Baea aveenada, di Andrea Cisi

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I diritti del presente racconto sono di esclusiva proprietà dell’autore.Ne è proibita ogni riproduzione seppur parziale.

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Il lupo si aggirava nervoso attorno a quel nulla trasparente, la bava alle zanne, gli occhi azzurri, la sfera tra le unghie. Il piccolo porcello, dentro quel nulla, le braccia stanche lungo i fianchi e il sudore freddo sulla pelle, pregava che la magia reggesse. Ma come aveva fatto a giungere fino a qui?

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BÀEA AVEENADA(liberamente tratta da 'I tre porcellini', origine incerta)

Di Andrea Cisi

Illustrazione di copertina di Vincenzo Sanapo

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La palla veniva lanciata in aria. Chi la prendeva doveva colpire gli altri giocatori.

Solo tre passi erano concessi, ed era obbligatorio essere in vista. I colpiti, gli "avvelenati", erano eliminati.

Si finiva quando tutti i concorrenti erano eliminati, tranne uno.Più di un'amicizia si è rotta, a bàea aveenada...”

(bambino anonimo)

Venezia sonnecchiava, raggomitolata sui suoi canali di acqua fredda e sporca. Era il tardo pomeriggio di un marzo ormai lontano.

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La banda dei monelli di sestiere di Castello gozzovigliava nello spiazzo di Santa Maria Formosa, di fianco alla chiesa. I discoli erano insieme dal mattino presto, avevano già giocato a Campanon sui masegni con un tacco lercio di scarpa e anche alla Pista, con le palline di vetro, intorno alle vere da pozzo.

L’inverno stava cedendo il suo passo stanco a una primavera ancora grigia ma nessun monello, in tutta Venezia, riusciva a stare chiuso nei ricoveri. Stare insieme li aiutava a dimenticarsi della propria miseria. Era una città stretta, tutta arzigogolata. Un labirinto chiuso. I marmocchi si sentivano i padroni di una meravigliosa gabbia.

Ogni sestiere aveva la sua banda e nessuna era numerosa e affiatata quanto i 'porci' di Castello. Prima di ogni gioco, per rituale, facevano il giro delle nove calli e degli undici ponti del campo, come a far capire alle persone presenti chi comandava lì. Nelle loro scorribande erano usi indossare tutti una maschera di maiale, perché tali si sentivano nell’animo, tutto il giorno a far niente, inventarsi il mangiare, giocare e rotolarsi nelle pozzanghere se pioveva abbastanza. Un gruppo molto unito, nel quale tutti erano uguali. Quando si ritrovavano nel campo si scoprivano carichi di una febbre ansiosa.

Quel giorno però qualcosa di cupo si muoveva per le calli.Annunciati da una bruma bassa sull’acqua, i ‘lupi’ di Dorsoduro

sbarcarono in Castello. Avevano lasciato i vicoli scuri di là del Canale ed erano venuti a cercare scontro nel cuore della città. Erano meno numerosi, ma si muovevano con sicurezza.

A guidarli era il Negus, un bimbo alto e scuro che sembrava un diavoletto. Il loro segno di riconoscimento era una maschera da lupo, per riconoscersi tra loro nelle sfide. Un vero branco, sceso da due barcacce malridotte tenute insieme in qualche modo.

I monelli di Castello li squadrarono male, quello era il loro territorio, ‘il recinto’ come amavano chiamarlo. Mantennero calma e sangue freddo. Decisero di ignorarli.

“So stufo, -dichiarò uno dei porci, alzandosi in piedi- xiughemo a bàea aveenada?”

Era il dodicenne Muscoeti, un tipo mingherlino e tutto nervi. La banda esultò. Palla avvelenata era una sfida divertente. La palla era di

cuoio vecchio, tutta rattoppata, volavano certe bombe che se ti pigliavano l’essere eliminato era il meno, ci mettevi dei giorni a mandar via le bolle sulla pelle o l’occhio nero.

Si spostarono al centro dello spiazzo, scansando il branco di Dorsoduro. Qualcuno tirò fuori la palla da un sacco e i bambini si calarono sul volto le maschere di maiale e si misero in attesa.

I lupi intanto si erano avvicinati silenziosi, tutti con le mani in tasca. La palla rimbalzò a terra con tonfi sordi, rotolando via. Il Negus si piazzò

di fronte a Muscoeti, muso a muso. Lo superava di almeno due spanne, e la maschera di lupo gli distorceva la voce, rendendolo terribile.

“Voialtri porxei, -disse, tagliente come un rasoio- non ga ve el fegato de xiugare a bàea aveenada col me branco!”

Il suo alito sapeva di acciughe.Muscoeti abbassò lo sguardo, intimorito.“Certo che ghe l’avemo el coragio!” gridò per lui la voce sicura del

piccolo Dentin, Castellano di anni sei, una maschera da porcellino.Si era sporto da dietro Muscoeti, la stessa fisionomia, una grinta

incontenibile negli occhi.

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Il Negus lo fissò dall'alto, sospirando forte. Gli avvicinò il muso.“Ti te avveleno per ultimo...” gli ringhiò basso, l’alito sapor di tabacco.“Te ne devi avvelenar tutti e tre, lupòn!” gli rispose un altro Castellano di

taglia media, sui nove anni, piazzandoglisi davanti. Anche attraverso le maschere era chiaro che quei tre erano fratelli, la stessa voce, gli stessi capelli crespi.

Il silenzio ammantava il campo. Muscoeti avrebbe volentieri evitato lo scontro, ma conscio che ormai la provocazione era stata raccolta dal più piccolo tra loro, alzò il mento con fierezza.

“Sfida!” urlò.Fu come lanciare un petardo nel mucchio. I porci si sparsero nel campo,

mentre i lupi cacciarono un urlo bestiale che scosse la bruma e sollevò in aria piccioni terrorizzati. Il campo divenne un circo colorato di rosa e grigio. Porci e lupi si mischiarono, chi sfrontato ad aspettar l’attacco, chi nascosto dietro un pozzo, parzialmente però, che la regola era ‘restare in vista’. La febbre dello scontro prese le giovani menti dei giocatori, trasportandole in un altro luogo, festoso, magico. Gli adulti scomparvero per incanto, la bruma salì a nascondere i canali. Venezia svanì sotto i loro occhi, l’acqua, i muri dei palazzi… potevano trovarsi ovunque. Non c’era più il campo. C’era solo il ‘recinto’.

La palla di cuoio volava a centrare i corpi, tre passi e colpo, senza pietà. Era stato Muscoeti a cominciare lo scontro, cercando a bruciapelo di colpire il giovane capo dei lupi, che si era buttato a terra. Era stato avvelenato invece uno dei suoi sgherri. Eliminato. Il Negus si era rialzato e gettato nella mischia con grida furibonde.

Bambini correvano selvaggi tutto intorno al piazzale, la palla di pezza lercia sembrava un proiettile, chi la raccoglieva faceva tre balzi e sparava nel mucchio, mietendo maschere. Questo scontro deve andare così, o sei svelto a scansarti o verrai avvelenato, anche da un compagno per errore, non importa. Certi giochi sanno essere davvero molto crudeli, e conta solo l'ultimo che resta in piedi.

I tre fratellini di sestiere di Castello erano i più tenaci e combattivi tra i porci, il piccolo Dentin era un furbetto che usava gli altri come scudo, il ben messo Bombasino aveva grande mira e il più grande Muscoeti dettava strategie.

Tutti si stavano divertendo, maschere cadevano a ogni minuto di gioco, avvelenate da una pallonata dolorosa, e la grande ammucchiata si stava piano piano assottigliando.

Il Negus in particolare giocava la parte di lupo famelico e un po’ laido, con un nasone dritto e dentoni di cartapesta sotto occhi quasi gialli. Era molto divertente, all'inizio. Come tutti i suoi ogni tanto ululava con la palla in mano e tutti scappavano, specie i più piccoli.

Poi, lentamente, i lupi cambiarono registro. Divennero più cattivi. Non ridevano più. Colpivano con violenza, lasciando lividi sul corpo dei caduti.

E il Negus cercava Dentin con occhi accesi d'odio. I loro sguardi s’incrociarono e il piccolo provò subito quel terrore che

provano i bambini quando il buio li circonda all’improvviso. Corse a ripararsi dietro Bombasino e Muscoeti.

“Cosa gheto?” gli chiese sorridendo il fratello maggiore, ma un missile rasente orecchie fece voltare a entrambi gli occhi verso il Negus.

Sembrava un animale vero, con gli occhi come tizzoni ardenti e una bocca che ricordava una lama sbrecciata. Qualcosa di mostruoso lo stava

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trasformando. Aveva sempre lui la palla, tutti i lupi si sacrificarono pur di recuperarla e consegnarla al loro capo. L’ultimo di loro cadde sotto i colpi di un porco alto quasi un metro e mezzo, che il Negus però subito avvelenò con una mossa feroce dopo aver raccolto la bàea.

Era rimasto solo lui, di Dorsoduro.“El ga…” balbettò Dentin, terrorizzato.“Che cosa?” lo spronò Bombasino.“El ga ea coa sul serio…” soffiò fuori il piccolo, con denti tremanti.I porci rimasti, in tutto una mezza dozzina di bambini, osservavano

agghiacciati la coda, quella specie di frusta nera che si agitava sulle natiche del Negus. La tremenda immagine li paralizzava. Un vero lupo. Alto, ringhiante, puzzolente.

Venezia era una bolla bianca, l’odore dell’acqua faceva sembrare tutto stranamente sospeso. Il ‘recinto’ era chiuso e a terra non si contavano le maschere avvelenate. I lamenti di dolore dei caduti erano strazianti, il lupo li calpestava senza nessuna pietà, tre balzi e colpo.

Tutti, a uno a uno, assaggiarono il veleno della palla del feroce lupo di Dorsoduro. Restarono solamente lui e i tre fratellini. Ma erano lontani. Più dei tre balzi necessari. E per nulla intenzionati ad avvicinarsi. Respiravano forte.

“Dovè venir più visin…” ringhiò basso il lupo.Scossero la testa tutti e tre.“Xe ea regoea!” lamentò quasi pietoso.“Ea regoea dise ‘in vista’ -spiegò Muscoeti- non visini. E non se

avixineremo, ti te xioghi per far del mal. Per noialtri ea xe finia così, patta”Il ringhio del lupo si mutò in una risata cavernosa.“Non ghe patta a bàea aveenada!” dichiarò avanzando un passo. I tre

porci ne fecero uno indietro.“El picenin me ga provocà -disse poi- e desso meo vegno a magnar…”Un altro passo.I tre si strinsero, un brivido freddo lungo la schiena.“E dove ea regoea me impedise…” terzo passo.Muscoeti deglutì forte e si mise davanti ai fratellini.“…mi me ne frego!” e il lupo spiccò un quarto balzo, scagliando la palla

con tale forza da centrare Muscoeti, piegargli le mani con cui si stava riparando e colpirlo in piena faccia.

La maschera di porco del primo fratello volò via.Dentìn e Bombasino partirono a razzo urlando, cercando conforto negli

altri bambini ma non videro più gli altri giocatori eliminati, solo le maschere erano rimaste a terra. Soli, nella bolla bianca.

L’atto audace e sfrontato del lupo aveva tolto loro il fiato. Rompere una regola del gioco. Le regole le avevano sempre infrante nella vita, mai nel gioco. Scappare era un’illusione, il lupo aveva raccolto ancora la palla e già braccava Bombasino, lo aveva spinto verso l’ingresso di Calle Lunga, ma il ‘porco’ era grassoccio e lento, gridava aiuto.

Dentin era terrorizzato. Arretrò senza pensare verso il nulla bianco del ‘recinto’, senza perdere di vista l’aggressione. Pregava che il fratello si salvasse, ma tutto quel che vide fu il lupo che caricava il tiro e il corpo del fratello che crollava a terra prima di imboccare la stradina, mentre la sua maschera rotolava inerte al suolo.

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I piedi di Bombasino sparirono nella bruma. Anche Muscoeti era scomparso. Il lupo si affacciò di nuovo nel campo, bava sui denti storti, la palla in mano.

Dentìn arretrò ancora e si sentì mancare il cemento sotto i piedi.Volò sotto per qualche metro, poi crollò sul morbido. Rumore di motore,

ma la bruma copriva tutto. Sentì lassù, da qualche parte, l’ululato del lupo imbestialito dalla rabbia.

Aveva freddo, e ancora la maschera in faccia. Sentiva voci parlottare a prua, e odore di fumo di pipa. Si tirò addosso un sacco vuoto e si assopì.

Quando si svegliò era buio, ormai, e mani lo scuotevano. Bambini, molti.“Chi sito? -chiesero- Cosa ghe fato chi?”Si guardò intorno. Era su un molo. Le luci di Venezia scintillavano

dall’altra parte del mare. Si tirò su e si massaggiò il volto.“So el fioeo più piccoeo de un murador, -spiegò tremando- dove semo?”“Su l’isola dei ninnoi.” rispose un bimbo che avrà avuto la sua età.L’isola dei ninnoli era un posto dove gli adulti costruivano piccoli e

meravigliosi oggetti in vetro soffiato per la gioia dei turisti. C’era stato una volta, con papà e i fratelli.

“Perché te ghe na maschera da porseo? -chiese un altro bimbo- Voto cavartea?”

Dentìn si ricordò perché era finito lì. Si ricordò del lupo, capì subito che la partita non era finita. ‘La patta non esiste, a bàea aveenada’ aveva detto.

Disse no, che non l’avrebbe levata, e raccontò ai bambini dell’isola dei ninnoli la sua disavventura. Lo ascoltarono con piacere, non capitava tutti i giorni di sentir raccontare storie così avvincenti. Lo presero in simpatia e lo condussero a mangiare qualcosa sul retro di un panificio, dove un bambino garzone passò loro della focaccia saporita.

Dissero di essere figli di maestri vetrai. I loro papà soffiavano e lavoravano il vetro, facevano proprio i ninnoli per i turisti, nelle fornaci.

“A xe come fare el pan…” spiegarono contenti.“A go bisogno de aiuto. -ammise Dentìn- Arriva el lupo, eo so. Mi meo

sento.”La prossima barca sarebbe giunta la sera dopo, gli spiegarono. Se il lupo

arrivava avrebbe preso quella. “Perché non te cavi semplicemente ea maschera e non te confondi in

meso a noialtri?” chiese astutamente uno di loro.Dentìn scosse la testa.“No, ea partia va sugà fin a ea fine, ma non se deve imbroiare. Non nel

xiogo”Restarono così, seduti a cerchio sui gradini di una corte interna, a

ragionarci su.“Sentì… -provò allora, dopo un po’- voialtri se boni a usare e forfe dei

vostri papà?”Annuirono tutti con sfrontatezza, come se la cosa fosse ovvia.“E pensè che invese che cavaini e bae de Nadae, saria possibie soffiar

fora qualcosa de più grosso?”

La sera successiva la barca attraccò al molo dell’isola dei ninnoli. Il lupo saltò giù dalla prua con agilità. I suoi occhi cercavano intorno con sospetto, ma a dargli la direzione era il naso. L’odore di porcello lasciato da Dentìn era una scia inconfondibile. Trovò immediatamente il punto esatto in cui era arrivato la

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sera prima, trovò il panificio che lo aveva nutrito, e la corte dove aveva sostato con gli altri bambini. Sorrise. Pregustava già il pasto, carezzava la tracolla dove era contenuta la palla avvelenata.

L’odore lo trascinò fino a un fabbricato da cui usciva una calura insopportabile, e dove attraverso le finestre vide adulti coperti da grembiuli affaccendarsi attorno a caldaie e buchi di pietra da cui uscivano fiamme.

Proseguì, la strada sembrava terminare in una piazzetta chiusa.“Ghe semo! -urlò, entrando nella piazzetta- I xe arrivà!” La scena che lo accolse lo trovò impreparato.Al centro della piazzetta c’era una specie di casotta trasparente, dentro la

quale sostava Dentìn in piedi, a braccia incrociate. Tutt’intorno, ai margini, bambini in attesa.

“So chì, lupòn… -disse il piccolo- vegna a torme si te se bon.”Il cacciatore tirò fuori la palla dalla sacca, e prese a girare attorno alla

struttura. Era una casotta di mattoni di vetro, incollati tra loro, non c’erano pertugi. Solo una porta, di vetro anch’essa, sbarrata dall’interno.

“E’ tutto corretto… -lo provocò un poco ansioso Dentìn- so protetto, si… ma ben in vista. Ea regoea xe rispetada.”

Con un ringhio di rabbia il lupo tirò violentemente la palla contro la struttura ma, ovviamente, rimbalzò lontano. Tutti i bambini intorno risero di gusto.

Tirò di nuovo, e di nuovo ancora, e sempre la palla rimbalzò lontano. Dentìn si mise comodo, aspettando. Aveva viveri, nella casotta, e fumetti per leggere.

Il lupo andò avanti così per più di due ore. Si aggirava nervoso attorno a quel nulla trasparente, la bava alle zanne, gli occhi azzurri, la sfera tra le unghie. Il piccolo porcello, dentro quel nulla, le braccia ormai stanche lungo i fianchi e il sudore freddo sulla pelle, pregava che quella magia reggesse. Ma come aveva fatto a giungere fino a qui? Ormai se lo chiedeva. Aveva solo voglia di tornare dai suoi fratelli.

“Mi go tempo lupo… -disse stanco- tutto el tempo che serve. Ma se te disi che ea se patta, aeora ea finemo qua e’ndemo a casa.”

Il lupo esplose in un grido rabbioso, mollò la palla e caricò la casotta con tutta la forza che aveva ma era vetro spesso, non si mosse di un millimetro. Nel’urto si ruppe la spalla e ululò di dolore. Comprese allora che non c’era verso e abbassò le spalle, anche quella fracassata.

Calciò lontano la palla, che terminò nell’acqua della laguna, poi si sedette su tre gradini e si levò la maschera. La faccia serena del Negus apparve, sudata, sconfortata e stanca.

Dentìn aprì la porta e uscì, togliendosi a sua volta la maschera e sedendosi accanto a lui. Guardarono verso la città, al di là del grande canale.

“Xe tutto più ciàro qua, xe vero?” disse il piccolo.Il Negus annuì, con un sorriso.“Ea città te incantesema, non te capisi più gnente. Sarà forse ea

primavèra che vièn, chi eo sa… Ti xe stà bravo, e mi go perso. Gavè raxon, imbroiare non me se servio…”

Anche Dentìn sorrise, finalmente.“Te te ga perso, ma mi non go vinto. Come sta i me fradei?”“Stai ben, no? -si stupì il Negus- …el xe solo un xiogo. I xe che i ne speta

al Casteo, i sarà preoccupai per ti. Tornemo?”

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Prese Dentìn sulle spalle, gli lasciò salutare i bimbi dell’isola dei ninnoli e si avviarono tranquilli verso l’imbarcadero.

Venezia li aspettava immobile, di là del mare, ma la vicenda incredibile della casina dalle ‘mura di vetro’ restò nell’immaginario dei bambini dell’isola dei ninnoli per gli anni a venire come una storia fantastica. Tanto che da quel giorno, nei loro racconti, l’isola prese il nuovo nome di Murano.