpa e il disprezzo di sé - non sono meno brutali. La bulimia si accompagna di solito alla depressione, nonché all'abuso di

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droghe o alcoL Chiaramente, queste donne se la passano molto male. A un certo punto della loro vita, il 20% delle bulimiche tenta il suicidio. Quando Gabrielle entrò nella morsa di questa malattia sul finire degli anni settanta, erano in pochi a sapere quanto la bulimia fosse diffusa. È una condizione facile da nascondere, perché il rimpinzarsi viene fatto in segreto e il peso può essere mantenuto più o meno normale. Il profondo senso di colpa e di vergogna provato dalla bulimica era acuito dalla convinzione di essere l'unica a indulgere a queste abitudini Ma alla fine essa ha scoperto di essere tutt'altro che unica. Una nuova malattia era entrata negli annali della letteratura medica: la bulimia nervosa. Fu riconosciuta distinta dall'anoressia, e si trovò che era molto più diffusa. Non tardò molto che i mass media la promuovessero come la nuova, bizzarra malattìa degli anni ottanta. Obbligate a rimpinzarsi Verso l'inizio degli anni ottanta, Katherine Halmi, della facoltà di medicina della Cornell University, divulgò gli allarmanti risultati di uno studio da lei condotto all'università statale di New York "Su trecentocinquan-tacinque

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studentesse prese in esame, il 13% corrispondeva ai criteri ufficiali stabiliti per la diagnosi di bulimia dal terzo studio sulla sindrome premestruale.'' La sua fu una delle prime indagini a dimostrare quanto i disordini alimentari fossero diventati diffusi Colpiti dai dati forniti dalla Halmi, James Hudson e Harrison Pope, che stavano conducendo una ricerca sulla bulimia al McLe-an Hospital, presso Boston, li applicarono alla popolazione generale e stimarono che circa cinque milioni di persone negli Stati Uniti fossero state affette da bulimia per un periodo variabile nella loro vita.5 Hudson e Pope decisero di prendere una campionatura di allieve di istituti superiori della zona di Boston. Nel college A, "un prestigioso college rurale femminile", il 17,7% delle studentesse avevano problemi seri relativi all'alimentazione e un altro 10% si abbandonava a intemperanze alimentari almeno una volta alla settimana. "Dati ancora più preoccupanti sono emersi dal college B, un'università urbana," scrissero. "Su centodue donne che risposero al questionario, bulimia, anoressia e disordini alimentari con frequenza settimanale portarono il totale delle

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coazioni legate all'alimentazione a un allarmante 32,5%.6 Anche se le loro cifre concordavano con quelle fornite da altri ricercatori, Hudson e Pope rimasero scettici. Sembravano cosi elevate che gli psichiatri pensarono che dovevano essere inesatte. Era chiaramente necessario un altro studio. Dopo aver elaborato un altro questionario e averne controllato la validità Hudson e Pope si spostarono in periferia. "Ci piazzammo nel bel mezzo di un centro commerciale e offrimmo a ogni donna venuta a fare acquisti un dollaro per rispondere allo stesso questionario riservato e infilarlo in una cassetta sigillata." Il laboratorio si era trasferito in piazza. In tutto, risposero al questionario trecento donne. "Quando aprimmo la cassetta e analizzammo i risultati, restammo sbalorditi. "Oltre il 10% delle partecipanti all'inchiesta di Hud-son e Pope corrispondevano ai criteri standard fissati per la diagnosi di bulimia. Ma in quelle più giovani la malattia evidente imperversava. Nella fascia d'età fra i tredici e i vent'anni, il 17,7% erano, o erano state, bulimiche. Dopo aver elaborato i tassi d'incidenza così da far loro riflettere sulla differenza fra la

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distribuzione per fasce d'età delle frequentatrici del centro commerciale e quella della popolazione femminile americana, Hudson e Pope giunsero alla conclusione che circa dieci milioni di donne americane hanno una storia di bulimia. Questi dati, per quanto cospicui, non rappresentano ancora l'intera gamma delle persone con gravi problemi alimentari. Non comprendono, per esempio, quelle che cedono a fami morbose ma non rigurgitano o si purgano. Oltre un terzo delle studentesse di college riferisce di essere dedite a intemperanze alimentari, secondo gli studi di Hudson e Pope. Anche le persone obese si lasciano spesso andare a orge di cibo, anche se quelle che non si svuotano a comando non corrispondono ai criteri per la bulimia.7 Gli scienziati hanno di recente accertato che anche il mangiare compulsivo è una turba dell'alimentazione ed è provocato dagli stessi scompensi chimici con sede nel cervello che provocano la bulimia. Come vedremo più avanti nel capitolo, gli studi su nuove cure mediche per questa affezione sono molto confortanti. Molti dei soggetti che hanno sofferto di bulimia scoprono che possono eliminare l'ossessione del cibo con una pillola

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che corregge il metabolismo del cervello. Donne ossessionate Altre forme di comportamento nutrizionale anomalo sono il costante tenersi a dieta e l'uso (e l'abuso) di pillole dietetiche. La grande maggioranza deDe persone che si tengono a dieta e abusano di pillole sono donne, e spesso giovanissime. In uno studio condotto su cinquecento ragazze dell'università di San Francisco, quasi metà delle bambine di nove anni e l'8Q% di quelle fra i dieci e gli undici anni erano a dieta. E poche di loro erano sovrappeso! Nell'autunno del 1990, alcuni esperti chiamati a testimoniare davanti a una sottocommissione della camera che conduceva un'indagine sull'industria dei dimagranti espressero la loro preoccupazione per il gran numero di ragazze che si sottoponevano a diete eccessive e abusavano di pillole dietetiche. "La nostra indagine ha rilevato che le giovani si mettono a dieta più ossessivamente che mai, e che molte ne risentono in termini di salute, in certi casi addirittura con esiti letali."8 "Le pillole dietetiche che contengono fenilpropanola-mina, o PPA, costituiscono un rischio molto grave per la salute delle adolescenti,"

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testimoniò Vivian Hanson Meehan, presidente dell'associazione nazionale per l'anoressia nervosa e le turbe affini. La sottocommissione riferì, secondo la Meehan, che almeno un'adolescente su dieci è dedita a pratiche nutrizionali pericolose: diete da fame, abbuffate, abuso di lassativi e di pillole dietetiche. Anche se queste abitudini non conducono sempre a vere e proprie turbe dell'alimentazione, si può affermare che, con rare eccezioni, chiunque abbia sviluppato una patologia di questo tipo ha cominciato da qualche pratica dietetica estrema. C'è tutta una gamma di coazioni alimentari, e molte persone possono lasciarsi prendere la mano, e la gola, da malsani rituali nutrizionali che possono essere meno gravi dell'anoressia e della bulimia ma che nondimeno hanno effetti devastanti sulla mente e sul corpo delle loro vittime. Studiando le forme più estreme dei disturbi alimentari, gli scienziati hanno acquisito elementi chiarificatori per la comprensione di come agiscono tutte le coazioni alimentari. La bulimia è affine a una gamma di comportamenti che sono detti "ossessivo-compulsivi". I pazienti affetti da sindrome ossessivo-

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compulsiva vera e propria possono lavarsi le mani dozzine di volte al giorno, o hanno la mania di contare e ricontare le cose. In tutte le malattie ossessive i comportamenti e gli schemi di pensiero sembrano avere una vita propria. Nella bulimia, la componente compulsiva è una voracità incontrollabile. Le intemperanze alimentari sono seguite da pratiche per neutralizzarne gli effetti, come il vomito autoindotto, l'assunzione di massicci quantitativi di lassativi, il digiuno, l'intenso esercizio fisico o una combinazione di questi espedienti La stessa dipendenza dal cibo ha un carattere nettamente compulsivo, automatico. È come se "il normale meccanismo di controllo si fosse guastato, come se un pezzo di circuito cerebrale fosse andato in avaria," spiegano Hudson e Pope. Distinta da un'occasionale abbuffata, una vera dipendenza dal cibo continua incontrollata finché qualcosa di esterno non la fa cessare: dolori addominali, il sopravvento di un sonno letargico, l'arrivo inaspettato di qualcuno che interrompe il festino, o il vomito autoindotto. D quantitativo totale di cibo ingerito può essere strabocchevole. Alcuni psichiatri dell'università del Minnesota hanno

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calcolato che durante una "scorpacciata" media, che dura leggermente più di un'ora, vengono consumate da tre a quattrocento calorie Ma alcune mangiate possono essere ancora peggiori. Certi pazienti riferiscono di continuare a mangiare per un lasso di tempo che può arrivare fino a otto ore, con un consumo di undici o dodicimila calorie a banchetto. Certuni sono addirittura arrivati a consumare cinquantamila calorie al giorno, in una decina di megapasti da cinquemila calorie ciascuno: l'equivalente di quanto molte persone mangiano in un mese!9 Ingollato con avidità famelica, il cibo non viene praticamente assaporato. Abbiamo testimonianze di pazienti che arraffano febbrilmente dal freezer preparati per dolci da fare al forno, li passano sotto l'acqua bollente del rubinetto e li ingurgitano ancora mezzo surgelati, così come un alcolizzato non sta È a cercare un bicchiere e tracanna direttamente dalla bottiglia. E all'opera qualcosa di frenetico in questo, qualcosa di totalmente non mediato dalla ragione. Secondo i biopsichiatri questo qualcosa è principalmente fisico. Nel loro libro New Hope/or Binge Eaters, Hudson e Pope fanno la cronaca dello

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sviluppo della bramosia bulimica in una donna che chiamano "Sally", studentessa di un college femminile del Massachusetts. Per Sally l'incubo del cibo cominciò al suo secondo anno di college, quando cadde preda della depressione. A poco a poco, il pensiero del cibo e il terrore di ingrassare diventarono un tarlo per la sua mente. Una ferrea dieta sembrava opportuna. Sulle prime tutto parve andare bene, ed essa fu lieta quando cominciò a perdere peso, ma poco dopo ci fu il crollo. Una notte, sola nella sua stanza, si sorprese intenta a divorare un'intera confezione di dolcetti al cioccolato. Ma bramava altro cibo, e cosi corse fuori e comprò quasi quattro chili di gelato. Tornata nella sua stanza, si mise a strizzarselo in bocca direttamente dalla confezione. Ingurgitò in tutta fretta l'intera confezione. Poi, con lo stomaco in subbuglio, sazia ma piena di disgusto di sé, Sally crollò sul suo letto e dormì per dodici ore. La mattina dopo, vide che era aumentata di più di due chili e mezzo. La settimana dopo perse il peso che aveva messo su, ma poi una strana, tormentosa sensazione cominciò a roderla sempre più. L'ottava notte ci ricascò. I suoi attacchi di bramosia

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irrefrenabile assunsero ben presto una periodicità regolare, assalendola a intervalli di quattro o cinque notti, intramezzate da un periodo di dieta rigorosa. Sally incominciò a riconoscere la tensione montante che preannunciava un altro episodio. In previsione dell'attacco, escogitava piani complessi, ammassando provviste e sistemando le cose in modo da non correre rischi di interruzione. Si sviluppò un ciclo sempre più infernale da cui Sally si sforzò invano di liberarsi: le provò tutte, ma la coazione rimase. Spesso chi non ha mai sofferto di bulimia trova difficile comprendere questa malattia. È frequente che amiche e parenti, e anche psicoterapeuti, sollecitino donne come Sally a "smettere e non pensarci più", senza rendersi conto che le bulimiche non possono tirarsene fuori più di quanto non possano le leucemiche. "Senza contare," fa osservare Gabrielle, "che se le donne potessero semplicemente scegliere di piantarla, certo non avrebbero bisogno di sentirselo consigliare da qualcun altro." Sulle prime è difficile riconoscere la natura ossessiva dei disordini dell'alimentazione, in parte perché la preoccupazione femminile per le misure e il peso è

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cosi diffusa da essere considerata normale. Ma pensieri del genere possono essere così distruttivi e totalizzanti da compromettere il normale funzionamento. "Abbiamo osservato pazienti che si pesano quaranta volte al giorno," riferiscono Hudson e Pope. "Fra una pesatura e l'altra, si torturano il cervello con dubbi ossessivi. Non ci sarà uno scarto quasi impercettibile fra il peso segnato dalla bilancia e quello che dovrebbe essere il mio vero peso? Non sarà difettosa la bilancia? O dipenderà dall'umidità dell'aria? O magari è uno scherzo della luce che mi ha fatto sbagliare a leggere il quadrante?"11 Per la donna con una patologia legata al cibo, quasi nessun aspetto della vita se ne salva. Essa si sente preda di una spaventosa dipendenza. Amiche e relazioni sen- timentali diventano sempre meno importanti a misura che la sua ossessione del cibo e della dieta si fa sempre più divorante. Attività un tempo piacevoli vengono dimenticate e le sue ore di veglia finiscono per essere dominate dalle orge di cibo, dalla loro preparazione e dai loro postumi. Gail, una donna che è stata bulimica per dodici anni, parlò a Gabrielle di un diario che aveva

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tenuto durante la sua malattia. Vi erano annotati piani dettagliati per le sue trasgressioni alimentari: i ristoranti dove avrebbe fatto le sue incursioni, i piatti che avrebbe ordinato. Gail spiegò che faceva le sue abbuffate lontano da casa sua per paura che qualcuno di sua conoscenza potesse venirlo a sapere. Quale demone sarà mai all'opera in casi del genere, ci chiediamo nell'osservare questo ciclo infernale che travolge l'esistenza di persone che conosciamo: o di noi stesse. Certamente qualcosa di così potente, di così irrefrenabile, da non poter essere una semplice questione di disfunzione comportamentale. L'interrogativo che ci si pone è questo: com'è possibile che la comune, anche se nevrotica, preoccupazione per il proprio fisico arrivi a diventare una malattia incontrollabile che può durare per anni? Il rapporto fra bulimia e depressione Gli scienziati hanno scoperto che le donne bulimiche sono spesso affette anche da altre turbe psichiatriche. La più comune è la depressione grave. Essa si manifesta molto più di frequente nelle bulimiche che nella popolazione generale, e presenta inoltre certe caratteristiche comuni ai disordini

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alimentari: in particolare i caratteri-stici disturbi del sonno, il calo di energia e gli sbalzi d'umore. E in entrambe le patologie si ha spesso una drastica diminuzione del desiderio sessuale. Anche se certi ricercatori vedono la depressione come una reazione alle intemperanze alimentari, molti studi suggeriscono che la depressione venga per prima. Metà delle donne bulimiche hanno avuto un episodio depressivo un anno o più prima dell'insorgere della bulimia. Un altro 80% attraversano un episodio del genere almeno una volta nella loro vita.12 La relazione più interessante fra le due malattie è che la bulimia risponde agli antidepressivi: e non solo a uno o a una varietà di questi composti Quando le bulimiche vengono curate con antidepressivi, anche qualsiasi forma di depressione di cui possono soffrire viene alleviata. Ma è affascinante notare che anche le donne bulimiche che non sono deprese rispondono agli antidepressivi. In altre parole, non sono soltanto i sintomi depressivi della bulimia che vengono curati dai farmaci, ma la bulimia in loto: l'ingurgitare e rigurgitare, i pensieri ossessivi circa il peso, il cibo e le misure corporee, e qualsiasi turba

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dell'umore possa accompagnare gli altri sintomi I biopsichiatri sono impressionati dalla natura ciclica della malattia dell'ingurgitare-rigurgitare, dalla prevedibi-lità quasi automatica del comportamento. Dopo aver fatto un pieno di cibo, le donne entrano nella fase di digiuno del ciclo, assoggettandosi a una dieta estrema per mandare via i paventati chili in più. Man mano che si avvicinano al loro peso forma, un senso di malessere e una bramosia di cibo aumentano di nuovo fino a diventare intollerabili. A questo punto, scatta l'impellenza di un altro pasto luculliano, e il ciclo ricomincia. Hudson e Pope hanno osservato che spesso un ciclo depressivo si accompagna alla crisi di fame belluina, come se le due malattie andassero in tandem. A quanto sembra, la bulimia e la depressione grave arrivano e se ne vanno spontaneamente. Nella depressione, l'umor nero e le distorsioni del processo mentale possono apparire in assenza di un fattore scatenante, come un virus che aleggia nell'aria ed entra dalla finestra. Nella bulimia, l'ingurgitare e/o il vomitare sembrano incominciare un dato giorno e

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diventare ben presto incontrollabili Inoltre la bulimia, a quanto pare, finisce spontaneamente. Molte ex bulimiche credono di essere state in grado di vincere la loro malattia con la forza di volontà, ma oggi gli scienziati mettono in dubbio che una condizione diventata così totalmente incontrollabile come la bulimia possa di colpo regredire e diventare gestibile semplicemente con uno sforzo di volontà. Si è sempre tentati di pensare che una malattia sia migliorata grazie ai nostri sforzi. Noi vociamo crederlo. Ci infonde sollievo pensare dì poter controllare qualsiasi cosa negativa ci sia capitata. Ma quello che le pazienti provano realmente quando le loro crisi finiscono, Hud-son e Pope sono convinti, è una guarigione spontanea.13 La malattia finisce, cioè, perché finisce. Nessuno finora sa perché sceglie un dato momento biologico per cessare non più di quanto si sappia perché sceglie un dato momento biologico per cominciare. Mangiare, bere, rubare: una sindrome di comportamenti compulsivi Gli psicoterapeuti hanno constatato che le bulimiche spesso abusano di droghe e di alcol, Hudson e Pope affermano che il 25% delle donne da loro curate sono state

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alcoliste. Molte anzi cominciarono come alcoliste e poi svilupparono la bulimia dopo essere diventate astemie. "Si liberarono della dipendenza dall'alcol attraverso l'associazione degli alcolisti anonimi, la psicoterapia o semplice autodisciplina; e quasi immediatamente si trovarono vittime di una nuova afflizione: la dipendenza dal cibo," scrivono gli scienziati.14 Sia l'alcol che la cocaina aumentano i livelli di neuro-trasmettitore nel cervello. Hudson e Pope pensano che le bulimiche, come le persone che sono depresse, usino droghe e alcol per "autocurarsi:" cioè compensare bassi livelli di neurotrasmettitore. Purtroppo, però, gli innalza- menti del tono dell'umore prodotti dall'alcol sono di breve durata e, come è spiegato in modo approfondito nel settimo capitolo, l'abuso cronico finisce col ridurre la scorta di oppiacei naturali del corpo: sostanze chimi-che simili alla morfina che sono state scoperte nel cervello umano. Con la loro riduzione, si rinnova lo stimolo a consumare oppiacei artificiali, e si instaura un circolo vizioso. Jeff Jonas ha avanzato l'idea che gli oppiacei "possono essere globalmente coinvolti

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nella maggior parte dei comportamenti di dipendenza o compulsivi" Al congresso del 1988 che la Society for Neuroscience tenne a Toronto presso l'Addictions Research Foundation, numerosi rapporti, compreso quello di Jonas, suggerivano l'esistenza di una correlazione neurobiologica fra bulimia e alcolismo.16 Oltre alla depressione e all'alcolismo, sei altre turbe psichiatriche si manifestano più frequentemente fra le pazienti bulimiche che nella popolazione generale: anoressia nervosa, sìndrome bipolare, sindrome ossessivo-compulsiva, crisi di panico, agorafobia e cleptomania. "La gente rimane invariabilmente impressionata quando riferiamo che circa un terzo delle nostre pazienti bulimiche - moke dele quali benestanti, rispettose della legge e con una solida reputazione neÈa loro comunità - si dedicano regolarmente al taccheggio compulsivo con una refurtiva del valore di migliaia di dollari," scrivono Hudson e Pope. Nel già citato studio su studentesse bulimiche dell'università del Minnesota, due terzi confessarono comportamenti cleptomaniacali. Per la maggior parte, la loro refurtiva consisteva di cose che non volevano o desideravano, eppure si sentirono

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costrette ad appropriarsene da un impulso incoercibile. Hudson e Pope descrivono tale comportamento come un "incepparsi del meccanismo di controllo volontario". La maggior parte delle persone sopprimono dozzine di impulsi a fare cose che sono inopportune o nocive. "Il processo è così rapido e automatico che quasi non ce ne avvediamo: noi diamo per scontato il nostro controllo volontario degli impulsi." Il controllo volontario degli impulsi, spiegano Hudson e Pope, "ha la sua sede in una rete di comuni cellule nervose in un'area del cervello, ed esse sono vulnerabili alla malattia come quelle di qualsiasi altro organo del corpo." Così come un epilettico non può controllare i propri attacchi, una buÉmica o una cleptomane può essere incapace di sopprimere l'impulso a ingozzarsi o a rubare. Hudson e Pope stanno conducendo tentativi di cura della cleptomania con antidepressivi Hanno fatto la scoperta molto stimolante che bulimiche cleptomani curate con antidepressivi cessarono di rubare oltre che di mangiare in eccesso. Inoltre si sono concentrati su dieci ampi studi su cleptomani e hanno trovato che in otto i soggetti avevano manifestato elevati livelli

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di depressione. Hanno avuto un successo jniziale nella cura della cleptomania con antidepressivi. È degno di nota, hanno scritto sul "Journal of Clinical Psychopharmaco-logy," che queste donne "risposero a farmaci che influiscono sulla neurotrasmissione della serotonina, e la serotonina è stata associata a effetti sull'umore, sull'appetito e sull'impulsività."17 Le vecchie teorie Un'importante teoria sulle turbe dell'alimentazione si evolse verso la fine degli anni settanta, quando Hilde Bruche scrisse che esse affliggevano le giovani donne cresciute in famiglie ipercontrollatrici.18 In queste famiglie, i genitori impedivano alle fàglie di armonizzarsi ai loro bisogni corporei. Le abitudini alimentari, secondo la studiosa, diventavano organizzate intorno alle necessità della madre, non quelle della bambina. A peggiorare le cose c'era la tendenza della madre a sviluppare un coinvolgimento eccessivo con la figlia. La Bruche vedeva sia l'anoressia sia la bulimia come componenti della lotta dell'adolescente per acquisire controllo sulla propria personalità e sul proprio ambiente. Ma dalla sua

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morte, avvenuta sul finire degli anni settanta, dozzine di studi su genitori di persone affette da turbe dell'alimentazione hanno passato sotto silenzio la sua teoria secondo cui questi comportamenti anomali sono in realtà provocati da madri che esercitano un controllo eccessivo.19 Figlia della società Le idee che vedevano nelle famiglie la causa delle patologie legate al cibo furono ben presto attaccate dalle psicologhe femministe, che speravano di spostare la colpevolizzazione dalla madre alla società. Si cominciarono a pubblicare saggi dove si suggeriva che il valore attribuito dalla nostra cultura a un fisico snello acuisce i problemi di autostima di certe donne e ha un effetto devastante sui loro comportamenti alimentari. Questo approccio alla bulimia e all'anoressia era in parte un prodotto del clima politico di quell'epoca. In un'atmosfera universitaria che era fieramente femminista, si affermò sempre più un atteggiamento di spregio per concezioni psicologiche che erano considerate costruite dal maschio e antifemminili Verso la fine degli anni settanta, Marlene Boskind-White e suo marito, William White (lei è psicoterapeuta, lui psicologo

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clinico), appresero che un numero sorprendente delle studentesse della Cornell University soffrivano di vari problemi dell'alimentazione, compresa la bulimia vera e propria. I due specialisti giudicarono le distorte abitudini alimentari di queste giovani come "coperture" di più profondi sentimenti di inadeguatezza. "Data la loro scarsa autostima, queste donne si sentono indegne di essere amate e possono attribuire questo sentimento al loro temporaneo disgusto di sé pet le loro intemperanze alimentari o per il loro lieve sovrappeso," scrissero nel loro libro Bulimarexia, nel 1978. Condizionate ad autosvalutarsi, esse erano "mature" per affezioni come la bulimia, sostennero gli autori. Bulimarexia fu bene accolto da psicoterapeuti e analisti, che si trovarono di fronte a una sconcertante nuova sindrome e volevano essere guidati nella sua cura. L'ingurgitare era un sistema per "riempirsi senza aver bisogno degli altri", stabilirono i coniugi White. Era un modo di "respingere le persone con un muro di grasso (ovvero grasso percepito come muro)." Una bulimica presumibilmente "non poteva sottrarsi a un dissidio fra due parti di se stessa:" il desiderio di

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controllo totale contro il desiderio di essere fuori controllo. Credendosi non amabile, essa diventa ipersensibile alle reazioni altrui. Alla fine, "la mancanza di riguardo più lieve o insignificante viene esagerata e distorta, creando un massiccio disprezzo di sé che spinge una donna a continuare a ingurgitare in eccesso." Una situazione del genere, secondo i White, va risolta con una presa di coscienza da parte delle donne del loro condizionamento sociale negativo. "Una volta che le donne arriveranno a rendersi conto di avere abbracciato lo stesso retaggio di impotenza e di disperazione a cui sono sopravvissute le loro madri, potranno trovare la libertà sufficiente per scegliere un diverso modo di vivere." Essi argomentano: "Siamo convinti che le donne con cui lavoriamo non sono 'malate' o 'malate di mente', come molti medici suggeriscono." Ma allora cosa potrebbero essere le bulimiche se non delle ammalate? I coniugi White hanno deciso che la bulimia è un "comportamento appreso" e che come tale "può essere disimparato". Su questo disapprendimento si accentra il tipo di trattamento dei White. Essi cercano di mettere a fuoco i "modelli maladattivi" a cui hanno

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finito per ricorrere le loro pazienti in seguito al "modo in cui sono state socializzate, come donne."21 U"approccio psicosociale" della bulimia influenza tuttora molti psicoterapeuti. H fatto grave è che essa manca di incorporare nuove e importanti informazioni sulla componente biologica delle turbe dell'alimentazione. Progetti psicoterapeutici che si rivolgono soltanto agli aspetti psicodinamici della bulimia possono tenere a lungo in terapia le donne senza alleviare il loro stimolo a consumare enormi quantitativi di carboidrati Esiste, come vedremo, un modo migliore. Ma molti psicoterapeuti nel nostro paese rimangono stranamente sordi a queste nuove terapie. Nella primavera del 1991, Gabriel-le e io partecipammo a New York a una giornata di colloqui indetti dalTAmerican Association of Anorexia and Bulimia. Eravamo particolarmente interessate a vedere in che modo i centoventitré psicoterapeuti intervenuti avrebbero reagito ai due interventi in programma sul contributo della biopsichiatria alla comprensione e al trattamento della bulimia. Il giorno del meeting, scoprimmo che le due conferenze erano state annullate.

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Soltanto due persone si erano iscritte ai colloqui. Evidentemente, gli psicoterapeuti non erano interessati ad apprendere quello che la scienza aveva scoperto sui disordini alimentari! Oggigiorno la maggior parte degli psicoterapeuti cercano ancora di trattare le loro pazienti bulimiche portando lentamente alla luce i loro "conflitti ulteriori". Spesso questo tipo di terapia non risolve la sindrome dell'ingur-gitare-rigurgitare. "Ho fatto anni di terapia di gruppo e individuale, e anche se entrambe mi hanno dato modo di capire un mucchio di cose sui miei problemi interper-sonali, non hanno neppure scalfito l'impulso a rimpinzarmi," mi confidò una donna di Los Angeles che chiamerò Helen. Trentottenne, faceva affari d'oro con la sua agenzia che organizzava, per celebrità venute da fuori, interviste e apparizioni in spettacoli televisivi Ma anche se era in grado di dirigere l'impresa e inoltre di badare alla famiglia, decisamente non era capace di controllare gli attacchi di bulimia che sembravano quasi farsi beffe del suo successo. "Mi abbuffo e vomito da quand'ero una ragazzina," disse tristemente. "Niente di

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quanto abbia fatto ha mai veramente avuto il minimo impatto su questo!" Hudson e Pope, che hanno curato pazienti con molte turbe psichiatriche al McLean Hospital di Belmont, nel Massaehusetts, sono rimasti impressionati dalla particolare sofferenza inflitta dai disordini alimentari. "Abbiamo visto poche altre pazienti con una sintomatologia così manifestamente dolorosa e con un così disperato desiderio di essere liberate dalla loro malattia."22 Un nuovo approccio La storia della cura delle turbe dell'alimentazione non aveva offerto molti motivi di speranza quando Hudson e Pope cominciarono a sperimentare la terapia farmacologica per curare la sindrome dell'ingurgitare-rigurgitare. "Chiaramente, un trattamento rapido, affidabile e non dispendioso, efficace sia per la bulimia sia per i sintomi a essa associati - specie la depressione - sarebbe il benvenuto," scrissero in New Hope for Binge Eaters. "Adesso possiamo avere una cura del genere: quella coi farmaci antidepressivi" L'impiego degli antidepressivi nella cura della bulimia era cominciato verso la fine degli anni settanta. H primo successo fu riferito da Daniel Moore

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all'università di Yale nel 1977. Moore usò l'amitriptilina per curare una paziente affetta sia da anoressia sia da bulimia. Per quattro mesi essa non ebbe più crisi bulimiche. La somministrazione del farmaco fu interrotta, e in capo a due settimane, come scrisse Moore sulT"American Journal of Psychiatry," la donna "tornò a preoccuparsi di cibo, calorie, mangiare e vomitare, trascurando gli altri problemi su cui aveva lavorato così bene in sede di terapia negli ultimi quattro mesi. La settimana successiva telefonò in lacrime per dire che aveva mangiato e vomitato in continuità e desiderava tornare a prendere l'amitriptilina." La bulimia cessò in due giorni, e la sua preoccupazione per il peso si attenuò sempre più. Nel 1982, Hudson e Pope pubblicarono il primo studio su un gruppo di pazienti bulimiche. Anche se condotto su una campionatura esigua e senza un gruppo di controllo, lo studio era nettamente incoraggiante. Sei pazienti su otto migliorarono nel giro di alcune settimane dopo l'inizio di una cura con antidepressivi, "malgrado il fatto di essere state soggette a continui attacchi di bulimia per periodi fino

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a quattro anni prima del trattamento.' Particolarmente indicativo era il caso presentato dai medici di una donna di ventun anni con una storia di bulimia grave. Prima di essere curata con imipramina, essa dava libero sfogo alla sua fame morbosa due volte al giorno. Entrambe le volte consumava quasi quattro chili di gelato inzuppato di sciroppo di zucchero d'acero, insieme con pasticcini assortiti, bomboloni e altri dolciumi. Per purgarsi, prendeva fino a venti pillole diuretiche e 500 mi di magnesia al giorno. Inoltre vomitava. Dal punto di vista emotivo stava malissimo, come ci si può immaginare: depressa, affetta da insonnia e con intense fantasie di suicidio, specie dopo i suoi mostruosi pasti. Hudson e Pope la curarono con imipramina, e controllarono i livelli del farmaco nel suo siero sanguigno per vedere in che modo metabolizzava il farmaco, e aumentarono parecchie volte il dosaggio. Quando la dose fu portata a 300 mg al giorno, le sue crisi bulimiche scesero a una ala settimana ed essa riferì un miglioramento dell'umore e una completa scomparsa dei pensieri di suicidio. Timothy Walsh, deUa Columbia University, ha

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riferito il caso di un'infermiera di trentasette anni che era stata bulimica per dieci anni, con episodi di fame morbosa e vomito tre o quattro volte al giorno. H cibo le costava centinaia di dollari alla settimana. Aveva fatto sei anni di psicoterapia, nonché un po' di terapia comportamentale, e preso piccole dosi di tranquillanti e antidepressivi triadici: tutto senza effetto. Tre settimane dopo aver iniziato il trattamento con fenelzina, la donna riferì che non si sentiva più depressa e aveva perso l'impulso a mangiare in eccesso e a vomitare. Nei successivi dieci mesi di cura si lasciò andare a intemperanze alimentari solo tre volte, sempre durante periodi di forte tensione.24 Gli studi compiuti agli inizi degli anni ottanta furono più ampi e diedero un notevole contributo all'affidabilità del nuovo metodo di cura. Alla clinica Mayo, il dottor Patrick Hughes ottenne una remissione completa dalla bulimia entro dieci settimane di cura in quindici soggetti su ventidue.25 La depressione e altri sintomi collegati rivelarono un nettissimo miglioramento. D dottor Hughes aveva eseguito analisi del sangue per

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essere certo che la dose da lui prescritta fosse adeguata. In certi casi non Io era, e quando aumentò il dosaggio i sintomi scomparvero. Questo fu il primo studio che rivelò l'importanza dell'analisi del sangue e di un dosaggio adeguato. Psicoterapia e farmaci antidepressivi a confronto La maggior parte degli studi che sembrano sollevare dubbi sull'efficacia della cura con antidepressivi hanno gravi pecche, affermano Hudson e Pope. O il dosaggio impiegato era troppo basso, o gli studi furono condotti per un periodo di tempo troppo breve per poter valutare appieno l'effetto dei tarmaci, oppure (diversamente da quanto avviene nella pratica clinica), alle pazienti non fu consentito di passare a un altro tipo di antidepressivo quando il primo non funzionò. Purtroppo, questi studi imperfetti sono spesso citati da psicoterapeuti come un motivo per non indirizzare le loro pazienti bulimiche a uno psicofarmacologo. Uno studio ampiamente citato del dottor James Mitchell, pubblicato nel febbraio 1990,26 concluse che il trattamento che combinava gli antidepressivi con la psicoterapia era soltanto trascurabilmente più efficace della

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psicoterapia da sola e che il trattamento con i soli antidepressivi era considerevolmente meno efficace della psicoterapia da sola. Lo studio, però, era gravemente fuorviante, nei casi in cui il farmaco non ebbe effetto non ne venne offerto un altro. Molti studi hanno oggi mostrato che a volte è necessario tentare due o tre volte con farmaci diversi per ottenere buoni risultati. "Qual-siasi studio mirato a porre a confronto la cura con antidepressivi e la psicoterapia che escluda questi tentativi, in realtà non opera nessun confronto," ci disse Harrison Pope. In effetti il gruppo del dottor Mitchefl riscontrò che molte delle loro pazienti che non avevano mostrato segni di miglioramento a un primo tentativo di cura con imipramina "risposero egregiamente a una successiva prova di cura con un farmaco alternativo:" spesso un anti-MAO, fluoxetina o desipramina. Tuttavia, per un disguido dell'editoria accademica, i risultati del secondo ciclo di cura furono pubblicati nel 1989, prima dei risultati del primo. Ma questo fatto non fu riportato quando il primo studio fu divulgato, nel 1990.28 Come nel 1989, si è avuto un solo studio - quello di Hudson e Pope - in cui a

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pazienti che non avevano ottenuto giovamento dal primo antidepressivo fu offerta l'alternativa di una o più cure di prova con farmaci di diverso tipo.29 In questo studio, il 73% di sessantacinque pazienti mostrarono una sensibile diminuzione Superiore al 75%) o una remissione totale dei loro sintomi bulimia?0 Nel 1991, almeno quattordici studi confrontati con placebo e ben controllati hanno mostrato che gli antidepressivi non solo sono efficaci, ma anche che i loro benefici si mantengono, o addirittura aumentano, nel lungo periodo. "Gli antidepressivi rivelano un'efficacia documentata nel diminuire il ciclo ingurgitare-rigurgitare in studi su cure a breve termine," ha scritto Michael Gitlin in The Psychotherapist's Guide to Psychopharmaco-logy. La diminuzione della sintomatologia bulimica - tenendo conto di tutti gli studi - era in media del 75%." "Sono stari usati una varietà di antidepressivi, e la maggioranza ha rivelato risultati positivi," riferisce Gitlin. Egli sottolinea che "quando un antidepressivo è inefficace, un altro funziona, e perciò alle pazienti refrattarie vengono assicurate parecchie prove di cura." H metodo di cura della bulimia con

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antidepressivi messo a punto da Hudson e Pope è esposto dettagliatamente nell'appendice B. Donne con questa malattia possono confrontarlo col trattamento che stanno avendo. Turbe dell alimentazione e neurotrasmettitori Fu verso la fine degli anni ottanta che dal campo della neurofisiologia cominciarono a emergere dati sul perché gli antidepressivi combattono la bulimia. Sembra che modificazioni nel chimismo cerebrale producano i sintomi dell'ingurgitare-rigurgitare, nonché le idee ossessive circa il cibo, 2 peso corporeo e il mangiare. Un articolo comparso sul "Joumal of Psychiatry" descrive come i digiuni che le anoressiche si infliggono abbassi la loro scorta di noradrenalina. I neurobiologi sanno da molto tempo che elevati livelli di noradrenalina rendono ansiosi. "E possibile che le anoressiche attenuino la loro ansia abbassando i loro livelli di noradrenalina," ipotizza il dottor Maurizio Fava, uno psichiatra dell'unità di farmacologia dinica del Massachusetts General Hospital di Boston. "La riduzione dell'ansia mediante una scarsa alimentazione può favorire le strenue diete che le anoressiche s'impongono, e può incoraggiare queste pazienti a

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ripetere il processo ogni volta che cominciano a sentirsi ansiose."3 Un fattore che contribuisce a perpetuare le diete da fame può essere l'euforia che si sente quando vengono aumentati i livelli degli oppiacei cerebrali Le diete estreme "elevano i livelli di oppioidi, producendo una sorta di ebbrezza che può anche rinforzare il comportamento," ha dichiarato il dottor Fava. Anche i livelli di serotonina, come è stato accennato in precedenza, sono alterati in persone con disturbi dell'alimentazione. Nelle pazienti bulimiche questi livelli sono al di sotto della norma. Come abbiamo visto, deficienze di serotonina si associano a depressione e ansia. Esse inoltre riducono la sensazione di aver mangiato a sufficienza: il che può in parte spiegare perché le bulimiche si sentono spinte a mangiare troppo. Fame di carboidrati e serotonina Judith Wurtman ha scoperto un importante motivo del così frequente fallimento delle diete. Ce lo spiegò nel suo studio presso il MTT pressappoco così molte persone oscillano in un pendolo distruttivo fra il mangiare in eccesso e i digiuni. Inizialmente, nel timore di non essere in grado di controllare i carboidrati di cui sono

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bramose, li eliminano completamente. Dopo un po', il loro cervello va incontro a un "deficit di serotonina". A questo punto, "non riescono più a sopportare la dieta," afferma la Wurtman, "e tornano a mangiare a crepapelle." Inevitabilmente acquistano peso. Dal punto di vista emotivo, rimangono intrappolate in un ciclo negativo, sentendosi deprivate senza carboidrati e in colpa quando si rimpinzano. La soluzione, ha trovato la Wurtman, consiste nel rendersi conto dell'importanza della propria scorta di serotonina, e, in una certa misura, nel regolarla. Ciò significa regolare, non evitare, l'assunzione di carboidrati Eliminarli del tutto è la cosa peggiore da fare, perché così si abbassa il livello di serotonina, ingenerando nella persona a dieta un'incoercibile bramosia di carboidrati H trucco consiste in parte nel decidere e rispettare i tempi. La Wurtman fa l'esempio di una professoressa universitaria che si rivolse a lei perché durante l'anno accademico si sentiva tesa ed eccedeva nel mangiare. "Venne da me un'estate, nella speranza di poter evitare il problema nel semestre entrante. Spiegò che i medici le avevano sempre detto che non avrebbe

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dovuto mangiare carboidrati, anche se erano proprio quello che lei voleva mangiare. Il fatto che le venisse detto che le facevano male la faceva sentire incapace di controllarsi Eppure quando si concedeva dei carboidrati - quando 'indulgeva a questa sregolatezza', per usare le sue parole - sì sentiva sempre più calma." La donna avvertiva i suoi stimoli più violenti fra la metà del pomeriggio e l'ora di andare a letto, il che è caratteristica La Wurtman ha scoperto che la cosa che funziona è assecondare tali stimoli anziché sopprimerli "Le assegnai una dieta di carboidrati dalle quattro di pomeriggio fino all'ora di andare a dormire. Poteva mangiare verdure, frutta e certi tipi di latticini, ma soprattutto carboidrati come cereali, pane e pasta." Il nuovo programma alimentare trasformò radicalmente l'umore dell'insegnante. "Lo stress scomparve, ed essa mantenne il suo peso. Non riusciva a credere che fosse così facile." Dal momento che la tensione riduce il livello di serotonina, l'insegnante sentiva un maggiore desiderio di mangiare carboidrati durante il febbrile anno accademico che non in estate, quando era più rilassata. Lottando con i suoi stimoli, cercava di eliminare

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completamente i carboidrati. Questo abbassava ancora di più i suoi livelli di serotonina. A questo punto, riferisce la Wurtman, le scorpacciate di carboidrati diventavano praticamente inevitabili per la sua paziente. Era come se essa dovesse assolutamente averne. Il suo cervello li esigeva. Non comprendendo la base puramente fisiologica del suo bisogno di carboidrati, si sentiva in colpa. Era "incapace di controDarsL" Questo creava un circolo vizioso. La Wurtman liberò la sua cliente da questa schiavitù insegnandole come mangiare per alterare le sostanze chimiche del suo cervello. "Concedendole i carboidrati che chiaramente voleva, si soddisfaceva il bisogno del suo cervello di produrre più serotonina," spiega la Wurtman. "Questo faceva sì che si sentisse bene e riuscisse di nuovo a controllarsi nel mangiare." Questi studi condotti da Judith Wurtman e suo marito, Richard Wurtman, portarono alla conclusione che le diete povere di carboidrati sono destinate a fallire. La gente ha bisogno di avere l'opportunità di mangiare carboidrati non accompagnati da proteine. "È per questo che diete a base di proteine liquide creano

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sbalzi di peso così drastici," nota la Wurtman. Prima, la grande perdita di peso, poi il crollo, quindi il recupero di peso. "Bevendo due frullati al giorno e facendo un pasto a base di proteine si può perdere molto peso, ma come abbiamo mostrato con esperimenti con animali, si produce anche un decremento dei livelli di serotonina nel cervello. Come conseguenza - e noi vediamo questo con gli animali - si ha un breve periodo di esagerata assunzione di carboidrati per riassestare i livelli di serotonina. L'animale si rimpinza di carboidrati per magari un giorno o due e poi i suoi livelli di serotonina tornano alla normalità. L'animale, naturalmente, non ne risente a livello emotivo, non si mette a pensare 'Oh, come mi sento in colpa per tutta quella pappa del laboratorio che mi sono mangiato'." Quindi l'animale non fa fatica a rimettersi in sesto. In esseri umani, invece, questo senso di colpa può scatenare un nuovo attacco di deprivazione di carboidrati. E su e giù va il pendolo, su e giù. Quando Oprah Winfrey perse ventisette chili grazie a una dieta liquida, rimase entusiasta dei risultati, che presentò a un pubblico ammirato chilogrammo per chilogrammo.

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L'obiettivo finale - a cui arrivò nel giro soltanto di parecchi mesi - fu rappresentato da un paio di jeans di taglia dieci. Poi venne il crollo. H purè di patate tornò all'ordine del giorno, come confessa Oprah, il cui peso ricominciò a salire vistosamente come era calato. Un farmaco che impedisce di metter su peso Basandosi sulla teoria che fa risalire la bramosia di carboidrati alla serotonina, i Wurtman hanno condotto tentativi di cura con la D-fenfluramina. Come abbiamo visto nel capitolo precedente, dapprima provarono il farmaco con donne che mangiavano in eccesso in fase premestruale. "Abbiamo trovato che la D-fenfluramina alleviava i sintomi a carico dell'umore nella maggior parte delle donne che soffrivano di sindrome premestruale e aveva un'efficacia del 100% nel normalizzare l'assunzione di cibo." La D-fenfluramina accresce la liberazione di serotonina nelle ceDule del cervello, e inoltre ne ritarda il degrado. Fatto interessante, il farmaco non abbassava l'assunzione di carboidrati quando le donne consumavano quantità normali di cibo, all'inizio del ciclo mestruale. Nel periodo premestruale, esso si limitava a riportare la loro

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assunzione di cibo a quella che si aveva all'inizio. Quindi, i Wurtman sono convinti, non è possibile abusare di D-fenfluramina. Essa non potrebbe essere usata da donne di peso normale per arrivare a una malsana magrezza. Come la depressione e il panico, e perfino certe dipendenze, la bramosia di carboidrati è episodica. La Wurtman dice che è necessario che i medici sappiano che in ogni paziente che è stata obesa, l'obesità tornerà e quando tornerà dovrà essere curata. "Noi non aspettiamo che una persona manifesti propositi suicidi prima di ordinargli degli antidepressivi," osserva. Una volta che sono disponibili i farmaci, "non è necessario che i medici debbano aspettare che qualcuno sia cresciuto di ventisette chili per ricorrervi." Dato che gli episodi di eccessi alimentari sono spesso prevedibili, si è cominciato a vedere secondo una nuova ottica gli sforzi per il controllo del peso corporeo. "Poniamo che una donna stia scivolando nella menopausa e che la fase lutea del suo ciclo mestruale sia di ventun giorni ogni mese. È un periodo tremendamente lungo per delle intemperanze alimentari. Si può immaginare che in una situazione dels

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genere si potrebbe mettere su un peso considerevole. È possibile prevederlo. Si può anche prevedere che se una persona è sotto tensione prolungata è facile che acquisti peso, dato che mangiare carboidrati allevia la diminuzione di serotonina prodotta dallo stress. Se c'è un calo considerevole dell'attività fisica, questo lascia prevedere un aumento di peso. Smettere di fumare lascia prevedere un aumento di peso." I Wurtman sono convinti che, a giudicare da come stanno andando le prove di cura, la D-fenfluramina possa essere usata episodicamente per il controllo del peso. La metodica sarà simile a quella seguita con gli antidepressivi. "Si cura una persona della sua depressione, e dopo un certo tempo si smette di somministrare l'antidepressivo. Prima che torni a essere depressa possono passare anni come sei mesi. Ma nessuno psichiatra direbbe mai: 'Io l'ho curata nel 1987 della sua depressione. Non ha diritto di ridiventare depressa'." L'eccessivo indulgere ai carboidrati, quindi, ha la sua radice nella fisiologia del cervello. D lavoro dei Wurtman è innovativo perché inquadra nettamente l'iperalimentazione episodica entro i confini della medicina. La fame

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ossessiva di carboidrati è reale: un bisogno fisico che deriva da un'inadeguata presenza di sostanze chimiche alteratoci dell'umore nel cervello. Chiesi a Judith Wurtman di azzardare una congettura sulla percentuale di persone obese che soffrono di bramosia di carboidrati chimicamente indotta. "Per le donne, probabilmente arriva all'80%," rispose. "Molte donne provano questa fame violenta di carboidrati' se non cronicamente, sicuramente in fase premestruale." La fame di carboidrati è meno diffusa fra gli uomini La Wurtman sospetta che l'obesità negli uomini sia spesso connessa con l'assunzione di alcoL "E l'alcol senza dubbio esercita un effetto sulla serotonina. Po- tremino dire che, negli uomini, è la sostanza che viene consumata al posto dei carboidrati" Questo mi fece pensare a tutte le volte che avevo notato come gli uomini ordinassero del liquore alla fine del pasto. Le loro mogli ordinavano invece il dessert. 6 'Bambini angosciati LJ na volta... scrisse una poesia. E la intitolò "Chops", perché così si chiamava il suo cane, ed era di quello che la poesia parlava. E l'insegnante gli diede dieci e una stella dorata e sua

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madre l'appese alla porta della cucina, e la lesse a tutte le sue zie... Una volta... scrisse un'altra poesia. E la intitolò "Innocenza punto interrogativo", perché così si chiamava la sua angoscia, ed era di quello che la poesia parlava. E il professore gli diede dieci e una strana e insistente occhiata. E sua madre non l'appese mai alla porta della cucina perché lui non gliela fece vedere... Una volta, alle tre del pomeriggio... cercò di scrivere un'altra poesia.., E la intitolò assolutamente niente, perché era di quello che la poesia parlava. E diede a se stesso dieci e un fendente su ciascun polso bagnato, e l'appese alla porta del bagno perché non riuscì ad arrivare in cucina.* * Scritta da un ragazzo di quindici anni prima di suicidarci. E possibile che dei bambini soffrano di vera e propria depressione? Fino a dieci anni fa si riteneva di no. Gli psichiatri tradizionali credevano che i bambini prepuberi fossero privi della "profondità" emotiva e cognitiva necessaria per soffrire di reale depressione. "Non puoi affliggerti per una perdita se non sai di avere perso qualcosa," era l'idea. Per dirla in termini crudi, era come se i bambini non sapessero

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abbastanza per poter diventare depressi. Quando le nuove acquisizioni sull'origine biochimica della depressione cominciarono a mutare le concezioni sulle turbe dell'umore che si avevano in psichiatria, i ricercatori cominciarono a chiedersi se anche i bambini potessero andare soggetti come gli adulti a queste malattie. Nell'ultimo decennio, alcuni studi hanno mostrato che bambini e adolescenti non solo possono soffrire di depressione ma anche di tutte le altre forme di disturbi emotivi. In effetti la depressione è diffusa in modo allarmante fra i bambini, e in larga misura passa inosservata. Oggi certi ricercatori pensano che forse stiamo osservando nei minori il risultato finale genetico di generazioni di turbe dell'umore che non sono state curate. E hanno indubbiamente la loro parte generazioni di tos-sicodipendenze non curate. Purtroppo sono ben pochi i medici attrezzati per emettere diagnosi accurate ad adolescenti "Le cose si sono fatte complicate," lamenta Virginia Hamilton, che lavora in un consultorio per le tossicodipendenze collegato al New York Hospital che, su basi ambulatoriali, assiste principalmente

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tossicodipendenti della classe media, molti dei quali minori. "Questi ragazzi vengono qua fatti di ogni genere di droghe illegali Si portano dentro patologie psichiatriche molto complesse: depressioni atipiche, sindromi bipolari, sindromi bipolari atipiche." Una volta si credeva che i ragazzi fossero annoiati e immaturi, e le droghe erano disponibili agli angoli delle strade, e così si prendevano il vizio e di conseguenza uscivano di testa. Nuovi studi mostrano che il contrario si avvicina di più alla realtà. Come vedremo in questo capitolo, ricerche compiute da scienziati specializzati in questo campo e medici d'avanguardia come Virginia Hamihon mostrano chiaramente che nella maggior parte dei casi - secondo la Hamilton il 70-80% delle volte -i ragazzi sono prima ammalati. Si danno all'alcol e alle droghe a nove, dieci e undici almi perché sono ammalati. "Credono in questo modo di curarsi," spiega la Hamilton. E poi diventano tossicodipendenti. Una volta che lo sono diventati, sono trattati come tali Le malattie alla base di tutto vengono quasi sempre ignorate. Per colpa dell'involontario pregiudizio psichiatrico contro i bambini - l'idea che sono troppo immaturi per diventare depressi -

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molti, se non la maggioranza, dei bambini con gravi turbe dell'umore sono stati diagnosticati come schizofrenici. I medici tendono ancora a trattare in blocco tutte le bizzarre fissazioni, manie di grandezza e fughe d'idea come sintomi di "schizofrenia". I genitori, terrorizzati da quanto sta succedendo ai loro figli, di solito sentono di non poter fare altro che accettare la diagnosi Questo è tragico, perché un bambino con una turba dell'umore non può migliorare col tipo di farmaci usati per curare la schizofrenia. Inoltre le turbe dell'umore rispondono enormemente meglio alla cura che la schizofrenia; i bambini, quindi, vengono scaricati in ospedali e abbandonati a programmi destinati a mantenerli ammalati, perché la loro malattia non è stata correttamente diagnosticata. Steven, che fu mandato da sua madre da uno psichiatra di New York, fu finalmente riconosciuto come depresso. Ma la sua storia, raccontata sia dal ragazzo sia da sua madre in interviste separate, illustra i molti problemi che un giovanissimo deve affrontare in una società che è mal preparata a offrire una diagnosi esatta e una buona terapia ai minori affetti da turbe psichia-triche. La storia diSteven

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Steven aveva cominciato a diventare depresso nell'autunno del suo ultimo anno di liceo. Era stato, a confronto con suo fratello, la perla della famiglia, quello che aveva sempre fatto faville a scuola e non aveva mai portato a casa una brutta nota. Ma adesso non riusciva a concentrarsi e aveva smesso di fare i compiti Una sera telefonò a sua madre - i suoi si erano separati parecchi anni prima, e lui aveva scelto di vivere a New York, con suo padre - e le disse: "Mamma, voglio che telefoni a qualcuno e ti faccia spiegare perché non faccio che pensare alla morte. La mia mente continua a girarci intorno. E sono troppo giovane per pensieri del genere." Esther, una psicoioga scolastica, rimase colta alla sprovvista da quell'annuncio che giungeva come un fulmine a cielo sereno. Steven era sempre stato un ragazzo lieto e bene adattato. Ma essa sapeva che i pensieri di morte erano qualcosa di serio: qualcosa che lei, come madre, non si sentiva in condizione di affrontare. "Steve, penso che dovresti parlare a quattrocchi con qualcuno per scoprire perché hai questi pensieri," gli suggerì. "Ti troverò uno psichiatra." Steven accettò e fu mandato da uno psichiatra, l'amico di

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un amico di un parente. Egli disse che Steve era decisamente depresso. I suoi pensieri di morte avevano implicazioni di suicidio. H medico fu del parere che il ragazzo dovesse essere immediatamente sottoposto a terapia antidepressiva, ma avvertì che gli antidepressivi triadici scatenavano a volte episodi maniacali. Quando si fa la diagnosi a una persona giovane, può essere difficile dire se la depressione è unipolare o bipolare, e nel caso della forma bipolare i triciclici possono scatenare episodi maniacali. Anche altre sostanze possono scatenarne, fra cui cocaina, anfetamine e allucinogeni. Quando queste droghe illegali producono questo effetto, di solito dipende da una sindrome bipolare di base che è stata scatenata dallo stimolo biochimico. Steven non aveva mai sentito parlare di sindrome maniaco-depressiva prima di questa visita psichiatrica, ma era un giovane serio e fece attenzione a quanto gli era stato detto. Il medico gli aveva raccomandato di telefonargli immediatamente se avesse cominciato a sentire che stava andando "su di giri". Non si tratta semplicemente del fatto di sentirsi bene, aveva spiegato il medico. "Noterà un

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afflusso di energia nervosa, il suo pensiero si farà sempre più rapido, sentirà che sta perdendo il controllo di sé. La sindrome maniaco-depressiva sulle prime può dare la sensazione di stare ottimamente, ma non tarda a diventare molto penosa." Gli antidepressivi non parvero essere di grande giovamento, ma Steven proseguì la cura per un paio di mesi. E poi, una sera, Esther ricevette un'altra telefonata. Il padre di Steven era fuori città per motivi di affari, e Steven si sentiva molto ansioso. "Ho paura di avere un attacco maniacale, mamma," annunciò. "Sto andando su e giù per la stanza, non riesco a stare seduto." Esther gli consigliò di recarsi neU'appartamento di sua madre, all'altro capo della città, e di starsene tranquillo fino al suo arrivo. Poi montò in macchina e due ore dopo giunse in città. Quando arrivò Steven si era addormentato, ma la mattina dopo iniziò un dramma che comprendeva una lotta di potere fra i genitori divorziati, ciò che indubbiamente era negligenza da parte del medico, anche se non gli fu intentata causa, e "tempeste" emotive di proporzioni terrificanti. Steven, il figlio bravo, lo studente modello, intelligente, pieno di curiosità, giudizioso e sollecito, trovò il

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proprio mondo rovesciato dalle fondamenta. Aveva avuto ragione nell'intuire che cosa gli stava succedendo. Stava effettivamente cadendo preda di una crisi maniacale. Gli fu prontamente prescritta una cura di litio per impedire che la sua sindrome si aggravasse. H farmaco funzionò e in capo a una settimana egli si sentì tornare un po' più in sé. Gli fu comunque consigliato di continuare la cura. Steven non si sentì mai molto a suo agio col fatto di dover prendere la medicina. Non gli andava l'idea di averne bisogno per sentirsi bene, e in ogni modo non era convinto di averne veramente bisogno. Dopotutto, aveva solo accusato un po' d'insonnia, qualche fuga di pensieri. Non era mai veramente sprofondato in uno stato maniacale. D'altra parte, grazie al litio il suo umore si era stabilizzato. Non era più torturato dalla depressione, non aveva più forti alti e bassi e aveva riacquistato il proprio autocontrollo. Sotto la guida del suo psichiatra, e dietro l'insistenza dei suoi genitori, accettò di continuare a prendere la medicina. Durante l'estate si sentì abbastanza bene, anche se gli sbalzi d'umore dell'inverno e della primavera

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l'avevano fatto un po' penare. La stigmatizzazione sociale di qualsiasi problema medico, in particolare di una turba psichiatrica, è segnatamente difficile da superare per degli adolescenti Steven non aveva ricevuto nessuna assistenza psicoterapeutica che avesse potuto aiutarlo ad affrontare la sua malattia, ed essa lo preoccupava molto. Quell'autunno, tuttavia, partì per l'università, sperando per il meglio. Fece subito comunella con i suoi colleghi e cominciò a trovare gradevole quel suo primo periodo di lontananza da casa. Trovò però imbarazzanti i suoi incontri settimanali con lo psichiatra che gli era stato assegnato dal servmo sanitario scolastico. Non si sentiva in sintonia con lo psichiatra e non sapeva di cosa parlare con lui Ben presto le sue sedute settimanali si ridussero a una visita di controllo di dieci minuti e ogni tanto un'analisi del sangue. In quanto al dover prendere quelle pillole prima dei pasti e prima di andare a letto, l'intera faccenda lo faceva sentire strano, come se fosse diverso dagli altri. Aveva accennato alla sua esperienza a un paio di amici, e anche se essa non li aveva

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impressionati più di tanto neppure era parso che ci avessero capito gran che. E come avrebbe potuto aspettarsi qualcosa di diverso? Neppure lui capiva bene la sua condizione. Trovava anche difficile uscire a bere con gli altri il venerdì sera, perché dopo un paio di birre si metteva a farfugliare e a comportarsi da ubriaco. Aveva cominciato a pensare che il suo problema principale nella vita fosse il litio. B novembre andò all'ambulatorio e disse al medico che voleva smettere. Lo psichiatra, che fin dall'inizio non aveva visto molto di buon occhio l'idea del litio - questo ragazzo non aveva mai avuto un completo episodio maniacale, e quindi perché gli era stata ordinata questa medicina? -diede il suo assenso. Steven poteva smettere di prendere il litio purché si facesse controllare ogni qualche settimana dallo psichiatra. Ma non si sottopose a questi controlli. Si tuffò nella vita universitaria, sperando di essersi ormai lasciato ale spalle la depressione. Sembrava che fosse così, ma poi, in marzo, cominciò a sentirsi esagitato. Questo stato di agitazione si acuì fino ad accompagnarsi a turbe del sonno. Allora Steven tornò dallo psichiatra e gli disse: "Mi sento proprio strano. Credo che mi convenga

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riprendere il litio." "Perché non aspettiamo ancora qualche giorno?" fu il consiglio dello psichiatra. "Torni lunedì così le faccio un'altra visita." Il college di Steven era in Canada, dove gli psichiatri snobbano di più di quelli degli Stati Uniti i farmaci psicotropL Quando tornò, qualche giorno dopo, si sentiva soddisfatto di sé "Tutto è cambiato," annunciò. "Non ho più bisogno del litio. Mi sento benone, proprio benone." "Perfetto," assentì lo psichiatra. E Steven se ne andò... come volando. In capo a qualche giorno si trovò completamente privo di freno: correva qua e là scalzo, beveva birra proprio mentre stava per dare gli esami, saltabeccava per le vie di Montreal cantando. "Mi sentivo in modo fantastico," ricordò. "Mi sentivo da dio." Un dio che aveva poco più di diciotto anni. E che era alla mercé di uno psichiatra che non era capace di curare la depressione bipolare. Alla fine, uno dei direttori della casa degli studenti prese le redini della situazione e lo fece ricoverare in un ospedale. Esther arrivò il giorno dopo. "Ho fatto fatica a riconoscerlo," riferì in seguito. "Quello non era mio figlio. Urlava, era ostile, offensivo. Hanno dovuto mettergli la

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camicia di forza. È stato terribile. Che cosa gli era successo? Ancora oggi, quando ci penso..." Steven, spiegò lo psichiatra dell'ospedale, era nel mezzo di un vero e proprio episodio maniacale: una psicosi "Le infermiere mi hanno detto di non preoccuparmi 'Abbiamo già visto crisi del genere. Suo figlio tornerà in sé in poche settimane.' Non so cosa avrei fatto se non me l'avessero detto." Il primario prescrisse a Steven la carbamazepina, un farmaco anticonvulsivo spesso impiegato per curare sindromi bipolari a ciclo rapido come coadiuvante del litio. Dopo qualche settimana i sintomi cominciarono ad attenuarsi, ma l'esperienza aveva avuto un costo terribile in termini di sofferenza. "Non sento di essermi rimesso completamente," ci disse sei mesi dopo l'episodio. "Sento che sto ancora risalendo la china." Quanti soffrono? Dal 1980 la depressione infantile è diventata un'entità dinica accettata. Ci sono ancora medici che sostengono l'impossibilità per dei bambini di diventare depressi, ma questo va contro una preponderante mole di prove. Un recente studio mostra che l'8% dei bambini in età prescolare mostra segni di depressione dinicamente

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significativa! Col crescere dell'età, le probabilità dei bambini di diventare depressi aumentano. Uno studio del 1982 su quasi tremila bambini e ragazzi fra il terzo e il nono anno di scuola appurò che un impressionante 15% presentava sintomi di depressione. Lo stesso studio riscontrò che quando raggiungono i quindici anni la percentuale è di un depresso su cinque. La depressione clinica, nei giovanissimi, non è semplicemente una fase transitoria. In media un episodio di depressione grave dura sette mesi, e in certi soggetti molto di più. Meno anni ha il bambino, più l'episodio è lungo, secondo Maria Kovacs, uno dei principali ricercatori degli Stati Uniti nel settore della depressione infantile. Un instaurarsi precoce di questa malattia, avverte, ha anche una prognosi meno favorevole: specie quando la depressione non viene riconosciuta e curata.2 Una volta che un bambino ha avuto un episodio di depressione grave, ci sono probabilità elevate che ne abbia un altro. H 72% dei bambini studiati dalla Kovacs ebbero una recidiva di depressione grave in capo a cinque anni. Mentre la depressione grave è una cosa terribile da osservare in un

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bambino, in realtà è più facile da curare della più blanda depressione distimica. Nei bambini, specifica la Kovacs, la distimia è "la più cronica e la più complicata" delle depressioni. La malattia dura molto di più: in media tre anni. Per qualche motivo, le depressioni distimiche sono quasi sempre accompagnate da altre affezioni psichiatriehe. Bambini e adolescenti soffrono di ogni sorta di turbe dell'umore: e possono diventare ammalati esattamente come gli adulti. Quando i loro disturbi emotivi non vengono curati, peggiorano. L'impiego clinico degli antidepressivi e del litio in bambini e adolescenti è diventato molto più diffuso nell'ultimo decennio a misura che è migliorata la conoscenza dei gravi effetti di queste patologie sullo sviluppo dei minori. La diagnosi della depressione negli adolescenti non è sempre facile. Come Fred Goodwin e Kay Jamison fanno rilevare, la depressione è spesso scambiata per qualcos'altro. Un calo del tono energetico e la letargia, specie in un adolescente in condizioni normali attivo, può essere facilmente scambiato per qualche altra malattia. "Inoltre, non sempre il morale ne

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risente, il ragazzo può avere problemi specifici dell'età nel comunicare condizioni emotive e altri stati soggettivi, e i medici tendono a considerare la depressione e la sindrome maniaco-depressiva come malattie dell'età adulta," scrivono gli scienziati3 L'ipomania è una forma di depressione che nei bambini può essere facilmente scambiata per iperattivi-tà. Parecchi tratti la distinguono. L'ipomania è caratterizzata da sbalzi d'umore, turbe della sfera affettiva nella storia della famiglia e un'iperattività che è episodica anziché costante. Quando bambini con sindrome bipolare sono stati confrontati con quelli affetti da deficit dell'attenzione, i bambini maniaco-depressi hanno rivelato una maggior patologia complessiva del comportamento e un maggior disadattamento. La sindrome bipolare negli'adolescenti può essere scambiata per un sintomo dì personalità antisociale, dato che entrambe sono caratterizzate da comportamenti impulsivi quali taccheggio, abuso di sostanze, aggressività e azioni per cui si mettono nei guai con la giustizia. Fattori che sono utili per distinguere i minori affetti da

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sindrome bipolare sono un comportamento antisociale che si accompagna a un umore esaltato o irritabile, l'assenza di un conflitto di coscienza e la relativa mancanza di un comportamento influenzato dai coetanei. Goodwin e Jamison sostengono che fra i preadolescenti l'abuso di alcol è molto strettamente associato a turbe dell'umore. In uno studio, sette casi su dieci di abuso di bevande alcoliche o di dipendenza dall'alcol in adolescenti si abbinavano a sindrome bipolare o ciclo-timica, e i restanti tre casi erano strettamente correlati a turbe depressive. Gli episodi maniacali sono dolorosamente distruttivi per chiunque ne soffra, ma questo è particolarmente vero per un giovanissimo che non abbia ancora pienamente sviluppato la sua identità. "Misericordiosamente," ha scritto uno psichiatra su una rivista medica, "molto di quanto avviene durante un episodio maniacale non viene ricordato dal paziente." Ma proprio questo oblio, unitamente allo strano trattamento riservato al paziente da medici, personale paramedico e familiari, può risultare emotivamente devastante. Le medicine non bastano Steven passò un mese in

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ospedale a Montreal in una camicia di forza. "Non sono mai riuscito a capire perché avessero dovuto mettermi in camicia di forza," ricorda. "È stato orribile. Il corpo mi s'irrigidì tutto. Avevo esperienze religiose, come mi dissero le infermiere. Avevo l'impressione che non mi prendessero sul serio." Esther volle che Steven restasse nell'ospedale fino alla guarigione completa, ma Edgar, il padre di Steven, un facoltoso proprietario di ristoranti di New York, si recò in volo a Montreal e insistette perché il ragazzo tornasse in famiglia il più presto possibile. "Mi incaricherò io di questa faccenda," assicurò. Non gli piaceva quello che stava succedendo. Le cose erano sfuggite di mano, fin da quando il ragazzo era andato da quel primo psichiatra a New York e cosi era cominciata tutta quella storia di medicine. "Ma è chiaro come il sole che è malato," osservò Esther. "Adesso lo è," obiettò Edgar. "Ma forse non lo sarebbe se non avesse cominciato a prendere quella roba." Edgar rientrò in aereo a New York portando Steven con sé, ed Esther tornò in macchina alla sua casa nello stato di New York. Ma non passò molto che Steven dovette farsi ricoverare di nuovo in

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ospedale. La tensione di dover gestire la situazione - con suo padre che non riconosceva pienamente la sua malattia, e con sua madre che si accapigliava ogni giorno per telefono con Edgar - fu eccessiva. Egli riscivolò nella mania depressiva. Anche se fu riportato sotto controllo in un paio di settimane, questa volta rimase in ospedale un mese e mezzo. Benché scosso da quanto gli era successo, tornò al college in autunno. Sua madre era indecisa se farlo restare a casa per un semestre perché si rimettesse in sesto o se farlo tornare alla vita normale il più presto possibile. Steven oggi è contento di essere tornato a casa, ma allora non era per niente sicuro che avrebbe potuto farcela. Aveva avuto un'esperienza sconvolgente e spaventosa e non era neppure sicuro di che cosa si fosse trattato. A Steven, purtroppo, non era stata offerta una terapia. Uno psicofarmacologo di New York gli aveva dato istruzioni per l'uso delle sue medicine e aveva detto che, se necessario, si sarebbe consultato per telefono con lo psichiatra canadese. Era stata Esther a sistemare così le cose. Si rendeva dolorosamente conto che il sistema sanitario, soprattutto nella persona dello psichiatra del

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college, aveva rovinato suo figlio. Se non fosse stato per l'atteggiamento irresponsabile dello psichiatra della scuola nei confronti dei farmaci, probabilmente Steven non avrebbe mai avuto un episodio maniacale vero e proprio. Ma d'altro canto Esther sapeva che doveva lavorare all'interno del sistema. Cos'altro poteva fare? Prima del rientro a Montreal di Steven, Esther telefonò allo psichiatra della scuola nella speranza di stimolarlo a un maggior senso di responsabilità "Steven deve assolutamente continuare a prendere le sue medicine," insistette. "Non sì può permettere che smetta la cura, come ha fatto l'anno scorso." Riferì al medico quanto era successo al ragazzo, e alla fine lo psichiatra si scusò. Giurò che questa volta non l'avrebbe perso di vista. Esther si sentì abbastanza rassicurata. Un mese dopo, preoccupata perché Steven sembrava abbacchiato, a giudicare dalla sua voce al telefono, fece il numero dello psichiatra e gli chiese se non fosse il caso di aumentare il dosaggio. "Lasci fare a me, questo è di mia competenza," tagliò corto il medico. Qualche settimana dopo Esther richiamò lo psichiatra dicendogli che adesso era proprio preoccupata.

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Steven si era lamentato di sentirsi ancora giù di corda e di non avere molti amici. Tornare all'università per il suo secondo anno dopo l'esperienza dell'estate era stato evidentemente molto gravoso per lui. Esther chiese allo psichiatra: "Non c'è da voi qualche gruppo con persone che siano passate per esperienze come la sua?" "Una volta che ha sviluppato un attaccamento nei miei confronti, non ha bisogno di nessun gruppo," rispose lo psichiatra. Esther non sapeva cosa fare. Era stata la sua prima esperienza con un ragazzo affetto da una turba dell'umore. Possibile che lo psichiatra non ne sapesse più di lei? C'era da sperare che la sapesse più lunga. Ma evidentemente la speranza era ingiustificata nel caso di quello psichiatra. Steven fece un altro anno di college e, ptendendo il suo litio, riuscì a evitare altri episodi maniacali gravi Ma il suo senso di identità era stato gravemente scosso dalla malattia. Aveva bisogno di psicoterapia, ma quello che otteneva dallo psichiatra della scuola era poco più di un controllo superficiale: se era troppo su, se era troppo giù, se era più o meno stabile. "Ma non puoi mandarlo da un altro psichiatra?" domandai a Esther

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quando mi espose la situazione. "Non rientra nell'assicurazione sanitaria della scuola," rispose. "Dubito che suo padre pagherebbe per uno psichiatra esterno. Non ha ancora accettato il fatto che Steven è malato." Soldi Esther non ne aveva, ed Edgar pagò di tasca sua per cercare di controllare una situazione che trovava profondamente angosciarne. Lui stesso aveva avuto crisi depressive, e anche se non era mai stato ospedalizzato aveva avuto esperienze che suo figlio sospettava fossero maniacali. "L'ho visto gridare e sbracciarsi," ci riferì Steven. "È molto irritabile e agitato, e fa presto a perdere le staffe. Perciò il fatto che io sia ammalato lo minaccia personalmente." Steven sentì che avrebbe dovuto mettercela tutta per farcela da solo. C'erano molti problemi che doveva risolvere, molti dei quali avevano a che fare con la sua impressione di essere "diverso". Per esempio, non gli andava l'idea di prendere le pillole in presenza degli amici e si sforzava di ricordarsi di farlo prima dei pasti, nel segreto della sua stanza. Insomma, si vergognava. Negli adolescenti, la stigmatizzazione delle turbe psi-chiatriche è particolarmente forte. Confessò

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Steven: "E difficile parlarne con gli amici, e non mi piace quando sento mia madre accennarne a qualcuno. Ho la sensazione che ci sia qualcosa che non va nei miei rapporti con gli altri. Credo che in un angolo della mia mente ci sia l'ombra di quella mia esperienza che non mi fa essere come gli altri." C'è molto nella vita di tutti i giorni dì questo ragazzo di diciannove anni a ricordargli che effettivamente non è come gli altri. "Ci sono cose che quando prendo il litio non posso fare. Non posso bere bevande alcoliche, non posso perdere ore di sonno. Perdere una notte di sonno può aggravare la sindrome maniaco- depressiva. Tutta la mia esperienza ne viene così limitata. Però, sto cercando delle scappatoie. H bere, per esempio. E quello che facciamo quasi ogni weekend. Per me è un problema, perché se bevo troppo ho una specie di reazione sinergica: mi prende una confusione generale, non capisco più niente, mi metto a farfugliare come un ubriaco, non coordino più i movimenti La notte di Capodanno sono stato a un party a New York, ed è andata così. Sono finito nel pallone, non sapevo cosa stesse succe- dendo, e allora mi sono fatto riportare a casa in taxi" Steven ha

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stabilito un programmino nel tentativo di aggirare questo problema. "Mettiamo che si presenti una grande serata e io ho finito con gli esami o qualcosa del genere e mi va di andare a fare bisboccia con i miei amici. Ho scoperto che se salto due giorni della mia cura, mantengo un certo livello di litio, e questo diminuisce un po' l'effetto dell'alcol. Lo so che non dovrei farlo, ma..." Sta scherzando col fuoco, e ne è abbastanza consapevole, ma vuole disperatamente tenersi al passo coi suoi amici È inoltre possibile che non ottenga un sufficiente sollievo dalla depressione e che beva per autocurarsi In ogni caso, dovrebbe poter ottenere l'aiuto di uno psicoterapeuta e non cercare di gestire la situazione di testa sua. Si rende perfettamente conto che la situazione è troppo seria perché possa cavarsela da solo, ma non è capace di chiedere aiuto. "Non me la sento di andare a dire ai miei genitori che ho bisogno di risolvere certe cose parlandone con un medico," ammise. "Mio padre la prenderebbe nel senso che c'è qualcosa di storto in me, che se devo farmi vedere da uno psichiatra forse significa che c'è da preoccuparsi. In

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un certo senso la prende come un affronto personale." Suggerii che forse questo era un problema di suo padre. "Sicuro che è un problema suo," concesse Steven, "ma non è che questo mi faccia sentire tranquillo. E poi mia madre dovrebbe pagarne le conseguenze, e so che non può permetterselo." Meno evidente per Steven è che se si rivolgesse a uno psichiatra ciò renderebbe la sua malattia più reale per lui, ne farebbe qualcosa da affrontare in un modo più consapevole e da accettare. Così come stanno le cose, invece, nega molto dell'impatto che la malattia ha su di lui, e cerca di relegarla nel passato. "Mi piace pensare che sono indipendente e che non sono ammalato, che sono mentalmente indipendente," dichiarò. Qualcuno dovrebbe aiutarlo a rafforzare questo fragile senso d'indipendenza. Anche se i giovani con turbe psichiatriche possono essere efficacemente curati con farmaci psicotropi, hanno ancora più bisogno di una psicoterapia aggiuntiva degli adulti. Quasi inevitabilmente, l'esperienza di una malattia psichiatrica è di nocumento per l'autostima dei giovanissimi. Inoltre, i loro rapporti con i membri

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della famiglia - proprio le persone a cui devono affidarsi per il loro sostegno morale -spesso subiscono gravi incrinature. Come successe nel caso di Steven, i genitori possono sentirsi minacciati dalle malattie psichiatriche dei loro figli. Spesso i genitori di un ragazzo con turbe dell'umore devono venire a patti con le loro stesse patologie della sfera affettiva, e così preferiscono ignorarle. Depressi precoci Come si può immaginare, la depressione ha effetti gravi e di vasta portata sulla vita di un bambino. Joaquim Puig-Antich, che è stato il primo psichiatra a dedicare la sua carriera allo studio della depressione nei bambini, riferì nel 1985 che mentre tutte le turbe psichiatriche influiscono sui rapporti sociali dei bambini, la depressione grave è di gran lunga la più pregiudizievole. Essa danneggia il rendimento scolastico e i rapporti con amici e familiari. E in particolare probabile che la relazione con la madre si faccia distante. Secondo Puig-Antich, anche dopo che i bambini sono stati curati con farmaci per la depressione, è facile che i loro rapporti con gli altri continuino a essere compromessi. Quelli con la madre possono migliorare

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moderatamente, pur mancando di "profondità". Il profitto scolastico sembra migliorare più rapidamente dei rapporti sociali. Spesso i bambini depressi non legano molto con i loro coetanei. Tendono ad avere meno amici intimi e amicizie meno durature rispetto a quelli non depressi. Lo studio di Puig-Antich rivelava non solo che i bambini depressi sono più timidi, ma anche più esposti ai dispetti degli altri. Questo, naturalmente, influisce sull'autostima, con un rafforzamento della depressione. Come succede con gli adulti, le turbe dell'umore compromettono le capacità cognitive di un bambino. A scuola, i bambini depressi possono finire con l'essere assegnati a livelli al di sotto delle loro doti intellettuali. Spesso trovano difficile concentrarsi, il che porta a una mancanza di interesse e di motivazione. Si distraggono e si stancano facilmente, e questo influisce sulle loro capacità di fare i compiti. I loro voti in lettura, scrittura e aritmetica sono sensibilmente inferiori a quelli dei bambini non depressi. Lo scarso rendimento scolastico mina ancora di più la loro fiducia in se stessi. Se il disturbo emotivo che è alla base

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di rutto questo non viene curato, i problemi scolastici e le loro conseguenze sull'autostima possono continuare neE'età adulta. La depressione infantile presenta molte delle caratteristiche della depressione degli adulti, ma certi sintomi che sono osservabili negli adulti, come il senso di colpa e la disperazione, possono non essere evidenti nei bambini Importante per emettere una diagnosi di depressione infantile è comprendere che i sintomi cambiano secondo il livello di sviluppo del bambino. Nei bambini, i segni di depressione possono essere considerati - e spesso lo sono - come un comportamento più o meno "normale". Il rifiuto della frequenza scolastica, per esempio, può essere segno di depressione in un bambino, e spesso genitori e insegnanti non lo riconoscono. Anche uno scarso profitto scolastico è rivelatore; d'altra parte un bambino può fare faville a scuola eppure essere cinicamente depresso. Di solito i genitori non sono capaci di riconoscere le turbe mentali nei loro figli. La maggior parte dei bambini che vengono messi in cura lo sono perché i loro problemi vengono notati a scuola. Una donna da noi intervistata disse che da piccola,

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quand'era all'asilo, era così "ostile" che la scuola materna privata a cui fu mandata si rifiutò di ammetterla. Quello che di solito viene osservato in bambini con turbe dell'umore, spiegò la psicoterapeuta della famiglia Karen Gainer in un'intervista, "sono la difficoltà a concentrarsi, Io scarso profìtto scolastico o un deficit di attenzione, che gli insegnanti considerano 'iperattività'. Oppure i bambini rivelano qualche tipo di comportamento anomalo, o incorrono facilmente in incidenti" Così, quando il bambino che è depresso viene sottoposto a una vìsita psichiatrica, di solito è perché il suo comportamento disturba qualcuno. I bambini il cui comportamento non disturba vengono il più delle volte lasciati senza cure mediche: finché non si vengono a trovare in una situazione grave. Eppure, quando si traccia una storia dello sviluppo della malattia, osserva la Gainer, "i suoi genitori dicono; 'Oh, mio Dio, ma certo, è sempre stato così. E sempre stato molto instabile, ha sempre fatto un mucchio di storie per delle sciocchezze e ha sempre avuto difficoltà a calmarsi e a consolarsi.' Oppure ti dicono: 'Ha sempre avuto periodi così: molto

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stordita, sciocchina, con attacchi di ridarella. Un minuto era così e un minuto dopo metteva il muso e faceva i capricci.' Quando noi medici sentiamo descrizioni del genere pensiamo che si tratti di 'depressione agitata'. Essa si manifesta più chiaramente in bambini che in adulti." Quando ì genitori osservano questi bronci e questa irritabilità, di rado pensano alla "depressione agitata". Pensano: "Cosa posso fare per togliermi dai piedi questo bambino?" Segfii e sintomi H bambino quieto, "buono", può patire di una sofferenza intcriore. Sembra che in particolare le bambine soffrano in silenzio. La psicoioga Anita Gurian fa osservare che "genitori e insegnanti vedono la ragazza docile o schiva socialmente più adeguata del ragazzo docile o schivo." Per questo motivo, i genitori tendono a rivolgersi al medico più presto per un figlio schivo che per una figlia. L'età svolge un ruolo importante nel modo in cui un bambino rivela di essere depresso. La dottoressa Gurian, psicoioga decana e specialista di sviluppo infantile presso il centro medico ebraico di Long Island, afferma: "II neonato può subire un ritardo nella crescita, il lattante

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può avere eccessi di stizza prolungati, il bambino della scuola materna può essere apertamente aggressivo o scontroso, quello più grandicello può non accettare la scuola, l'adolescente può rifiutarsi di prestare ascolto." Purtroppo la tendenza della diagnostica infantile è di concentrarsi sui sintomi che caratterizzano la depressione degli adulti: ossia affaticamento, pensieri di suicidio, scarsa autostima e tendenza all'isolamento. Questo è un errore, avverte la dottoressa Gurian, perché bambini depressi possono non presentare tali sintomi o accusarne altri che si manifestano più chiaramente. Un bambino di nove mesi, per esempio, può rivelare difficoltà nella crescita. La sua giovanissima madre può avere frequenti crisi di pianto e idee di suicidio. Il bambino non mostra reazioni, sembra dormire più della norma, "ha un'aria assente e distante," nota la Gurian, e cresce troppo lentamente. Un pediatra, osservando questa sindrome, dovrebbe pensare a un caso di depressione. "Celia", di nove anni, la mattina non vuole decidersi ad andare a scuola. Ha paura che le facciano i dispetti e che non le riesca di fare i compiti in classe. (Quando Celia aveva due anni sua madre diventò depressa e

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dovette essere ospedalizzata.) Una bambina di dieci anni fa sogni a occhi aperti sul banco, e a casa non fa mai i compiti e passa molto tempo davanti alla TV rimpinzandosi di dolciumi. Spesso rimane a letto fino a pomeriggio inoltrato, scende per il pranzo e poi torna a letto. Una undicenne va molto bene a scuola ma continua ad affliggersi per il suo profitto. Ogni sera pena sui compiti e alla vigilia di un esame resta sveglia in angustie per metà della notte. In generale, sostiene la Gurian, i sintomi di depressione sono più diffusi nei bambini più piccoli. Sentimenti come il senso di colpa non sembrano manifestarsi che più tardi, nell'adolescenza. Secondo certi psicoterapeuti, la disperazione non si presenta prima dell'adolescenza, anche se ciò non sembra concordare col fatto che dei bambini si suicidano. È vero che spesso i bambini non esprimono apertamente sentimenti di tristezza, ma è possibile vederli tristi e annoiati, notare che perdono interesse per attività in precedenza gratificanti, che si comportano sempre più in un modo teso a richiamare su di loro l'attenzione per comunicare il senso di malessere e/o ottenere sollievo dalla depressione. Se si vede un

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bambino che fa il diavolo a quattro per la casa, incapace di star fermo, che interrompe le conversazioni degli adulti, tira la coda al cane e in generale si comporta come una peste, è facile trovare, nella stessa casa, una madre o un padre - o entrambi - con turbe dell'umore. Se interpellati direttamente, questi bambini "possono usare termini come 'di schifo', 'cattivo', 'brutto' per descrivere il loro umore. Anche se i bambini depressi il più delle volte non usano la parola "triste" per descrivere il loro stato d'animo, Peter sa essere molto esplìcito. "Questo è un bambino che dice: 'Sì, mi sento triste. Quasi sempre mi sento triste."' Riferisce Karen Gainer: "C'era qualcosa che lo faceva sentire meglio? Una cosa sola, secondo lui: andare sulla sua biciclettina." All'età di quattro anni aveva visto sua madre assassinare suo padre. Oggi, due anni dopo quel trauma, è ancora depresso. A vederlo, però, l'ultima cosa che si può pensare è "Questo bambino è depresso." Peter sembra tutt'altro che depresso, fa notare la Gainer. "E un ragazzino che, se ti siedi con lui in una stanza, ti fa girare la testa. L'impressione che ti fai è che sia molto iperattivo. Ma se guardi il quadro più ampio, puoi

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renderti conto che quello che ha è in realtà una depressione di tipo agitato." Il bambino con sindrome bipolare Non è ancora chiaro perché, ma la sindrome bipolare è in aumento in bambini e adolescenti. Come si è notato all'inizio di questo capitolo, i medici non si rendono conto di questa realtà. Uno studio del 1985 trovò che su quarantaquattro bambini che avevano genitori affetti da sindrome bipolare e che inoltre mostravano chiari sintomi di depressione, nessuno aveva ricevuto una dia-gnosi di turba affettiva, anche se tutti erano stati in precedenza visitati da diversi specialisti di salute mentale. Lo studio, condotto da Hagop Akiskal, un'autorità mondiale nel campo dei disturbi della sfera affettiva,7 trovò che le diagnosi emesse per questi bambini erano state invece di schizofrenia, reazione di adattamento o comportamento anomalo. I motivi principali per cui furono in primo luogo affidati alle cure di Akiskal furono comportamento bizzarro, problemi di droga, idee o tentativi di suicidio e insuccessi scolastici: tutte caratteristiche delle turbe dell'umore. Quando Akiskal studiò i bambini, trovò un'elevata incidenza di episodi depressivi acuti, distimia

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e cidotimia (una versione più blanda di sindrome bipolare). I bambini furono seguiti per tre anni. Nessuno di loro aveva, o sviluppò mai, schizofrenia. H 39%, che in precedenza avevano avuto sbalzi d'umore di minore entità e avevano abusato di diverse droghe, a un certo punto cominciarono a sviluppare ciò che alla fine diventò una vera e propria sindrome bipolare. Come si presenta la sindrome bipolare nei bambini? I bambini più piccoli che soffrono di questa malattia mostrano in genere intensi sintomi ciclici Come scrive Robert De Long, "Le pietre di paragone del quadro dinico della sindrome bipolare infantile sono l'intensità e la ciclicità dei sintomi." Tutte le emozioni sono anormalmente intense, ma "irritabilità, ira e collera sono particolarmente cospicue in questi bambini. Più i sintomi sono intensi, rancorosi, furibondi e protratti, più è probabile che il bambino risponda positivamente a una cura di litio."8 Questo significa, naturalmente, che il bambino affetto da sindrome bipolare può essere curato. Caratteri tipici dei bambini affetti da sindrome bipolare sono anche un comportamento sciocco, pagliaccesco,

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sovreccitato, chiacchierino all'eccesso, con ipertrofia dell'immaginazione e ideazione incontenibile. Questi bambini possono manifestare il tipo di depressione che è espresso da un comportamento schivo e inibito, oppure da un'estrema agitazione che a volte si unisce alla collera. Nel 1990 De Long suggerì, al congresso annuale deU'American Psychiatric Assotiation, che molti tipi di comportamento in precedenza considerati "di opposizione" potessero essere in realtà forme di sindrome bipolare che finora non erano mai state diagnosticate. La prima traccia che cerca nei bambini è una storia familiare di sindrome maniaco-depressiva in parenti (specie se è accertato che questi parenti sono reattivi al litio). Particolarmente indicative per lui sono patologie non diagnosticate in consanguinei che possono rappresentare casi di sindrome maniaco-depressiva: certi tipi di sotiopatia, per esempio, abuso di sostanze, suicidio, gravi depressioni cicliche e depressioni puerpera!. De Long e il suo gruppo di ricercatori dell'università della Carolina del Nord hanno trovato che nei bambini l'incontinenza intestinale, ovvero l'abitudine di

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farsela addosso, è fortemente associata alla sindrome bipolare. Quando il bambino, oltre a questa incontinenza intestinale, presenta problemi di comportamento, come una caparbietà eccessiva, o evidenti turbe dell'umore cicli- che, bisognerebbe senz'altro, secondo De Long, prendere in considerazione una diagnosi di sindrome bipolare infantile e l'opportunità di ricorrere a una terapia a base di litio. Il 50% dei bambini da lui osservati con incontinenza intestinale incurabile hanno risposto bene al trattamento col litio. Importante per una diagnosi di sindrome bipolare è anche il profilo cognitivo del bambino. Anch'esso è caratterizzato dall'intensità. I bambini affetti da sindrome bipolare provano acuti interessi e possono concentrarsi su qualcosa di loro gradimento per ore di fila. I bambini con questa sindrome sono ostinati e di spirito indipendente. "Possono essere facili a distrarsi, o anche assumere un atteggiamento di ripulsa, quando si trovano di fronte a qualcosa che non gli interessa," precisa De Long. Sono attratti dai compiti visuali-motori e amano disegnare, cosa che fanno "assiduamente e bene, con grande

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attenzione ai particolari, fantasia e assorbimento completo." Altre occupazioni, spesso di natura intellettuale, possono essere altrettanto appassionanti per loro. È tipico di questi bambini possedere una straripante energia mentale e una fervida immaginazione. Possono passare ore intenti a giochi al computer e a videogiochi intellettuali di genere fantasy come Dutigeons and Dragons ("Segrete e draghi"). Negli adolescenti la sindrome bipolare è spesso di tipo a ciclo rapido, e può essere frammista a irritabilità e collera. Questi "stati misti" possono comparire spontaneamente, oppure essere scatenati da droghe o dafl'al-coL Fra i preadolescenti, l'abuso di bevande alcoliche è strettamente associato a turbe dell'umore, secondo Frederick K. Goodwin e Kay Redfield Jamison, che hanno scritto un testo decisivo sulla sindrome bipolare.9 In uno studio, sette casi su dieci di abuso di alcol da parte di preadolescenti erano di natura bipolare o cidotimica, gli altri tre soggetti presentavano una patologia depressiva. La sindrome bipolare in adolescenti viene spesso confusa con manifestazioni di personalità antisociale. Le due forme

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morbose sono caratterizzate da comportamenti coincidenti, quali impulsività, taccheggio, abuso di sostanze, guai con la giustizia e aggressività." Quando questi tipi di comportamento si manifestano durante periodi di umore irritabile o esaltato ed esiste una storia familiare di turbe dell'affettività, la probabile causa è una sindrome bipolare. Il più grande errore nel formulare una diagnosi di adolescenti affetti da sindrome maniaco-depressiva è la tendenza dei medici a scambiare la loro malattia per schizofrenia. In un'altra recente indagine su bambini affetti da turbe gravi, in quasi la metà di quelli affetti da sindrome bipolare era stata in precedenza emessa un'errata diagnosi di schizofrenia. Perfino degli psichiatri possono mettersi sulla pista sbagliata quando riscontrano in un bambino manie di grandezza, turbe del pensiero e bizzarre fissazioni. I genitori dovrebbero però essere informati che esistono criteri validi, standardizzati, per stabilire la distinzione fra schizofrenia e sindrome bipolare nei bambini.10 La tendenza fra i medici a emettere diagnosi sbagliate è cosi diffusa che se mi fosse stato detto che mia

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figlia era schizofrenica, avrei richiesto subito una seconda e possibilmente anche una terza opinione: al più esperto e aggiornato psichiatra che avessi potuto permettermi. Un consulto, dopotutto, richiede una spesa che si fa una volta sola: e può cambiare radicalmente una situazione. Se ho imparato qualcosa nel corso della preparazione di questo libro, è che fra i medici del nostro paese esiste una diffusa ignoranza delle turbe dell'umore: ed essa è particolarmente pronunciata quando i pazienti sono bambini. Lo studio delle turbe dell'umore nei bambini è talmente nuovo che gran parte di quanto si è scoperto non è ancora giunto a conoscenza dell'intera classe medica. La diagnosi psichiatrica non dovrebbe mai essere considerata una cosa che si fa una volta sola. Se un bambino non migliora dopo qualche mese, bisognerebbe farlo visitare da un altro medico: e prendere in considerazione la possibilità di una nuova diagnosi. I bambini che soffrono in silenzio Alcuni studi hanno mostrato che anche quando i sintomi di un bambino sono gravi, spesso i genitori non li riconoscono. Un bambino può contemplare l'idea del suicidio senza che i suoi genitori

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abbiano il minimo sospetto che qualcosa non va. In effetti, questo è quanto succede il più delle volte. In uno studio del 1989 su quattordici bambini con ossessioni di suicidio, Javad H. Kashani trovò "estremamente sconcertante" che soltanto due genitori fossero stari consapevoli delle tendenze suicide dei loro figli.11 Robert, di dodici anni, ricevette una diagnosi di depressione grave dopo aver tentato di uccidersi inghiottendo il contenuto di un flacone di aspirina. Ragazzo tranquillo e beneducato, aveva cominciato la scuola media l'anno prima. La sera passava parecchie ore a studiare. Anche se prendeva voti eccellenti, aveva sempre paura di essere bocciato. La notte prima di un esame non riusciva a prender sonno. Restava sveglio tormentandosi sull'esito dell'interrogazione, e col passare delle ore si convinceva sempre più che ci sarebbe stata una domanda a cui non avrebbe saputo rispondere. Ma Robert si tenne dentro le sue preoccupazioni e le sue difficoltà, e nessuno riuscì ad accorgersene. Gli insegnanti lo vedevano come uno studente che ce la metteva tutta per eccellere. Che mancasse di esuberanza e non partecipasse a nessuna deUe attività

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della scuola non sembrava molto strano per un ragazzo serio. Neppure i suoi genitori si rendevano realmente conto della sua ansia legata alla scuola. Quando Robert era ancora piccolo, suo padre cominciò a insistere con lui sull'importanza di riuscire a scuola e di entrare in una buona università. Era un'opportunità che suo padre non aveva avuto. Benché di buona intelligenza, il padre di Robert non era mai riuscito a "ingranare" alla media e i suoi voti erano stati mediocri. Era entrato in una scuola secondaria locale, l'aveva piantata dopo il primo anno perché la trovava noiosa e si era trovato un lavoro in un supermercato. Anche se con gli anni era salito fino a un ruolo direttivo, pensava di aver perso molto nella vita per colpa dei suoi insuccessi scolastici. Fu un sollievo per lui che suo figlio non stesse seguendo il suo esempio. "Certo, a volte pensavo che Robert studiasse un po' troppo," ci disse. "Ma questo sembrava meglio che non applicarsi abbastanza." Robert preferiva passare il suo tempo libero da solo e aveva pochi amici, cosa che sua madre attribuì alla sua "serietà". "Robert è molto intelligente," osservò. "Pensavo che gli altri ragazzi semplicemente non

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gli interessassero, che non fossero al suo livello. E Robert è sempre stato un tipo tranquillo. Anche quando aveva sei o sette anni, era difficile impegnarlo in una vera conversazione. A meno che non gli venisse rivolta una domanda diretta, se ne stava zitto. Certe volte si aveva l'impressione che fosse più interessato ai propri pensieri che a quelli degli altri." Presi uno per uno, i sintomi di Robert - scarsa autostima, ansia e isolamento sociale - potrebbero essere considerati più o meno normali. Quando però sono visti come un quadro complessivo, la situazione si fa più chiara. La madre di Robert, preoccupata del comportamento di suo figlio, razionalizzava quando lo giudicava "troppo intelligente per interessarsi" ai suoi coetanei. Tutti i ragazzi si interessano agli altri ragazzi, a meno che non ci sia qualcosa che non va. Non è normale per un ragazzo, per quanto possa essere intelligente, trovare nella scuola un motivo di ansietà, isolarsi e chiudersi nel mutismo. E i ragazzi dovrebbero essere in grado di svolgere i loro doveri scolastici senza preoccupazioni Purtroppo, come spesso succede con i ragazzi depressi, nessuno sospettò la

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malattia di Robert e intervenne per prestare il proprio aiuto. La depressione di Robert non fu riconosciuta finché egli non fece un gesto disperato e inghiottì l'aspirina. Una volta i medici si basavano principalmente sulle testimonianze dei genitori per emettere una diagnosi di depressione per bambini e adolescenti Si presumeva che i genitori sapessero tutto dei loro figli e che i ragazzi stessi non fossero storici attendibili perché non erano capaci di esprimere bene i loro sentimenti come gli adulti Oggi si riconosce che i giovanissimi possono essere informatori attendibilissimi sulla loro sintomatologia, sempre che vengano usate tecniche d'intervista appropriate. Il che significa che bisogna sempre tenere presenti i diversi stadi di sviluppo. Quando si scava per portare alla luce turbe dell'umore bisognerebbe sempre porre domande adeguate all'età. Inoltre, il medico che visita bambini molto piccoli dovrebbe trarre elementi di giudizio da comunicazioni non verbali, come un'espressione triste o apatica, una postura ingobbita, il parlare a rilento. Può essere difficile per un bambino depresso esprimere come si sente. Spesso un

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bambino non dirà "Mi sento triste," ma, come fa osservare Puig-Antich, ciò non significa necessariamente che non è depresso. Piuttosto, un ragazzino può riconoscere di sentirsi "giù di corda, giù di morale, a terra, molto infelice, vuoto, con la voglia di piangere, o con una brutta sensazione dentro che non mi lascia quasi mai" Karen Gainer afferma che se si chiede direttamente ai bambini come si sentono dentro - Ti senti triste? Hai una brutta sensazione? - "loro risponderanno 'Sì' Saranno in grado di dirlo. E se gì si chiede: 'Qualche volta se ne va?' loro possono dirti 'No, questa sensazione non se ne va mai Mi resta dentro sempre. Io mi sento triste, mi sento sempre male.' Oppure saranno in grado di dirti: 'Be', c'è sempre, fuorché quando vado in bici,' oppure 'quando vado in bici mi sento meglio.' Per i più piccoli, basta fare il disegnino di una faccia contenta e di una faccia malinconica e chiedere: Tu ti senti cosi o così?' E loro te Io indicheranno col ditino, te lo mostreranno." Anche se gli adolescenti possono esprimersi meglio, anche a loro bisognerebbe offrire parametri alternativi per la descrizione delle loro condizioni emotive. In aggiunta all'umore

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depresso, la presenza di almeno quattro dei seguenti otto sintomi è necessaria per una diagnosi di depressione grave: Inappetenza o fame morbosa. Turbe del sonno. Mancanza di energia, affaticabilità o senso di spossatezza. Agitazione o ritardo psicomotorio. (Andare su e giùper la stanza è un esempio di agitazione, il parlarea rilento un esempio di ritardo.) Senso di colpa eccessivo o immotivato. Perdita d'interesse o di piacere in attività consuete. Difficoltà di concentrazione o di pensiero. Pensieri di morte o di suicidio. Dopo l'età di sei anni, i medici possono usare interviste strutturate e semistrutturate per valutare se il bambino è affetto da depressione. Sono stati sviluppati molti buoni modelli d'intervista. Discorsi di suicidio "L'intero processo dell'ascoltare i ragazzi consiste nel far loro capire che si prende molto sul serio quello che dicono," avverte Karen Gainer, "che se parlano di suicidio si prendono sul serio le loro parole." A volte i genitori assumono un atteggiamento di diniego e razionalizzano che i loro figli sono più sani e sicuri di loro. In questi

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casi la Gainer li ammonisce. '"Questo mi preoccupa molto. Vostro figlio esprime quello che sente, e io sono convinta che dobbiamo intervenire subito in qualche modo.' E se io ho qualche dubbio sulla sicurezza del ragazzo e se il genitore non è in grado di provvedere con un adeguato piano protettivo, non me la sento di rimettere soltanto a lui il problema una volta che ha lasciato il mio studio. Bisogna che il genitore si prenda personalmente carico della situazione. Lui o lei deve dire. 'Va bene, tengo nascosti i coltelli.' Già, perché una ragazza venuta da me ha detto: 'Ho pensato di tirarmi una coltellata e sono andata in cucina e ho tirato fuori dal cassetto i coltelli.' Così si è trovata là nella cucina con un coltello in mano, un coltello puntato allo stomaco, senza ricordare come ci fosse arrivata. Un atto inconsulto, insomma, incontrollabile... Be', volevo sapere cosa aveva intenzione di fare quella madre, anche solo per le ventiquattr'ore successive, finché non avessimo riesaminato la situazione. E se la madre avesse avuto il benché minimo dubbio, se io avessi avuto il mìnimo dubbio che la madre non avrebbe tolto di mezzo i coltelli e avrebbe tenuto bene

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d'occhio la ragazza, in questo caso avrei immediatamente portato la ragazza al pronto soccorso e avrei richiesto per lei una visita psichiatrica. Certe volte ho dovuto oppormi con forza all'affidamento di un minore alla custodia dei genitori per via de] loro atteggiamento di diniego nei confronti della malattia del figlio." Genitore depresso, bambino depresso La depressione serpeggia, nelle famiglie, trasmessa da una generazione all'altra. "È nei geni," spiega il dottor Mark S. Gold, direttore delle ricerche sulla depressione presso il Fair Oaks Hospital nel New Jersey. Anche se non è ancora stata trovata una prova definitiva di una predisposizione genetica alle turbe dell'umore, gli elementi di conferma sono estremamente forti e sempre più sostanziali. Per ora, il quadro familiare che è stato tratteggiato dagli epidemiologi è così convincente che "pochi dubitano che nelle malattie della sfera affettiva ci sia una forte componente genetica," dichiara Gold. I bambini che ricevono il gene o i geni colpiti sono vulnerabili, predisposti a sbalzi d'umore quando sono sotto stress: lo stessissimo stress che non produce depressione in persone che non sono

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predisposte. Studi su gemelli identici hanno prodotto alcune delle prove più convincenti. Se un gemello identico soffre di turbe dell'umore, anche l'altro, dato che possiede la stessa precisa struttura genetica, dovrebbe sviluppare la stessa patologia. Questo avviene in un 40-70% dei casi, a seconda dei criteri impiegati per definire la depressione. Esattamente come avvenne quando fu studiata la schizofrenia, certi psicologi sollevarono la questione della possibilità che uno dei gemelli fosse diventato depresso semplicemente "copiando" l'altro, ma ulteriori studi indicano che gemelli allevati separatamente mostrano lo stesso grado di "concordanza" di quelli cresciuti insieme. Questo tipo di ricerca scientifica procede su due fronti: quello deUa genetica molecolare, che cerca un gene specifico come causa della malattia, e la genetica della distribuzione della popolazione, che studia parenti di primo e secondo grado per vedere se particolari malattie si concentrano in certe famiglie. Mentre la genetica molecolare non ha ancora scoperto un gene responsabile della depressione, studi su gemelli e figli adottivi hanno fornito chiare prove di una vulnerabilità genetica a tutte

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le forme di depressione. Lo studio epidemiolo-gico condotto di recente dal NIMH trovò che un figlio di un genitore affetto da depressione grave ha un 30% di probabilità di sviluppare qualche forma di depressione nel corso della sua vita. Quando entrambi i genitori sono ^ depressi, le probabilità per il figlio balzano al 70 /o. Un'indagine sulla famiglia condotta congiuntamente dal NIMH e dall'università di Yale mostra che minori fra i sei e i diciassette anni con genitori depressi hanno probabilità da due a tre volte maggiori di sviluppare depressione grave e ricorrente di quelli di controllo con genitori normali I bambini e ragazzi dello stesso studio si rivelarono anche tre volte più a rischio di farsi diagnosticare una quakiasi affezione psichiatrica. Se i genitori erano non solo depressi ma soffrivano anche di una sindrome panica o di agorafobia, il rischio di depressione grave e di sintomi ansiosi nei figli aumentava.15 Da quando questi fatti sono emersi nell'ultimo decennio, l'interesse per ulteriori studi si è accresciuto, stimolato dalla consapevolezza che dove esiste prevedibilità c'è anche la possibilità di prevenzione. Forse

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l'uccello infausto della depressione non è dopotutto una creatura così arbitraria. Oggi gli scienziati si chiedono: è possibile prevedere la sua calata, abbreviare il suo soggiorno, addirittura impedire la sua venuta? Kerim Munir, direttore del reparto di psicofarmacologia pediatrica del Cambridge Hospital di Cambridge, Massachusetts, osserva che negli ultimi dieci anni l'impiego di farmaci nella cura delle turbe psichiatriche di bambini e adolescenti ha finalmente preso piede. I disturbi e i comportamenti considerati più reattivi alla farmacoterapia comprendono deficit dell'attenzione-ipe-rattività, ansia da separazione, depressione grave, sindrome ossessivo-compulsiva e certe sindromi agitate/ aggressive, compresa la depressione bipolare. Avverte però che i farmaci da soli non sono mai sufficienti nella cura dei bambini. Quando vengono somministrati in modo razionale, sottolinea la Muir, "i farmaci possono alleviare la sofferenza, ma il loro uso deve sempre far parte di un trattamento di vasta portata rivolto a complessi problemi psicologici, educativi e sociali."1 Data la giovane età del paziente, e nel processo dello sviluppo sia

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emotivo sia intellettuale, molto terreno può essere perduto a causa di una turba psichiatrica. H minore sofferente ha bisogno di un'intera falange di sostegno. Né la psicoterapia né la possibilità del ricorso alla farmacoterapia dovrebbero essere trascurate. 7 Quando l'astinenza non basta 1 Xel giugno del 1990 Daniel Goleman, un giornalista scientifico del "New York Times," raccontò la storia di una donna che era stata depressa e sovrappeso durante l'adolescenza finché un'amica l'aveva iniziata alle anfe-tamine per dimagrire. Arrivata ai diciassette anni, le prendeva regolarmente, avendone ricavato, oltre a una perdita di peso corporeo, un beneficio inatteso. "La facevano anche sentire sicura di sé, perfino allegra," riferisce Goleman.1 Questo fu l'inizio. Quando aveva diciannove anni, il suo ragazzo le offri della cocaina. In capo a una settimana, era schiava del vizio. "A ventiquattro anni, aveva un figlio naturale, una vita caotica e una dipendenza dalla cocaina che le costava cinquemila dollari alla settimana costringendola allo spaccio. Venne ospedalizzata due volte per la profonda depressione che l'assaliva ogni volta che tentava di smettere con la cocaina."

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All'istituto di medicina di Harvard venivano condotte ricerche sull'impiego di vari tipi di farmaci per aiutare le persone ad affrancarsi dalle sostanze di cui abusavano: e a rimanerne alla larga. Questa donna fu curata da Edward J. Khantiian, uno psichiatra di Harvard, con un metodo straordinario e controverso. Le furono somministrate piccole dosi giornaliere di metilfenidato, uno stimolante, ed essa si rimise in modo sbalorditivo. Khantzian riferisce che in otto anni essa non ha più toccato la cocaina. Perché il metilfenidato ha funzionato? Secondo Khantzian, esso è efficace nel togliere l'abitudine alla cocaina perché agisce sui recettori della dopamina nel cervello. "Per parecchi anni gli scienziati hanno sospettato che almeno certi tossicodipendenti soffrano di squilibri nel chimismo del cervello che li rendono vulnerabili alla depressione, all'ansia o a un'intensa irrequietadine," scrive Daniel Goleman. "Per questi soggetti, la tossico-dipendenza diventa una sorta di autocura in cui le droghe correggono lo squilibrio chimico e apportano una sorta di sollievo."2 Quello delT'autocura" è uno dei concetti più importanti in rapporto

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alla tossicodipendenza che sono emersi nell'ultimo decennio. Proposto per la prima volta da Khantzian, suggerisce che la gente fa ricorso alle droghe allo scopo, anche se non se ne rende conto, di alleviare stati d'umore dolorosi. Inoltre, la droga specifica di cui tendono ad abusare è in qualche misura determinata dalla sua capacità di alleviare il particolare disturbo psichiatrico di cui soffrono. "Il lavoro clinico con tossicodipendenti dediti a narcotici o cocaina ci ha fornito prove irrefutabili che la droga a cui un individuo finisce coll'abbandonarsi non dipende da una scelta casuale," scrive Khantzian sulT"American Journal of Psychiatry".3 Chi abusa di oppiacei, sostiene, cerca di placare intensi sentimenti violenti e aggressivi Chi abusa di cocaina cerca di curare la depressione. Almeno la metà dei quasi due milioni di americani che soffrono di malattie mentali croniche fanno uso di droghe.4 Se l'ipotesi dell'autocura è esatta, significherebbe che molti tossicodipendenti sono spinti al loro comportamento da un disturbo psichiatrico di fondo e spesso curabile. Esistono numerosi studi a sostegno di questa ipotesi. Alcuni hanno trovato che turbe dell'umore di

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base sono comuni fra i cocainomani. Altri hanno mostrato che depressi che fanno uso di cocaina, quando vengono curati con antidepressivi, ottengono non solo un sollievo dalla depressione ma anche una diminuzione del desiderio della droga.3 "Sottili differenze neurochi-miche" fra gli individui possono predisporre a tossico-dipendenze o alcolismo, spiega lo psichiatra di Harvard James Ellison. Siano ereditarie o acquisite, queste differenze a livello di neurotrasmettitori possono spiegare la psicopatologia, spesso subdola, che può trasformare le persone in tossicodipendenti, GÈ scienziati sono giunti alla conclusione che l'individuazione di un'affezione psichiatrica di fondo e l'intervento in sede medica contribuiscono a curare sia la tossicodipendenza sia il disturbo mentale. (Anche la psicoterapia, naturalmente, è necessaria. Ellison avverte che i farmaci da soli non sono mai una cura adeguata per le tossicodipendenze, anche se, una volta che hanno migliorato le condizioni del tossicodipendente, egli diventa più recettivo alla psicoterapia.) A quanto pare, è in corso una rivoluzione nella cura delle

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tossicodipendenze. Molti psicofarmacologi considerano i farmaci una parte essenziale della cura delle tossicodipendenze per coloro che soffrono di turbe dell'umore e altre patologie psichiatriche. Scrive Ellison: "H riconoscimento e la cura di queste condizioni morbose può consentire a molti individui di risparmiarsi gli effetti devastanti dell'abuso di droghe nel lungo periodo."6 Alcol, tabacco e caffeina sono state le droghe "ricreative" predilette in America fin dall'epoca coloniale. Negli ultimi decenni, altre droghe hanno riguadagnato il tempo perduto. Dopo l'abuso di alcol, quello di marijuana è il più comunemente diagnosticato negli Stati Uniti, e si calcola che colpisca un 4,4% della popolazione adulta. Oppiacei, allucinogeni e cocaina sono ciascuno sotto l'l%. Complessivamente, il 6,2% della popolalo- ne ha una storia di dipendenza o di abuso di droghe controllate, ma le statistiche balzano rapidamente verso l'alto nelle fasce d'età più giovani II 22% dei giovani al di sotto dei trent'anni fanno uso di droghe.7 L'alcol è di gran lunga la sostanza di cui si fa un consumo più ampio. H 13% della popolazione americana

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soffre nell'intero corso della vita di un problema di abuso d'alcol, con percentuali ancora maggiori in individui con altri tipi di psicopatologia. "A mio avviso," avverte Michael Gitlin in The Vsychiatrist's Guide to Psychophartnacologp, "l'alcolismo è la diagnosi più comunemente omessa dagli specialisti di salute mentale, me compreso."8 Secondo la Alcohol, Drug Abuse, and Menta! Health Administration, circa diciotto milioni di americani soffrono di problemi provocati dall'abuso di alcolici Soltanto mezzo milione sono in cura. Il tasso di mortalità negli alcolisti è terrificante. Metà di tutte le morti accidentali, suicidi e omicidi che si hanno negli Stati Uniti sono provocati dal consumo di alcolici Fra i giovani, è un problema che chiaramente è sfuggito di mano. Più di uno studente su tre dell'ultimo anno di liceo riferisce di bere cinque o sei drink di fila in ogni periodo dì due settimane. Quasi il 5% di questa fascia della popolazione scolare beve ogni giorno. E non sono soltanto i ragazzi. Studi recenti mostrano che l'alcolismo è diffuso in modo preoccupante fra i professionisti della classe media. I colletti bianchi sono a rischio sia

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di abuso di alcolici sia di depressione in misura enormemente maggiore di quanto si ritenesse in precedenza. Quando fu effettuato un controllo medico su duemila dirigenti e professionisti della Westinghouse Electric Corp., & 23% degli uomini e il 36% delle donne riferirono di aver sofferto di depressione grave nel corso della loro vita. Il 16% di questi uomini e il 9% di queste donne facevano abuso di alcol9 Perché certe persone e non altre cadono preda delle droghe è sempre stato un mistero. "Anche se ammettiamo che individui che sviluppano una coazione o una dipendenza abbiano più probabilità di svilupparne u-n'altra, siamo ancora oggi costretti a chiederci perché soltanto certi individui sviluppino comportamenti di dipendenza. Questo porta inevitabilmente a una ricerca di una base neurobiologica del comportamento," sostiene Jeff Jonas, uno psichiatra ricercatore che studia le dipendenze e le turbe dell'alimentazione.10 Ricercatori come Jonas sono giunti alla conclusione che può essere in una certa misura prevedibile quale tipo di soggetto ha più probabilità di soccombere a una tossicodipendenza. Alcuni di noi sono segnati: dai geni,

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dall'ambiente, dal grado di stress che si trovano a dover affrontare. Insieme, questi fattori producono uno squilibrio delle sostanze chimiche contenute nel cervello che può condurre alla tossicodipendenza. Quando lo squilibrio viene corretto, mostrano le ultime ricerche, la dipendenza può essere prevenuta: e coloro che sono già dipendenti ma sono riusciti a raggiungere l'astinenza hanno maggiori probabilità di evitare una ricaduta. Oggi esiste una più chiara comprensione del modo in cui il cervello trasforma chi fa uso di una sostanza in uno che ne abusa. Sono state sviluppate teorie sulla biologia della bramosia di certe sostanze. Secondo una di queste teorie dell'alcolismo, possono essere d'importanza critica "processi oppiacei" che coinvolgono sostanze naturali morfinosimiìi proprie del cervello, ed è possibile elaborare farmaci con un'efficace azione di complemento alla cura." L'idea di usare droghe per curare una dipendenza da una droga è sempre stata aborrita da coloro che promuovono metodi tradizionali di recupero. Ci vuole una certa comprensione del rapporto fra metabolismo del neurotrasmettitore e

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tossicodipendenza prima di poter almeno intravedere la possibilità che l'impiego di una droga o farmaco per curare una tossicodipendenza non sia poi tanto contraddittoria. Negli ultimi cinque-dieci anni, medici ricercatori hanno trovato che farmaci possono essere usati per attenuare gli stimoli all'abuso e per favorire il mantenimento dell'astinenza. In questo capitolo esamineremo alcune delle teorie che hanno condotto alle nuove metodiche d'intervento sugli abusi di sostanze e descrivere alcuni programmi che offrono questo tipo di assistenza. L'uso di farmaci nella cura delle dipendenze da sostanze è molto nuovo e molto discusso. Io sono giunta alla conclusione che né i programmi tradizionali di recupero né gli approcci psichiatrici rappresentano da soli delle soluzioni alle tossicodipendenze. Entrambi i campi possono offrire aiuto, e ciascuno deve essere integrato da quanto c'è di valido nell'altro. Entrambi, comunque, possono avvantaggiarsi di quanto la scienza ha chiarito sulla biologia della tossico-dipendenza. ^importanza della famiglia Alcuni di noi sono più vulnerabili alla dipendenza da sostanze dalla nascita. Per l'alcolismo, per esempio, si

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hanno prove sempre più imponenti dell'incidenza di un fattore genetico. Secondo il National Institute on Alco-hol Abuse and Alcoholism, almeno il 50%, e forse "la quasi totalità" delle persone curate per alcolismo provenivano da famiglie con storie di questa malattia. Gli scienziati pensano che i figli di alcolisti ereditino peculiarità relative alla capacità del loro cervello di metabo-lizzare l'alcol. Essi si trovano a forte rischio non solo di alcolismo ma anche di turbe dell'umore. I figli di alcolisti mostrano elevati livelli di ansia, depressione e comportamenti compulsivi. La sindrome non è semplicemente prodotta dal trauma di crescere con un genitore alcolista irascibile e imprevedibile. È, in certa misura, genetica. All'inizio degli anni settanta, scienziati dell'istituto di medicina della Washington University studiarono indi- vidui che erano cresciuti separati dai loro genitori biologici, o che avevano un genitore biologico o un surrogato parentale con un problema di alcolismo. Scoprirono che i figli avevano probabilità significativamente maggiori di avere un problema di alcolismo se il loro

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genitore biologico era alcolista, indipendentemente dal fatto che il surrogato parentale fosse alcolista o no. In uno studio su 5.483 uomini danesi che furono adottati nella prima infanzia, gli stessi ricercatori trovarono ulteriori elementi a sostegno della teoria genetica della dipendenza. Figli di alcolisti erano più di tre volte soggetti a sviluppare problemi di alcolismo dei figli adottivi di non alcolisti, e questi problemi si manifestavano più precocemente. Ricerche condotte alla Washington University riguardarono figlie, oltre che figli, di alcolisti.12 Uno studio comprendeva 862 uomini e 913 donne che erano stati adottati da non consanguinei prima dei tre anni d'età. H 35% avevano almeno un genitore biologico che faceva abuso di alcol. Dei figli di padri biologici alcolisti, il 22% erano alcolisti, a fronte di 14% dei figli che non avevano un genitore biologico alcolista. H 10% delle figlie di madri biologiche alcoliste facevano abuso di alcol, a confronto con il 2% delle figlie che non avevano un genitore biologico alcolista. Particolare interessante, l'alcolismo nei genitori adottivi non era un fattore in grado di far prevedere se

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gli adottati sarebbero diventati alcolisti. Gli studi mostrano che il principale fattore determinante nella previsione dell'alcolismo è genetico. L'ambiente familiare - anche quando i genitori adottivi sono alcolisti - è virtualmente irrilevante. "Per persone che sono biologicamente predisposte, il primo drink o la prima dose della droga è immensamente incentivante, esperienza questa che non viene condivisa da altri al loro primo incontro con la sostanza," ha puntualizzato Ralph Tarter, uno psicologo del Western Psychiatric Instimte and Clinic di Pittsburgh. "Molti ex tossicodipendenti mi dicono: 'Nel momento in cui ho preso la mia prima dose di droga, mi sono sentito normale per la prima volta.' Essa li stabilizza psicologicamente, almeno nel breve periodo."13 Alcuni bevono per alleviare l'ansia. Alla base del comportamento c'è uno squilibrio nei recettori del cervello per il GABA, un neurotrasmettitore che regola fra l'altro l'ansia, secondo Howard Moss, uno psichiatra dell'università di Pittsburgh. In uno studio del 1990 pubblicato sul "Journal of Biological Psychiatry", Moss ha mostrato che i figli di padri alcolisti avevano livelli minori di GABA e livelli

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superiori di tensione emotiva degli uomini con padri non alcolisti Ma quando bevevano un bicchiere di vodka, i livelli di GABA del primo gruppo salivano a livelli equivalenti a quelli degli altri uomini e la loro tensione diminuiva. "I figli di alcolisti che sono anormalmente ansiosi bevono per quietare la loro tensione, che è dovuta a una perturbazione del GABA," ha osservato il dottor Moss. "La nostra ipotesi è che questa irregolarità del GABA sia un segnale distintivo legato a una vulnerabilità genetica all'alcolismo."14 Altri alcolisti, il cui comportamento è impulsivo e aggressivo, "sembrano avere bassi livelli di serotonina," spiega Moss. "Noi non sappiamo con certezza dove esattamente si collochi il deficit. Può darsi che i loro neuroni liberino una quantità troppo scarsa di serotonina o che i loro recettori non rispondano bene alla serotonina da loro inviata." Ma, quale che sia la causa esatta, la deficienza di serotonina è collegata all'incapacità di porre freno all'impulsività, secondo quanto gli scienziati vanno scoprendo. Daniel Goleman riferisce il caso di un eroinomane che fin dall'infanzia andava soggetto a scatti di collera. Subito dopo aver

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superato i trent'anni si sentì profondamente amareggiato al pensiero di tutte le relazioni che erano state troncate dal suo temperamento irascibile. Faceva il farmacista e quindi aveva facile accesso alla morfina, che più di qualunque altra cosa, a suo dire, calmava i suoi risentimenti e i suoi accessi di collera. Questo comportamento collerico del farmacista è tipico di più di quattrocento pa2ienti che sono stati curati da Khantzian per dipendenza da narcotici "Le loro storie rivelano che per tutta la vita hanno trovato difficile controllare i loro nervi; oppiacei come l'eroina e la morfina, a quanto sostengono, li aiutano a sentirsi normali e rilassati," scrive Goleman. Un meccanismo ài ricompensa Inizialmente la ricerca sull'alcolismo si è concentrata sull'effetto dell'alcol sul cervello e sul sistema nervoso centrale. All'inizio degli anni settanta, l'accentuazione cominciò a spostarsi sul meccanismo alla base del comportamento di dipendenza. Oggigiomo, dall'enorme mole di dati che si è accumulata è emersa una nuova comprensione del ruolo svolto nella dipendenza dall'al-col dai neurotrasmettitori e dai recettori. "Abbiamo cominciato a vedere che la

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loro disponibilità e il loro equilibrio, e l'azione in corrispondenza dei recettori, sono i fattori chiave nel meccanismo di ricompensa, che si traduce in piacere, senso di benessere ed euforia," scrive Kenneth Blum in Alcohol and thè Addictive Broiit." Negli ultimi due decenni, la ricerca genetica sulla dipendenza da sostanze si è indirizzata verso una disfunzione che inizia nel gene. L'ambiente può scatenare, peggiorare o in certa misura attenuare la predisposizione generica, "ma i fattori determinanti," precisa Blum, "sono biogenerici e biochimici." La dipendenza, è convinzione sua e di altri, progredisce per gradi, e produce lentamente modificazioni chi-miche nel cervello. Una volta che la malattia raggiunge un certo stadio, la forza di volontà da sola non può arrestarla. Perché il cervello assuefatto possa guarire ha bisogno di riequilibrare le proprie sostanze chimiche. L'astinenza permette al cervello di riequilibrare col tempo le sue sostanze, ma per molti che sono diventati assuefatti è difficile raggiungere l'astinenza. E questa da sola non conseguirà il risultato del riequilibrio per coloro che, oltre a essere soggetti a una

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dipendenza, soffrono di turbe dell'umore. Consumatori occasionali di droghe scivolano più facilmente nella tossicodipendenza - e più rapidamente - quando presentano turbe dell'umore. "Questi pazienti possono manifestare una più rapida transizione dall'uso iniziale alla dipendenza," secondo Roger Weiss, che dirige il centro per la cura dell'abuso di alcol e di droga del McLean HospitaL16 Serotonina e alcolismo Verso la fine degli anni ottanta, dati illuminanti sulla biologia dell'alcolismo vennero da studi su ratti Ricercatori guidati da Ting-Kai Li trovarono sistemi per allevare ceppi di ratti forti bevitori e di ratti moderati bevitori a cui fu insegnato ad autosomministrarsi alcol e altre sostanze alteratrici dell'umore colpendo una leva. L'idea era cercare di simulare in ratti il bere normale e il bere compulsivo degli alcolisti. H dottor Li pose a raffronto i livelli di neurotrasmettitore nei cervelli di entrambi i tipi di bevitori. I ratti che colpivano più forte la leva per la somministrazione di alcol avevano costantemente livelli di serotonina più bassi. "Deve esserci una relazione inversa," arguì Li, "fra le quantità

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di serotonina nell'ipotalamo e il comportamento di dipendenza." In altri termini minore era il livello di serotonina, maggiore era l'inclinazione dei ratti a bere.17 Non sarebbe possibile aumentare la serotonina nel cervello dei ratti alcolizzati e indurii all'astinenza o almeno a una riduzione dell'assunzione di alcol? Dato I che la fluoxetina mette a disposizione del cervello una maggior quantità di serotonina, il gruppo di Li provò a iniettarla nei ratti sbevazzoni. Eureka! Gli animali ridussero considerevolmente le dosi18 L'interrogativo che si poneva poi era ovvio. Cosa sarebbe successo se fosse stato somministrato della fluoxetina a esseri umani che facevano abuso di alcol? All'università della California a Los Angeles alcuni scienziati studiarono due gruppi di pazienti, uno dei quali ricevette fluoxetina e l'altro un placebo. A entrambi i gruppi fu consentito di bere alcol a volontà, ogni ora, per dodici ore ogni giorno. Il gruppo che ricevette fluoxetina bevve considerevolmente meno del gruppo di controllo. "I risultati collimano con quelli ottenuti da Li nei ratti, e suggeriscono che la serotonina può essere un fattore che controlla

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l'alcolismo negli esseri umani," scrisse DA Gorelick, che diresse il gruppo di ricercatori.19 primi tentativi di curare l'alcolismo con antidepressivi furono deludenti. Secondo Roger Weiss, questo puòessere dovuto alle dosi troppo basse somministrate inquesti studi. Indagini più recenti sono più promettenti.Si è visto che gli antidepressivi che agiscono direttamente sul sistema della serotonina riducono il bere anche inalcolisti che non sono depressi20 desiderio di bere è stato storicamente visto come unimpulso primitivo a stordirsi, a ricercare l'euforia, l'ebbrezza, a sfuggire alla responsabilità morale e al normaledolore umano. La realtà biologica della bramosia dideterminate sostanze sta cambiando questa concezione.Prima di tutto, coloro che bramano sostanze chimichecompensatone non soffrono semplicemente dei "normali" disagi della vita. La loro bramosia, come la fame,è lo stato doloroso che si determina quando l'organismo

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non riceve ciò di cui ha bisogno. Invece di vedere la setedi alcol come una depravazione, gli scienziati oggi lariconoscono come un campaneEo d'allarme medico: ilsegnale del cervello che qualcosa fa difetto ed è necessario ricostituirne la scorta. Anche le endorfine aiutano Mentre certi scienziati studiano il rapporto fra sero-tonina e dipendenza dall'alcol, altri stanno cercando di scoprire quale sia il ruolo delle endorfine. Nel 1987, Christina Gianoulakis e Alca Gupta, della McGill Uni-versity, chiarirono il modo in cui le endorfine e le encefaline influiscono sul comportamento di bramosia alcolica. In primo luogo, scoprirono che i topi che preferiscono l'alcol possiedono livelli più bassi di endorfine. Sia nei topi forti bevitori sia in quelli modesti bevitori, l'ingestione di alcol determinò il rilascio di superiori livelli di endorfine nel cervello.20 Recentemente questi ricercatori hanno esteso la loro indagine a esseri umani ad alto rischio, con una storia familiare di alcolismo, e ad altri soggetti umani a basso rischio, senza una storia del genere. Trovarono che il bere libera

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livelli sensibilmente maggiori di endorfine nei soggetti umani ad alto rischio. Dopo aver bevuto, il gruppo a basso rischio mostrò un lieve calo degli oppiacei corporei mentre il gruppo ad alto rischio mostrò un aumento del 170%! "Noi crediamo che il rilascio di endorfine in questi soggetti sia responsabile delle proprietà incentivanti dell'alcol," afferma la Gianoulakis. Le persone a basso rischio, in altre parole, ricavano soltanto uno scarso incremento delle endorfine dall'alcol, il che spiega perché non provano un particolare interesse per il bere. Se l'alcol non fa niente per innalzare i loro livelli di endorfine, alterando in modo eclatante l'umore, non provano un grande incentivo al bere. Questi studi hanno contribuito a dare un'idea più chiara di quanto avviene nel cervello nella fase di sviluppo di una dipendenza. Vulnerabilità genetica, stress e abuso cronico della sostanza stessa sono tutti fattori che contribuiscono alla deficienza di neurotrasmettitore. Così, le persone ad alto rischio ha dall'inizio una vulnerabilità genetica. Le trasformazioni biologiche prodotte dallo stress accrescono tale vulnerabilità,

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e lo stesso fanno le modificazioni biologiche prodotte dalla droga stessa. Alla fine, il metabolismo del cervello cambia e la "voglia" diventa una costante. A questo punto, la persona è caduta nella trappola della tossicodipendenza. La teoria degli oppioidi Gli oppiacei sono stati usati per scopi medici e voluttuari per secoli, ma il meccanismo mediante il quale producono i loro effetti nel cervello solo di recente è stato chiarito. "È oggi accertato che gli oppiacei producono le loro azioni farmacologiche interagendo con particolari molecole-recettori, spiega Ellen Unterwald, della Rockefeller University. Questi recetto-ri furono scoperti nel 1973, in parecchi laboratori diversi23 Gli interrogativi lasciati senza risposta da questa scoperta erano: perché i recettori esistono? A quali sostanze naturali dovrebbero dare ricetto? Gli scienziati non lo sapevano ma ben presto si misero sulla pista giusta. Raggiunsero il loro obiettivo abbastanza rapidamente. Prove dell'esistenza di "endorfine" e di "encefaline", sostanze oppiaceosimili presenti nel cervello, furono presentate per la prima volta a un congresso internazionale di ricercatori sui narcotici che si

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tenne ad Arlie House, in Virginia, nel 1975.24 Parecchi scienziati riferirono di aver scoperto un misterioso peptide, o composto di amminoacidi, che sembrava interagire coi recettori di oppiacei e aveva effetti simili a quelli della morfina. Un ricercatore chiamò il misterioso composto "x". Un altro lo battezzò "MLS" {morphine-like substance. sostanza morfinosimile). Un decennio dopo, Sidney Spector, del Roche Insti-tute of Molecular Biology, annunciò che il suo gruppo di ricerca aveva scoperto la presenza di morfina sia nella pelle dei rospi sia nel cervello dei ratti.25 Questo condus- se a un appassionante interrogativo: c'era morfina anche nel cervello umano? Dato che aveva bisogno di soggetti di cui potesse essere certo che non avevano fatto assolutamente uso di morfina, il gruppo di Spector decise di basarsi su pazienti ospedalizzati non tossicodipendenti che non fossero stati minimamente esposti a nessuna droga da parecchi mesi. Analizzando il liquido cerebrospinale di questi pazienti, i ricercatori trovarono considerevoli quantità sia di codeina sia di morfina.26 La scoperta suggeriva un'ipotesi inevitabile: nella persona

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normale, il cervello produce una quantità di morfina naturale sufficiente a infondere una sensazione di benessere. La persona il cui cervello non produce una quantità sufficiente di questa sostanza morfinosimile avverte una necessità, o brama imperiosa, e può cercare di soddisfarla con sostanze come morfina, eroina o alcol. Allo stesso convegno intemazionale, i ricercatori sui narcotici concordarono alla fine su un nome per la misteriosa sostanza la cui presenza a quanto pare permette alla gente di sentirsi bene, e la cui assenza può renderla infelicissima. Il termine che decisero di adottare fu quello di "endorfina", una contrazione di "endogeno", che significa "interno", e di "morfina". Certi scienziati usano il termine "oppioidi" o "oppiaceo naturale", oppure "oppiacei del cervello". Dato che questa sostanza è stata trovata in maiali, ratti e cammelli, e alla fine nello stesso cervello umano, molti ricercatori che lavorano in questo campo pensano di aver fatto una scoperta rivoluzionaria e risolutiva. Eppure, come ha fatto rilevare Ellen Unterwald al convegno del 1988 della Society for Neuroscience, "U completo processo

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biosintetico della morfina nei mammiferi deve ancora essere dimostrato," e anche il ruolo di queste sostanze nel cervello non è del tutto chiaro.27 È però facile capire il morivo dell'entusiasmo dei ricercatori nel settore dei narcotici. L'esistenza di una sostanza naturale morfinosimile nel cervello umano spiegherebbe perché alcol, morfina ed eroina sembrano inizialmente avere effetti salutari. Nel breve periodo alleviano la tensione e donano un senso di benessere. Ma molto rapidamente "la bramosia diventa incontrollabile e una quantità sempre maggiore di droga deve essere assunta per ottenere un sollevo sempre minore," avverte Kenneth Blum. Blum, che conduce le sue ricerche sulle dipendenze da sostanze presso il centro sanitario dell'università del Texas a San Antonio, suggerisce che quando un numero sufficiente di recettori si riempiono di endorfine e di encefaline, ne deriva un senso di benessere. Quando questi oppioidi diminuiscono, e troppo pochi recettori vengono riempiti, il cervello crea un urgente senso di agitazione. Troppo poche endorfine per sentirsi bene Quando il cervello è così a corto di oppiacei naturali

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che ne consegue una condizione psichica dolorosa, l'organismo può essere sollecitato a cercare sollievo. Secondo gli scienziati della scuola della "deficienza di oppioidi", chi si da a droghe come alcol, eroina e cocaina lo fa perché queste vengono a sostituire gli oppioidi mancanti. Un rapido pieno di una sostanza che vada a compensare i deficit chimici del cervello può dare un intenso senso di benessere al drogato, ma la situazione cambia con l'aumento delle dosi. Così, un eccesso di oppiacei artificiali produce un effetto boomerang, abbassando la già ridotta scorta di endorfine del corpo. Quando l'effetto della droga viene meno, "la sensazione di bisogno si fa più forte che mai," spiega Blum. "Alla fine la bramosia sopraffa gradualmente la forza di volontà e diventa la forza dominante nella vita della persona."29 GÈ scienziati credono che in esseri umani predisposti la produzione di endorfine e di encefaline nel cervello sia anormalmente bassa dalla nascita. Bassi livelli di queste sostanze regolatrici dell'umore provocano ansia e un senso di bisogno che è estremamente tormentoso. È questo malessere che rende la persona

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suscettibile ai brevi balzi verso l'alto dell'umore prodotti dal bere e dall'assunzione di droga. Quello che esse veramente cercano non è l'euforia. Quello che cercano, quello che i loro corpi cercano di raggiungere, è lo stato di equilibrio chimico di cui godono quelli di noi che sono così fortunati da avere in partenza livelli sufficienti di neurotrasmettitori. Ma nel cercare di compensare per quello che non hanno, finiscono agganciate dalla droga. H bere abituale o l'assunzione di una droga genera un bisogno fisico, il quale rafforza l'abitudine, che a sua volta inasprisce il bisogno, finché la morsa della dipendenza attanaglia il soggetto vulnerabile. Anche lo stress influisce sui livelli di oppioidi del corpo, hanno scoperto i ricercatori. Le persone sottoposte a una forte tensione sono particolarmente a rischio di piombare in un ciclo di dipendenza. Studi su veterani delle guerre della Corea e del Vietnam hanno fornito prove evidenti della correlazione fra un maggior stress e una maggior propensione alla dipendenza da droghe. Quasi due terzi dei soldati che non parteciparono mai a un'azione bellica svilupparono un problema di alcolismo, mentre due terzi di quelli

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che presero parte a combattimenti abusavano di alcol oppure erano alcolisti attivi o alcolisti in remissione. La gravita del loro alcolismo, inoltre, era in rapporto con la quantità di tempo passata in combattimento. Uno studio appurò che la relazione fra stress da combattimento e consumo eccessivo di alcol persistette per più di un decennio dopo gli eventi che avevano provocato una forte tensione. La 'cocaina connection" Verso la fine degli anni ottanta, Roger Weiss, che dirige il centro per la cura dell'abuso di alcol e di droga del McLean Hospital, condusse studi sui cocainomani. Dato che il McLean è un ospedale psichiatrico privato, molti dei suoi pazienti erano importanti uomini d'affari. Oltre la metà soffrivano di turbe dell'umore, oltre che di dipendenza da qualche sostanza. H 30% soffrivano di depressione unipolare e un altro 23% di depressione bipolare o cicloùmica. (Fatto interessante, i tossicodipendenti che soffrivano di sbalzi d'umore di tipo bipolare non interpretavano la loro tossicodipendenza come un'autocura per combattere la depressione. Sostenevano invece che usavano la cocaina quando si sentivano già "su"

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perché volevano restare "su".) In certe persone - quelle con una sindrome da deficit dell'attenzione, per esempio - la cocaina ha l'effetto di "aiutarle a fecalizzare dell'energia indifferenziata, spesso incontrollata," secondo Io psichiatra di Harvard James Ellison. Questo può essere dovuto al paradossale effetto calmante che droghe con effetti stimolanti esercitano su persone affette da certe turbe psichiatriche. Per esempio, bambini affetti da sindrome iperatriva con riduzione del livello di attenzione (ADHD: attention deficit hyperactive disorder) vengono calmati da psicostimolanti. La maggior parte degli adulti con ADHD non ricevono questa diagnosi, eppure studi protratti nel tempo su bambini con deficit dell'attenzione hanno rivelato che una notevole proporzione di loro continuano, da adulti, a essere iperattivi, impulsivi e incapaci di concentrarsi. Senza volerlo, questi soggetti possono ricorrere alla cocaina per calmare il caos. I cocainomani di Weiss riferiscono di aver ottenuto un sollievo temporaneo alla loro incapacità di concentrare la propria attenzione e alla loro impulsività quando iniziarono a far uso di

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cocaina.30 Egli crede quindi che la cura con mezzi chimici della riduzione del livello di attenzione possa aumentare la probabilità di guarigione dall'abuso di sostanze per coloro che ne soffrono. Nella maggior parte della gente, la cocaina produce stimolazione ed euforia, in parte accrescendo l'attività della dopamina nel cervello, il che produce sia sintomi da astinenza sia desiderio intenso della sostanza.30 Durante le prime ore del "crollo" provocato dall'astinenza, l'individuo rivela la caratteristica sintomatologia di una depressione grave. Dorme più del necessario ed è bramoso di cibo. Quando, dopo qualche giorno, la sua energia ritorna, il suo umore rimane spento e atono. Poi il desiderio comincia a inasprirsi sempre più, spesso portando a una ricaduta. "Strategie di cura rivolte a cocainomani si sono concentrate sull'aumento dei livelli di dopamina nel cervello in questo periodo di svezzamento" scrive Gitlin. L'idea è quella di ridurre la bramosia della sostanza. ' Fra tutti i vari tarmaci che finora sono stari testati, quello i cui effetti sono maggiormente dimostrati è la desipramina, un antidepressivo. Gli effetti sono riscontrabili in capo a una o due

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settimane. Come esempio di qualcuno la cui guarigione dalla dipendenza di cocaina fu favorita dal trattamento con un antidepressivo, Gitlin cita il caso di un paziente che chiama Barry. Per un certo tempo, dopo uno stravizio con la cocaina, Barry andava ai suoi incontri dei Cocaine Anonymous, ma aveva sempre finito col ricadere nell'uso. Quando le cose arrivarono a un punto tale che la sua ragazza minacciava di piantarlo e lui temeva il licenziamento, Barry si rivolse a uno psichiatra specializzato in cura della cocainomania. La desipramina fu suggerita come qualcosa che avrebbe potuto aiutarlo a stare alla larga dalla cocaina, ma soltanto se egli avesse partecipato regolarmente al programma in dodici fasi Quando Barry accettò, gli vennero prescritti 175 mg giornalieri dell'antidepressivo. Ebbe una ricaduta poco dopo l'inizio del trattamento, ma nei mesi successivi la sua voglia di cocaina diminuì. A questo punto, la somministrazione del farmaco venne gradualmente diminuita e poi interrotta. "Barry continuò a lavorare al programma dei Cocaine Anonymous e ora non prende cocaina da sette mesi," riferisce Gitlin.31 Le persone che soffrono di turbe

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dell'umore sono a maggior rischio di dipendenza dalla cocaina. Roger Weiss sostiene che una visita psichiatrica è importante per i cocainomani perché un gran numero di loro soffrono già di turbe dell'umore. Gli psichiatri devono ricercare attentamente sintomi di queste patologie: specie rìdotimia (la versione più lieve di sindrome maniaco-depressiva) e sindrome da deficit dell'attenzione. Quando sono curate, afferma Weiss, i cocainomani hanno molte più probabilità di migliorare.32 Fino a pochissimo tempo fa, i gruppi alcolisti anonimi, Cocaine Anonymous e Narcotics Anonymous hanno mostrato scarso interesse per il fattore genetico nella dipendenza, o per l'effetto delle turbe dell'umore nei tentativi delle persone di tornare alla normalità Come vedremo, ciò è stato una tragica trascuranza. "Molte cure tradizionali dell'alcolismo possono fallire perché non sono mirate in primo luogo ai disturbi che hanno predisposto la persona all'alcolismo," ha dichiarato il dottor Tarter. 3 "Una combinazione di diagnosi precoce e di intervento farmaceutico è il modo più saggio di procedere," ha detto al "New York Times" il dottor Fred Goodwin, della Alcohol, Drug Abuse and Mental Health

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Admini-stration. Egli pensa inoltre che nel prossimo futuro i farmaci cominceranno a essere usati per la prevenzione. I ricercatori cominciano a credere che per certe dipendenze possa esistere un periodo critico, come la tarda adolescenza e l'inizio dell'età adulta, in cui il rischio di cadere nella tossicodipendenza è maggiore. "L'offerta di un farmaco che corregga la vulnerabilità durante questi anni è una potenziale strategia di cura," riferisce Gole-man. Nel caso di soggetti con una suscettibilità all'alcolismo dovuta a un basso livello di serotonina, ha detto Goodwin, "se essi vengono protetti da un farmaco che aumenta e stabilizza la serotonina durante gli anni in cui sono maggiormente vulnerabili all'alcolismo, allora più tardi nella vita possono essere in grado di bere convivialmente con un basso rischio."34 I ricercatori sulle tossicodipendenze si rendono conto della necessità di nuovi farmaci, destinati a correggere le precise anomalie cerebrali riconosciute corrispondenti alle diverse tossicodipendenze. Il dottor Goodwin annuncia che la Alcohol, Drug Abuse and Mental Health Admimstration sta lanciando "un importante programma di avanzamento medico teso

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alla scoperta di farmaci in grado di interagire con i recettori specifici per ridurre il desiderio della sostanza oggetto di abuso." Quanti potrebbero beneficiare di tali farmaci? Goodwin assicura che I'80% dei soggetti che, intrapreso un programma psicoterapeutico, lo interrompono troppo presto lo fanno perché non riescono a resistere al desiderio della droga. Tossicodipendenzefamiliari, stati (Tumore familiari La psichiatra Eileen Fitzpatricìc aveva passato anni in terapia e negli alcolisti anonimi, prima di decidere che forse aveva bisogno di un antidepressivo. "Tutti dicevano che la depressione sarebbe scomparsa dopo che fossi rimasta in astinenza per un certo tempo. Invece la depressione non se ne è andata." Quello che convinse Eileen a chiedere l'assistenza medica fu la sua scoperta, verso i quarant'anni, che sia l'alcolismo sia la depressione erano serpeggiati nella sua famiglia per generazioni Perché non aveva mai saputo prima della malattia che perseguitava la sua famiglia? Dopo aver conseguito l'astinenza, Eileen aveva deciso di tenersi lontana da altri membri della sua famiglia per proteggersi "Erano così in tanti a bere, per questo li

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evitavo," spiega. Ma, dopo essere rimasta lontana dall'al-col per sette anni, si sentì abbastanza forte da poter riannodare i rapporti e spedì delle cartoline di auguri di Natale. "Parecchi mesi dopo si è rifatta viva una cugina di mia figlia. Una sera abbiamo cenato insieme e ci siamo messe a parlare della famiglia." Sua cugina, apprese, si stava rimettendo dall'alcolismo, come parecchie delle sue sorelle. H loro padre per poco non era stato ucciso dall'alcolismo. La cugina di Eileen si ammalò gravemente prima che qualcuno si rendesse conto che aveva bisogno di essere curata. Rivelò a Eileen, la sera in cui cenarono insieme, di aver compiuto parecchi tentativi di suicidio. "L'ultimo non è stato uno scherzo," racconta Eileen. "Per poco non ci ha lasciato le penne." Quello che lasciava Eileen interdetta era il fatto che sua cugina si era rimessa da quasi cinque anni quando fece l'ultimo tentativo di suicidio. "È stato solo perché è finita in un reparto psichiatrico che alla fine ha ricevuto un trattamento antidepressivo. Mi ha detto che fa meraviglie." La conversazione che Eileen ebbe con sua cugina mise improvvisamente le cose in prospettiva. "Quando mi ha parlato dì

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tutta quella depressione che circolava nella nostra famiglia, mi si è accesa una luce nel cervello. Allora è proprio quello che sta succedendo anche a me, ho pensato!" I problemi di alcolismo che perseguitavano la sua famiglia erano molto più vasti e profondi di quanto Eileen avesse mai sospettato, ma "la parte che veramente mi ha sorpreso è stata la depressione." Suo padre era sempre stato un uomo ansioso, eppure la sua ansia non era mai stata associata alla depressione. Ora Eileen pensa che la sua depressione fosse stata mascherata dall'ansia, così come avveniva con la propria depressione. Ci volle molta costanza da parte di Eileen per passare dal suo primo lampo di presa di coscienza a un adeguato programma di cura. Per prima cosa ne parlò alla sua psichiatra, che sostenne di non essersi accorta che era depressa. "Forse lo tenevo nascosto," ipotizza Eileen, minimizzando il fatto che la sua psichiatra non le abbia mai fatto innanzitutto una diagnosi adeguata. Era successo lo stesso col suo medico. "Anche lei ha detto che non si era accorta della mia depressione. Ha detto che spesso sembravo infuriata e ansiosa, ma che non ne aveva scoperto il motivo." E

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compito dei medici ottenere dal paziente informazioni ed emettere una diagnosi; questo non è meno vero per la depressione che per altre malattie. Eileen fu fortunata a essere in grado di giungere a un'adeguata analisi della propria situazione, ma si sentì imbarazzata a dover negoziare col suo medico una cura. "È stato con grande difficoltà che ho detto al mio medico: 'Voglio provare un antidepressivo.' La dottoressa non era contraria, ma neppure ne sapeva gran che di antidepressivi" Anche rivolgersi al suo medico le richiese del coraggio. "Il mio primo contatto con questa donna è stato come un qualsiasi rapporto professionale con una mia cliente. Dover ammettere che io stessa avevo questo grave problema di depressione ha rappresentato un colpo per il mio ego. Però l'ho fatto. La dottoressa mi ha ordinato la imipramina, e nel giro di due settimane mi sentivo sensibilmente meglio. La mia depressione è sparita, e anche la mia ansia. In tre settimane mi sentivo meglio di quanto fossi mai stata in vita mia." Secondo ampi studi epidemiologici condotti di recente dal NIMH, metà delle donne alcoHste sono gravemente depresse, e due terzi lo erano prima ancora di

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fare abuso di alcol.35 Possono passare così anni, con le donne che hanno continue ricadute, soprattutto perché la loto depressione continua a non essere curata. Oppure, come Eileen, riescono a diventare astemie ma il loro umore ne risulta così compromesso che la vita finisce per equivalere a poco più di una vittoria quotidiana contro il bere. Fu solo quando la depressione di Eileen fu curata che le cose nella sua vita cominciarono a mettersi veramente per il meglio. Gli affari del suo studio psichiatrico presero ad andare a gonfie vele e, a quarantacinque anni, s'iscrisse alla facoltà di teologia. Peccato che questo avvenisse ben quindici anni dopo i suoi primi contatti con gli alcolisti anonimi! Quando l'astinenza non basta Un opuscolo degli alcolisti anonimi scritto da un gruppo di medici in via di guarigione si propone di informare i membri che certi alcolisti necessitano di cure farmacologiche per rimettersi completamente. A pazienti depressi "è stato detto dagli alcolisti anonimi di buttar via le pillole, con l'unico risultato di un ritorno della depressione con tutte le sue difficoltà, a volte con la conseguenza finale di un suicidio," riferiscono i medici. Essi

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presentano il caso di Fran, una donna gravemente depressa che finalmente si unì agli alcolisti anonimi, solo per essere sfidata dai membri del suo grappo. "Al mio primo incontro sono rimasta molto scossa," essa raccontò, "quando una delle prime domande che mi furono poste è stata: 'Lei prende deDe pillole, di qualsiasi genere?' " Fin dall'inizio "c'è stato un continuo bombardamento a tappeto di frasi come 'La pianti di usare una stampella,' 'Sia onesta con se stessa' e 'Stia alla larga dallo strizzacervelli: tutto quello che le serve sono gli alcolisti anonimi.'" Fran tentennò per un po' e alla fine smise del tutto di prendere qualsiasi tipo di medicina. Non tardò molto che, come testimoniò, "mi sono trovata partita per un viaggio da cui non ero troppo sicura che avrei mai fatto ritorno: un viaggio di allucinazioni, paranoia e ossessioni." Benché ospedalizzata parecchie volte, continuò a sentirsi lacerata fra quello che i dottori le dicevano e "tutti i 'consigli medici' che ricevevo da altri gruppi di alcolisti anonimi." Due modelli di cura rivali cercavano di convincerla, e lei si sentiva in dovere di scegliere l'uno o l'altro. Ripemtamente, afferma, "ho scelto gli

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alcolisti anonimi. Ogni volta che smettevo di prendere le mie medicine i sintomi peggioravano e tornavano le depressioni con pensieri di suicidio." Soltanto quando uno psichiatra la diagnosticò affetta da sindrome maniaco-depressiva essa cominciò a vedere la sua situazione sotto una nuova luce. La temperanza non bastava. "Oggi ho un atteggiamento completamente diverso verso il dover prendere medicine. Mi rendo conto che certuni dicono ancora che sono 'dipendente' da qualcosa, ma non me ne importa. Io ho soltanto un giudice, le mie facoltà intellettive. Non ha nessuna importanza se qualcuno sa che prendo il litio per la mia malattia." La battaglia che alcuni gruppi con un programma in dodici fasi hanno intrapreso contro la cura farmacologica delle malattie psichiatriche crea un serio problema, come fa osservare quell'opuscolo degli alcolisti anonimi. I suoi autori concludono, senza mez2Ì termini: "Così come è sbagliato permettere a qualsiasi alcolista di ridiventare dipendente da qualsiasi droga, o incoraggiarlo a ciò, è ugualmente errato privare qualsiasi alcolista di medicinali in grado di alleviare o controllare altri problemi invalidanti e/o emotivi."

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Eppure l'opuscolo lascia intendere che soltanto quelli con gravi turbe psichiatriche - quelle che comprendono paranoia, allucinazioni e depressioni con ossessioni di suicidio - necessitano di cura farmacologica. Persone come Diane, le cui depressioni sono più moderate, non dovrebbero aspettarsi che l'astinenza da sola compia il miracolo. Qui è dove l'associazione degli alcolisti anonimi deve educare meglio i suoi membri. L'alcolismo crea stati depressivi, ma le persone con dipendenza da sostanze sono spesso affette da turbe dell'umore che esistono separatamente. L'astinenza non cura queste turbe dell'umore. Quando ci si aspetta questo, spesso le conseguenze sono tragiche. Una donna disperata Kitty Dukakis è un drammatico esempio di una persona con una grave malattia psichiatrica che ricevette un assistenza inadeguata per molti anni perché fu curata principalmente per dipendenza da sostanze. Quando la storia della signora Dukakis, che bevve un flacone di alcol per frizioni, esplose nei media solo pochi mesi prima della pubblicazione del suo libro di memorie, Now You Know, tutti rimasero scioccati. Si era appreso prima della

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sua dipendenza da pillole dietetiche, curata all'Hazeldon nel 1982. Qualche anno dopo, subito dopo che il governatore Dukakis perse le elezioni presidenziali, si fece ricoverare nella clinica Edgehill, a Newport, nel Rhode Island, per curarsi del suo alcolismo. Tuttavia, prima dell'incidente dell'alcol per frizioni, alla depressione si era soltanto accennato. Ci fu una brevissima allusione a un problema di umore in un articolo comparso su "People" l'autunno successivo alle elezioni dove si descriveva l'esperienza esaltante che Kitty aveva avuto grazie a un programma dell'associazione Outward Bound ("Tirarsene fuori") . Gli autunni erano spesso "periodi non buoni" per lei, rivelava l'articolo, e lei si era messa in questo impegnativo programma nella speranza di scamparla da una stagione che per lei era di solito tremenda. Nel momento in cui "People" puntò i suoi obiettivi su Kitty, sembrava che la strategia avesse funzionato. Le foto della rivista erano molto eloquenti Aveva messo su qualche chilo e il suo volto aveva un'espressione rilassata e animata, non il teso sorriso stereotipato a cui ci avevano abituato le sue foto della campagna

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elettorale. E Dio sa se anche i suoi familiari non speravano che si fosse rimessa del tutto. Ma poi, qualche mese dopo, nel profondo della sua depressione invernale, la signora Dukakis fece il suo gesto disperato con l'alcol per frizioni. "Non avevo progettato di uccidermi," disse più tardi ai medici dell'ospedale quando le chiesero se aveva avuto intenzione di suicidarsi "Volevo soltanto dormire per un po'. Volevo sollievo dal dolore dell'essere sveglia." II dolore da lei descritto era la particolare sofferenza generalizzata della depressione grave. Oggi questo è chiaro. Ma ci si chiede: perché mai non era stato chiaro ai medici che l'avevano avuta in cura per tutti quegli anni? Cosa non aveva funzionato? La cura di Kitty Dukakis era stata gestita principalmente mediante pochi programmi mirati alla disintossicazione. Era curata non come una persona affetta da una dolorosa affezione psichiatrica ma soltanto come una da disintossicare. E la depressione, che probabilmente l'aveva accompagnata fin da quando, da adolescente, aveva cominciato a prendere le pillole dietetiche di sua madre, era qualcosa che veniva ignorato da coloro che erano nella

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posizione di poter prestarle aiuto. Paradossalmente, il fatto che era la moglie del governatore può aver contribuito a far sì che i problemi medici di Kitty Dukakis non ricevessero un trattamento adeguato. Facendosi curare dalle sue dipendenze da farmaci e dall'alcol, avrebbe anche potuto liberarsi, e rapidamente, dalle sue turbe psichiche. Evidentemente, non le andava di continuare a seguire questi programmi un momento di più di quanto giudicasse necessario. Eppure al di fuori di questi programmi ebbe uno scarso aiuto. Nel corso degli anni si incontrò con uno psichiatra soltanto occasionalmente. Scrive che non credeva che la terapia della parola potesse aiutare. Per parecchi periodi fece uso di farmaci antidepressivi, e anche se essi l'aiutarono smise sempre di prenderli abbastanza rapidamente. Invece, come descrive nel suo libro, faceva uso di alcol - con estrema cautela e controllo - per alterare il proprio umore, per incrementare il flusso di neurotrasmettitori e così continuare a funzionare. Quando iniziò la campagna di Michael per la presidenza, Kitty cominciò a prendere un antidepressivo. Gli effetti collaterali la preoccupavano,

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ricorda, e quindi interruppe di nuovo la cura. Ripensandoci, pensa che sia stato il ritmo straordinariamente febbrile di qUei giorni di campagna elettorale a salvarla dal crollo. Per giunta era estate, solitamente la sua stagione "su". Ma con l'autunno e il presentimento della sconfitta di Michael, Kitty entrò in un'altra grave depressione. Uno psicofarmacologo le prescrisse la fluoxetina, ma allora lei beveva "in modo incontrollabile". Sapendo che il farmaco in combinazione con l'alcol era pericoloso, smise di prendere la fluoxetina. Come può succedere con le donne, l'abitudine alla bottiglia prese rapidamente una brutta piega. Kitty entrò nella dinica di Edgehill, a Newport. Più o meno in questo periodo, riprese la fluoxetina. Esso non la faceva sentire euforica, scrive, ma "normale", equilibrata. Ma poco dopo aver raggiunto questa condizione decise che "non era più necessario continuare a prendere il farmaco." Dov'erano i medici?, vien fatto di chiedersi nel leggere le pagine della Dukakis sulla sua malattìa. Possibile che nessuno le dicesse che chi è affetto da depressione grave ha bisogno di essere curato con farmaci per un periodo più lungo di un mese o due?

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Dopo Edgehill, la signora Dukakis smise anche di farsi vedere di tanto in tanto dallo psichiatra. H suo unico appoggio erano gli incontri degli alcolisti anonimi Kitty non dice se il suo particolare gruppo la scoraggiasse dal prendere medicine, ma sembra improbabile che la incoraggiasse. Nessuno, evidentemente, nonostante la paralizzante gravita delle sue crisi, la incoraggiava a persistere nella terapia antidepressiva. La sua era una situazione tragica, e tutt'altro che unica. La maggior parte delle persone che oltre a essere depresse hanno problemi di dipendenza non vengono aiutate per la loro depressione. Il deterrente in dodici fasi Negli Stati Uniti la cura delle tossicodipendenze è rigidamente istituzionalizzata. La maggior parte delle persone con problemi di abuso di sostanze finiscono in case di cura dove le malattie psichiatriche non vengono affrontate. Non vengono neppure diagnosticate. Questo vale anche per le cliniche più prestigiose, che mettono in chiaro fin dalla prima telefonata che, quali possano essere gli altri problemi coesistenti in un particolare individuo - bulimia, depressione,

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sindrome panica o qualsiasi altra affezione - loro si occuperanno soltanto della disintossicazione. "Io non mando al Betty Ford nessuno che debba essere mantenuto in terapia farmacologica perché loro gli portano via le medicine," mi rivelò Virginia Hamilton nel corso del nostro incontro a cui ho già accennato. "All'Hazeldon fanno lo stesso." "Alcuni di questi posti, anche se non tutti, sono terribilmente costosi," fa osservare. "E alcuni dei programmi dei costosi ospedali privati contro l'abuso di droghe, di orientamento psichiatrico, non si dedicano abbastanza al problema dell'abuso di sostanze." "A quanto pare, la maggior parte dei programmi tendono a essere fortemente orientati in una direzione o nell'altra," osservai "È così, oppure ignorano completamente l'altro orientamento, e fanno cilecca. Ma, statisticamente, la maggior parte dei programmi di recupero sbagliano perché non hanno nessun orientamento medico. Si basano sul modello di cura dell'Hazeldon, che ignora il lato psichiatrico del quadro e non permette l'impiego di nessun tipo di farmaco." Negli ultimi due decenni, il "recupero" si è sviluppato in un imponente movimento e business internazionale, con trentamila gruppi

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riabilitativi in settanta paesi Esso è diventato sempre più potente, e sono aumentate enormemente le masse e i tipi di persone che sostiene di essere in grado di curare. Soggetti con gravi turbe dell'umore che si sottopongono a un programma in dodici fasi per guarire da una dipendenza possono trovarsi coinvolti in un sistema che non è attrezzato per curare i gravi problemi medici che possono anche aver provocato la dipendenza stessa. Come si è potuta determinare una situazione del genere? La cura non medica degli abusi di sostanze ha preso piede in parte perché la medicina non ha voluto farsi coinvolgere. "Bisogna ricordare che, all'inizio, gli psichiatri non volevano neppure toccare la tossicodipen-denza," deplora lo psichiatra Oscar Bukstein. "I tossicodipendenti erano stigmatizzati, e nessuno li aiutava." Il movimento del self-help (autoterapia), quindi, si sviluppò in un vuoto medico. I primi centri di cura sorsero nel Minnesota. Quello di Hazeldon è oggi uno dei più noti. "Ci creda o no, è uscito da alcuni esperimenti tentati in istituti psichiatrici statali," ricorda Bukstein. "Avevano bilanci ridotti all'osso, e quindi cominciarono a

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servirsi di gruppi di autoappoggio con ex pazienti e psichiatri aggiunti. Questo fu l'inizio del modello riabilitativo. Si basava sulla teoria che i pazienti si rapportano meglio con ex tossicodipendenti In questo modo hanno risparmiato un mucchio di soldi Spesso queste persone non avevano un minimo di addestramento, o avevano una formazione sommaria. Non si doveva pagare un professionista laureato, e neppure un diplomato. Cosi era estremamente a buon mercato." H "modello Hazeldon", o il "modello Minnesota", come finì per essere chiamato, è stato imitato con vari gradi d'integrità e successo da organizzazioni a fini di lucro e non a fini di lucro in tutto il paese. Le persone entrano ed escono da questi programmi in ventotto giorni come macchine che passano per un autolavaggio. La lunghezza del soggiorno non ha niente a che fare con la gravita di una data malattia e molto a che fare con quello che può pagare l'assicurazione sulla salute. Kitty Dukakis partecipò a cinque o sei programmi di recupero prima di ottenere finalmente una visita psichia- trica da cui scaturì la diagnosi di sindrome bipolare. Per otto anni fu

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curata soltanto per la sua dipendenza da sostanze. La disperazione emotiva che la spingeva a cercare nella cassetta dei medicinali alcol per frizioni, lacca per capelli e solvente per unghie fu evidentemente trascurata, o non compresa. D comportamento fu visto come parte di una sindrome di dipendenza, anziché sintomatico di una malattia psichiatrica. Era una donna disperatamente ammalata, e nessuno le tracciava il quadro clinico. Gli esperti di tossicodipendenze, molti dei quali ex tossicodipendenti, tendono a vedere la depressione soltanto come un sintomo di astinenza, come mancanza della droga, dello "sballo". Scoraggiano ciò che chiamano autocommiserazione. Quando affermano che le turbe dell'umore scompaiono spontaneamente dopo il raggiungimento dell'astinenza, senza volerlo invadono quello che è il campo della medicina. Oskar Bukstein, che dirige un programma terapeutico per adolescenti affetti sia da tossicodipendenze sia da turbe psichiatriche, è preoccupato per quello che vede come un ennesimo micidiale programma in dodici fasi "Questi programmi possono creare la sensazione che se uno non si adegua al modello, è colpa sua. Se il

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paziente non va bene, è perché 'si rifiuta di collaborare.' In questo modo la colpa è gettata sul paziente, non sul programma, quando la cura fallisce." La capacità di un individuo di resistere al dogma del trattamento in dodici fasi dipende in primo luogo da quanto è sviluppata la sua personalità. Giovani che vanno agli incontri quattro o cinque volte alla settimana possono essere vulnerabili a un effetto di lavaggio del cervello. "Gli adolescenti non hanno uno sviluppo cognitivo sufficiente per poter vedere i grigi," sostiene Virginia Hamilton. "Vogliono che tutto sia nero o bianco. Possono andare da politossici che si ficcano ogni concepibile schifezza di droga in ogni concepibile orifizio a ex tossicodipendenti che si fanno scrupolo di prendere un'aspirina per una febbre a quaranta." A volte i tossicodipendenti adolescenti hanno un bisogno disperato di una cura medica. Bukstein pensa che la maggioranza degli adolescenti con problemi di droga e di alcol sono affetti da turbe dell'umore non identificate. Ma i genitori possono esser sollecitati ad adottare la filosofia antifarmaci dei centri riabilitativi

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tradizionali. "Noi siamo ex tossicodipendenti che si sono liberati dal vizio, e sappiamo come si fa" è una dichiarazione che dei genitori spaventati che non sanno niente di tossicodipendenze possono trovare potentemente convincente. L'apprensione per il figlio (e in certi casi per il proprio benessere) può mettere dei genitori in una condizione in cui vengono facilmente intimiditi Essi vogliono credere che qualcuno ha la soluzione del problema. "Noialtri li abbiamo," assicurano i disintossicati, e i genitori angosciati cedono. Possono non chiedersi mai se il figlio non soffra prima di tutto di una malattia da cui sia originata la sua condizione di alcolista o di tossicodipendente. Restano terrorizzati, quindi, dalle continue ricadute del figlio e dal suo comportamento sempre più strano. Nell'errata convinzione che la tossicodipendenza sia un fatto "mentale", restano svegli la notte chiedendosi cosa hanno fatto e cosa non hanno fatto, dov'è che hanno sbagliato. Ansiosi di espiare la loro colpa, possono essere maturi anche loro per una seduzione ideologica. LJ storia di fhillip Robert ed Eleanor adottarono Phillip quando aveva tre

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mesi. Formarono una famiglia meravigliosamente assortita. Più grandicello, lui assomigliava talmente a entrambi i genitori adottivi che la gente si stupiva quando veniva a sapere che non era il loro figlio biologico. Nel crescere, sviluppò l'arguzia di Eleanor e la serietà di Robert. Piaceva a tutti. Alto e magro, ragazzo moder- no, ci sapeva fare al basso elettrico, che aveva imparato a suonare da solo a dieci anni. Quando, a undici anni, cominciò a mostrarsi annoiato a scuola, Robert ed Eleanor parlarono agli insegnanti e a dei consulenti e decisero che aveva bisogno di maggiori stimoli. Gli trovarono una scuola migliore. "Reciso sul nascere", come si espresse Robert. La parola che usò Eleanor fu "struttura". Pensava che forse non avevano dato a Robert una sufficiente struttura. Come molti genitori diventati adulti negli anni sessanta, avevano incoraggiato il lato creativo del figlio, forse a spese della disciplina. Si decisero per un collegio con uno scarso divario numerico fra studenti e insegnanti, che si concentrava sullo sviluppo del senso di responsabilità. Phillip sembrava abbastanza soddisfatto. Nei fine settimana

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andava a casa e s'incontrava coi suoi amici, e si teneva alla larga dalla scuola locale da bifolchi dove aveva sempre avuto delle discussioni con gli insegnanti II direttore della nuova scuola avvertì Phillip e i suoi genitori che non tollerava che gli studenti usassero droghe o alcolici. "Facciamo analisi delle urine senza preavviso," ammonì Questo sorprese Eleanor. "Noi non facciamo tanto caso all'erba," confessò. "Invece noi la prendiamo molto sul serio," stabilì il direttore. "Qua dentro non la vogliamo, punto e basta." A dodici anni, Phillip fumava già spinelli, e gli piaceva scolarsi qualche birra. Adesso avrebbe dovuto limitare il suo consumo ai weekend. Pensò che ne sarebbe valsa la pena se i ragazzi della nuova scuola fossero stati tipi in gamba. Un lunedì di ottobre la scuola convocò gli studenti della settima per la prima analisi delle urine dell'anno. Più tardi nella settimana furono chiamati i genitori di Phillip. "Sono state trovate tracce di marijuana nelle sue urine," annunciò il direttore a Eleanor. "Ma è stato a casa nel fine settimana," obiettò lei "Noi esigiamo che non la fumi neppure a casa. Credo di essere stato chiaro." Così Phillip fu espulso. Come poi si

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vide, non gli dispiacque di tornare a casa, come non dispiacque a Robert e a Eleanor. Essi pensarono che non era la scuola giusta, e in ogni modo avevano sentito la sua mancanza. Phillip li supplicò di consentirgli di tornare alla vecchia scuola, giurando che avrebbe fatto meglio. Accettarono. Per un po' Robert lo aiutò a fare i compiti e i voti del ragazzo migliorarono, ma in primavera i genitori cominciarono ad accorgersi che il figlio rincasava in palla, dopo essere stato fuori di notte coi suoi amici. Aveva appena compiuto i tredici anni Robert ed Eleanor fissarono delle regole. Discussero senza tregua "il problema'. A volte arrivarono a fargli delle sfuriate. Tutti i suoi amici lo facevano, si era scusato Phillip, e loro sospettavano che dicesse la verità. Ma d'altra parte non volevano che lui, proprio lui, andasse su di giri. Sembrava una cosa anormale. Ai loro tempi, i ragazzi avevano diciassette o diciotto anni prima di cominciare a far bisboccia con la birra nei fine settimana. Ma come, adesso cominciavano a tredici anni? Questo non lasciava presagire niente di buono. Indubbiamente, alcol e marijuana erano troppo difficili da gestire per ragazzini di quell'età.

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"Ma perché mai dovrebbero anche solo volersi prendere degli sballi così giovani come sono?" si chiedeva Eleanor. Aveva sempre pensato al bere negli adolescenti come a un modo di alleviare l'ansia provocata dai primi pruriti sessuali. "Forse dipende dalla sessualità che si sveglia," ipotizzò Robert. "A tredici anni?" obiettò Eleanor. Poco dopo aver compiuto quattordici anni, Phillip fu mandato in un centro di recupero. Era stato scoperto mentre beveva durante l'orario scolastico e aveva insul-tato i suoi insegnanti. Aveva perfino colpito uno di loro. I suoi genitori ne provarono angoscia ma anche sollievo. Erano certi che Phillip non era più controllabile ma non avevano saputo cosa fare. La loro unica risorsa era un programma di disintossicazione. Forse il fatto che quella cosa fosse successa così presto... L'istituto New Winds, raccomandato da un collega d'ufficio di Robert con un figlio che ne aveva seguito il programma, si trovava solo a un'ora di distanza. Robert ed Eleanor si lasciarono rapidamente coinvolgere, come era richiesto dal New Winds. Parteciparono a sedute di gruppo aperte alle famiglie ogni sabato e una volta al mese per l'intero

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weekend. Furono stupiti dei rapidi progressi di Phillip. "Adesso è in grado di parlare di quello che prova," osservò Robert, fiero di lui. "Si è alzato in piedi durante una seduta di gruppo e ha detto che gli spiaceva per il dolore che ci aveva causato," disse Eleanor. "Ce la sta mettendo proprio tutta." Le sedute di gruppo familiari li costrinsero ad affrontare la loro mancanza di polso con Phillip, la loro incapacità di imporre dei limiti, il loro bisogno di essere amati dal figlio a ogni costo. Si sciolsero in lacrime. Robert parlò del suo rapporto con il padre. Impararono a essere più aperti con Phillip. Phillip non avrebbe più potuto farli fessi. Gli avevano fatto capire che in famiglia non poteva più continuare con quell'andazzo. Dopo tre mesi, Phillip, fu giudicato "guarito" e tornò a casa. Era inteso che avrebbe partecipato ogni giorno alle riunioni degli alcolisti anonimi. Dato che l'anno scolastico volgeva al termine, si sarebbe trovato un lavoro part-time. E sarebbe stato un membro pienamente partecipante della famiglia - presente e comunicante ai pasti - con faccende da sbrigare regolarmente e un orario preciso per il rientro a casa. Star fuori la notte, neanche

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parlarne per sei mesi. Gli amici avrebbe potuto vederli parecchie volte alla settimana, ma di giorno. Avrebbe dovuto rigare (dritto, senza il miniino sgarro, avevano raccomandato al New Winds. L'intera famiglia doveva premere per un cambiamento, perché la situazio- ne era seria. Per Robert ed Eleanor, era ancora diffìcile, ma finalmente sotto controllo. Non passò molto che Phillip incominciò a disertare le riunioni degli alcolisti anonimi per drogarsi nell'area di parcheggio dietro la stazione ferroviaria. Robert ed Eleanor non avevano idea di quanto stava succedendo, finché non fu condotto a casa sul sedile posteriore dì una macchina della polÌ2Ìa. Non c'era con la testa e sghignazzava come un folle. Aveva cercato di rubare soldi dal registratore di cassa di un'edicola mentre il proprietario gli voltava la schiena. L'uomo voleva sporgere denuncia. Robert ed Eleanor si sentirono traditi. Avevano unito tutte le loro forze per strappare Phillip dal vizio. L'avevano visto come un problema di famiglia. H ragazzo aveva solo quattordici anni, Dio santo, un ragazzo modeflo, una perla di ragazzo. Cos'era successo al loro figlio? Due campi: "recupero"

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contro medicina Cera, naturalmente, la questione della storia familiare del ragazzo. Quando Robert ed Eleanor avevano adottato Phillip, la politica delle agenzie di adozione era quella di non fornire informazioni sulla famiglia biologica. Loro sapevano soltanto che il bambino era nato clinicamente sano. Ora sentivano di dover indagare all'interno, fra i frammenti delle prime esperienze infantili di Phillip con loro, e affrontare i propri sentimenti ambivalenti di genitori. Tutto quello che avevano saputo dei problemi di dipendenza proveniva dalla psicologia. Era nondimeno difficile portare alla luce qualcosa di abbastanza traumatico da spiegare quanto stava succedendo a Phillip. Era stato un ragazzo felice, indubbiamente. C'erano stati i consueti problemi dell'infanzia: incubi per un certo tempo, quando aveva tre o quattro anni, paura del buio. A cinque anni a volte si svegliava pensando che ci fosse qualcuno nella stanza. Eleanor lo aveva perfino portato da uno strizzacervelli Dopo qualche seduta, lo psichiatra aveva detto che si trattava di ansia da separazione e che crescendo gli sarebbe passata. Adesso Robert ed

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Eleanor si chiedevano se non avessero sbagliato entrambi, se non si fossero comportati in modo dissennato. Arrivato ai diciassette anni, Phillip era stato in cinque centri di recupero. In un modo o nell'altro era riuscito a ottenere un diploma di liceo, il trionfo dell'ultimo centro, che aveva insistito per tenerlo sei mesi e l'aveva convinto a frequentare un corso accelerato. Adesso Phillip abitava in una comunità di ex tossicodipendenti in via di recupero nella Carolina del Nord. Non si sentiva molto bene. Non si faceva - almeno per il momento - ma era giù di corda. Robert sospettava che Phillip fosse depresso, ma la comunità aveva una regola tassativa: niente antidepressivi Parecchi anni prima, Robert aveva portato Phillip da uno psichiatra che l'aveva trovato affetto da depressione e bisognoso di una cura farmacologica. Phillip aveva provato l'antidepressivo per un paio di mesi, ma trovava sgradevoli gli effetti coflaterali, e la sua psicoterapeuta, una fautrice del metodo in dodici fasi che non approvava l'uso dei farmaci, non l'incoraggiò gran che a persistere. Essa aveva detto che avrebbe parlato allo psichiatra, ma non lo fece mai. Attribuì ogni miglioramento che si

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determinò nell'umore di Phillip al suo "impegno a cambiare". Ben presto il ragazzo interruppe la cura e tornò ai suoi sballi. Nessuno dei centri riabilitativi dove era stato aveva consigliato una visita psichiatrica. Questo non era affar loro, fi loro problema era la disintossicazione. Alcuni psichiatri credono che gli adolescenti diventino depressi o disturbati da qualche altra patologia psichiatrica prima dell'instaurarsi della dipendenza. "Cos'altro potrebbe trasformare dei ragazzoni in tossicodipendenti?" chiede Oskar Bukstein. Ma un ubriacone è sempre un ubriacone, ribatterebbero gli alcolisti anonimi. Questo magari sarà vero, ma l'interrogativo rimane: quale è una cura adeguata quando una turba dell'umore ha preparato il terreno per una tossicodipendenza, quando cioè la turba dell'umore è la malattìa "primaria"? Psichiatri e psicofarmacologi - e anche, oggigiorno, alcuni esperti di tossicodipendenze -riconoscono che persone con due malattie necessitano di essere curate per entrambe. Non possono essere trattate semplicemente come tossicomani. Quando questo accade, come successe a Kitty Dukakis, la loro salute peggiora. Paura della medicina "Un mucchio di

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membri degli alcolisti anonimi non sono esattamente dei campioni degli ideali dell'associazione," ammette Eileen Fitzpatrick. "Quando sono entrata la prima volta negli alcolisti anonimi, verso la metà degli anni settanta, la maggior parte della gente era contro ogni tipo di cura delle malattie mentali. Si presumeva che l'associazione degli alcolisti anonimi risolvesse tutti i problemi degli alcolisti in via di disintossicazione. Col passare degli anni si è avuta una sempre maggior apertura all'impiego della psicoterapia in aggiunta al programma degli alcolisti anonimi, ma fra i loro membri persiste un atteggiamento di rigidità e di ignoranza sull'impiego dei farmaci." "Certi alcolisti che continuano a essere depressi possono trovare, paradossalmente, scoraggiami gli AA," rileva Roget Weiss, "perché possono sentirsi aEenati da altri membri degli AA quando mancano di andare incontro al drammatico miglioramento nella qualità della vita che altri membri degli AA descrivono come risultato dell'astinenza." Possono sentirsi ancora più alienati quando altri membri de! gruppo li accusano di autocompatimento: nel

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gergo degli AA, di "dire povero me" o "sedere sul vaso da notte dell'autocompatimento", osserva Weiss. "Certi membri degli AA possono addirittura biasimare il paziente perché si cura della depressione con un trattamento antidepressivo concorrente, o con la psicoterapia, o rivolgendosi in generale a uno psichiatra."36 "Gli AA dovrebbero essere informati sulle turbe psichiatriche," lamenta una donna che ha un marito affetto da sindrome maniaco-depressiva e inoltre alcolista in via di disintossicazione. La paura di far sapere al suo gruppo che prende il litio frappone fra lei e la guarigione una difficoltà che si sarebbe potuta evitare, e questo la preoccupa. "A uno che avesse il cancro non direbbero di fare a meno della chemioterapia." Pensa che se quelli del suo gruppo scoprissero che suo marito prende ìl litio "gli direbbero di smettere, e così verrebbe ricoverato all'ospedale in capo a due giorni" Molti membri degli AA hanno idee confuse sulle turbe dell'umore e sui farmaci per curarle. "Per loro queste medicine sono come le droghe illegali," ha detto una donna che nasconde al suo gruppo che prende la fenelzina. Certi membri

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degli AA immaginano che gli antidepressivi producano un "effetto cocktail", un avvertibile cambiamento d'umore poco dopo l'assunzione di una pillola. È comprensibile che un farmaco del genere potrebbe compromettere la sobrietà, ma il litio e gli antidepressivi non hanno un effetto cocktail H riequilibrio delle sostanze chimiche del cervello da loro prodotto richiede settimane per manifestarsi e si mantiene costante. La paura delle medicine viene perpetuata anche da libri e articoli di riviste sulle dipendenze da sostanze. Nel libro The Invisible Alcoholics, Marian Sandmaier avverte che le donne hanno più probabilità di ricevere una diagnosi di una turba emotiva piuttosto che di alcolismo e di farsi prescrivere farmaci "modificatoti dell'umore". Questi farmaci, avverte l'autrice, "possono essere benaccetti per la donna alcolista o anche da lei stessa richiesti. Infatti un tranquillante o un antidepressivo non solo le fornisce un'altra valvola di sfogo chimica ma anche, come un rispettabile 'farmaco per problemi femminili', può essere preso apertamente e senza senso di colpa." Un'affermazione del genere, oltre a tradire un'ignoranza della

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distinzione fra tranquillanti e antidepressivi, rivela un serio pregiudizio contro le donne. Quello che si lascia intendere è che le donne che cercano un aiuto medico per la depressione scelgono la via più facile. GÈ antidepressivi vengono tacciati di essere droghe per donne prive di forza di carattere che vogliono sfuggire alla realtà. Eileen Fitzpatrick pensa che la particolare ristrettezza di vedute di certi gruppi di AA derivi precisamente dallo stesso modo di ragionare per categorie rigide, senza sfumature, che è caraneristico dell'alcolismo. Quando un individuo diventa schiavo di una droga, questa finisce per essere la via prescelta fra altri modi di affrontare la vita. Preso in una reazione sempre più angusta alle difficoltà dell'esistenza, il bevitore diviene inflessibile. L'informazione che contraddice la difesa a cui ha finito per aggrapparsi viene semplicemente respinta. La stessa rigidità può caratterizzare il bevitore in via di guarigione. "I vecchi atteggiamenti non svaniscono nello stesso momento in cui una persona rifiuta un bicchierino," ricorda Eileen. L'atteggiamento difensivo viene rafforzato giorno dopo giorno,

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incontro dopo incontro. "Si impara cosa dire e cosa non dire. La stigmatizzazione operata dagli AA è potente, e può essere molto efficace nel mantenere nei ranghi la maggior parte degli aderenti Rischiare la censura significa rischiare un grave ostracismo." In questo modo, le comunità terapeutiche possono perpetuare proprio la disfunzione che si propongono di correggere. Alcolisti che non pensano con la loro testa possono rischiare di diventare ex alcolisti che non pensano con la loro testa. Facendo proprio un nuovo sistema di convinzioni in sostituzione di quello vecchio, si basano sui preconcetti degli AA per interpretare la realtà così come un bambino si aggrappa alle pagine di un catechismo. Questo non è un modo di operare emotivamente sano. I modelli per la realtà sono in continuo cambiamento, in continua evoluzione, e l'individuo sicuro è in grado di adattarvisi Nella misura in cui una persona è incapace di adeguamento, rimane handicappata. Perso fra due modelli di cura La stigmatizzazione esiste anche sul Iato medico dello steccato della tossicodipendenza. La stigmatizzazione in psichiatria è particolarmente preoccupante, perché

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persone i cui problemi emotivi sono complicati da una dipendenza vengono spesso lasciate senza cure. "Ai miei colleghi non piace curare chi fa abuso di sostanze," osserva Bukstein. "Non sanno bene che pesci pigliare in situazioni del genere. 'Non t'invidio per il genere di pazienti che ti ritrovi,' dicono. Ma loro lavorano con pazienti, per esempio schizofrenici, che non sono meno frustranti" La cura dei tossicodipendenti è inficiata dall'esistenza di due approcci in conflitto fra loro. Ne consegue che i pazienti finiscono per non saper scegliere fra le due alternative. Troppo spesso, sia la psichiatria sia gli AA offrono un modello di cura apertamente ristretto. Se l'individuo non si adegua, si trova nei guai "Quando il paziente è resistente, quelli dei programmi di recupero dicono che è 'negativo'," osserva Bukstein. Gli psicoterapeuti di orientamento psicologico sono governati dai loro preconcetti Gli piacciono pazienti che siano in partenza in buone condizioni di salute, nota argutamente Bukstein. "Quelli preoccupati sono i migliori pazienti perché non sono ammalati" Roger Weiss, come la maggior parte dei medici esperti di

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tossicodipendenze, riconosce il valore di sostegno dei programmi di gruppo in dodici fasi e consiglia ai suoi colleghi di imparare a comprenderli meglio: e a lavorare con loro, non contro di loro. Sottolinea che gli psicoterapeuti dovrebbero interrogare di frequente i loro pazienti "sulla loro assiduita agli incontri degli AA, sul loro atteggiamento nei confronti degli AA, se hanno ottenuto uno sponsor e se prendono la parola durante gli incontri." In ultima analisi, entrambi i modelli di cura sono viziati da preconcetti distruttivi, ed entrambi ritengono responsabili i pazienti che non rispondono al trattamento. "Penso che dobbiamo smettere di indulgere all'abitudine di dare la colpa ai pazienti," avverte Bukstein. "E necessario che troviamo sistemi di cura adeguati a diversi tipi di situazioni, diversi tipi di pazienti" Scendere dalla nube rosata Una delle grandi controversie attuali sui metodi di cura vene sul problema di quanto si debba attendere dopo il conseguimento dell'astinenza prima di prendere in considerazione la cura con i tarmaci. In che misura le turbe dell'umore del dopo-astinenza sono il risultato di ciò che gli AA chiamano "lo scendere

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dalla nube rosata", ovvero quel tonfo nella realtà che avviene dopo che è svanita l'iniziale euforia del raggmngimento'delTastinen-za? Affanno ci si sente elettrizzati per il fatto di essere capaci di avere una decente notte di sonno e di affacciarsi allo sfolgorante sole del mattino senza un malditesta da doposbronza. Tiratosi fuori dai quotidiani fiumi di alcol, il neotemperante si trova restituito a un certo grado di salute, a un certo grado di lucidità. Ma in capo a qualche settimana, se sotto c'è una turba psichiatrica, non tarda a riconoscere che non tutto va bene. L'alcolista in via di disintossicazione non sente dopo tutto di star toccando il cielo con un dito. Si sente anzi schifosamente male. "In trenta giorni, mi sono messa in terapia con antidepressivi," mi riferì una donna di San Luis Obispo, in California, dopo una mia conferenza. Moglie di un medico, è stata una delle poche fortunate che hanno cominciato la cura per la depressione poco dopo aver raggiunto la temperanza. "Ero astemia, ma i miei neurotrasmettitori non facevano il loro lavoro," ricordò. Il farmaco risolse lo scarso funzionamento del suo neurotrasmettitore in capo a qualche

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settimana ed essa si sentì sempre meglio, fino a recuperare i suoi normali livelli di umore e di energia. Katie Evans e J. Michael Sullivan, specialisti in tossi-codipendenze e consulenti in problemi di droga a Portland, nelTOregon, riferiscono che fra i giovani affetti da turbe psichiatriche l'incidenza dell'abuso di sostanze chimiche supera il 50%.36 Virginia Hamilton fa notare che il 70-80% dei suoi clienti - principalmente pazienti esterni di classe media o medio-alta - ricevono diagnosi di turbe psichiatriche che richiedono una cura farmacologica. Il più delle volte, la diagnosi è di sindrome depressiva unipolare o bipolare. Avere due malattie crea un problema che è "maggiore della somma delle sue parti," osservano la Evans e Sullivan in Dual Diagnosti. Quando "una persona confusa" fa abuso di una data sostanza, "diventa più confusa, la persona ostile più minacciosa e aggressiva, e quella con tendenze suicide più a rischio d'incorrere in attività autodistruttive." Fino a poco tempo fa, i medici aspettavano mesi, anche un anno, prima di consigliare una visita psichiatrica a ex tossicodipendenti in via di guarigione. Oggi esperti come la Evans e Sullivan pensano che sia

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assurdo aspettare tanto tempo. "I consulenti del nostro laboratorio medico ci dicono che perfino l'ingrediente psicotropo attivo della marijuana, il tetraidrocannabino-lo, che come noto rimane nel corpo per parecchie settimane perché viene immagazzinato nei tessuti grassi, non è più individuabile nelle urine della maggior parte dei fumatori d'erba cronici a frequenza giornaliera dopo trenta giorni," avvertono. "Secondo, i risultati degli esami elettroencefalografici e i test di soppressione del desametasone (che serve per misurare la funzione neu-roendocrina) tornano alla norma dopo trenta giorni di astinenza."38 Per finire, i dati della ricerca e l'esperienza dinica mostrano che molti dei sintomi psichiatrici provocati dall'abuso in sé scompaiono in meno di un mese. "Lo stesso avviene nell'astinenza dalle benzodiazepine, che è notoriamente un processo che va per le lunghe." C'è chi pensa che offrire farmaci a un soggetto in via di disintossicazione sia pericoloso per la possibilità che faccia rinascere in lui il richiamo della droga proibita. Qualsiasi sostanza - controllata o no - che permetta a un paziente di sentirsi

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meglio è così vista come potenzialmente atta a creare una nuova dipendenza. Oggi questo modo di ragionare sta cambiando. I programmi più nuovi integrano quanto la scienza ha appreso sul rapporto fra sostanze chimiche del cervello, umore e tossicodipendenza. I medici che gestiscono i nuovi programmi intervengono dall'inizio sulle turbe dell'umore. Certi anzi si chiedono quanto sia importante sapere se la depressione è il risultato dell'abuso della sostanza o la sua causa. "Dopo che il paziente è rimasto pulito per qualche settimana, cominci a chiederti: 'Ehi, quali sono i fattori a rischio qui?'" dice Oscar Bukstein. "Qual è il bilancio costo-beneficio del non curare questa persona quale che sia secondo me l'origine della depressione, farmacologica o no?" Indipendentemente da quale possa essere la causa della depressione, il suicidio è un rischio, osserva Bukstein. Poi c'è il costo sociale e delle ore lavorative perdute. "Non ci si può permettere di lasciare una persona senza medicine per due anni per vedere se continua a essere depressa. Se il paziente non migliora dopo parecchie settimane di astinenza, bisognerebbe prendere in seria considerazione la

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cura con antidepressivi."39 Nell'esperienza di Bukstein, fra il 65 e l'85% dei tossicodipendenti in via di disintossicazione rispondono agli antidepressivi. Certi psicoterapeuti ed esperti di tossicodipendenze sono cauti circa la prescrizione di antidepressivi per tossicodipendenti adolescenti "In generale, troviamo che la maggior parte degli adolescenti possono trarre beneficio da interventi di natura sociale-comportamen-tale," scrivono la Evans e Sullivan; in altri termini, dalla psicoterapia. Ma psichiatri che non si fanno problemi a prescrivere farmaci ad adulti spesso li provano - con successo - anche in casi di preadolescenti e adolescenti. Bukstein è uno di questi. A proposito del suo programma di Pittsburgh, afferma: "Noi li visitiamo, e se la diagnosi è di depressione diciamo: non aspetterò che questo ragazzo abbia una ricaduta per scoprire se la sua depressione è 'primaria' o 'secondaria'. H benefìcio della prescrizione di antidepressivi vale sicuramente qualsiasi eventuale piccolo rischio." Finora non ci sono nel nostro paese molti programmi che tengano conto di una doppia diagnosi, anche se, dice Bukstein, "Credo che

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fra non molto questo termine, doppia diagnosi, diventerà una parola d'ordine nel campo delle tossicodipendenze." Ci sono già centri di recupero che sostengono di curare adolescenti sia con turbe psichiatriche sia con problemi di tossicodipenden-za quando in realtà non dispongono dei programmi per poterlo fare. "Loro assicurano: 'Noi abbiamo degli psichiatri, e mettiamo i ragazzi in terapìa farmacologica/ " osserva Bukstein, "ma questo non basta." Per essere efficace, precisa, il trattamento che si basa sulla doppia diagnosi deve attribuire un peso fondamentale alla cura della salute mentale. "Nel nostro programma ADAPT (Adolescent Drug and Psychiatric Treatment), abbiamo una struttura molto flessibile, articolata in dodici fasi, e pensiamo che i gruppi di appoggio siano importanti. Ma noi andiamo contìnuamente alla ricerca di sintomi di patologia psichiatrica, di elementi della storia della famiglia, di informazioni sulla storia del ragazzo. La nostra è una ricerca seria." Nuove speranze per i tossicodipendenti Helen, una mia amica che abita a New York, aveva un problema che qualsiasi genitore troverebbe terrificante. Un anno fa

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scoprì che sua figlia Margaret, ventiduenne, era diventata eroinomane. Fu un sollievo per lei riuscire a trovare per sua figlia un programma che le sembrava più umano e più terapeutico di ventotto giorni di "amore incondizionato". Margaret piantò presto la scuola, avendo cominciato a farsi di angel dust e di black beauties quando aveva tredici anni. Dopo di allora, non riuscì più a combinare niente di buono. Benché intelligente e simpaticissima, non riusciva a tenere un'occupazione per più di un mese o due, e neppure a impegnarsi abbastanza nello studio da ottenere un diploma di scuola media. Nel tempo libero, che corrispondeva praticamente a tutto il suo tempo, gironzolava per le strade e per le taverne, in abiti di cuoio nero da punk. Helen sperava che fosse una fase transitoria. Quando Margaret si avvicinò all'età adulta, il suo comportamento si fece sempre più stravagante, con strani scatti di aggressività e ostilità. Aveva ventun anni prima che sua madre scoprisse che aveva preso il vizio di bucarsi, e ventidue prima che qualcuno potesse pensare a qualche rimedio. Sempre più delusa dalle ricadute di sua figlia (ormai erano due anni che Margaret partecipava a incontri dei Narcotis

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Anonymous, la versione per tossicodipendenti degli AA), Helen si rivolse alla fine al suo vecchio psichiatra, John Talbott. Talbott comprende fra le sue credenziali la presidenza dell'American Psychiatric Association. Helen gli spiegò che Margaret si rifiutava di vedere un professional che nel gergo dei NA sta per "medico". Avrebbe però accettato di vedersi con un esperto di problemi di droga. Talbott interpellò telefonicamente Robert Milman, direttore della dàiica per la cura delle tossicodipendenze presso il Payne Whitney Psychiatric Institute. Milman gli parlò di Virginia Hamilton: "È lei la persona giusta," decise Milman. HeJen andò a parlare con la Hamilton e si sentì incoraggiata. Quando Helen le disse delle sue preoccupazioni per la scarsa scolarizzazione di Margaret e la sua incapacità di mantenere un lavoro, la Hamilton le raccomandò: "Per adesso non ci pensi neanche, al lavoro. Prima di tutto sua figlia deve stare bene." Virginia Hamilton è una consulente in problemi di tossicodipendenze che, come molti suoi colleghi, ha imparato partendo dal fondo. Per anni aveva lavorato nella pubblicità ed era diventata cocainomane: pubblicità, cocaina e

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diazepam, una classica storia di successo femminile degli anni settanta e ottanta. La differenza fra Virginia e la maggioranza degli ex tossicodipendenti che ribaltano le loro abitudini di vita e decidono di diventare consulenti in tossicodipendenze è il suo profondo interesse per la psichiatria. Anche questo iniziò con l'autoanalisi. "Mi ero disintossicata da tre anni e avevo cominciato a soffrire di depressioni ricorrenti. Ero sempre stanca, molto stanca. Dormivo moltissimo. Mi mettevo a piangere per strada. Andavo a prendermi un pezzo di pizza e là in pizzeria, giù lacrime. Vedevo un cane travolto da una macchina e collassavo. Niente stimoli sessuali, le mie regole erano cessate, e nella testa pianificavo il suicidio. Poi ho pensato: aspetta un attimo. Non sarai rimasta alla larga dalla droga per tre anni per arrivare a un passo del genere" Tempo addietro le erano stati prescritti antidepressivi tricidici, che però non le avevano fatto niente. "Ma ho sempre capito che c'era qualcosa che non andava," ammette. Dopo essersi disintossicata, evitò di prendere tarmaci, convinta dal suo gruppo di NA che era meglio così. Ma alla fine si sentì così a terra che si rivolse

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a uno psichiatra, uno con cui si sentiva a proprio agio perché era membro degli AA. "Mi ha ordinato la fenelzina, che è per la depressione atipica, e mi ha salvato la vita." Virginia rimase affascinata dal fatto che i farmaci triadici non avevano toccato la sua malattìa, mentre la fenelzina cambiò tutto quanto. "Adesso volevo sapere in che cosa consisteva la differenza. Qual era la differenza fra i farmaci, e i vari tipi di depressione? Come si spiega che certe medicine funzionano per certe persone e non per altre? Cosa c'è sotto l'intera faccenda?" Virginia mantenne tutta la sua curiosità mentre studiava al John Jay College per diventare consulente in problemi di tossicodipendenza. Poi andò a lavorare al Washton Institute, un consultorio per il recupero dei tossicodipendenti di Washington. Quest'attività la portò a New York, dove lavorò a un programma di disintossicazione col metadone presso il Medicai Arts Center prima di istituire un proprio programma riabilitativo al Freedom Institute. "La faccenda del metadone mi ha dato molto da riflettere. Se il metadone può tenere questa gente alla larga dall'eroina, mi sono detta, non è possibile che qualche farmaco che non

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dia assuefazione e agisca direttamente sul cerveEo possa essere meglio?" Virginia partecipò a congressi di neuroscienza e lesse la letteratura neuroscientifica e psichiatrica. A un convegno che sì tenne a Harvard parecchi anni fa, ascoltò un intervento di Robert Milman. "Quello era l'uomo giusto. Dovevo trovare un modo di lavorare con lui." Virginia non diede tregua a Milman finché egli la invitò a prendere parte ai suoi prestigiosi corsi settimanali presso la cllnica riabilitativa del Payne Whitney. Fu così che una consulente in tossicodipendenze di formazione tradizionale potè aggiornarsi sulla più recente ricerca psichiatrica sulle dipendenze da sostanze. "Discutevamo di farmaci molto specifici e di quello che fanno e perché. I pazienti venivano da noi dal reparto di psichiatria del Payne Whitney, ed erano interrogati da Milman o da qualcuno della Rockefeller University. Stiamo parlando della crème de la crème della conoscenza psichiatrica in fatto di abuso di sostanze," osserva. "Ma non è poi molto. Dopo sei mesi ho cominciato a rendermi conto che ne sapevo di più sull'argomento della maggior parte

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dei medici che partecipano a questi corsi." Per tre anni ha mandato avanti il suo programma ambulatoriale per pazienti dediti a cocaina, eroina, marijuana e alcol. Uno psicofarmacologo, Malcom Kaswan, ha emesso diagnosi di turbe psichiatriche per la maggior parte dei clienti di Virginia. Dal 70 all'80% di quelli che si sono rivolti alle sue cure soffrono anche di squilibri chimici. Essa riconosce che la capacità del dottor Kaswan di diagnosticare e curare queste malattie è essenziale per il loro trattamento. "Ho avuto clienti che sono stati senza toccare la loro droga per due o tre anni e che altrimenti non ce l'avrebbero mai fatta." Per le prime due settimane, la Hamilton vede i suoi dienti sette giorni alla settimana. Compie analisi delle urine senza preavviso per i primi sei mesi e usa antagonisti come il disulficam per prevenire le ricadute. Dopo il primo mese, vede i pazienti in gruppi tre volte alla settimana e in sedute private due volte alla settimana, finché si sono stabilizzati "Facciamo un po' di psicodramma. Facciamo un mucchio di prevenzione delle ricadute. Ci facciamo raccontare le loro storie personali, le loro vicende familiari.

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Io faccio arte-terapia. È un programma molto eclettico; mi servo di tutto quello che può essere utile. "Dopo sei mesi circa li faccio passare a due sedute di gruppo alla settimana e a una seduta individuale e, circa un anno dopo, scendono a una seduta di gruppo alla settimana e a una sola seduta individuale. Ho persone che sono disintossicate da due anni e che vengono ancora una volta alla settimana." Specie all'inizio, i pazienti trovano il programma impegnativo. Margaret tenne duro. Partecipò, ma era infuriata. Andava al centro ogni giorno e orinava in una tazza e ascoltava Virginia cianciare per un'ora. Dopo una settimana, disse a sua madre: "Virginia non fa che sparare stronzate." "Tu continua ad andarci," replicò Helen. Lei continuò ad andarci. Dopo un po' la faccenda cominciò a rappresentare qualcosa per lei, avere quella donna da cui andare e a cui parlare sette giorni alla settimana. Di ti a poche settimane, era in programma che Margaret cominciasse le sedute di gruppo, e lei detestava i gruppi. Disse a sua madre che tutti quanti nel gruppo erano dei pezzi di merda. "Tu continua ad andarci e basta," insistette sua madre. Margaret

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continuò ad andarci. Malcoffl Kaswan le aveva fatto una diagnosi di sindrome depressiva bipolare atipica e la curava con l'acido valproico, un farmaco che allevia gli sbalzi d'umore della cidotimia e altre forme di sindrome bipolare. In poche settimane, Margaret cominciò a sentirsi meglio. "Ho preso personalmente in carico la mia terapia," annunciò a sua madre per telefono. "Sto dicendo a Virginia che dobbiamo piantarla con tutte queste stronzate. Io voglio scavare più nel profondo." lina migliore qualità di guaritone' "Una volta si pensava che chi si bucava di eroina fosse talmente sodopatico che bisognava abbattere per intero la struttura del suo ego, distruggerla completamente per ricostruirla. La mia sensazione era che, ammesso e non concesso che per gli eroinomani sia mai stato così, adesso le cose sono cambiate." La Hamilton lavora con molti aspetti della vita di un tossicodipendente: lavoro, vita sessuale, relazioni, emozioni, doti intellettuali. "Quello che voglio ottenere," dichiara, "è una migliore qualità di guarigione." D farmaco spesso aiuta. "I tossicodipendenti sono perfettamen- te abituati qua da noi ad avere le loro emozioni. E magari si sentono su

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di giri, si sentono un po' preoccupati Allora vanno a farsi vedere da Kaswan e scoprono che a quel punto della cura il loro morale dovrebbe cominciare a essere in ascesa. E poi, in capo a poche settimane, il loro morale è effettivamente in ascesa. E loro cominciano a pensare: non è che io stia ignorando i miei problemi? E io dico: no, normalmente è così che la gente si sente. Si sente bene. Chi ti ha detto che dovresti sempre sentirti da ca"e?" Quando era al Freedom Institute, Virginia doveva tener nascosto che sottoponeva i suoi pazienti a visite psichiatriche. "Là imperava un atteggiamento contrario ai farmaci e alla via facile per i pazienti, l'originario modello calvinista: duro lavoro, risalire la china col sudore alla fronte e stringendo i denti. Sbagliato, mi spiace. Queste persone, come Sisifo, hanno portato il macigno sulle spalle per troppo tempo. Io dico a quelli che soffrono di turbe psichiatriche: 'È come se lei cercasse di trasportare un peso di cinquanta chili su per un pendio e la gente le dicesse: 'Perché non puoi correre più in fretta? Cosa c'è che non va in te?' E lei protesta: 'Ma ho questi cinquanta chili da portare.' E quegli

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altri insistono: 'Ma quali cinquanta chili? Io non vedo niente. Devi correre più in fretta.' "40 8 Ottenere aiuto V_> on una cura adeguata, dafl'80 al 90% delle persone che soffrono di turbe dell'umore guariscono. Ma trovare la cura adatta non è sempre facile. L'ottenere aiuto inizia col riconoscere che depressione e ansia necessitano - e meritano - di essere curate. "Può essere difficile ammettere di stare male," mi ha confidato di recente una mia giovane vicina di casa. Non sapeva risolversi a dire allo psichiatra che le aveva ordinato una medicina che non ne aveva tratto giovamento. Le aveva prescritto un dosaggio così basso che il sollievo per lei era quasi nullo. Ma il fatto che le pillole "non funzionassero" la indusse a chiedersi non se ci fosse stato un errore di dosaggio nella ricetta ma se prima di tutto la sua depressione fosse abbastanza grave da richiedere una cura. Può essere difficile prendere il coraggio a due mani e dire: "Sto ancora male." Noi continuiamo ad associare questo tipo di sofferenza alla debolezza di carattere. I medici non aiutano quando loro stessi hanno un atteggiamento ambivalente verso le turbe dell'umore. Lo psichiatra della

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mia vicina aveva spiegato che le ordinava un dosaggio basso perché non era sicuro quanto fosse "seria" la sua depressione. Questo è un classico errore di prescrizione, secondo il dottor Michael Gitlin. "Non esiste una cosa come 'una dose bassa per una depressione lieve,'" scrive in The Psychotherapisù Guide io Psychophamacology. Qualsiasi depressione che richieda l'impiego di antidepressivi necessita di una dose a livello terapeutico, una dose cioè che immetta una sufficiente quantità di farmaco nel flusso sanguigno perché faccia effetto. Ma il NIMII ha scoperto nel corso di un recente studio che nove medici su dieci prescrivono antidepressivi in dosi troppe basse perché apportino un qualsiasi beneficio. I motivi addotti dai medici per il sottodosaggio nelle loro prescri2ioni variano. Alcuni si preoccupano degli effetti collaterali e sperano che dosi più basse si traducano in un minor rischio di lamentele da parte dei pazienti Altri medici hanno idee confuse sull'eventualità che gì antidepressivi possano produrre fenomeni di assuefazione e di dipendenza. (Questo era vero per un cosi gran numero di precedenti farmaci psicotropi che a volte questa

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cattiva reputazione si comunica per associazione agli antidepressivi.) Alcuni non sono attrezzati in modo da poter effettuare un rigoroso monitoraggio per riscontrare eventuali segni di tossicità. Questi sono farmaci potenti e complessi che richiedono una grande perizia da parte di chi li somministra. Per poter fare una prescrizione sicura ed efficace è necessario che il medico raccolga dal paziente una storia psichiatrica accurata e dettagliata, e inoltre che sia informatissimo sui diversi tipi di farmaci disponibili e sappia bene per quali tipi di sintomi siano più indicati. La maggior parte dei medici generici si trovano a mal partito in questo campo semplicemente perché non hanno ricevuto una formazione adeguata. In complesso, si va probabilmente sul sicuro affermando che è la disinformazione quello che impedisce ai medici di identificare la depressione: e di curarla in modo adeguato. In una certa misura, i medici che prescrivono antidepressivi sanno di non sapere abbastanza, e quindi si muovono con circospezione sul sentiero che presenta meno imprevisti. Purtroppo, prescrivere il farmaco sbagliato, oppure quello giusto ma in un dosaggio troppo basso

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perché risulti efficace, può spingere il paziente già scoraggiato alla disperazione. "Mi è stata data una medicina ma mi sento ancora malissimo! Allora non c'è proprio più niente da fare." Nessun medico dovrebbe lasciare un paziente depresso con la sensazione che non c'è più niente da fare. Se non si ottiene una reazione adeguata al primo tentativo, bisognerebbe aumentate la dose o offrire un farmaco diverso. Con i progressi conseguiti in psicofarmacologia nell'ultimo decennio, non c'è quasi paziente che non possa essere aiutato. Ma, come in altri settori della medicina, esistono dottori che sono esperti e altri che si arrabattano alla meno peggio. Nessuno deve mai presumere che il proprio medico abbia l'ultima parola in qualsiasi caso. Se il paziente non si sente meglio, deve trovare qualcun altro. H trattamento viene complicato dalla riluttanza delle persone ad ammettere i sintomi delle turbe dell'umore. Spesso il depresso resiste all'idea del farmaco, vedendola come una conferma del fatto che è malato, privo di autocontrollo o magari addirittura pazzo. Acuti sentimenti di colpa o di rimorso -

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proprio i sintomi della loro depressione! - possono indurii ad addossarsi la colpa della loro malattia e credere che dovrebbero "vedersela" con i loro stati depressivi da soli. Questi sentimenti sono la conseguenza della stigmatizzazione sociale della "malattia mentale". H NIMH ha trovato che la maggior parte delle persone che diventano depresse hanno paura di perdere il loro lavoro se si rivolgono al medico per essere curati Per gli uomini è visibilmente motivo d'imbarazzo anche solo discutere di depressione, una malattia che giudicano molto compromettente. I partecipanti di sesso maschile all'indagine del NIMH dissero che se fosse mai successo a loro probabilmente non avrebbero neppure cercato di ottenere aiuto. Le donne si sentono meno imbarazzate dalla depressione, la considerano curabile, e quelle interrogate in merito dichiarano che certamente avrebbero cercato di farsi aiutare, se fossero diventate depresse. Ma anche loro temevano che se si fosse saputo in giro della loro malattia la loro carriera ne sarebbe rimasta compromessa.2 Certe persone non amano neppure discutere dei loro problemi d'umore con i loro psicoterapeuti

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Credono che se lavorassero con sufficiente impegno alla loro terapia non si sentirebbero depresse, o estremamente ansiose o ancora dedite all'ingurgitare-rigurgitare. Ammettere il problema, quindi, equivale ad ammettere che la psicoterapia è un fallimento. Eileen Fitzpatrick ci confessò che trovò umiliante svelare il suo stato d'animo a quella che era da tanto tempo la sua terapeuta. "Ammettere di fronte a lei che avevo quel grave problema di depressione ha rappresentato una specie di mazzata per il mio ego." Molti pensano che prendere farmaci sia "la facile scappatoia", una rapida aggiustatila che può alleviare dei sintomi ma non tocca i profondi conflitti ulteriori, popolarmente considerati la causa della depressione. Ci è stato insegnato a pensare che dovremmo essere capaci di tirarci fuori dalla disperazione - mediante uno sforzo di volontà o di intelletto - anche se ciò significa soffrire per anni. Lottare, e anche soffrire, è in qualche modo giudicato più nobile del prendere la "pillola magica" offerta dalla medicina. Inoltre temiamo che dei farmaci che provocano modificazioni nel cervello possano cambiare la nostra personalità. "Io

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credo che questa medicina possa aiutarmi, ma ho paura che mi cambi," confidò Gabrielle alla sua terapeuta, la dottoressa Monica Salerno, quando cominciò la cura con la fenelzina, un inibitore delle MAO (IMAO). "Sicuro che ti cambierà," replicò la dottoressa Salerno. "Tornerai a essere te stessa." La preoccupazione di Gabrielle e la chiara risposta della sua terapeuta pongono l'accento su un timore che è di tutti; quello che gli antidepressivi d cambino la testa, portandoci via, forse, quello che ci rende unici La dottoressa Salerno spiegò che gli antidepressivi non cambiano la personalità, ma anzi la reintegrano. Conseguono questo risultato alleviando i sintomi della depressione grave - i sentimenti e i pensieri abnormi, e i dolori e i disturbi fisici - e riportando l'umore si suo stato normale. I risultati possono essere sensazionali Ricorda Gabrielle: "Una notte mi sono svegliata da un sogno -erano le quattro di mattina - e mi sono sentita travolta. Il sogno era stato intensamente visivo, quasi come un dipinto astratto, e mi ha fatto capire che non avevo più avuto questo tipo di esperienza spontanea, creativa, da anni: che quell'intera

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parte di me mi era stata preclusa." H sogno di Gabrielle era il primo segno che la sua depressione durata dieci anni stava finalmente allentando la sua morsa: cinque settimane dopo l'inizio della cura con gli antidepressivi "È stato come se le luci di casa si riaccendessero dopo un black-out" Gli antidepressivi non sono "pillole della felicità". Non producono l'euforico "sballo" delle droghe illegali, e non provocano assuefazione. "Chi prende un antidepressivo e non soffre di depressione grave non prova il benché minimo cambiamento dell'umore," scrive Francis Mondimore in Depression: thè Mood Disease? Per chi invece è effettivamente depresso, il cambiamento d'umore che si determina quando un antidepressivo comincia a funzionare può essere elettrizzante. Fu questo che successe a Mia, una donna intervistata da Gabrielle a New York, che provò tre diversi prodotti prima di ottenere sollievo. Mia aveva quarant'anni quando apprese che ciò che l'aveva tormentata per cosi tanto tempo era depressione. "Quando la depressione arrivava al massimo, era come essere infelice in continuità," mi disse Mia. "Lo sai come ci si sente quando ci si sveglia la mattina e si avverte un malessere

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spaventoso e non si sa di cosa si tratta? Quando alla fine mi hanno dato un antidepressivo che ha funzionato, è stato come se mi avessero tolto un enorme peso dalle spalle. Mi sono sentita invadere dalla felicità." Questo empito di felicità non è uno "sballo". È il sentimento di contentezza e di soddisfazione che la gente prova normalmente quando è sana: quando le sostanze neurochimiche regolatrici dell'umore funzionano a dovere. E questo sentimento può essere decisivo per la qualità della vita di una persona. Chi è felice può fare di più, sentire di più, avere esperienze più ricche. "Ora sento di poter affrontare le occasioni che mi si presentano," testimonia Mia. "Cose per me difficili, cose che pensavo non avrei mai potuto fare, adesso posso farle. Sul lavoro, ho fatto progressi enormi negli ultimi cinque anni Mi sono assunta ogni genere di nuove responsabilità, e ho avuto successo!" Non è sempre facile riconoscere fino a che punto la depressione interferisca con la vita di una persona e neppure a identificare il problema come depressione. Noi tendiamo ad allontanare da noi il pensiero della malattia, a negare il suo impatto

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sulla nostra vita, e questo è davvero tragico, perché la depressione non è qualcosa che dev'essere sopportato. Quando viene curata in modo adeguato, c'è almeno un 90% di probabilità che venga alleviata. La cura con antidepressivi Attualmente sono in uso negli Stati Uniti circa sedici antidepressivi. Si suddividono in tre gruppi principali. Gli antidepressivi triciclici, o TCA, comprendono farmaci come l'imipramina e la desipramina. Gli inibitori delle monoaminossidasi, o IMAO, comprendono la fenekina e la tranilcipromina. H terzo gruppo, quello dei cosiddetti • antidepressivi "di seconda generazione", comprende fra gli altri la fluoxetina e il trazodone. Anche se i meccanismi mediante i quali funzionano sono abbastanza diversi, tutti questi tarmaci alterano il metabolismo dei neurotrasmettitori regolatori dell'umore nel cerveDo. Gli antidepressivi sono per la maggior parte ugualmente efficaci nel curare la depressione, anche se certe persone hanno risultati migliori con un farmaco piuttosto che con un altro. Non è possibile sapere con certezza in anticipo quale antidepressivo funzionerà per qualsiasi dato individuo. Tuttavia i diversi sottotipi di depressione

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rispondono meglio a certi tipi di antidepressivi. Gli IMAO sono particolarmente efficaci nella cura della depressione atipica: il tipo caratterizzato da ansia e da dormire e mangiare eccessivi. Chi è affetto da bulimia spesso risponde bene a un IMAO O alla fluoxetina: farmaci che non solo alleviano la depressione ma spesso interrompono, o riducono notevolmente, il ciclo ingurgitare-rigurgitare.5 Le persone che oscillano fra euforia e depressione di solito hanno bisogno di litio. Per guidare i farmacologi nelle loro strategie di cura sono importanti le seguenti considerazioni: se un particolare farmaco ha funzionato in passatoper il paziente o per un suo consanguineo, è solitamenteil farmaco di prima scelta. Purtroppo, questo tipo diinformazione non è sempre disponibile. A volte i pazienti dimenticano quali medicine gli siano state somministrate in precedenza. A volte ignorano se un loro parentesia stato curato in precedenza per depressione o qualefarmaco si sia dimostrato efficace nel suo caso; dato che la depressione ingenera un estremo sco-

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raggiamento, un individuo può trovare diffìcile ricordareche un particolare farmaco una volta abbia alleviato glistessi sintomi attualmente accusati. "Come mai diecimesi fa lei era così entusiasta della fluoxetina comesollievo per le sue fami morbose," chiesi a una donnada me intervistata in California, "e adesso il suo entusiasmo sembra che si sia raffreddato?" "Perché è un brutto periodo," rispose. "Adesso non c'è niente che mi faccia sentire tanto ottimista"; l'ideale è che gli psichiatri forniscano ai loro pazientidei rapporti scritti sul loro trattamento farmacoterapeu-tico; è importante tenere presente l'eventualità che iprobabili effetti collaterali di un dato farmaco risultinointollerabili per un particolare paziente. Certi antidepressivi, per esempio, pongono potenziali problemi aglianziani per via delle loro proprietà ipotensive; il medico che prescrive i tarmaci deve valutare leprobabilità che il paziente rispetti eventuali restrizioni.

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Per esempio, certi alimenti e farmaci devono essereassolutamente evitati quando si prende un anti MAO.Certi soggetti possono non essere abbastanza stabili dalpunto di vista emotivo da attenersi alle restrizioni La cura psicofarmacologica delle turbe dell'umore non è semplicemente una questione di farsi dare una ricetta, presentarla al farmacista e poi aspettare qualche ora perché la medicina faccia effetto. In media, ci vuole un periodo da due a quattro settimane perché si abbia un miglioramento sensibile. Certe volte ci vogliono anche da sei a otto settimane. A seconda del tipo di farmaco prescritto, il dosaggio iniziale può essere molto basso e aumentato gradualmente per ridurre gli effetti collaterali Se, dopo qualche settimana, non si è avuta una risposta sensibile, lo psicofarmacologo cercherà probabilmente di aumentare il dosaggio, non perché si sia sviluppata una tolleranza al farmaco o neppure perché la depressione sia particolarmente grave, ma perché ci sono differenze individuali nel metabolismo. Due persone possono avere lo stesso tipo di depressione

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ma richiedere dosaggi decisamente diversi per ottenere un miglioramento. Il punto è che il dosaggio dovrebbe essere abbastanza elevato da far si che il farmaco raggiunga nel sangue un livello tale da esercitare un effetto terapeutico. Con certi antidepressivi è possibile misurare il livello nel sangue. Se i sintomi persistono una volta che è stato raggiunto il livello del massimo dosaggio, lo psicofarmacologo può provare a passare a un'altra classe di antidepressivi: dalla fluoxetina alTimipramina, per esempio, o da un triridico a un IMAO. Oppure può integrare il farmaco attualmente somministrato con un altro antidepressivo o un agente potenziatore, come il litio o l'ormone dele tiroide. Se questo non funziona, lo psicofarmacologo può provare una nuova medicina sperimentale, oppure, se la depressione è molto grave, la terapia elettroconvulsiva, o elettroshock. L'elettroshock produce una crisi nel cervello in condizioni di sicurezza clinicamente controllate. È più efficace di qualsiasi altra cura della depressione grave ed è stato molto perfezionato negli ultimi anni Non è più la procedura francamente terrificante presentata in film e

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romanzi di una volta. Con le sue variazioni in termini di efficacia e di effetti collaterali, la cura con antidepressivi non si pone chiaramente come una questione di una pillola per tutto quanto e per ciascuno. Spesso occorre compiere più tentativi Per corrette prescrizioni di antidepressivi ci vuole uno specialista, cioè uno psicofarmacologo. Correre dal proprio medico di famiglia per una curetta svelta di fluoxetina non è una buona idea. La maggior parte dei medici generici non ne sanno abbastanza da poter emettere una diagnosi di depressione né da poter stabilire una cura, perché non hanno nessuna formazione specialistica o esperienza in fatto di malattìe psichiatriche. Come osserva il dottor Gorman, "Quello che a un medico generico può sembrare semplice stress può invece rappresentare la sintomatologia di una depressione grave. Uno stato di lieve sovreccitazione può essere uno dei primi segni di una sindrome maniaco-depressiva."6 Troppo spesso, secondo lo studio epidemiologico del NIMH, i medici generici prescrivono i farmaci in dosi troppo basse perché possano essere efficaci7 Perfino degli psichiatri possono non essere aggiornati

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sull'uso adeguato dei farmaci. Troppo spesso persone che vivono nell'inferno della depressione lamentano: "Ho provato gli antidepressivi, ma con me non hanno funzionato." E probabile che non abbiano mai ricevuto un dosaggio adeguato del farmaco. Oppure, se un farmaco non ha avuto effetto su di loro, il medico non li ha fatti passare a un'altra specialità. A volte, naturalmente, il paziente contribuisce al fallimento della cura non prendendo la medicina nel modo prescritto. Un accorgimento che può aiutare è mettere per iscritto le istruzioni del proprio medico. Bisogna arrivare a essere sicuri di sapere queste cose: cosa fare se si salta una dose prevista, o anche ungiorno, della propria medicina; quali altri farmaci possono interferire con l'efficaciadel proprio antidepressivo o provocare una pericolosareazione sinergica; quali sono i possibili effetti secondari, cosa fare sesi manifestano, e quali effetti secondari sono abbastanzagravi da richiedere la loro immediata notificazione alproprio psicofarmacologo; i segni che il farmaco comincia a svolgere la sua

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azione e quanto tempo ci vuole prima del manifestarsidei suoi benefìci Se il paziente ha interrogativi da porre o dubbi sulla propria capacità di assumere il farmaco secondo le istruzioni (se per esempio una bulimica ha timore di poter eliminare il farmaco quando si purga o vomita), deve discuterne con il suo farmacologo. Quesù specialisti non sono interessati a colpevolizzare; sono interessati a curare. Comprendono i sintomi delle diverse malattie di cui abbiamo parlato in questo libro. Più cose sanno di un particolare caso, meglio sono in grado di sviluppare un programma di cura destinato a riuscire. La controversia sulla fluoxetina La fluoxetina fu approvata dalla Food and Drug Administration per la cura della depressione nel 1987. Da allora, oltre tre milioni di persone sono state curate con questo farmaco. Anche se oggi molti medici la considerano la specialità di prima scelta per quasi ogni tipo di depressione, spesso viene prescritta nella cura della depressione atipica, una forma di depressione accompagnata o da attacchi di panico o da sindrome ossessivo-compulsiva, e della bulimia. Può anche essere il farmaco

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di prima scelta per un paziente cardiaco (che non può prendere senza rischio un antidepressivo triadico) o per un paziente che non si può permettere di mettere su peso. Anche se la fluoxetina, stando a un'ampia casistica, non dovrebbe provocare effetti collaterali (e in realtà non causa gli effetti anticolinergici comunemente osservati con gli antidepressivi triciclici), produce di frequente nausea, mal di testa, nervosismo, insonnia e ritardo dell'orgasmo.9 Di solito questi effetti collaterali passano una volta che l'individuo si è abituato al farmaco. I mezzi di informazione hanno posto in rilievo che la fluoxetina provoca perdita di peso anziché aumento. Anche se una lieve perdita di peso è abbastanza frequente, una piccola percentuale di pazienti che prendono fluoxetina aumentano di peso, e quelli a cui viene prescritta la fluoxetina per neutralizzare l'acquisto di peso prodotto da altri antidepressivi rimangono spesso delusi.10 Dopo qualche settimana di terapia con fluoxetina possono anche aversi agitazioni e impulsività: una sindrome nota come "acatisia". Una donna di mia conoscenza chiese a un osteopata una ricetta per la

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fluoxetina, e questa le fu data senza che venisse raccolta un'accurata storia medica. Dopo qualche giorno, essa riferì: "Mi sono sentita come se non stessi più nella pelle, e non certo dalla gioia." Un esperto farmacologo avreb- be subito riconosciuto questa sindrome come acatisia, e avrebbe potuto prescrivere un farmaco per porvi rimedio, osserva Harrison Pope. Più preoccupanti sono recenti rapporti sull'insorgere di pensieri di suicidio in pazienti a cui era stata somministrata fluoxetina. È del 1989 la notizia di quell'uomo di Louisville, Kentucky, che colto da raptus omicida uccise a fucilate otto persone e ne ferì una dozzina prima di togliersi la vita. L'autopsia rivelò che prendeva la fluoxetina. Nel febbraio 1990 1"'American Journal of Psychiatry"11 pubblicò un articolo di Martin Teicher, della facoltà di medicina di Harvard, secondo cui "sei pazienti depressi scevri da recente ideazione di suicidio svilupparono un'intensa e violenta ossessione di suicidio dopo due-sette settimane di cura con fluoxetina." Teicher riferì che i suoi pazienti soffrivano di varie malattie, depressione compresa. Il suo saggio avanzò il sospetto che questi sviluppi fossero il diretto

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risultato della cura con fluoxetina. Secondo Teicher, la profonda influenza che questo farmaco esercita sulla serotonina può essere un fattore. "Stiamo solo cominciando a comprendere il ruolo che la serotonina svolge nella depressione, nell'aggressività e nel suicidio," egli sostiene. "È possibile che prolungando gli effetti della serotonina in pazienti particolarmente sensibili a essi, si possa spostare l'ago della bilancia nella direzione sbagliata, verso la violenza e l'aggressività." Quando questo saggio fu ripreso dai mezzi di comunicazione, la casa farmaceutica produttrice di fluoxetina, fu subissata da dozzine di azioni legali con la richiesta di milioni di risarcimento. In generale, l'azienda veniva accusata di aver mancato di informare i medici di un nesso fra la fluoxetina e il comportamento suicida o violento, e inoltre di aver messo in commercio un farmaco non sicuro. Da allora la casa produttrice non ha emesso nessuna dichiarazione pubblica oltre a quella che la fluoxetina è sicura. Nel maggio 1990, però, ha aggiunto "tentativi di suicidio" all'elenco delle precauzioni circa possibili reazioni negative. Il saggio di Teicher ricevette una

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pubblicità straordinaria. "Nightline", per esempio, lo definì "uno studio importante". Come ha scritto lo psichiatra Jeffrey M. Jonas,12 "il rapporto di Harvard non era né importante né uno studio." Era invece un rapporto su sei pazienti che soffrivano di una varietà di turbe psichiatriche ed erano stati colti da pensieri di suicidio dopo aver preso la fluoxetina. Jonas fa osservare che la prassi consueta quando sono state raccolte "informazioni preliminari" del genere è di comunicarle a una rivista sotto forma di lettera al direttore. "In questo caso, però, il rapporto comparve sotto forma di ampio articolo su una rivista professionale di grande prestigio. H titolo dell'articolo era: 'Insorgenza d'intense ossessioni di suicidio durante la cura con fluoxetina'. Questo titolo è piuttosto fuorviante, perché non indica minimamente che il rapporto non è altro che una serie di aneddoti di pazienti e non uno studio scientifico formale." Un altro aspetto opinabile dello studio di Teicher era l'informazione che i pazienti erano stati scevri da pensieri di suicidio recenti. "Se però ci addentriamo nei dettagli dei casi, il quadro che ne emerge è

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completamente diverso," osserva Jeff Jonas. Per esempio, "gli autori sostengono che la 'signora A' ha avuto per diciassette anni una storia di depressione, fra i cui sintomi si avevano 'occasionali pensieri di suicidio passivi'. La 'signora B' e la 'signora C avevano entrambe avuto pensieri di suicidio passivi solo due settimane prima di iniziare la cura con fluoxetina, la 'signora C aveva addirittura avuto una 'storia di gesti autolesloni-stici'. Nel corso degli otto anni precedenti la 'signora D' era stata soggetta a crisi di collera e aveva compiuto almeno tre seri tentativi di suicidio mediante dosi eccessive del farmaco. Due anni prima di prendere la fluoxetina, la 'signora E' aveva riferito di andare soggetta a persistenti pensieri di suicidio. La 'signora F' aveva compiuto 'tre gravi tentativi di suicidio' negli ultimi tredici anni, e durante i passati cinque anni aveva avuto 'pensieri di suicidio intermittenti'. "Così, stranamente, è evidente che i ricercatori intendono per 'recente' un episodio avvenuto soltanto entro le ultime due settimane," puntualizza Jonas. "Prove incontestabili, è mia convinzione, dimostrano come sei pazienti in

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questo rapporto avessero tendenze suicide prima di cominciare a prendere la fluoxetina, e tali prove sono sufficienti a inficiare la credibilità dei dati," conclude. Certamente, il terapeuta e lo psicofarmacologo che hanno in cura una persona depressa devono prestare un'estrema attenzione a qualsiasi pensiero di suicidio che essa possa manifestare dopo aver iniziato la cura con fluoxetina o qualsiasi altro antidepressivo. Se tali pensieri si presentassero, l'assunzione del farmaco dovrebbe essere immediatamente interrotta, perché, come indicano alcuni dati, l'ideazione di suicidio, una volta instauratasi, può continuare anche dopo l'interruzione della cura farmacologica.13 1 farmaci per la cura della sindrome bipolare I pazienti affetti da sindrome maniaco-depressiva spesso manifestano il timore che il farmaco li svuoti della loro energia e del loro spirito creativo. Nel suo libro Depression: The Mood Disease, Francis Mondimore scrive: "II litio non è un 'abbassatore' dell'emotività, né risulta che influisca sulla normale energia o creatività... il paziente rimane libero di provare le normali emozioni della vita, ma è protetto da

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sbalzi d'umore distruttivi o bizzarri."14 D litio (carbonato di litio) è stato usato nella cura della sindrome bipolare fin dagli anni cinquanta, ed è ancora la cura di prima scelta.15 Altri farmaci, come la carbama-zepina e l'acido valproico, vengono usati sempre più spesso o come cura primaria (per certi tipi di sindrome bipolare), o come integratori del litio o quando un paziente manifesta un'incompatibilità al litio. D litio è efficace in un 70-80% dei casi. H 20% dei pazienti ne riporta una completa remissione dei sintomi, mentre il resto ottiene un sensibile, anche se non completo, sollievo, nel senso che accuserà un minor numero di episodi di mania, e questi sia di minor durata sia meno gravi. Inoltre godranno di un umore più stabile nel periodo fra un episodio e l'altro. Il litio agisce soltanto quando raggiunge un certo livello nel corpo. Contrariamente agi antidepressivi, questo livello è più o meno lo stesso per tutti i pazienti Sono i livelli presenti nel plasma, piuttosto che il dosaggio, a determinare la dose appropriata del farmaco, e sono necessari regolari analisi del sangue per accertarsi che il livello del litio venga mantenuto entro una

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misura terapeutica. Non solo queste analisi sono d'importanza essenziale per determinare se il paziente riceve dosi sufficienti del medicinale, ma anche per assicurare che non ne assuma troppo, dato che il livello con efficacia terapeutica del litio non è molto al disotto del livello a effetto tossico. Una volta che è stato determinato il dosaggio terapeutico, regolari analisi del sangue sono ancora neces-sarie poiché sul livello del litio possono influire modificazioni del peso corporeo, farmaci diversi e altri fattori. Mondimore spiega che la distribuzione nel tempo di queste analisi è molto importante. "Un'analisi del sangue effettuata troppo tempo o troppo poco tempo dopo la somministrazione dell'ultima dose darà un'informazione inaccurata, e potranno risultarne erronei cambiamenti di dosaggio."16 Per il litio, la regola generale è che i suoi livelli nel sangue vengano controllati dodici ore dopo l'ultima dose. Le persone con sindrome bipolare necessitano di norma di terapia farmacologica sul lungo periodo, perché è raro che abbiano un solo episodio maniacale. Piuttosto, i cicli tendono a essere frequenti (a intervalli di parecchi

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anni, una volta all'anno, o anche - nei casi più gravi - parecchie volte all'anno). Dato che gli effetti di un episodio maniacale possono essere molto distruttivi per le relazioni con gli altri, le attività lavorative e i conti bancali, per non parlare dell'autostima, si rende in genere necessario un trattamento preventivo (o di mantenimento). C'è una certa discordanza di pareri su quando si dovrebbe iniziare la cura di mantenimento. Certi medici pensano che non appena sia stata emessa una diagnosi di sindrome bipolare è necessario iniziare la cura di mantenimento. Altri non parlano di trattamento sul lungo periodo finché non si sia manifestato il secondo episodio.17 Questa seconda volta, infatti, il paziente può essere ragionevolmente certo che il primo episodio non è stato semplicemente un "caso fortuito", ed è possibile calcolare la frequenza del ciclo, ovvero il lasso di tempo fra l'instaurarsi del primo e del secondo episodio.18 Anche se episodi di sindrome maniacale possono essere di breve durata e placarsi spontaneamente, nella maggior parte dei pazienti assumono un corso inesorabile, con un comportamento incontrollabile che può mettere

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tisicamente in pericolo il paziente o altre persone, o con un comportamento sociale disinibito.19 Quando un comportamento maniacale si aggrava fino alla psicosi, si rende necessaria l'ospedalizzazione in modo che la psicosi possa essere rapidamente posta sotto controllo, La cura di un episodio maniacale acuto inizia in genere con un farmaco antipsicotico, come l'aloperidolo e la dorpromazina.20 Anche se questi medicinali hanno effetti collaterali spiacevoli e a volte seri (quando sono usati nel lungo periodo), è essenziale che la mania estrema venga posta rapidamente sotto controllo. L'effetto terapeutico dei f armaci antipsicotici è rilevabile nel giro di ore, mentre gli effetti del litio non cominciano a farsi sentire prima di cinque-died giorni, e poiché vengono usati soltanto durante lo stadio della "crisi", il rischio di gravi effetti secondari, come una tardiva discinesia, è improbabile.21 Anche se la distoma (crampi muscolari che vanno da una forma lieve a una grave) è un frequente effetto secondario, che spesso si manifesta entro le prime ventiquattro-quarantotto ore di trattamento, può essere rapidamente soppressa con la somministrazione di

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un farmaco anticolinergico.22 Di solito, il litio viene gradualmente introdotto da due a tre giorni dopo l'inizio della cura, e una volta che sono stati raggiunti livelli terapeutici le dosi del farmaco antipsicotico vengono gradualmente ridotte fino alla sua interruzione. Secondo il dottor Gordon Johnson, "sono necessarie tre settimane di cura per ottenere un miglioramento sensibile e/o remissione nella maggioranza dei pazienti affetti da sindrome maniacale."23 Una volta che l'episodio acuto di mania è stato curato, sono raccomandati livelli di circa 0,8 mmoli/litro per la cura di mantenimento della maggior parte dei pazienti, anche se certi necessitano di livelli leggermente superiori (1,0-1,2) e altri, specie gli anziani, possono manifestare una buona risposta a livelli di 0,4. Una volta che sia stato stabilito, l'appropriato livello di mantenimento deve essere seguito costantemente.24 Certi studi hanno mostrato che persone con mania più grave o a ciclo rapido o quelle che non hanno una storia familiare di sindrome bipolare hanno minori probabilità di rispondere bene al litio. Per quelle che non rispondono completamente al litio da solo, può essere usata la

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carbamazepina (un anticonvulsivo) invece del litio, o in aggiunta a esso. Fra i farmaci alternativi al litio, la carbamazepina è quello più studiato e attualmente più d'ampio uso in sede cllnica. 1 farmaci per la cura dell'amia e delle sindromi paniche Lo studio epidemiologico del NIMH ha sorpreso molti mostrando che le sindromi ansiose sono oggigiorno le più comuni malattie psichiatriche. In ogni periodo di sei mesi, almeno un americano su venti soffre di una sindrome ansiosa abbastanza grave da essere curata da uno specialista di salute mentale. "In molto casi," dichiara Jack Gorman, "il farmaco è il modo migliore e più sicuro di curare queste sindromi ansiose." Chiunque abusi di alcol, tranquillanti o qualsiasi droga nel tentativo di calmarsi dovrebbe farsi vedere da uno psichiatra. Le sindromi ansiose possono provocare abuso di alcol o di droghe. Come abbiamo visto nel terzo capitolo, c'è l'ansia normale, connessa con eventi reali della vita, c'è un'ansia eccessiva sproporzionata a qualsiasi minaccia reale, e ci sono le sindromi ansiose. Queste ultime sono così classificate: sindrome ansiosa generalizzata (GAD: generalità unxìety disorder), una

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forma di ansia cronica che dura almeno sei mesi; sindrome panica, che quasi sempre necessita di cura; e fobia, una paura estrema o irrazionale di una cosa o situazione. C'è infine la sindrome ossessivo-compulsiva, una malattìa che, per motivi totalmente misteriosi, costringe l'individuo a lavarsi quasi senza sosta oppure contare o controllare le cose. La sindrome ansiosa generalizzata è spesso curata con benzodiazepine e con un farmaco relativamente nuovo, il buspirone. È importante notare che certe forme di depressione sono accompagnate da ansia e in questo caso andrebbero curate con antidepressivi, non con agenti antiansia. (Purtroppo, gli ansiolitici sono i tarmaci più frequentemente prescritti per la depressione. In un ampio studio condotto nel 1982 dal NIMH, "più della metà dei pazienti depressi incontrati erano stati curati con ansioÉtici anziché con antidepressivi," riferisce 1"'A-merican Journal of Psychiatry".26 Le persone affette da sindrome ansiosa generalizzata sono quasi sempre preoccupate, tese e, appunto, ansiose. "Nella sindrome panica, il principale problema sono gli improvvisi ed episodici accessi di

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ansia e sintomi fisici (come palpitazioni, capogiri e difficoltà di respiro) che in genere durano dieci-trenta minuti," scrive Gorman.27 Per curare le sindromi paniche vengono usati antidepressivi. Gorman assicura che il farmaco "di accertata efficacia" per il panico è l'antidepressivo imipramina. Egli inizia di solito con circa 10 mg giornalieri: molto meno della dose prescritta per pazienti depressi. Poi il dosaggio viene aumentato fino a pareggiare quello per i pazienti depressi. Gli attacchi di panico vengono di solito bloccati completamente in quattro settimane. Nel frattempo, l'ansia può essere curata con una benzodia-zepina. Certi medici curano con lo alprazolam, che è efficace nel bloccare gli accessi di panico ma più difficile da essere interrotto dell'imipramina per i sintomi di astinenza che vedremo più oltre in questo capitolo. B farmaco più potente contro il panico è un IMAO. Medicinali come la fenelzina e la tranilcipromina agiscono su quasi tutti i pazienti con sindrome panica. Ma per via delle restrizioni dietetiche la maggior parte degli psichiatri provano prima l'imipramina o l'alprazolam. (Anche la fluoxetina ha effetti benefici contro gli

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attacchi di panico, e poiché ha pochi effetti collaterali e non provoca assuefazione, secondo Gorman può essere "il farmaco antipanico ideale".) Egli afferma che i pazienti soggetti ad attacchi di panico tendono a essere più sensibili alla fluoxetina dei pazienti depressi, per cui nella prima settimana dovrebbero prendere da un quarto di capsula a metà capsula. Il dosaggio dovrebbe essere gradualmente aumentato fino a una capsula intera, che di solito è sufficiente a bloccare gli attacchi di panico. Anche medicamenti usati per curare malattie cardiache e ipertensione sono state tentate per la cura del panico. Spesso, per esempio, sono prescritti i beta-bloccanti perché bloccano l'effetto dell'adrenalina e riducono la frequenza cardiaca; di solito, però, questi composti non hanno l'effetto di bloccare gU attacchi di panico. Per controllare il panico viene anche offerta una terapia speciale che può richiedere fino a tre mesi. I pazienti imparano a respirare correttamente, a rilassarsi, a smettere di attribuire un'importanza esagerata a ogni palpitazione o formicolio. Possono anche praticare la respirazione senza iperventilazione. Le prospettive di

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questo tipo di terapia sono promettenti, anche se non è ancora stato dimostrato che i suoi benefici siano pari a quelli dei tarmaci antipanico. Secondo alcuni, i pazienti che ricevono la terapia speciale per il controllo degli attacchi di panico rimarranno immuni da questi episodi dopo il completamento della terapia per un periodo di tempo più lungo rispetto ai pazienti che prendono farmad antipanico e poi li interrompono. "Questa ipotesi è tutt'altro che dimostrata," osserva Gorman. Egli inoltre avanza un importante avvertimento. Molti terapeuti, psicologi e psichiatri sostengono di sapere come condurre queste cure, "ma in realtà adattano forme più tradizionali di psicoterapia e finiscono col vedere il paziente a intervalli regolari per mesi o anni" Certi problemi psichiatrici richiedono una psicoterapia cosi protratta, ma Gorman precisa che la specifica terapia mirata al controllo del panico non dovrebbe prendere più di tre mesi. Fino ala metà degli anni ottanta, gli psichiatri non prestavano quasi attenzione alla fobia sociale. Oggi essa è riconosciuta come un problema molto comune e a volte serio. Alcuni medici

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pensano che siano forze inconsce a far sì che determinate persone tremino e arrossiscano quando si trovano a dover socializzare, e raccomandano psicoterapia a lungo termine e perfino psicanalisi. Altri invece raccomandano la psicoterapia comportamentale e cognitiva a breve termine; essi pensano che la fobia sociale derivi da passività e da scarse capacità di socializzazione. La farmacologia offre cure della fobia sociale così efficaci che oggi molti medici raccomandano di abbinare i farmaci alla psicoterapia a breve termine. Sono in uso due tipi di farmaci: i betabloccanti e gli IMAO. Finora i composti più efficaci sono il propranololo per problemi occasionali - ansia in chi si appresta a tenere una conferenza o un'esibizione in pubblico, per esempio - e stenololo e fenelzina per difficoltà più croniche. Anche la fluoxetina può essere efficace contro la fobia sociale. L'ansia da palcoscenico può essere sensibilmente alleviata prendendo una sola dose di propranololo un'ora circa prima dell'esibizione. Molti musicisti se ne servono per combattere il terrore del palcoscenico. Di solito il medicamento tiene sotto controllo

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tachicardìa, tremori, sudorazione e rossori per parecchie ore. Preso in questo modo il farmaco produce pochi effetti collaterali Circa il 70% dei pazienti affetti da fobia sociale rispondono agli IMAO. "Dopo quattro settimane, trovano che le loro paure dei contatti sociali sono state quasi completamente eliminate," riferisce Gorman. Di solito la fenelzina si dimostra efficace, ma chi la prende deve mantenere una dieta speciale che è presentata nell'appendice D. In genere le persone che prendono questa medicina trovano che sono sempre più frequenti le occasioni in cui non temono dì socializzare. Dopo un cerro tempo, possono essere in grado di smettere di prendere il farmaco pur mantenendo un senso di sicurezza inferiore. Gorman osserva che certi pazienti che prendono gli MAO contro la fobia sociale ne ricavano un'iperstuno-lazione e vanno su di giri. Allora diventano troppo socievoli, loquaci, ridanciani, spacconi, e corrono troppi rischi sul piano dei rapporti umani. Se succede questo, la dose viene diminuita. Nel gennaio 1990, la clomipramina, un antidepressivo ciclico, ottenne finalmente l'approvazione per essere immessa sul mercato negli Stati Uniti. Questo farmaco

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rappresentò un decisivo passo in avanti nella cura delle più difficili malattie psichiatriche: la sindrome ossessivo-compulsiva. Benché sia necessaria una maggiore ricerca, anche la fluoxetina sembra utile nella cura di questa malattia. Sono state avanzate molte teorie psicologiche sulla causa di questa penosa affezione, ma molti biopsichiatri la considerano una delle più biologiche di tutte le turbe mentali. Le persone che ne sono affette sembrano di solito perfettamente normali all'osservatore, ma sono ossessionate da pensieri ripetitivi e rituali privi di significato. Fatto interessante, esse non credono realmente che le loro mani debbano essere lavate di continuo o che abbiano bisogno di controllare dieci volte che la stufa sia spenta prima di uscire di casa. C'è qualcosa che le costringe a tale comportamento: forse, pensano gli scienziati, qualche anomalia del cervello. Questi pazienti necessitano quasi sempre di psicoterapia comportamentale che riduca la quantità di tempo che possono dedicare ai loro rituali. Certi medici hanno trovato che possono curare le compulsioni con la psicoterapia comportamentale anche

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senza l'impiego di tarmaci. Ma la combinazione delle due terapie sembra avere effetti migliori I medici devono spiegare a questi pazienti che non hanno colpa dei loro pensieri e delle loro azioni. "Anche se incoraggiamo i pazienti a esercitare il maggior controllo possibile sui loro sintomi, vogliamo che capiscano che non sono da biasimare e che non gli sarà gettata la croce addosso," avverte Gorman. Perché la psicoterapia? Se le turbe dell'umore sono di origine biologica, ci si potrebbe chiedere, perché è necessaria la psicoterapia? Le turbe dell'umore sono malattie complesse che hanno effetti molto reali sull'esistenza delle persone. Le relazioni con amici, familiari e colleghi possono risultar- ne danneggiate, specie quando qualcuno è stato ammalato per lungo tempo. Frederick Goodwin, del NiMH, osserva che anche se sono essenzialmente di natura biologica, queste malattie si manifestano in modi che "sono comportamentali e psicologici, con profondi cambiamenti in modi di percepire, atteggiamenti, personalità, umore e facoltà cognitive. La terapia può assumere un valore unico per persone che subiscono modificazioni così

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devastanti nel modo in cui percepiscono se stessi e sono percepite dagli altri," spiega. Essa può essere di aiuto anche con altri problemi della vita che possono svolgere un ruolo nelle turbe dell'umore. Marion, una donna la cui depressione era complicata dall'alcolismo, credeva che fosse stato il suo vizio del bere a provocare la depressione e che se fosse rimasta temperante per un po' di tempo non si sarebbe più sentita depressa. Ma non andò cosi. Due anni dopo l'inizio della disintossicazione, era ancora depressa. A questo punto il suo psicoterapeuta le suggerì che la causa della depressione doveva essere qualcosa di diverso dal bere e le raccomandò di provare la terapia farmacologica. Anche se le vennero prescritti parecchi tipi di farmaci prima che fosse trovato quello che funzionava, Marion sentì che i risultati ripagavano l'attesa. Non solo non si sentiva più depressa, ma sentiva anche che gli antidepressivi la aiutavano a trarre vantaggio dalla psicoterapia. "Puoi lavorare meglio alla psicoterapia quando non provi più in continuità una così tremenda sofferenza." La psicoterapia contribuisce a risolvere gli effetti

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residui di una malattia della sfera affettiva. "Una combinazione di antidepressivi e di psicoterapia ha funzionato molto bene nel mio caso," testimoniò Marion, "perché la depressione aveva ramificazioni psicologiche, emotive e sociali che erano rilevanti esattamente come quelle provocate dall'alcol. Una volta che mi sono sentita meglio, ho scoperto che avevo un mucchio di problemi da risolvere che erano stati generati dalla depressione." Quando turbe dell'umore si presentano nell'infanzia, nell'adolescenza o nei primi anni dell'età adulta, interferiscono con i compiti legati allo sviluppo che normalmente vengono svolti in questi periodi. Come fa rilevare Fred Goodwin, "la separazione dai genitori e dalla famiglia, la creazione di stretti rapporti personali, le relazioni amorose col tumulto di sentimenti che le accompagna, la gravidanza e l'educazione dei figli, nonché la carriera, vengono compromessi o arrestati." Anche qui la psicoterapia può svolgere un ruolo d'importanza vitale. Questi "compiti" connaturati con lo sviluppo sono importanti per la formazione di una personalità integra e completa. Essi inoltre sviluppano aspetti della personalità

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che possono contribuire alla prevenzione di una nuova insorgenza di turbe dell'umore. Alcuni studi hanno mostrato che in persone che hanno beneficiato della psicoterapia oltre che di una cura farmacologica è meno probabile che si abbiano ricadute. Come agisce la psicoterapia In generale, quello che le persone affette da turbe dell'umore hanno bisogno di ricevere dalla psicoterapia non è confronto ma affermazione. La psicoterapia dovrebbe fecalizzarsi su "incoraggiamento, appoggio ed educazione," afferma Mondimore, "non sul compito di indurre i pazienti a comprendersi meglio."28 La psicoterapia per le turbe dell'umore, mentre incoraggia l'autostima e la fiducia in se stessi, si rivolge a problemi realistici, come gli effetti collaterali dei farmaci e la paura di ricadute, provocati dalla malattia Essa aiuta ad accettare le perdite - in termini di relazioni, creatività, avanzamenti di carriera - che sono state provocate dalla malattìa. La psicoterapia, d'altra parte, s'incentra su una relazione confidenziale fra il terapeuta e il paziente. L'obiettivo del trattamento è di permettere al paziente di meglio comprendere le proprie emozioni e il

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proprio comportamento e di usare questa conoscenza per funzionare meglio nella vita. Anche se ci sono quasi tanti tipi di psicoterapia quanti sono gli psicoterapeuti, due tipi si sono rivelati particolarmente giovevoli neEa cura della depressione: la terapia cognitiva e la terapia interpersonale. Entrambe sono a breve termine, durando mesi anziché anni, ed entrambe sono orientate verso il "qua e adesso". I terapeuti possono combinare uno di questi approcci o entrambi con altri, adattando le tecniche da loro usate al singolo paziente. La terapia cognitiva, fondata dal dottor Aaron Beck, vede la depressione come il risultato di atteggiamenti negativi e di modi distorti di percepire il mondo. Lo scopo di questo tipo di terapia è stato di indurre il paziente a riconoscere il nesso fra negatività e depressione e a correggere le sue distorsioni percettive. Fatto interessante, alcuni specialisti che praticano la terapia cognitiva hanno riconosciuto le basi biologiche della depressione e ora usano le loro tecniche per sfidare la resistenza del pazienre ad accettare che la sua depressione può essere curata con successo coi farmaci. La terapia interpersonale

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aiuta il paziente a identificare problemi attuali della vita di relazione che possono aver contribuito all'umore depresso (o esserne il risultato), e a imparare a risolverli. La terapia interpersonale non si articola su un approccio generico. Insieme con altre psicoterapie a breve termine, si accentra su una o due aree problematiche, su cui convergono il paziente e il terapeuta dopo le sedute iniziali di valutazione. Dato che le relazioni vengono spesso sconvolte quando una persona diventa depressa, questa forma di terapia può essere particolarmente utile quando viene impiegata congiuntamente a quella farmacologica.29 La psicoterapia classica, a orientamento psicanalitico, vede invece le turbe dell'umore come principalmente psicologiche, radicate in ricordi inconsci del passato. L'obiettivo di questo tipo di terapia - che solitamente richiede anni - è quello di imparare a riconoscere e alla fine risolvere conflitti suscitati da esperienze passate. Anche se può essere utile per curare altri tipi di problemi, la terapia psicanalitica non è appropriata per la cura delle turbe dell'umore. Può anzi addirittura esacerbarle. Come

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osserva Mondimore, "La psicoterapia tradizionale, a lungo termine, con l'obiettivo di aiutare i pazienti a mutare il loro approccio verso la vita, può addirittura peggiorare le cose addossando un'eccessiva responsabilità al paziente in rapporto al miglioramento delle sue condizioni."30 Come gli psicoterapeuti possono supportare la cura farmacologica È estremamente importante che lo psicoterapeuta e lo psicofarmacologo che hanno in cura un paziente siano capaci di lavorare insieme. Siamo rimaste sorprese nel constatare quante delle persone da noi intervistate si sentissero interiormente divise perché avevano uno psicoterapeuta ancorato alla concezione che la loro depressione era strettamente psicologica e un psicofarmacologo con una concezione unicamente biologica. L'ideale è avere uno psicoterapeuta e uno psicofarmacologo che riconoscano - e apprezzino - ciascuno il contributo dell'altro e che lavorino insieme. E così che Rima Greenberg, una psicoterapeuta che opera a Manhattan, si regola con le sue pazienti depresse per quanto riguarda la cura medica: "Io raccomando sempre alla paziente di farsi fare un'accurata visita fìsica per vedere se alla base

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della sua condizione non ci sia una malattia fisiologica. Poi le chiedo di consultare uno psicofarmacologo. Lo psicofar- macologo è un esperto, uno che può veramente organizzare una cura sa misura per l'individuo. In generale, io cerco di rivolgermi a qualcuno che sia interessato alla ricerca, e quindi aggiornato su quanto c'è di nuovo nel settore." La Greenberg, che è stata intervistata da Gabrielle, affermò che era di importanza essenziale per lei lavorare a stretto contatto con lo psicofarmacologo. "Se dev'essere presa una decisione su un cambiamento di dosaggio o di tipo di farmaco, essa deve scaturire da un dialogo aperto fra la paziente, il farmacologo e me. Io sono dell'avviso che ogni sviluppo in sede psicoterapeutica è un fattore importante in qualsiasi decisione circa la cura farmacologica." Una forte relazione paziente-psicoterapeuta-psicofar-macologo è di importanza cruciale per la riuscita di una cura. La Greenberg raccontò la storia di una giovane paziente, che chiamò Donna, la cui precedente strategia di cura non aveva avuto effetto. "Donna è venuta da me intorno ai venticinque anni, Soffriva di depressione ciclica da quando

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aveva circa sedici anni e aveva una storia familiare di depressione grave, sia bipolare che unipolare. Ogni anno e mezzo, Donna entrava in un ciclo depressivo della durata di un anno e mezzo. Dopo aver preso in esame la sua storia, ho avuto l'impressione che lo psichiatra che aveva avuto prima di me non avesse fatto un buon lavoro. Ogni volta che le faceva smettere la cura farmacologica, lei cadeva in un nuovo ciclo di depressione." La Greenberg raccomandò a Donna di vedere uno psicofarmacologo, che riscontrò un ipotiroidismo che contribuiva alla sua depressione e le prescrisse un farmaco per la tiroide. Poi decisero tutti insieme una nuova strategia. "Abbiamo deciso di tentare un doppio ciclo di cura con antidepressivi - tre anni senza interruzioni - per darle la possibilità di avere un solido sostegno nella psicoterapia. Ma non appena le abbiamo fatto smettere la cura col farmaco, alla fine dei tre anni, abbiamo subito visto che stava ridiventando depressa. Allora le abbiamo fatto fare un altro doppio ciclo, per un totale di sei anni di cura farmacologica. Questa volta, quando le abbiamo fatto smettere il farmaco, non ha avuto una ricaduta. È

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un anno che non prende più la medicina, e ha terminato la psicoterapia sei mesi fa. Adesso sta benone." La Greenberg pensa che l'intervento di quel particolare farmacologo a cui aveva indirizzato Donna sia stato una parte importante della sua cura. "È una donna molto intelligente, e lui l'ha trattata da pari a pari. Quando Donna ha espresso interesse per certi aspetti della sua malattia, lui le ha dato un mucchio di letteratura da leggere. Col medico che aveva prima, il rapporto era stato più del tipo 'lei è la paziente e io sono il dottore, e le dico io cosa deve fare.' " Le persone affette da forme gravi di depressione a volte hanno bisogno di essere seguite e aiutate anche dopo la fine del periodo formale di cura. Quando Donna decise di avere un bambino, per esempio, discusse appro-fonditamente la situazione col suo psicofarmacologo. "Anche se Donna ha concluso la sua cura," riferisce la Greenberg, "sia il suo psicofarmacologo sia io la seguiremo dopo la nascita del bambino. E lo partorirà nell'ospedale con cui è collegata in modo che sia possibile provvedere assolutamente a ogni eventuale necessità." Le donne con depressione grave sono più soggette

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delle altre a incorrere in una depressione puerperale. Un intervento tempestivo è importante per impedire un peggioramento della situazione. Con l'aiuto di due terapeuti, Donna ha le sue basi protette. Come abbiamo visto nel secondo capitolo, la classe medica continua a essere profondamente divisa fra coloro che giudicano i tarmaci di norma appropriati nella cura delle turbe dell'umore e coloro secondo i quali la psicoterapia da sola è in qualche modo migliore. Alcuni psicoterapeuti credono a torto che i farmaci agiscano contro la psicoterapia e dissuadono i loro pazienti dal provarli. La ricerca dimostra che è vero esattamente 2 contrario: la psicoterapia non solo rende più facile per un paziente persistere nella cura farmacologica, ma inoltre il sollievo recato dai farmaci rende più facile al paziente persistere nella psicoterapia. Anche quando gli psicoterapeuti non scoraggiano attivamente il paziente dal continuare la cura medica, le riserve che possono nutrire sulla natura biologica di queste malattie o sull'impiego di farmaci psicotropi per curarle possono filtrare fino al loro paziente. L'ambivalenza del terapeuta può così minare la fiducia

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del paziente nell'approccio medico, nonché la sua capacità di proseguire la cura farmacologica. D caso di Ariel mostra cosa può succedere quando uno psicoterapeuta non incoraggia la cura farmacologica. Ariel, ventinovenne, passò parecchi anni in psicoterapia e riuscì a risolvere molti dei suoi problemi interper-sonali. Tuttavia, nonostante la psicoterapia, continuava a essere depressa. Alla fine la malattia divenne così grave che dovette mettersi in aspettativa dal lavoro e smise di frequentare i corsi alla locale università. Dovette insomma interrompere le sue normali attività. Ariel aveva sempre pensato che se soltanto avesse continuato a lavorare sodo in sede di psicoterapia la sua depressione alla fine l'avrebbe lasciata. Quest'idea fu rafforzata dal suo psicoterapeuta, Steve. Ma la gravita del suo episodio più recente la indusse a dubitare che la psicoterapia da sola sarebbe mai bastata ad aiutarla. "Alla fine ho detto a Steve che volevo provare gli antidepressivi. Lui temeva che io avrei perso la motivazione ad affrontare i problemi su cui avevamo lavorato in psicoterapia. Ma io stavo malissimo - non riuscivo a lavorare, non facevo che piangere - e così

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insìstetti. Quindi, benché riluttante, mi indirizzò da uno psichiatra, che mi prescrisse rimipramina." Purtroppo, lo psichiatra a cui Ariel si rivolse non era esperto nell'uso di antidepressivi Ordinò ad Ariel una dose bassissima di farmaco, e quando essa riferì di sentirsi meglio la prima settimana dopo l'inizio del trattamento egli decise che lei non aveva più bisogno di continuare la cura. Quindi l'abbandonò a se stessa, con una visita di controllo in programma di lì a sei settimane. La sensazione di benessere di Ariel non durò a lungo. Come abbiamo accennato, ci vogliono da quattro a sei settimane perché si possano vedere i pieni effetti di un antidepressivo. Se si era sentita bene a così breve distanza di tempo dall'inizio della cura lo si doveva alle grandi speranze che riponeva in questo nuovo tentativo di cura. Ben presto la depressione tornò in pieno, e non passò molto che essa cominciò ad avere pensieri di suicidio. Lo psichiatra di Ariel non solo aveva prescritto un dosaggio troppo basso di antidepressivo, ma per giunta, dato che non teneva Ariel sotto stretto controllo, non potè rendersi conto che quanto aveva prescritto non

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funzionava. Quindi fu lasciata a se stessa, e quando la sua depressione peggiorò non era in condizione di valutare chiaramente la propria situazione. Aveva intenzione di smettere completamente di prendere il farmaco. Per fortuna un'amica le raccomandò un altro psicofarmacologo, che seppe curare adeguatamente Anel della sua depressione. Imparare cosa significa 'sentirsi bene' La paura di ricadute o di crisi periodiche è comune fra coloro che si vanno rimettendo da turbe dell'umore. Queste preoccupazioni sono legittime, ma certe persone finiscono per essere ossessionate da queste paure e diventano eccessivamente autoprotettive e vivono sempre nel terrore di avvertire i segni di un imminente episodio. "Io credo che una persona che ha avuto una storia di depressione tema sempre che il terreno torni a mancarle sotto i piedi ripiombandola nella depressione," mi disse Marion. C'è anche chi teme che la solidarietà di congiunti e amici sarà minore nel caso di una nuova crisi depressiva. Come Marion, Gabrielle confessa che all'inizio anche lei non confidava che la sua guarigione sarebbe stata definitiva. "In un primo tempo mi sono mantenuta prudente. Mi ci è

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voluto un po' per cambiare atteggiamento." La sua ansia peggiorò quando tornò al lavoro. "La mia grande preoccupazione era che la mattina non sarei riuscita ad alzarmi," ricordò. "Mi sentivo molto meglio, nia temevo che sarebbe ricominciata la stessa vecchia storia: in un modo o nell'altro nei primi giorni sarei riuscita a trascinarmi fino all'ufficio, poi avrei cominciato ad arrivare in ritardo e alla fine non ce l'avrei più fatta neanche a uscire di casa." H terapeuta di Gabrielle la rassicurò dicendole che questo era improbabile e ricordandole com'era cambiata grazie agli antidepressivi "Con mio grande sollievo," disse Gabrielle, "non è ricominciata la stessa vecchia storia. Ho trovato che anzi adoravo alzarmi presto, e spesso sono stata una delle prime persone ad arrivare in ufficio! In sei mesi sono arrivata in ritardo soltanto una volta... perfino la gente 'normale' ogni tanto dorme più del solito." Le turbe dell'umore in generale e la sindrome bipolare in particolare possono "ripercuotersi pesantemente sulle relazioni sociali, sulle attività professionali e sulla capacità individuale di reggere alla tensione emotiva degli episodi affettivi,"

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osserva Goodwin. Anche il costo in termini individuali può essere ingente. Come scrisse Joshua Logan nella sua autobiografia, "Avevo solo quarantacinque anni, ma si sentii sfinito da quest'ultima esperienza, come se fossi stato un pesce vivo sbudellato."31 Il processo d'imparare a fare la distinzione fra stati d'umore normali e anormali è un altro campo in cui la psicoterapia può svolgere un ruolo importante. L'umore "normale" è, naturalmente, variabile. Tutti noi conosciamo periodi di afflizione, collera, esaltazione e gioia. Ma per qualcuno che ha sofferto di turbe dell'umore può essere difficile distinguere le variazioni normali da segni di malattia incombente. Se si sentono furibonde o irritabili o un po' giù o anche particolarmente bene possono, legittimamente, temere che questi sentimenti non siano semplicemente parte della gamma normale delle emozioni umane ma sintomi precoci di depressione o di ipomania. Goodwin fa notare: "L'accavallarsi di queste emozioni può essere motivo di confusione e di ansietà per molti pazienti, che possono arrivare a dubitare delle loro capacità di giudizio e a preoccuparsi senza motivo di ricorrenze della loro

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malattia affettiva." La psicoterapia può aiutare a "imparare a distinguere quello che è personalità normale da quello che la malattia ha sovrapposto a essa: agitazione, impulsività, imprevedibilità, e depressione." "Nessuna pillola può aiutarmi a risolvere il problema di non voler prendere pillole; allo stesso modo, nessuna quantità di analisi da sola può prevenire le mie manie e depressioni. Io ho bisogno sia delle pillole sia dell'analisi," dichiara una delle pazienti del dottor Goodwin. Anche quando sono stati aiutati dai farmaci, molti continuano a credere che dovrebbero essere capaci di cavarsela senza medicine. Le persone da me intervistate che non erano in trattamento psicoterapeutico quando incominciarono la cura farmacologica - ed esse costituivano certamente una minoranza - trovarono molto più difficile sopportare gli effetti secondari del farmaco, nonché accettare che la loro malattia aveva una base biologica. Continuarono a pensare che se si fossero sforzate un po' di più o avessero fatto questa o quella cosa in modo diverso, non si sarebbero ammalate. Anche quando il medicinale stava chiaramente esercitando il suo effetto benefico, continuarono a credere che avrebbero

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dovuto mollarlo. Quando poi dovettero vedersela con amici o familiari che non erano d'accordo con loro sulla scelta del metodo di cura, la loro lotta fu tanto più difficile in quanto non avevano uno psicoterapeuta a loro sostegno. Nella mente di certuni, il senso di colpa che si lega al fatto di soffrire di una "malattia mentale" è sostituito dal senso di colpa legato alla necessità di prendere una pillola per stare bene. Oppure, paradossalmente, essi possono avere l'impressione che adottando l'approccio medico (che, nelle parole di Goodwin, è "la principale misura reale di controllo che una persona possa esercitare sulla sua malattia"} abbiano rinunciato alla loro capacità di controllo o che non diano prova del minimo impegno a migliorare le proprie condizioni. Uno psicoterapeuta può aiutare a risolvere questi conflitti. Più la malattia è grave, più la psicoterapia è importante. Essa è quasi sempre indicata per la cura della sindrome bipolare, per esempio. La sindrome bipolare può essere particolarmente distruttiva per le relazioni, l'autostima e l'immagine di sé di una persona. Gli episodi maniacali sono particolarmente sconvolgenti e spesso

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provocano difficoltà nei rapporti con gli altri. "I farmaci possono controllare i sintomi, ma la psicoterapia è necessaria per comprendere le tensioni della malattia, per risolvere i problemi creati dall'affezione morbosa e per ristabilire le relazioni e la sana immagine di sé che sono state scosse dalla malattia," spiega Fred Goodwin in Manie Depressive lllness, un testo nuovo ed estremamente leggibile.33 La sindrome bipolare riduce l'autostima, distrugge le relazioni e può condurre ad alcolismo secondario o ad abuso di droga, rovina finanziaria, ospedalizzazione e perdita di impieghi "Dover affrontare tale realtà spinge comprensibilmente la gente alla collera," spiega Goodwin. "La coflera può portare a respingere irrazionalmente un trattamento efficace." Ecco come uno dei pazienti del dottor Goodwin descrive i suoi sentimenti nei confronti della malattia: "La gente si aspetta che tu accolga con gioia il fatto di essere tornato 'normale', sia grato al litio, ai medici e alla scienza moderna, e ti metta con zelo a recuperare l'energia e il sonno normali. Ma se sei abituato a dormire solo per cinque ore a notte e adesso dormi per otto

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ore, sei abituato a stare sveglio tutte le notti per giorni e settimane di fila e adesso non puoi, si tratta di un assestamento molto reale che ti uniforma a un tran-tran impiegatizio che, anche se confortevole per molti, è nuovo, sacrificato, apparentemente meno produttivo, e di certo meno divertente. Gli altri dicono, quando mi lamento di essere meno dinamico, meno energico: 'Be', adesso sei esattamente come tutti quanti noi,' e, fra l'altro, con questo intendono rassicurarmi Quello di cui non si rendono conto è che io mi confronto col mio io precedente, non con gli altri E non solo: io mi confronto sempre con me stesso quando ero al meglio, ossia quando ero ipomaniaco. Quando sono il mio attuale, 'normale' me stesso, sono lontano anni luce da quando andavo al massimo: il massimo del pimpante, del produttivo, dell'intenso, dell'effervescente. Insomma, per me stesso, rappresento un copione difficile da seguire."34 È evidente che le persone con sindrome bipolare hanno un particolare bisogno della psicoterapia. La malattia è tutt'altro che facile da controllare: tende a insorgere nell'età giovanile, ed è spaventosamente devastante. È facile, dopo il primo episodio

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maniacale, voler negare la malattia. In particolare i giovani trovano diffìcile accettare di dover prendere regolarmente un farmaco, non perdere ore di sonno e tenersi alla larga da droghe e alcoL Una volta che l'episodio è curato ed essi tornano alle loro condizioni normali, vogliono credere che tutto sia finito. Le cose che gli rammentano la malattia diventano un tormento. Non vogliono essere ammalati, vogliono star bene. La gente che sta bene non prende la medicina ogni giorno. Eppure se qualcuno che ha avuto un episodio maniacale smette di prendere la sua medicina corre un rischio altissimo di ammalarsi di nuovo: e molto più presto e in modo più grave che se prendesse il farmaco. C'è anche la faccenda del controllo. Nessuno ama particolarmente la sensazione di dover prendere regolarmente una medicina e nonostante ciò non poter essere certo che starà bene. Per i giovani è ancora più facile sentirsi impotenti di fronte a una malattia episodica. Anziché imparare ad accettare la realtà della loro sindrome bipolare, possono avvertire un gran bisogno di negarla. Genitori e amici, volendo essere al loro fianco, possono involontariamente sostenerli nel loro

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atteggiamento di diniego. Per vari motivi, la psicoterapia può svolgere un valido ruolo. In effetti, la maggior parte degli esperti di sindrome bipolare sono contrari a che i pazienti cerchino di farcela con la sola terapia farmacologica. Come osserva Fred Goodwin nel suo Manie Depressive lllness, "La psicoterapia formale è estremamente benefica per molti pazienti affetti da sindrome maniaco-depressiva e incontestabilmente essenziale per molti altri, specie quelli che hanno pensieri di suicidio o sono riluttanti a prendere il farmaco nel modo prescritto." Anche in questo caso, è più facile che siano i giovani pazienti a cercare di prendere la loro medicina come meglio li aggrada. Alcuni non amano prendere le loro pillole in presenza di altri, e quindi molti di loro evitano le dosi prescritte alle ore dei pasti Steven faceva cosi quando era al college. Come si è visto nel sesto capitolo, smetteva di prendere il litio per un giorno o due prima di un weekend, pensando di poter in questo modo rendere meno rischioso il bere. Ben presto arrivò a non prendere la sua medicina per parecchi giorni alla settimana. I problemi che tormentavano Steven sarebbero

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stati più facilmente affrontabili se egli avesse avuto l'aiuto di uno psicoterapeuta. Lui però voleva evitare la psicoterapia, perché pensava che essa gli avrebbe ricordato di continuo la sua malattia. "Sto cercando di gettarmi questa faccenda dietro le spalle," protestò. Sua madre faceva del suo meglio per incoraggiarlo, ma simpatizzava anche col suo desiderio di essere "normale." Probabilmente desiderava la stessa cosa per lui La tensione è un fattore scatenante sia della mania sia della depressione. Meglio un individuo è capace di dominare, o di evitare, la tensione, maggiori sono le sue probabilità di condurre una vita relativamente stabile. La psicoterapia insegna a dominare la tensione. Inoltre aiuta le persone a esplorare il significato che la malattia riveste per loro. Sia i pazienti sia le loro famiglie traggono giovamento da una costante educazione sul decorso naturale della malattia e da discussioni sui rischi e sui benefici della cura farmacologica. Come spiegò un paziente, "D litio mi evita la mia esaltazione, allettante ma distruttiva, attenua le mie depressioni, fa ordine nel caos dei miei pensieri, mi calma, mi

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ammansisce, mi impedisce di rovinare la mia carriera e le mie relazioni, mi tiene fuori da un ospedale, vivo, e rende possibile la psicoterapia. Ma la psicoterapia guarisce. Da un senso alla confusione, pone un freno a pensieri e sentimenti terrorizzanti, restituisce una certa capacità di controllo, la speranza e la possibilità di imparare dall'intera esperienza."35 Inoltre, i primi segni di un episodio maniacale possono essere così sottili - una lieve agitazione o un senso di esaltazione o difficoltà del sonno - che solo un esperto può riconoscerli. Una volta che si manifestano, questi sintomi spesso degenerano rapidamente in un episodio maniacale vero e proprio. Se il paziente vede regolarmente un terapeuta, ci sono migliori probabilità di una rapida risposta al farmaco. Gli esperti che possono aiutare Perfino gli psichiatri, con le loro lauree in medicina, di rado si mantengono aggiornati in farmacologia, che è un settore altamente specia&zato. Se è impossibile, è meglio trovare uno psicofarmacologo. Gli istituti di medicina sono una buona fonte a cui rivolgersi per avere indicazioni. L'interessato può anche ottenere

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informazioni da amici, da familiari e dal proprio medico. Una volta che ha trovato uno psieofarmacologo, è necessario che il paziente stabilisca se Io specialista è disposto a spiegare a fondo, e giustificare, l'approccio terapeutico consigliato. L'ammalato ha il diritto di essere pienamente informato sulla sua cura. Come fa notare Jack Gorman, "Un bravo psichiatra sa come semplificare abbastanza le cose - senza trattare con condiscendenza - tanto da far capire al paziente in che modo agiscono i vari farmaci raccomandati"36 H medico dovrebbe anche essere capace di spiegare tutte le possibili alternative alla cura farmacologica e perché non sono state scelte, e dovrebbe essere disposto a fornire queste spiegazioni. H medico dovrebbe programmare regolari visite nel suo studio per seguire l'andamento della cura, e rendersi disponibile, individualmente o in associazione con un collega, ventiquattr'ore su ventiquattro per l'intero corso dell'anno, in caso di emergenza. E una sensazione tremenda essere colti da un effetto secondario inaspettato o allarmante e trovare che non è possibile raggiungere immediatamente il proprio medico. Ma non è un'esperienza che un paziente

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debba necessariamente fare: come si espresse succintamente Gorman, "Se il vostro medico è difficilmente accessibile, passate a un medico diverso."37 Come trovare un terapeuta Ci sono tre tipi di terapeuta autorizzati; psichiatri, psicologi e assistenti sociali. Gli psichiatri sono medici specialisti Fra i vari tipi di operatori nel settore della sanità che curano le turbe dell'umore, soltanto gli psichiatri sono autorizzati - e qualificati - a prescrivere tarmaci Gli psicologi, una volta ottenuta la laurea, lavorano nel settore della psicologia dinica e di solito completano un periodo d'internato di un anno in cui visitano e curano pazienti Sono spesso altamente qualificati a emettere diagnosi e a condurre trattamenti psicoterapeutici GÌ assistenti sociali hanno speciali diplomi che di solito richiedono due anni di formazione e di lavoro con pazienti Molti, dopo aver ottenuto il loro diploma seguono un addestramento aggiuntivo in psicoterapia. Purtroppo nella maggior parte degli stari non c'è una definizione legale dello "psicoterapeuta". Chiunque voglia farlo può autonominarsi psicoterapeuta indipendentemente dal

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fatto che abbia seguito corsi di formazione oppure no. È probabilmente meglio evitare uno psicoterapeuta che non sia uno psichiatra, uno psicologo o un assistente sociale diplomato, perché non c'è modo di sapere se sia sufficientemente esperto. Trovare uno psicoterapeuta che conosca bene gli aspetti biologici delle turbe dell'umore e con cui il paziente si senta a proprio agio può essere difficile. Ci si può rivolgere per suggerimenti ad amici, a parenti e/ o al medico di famiglia. Quasi tutti i comuni del nostro paese possiedono un centro di salute mentale. Questi centri sono incaricati dallo stato, dalla contea o da altre municipalità di fornire assistenza medica di alta qualità a chiunque si affetto da patologie mentali, anche se indigente. Di solito questi centri hanno anche degli elenchi di psichiatri che esercitano in privato, e saranno lieti di dare indicazioni Se il paziente preferisce uno psicoterapeuta che sia di sesso maschile o femminile, non tema di specificare. Molti psicoterapeuti inoltre precisano di servire neri, ispanici o altri gruppi etnici, o di avere un atteggiamento aperto verso gay e lesbiche. Consigliamo al paziente di non essere

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riluttante a vedere più di uno psicoterapeuta o psicofarmacologo, finché non ne trovi uno con cui si senta a proprio agio. Potrà sorprendersi della facilità con cui può scegliere uno sugli altri, ed è importante lavorare con qualcuno in cui si ripone fiducia. Dopo aver fatto ricorso a tutti i canali disponibili per ottenere i migliori suggerimenti possibili, consulti tutti gli specialisti quanti riterrà necessario: e dia retta al proprio intuito.38 Come affrontare gli effetti secondari Come la maggior parte dei farmaci, gli antidepressivi possono avere effetti collaterali indesiderabili. Alcuni producono un aumento di peso, altri aridità delle fauci 0 costipazione, altri ancora effetti di sedazione. Dato chemolti degli effetti secondari sono anche sintomi didepressione, può essere difficile dire se sono provocatidalla medicina o dalla malattia. Soltanto un medicoesperto nella somministrazione di farmaci psicotropisarà in grado di distinguere i sintomi dagli effetticollaterali. Non è possibile sapere in anticipo se un particolare farmaco produrrà in un dato paziente effetti

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secondari intollerabili o non provocherà assolutamente nessun effetto secondario. Questo può essere molto frustrante sia per il paziente sia per il medico. Per fortuna, spesso gli effetti collaterali non sono cosi gravi da rendere necessario il passaggio a un altro prodotto. "E peggior problema che ho avuto è stato quello della bocca secca, così secca che gli angoli si sono screpolati," ci disse Eileen Fitzpatrick. "Dato che la voce mi serve sia nella psicoterapia sia nell'insegnamento, per me è stato un problema serio." Ma Eileen è certa che 1 benefici che trae dagli antidepressivi facciano passarein secondo piano il fastidio degli effetti secondari o deldover prendere delle capsule ogni giorno. "Avrei troppo da perdere se ripiombassi nella depressione," assicura. L'interrogativo da porsi è questo: l'effetto terapeutico di un particolare farmaco vale il dover sopportare gli effetti collaterali? Di solito, la risposta è sì. È inoltre importante ricordare che gli effetti collaterali che si manifestano diminuiscono in genere di intensità col passare del tempo. ^aumento di peso è un effetto

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secondario comune di molti antidepressivi. Non è chiaro il motivo di questo effetto, né si può prevedere quali pazienti abbiano più probabilità di acquistare peso. Non tutti quelli che prendono queste medicine, però, aumentano di peso, anche se le persone che sono già sovrappeso quando iniziano la cura tendono ad aumentare di più di quelle che non lo sono. Ciò che è chiaro, comunque, è che l'aumento dì peso di solito è provocato dal farmaco, non dal mangiare eccessivo. Come osserva Jack Gorman, "Molti farmaci psicotropi producono aumento di peso, anche se il paziente non mangia eccessivamente (il corsivo è mio). Anche se i pazienti che sono dimagriti troppo a causa della depressione possono gradire l'acquisto di qualche chilo, la maggior parte delle persone trovano l'aumento di peso uno degli aspetti secondari più spiacevoli degli antidepressivi. Se vi preoccupa la possibilità di aumentare di peso, tenete presente che se questa possibilità si concretizza, l'aumento può essere trascurabile. Sia l'esercizio fisico sia una dieta rigorosa possono servire a contenerlo, come fanno per chiunque abbia bisogno di calare di peso.

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Inoltre, alla fine della vostra cura, qual-siasi peso possa essere stato acquistato per effetto degli antidepressivi viene perso. L'aumento di peso può essere semplicemente il risultato naturale della scomparsa della depressione, col conseguente ritorno dell'appetito normale. Oppure potrebbe essere provocato da ritenzione idrica, alterazioni del metabolismo e/o ridotta funzione della tiroide.41 Gli IMAO possono provocare edema (gonfiore dovuto a ritenzione idrica) alle gambe e alle caviglie, il che contribuisce all'aumento di peso. A volte in questi casi può rendersi utile la prescrizione di diuretici, anche se i dottori Jonathan O. Cole e J. Alexander Bodkin del McLean Hospital del Massachusetts riferiscono che la loro utilità è dubbia.42 Chi è affetto da bulimia può pensare con terrore all'idea di acquistare anche poco peso. Farebbe bene allora a cercare di tener presente che l'estrema paura di metter su peso fa parte della malattia stessa. Quando la cura riesce, la paura scompare insieme con lo stimolo a rimpinzarsi H peso che viene acquistato in seguito ala cura con antidepressivi può essere perso soltanto con la dieta e l'esercizio fisico.

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L'esercizio è comunque una buona idea, poiché accresce le endorfine naturali e contribuisce ad alleviare la depressione. (Se non state già seguendo un programma di attività fìsica, probabilmente farete bene a iniziarne uno: anche se non avete un problema di peso.) Se avete bisogno di mettervi a dieta, evitate i metodi estremi, come le diete liquide, poiché possono influire sul modo in cui il vostro corpo metabolizza l'antidepressivo. Se l'aumento di peso diventa un problema serio, è possibile cercare di cambiare farmaci. Niente però garan-tisce che un antidepressivo diverso sarà efficace. Se l'antidepressivo che state prendendo allevia la vostra depressione, dovrete giudicare attentamente se la possibilità dì perdere il peso in eccesso valga il rischio molto reale che il passaggio a un'altra medicina possa provocare un ritorno della depressione. La maggior parte degli antidepressivi triadici bloccano parzialmente un nuovo aumento del livello dell'ace-tilcolìna, un neurotrasmettitore che regola l'umore. Questo effetto è detto anticolinergico. Ma dato che l'acetil-colina interviene anche in varie funzioni del corpo (come l'apparato digerente e la messa a

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fuoco delle pupille), l'azione anticolinergica spesso produce effetti collaterali indesiderabili. Tuttavia, quando si determinano, tendono ad affievolirsi col tempo, a misura che il corpo si adatta gradualmente al medicamento. Costipazione e senso di secchezza al cavo orale sono i più comuni di questi effetti collaterali. Gomma da masticare senza zucchero o caramelle al limone stimolano la secrezione salivare e possono essere prese per recare sollievo ala bocca arida. La costipazione può di solito essere alleviata prendendo un lassativo a base di psillio o acquistando fibra di psillio in erboristeria e bevendo forti quantitativi di liquidi43 In alcuni soggetti, gli antidepressivi triadici provocano una varietà di disturbi urinari, compresa, in casi estremi, una completa ritenzione urinaria.44 Di solito essi si manifestano in uomini anziani e con disfunzione della prostata. Un uomo che prova difficoltà a svuotare la vescica dopo aver iniziato una cura con un antidepressivo dovrebbe interrompere il trattamento e rivolgersi immediatamente al medico. In questo caso sarà probabilmente necessario passare a un farmaco diverso.45 Gli IMAO hanno in genere

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minori effetti anticolinergici, ma certi pazienti curati con questi agenti presentano secchezza alla bocca, stitichezza e anche difficoltà della minzione. Tuttavia questi particolari effetti secondari sono sensibilmente meno comuni con gli anti-MAO che con gli antidepressivi triciclici.4' La sedazione può manifestarsi con certi antidepressivi triciclici e IMAO, oltre che con alcuni degli antidepressivi più nuovi. Quando la depressione provoca insonnia, questo effetto secondario può anzi essere benefico. Anche se di solito si sviluppa una tolleranza agli effetti di sedazione, essa può richiedere parecchio tempo. Una sedazione indesiderata può essere ridotta prendendo la dose intera del farmaco prima di andare a letto, ma se essa è sia persistente sia pesante può rendersi necessario cambiare specifico.47 Fatto interessante, il trazodone, di efficacia piuttosto scarsa come antidepressivo ma molto efficace come sedativo, può essere prescritto quando l'insonnia rappresenta un problema. Altri antidepressivi sono piuttosto stimolanti, il che può essere utile per coloro che si sentono letargici e/o dormono troppo.48 Naturalmente, questo non sarebbe desiderabile per

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qualcuno che soffre d'insonnia. In questo caso può essere ordinato il trazodone, o si può provare un altro antidepressivo. Prima di deridere quale farmaco prescrivere, lo psicofarmacologo dovrebbe prendere in considerazione i ritmi di sonno del paziente. Tutti gli antidepressivi possono a volte provocare disturbi sessuali come un calo della libido, eiaculazione inibita o dolorosa o impotenza erettile. L'orgasmo tardivo è il più comune di questi effetti collaterali e sembra più probabile con gli IMAO e la fluoxetina che con altri antidepressivi Alcuni farmaci possono essere utili per alleviare la disfunzione sessuale, ma il disturbo può scomparire spontaneamente dopo un certo tempo. I dottori Mark H. Pollack e Jerrold F. Rosenbaum riferiscono che alcuni dei loro pazienti che hanno accusato orgasmi tardivi "dopo oltre un anno hanno recuperato la funzione sessuale normale senza intervento medico o perdita di beneficio terapeutico."50 H metodo migliore di affrontare questi problemi può essere quello di "tranquillizzare il paziente assicurandogli che questi effetti sono clinica-mente benigni e destinati a risolversi col tempo."51 Gli IMAO provocano spesso episodi di

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debolezza e di capogiri, detti ortostatici o da ipotensione postmale, che sono provocati da una caduta della pressione sanguigna quando il paziente si mette in posizione eretta. Questo è uno dei più frequenti effetti secondari degli IMAO. PUÒ provocare svenimenti, vertigini, debolezza muscolare e tachicardia oltre che nausea, sudorazione, iperventilazio-ne e a volte stato confusionale. Rare volte, e di solito in anziani, possono aversi cadute con conseguenti fratture. Questi sintomi sono potenzialmente peggiori al risveglio, quando la pressione sanguigna è di norma al minimo.52 Come avviene con la maggior parte degli effetti «blaterali degli antidepressivi, l'ipotensione posturale di solito regredisce coll'andar del tempo. Le sue conseguenze possono venire ridotte facendo bene attenzione quando si è in posizione eretta, in particolare badando bene a scendere dal letto lentamente la mattina, e stando a sedere per qualche momento sull'orlo del letto prima di alzarsi in piedi53 Si può anche cercare di fare esercizi per rafforzare i muscoli del polpaccio, il che può prevenire gli ingorghi di sangue alle gambe, oppure

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si può provare a indossare collant che aderiscano al polpaccio. È utile anche una forte assunzione di liquidi per mantenere una buona idratazione. Se ci si sente sul punto di svenire, questa sensazione può essere prontamente alleviata mettendosi immediatamente a sedere o stendendosi Se l'ipotensione continua a essere un problema, possono essere utili le seguenti strategie (anche se, naturalmente, è necessario prima consultarsi col proprio psicofarmacologo): suddividere la dose totale in parecchie somministrazioni nell'intero arco della giornata; prendere delle dosi dopo i pasti; prendere compresse di sale. Inoltre, lo psicofarmacologo può prescrivere una medicina che rialzi la pressione sanguigna per qualche settimana o qualche mese, fino alla remissione dell'ipotensione. Virtualmente tutti gli antidepressivi possono, in rare occasioni, provocare mania o ìpotnania (una forma più lieve di mania) anche i pazienti in precedenza non trovati affetti da sindrome bipolare. Perché questo succeda non si sa con certezza, anche se oggi si sospetta che il problema si manifesti soltanto in pazienti che soffrono di sindrome bipolare ma non sono ancora stati colti da una crisi

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maniacale. Gli antidepressivi attraversano rapidamente la placenta e dovrebbero essere evitati in gravidanza, almeno durante il primo semestre. Nelle pazienti per cui non si può evitare il trattamento durante la gravidanza, è prudente interrompere la somministrazione del farmaco parecchio tempo prima della data prevista per il parto e ripresa dopo il primo trimestre. L'aspetto più inquietante della terapìa con inibitoli delle MAO è la cosiddetta "reazione da formaggio", o crisi ipertensiva. Se si prendono degli IMAO, alimenti ricchi di tiramina possono provocare una crisi iperten-siva, ovvero un forte aumento della pressione sanguigna. L'effetto può essere provocato anche da un'ampia gamma di medicinali. Benché raro, può essere un'esperienza spaventosa. In ogni caso, gli IMAO sono fondamentalmente sicuri, dato che gli alimenti e i farmaci che possono provocare una crisi sono ben noti (vedi l'appendice D per un elenco di questi cibi e farmaci). Quando qualcuno inizia una cura con un MAO, riceve dal suo medico una lista di quello che deve evitare: stia bene attento ad attener-visi senza il minimo sgarro! Lo specialista può

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anche fornire al paziente un farmaco da portare con sé e da prendere in caso d'ingestione accidentale di qualcosa che provochi una reazione ipertensiva. (Per un esame più completo degli IMAO e di questo effetto collaterale, vedi appendice C.) L'interruzione improvvisa della cura con IMAO provoca una sindrome da sospensione praticamente indistinguibile da una ricaduta nella depressione. In casi estremi, può provocare ansietà, agitazione, accelerazione della favella, insonnia o sonnolenza, allucinazioni, delirio e psicosi paranoide.54 È quindi essenziale che il dosaggio venga ridotto progressivamente e lentamente.55 Nessuno deve mai decidere di testa propria di smettere di prendere la medicina! Le benzodiazepine (come alprazolarn, diazepam, dor- diazepassido e lorazepam) sono di gran lunga i farmaci più spesso prescritti per la cura dei disturbi ansiosi. Sono al centro di un acceso dibattito: alcuni medici li considerano perfettamente innocui mentre per altri sono potenzialmente capaci di creare assuefazione. In realtà, la tolleranza alle benzodiazepine (la tolleranza implica il bisogno di aumentare il dosaggio

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per mantenere l'effetto) è estremamente rara, secondo Jack Gorman.56 Tuttavia si ha in effetti una decisa sindrome da astinenza. In un certo senso, assicura Gorman, "i pazienti rimangono 'agganciati' dalle benzodiazepine." Egli non pensa però che sia lecito usare il termine addiction, o "tossicomania", poiché esso di solito significa una violenta e del tutto devastante coazione a prendere una sostanza. Cinicamente, è corretto affermare che le benzodiazepine producono una dipendenza sia fisica sia psicologica. "Una volta che le si prende, è importante cercare di tenere basso il dosaggio, e smettere il più presto possibile," secondo Gorman. Maggiore è il dosaggio, e maggiore è il lasso di tempo d'uso, peggiori saranno i sintomi da sospensione quando l'impiego di questi farmaci verrà interrotto. Benzodiazepine molto potenti (donazepam, alprazolam e dordiazepassido) provocano probabilmente le sindromi da sospensione più gravi Le persone che abusano di altre sostanze intossicanti, in particolare alcol, fanno più fatica a cessare di prendere benzodiazepine di chi non abusa di sostanze intossicanti. I

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sintomi da sospensione sono più gravi se l'assunzione del farmaco viene interrotta di colpo. Si possono avere estrema tachicardia, insonnia, nausea, umore depresso e, in rari casi, depressione grave o psicosi. E quindi estremamente importante ridurre lentamente il dosaggio. Come osserva Michael Gitlin, "Non c'è virtualmente nessuna ragione cinica per interrompere improvvisamente l'assunzione di una benzodiazepina."57 A seconda del dosaggio e della durata del trattamento, possono volerci fino a quattro-sei mesi per ridurre lentamente il dosaggio del farmaco fino all'interruzione completa. "D lìtio è strettamente affine al sodio, cioè al sale, e il corpo lo gestisce più o meno allo stesso modo," spiega Mondimore.38 Come il sodio, il litio viene escreto attraverso i reni, e molti dei suoi effetti secondari sono simili a quelli che si avrebbero se si aumentasse l'assunzione di sale: aumento della sete e della minzione e ritenzione idrica (edema). Tuttavia il corpo spesso si adatta al nuovo "equilibrio fra sale e acqua", e i sintomi recedono. Non bisognerebbe assolutamente prendere diuretici se non sotto controllo medico, poiché

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possono aumentare la concentrazione del litio nel sangue, potenzialmente provocando un'intossicazione da litio. Il litio può irritare lo stomaco e l'apparato digerente e certi pazienti accusano nausea e/o diarrea. Questi sintomi possono essere evitati, o perlomeno ridotti, prendendo il farmaco immediatamente prima o dopo i pasti Se il disturbo persiste, si può provare a passare a una forma di litio a lento assorbimento, che tende a essere meno irritante. H litio può anche provocare un lieve tremore, solitamente alle mani, che può essere aggravato dall'ansia o dal nervosismo. Mondimore riferisce che molti dei suoi pazienti in questi momenti si accorgono appena di questo disturbo. Di solito, tale effetto secondario non è un problema grave, ma quando lo è, è possibile prescrivere qualche altro farmaco per alleviarlo. Alcuni pazienti accusano lievi cali della memoria e della capacità di concentrarsi. Per fortuna questi effetti sembrano essere collegati al dosaggio e spesso si placano se la dose di litio viene abbassata. H litio presenta de rischi durante la gravidanza, soprattutto durante il primo trimestre, quando avviene la più importante fase di

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sviluppo del feto. Alcuni studi hanno dimostrato che il litio preso durante la gravidanza accresce in modo sensibile la possibilità di difetti nel nascituro. Se il litio viene somministrato durante il puerperio (un periodo ad alto rischio di sviluppo di una sindrome maniacale), l'allattamento al seno è controindicato, poiché il litio viene escreto nel latte materno. Se durante la gravidanza è necessario un antidepressivo, la carbamazepina può essere la scelta migliore, poiché pare meno probabile che provochi malformazioni nel feto. Dati preliminari mostrano che si tratta di "un farmaco relativamente benigno con scarse prove sistematiche di rilevanti malformazioni fetali quando somministrato durante la gravidanza."59 Non esistono inoltre prove che i tarmaci antipsicotici provochino difetti nel feto, quindi se durante la gravidanza avviene un episodio maniacale possono essere usati con relativa sicurezza. LA TOSSICITÀ DEL LITIO L'effetto collaterale più grave della cura con litio è l'intossicazione. La disidratazione, in particolare, può far sì che il litio diventi troppo concentrato nel flusso sanguigno. Per

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questo motivo, chi lo assume deve bere molta acqua per evitare la disidratazione, specie quando fa molto caldo. È necessario che i pazienti vengano informati dei sintomi dell'intossicazione, in modo da poter ricorrere a un intervento immediato nel caso che essa si manifestasse. Questi sintomi comprendono spossatezza e letargia, pensiero annebbiato e scarsa capacità di concentrazione, nausea grave e vomito, vertigini, debolezza muscolare, difficoltà della favella e della deambulazione.60 I medici dovrebbero informare i loro pazienti, a voce e per iscritto, degli effetti collaterali del litio e dei sintomi dell'intossicazione. La famiglia e gli amici possono aiutare C'è una gran quantità di informazioni da introiettare quando si discute della strategia di cura con il proprio psicofarmacologo. Quando si è depressi, può essere difficile digerire tutto quanto. Può anche essere motivo dì confusione o di un certo timore. Aiuta la presenza di un amico intimo o di un familiare, che rassicuri e prenda nota di quanto viene discusso. In questo modo egli può rammentare al paziente quanto da lui eventualmente dimenticato. Inoltre, i sintomi della depressione

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(come un senso d'impotenza che non trova riscontro nella realtà o un'incapacità di comunicare) possono rendere impossibile al paziente l'essere recettivo alle informazioni che gli vengono impartite dal medico. Amici o parenti possono pone gli interrogativi eventualmente lasciati inespressì dal paziente. E possono fornirgli un maggiore sostegno nel suo processo di guarigione quando hanno appreso di prima mano i particolari della sua cura. All'inizio del trattamento con antidepressivi, il sonno e l'appetito, per esempio, migliorano prima che si abbiano modificazioni dell'umore. Quando qualcuno è depresso, può non rendersi conto di questi cambiamenti Membri della famiglia possono essere molto utili nel riconoscere e far notare, sia al paziente sia allo psichiatra o allo psicofarmacologo che lo ha in cura, i primi segni che l'antidepressivo sta avendo effetto. "Se non lo vengono a sapere da questo familiare, il paziente e il medico possono lasciarsi sfuggire i primi segni di un effetto positivo del farmaco e interromperne prematuramente l'assunzione," spiega Jack Gorman, autore di Essential Guide to Psychiatric Dru&.61 I familiari

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possono anche essere in grado di riferire eventuali effetti secondari al medico, dato che se il paziente non si sente bene in generale può non attribuire importanza a un esantema o a un attacco di nausea. Secondo il dottor Bob Hausman, direttore di un centro psicoterapeutico nello stato di New York che informa sulla cura familiari di pazienti affetti da depressione o altre patologie, "Fornita degli strumenti adatti, la famiglia può aiutare enormemente. In effetti, la famiglia fa parte dello stesso gruppo a cui appartengono lo psichiatra e chiunque altro lavori con il paziente." Di contro, quando non sono bene informati sulla cura e sulla malattia in generale del loro congiunto, i familiari possono comportarsi in modo controproducente, e ostacolarne senza volerlo la guarigione. Perciò è importante che sappiano il più possibile della malattia. Chi è depresso non solo deve vedersela con le proprie preoccupazioni per la cura, ma spesso si trova esposto a commenti negativi e dissuasivi da parte di amici, familiari e perfino estranei Anche se bene intenzionate, le loro preoccupazioni sono spesso infondate, e addirittura potenzialmente dannose

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per la persona che sta cercando di stare bene. Se veniste a sapere di avere un cancro, non vi aspettereste certo che una persona amica trovasse da ridire sulla vostra necessità di ricorrere alla chemioterapia o a una cura radiologica. Né vi aspettereste di sentirvi dire che è stato il vostro "atteggiamento negativo" a provocare il cancro e quindi quello che veramente vi serve è rivolgervi a uno psicoterapeuta! Eppure, quando sì ha a che fare con la depressione, spesso la gente da proprio questo tipo di consiglio. "Hai provato a cambiare dieta?" magari ti suggeriscono, oppure "Forse dovresti cambiare terapeuta." Possono addirittura arrivare a dirti: "Ma si, quando io mi sento depressa mi sforzo di uscire di casa, faccio una lunga passeggiata e così di solito mi passa." Commenti del genere possono indurre chi soffre di una vera depressione a credere che la sua malattia non è abbastanza seria da richiedere l'intervento del medico. Come nota la dottoressa Priscilla Slagle, "Quando esortate una persona depressa a 'pensare in positivo', è quasi come se insisteste che vi parli in latino, col risultato di acuire il suo senso di colpa e farle perdere quel po' di speranza che le resta.

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'Hanno un bel parlare di pensieri positivi, io non so neanche cosa sono. C'è qualcosa di tremendamente marcio in me. Sono rovinato. Senza speranza.' E il ciclo si ripete."62 Iniziando la cura con antidepressivi, il paziente si accinge ad aquisire un controllo sulla malattia. Una volta che ha preso questa decisione, è importante che riceva l'appoggio degli altri e sfidi o ignori coloro che reagiscono negativamente. Chi inizia la cura dovrebbe tenere ben presente che ha preso una decisione medica concernente la sua salute, e che quando si tratta di scegliere la cura migliore per il suo caso la decisione finale spetta a lui. Quando succede a uno dei propri cari Ci sono poche cose più sconcertanti di quella particolare zona indistinta che si determina in un colloquio con chi soffre di depressione. Può essere come penzolare in attesa in cima a un'altalena mentre l'altro siede in fondo rifiutandosi di muoversi Voi chiamate, ondeggiate le braccia e saltellate su e giù, ma l'altro se ne sta seduto in fondo, tutto ingrugnato e non comunicativo. Perché è arrabbiato? Vi chiedete se avete fatto qualcosa di sbagliato, ma nella situazione c'è anche qualcosa che fa perdere la pazienza. "Ogni volta che

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parlavamo, avevo l'impressione di deludere John," ci confidò una donna da noi intervistata, EDen, descrivendo la sua esperienza con il marito prima di essere edotta del fatto che era depressa. "C'erano dei vuoti, dei silenzi. Io cercavo di riempirli. Pensavo: dipende da me? Cosa stava succedendo?" Non avendo la più pallida idea di cosa stesse accadendo, EHen si senti in colpa. Divenne ansiosa e cercò di pompare le loro piatte discussioni con la propria energia. Quello che la tormentava di più era la sensazione agghiacciante che John sapesse cosa stava succedendo: lo sapesse e se ne compiacesse. "Sono arrivata a sentirmi paranoica, come se fosse lui a manipolare tutta la faccenda e io fossi totalmente priva di potere." È facile che chi è depresso si senta bistrattato da un membro della famiglia. In realtà John non si rendeva quasi conto di quello che Ellen stava passando. Era troppo sopraffatto dalle proprie condizioni per poter essere sensibile a quelle della moglie. Ci è stato insegnato a confondere la tristezza con la depressione e a credere di poter facilmente provare dell'empatia per un amico o un coniuge che si sente triste. Ma non è questo l'effetto che

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le persone depresse tendono ad avere su di noi Di rado sembrano tristi. Sembrano piuttosto spente, svuotate, prive di emozioni. E noi a volte ci sentiamo decisamente irritati: come se stessero facendo qualcosa a noi. La depressione, gli psichiatri riconoscono, è più simile a un limbo emotivo, a una sorta di oscuramento di tutti i sentimenti. Anche persone che fanno un gran piangere non diranno che sono tristi. Quello che provano è un senso di vuoto. Ed è questo senso di vuoto che sconcerta gli altri, che si chiedono perché anche loro cominciano a sentirsi altrettanto svuotati. Quello che si rende molto evidente in un depresso è la mancanza d'interesse. Non c'è nessuna curiosità. Niente eccita. Egli sembra chiudersi al mondo che lo circonda. Questo isolazionismo mentale può manifestarsi come un atteggiamento d'indifferenza. Un'amica che è venuta di recente a trovarci durante un weekend sembrava stranamente assente. Non iniziava mai una conversazione e si limitava a rispondere, e non con molto entusiasmo. "C'è qualcosa che non va?" le chiesi. "Oh, niente," rispose. Disse che sarebbe andata a prendere un po' di sole, ma continuò a sedere all'ombra, sfogliando

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svogliatamente un giornale. Suggerii di andare a vedere una commedia, ma lei obiettò che non le andava a genio l'autore. L'idea di andare a sentire un complesso di musicisti africani che suonavano in un club locale parve accendere un barlume d'interesse in lei, ma una volta là, trovò che nel locale c'era qualcosa che l'aveva "smontata" e volle andarsene. Ormai disperavo di poterle offrire qualcosa che potesse appassionarla, e tutt'a un tratto mi si affacciò alla mente questo pensiero: "È depressa!" Avevo passato tre giorni in cima all'altalena aspettando che lei, all'estremità opposta, si muovesse prima di capire qual era il problema. Per quanto possiamo saperla lunga in fatto di depressione, può sempre essere difficile riconoscerla in un'amica o in un membro della famiglia. Le indicazioni più attendibili possono venirci da un'osservazione delle nostre stesse reazioni. La depressione di qualcuno che ci è molto vicino mette a dura prova la nostra sensibilità. Noi ci sentiamo criticati e diventiamo irritati. Tutto il peso della conversazione tocca a noi E poi c'è quell'esasperante mancanza di espressione facciale: le masque, come la chiamano efficacemente i francesL

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Quella faccia immobile sembra trarre una certa cupa soddisfazione dal nostro vederci negare una risposta. E facile sentirsi manipolati da qualcuno che è depresso. Uno psicanalista espose in un lungo e brillante saggio la sua teoria secondo cui l'essenza delT'atteggiamento depresso", come egli lo chiamò, è la sua aggressività. Egli sostenne che la depressione tende a una sola cosa: a costringere gli altri a reagire, a prestare attenzione, a riversare l'amore e l'approvazione che per tanto tempo sono stati negati. È un atteggiamento vampiresco e ostile che sfrutta i sentimenti altrui Invece di sforzarsi di riempire il suo vuoto ulteriore, il depresso cerca sempre aggressivamente che qualcun altro lo riempia. La prima volta che lessi questo saggio, dieci anni fa, trovai affascinante la sua idea che i depressi pretendessero troppo dagli altri. Io la pensavo senz'altro allo stesso modo. (Non è forse capitato a tutti noi di fare la stessa considerazione?) La prossima volta che qualcuno avesse provato a farmi pesare la sua depressione, avrebbe dovuto scordarselo. Oggi direi che questo saggio, non importa quanto abilmente argomentato, era

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completamente fuori strada. Il depresso non cerca affatto di far pesare a qualcuno la sua depressione. E chiuso in se stesso e non comunicativo per via del chimismo del suo cervello. Quando ci fa sentire turbati, può dipendere dalle nostre personali necessità. Invece di accettare che la nostra amica depressa non è in grado di essere una buona conversatrice, montiamo in cattedra e cerchiamo di ottenere la risposta che possa far sentire meglio noi. Quando non riusciamo a ottenerla, ci sentiamo ignorati, perfino offesi Ma mentre questa malattia prevale, è meglio non aspettarsi troppo dall'individuo che soffre. Può essere necessario che altri si assumano la responsabilità di intervenire. La depressione è una malattia che può lasciare la vittima incapace di richiedere aiuto. Quando succede questo, altri devono prendere l'iniziativa. In un secondo tempo, quando il paziente si sente meglio, può cominciare ad assumersi la sua responsabilità. Quando intervenire Forse la cosa più importante che familiari e amici possono fare è incoraggiare il paziente a farsi curare. La natura stessa della depressione - i suoi sentimenti di impotenza e di inutilità - possono

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paralizzare un paziente a tal punto da impedirgli di compiere i passi necessari per arrivare a stare meglio. E questo lo fa sentire ancora peggio-Quando i sintomi si protraggono a lungo - anche se sembra esserci un evento che li ha scatenati - è necessario un aiuto, e l'amico o il congiunto che si prende cura del paziente dovrebbe scegliere uno specialista. Una volta avrei giudicato un comportamento del genere invadente e importuno, ma poi ebbi la mia esperienza con Gabrielle. Da allora, mi sono offerta di fornire indicazioni ad altre persone e di metterle in contatto con dei medici. Accompagnai una mia amica da uno specialista e aspettai nella sala d'attesa. Ho scoperto che chi è depresso prova gratitudine quando gli viene offerto aiuto. A livello più o meno cosciente, sa di averne bisogno. La depressione distrugge l'autostima e la fiducia in se stessi, e familiari e amici possono aiutare il depresso a recuperare il rispetto di sé fornendo affetto, appoggio e incoraggiamento. Ma non è sempre facile sapere quali sono i modi migliori per ottenere questo risultato. Il NIMH ha stabilito delle linee guida che ho trovato utili.63 La prima cosa è

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cercare di mantenere una relazione il più normale possibile. E importante passare del tempo con la persona e non cedere al suo desiderio di rimanersene appartata. Bisogna telefonarle spesso e non accontentarsi di lasciare un messaggio alla segreteria telefonica. Quello che si vuoi ottenere è che essa si senta moralmente impegnata con voi, non semplicemente farle sapere che ci sta a cuore. È utile riconoscere che il vostro amico o familiare sta soffrendo. Non è necessario dire: "So bene come ti sentì," E forse non sapete neppure come l'altro si sente, specie se non siete passati per la stessa esperienza. Potete invece dire: "So che la depressione è una malattia che fa soffrire terribilmente. Mi spiace tanto che ti sia capitato questo, ma è disponibile una cura che può farti sentire meglio." Estremamente importante è comunicare la vostra convinzione che l'aiuto è a portata di mano e il paziente si sentirà davvero meglio. La sfiducia in se stessi che è uno dei sintomi della depressione può spingersi fino al pessimismo circa la possibilità che le cose possano mai cambiare. Bisogna far breccia in questo pessimismo. Naturalmente, l'ottimismo non è

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qualcosa che si possa simulare. Se avete bisogno di rassicurazioni, parlate a quattrocchi con lo psichiatra o lo psicoterapeuta che pensate di raccomandare al vostro caro. Prima di telefonare a quella psichiatra di New York per prendere un appuntamento per Gabrielle, ebbi una lunga conversazione con un'esperta assistente sociale che fu così categorica nella sua convinzione che mia figlia potesse essere aiutata che le telefonai immediatamente: "Dicono che possono aiutarti, e io sono certa che possono farlo." Nessun momento più di questo necessita di parole gentili e di complimenti, anche se sembrano trovare orecchie sorde. Ricordate che questa è una malattia che diminuisce la capacità di una persona di rispondere. Quindi non aspettatevi le reazioni normali, ma continuate a offrire incoraggiamento e gentilezza e ignorate la sensazione di stare sprecando tempo ed energia. La vostra sollecitudine sta ottenendo i suoi effetti. Di nuovo, e questo può sembrare ovvio, esprimete il vostro affetto apertamente. Mostrate che apprezzate e rispettate il depresso. Questo è qualcosa che dev'essere verbalizzato, perché la malattia gli impedisce di nutrire sentimenti

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positivi circa se stesso. Non bisogna quindi andargli a dire: "Come puoi sentirti così giù quando hai compiuto tante cose valide nella tua vita?" Questo può essere proprio l'interrogativo che lui si pone. D punto è che si sente effettivamente giù. Ha bisogno che gli ricordiate che quell'umore orribile è separato da quello che lui è, da quello che ha realizzato, dal suo carattere, dalla sua bontà. Quel suo sentirsi marcio, rovinato, è un sintomo che sparirà, come una febbre notturna, una volta che sarà stato curato. Ed ecco alcuni importanti avvertimenti. Biasimare il depresso per la sua condizione è dannoso. Come ormai avrete capito, le persone non sono la causa delle loro turbe mentali. Allo stesso modo, è importante non fare niente che possa diminuire ancora di più lo scarso concetto di sé che ha il paziente. Astenetevi dal criticarlo o esprimere disapprovazione. Potrete essere tentati di farlo, credetemi, soprattutto se il malato è un coniuge o un figlio. Disordine, trascuratezza e perfino sporcizia personale sono fra i sintomi di questa malattia. Mordetevi la lingua prima di dire: "Mia cara, i tuoi capelli sono un obbrobrio." Oppure: "Possibile che non possa fare qualcosa per quella

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stanza?" Però potete dire: "Perché non andiamo insieme dal parrucchiere?" oppure "Ti va che ti faccia un massaggio e uno shampoo?" La cosa essenziale è fare tutto il possibile per aiutare la persona a sentirsi meglio e a essere ferma nella propria convinzione che la malattia può essere curata. EPILOGO C'è vita dopo la medkalizzazione? la forse parte del nostro retaggio puritano la nostra abitudine di stringere i denti, di fare buon viso a cattiva sorte, anche se personalmente sono più propensa a pensare che sia per la natura stessa delle malattie discusse in questo libro che noi ne siamo resi troppo letargici per voler lottare per una vita migliore. Ammalati, ci concentriamo sui giorni buoni e neghiamo quelli cattivi. Ammalati, insistiamo per ottenere il massimo dei voti, e se non riusciamo ad averli disertiamo la scuola, senza capire che questa necessità di avere il massimo dei voti è sintomatica di un disturbo dell'umore, di una patologia che se non ci facciamo aiutare ci costringerà a una vita limitata e al di sotto delle nostre possibilità di riuscita. Ammalati, non possiamo ragionare a dovere - siamo troppo ansiosi e/o depressi -

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per studiare, leggere, scrivere. La lotta che ingaggiamo con noi stessi per costringerci a fare queste cose è così dolorosa che la evitiamo. H fatto che ci venga detto di continuo quanto siamo intelligenti quando siamo incapaci di fare le cose che la gente si aspetta da noi ci fa sentire stupidi Cosa c'è che non va? Cerchiamo di pensare ai bei tempi e di non pensare a quelli grami Speriamo d'innamorarci Mangiamo troppo, sbevazziamo. Viviamo promiscuamente, nella disperazione. Ci ammazziamo di fatica, spendiamo e spandiamo, sgobbiamo per quattordici ore al giorno e ci facciamo di cocaina nel bagno per riuscire a tirare avanti In breve, soffriamo, e la cosa peggiore è che ci aspettiamo di soffrire; abbiamo finito per credere che sia quello che ci spetta. Alcune delle persone di cui ho raccontato la storia in questo libro sono fortunate. Per vari motivi, hanno ricevuto l'aiuto di cui avevano bisogno, col risultato che la loro esistenza è stata radicalmente cambiata. Margaret continua a tenersi alla larga dalla droga e per la prima volta è in grado di guadagnarsi da vivere. Abita nel suo appartamento di Berlino e lavora come caposquadra e tecnico delle luci per un'impresa che

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organizza concerti rock. Di tanto in tanto si consulta ancora per telefono col suo psicoterapeuta e si sente con sua madre, che assicura che non le è mai sembrata tanto assennata e felice. Nikke, la cui esperienza con la depressione mi fu da primo stimola per cercare una cura medica per Gabrielle, ha da poco traslocato in un piccolo appartamento-studio a New York. S'interessa di recitazione ed è stata ammessa all'accademia di arte drammatica. Gabrielle fa ricerche, scrive su argomenti medici e ha un'agenzia di consulenza informatica. Di recente ha avuto notizie di Jim Daiìey, da lei intervistato per questo libro, le cui difficoltà cognitive collegate alla depressione sono descritte nel terzo capitolo. Egli ha scritto: "Sono arrivato a una vera svolta sei settimane fa. Per tutta la vita, fin da primi anni di scuola, ho dovuto faticare per eseguire certi compiti, soprattutto lo scrivere, che a detta degli altri avrei dovuto trovare facili. Per me è stata una tortura, e il mio successo è stato piuttosto limitato. Sono stato depresso per la maggior parte della vita, e ho preso antidepressivi per la maggior parte degli ultimi dieci anni. Ho quarantatré anni." Parecchi mesi fa Jim ha deciso di

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consultare un nuovo psichiatra. Questo medico "seguì una sua intuizione", lo trattò con una dose alquanto elevata di fenelzina, 90 mg al giorno. "Anche con 75 mg al giorno non ci fu nessun effetto, ma con 90 la mia difficoltà nello scrivere è svanita! Posso sedermi alla tastiera e lavorare produttivamente fin dall'inizio, invece di non riuscire a sbloccarmi per ore. Il mio umore si è sensibilmente elevato N con l'allentarsi della fatica per spremermi il cervello. È come se il mio cervello in tutte le sue potenzialità fosse stato sempre in attesa, e solo adesso avesse ingranato la marcia giusta." Egli afferma che, anche se è stato curato da bravi psichiatri, "soltanto quest'uomo, un medico anziano alle soglie del pensionamento, ha avuto questa particolare esperienza e intuito. Sono stato estremamente fortunato ad averlo trovato. A quelli che soffrono della mia stessa malattia vorrei dire: non mollate, e non date per scontato che il vostro attuale medico sappia tutto quello che c'è da sapere. Se non ottiene risultati dopo un ragionevole periodo di tempo, prendete in considerazione l'opportunità di rivolgervi a un altro." Steven ha finito il suo anno

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scolastico in Canada e ha deciso di andare in Israele a completare gli studi È felice e produttivo, ma prende il litio solo alcune volte alla settimana e non vede regolarmente uno psichiatra o un medico. Tornato per vedere i suoi verso la metà dell'anno, è andato dal suo psicofarmacologo di New York su esortazione di sua madre. Essa temeva che lui non prendesse dosi sufficienti della sua medicina. Il dottore disse che anche se non consigliava a Steven di prendere il litio meno di una volta al giorno, nel corso degli anni aveva avuto parecchi pazienti che erano riusciti a fare quello che Steven stava facendo senza incorrere in nuovi episodi maniacali Esther riferì al medico che quando era andato in Israele Steven aveva smesso di farsi fare le analisi del sangue per il monitoraggio del livello di litio. Lo specialista spiegò che le analisi erano inutili, dato che in ogni caso Steven non prendeva dosi di litio sufficienti a mantenerne l'adeguato tasso nel sangue. In qualche modo, sia Steven sia Esther lasciarono lo studio del medico con la sensazione che egli avesse tacitamente permesso al giovane di continuare a sottodosarsi. Statisticamente, la

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maggor parte delle persone che hanno avuto un episodio maniacale grave ne avranno prima o poi un altro, e questo è molto più probabile che avvenga in pazienti che non prendono dosi adeguate di farmaco. È necessario che gli psicofarmacologi offrano ai loro pazienti un sostegno psicologico e inoltre li educhino sulla natura e sul decorso delle loro malattie. Gabrielle e io siamo preoccupate per Steven. Ricordiamo il giorno in cui, seduto nel mio studio che si affaccia sul torrente, ci raccontò delle sue lancinanti esperienze di sindrome maniacale e di depressione. Ricordiamo il suo terrore, le sue visioni di Dio, la sua rievocazione di quando gli fu messa la camicia di forza. Nel ricordare questo, ci chiediamo che cosa stesse passando nella testa di quello psicofarmacologo quando sostenne che sì, certe persone affette da sindrome maniaco- depressiva erano riuscite a farcela, almeno per un certo tempo, senza prendere la medicina. Si era forse scordato dei narcisismo dell'adolescente tipo, che trova virtualmente impossibile credere di non riuscire a vincere con i suoi soli mezzi la malattia? Oppure il medico, nel riferire a Steven e a sua

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madre i "fatti" della sua esperienza professionale, mise a tacere la propria sensibilità? Perché qualche lettore non prenda questo libro per una pubblicità unilaterale alle pillole (spero che il capitolo precedente abbia tolto a chiunque quest'idea), la storia di Steven deve rendere definitivamente chiaro che la psicoterapia e l'educazione psicologica sono importanti alleate della farmacoterapia. Turbe dell'umore, ansia e dipendenza da sostanze sono malattie serie, che possono distruggere delle vite. È per questo che la biopsichiatria è entusiasmante: essa offre speranza e felicità a coloro che altrimenti ne sarebbero privi. Ma, per quanto la medicina sia essenziale per molte di queste patologie, fa solo parte del quadro terapeutico. Persone che sono state affette da una malattia psichiatrica hanno bisogno di essere aiutate per poter rimettere in sesto la loro esistenza. Hanno bisogno di capire la natura delle loro malattie, e forse anche di rendersi conto che esse hanno colpito - o stanno colpendo - allo stesso modo membri della loro famiglia. Bisogna che siano aiutate a vedere come il loro pensiero è stato distorto: dalla malattia. È

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necessario che venga loro mostrato che la malattia può avere conseguenze sul modo di percepire la realtà, determinando un atteggiamento tremendamente negativo e di paura, ma che questa malattia non è la loro personalità, non s'identifica con loro. Per compiere questo è necessaria la psicoterapia, non semplicemente la cura farmacologica. Ma è indispensabile che questa psicoterapia sia praticata da qualcuno che comprenda la natura biologica delle malattie. La pratica della psicoterapia, per fortuna, sta cambiando a misura che i risultati della ricerca biopsichiatrica stanno diventando più ampiamente noti. Gabrielle e io speriamo che non sia lontano il giorno in cui nessuno psicoterapeuta abbia mai a far mancare una cura farmacologica a un paziente affetto da turbe dell'umore, ansia 0 problemi di dipendenza da sostanze. Allo stesso modo, speriamo che non sia lontano anche il giorno in cui un biopsichiatra non abbia mai a licenziare dal suo studio un giovane che ha avuto un episodio maniacale senza una tassativa prescrizione per un trattamento psicoterapeutico. Per finire, l'entusiasmo suscitato dalla biopsichiatria non deriva dal trionfo

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intellettuale del riconoscimento di costanti, complessi di sintomi, linee di turbe dell'umore correlate fra loro che ricorrono per generazioni in una data famiglia. L'entusiasmo suscitato dalla biopsichiatria sorge dalla sua capacità di migliorare le esistenze, dì fornire, nelle parole di Virginia Hamilton (anche se parlava specificatamente di tossicodipendenze) "una migliore qualità di guarigione". Quello che lo studio del NIMH sulle malattie psichiatriche ha scoperto è che un numero enorme di individui passano la vita senza sapere che c'è un "più", un "meglio". Tirano avanti stringendo 1 denti, alla meno peggio, senza mai fare veri progressiE non è per la povertà di per sé, o per un'infanzia segnata dalla violenza di per sé, o per la misoginia di per sé che molte persone trovano la loro vita così difficile, ma perché i loro neurotrasmettìtori non funzionano adeguatamente: ed essi tornerebbero a funzionare normalmente se venisse fornita una cura idonea. Neurotrasmettitori che funzionano adeguatamente, accrescendo le nostre energie, possono aiutarci a lottare contro la povertà, e le violenze sui minori, e la misoginia. Le scoperte

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della biopsichiatria possono non solo contribuire a migliorare la vita dei singoli, ma possono anche consentirci di cambiare la società in cui viviamo. Correggendo medicalmente la disfunzione dei neurotrasmettitori, possiamo fare un passo da gigante verso il superamento della povertà, della violenza e della malattia che si sono perpetuate senza tregua per generazioni e generazioni. Ma perché questo possa avvenire è necessario prima riconoscere i doni della rivoluzione scientifica. Poi essi devono essere amministrati con menti sagge e cuori amorevoli APPENDICE A Vostro figlio è depresso? Q ^ uesto questionario vi aiuterà a raccogliere informazioni sul modo di comportarsi di vostro figlio in diverse situazioni nella vita di tutti i giorni. In corrispondenza ad ogni affermazione vi si chiede di giudicare se tale comportamento si verifica MAI, A VOLTE O SEMPRE. Perché si possa indicare SEMPRE vostro figlio dovrebbe mostrare questi comportamenti per almeno due settimane, A VOLTE significa che vostro figlio mostra gli atteggiamenti sotto elencati una volta tanto, MAI significa che vostro figlio non mostra il comportamento. A lato di ogni affermazione, scegliete

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la risposta che meglio descrive il comportamento di vostro figlio. MAI A VOLTE SEMPRE Vostro figlio diventa irrequietodieci minuti prima dell'ora del sonnellino. Mostra uno scarso appetito ai pa- Non gli piace giocare.

Non finisce i pasti Si lamenta di sentirsi

affaticato. Falunghi sonnellini e si sveglia senza sentirsi riposato, Fonte: PartkipaM Manual, Mouniaìn West Training in thè Treatment of Depression, Wasatch Canyon Hospital, Western Institute of Neucopsychiatry, Sali Lake City, Utah. MAI A VOLTE SEMPRE 6. Guarda gli altri bambini giocare emostra scarso interesse a giocare con loro. 7.Si lamenta di essere stanco, troppo stanco per giocare,

Non lega con gli altri bambini. Piange senza sapere perché, Quando racconta qualcosa, come

quello che gli è successo giocandocon altri bambini, ne parla ad altavoce con entusiasmo ed eccitazione. ! Bisogna che gli si dica di giocare con gli altri bambini 12.1 suoi movimenti sono lenti. 13. Gli piace fare amicizia con altri bambini

14- Se è di cattivo umore, è facile tirarlo su scherzando con lui

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. Durante i pasti vuoi mangiare dipiù di quanto secondo voi ha bisogno. Dice di essere stanco per la maggior parte della giornata Si lamenta di dolorini Per questo è restio a giocare coi coetanei Durante l'ora del sonnellino, hadifficoltà ad addormentarsi O sisveglia di frequente o non si addormenta per niente- Sembra infelice senza motivo. Si fa la pipi adosso durante ilgiorno almeno due volte alla settimana. Bisogna che si faccia male sul serioprima di mettersi a piangere per un taglio o un'ammaccatura. MAI A VOLTE SEMPRE Ride e sorride.

Ha l'aria triste e non parla. Se la fa addosso due o tre volte alla settimana. 25. È spesso assalito dalla paura della morte.

APPENDICE B Xa cura della bulimia proposta da Mudson e Tope* i\ ella maggior parte dei casi suggeriamo di cominciare con la fluoxetina, un antidepressivo, aumentando la dose fino a 60 mg al giorno entro la fine della prima settimana. Anche se certe pazienti rispondono a dosi di meno di 60 mg al giorno, le pazienti

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bulimiche sono di solito giovani, e in grado di metabolizzare rapidamente gli antidepressivi; quindi può essere utile usare la dose intera di 60 mg, fuorché nei casi in cui il paziente mostra difficoltà a tollerare questa dose. La fluoxetina può essere somministrata tutta in una volta, di mattina o di sera, dato che il farmaco ha una semivita di parecchi giorni. Gli effetti collaterali della fluoxetina sono di solito modesti (i più comuni sono disturbi gastrointestinali, sedazione o stimolazione), ma in una piccola percentuale di pazienti può svilupparsi un esantema allergico, e in questo caso la somministrazione del farmaco va interrotta e bisogna passare a un altro. Anche se nel momento in cui scrivo non sono disponibili dati controllati sull'impiego della fluoxetina nella cura della bulimia, l'esperienza degli autori suggerisce che almeno un 50% dei pazienti manifestano una remissione o almeno un sensibile miglioramento (una * Tratto dall'articolo "Pharmacological Treatment of Bulimia Nervosa: Research Fìndìtigs and Practical Suggestìons," di Harrison G. Pope e James I Hudson, Vsychiatrk Armah 19,1989, 483-87.

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riduzione di più del 75% della frequenza delle intemperanze alimentari) dopo 21-28 giorni di trattamento. Per quelli che non mostrano segni di miglioramento, o non migliorano in modo adeguato, si può aggiungere alla fluoxetina del carbonato di litio, cominciando con 300 mg 3 volte al giorno, e la dose di litio può essere aumentata fino a raggiungere un livello nel sangue (misurato 12 ore dopo la somministrazione della precedente dose di litio) di circa 1,0 mEq per litro. Per pazienti che ancora non danno segni di miglioramento dopo due settimane di cura con litio più fluoxetina, di solito è necessario un altro antidepressivo. In questi casi, fluoxetina e litio possono essere smessi di colpo senza effetti sfavorevoli, dato che entrambi i farmaci "si autoriducono gradualmente" con un lento deflusso dal sistema nervoso. Un antidepressivo triadico con una bassa incidenza di effetti secondari, come la desipramina la nortripnlina, può poi essere iniziato immediatamente e portato a pieni dosaggi nel giro di una settimana.Dato che le pazienti bulimiche sono in genere giovanie metabolizzano rapidamente i

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triadici, possono rendersi necessarie dosi superiori a quelle medie di questifarmaci: almeno 3,5 mg per chilogrammo di peso corporeo per la desipramina e 1,5 per chilo per la nortriptilina.In considerazione delle ampie differenze nel metabolismo individuale di questi farmaci, è importante misurare livelli di plasma dopo 5-7 giorni di dosaggi pieni Ladose di desipramina dovrebbe poi essere corretta finoa raggiungere livelli di plasma di almeno 200 mg per mi;i livèlli di nortriptilina dovrebbero essere assestati fra 50-140 mg per mi Se non vengono determinati i livelli diplasma, molti pazienti non ricevono un adeguato ciclo dicura con tririclici... I pazienti che non mostrano di trarre benefìcio sia da un tentativo di cura con fluoxetina sia da uno con un triadico, un IMAO come la tranilcipramina può riuscire dove i farmaci precedenti hanno fallito. Anche se le case farmaceutiche che producono IMAO raccomandano un periodo di 14 giorni di depurazione fra l'interruzione della somministrazione di triadici e

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l'inÌ2Ìo del trattamento con IMAO, molte autorità pensano che questo non sia necessario e somministrano IMAO solo pochi giorni dopo o immediatamente dopo l'interruzione della terapia con tricidid. Tuttavia un IMAO non dovrebbe essere dato prima di cinque giorni dopo l'interruzione del trattamento con fluoxetina... Come nel caso della fluoxetina e dei triàdici, spesso giovani pazienti bulimiche hanno bisogno di dosi sorprendentemente massicce, tollerandole, di IMAO, come 40-80 mg al giorno (più del dosaggio massimo raccomandato dalla casa produttrice) di tranildpramina o 70-105 mg al giorno di fenekina (anche questo dosaggio è superiore a quello raccomandato dalla casa produttrice). Tipicamente, là somministrazione di questi farmad viene iniziata a dosi modeste (per esempio 10 mg di tranildpramina due volte al giorno o 15 mg al giorno di fenelzina), e la dose viene aumentata ogni paio di giorni finché il paziente avverte qualche capogiro. A questo punto di solito la dose non può più essere aumentata, altrimenti si determina un'ipotensione posturale invalidante. La tranilcipramina può provocare insonnia grave, come, in misura minore, la fenelzina. A questo si può

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spesso porre rimedio col trazodone, di norma 100-400 mg prima di andare a letto. Il trazodone è un sedativo che di rado causa mal di testa la mattina, e ha di per sé chiari effetti antidepressivi Può quindi agire sinergicamente con IMAO nella cura della bulimia... Una sostanziale maggioranza di pazienti bulimiche rispondono a una delle tre strategie antidepressive di cui sopra con una remissione o una sensibile riduzione dei sintomi bulimia. Un altro piccolo gruppo di pazienti bulimiche... mostra sintomi di sindrome bipolare concomitante e può rispondere al litio, carbamazepina o valproato. Per finire, occasionali pazienti refrattarie ai farmad standard possono rispondere a composti ano-ressigenici, come la fenfluramina... In molte zone sono disponibil gruppi per donne con disturbi dell'alimentazione, gruppi spesso gestiti da organizzazioni locali di self-help. Spesso questi gruppi non comportano grosse spese per le pazienti e offrono un appoggio e una rassicurazione potenti, specialmente per donne che non hanno avuto la possibilità di condividere la loro esperienza con altre afflitte dalla stessa patologia. APPENDICE C Inibitoli e crisi

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ipertensive Lj a tiramina è presente in una varietà di alimenti, per la maggior parte proteine invecchiate. Chiunque - sia egli in terapia con IMAO oppure no - subisce un aumento della pressione sanguigna se una sufficiente quantità di tiramina viene assorbita nel flusso sanguigno. Quando una persona che non prende IMAO ingerisce un cibo contenente tiramina, l'enzima monoamminossidasi (MAO), presente nelle pareti del tratto gastrointestinale e nel fegato, metabolizza la tiramina in modo che pochissima va a finire nel flusso sanguigno. Ma chi assume un IMAO, che disgrega il MAO, naturalmente assorbe più tiramina. Una volta assorbita, la tiramina viene immagazzinata nelle cellule, dove rilascia noradre-nalina, il che a sua volta innalza la pressione sanguigna. Dato che il MAO metabolizza la noradrenalina all'interno delle cellule, i pazienti che assumono un IMAO hanno scorte maggiori di noradrenalina che devono essere smaltite, e questo alza ancora di più la pressione del sangue. Questi due meccanismi - l'accresciuto assorbimento di tiramina e l'accresciuto rilascio di noradrenalina - spiegano perché pazienti in terapia con un IMAO

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possano avere reazioni ipertensive quando ingeriscono alimenti ricchi di tiramina. Una crisi ipertensiva può essere prevenuta attenendosi strettamente alla dieta prescritta. Tuttavia, se il paziente sviluppa una forte emicrania (localizzata su un lato del capo), o un'improvvisa tachicardia, è possibile che abbia ingerito per errore del cibo ricco di tiramina. Se succede questo, il paziente dovrebbe immediatamente inghiottire la capsula di Procardia fornitagli dal medico per un'emergenza del genere. Caratterizzata dall'improvviso manifestarsi di un forte mal di testa pulsante, la crisi ipertensiva è spesso descritta dai pazienti come il peggior mal di testa mai sofferto in vita loro. Altri sintomi comprendono abbondante sudorazione che può essere accompagnata da vampate di calore, visione offuscata, collo rigido, nausea e vomito. La durata e la gravita delle reazioni ipertensive sono molto variabili. In genere, durano meno di venti-quattr'ore, e i sintomi vanno da una lieve emicrania alla morte per emorragia infraeraniea, caso questo estremamente raro. I sintomi si manifestano da dieci minuti a due ore dopo l'ingestione dei cibi ricchi di

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tiramina. Gabrielle riferisce che il suo primo farmacologo imprudentemente minimizzò le restrizioni dietetiche quando le ordinò un IMAO: "Mi ha detto: 'Sì, c'è qualche restrizione dietetica. Non mi venga a dire che le piace l'aringa affumicata. Per la maggior parte della gente non è un problema. E il vino, in particolare il Chianti E il formaggio.' Quando ho sentito del formaggio ci sono rimasta male. Non solo il formaggio l'adoravo, ma era la principale fonte di proteina della mia dieta. Ho deciso comunque che se significava essere più depressa potevo rinunciarvi" Dopo che il medico le ebbe fatto il riassunto delle restrizioni, Gabriele fu sorpresa dall'elenco dei cibi e dei farmaci controindicati che le fu fornito dall'infermiera. Oltre alle restrizioni a cui aveva accennato il dottore ce n'erano molte altre, compresi salame, fegatini di pollo, fave, fichi maturi, panna acida, salsa di soia, banane, uova e cioccolato. Quando chiese all'infermiera altri ragguagli, le fu dato un rapporto tecnico che suddivideva le restrizioni in categorie: "Alimenti da evitare", "Alimenti che richiedono cautela, perché se consumati

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in grandi quantità potrebbero provocare disturbi" e "Cibi ammessi, dato che non d sono abbastanza prove che ne giustifichino l'esclusione". Quello che GabrieUe voleva, e si sarebbe dovuto fornirle, era una discussione dell'intero argomento, come quella che ora offriamo al lettore. Purtroppo, la comprensibile preoccupazione dei pazienti per quello che possono mangiare tranquillamente o no viene a volte trattata come qualcosa d'infantile o nevrotico. Una psicanalista di New York interpretò come "provocatorio" il desiderio di un suo paziente di sapere cosa s'intendesse per banana "troppo matura". Questa è in effetti una preoccupazione perfettamente legittima per un malato in terapia con IMAO che vuole evitare una crisi ipertensiva: quando una banana è troppo matura? Un motivo della grande confusione esistente su quali alimenti sono sicuri e quali no, secondo The Psychothe-rapist's Guide to Psychopharmacology è che molti elenchi comprendono tutti i cibi di cui sia stato riferito almeno una volta un effetto di reazione ipertensiva. Gli elenchi non distinguono fra cibi che possono aver provocato una reazione di un individuo in una determinata

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occasione e cibi che probabilmente provocano spesso reazioni Purtroppo un gran numero dei cibi prescritti non sono stati sottoposti ad accurate analisi chimiche. Ad ogni modo i principali incriminati sono quasi sempre gli stessi. Con solo rare eccezioni (per esempio le fave, che contengono dopamina), questi alimenti proibiti sono proteine invecchiate. Questo perché quando la proteina invecchia o fermenta si forma tiramina. L'elenco fornito nell'appendice D è una guida affidabile per quei cibi che devono essere evitati o non consumati in eccesso (per fare un esempio, mangiare mezzo avocado potrebbe non presentare problemi, ma se si mangiano quattro avocado c'è il rischio molto serio di andare incontro a una crisi ipertensiva). Si tenga presente che gli effetti di quei cibi che sono sicuri se consumati "moderatamente" sono cumulativi. Sarebbe sconsigliabile bere due birre e poi mangiare un avocado con panna acida e una tazza di minestra in scatola! Ci sono due cose importanti da ricordare circa le restrizioni dietetiche. Innanzi tutto, un cibo che non provoca reazione le prime dieci volte che viene mangiato può produrre una

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reazione l'undicesima volta. Col formaggio, per esempio, questo succede perché ogni forma di formaggio contiene una quantità diversa di tiramina. Inoltre, la quantità di tiramina varia di molto a seconda della provenienza di una determinata fetta, dalla sua distanza dal centro della forma. Non c'è quindi modo di sapere se un qualsiasi formaggio (a parte i formaggi cremosi e la ricotta fresca) non presenti rischi non importa quante volte lo si sia mangiato in passato senza risentirne. Il miglior consiglio, col formaggio, è di tenersene alla larga se è stagionato. La seconda cosa da ricordare è che quello che è importante è la quantità di tiramina ingerita. È più probabile per esempio che quattro bicchieri di Chianti provochino una reazione ipertensiva che mezzo bicchiere. I cibi e le bevande elencati sotto la dicitura "Da usare con moderazione" contengono in genere una lieve quantità di tiramina. Se però viene consumata una gran quantità di questi alimenti è possibile una reazione ipertensiva. C'è inoltre un gruppo di farmaci, elencati nell'appendice D, che possono provocare episodi ipertensivi in pazienti che prendono IMAO. Con l'eccezione di due oppiacei, la

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meperidina e il destrometorfano (presente in molte medicine per il raffreddore e la tosse; in sigla DM), tutti questi farmaci sono stimolanti e provocano ipertensione in seguito a un accresciuto rilascio di noradrena-lina (come abbiamo spiegato). La tiramina non è un fattore nelle reazioni indotte da farmaci. Le medicine più pericolose sono quelle per il raffreddore, spesso vendute senza obbligo di ricetta. Ci sono certi tipi di compresse contro il raffreddore che sono anlistamine pure, ma la maggior parte dei preparati contro il raffreddore contengono decongestionanti, che molto facilmente possono provocare un episodio iper-tensivo. A volte la composizione di un dato farmaco non presenta pericoli, ma certe medicine contengono ingredienti aggiunti con effetti dannosi Poco tempo fa, per esempio, presi un preparato complesso, pensando che fosse semplicemente una versione più forte dello stesso preparato semplice. Dopo una notte insonne scoprii che conteneva un decongestionante, in aggiunta al principio attivo normalmente presente nello stesso preparato semplice. Per me la conseguenza fu soltanto l'insonnia,

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ma se l'errore fosse stato fatto da Gabrielle molto probabilmente le sarebbe costato una crisi ipertensiva. Una buona regola generale è: Telefonate al vostro psico-farmacologo prima di prendere qualsiasi farmaco nuovo e badate bene a leggere l'elenco degli ingredienti sulla confezione. APPENDICE D 'Restrizioni dietetiche per pazienti in terapia con CIBI E BEVANDE DA EVITARE COMPLETAMENTE Formaggi: tutti i tipi ad eccezione di quelli creinosi Pesce affumicato o in salamoia (il tonno in scatola è ammesso). Carni fermentate, salumi. Fegato dì manzo o di pollo. Estratti di lievito o di proteine. Sherry, vermouth, brandy, vino rosso, specialmente Chianti (vino bianco e champagne sono ammessi). Fave. I fagiolini sono ammessi Fichi e banane maturi. Le banane giovani a polpa bianca sono ammesse. CIBI E BEVANDE DA USARE CON MODERAZIONE Birra. Yogurt. Panna acida. Minestra in scatola o in polvere. Avocado. Lamponi Crauti Cioccolato. Caffeina. Nota: queste istruzioni vanno rispettate anche per due settimane dopo 1 interruzione della cura con IMAO. FARMACI CON PROPRIETÀ STIMOLANTI Virtualmente tutte le medicine contro il raffreddore, la

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tosse e la sinusite (eccettuate [starnine pure). Controllare il foglietto illustrativo per accertare che non siano stati aggiunti decongestionanti. Pillole dimagranti o tonificanti Inalanti antiasmatici (eccettuati gli spray a base di sferoidi e i prodotti a base di sodio cromoglicato). Farmaci per anestesia locale contenenti epinefrina, come queffi usati in odontoiatria. (Composo che non contengono epinefrina non presentano rischi) Cocaina. Anfetamine. Altri antidepressivi (fuorché in speciali circostanze). ALTRI NARCOTICI OPPIACEI Meperidina. Destrometorfano (presente in moiri preparati contro il raffreddore e la tosse e di solito indicato con la sigla DM). Nota: tutti gli antibiotici non presentano pericoE Consultarsi col proprio psichiatra prima di prendere qualsiasi altra medicina. Comunicare ai propri medici e dentisti che si è in cura con un IMAO. Portare con sé una scheda con l'indicazione che si è in cura con un IMAO, in modo da poter eventualmente mettere sull'avviso un anestesista. APPENDICE E Questionario sulla bulimia SPESSO OGNI TANTO 1. Vai soggetta a crisi bulimiche in cuiconsumi grandi quantità di cibi

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ricchi di calorie, solitamente nellospazio di meno di 2 ore? [Serispondi "di rado o mai", salta ladomanda 7; da alle domande 2 e 6 il punteggio zero.) n D Tendi a ingozzarti di cibi ricchi dìcalorie e di facile ingestione chenon richiedono preparazione, come dolci, gelati eccetera? D C3 Cerchi di passare inosservata durante Ì tuoi episodi bulimia inmodo che gli altri non se ne accorgano? • O Continui a rimpinzarti senza fermarti finché lo stomaco ti fa troppo male per poter continuare a mangiare? • • 5- Ti senti mai depressa o abbattuta dopo un'orgia di cibo? D 0 6. Hai mai avuto pensieri di suicidio dopo un'intemperanza alimentare? d Q 7. Non senti mai di non riuscire acontrollarti e di non poter smettere una volta che hai cominciato a mangiare? D • SPESSO OGNI TANTO Mangi mai dei cibi senza prepararlinel modo consueto, per esempiomangiando farina impastata sen2acuocerla o ingurgitando glassaturao sciroppo di zucchero d'acerodirettamente dal contenitore, perché non ce la fai a rimandare lasoddisfazione di mandarli giù? • •

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Hai mai avuto l'impressione che letue abitudini alimentari siano anomale? • D Ti sorprendi a pensare continuamente al cibo per l'intero giorno? •

• Trovi che continui a pensare al tuo peso per l'intero giorno? • • 12.Hai mai subito rapide fluttuazionidi peso di più di 5 chili in seguitoa un'alternanza di abbuffate e di digiuni? D D 13. Hai mai fatto uso di pillole dietetiche o diuretiche nel tentativo di controllare il tuo peso? • • Hai mai fatto uso di grossi quantitativi di lassativi per perdere pesononostante il gran mangiare? D D Ti sei mai provocata il vomito dopo un pasto per perdere peso? •D Segna 2 punti per ogni risposta "spesso", un punto per ogni risposta "a volte" e zero punti per una risposta di "di rado o mai". Punteggio da 0 a 7: è improbabile che tu soffra dì una grave turba dell'alimentazione. Il tuo comportamento è probabilmente entro la norma della popolazione americana. Punteggio da 8 a 15: le tue abitudini aHmentari sono probabilmente anomale, e c'è una forte probabilità che tu soffra di bulimia. Dovresti leggere dettagliatamente il

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quinto capitolo per decidere se consultare uno psichiatra o tentare il tipo dì trattamento descritto nell'appendice B. Punteggio da 16 a 23: le tue abitudini alimentari sono decisamente anomale, e probabilmente soffri di bulimia. C'è una buona probabilità che i tuoi sintomi legati all'alimentazione possano essere curati con successo con farmaci antidepressivi da uno psichiatra come descritto nell'appendice B. Punteggio da 24 a 30: è quasi certo che soffri di bulimia. Dovresti assolutamente vedere uno psichiatra e prendere in seria considerazione un trattamento con uno dei farmaci descrìtti nel quinto capitolo e nell'appendice B.