“Chant d’hiver” - Libero.it · 2020. 4. 24. · o nolente facciamo parte, viene...

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[ VISIONIaCASA 8 ] aprile 2020 https://incontridicinema.wordpress.com m@il [email protected] “Chant d’hiver” Le conseguenze paradossali delle rivoluzioni Titolo originale: Chant d’hiver Regia: Otar Iosseliani Sceneggiatura: Otar Iosseliani Interpreti: Rufus, Amiran Amiranashvili, Pierre Étaix, Mathias Jung, Mathieu Amalric, Enrico Ghezzi Fotografia: Julie Grünebaum Montaggio: Emmanuelle Legendre, Otar Iosseliani Origine: France Anno: 2015 Durata: 117 minuti V I S I O N I ~ incontri di cinema ~ #iorestoacasa

Transcript of “Chant d’hiver” - Libero.it · 2020. 4. 24. · o nolente facciamo parte, viene...

  • [ VISIONIaCASA 8 ]

    aprile 2020

    https://incontridicinema.wordpress.com

    m@il [email protected]

    “Chant d’hiver”

    Le conseguenze paradossali delle rivoluzioni

    Titolo originale: Chant d’hiver Regia: Otar Iosseliani Sceneggiatura: Otar Iosseliani Interpreti: Rufus, Amiran Amiranashvili, Pierre Étaix, Mathias Jung, Mathieu Amalric, Enrico Ghezzi Fotografia: Julie Grünebaum Montaggio: Emmanuelle Legendre, Otar Iosseliani Origine: France Anno: 2015

    Durata: 117 minuti

    V I S I O N I ~ incontri di cinema ~

    #iorestoacasa

  • Sinossi

    Certe somiglianze sono inquietanti. Come quelle che si colgono tra un visconte

    ghigliottinato – pipa in bocca – durante il Regime del terrore, un cappellano militare – il

    torso tatuato come un malvivente – che battezza in serie soldati, predoni e stupratori, un

    clochard parigino schiacciato da un rullo compressore e un custode – letterato ma anche

    trafficante d’armi – di un grande edificio. Qui quasi tutti i personaggi si incrociano, eccetto

    i senzatetto che la polizia trasferisce da un posto all’altro senza tanti complimenti. E

    tuttavia, in mezzo a questo caos, esistono spazi per il sogno, storie d’amore, amicizie solide

    che consentono forse di sperare in un domani migliore.

    Un vecchio visconte (Rufus), ghigliottinato durante il Regno del Terrore in Francia, assomiglia terribilmente a un cappellano militare (Rufus) che battezza dei soldati uno dopo l'altro, oltre che a un vagabondo (Rufus) rimasto schiacciato da un rullo compressore e a un custode (Rufus) di un grande edificio nella Parigi del nuovo millennio. Otar Iosseliani continua a mettere in scena il suo credo stilistico, basato su improvvisazione, libertà espressiva, assenza di qualsiasi convenzione narrativa e tanta sottile ironia. Attraverso un tocco leggero e mai superficiale, l'autore georgiano parla di sentimenti umani (amicizia, amore, legami di vario genere) senza risultare pedante o banale, ma finisce allo stesso tempo per mettere troppa carne al fuoco e per girare eccessivamente a vuoto. La lunga durata non aiuta e si arriva alla conclusione col fiato corto, nonostante lungo il percorso non manchino siparietti divertenti, suggestivi collegamenti tra le diverse epoche e momenti dotati di buono spessore drammaturgico. Efficace il ricco cast, in cui è presente anche il critico cinematografico Enrico Ghezzi.

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    Trama

    La prima mondialedi Chant d'hiver di Otar Iosseliani, in Concorso al Festival del Film

    Locarno, era attesa da tutti con grande impazienza. Ebbene le aspettative di quanti

    scorgono nello sguardo del regista franco georgiano scintille di libertà pura non sono di

    sicuro state deluse. Chant d'hiver non si scosta dalla linea dei suoi film precedenti

    continuando testardamente a promuovere un cinema completamente alieno a qualsiasi

    “rappresentazione” della realtà. Il suoi film gridano libertà con un'irriverenza tutta sua,

    elegantemente fuori moda.

    Riassumere Chant d'hiver è un'impresa piuttosto ardua tanto nei film di Otar Iosseliani

    la storia non è che pretesto, una scusa narrativa. Questa lascia quasi immediatamente

    spazio alla contemplazione, quella degli aspetti apparentemente irrilevanti, delle

    coincidenze della vita. I personaggi che popolano Chant d'hiver presentano, al di là delle

    loro differenze tanto storiche quanto personali, somiglianze piuttosto straordinarie. Come

    quelle che intravvediamo fra un visconte ghigliottinato che stringe ancora la sua pipa fra

    le labbra durante il Regime del Terrore, un improbabile cappellano militare dal torso

    tatuato come un gangster malavitoso che battezza in serie soldati senza scrupoli, un senza

    tetto parigino schiacciato da un rullo compressore e un portinaio letterato e trafficante

    d'armi. Chant d’hiverè la ragnatela dentro la quale questi personaggi si dimenano, si

    incrociano, si ritagliano spazi dove amare, sognare, sperare. Otar Iosseliani osserva

    questo piccolo mondo in modo istintivo, distaccato. Come loro, che danno l'impressione di

    vivere in un sogno tinto d'ironia, Iosseliani non sembra interessarsi al pubblico ma al

    contrario prosegue per la sua strada ignorando le nostre aspettative che più il film avanza

    più si trasformano in ansia. Attesa, ansiosa che qualcosa succeda veramente, brama di

    trovare un'interpretazione, di dare una logica all'indolenza di attività frenetiche che

    sfilano davanti ai nostri occhi. Come nella vita stessa anche in Chant d'hiver le azioni

    sembrano non avere mai fine, si susseguono implacabilmente in un continuum imperfetto

    e insoddisfacente. I personaggi, prigionieri dello sguardo posato su di loro, paiono

    ignorare completamente la nostra presenza per sviluppare un'indipendenza stupefacente

    che schernisce le nostre piccole aspettative. La società e le sue regole, di cui tutti noi volente

    o nolente facciamo parte, viene ridicolizzata. Le sue contraddizioni vengo esposte sulla

    pubblica piazza, impietosamente. Chant d'hiver non è (e non vuole essere) un film facile

    (o addirittura piacevole), eppure il suo fascino ci cattura, il suo distacco ci ipnotizza

    facendoci scoprire un'umanità imperfetta dove convivono paradossalmente bontà e

    corruzione. Otar Iosseliani non cerca di dare significato a ciò che non ne ha, osserva

    semplicemente ciò che è.

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    Critica

    Un incipit che vede una ghigliottina in azione, durante il Regime del Terrore di

    Robespierre. Una scena stilizzata, irreale che enuncia il forte senso del grottesco, del

    paradosso che pervaderà tutto Chant d’hiver. In un momento in cui le televisioni

    mostrano le immagini scioccanti delle decapitazioni dell’Isis, Iosseliani lancia la sua

    provocazione: quante teste dovranno ancora tranciare i guerriglieri islamici per

    raggiungere il livello della Rivoluzione francese, origine dell’età contemporanea e dei

    diritti dell’uomo?

    Immagini di guerra, saccheggi, stupri. E tra il bottino della razzia che l’esercito si porta

    dietro, su un carro armato, un water che comparirà ancora successivamente. L’immagine

    di un’esplosione passa in televisione, mentre gli spettatori, una donna con due bambini,

    vanno avanti a mangiare il gelato con indifferenza. Una lite coniugale viene spiata da un

    binocolo da una finestra su un cortile. Un prelato cade in un tombino che viene chiuso e

    viene quindi riversato nello scarico. Un furto viene compito alle spalle di un poliziotto, che

    non se ne accorge intento com’è a chiacchierare amabilmente. La polizia in tenuta anti-

    sommossa sgombera un campo di nomadi. Tutto risulta allo stesso modo surreale e

    grottesco, ma l’ultima di queste situazioni, dopo tanti momenti paradossali, è una realtà

    che si vede tutti i giorni ai telegiornali.

    Il muro incrostato e coperto di muschio di un vicolo, passaggio obbligato che ricorre nel

    film, è dotato di una porta che è come una valvola verso altre dimensioni: un giardino delle

    Esperidi esotico e leggendario, che pure diventerà fortemente degradato alla fine del film.

    Come nel suo stile, il cineasta di origine georgiana dirige le danze con un senso di grande

    lievità e leggerezza. Costruisce un film che funziona di scene che si susseguono con

    pochissimi dialoghi – sono di più paradossalmente quelli delle canzoni che si sentono

    durante il film – con una serie di gag visive secondo meccanismi che si avvicinano al muto.

    E il momento il cui il rullo compressore schiaccia il clochard, che risulta poi appiattito, è

    un segno di surrealismo alla cartoon di Tex Avery o Chuck Jones.

    Ma con questo tono, Iosseliani descrive un mondo in cui è estremo il divario sociale tra

    gli strati più alti e quelli più bassi della popolazione, i nobili che giocano a golf e i barboni

    che rovistano nella spazzatura. Un mondo dove si praticano traffici illeciti di armi

    scambiate con libri antichi. La memoria dell’umanità in cambio della sua distruzione ma,

    osserva il regista, i libri stessi sono un’arma, la più potente di tutte. Uno sguardo severo,

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    di un uomo di altri tempi che userebbe ancora il grammofono come del resto succede nel

    film, una visione anti-modernista che si esprime nella straordinaria scena in cui due

    persone litigano al cellulare, lo sbattono via per estenuazione e poi si scopre che si trovano

    da un parte all’altra della stessa stazione ferroviaria.

    E Chant d’hiver, presentato in concorso al Festival di Locarno, esibisce un curioso cast

    che comprende, oltre a Enrico Ghezzi, ancora una volta Pierre Etaix, il comedian e

    clown francese che già appariva nel film predente di Ioseliani, Chantrapas. Un

    omaggio a un artista, cui a un certo punto negli anni Settanta fu impedito di fare cinema

    per il suo sguardo satirico sulla massificazione della società, per aver osato ironizzare sulle

    file di ombrelloni sulle spiagge e sui palazzoni alveare in cemento armato, espressi nel

    documentario Pays de cocagne. Un omaggio programmatico a un artista che, come lo

    stesso Iosseliani, è nobile e clochard allo stesso tempo.

    Inattuale […] è anche il mondo alla rovescia di Otar Iosseliani con Chant d’hiver, commedia

    ironica sulla Storia, e sugli esseri umani che la abitano, sospesi tra la ghigliottina di Robespierre e

    le espulsioni dei migranti di oggi.

    Quel marchese decapitato «magrittianamente» con la pipa in bocca lo ritroviamo in un esercito

    che battezza, cappellano tatuato, soldati stupratori e ladri. Somiglia però anche al clochard

    schiacciato da un rullo compressore come il personaggio di un cartoon, e al guardiano dell’edificio

    assai colto che ai bimbi al pomeriggio spiega Marat e Il Terrore. Lì si incrociano altre figure che

    sembrano unite da sotterranee affinità, il nobile che vive in miseria nel suo castello da cui verrà

    presto espulso – è Enrico Ghezzi – uno strano tipo che colleziona teschi, e che sembra avere

    condiviso col custode anche un amore lontano, la nobile signora ora fragile e malata che ripete il

    rito del the tra medici e camerieri premurosi. Un musicista che dorme in auto, un uomo che

    raccoglie mattoni per costruirsi la sua casetta, la figlia del nobile decaduto costretta a prostituirsi

    col potente di turno al cui servizio troviamo gli amanti fuggiti dalla guerra.

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    E poi ci sono le giovanissime ladre che sfrecciano sui pattini, il loro amico si è innamorato proprio

    della figlia del poliziotto che vuole ripulire le strade, dare un nuovo ordine, e perseguita spostandoli

    di continuo i migranti. Le comiche, il cinema muto, Keaton, il piacere intelligente del paradosso e

    quei detour poetici che spalancano all’improvviso porte sui muri della metropoli, rivelando

    giardini che sembrano a volte un Eden, altre sono invece morti e desolati. In questo Canto

    d’inverno, punteggiato di apparizioni e da legami antichi entra forte il nostro tempo con la forma

    poetica (e politica) dello sguardo di Iosseliani in cui la realtà appare sempre, o almeno in forma

    privilegiata altrove, in segni sfuggenti o come un mondo allo specchio. Appunto.

    Ecco dunque che seguendo i suoi sentieri e i suoi detour nelle strade di una Parigi a cui regala una

    seduzione forse scomparsa, entriamo nell’Europa che vincente, persecutoria, conformista, delle

    economie forti e della tolleranza zero, delle ipocrisie di quote di migranti e delle false riprese, di

    una cultura ovvia, noiosamente formattata, di un controllo in cui la solidarietà appare come una

    forma temibile di resistenza. E tutto ció dentro a un’immagine lieve, libera, personalissimo

    distillato di umorismo e di ironia che unisce mondi e spazi del cuore. Le strade ripulite somigliano

    all’ordine del Terrore anche se oggi le teste sono di cera e le ghigliottine servono a tagliare i legumi.

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    A partire dalla guerra, proposta nelle scene d'ordinaria follia del frammento iniziale, dedicato a

    una delle tante invasioni messe in pratica dall'esercito russo, riconoscibile dalla maglietta a strisce

    orizzontali bianche e blu indossata sotto la divisa dai soldati; e continuando, dopo il secco cambio

    di scena che ci catapulta nella Parigi dei nostri giorni, con gli sfollamenti coatti di improbabili

    reietti, che Iosseliani filma con una libertà d'ispirazione che si disfa di logiche narrative che non

    siano quelle dettate dall'estro del momento. Ovviamente, ciò che vediamo sullo schermo è il

    risultato di un controllo del dispositivo cinematografico in cui la naturalezza di gesti, come quelli

    messi in mostra nelle sequenze dei borseggi effettuati dalla banda di giovani lestofanti, è il frutto

    di un'ossessiva attenzione del particolare. Sta di fatto che il film, riesce a compiere il miracolo di

    un cinema che parla di cose serie con una levità, che, se ci è concesso il paragone, ricorda quella

    del grande Jaques Tatì. Che ci parli di vita o di morte, di dittatura o democrazia, di ricchezza o

    povertà, "Chant D'Hiver" non perde neanche per un attimo l'occasione di essere poesia,

    costruendo un mondo personale di cui fanno parte i temi che sono cari all'umanesimo del regista e

    che vanno dal senso di sradicamento - anche personale, ricordando i fatti che hanno spinto

    Iosseliani a emigrare in Francia - affermato attraverso la precarietà esistenziale dei personaggi,

    allo sberleffo del potere, raffigurato nel film da un capo della polizia che sembra uscito dalla ceneri

    dell'impero bolscevico, all'amore per l'arte e la conoscenza, presente nei migliaia di libri accatasti

    negli spazi abitativi e nell'erudizione (con la musica classica in prima fila) che impregna i dialoghi

    degli arzilli vecchietti protagonisti della storia. Con Mathieu Amalric e la propria signora e un

    Enrico Grezzi più straniato che mai, a figurare, alla pari degli altri, nel presepe vivente realizzato

    da un regista dal formidabile regista.

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    Iosseliani torna alla regia con un film piccolo ma grazioso, denso di significanti e significati che

    si diverte a giocare con la Storia attraverso le storie, in una Parigi, capitale di una Francia che non

    ti aspetti, che ancora deve rendere/si conto della ghigliottina per cercare di capire dove (si) stia

    andando. Il tutto si apre con la Rivoluzione appunto, o almeno con le ultime epurazioni fisiche che

    in quel tempo si contraddicevano. L’esecuzione che diventa lo spettacolo, la memoria di una testa

    tagliata il trofeo, la Storia reiterata il contesto stesso. Dalla rivoluzione alla guerra, il passo è

    breve. Lo stacco è marcato, un esercito qualsiasi invade un paese qualsiasi, qui non è il contesto

    che conta ma l’atto. La resistenza di quella popolazione non può essere altra se non la fuga, due

    ragazzi lasciano le macerie di quell’ameno villaggio. E siamo a Parigi, oggi, o almeno ci pare. I

    ragazzi sfollati traditori e quell’enigmatico e magrittiano teschio con la pipa si riuniscono in

    una ville lumiere vista sempre dal basso, e non solo da un punto di vista stilistico.

    Un microcosmo quasi imperscrutabile, perfetto per il gioco della parti in cui Iosseliani fa

    sbocciare il suo cinema. I protagonisti sono molteplici, il set un palazzo e le stradine adiacenti.

    Come in tutte la favole c’è il cattivo, un commissario di polizia con alla sua corte i due giovani in

    fuga. Nel limbo c’è tutto uno splendido substrato di borghesia ed aristocrazia decaduta, che più

    della mera sopravvivenza cerca ancora un briciolo di dignitosa identità; su tutti regnano il

    collezionista di teschi annoiato e bevitore, una anziana e malinconica signora ricchissima e

    servitissima in cerca ancora degli ultimi piaceri e soprattutto un nobile che presto verrà sfrattato

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    (interpretato da uno splendido quanto funzionale Enrico Ghezzi) e la cui figlia è costretta a

    prostituirsi con il cattivo. I buoni probabilmente sono il colto guardiano dell’edificio somigliante al

    clochard investito in apertura, le giovani e belle ladre sui pattini ed il loro amico innamorato della

    figlia del cattivo, il musicista che dorme in auto come il folle solitario che colleziona pietre per

    costruirsi la sua casetta della memoria (piccolo cameo di un sempre gigantesco Mathieu Amlaric).

    Da qui il Canto d’Inverno, gli incontri, e soprattutto gli scontri tra questi personaggi, vagabondi

    nella vita quanto nella narrazione che si prestano a rappresentare, sempre sulla fune tesa di un

    cinema che non c’è più, tesi alla comicità fanciullesca del muto come alla fragilità clownesca della

    sopravvivenza per strada. Ognuno dovrebbe avere il suo spazio attraverso il tempo che definisce,

    all’interno di questo tenero racconto, ma proprio negli scarti, nelle derive, nei momenti in cui lo

    sguardo di Iosseliani decide di perdersi nella topografia di questi luoghi come nell’antropologia

    dei suoi abitanti, il film si apre in una poesia terribilmente umana. Anche perché il controcampo di

    questa dolcezza, non può non far pensare a cosa si possa nascondere al suo interno. La politica c’è

    eccome, il cattivo decide di “ripulire” Rue Messier e dintorni, la poesia scompare al tempo degli

    sgomberi, quel microcosmo così fragile implode nella desolazione di una repressione. Nel campo e

    soprattutto nel punto di vista del grande cineasta georgiano, straordinariamente libero e giocoso

    emerge alla fine il quadro di questa nostra Europa fatta di paura dell’altro come della

    sopraffazione verso l’estraneo, uno spazio di intolleranza stupida e gratuita che non fa altro che

    ridefinire una circolarità nella Storia di queste piccole ed indifese storie. La legge del più forte,

    qualunque esso sia, continua a mietere le sue vittime, e solo nel cuore si può ancora respirare la

    solidarietà umana, che oltre ad essere seduzione è allo stesso modo resistenza dei nostri giorni.

    Ma non tutte le speranze devono essere differite, il tessuto di una società come quello di una città

    sarà sempre sostenuto anche da queste schegge impazzite dell’animo umano, le sole che possono

    ancora dare qualche timida pennellata di colore nel grigio del terrore di una cultura (?) sempre

    più esclusiva davanti ad ogni possibile forma di inte(g)razione. Due tra i “degenerati” superstiti

    dalla retata del bruto passano l’alba in un caffè, sorseggiando un vino. E sogghignano, e ridono;

    non tanto del loro destino, ma di quello degli altri, di tutti noi. Poi ricominciano a camminare, per

    l’ennesimo viaggio al termine di una giornata. Iosseliani da uomo di straordinaria sensibilità ne

    è consapevole, ed anche per questo dipinge un film che in realtà scalda il cuore di un gelido inverno

    come rinfresca l’anima di questa torrida estate locarnese. L’emozione vincerà sempre, o almeno,

    visto che di favola si tratta, proviamoci a credere.

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    Intervista con il regista

    «Sono molto serio oggi pomeriggio». Esordisce così Otar Iosseliani guardando, con curiosità

    infantile, nuovi sport acquatici sulle rive del lago, dall’alto della terrazza del suo hotel. Una

    premessa/promessa che manterrà per tutta la durata di una conversazione vagabonda e volatile,

    fatta di parole liquide che assumono, ogni tanto, la forma di una risposta sospesa fra una lezione

    di Storia e una condanna alla vuota modernità imperante. Il Cinema-Pensiero del regista

    georgiano intriso di entusiasmo fatalista, di partiture umaniste e di balletti ludici sul crinale del

    pessimismo, non può che riflettersi anche nel discorso, nei vocaboli dosati con ironia, nelle pause,

    nel silenzio e nel suono. Addirittura nel desiderio di cantare un’antica canzone georgiana, intonata

    con dolce nostalgia da bettola, vero e proprio Canto d’inverno come il titolo del suo nuovo

    bellissimo film.

    È curioso come nella sua filmografia ricorrano spesso le stagioni: «Aprile» era un

    suo cortometraggio giovanile, qualche anno fa «Giardini in autunno», ora «Chant

    d’hiver». Sembra quasi che accompagnino nel loro susseguirsi il suo cammino nel

    cinema.

    I «canti d’inverno» sono le vecchie canzone delle persone che non hanno nulla da fare. In inverno

    la gente non ha niente da fare e francamente nemmeno io. Sono semplici canti di memoria, di

    nostalgia, di quello che prima c’era e ora non esiste più.

    In passato ha studiato musica e, prima del cinema, ha dedicato gli anni universitari

    a studi matematici. «Chant d’hiver» sembra quasi unire queste due discipline: i tre

    momenti storici del film assomigliano ai movimenti di una sinfonia mentre i

    personaggi si affannano a interpretare le leggi del Mondo.

    La matematica è un mestiere che implica la ricerca di un modello del mondo ma si non può avere

    la pretesa della perfezione. Ci avviciniamo con il cinema a qualcosa che assomiglia alla descrizione

    del fenomeno della vita. Noi matematici sappiamo benissimo che la formula riflette quello che ci

    accade attorno, e in questo senso mi sento puramente un matematico. Allo stesso tempo, in questa

    vita piena di sciocchezze ed errori, sono più attratto dalle falle che esistono nel mondo piuttosto che

    dalle equazioni che cercano di descriverlo. Il risultato finale è un grande caos e questo film si rivolge

    a qualcuno che capisce questo bordello;è per questo che non ho masse di spettatori, che non mi

    rivolgo agli stadi, che non penso al pubblico che ascolta Madonna. Per tornare alla musica, odio la

    musica di oggi, la vera musica è qualcosa di molto fragile e tenero e quando la si ascolta non si può

    certo essere sotto a un palco insieme a centomila persone, questa è una tragedia. Stessa cosa per

    un film: è impossibile guardare Jean Vigo mangiando i popcorn.

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    Quindi per lei lo spettatore è obbligato a partecipare con il proprio pensiero durante

    la visione di un suo film?

    Certamente! Anche lo spettatore deve lavorare quanto lavora il cineasta, o almeno un pò: noi

    registi offriamo qualcosa che non si può prendere in modo passivo mangiando popcorn. Non voglio

    certo paragonarmi a Vigo, lo porto come esempio. Bisogna lavorare, capire, vedere e il mio film è

    semplice, bisogna avere solo qualche rotella che funziona per capirlo. Ci vogliono spettatori attivi

    e purtroppo non sono numerosi, io stesso non sono sicuro di pensare nella maniera più giusta. E

    invece si deve comprendere che cosa sia questa porcata di vita sulla Terra anche se la risposta non

    la si troverà mai. Io e il mio spettatore respiriamo insieme, e non siamo in tanti noi cineasti, a voler

    condividere un vero pensiero con lo spettatore. Quando vedo un film che è destinato a me sono

    felice.

    Nel suo film l’attualità (le scene con gli immigrati, la guerra ad esempio) convive con

    una visione surreale del quotidiano mentre si ha l’impressione che i suoi personaggi

    siano incapaci di sfuggire agli obiettivi dei binocoli o delle macchine fotografiche del

    Potere.

    Non cerco mai di stabilire o dichiarare niente in maniera definitiva. Tutto il mondo si ritrova di

    fronte a un’enorme catastrofe europea, questa è l’unica certezza. La macchina fotografica è stata

    inventata molto tempo fa per fissare gli eventi, le famiglie, i ricchi, i poveri contadini ed era dieci

    volte più importante del cinema. Il cinema, se non è arte, non ha alcuna importanza, bisogna

    metterci l’anima e i fabbricanti di cinema pensano soltanto ai soldi. Non è cinema in quel caso. Una

    volta in India c’era Satyajit Ray, ora c’è Bollywood, oggi in Cina non c’è cinema ma semplicemente

    una copia conforme di Hollywood. Ora è arrivato anche il digitale che ha reso il cinema

    trasportabile come un pacchetto di sigarette ma se premi un pulsante scompare mentre la pellicola

    resta.

    Qualche parole sulla presenza di Enrico Ghezzi. Nel film interpreta un nobile

    decaduto, costretto a lasciare la sua dimora. Mi ha fatto pensare al «castello Fuori

    Orario» che lui e il suo gruppo di lavoro altri hanno «fortificato» nel corso degli anni

    all’interno del servizio pubblico Rai.

    Enrico è un amico ed è uno degli ultimi dei Mohicani. Non posso certo dirvi io che tipo di influenza

    ha oggi e ha avuto negli anni passati sull’intellighenzia italiana ma io, lui e un altro amico ora

    scomparso da un po’ di tempo, ci siamo riuniti tanti anni fa e abbiamo cercato di non fare

    semplicemente del cinema ma di lasciare un messaggio e se questo messaggio finalmente arrivasse

    alle stupide teste degli italiani non sarebbe male.

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    Otar

    Ioseliani

    Tblisi, 2 febbraio 1934

    Regista, sceneggiatore e montatore georgiano naturalizzato francese.

    Da ragazzo studiò musica, arrivando anche a conseguire il diploma in pianoforte, in composizione e in direzione d'orchestra.

    Il primo lungometraggio di Ioseliani, La caduta delle foglie (1966), vinse un premio FIPRESCI al festival cinematografico di Cannes. Successivamente il regista diresse il film Pastorale (Pastorali), che però non fu proiettato e sparì per diversi anni negli archivi sovietici; alla fine fu permessa solo una distribuzione limitata. Dopo il successo di Pastorale al Festival internazionale del Cinema di Berlino nel 1982, Ioseliani lasciò l'Unione Sovietica e si rifugiò in Francia.

    Nel 1984 girò in Francia I favoriti della luna (Les favoris de la lune); il film fu premiato nello stesso anno al Festival di Venezia e divenne un successo internazionale per Ioseliani. A Venezia si aggiudicò in seguito altri due premi: nel 1989 per Un incendio visto da lontano e nel 1996 per Briganti (Brigands, chapitre VII).

    Lunedì mattina (Lundi matin) vinse invece un Orso d'argento al Festival di Berlino del 2002.

    Ioseliani realizzò anche alcuni documentari, tra cui Un piccolo monastero in Toscana.