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Horti Hesperidum Studi di storia del collezionismo e della storiografia artistica Rivista telematica semestrale LE IMMAGINI VIVE coordinamento scientifico di Carmelo Occhipinti L’età contemporanea a cura di Carmelo Occhipinti Roma 2015, fascicolo II, tomo II UniversItalia

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Horti Hesperidum, V, 2015, II 2

Horti Hesperidum

Studi di storia del collezionismo e della storiografia artistica

Rivista telematica semestrale

LE IMMAGINI VIVE coordinamento scientifico di Carmelo Occhipinti

L’età contemporanea a cura di Carmelo Occhipinti

Roma 2015, fascicolo II, tomo II

UniversItalia

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Il presente volume riproduce il fascicolo II (tomo II) del 2015 della rivista telematica semestrale Horti Hesperidum. Studi di storia del collezionismo e della storiografia artistica.

Direttore responsabile: Carmelo Occhipinti Comitato scientifico: Barbara Agosti, Maria Beltramini, Claudio Castelletti, Francesco Grisolia,

Valeria E. Genovese, Ingo Herklotz, Patrick Michel, Marco Mozzo, Simonetta Prosperi Valenti Rodinò, Ilaria Sforza

Autorizzazione del tribunale di Roma n. 315/2010 del 14 luglio 2010 Sito internet: www.horti-hesperidum.com/

La rivista è pubblicata sotto il patrocinio di

Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” Dipartimento di Studi letterari, Filosofici e Storia dell’arte

Serie monografica: ISSN 2239-4133 Rivista Telematica: ISSN 2239-4141

Prima della pubblicazione gli articoli presentati a Horti Hesperidum sono sottoposti in forma anonima alla valutazione dei membri del comitato scientifico e di referee sele-zionati in base alla competenza sui temi trattati. Gli autori restano a disposizione degli aventi diritto per le fonti iconografiche non individuate. PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA © Copyright 2015 - UniversItalia – Roma

ISBN 978-88-6507-794-8 A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile è vietata la riproduzione di questo libro o parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, microfilm, registrazioni o altro.

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INDICE

TOMO I BRAM DE KLERCK, Inside and out. Curtains and the privileged beholder in Italian Renaissance painting 5 VALERIA E. GENOVESE, Statue vie: lavori in corso 29 DANIELA CARACCIOLO, «Qualche imagine devota da riguardare»: la questione delle immagini nella letteratura sacra del XVI secolo 51 CRISTINA ACUCELLA, Un’ekphrasis contro la morte. Le Rime di Torquato Tasso sul ritratto di Irene di Spilimbergo 89 MARIA DO CARMO R. MENDES, Image, devotion and pararepresentation: approaching baroque painting to neuroscience, or a way to believe 127 NINA NIEDERMEIER, The Artist’s Memory: How to make the Image of the Dead Saint similar to the Living. The vera effigies of Ignatius of Loyola. 157 ALENA ROBIN, A Nazarene in the nude. Questions of representation in devotional images of New Spain 201 PAOLO SANVITO, Arte e architettura «dotata di anima» in Bernini: le reazioni emotive nelle fonti coeve 239 TONINO GRIFFERO, Vive, attive e contagiose. Il potere transitivo delle immagini 277 ABSTRACTS 307

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TOMO II

PIETRO CONTE, «Non più uomini di cera, ma vivissimi». Per una fenomenologia dell’iperrealismo 7 ARIANA DE LUCA, Dall’ekphrasis rinascimentale alla moderna scrittura critica: il contributo di Michael Baxandall 27 A. MANODORI SAGREDO, La fotografia ‘ruba’ l’anima: da Daguerre al selfie 77 FILIPPO KULBERG TAUB, «They Live!» Oltre il lato oscuro del reale 91 ALESSIA DE PALMA, L’artista Post-Human nel rapporto tra uomo e macchina 105 ABSTRACTS 115

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EDITORIALE

CARMELO OCCHIPINTI

Vide da lontano un busto grandissimo; che da principio im-maginò dovere essere di pietra, e a somiglianza degli ermi colossali veduti da lui, molti anni prima, nell’isola di Pasqua. Ma fattosi più da vicino, trovò che era una forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna; e non finta ma viva; di volto mezzo tra bello e terribile, di occhi e di capelli nerissimi; la quale guardavalo fissamente; e stata così un buono spazio senza parlare, all’ultimo gli disse: «Chi sei?»

G. LEOPARDI, Dialogo della natura e di un islandese

Poco prima che si chiudesse l’anno 2013, nel sito internet di «Horti Hesperidum» veniva pubblicato il call for papers sul tema delle «Immagini vive». Nonostante la giovane età della rivista – giravano, ancora, i fa-scicoli delle sole prime due annate –, sorprendentemente vasta fu, da subito, la risposta degli studiosi di più varia formazione: archeologi, medievisti, modernisti e contemporaneisti. In poche settimane, infatti, il nostro call for papers si trovò a essere rilancia-to, attraverso i siti internet di diverse università e istituti di ri-cerca, in tutto il mondo. Risonanza di gran lunga inferiore, no-nostante l’utilizzo degli stessi canali, riuscivano invece a ottene-re le analoghe iniziative di lì a poco condotte da «Horti Hespe-ridum» su argomenti specialisticamente meglio definiti come quello della Descrittione di tutti i Paesi Bassi (1567) di Lodovico Guicciardini (a proposito dei rapporti artistici tra Italia e Paesi nordici nel XVI secolo), e del Microcosmo della pittura (1667) di

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Francesco Scannelli (a proposito del collezionismo estense nel XVIII secolo). Evidentemente era il tema in sé, quello appunto delle «Immagi-ne vive», a destare una così inaspettata risonanza. Tanta riso-nanza si dovrebbe spiegare – mi sembra – in ragione di una nuova e sempre più diffusa esigenza, molto sentita ormai da parte degli studiosi di storia artistica (sollecitati, più o meno consapevolmente, dagli accadimenti del mondo contempora-neo): l’esigenza, cioè, di indagare certa qualità ‘attiva’ che le im-magini avrebbero posseduto nel corso della storia, nelle epoche, nei luoghi e nei contesti sociali e religiosi più diversi prima che esse diventassero, per così dire, gli ‘oggetti’ – in un certo senso ‘passivi’ – della moderna disciplina storico-artistica, prima cioè che le stesse immagini si ‘trasformassero’ in ‘reperti’, diventan-do, così, non necessariamente qualcosa di ‘morto’ (rispetto a una precedente ‘vita’ perduta), bensì diventando, in ogni caso, qualcosa di ‘diverso’ da ciò che originariamente esse erano state. Già per il solo fatto di essere ‘guardate’ sotto una prospettiva disciplinare come quella della storia dell’arte, che è vincolata a proprie istanze di astrazione e di scientificità (in funzione, per esempio, delle classificazioni o delle periodizzazioni), le imma-gini non hanno fatto altro che ‘trasformarsi’: ma è vero che, per loro stessa natura, le immagini si trasformano sempre, per effet-to della storia e degli uomini che le guardano, e dei luoghi che cambiano; tanto più, oggi, le immagini continuano a trasformar-si per effetto dei nuovi media i quali, sottraendole a qualsivoglia prospettiva disciplinare, ce le avvicinano nella loro più impreve-dibile, multiforme, moderna ‘vitalità’. Il fatto è che, immersi come siamo nella civiltà nuova del digita-le – la civiltà delle immagini virtuali, de-materializzate, de-contestualizzate che a ogni momento vengono spinte fin dentro alla nostra più personale esistenza quotidiana per ricombinarsi imprevedibilmente, dentro di noi, con i nostri stessi ricordi, così da sostanziare profondamente la nostra stessa identità – ci sia-mo alla fine ridotti a non poter più fare a meno di questo flusso magmatico che si muove sul web e da cui veniamo visceralmente nutriti, e senza il quale non riusciremmo proprio a decidere al-cunché, né a pensare, né a scrivere, né a comunicare, né a fare

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ricerca. In questo modo, però, le immagini che per via digitale, incessantemente, entrano per così dire dentro di noi sono im-magini del tutto prive della loro materia, del loro stesso corpo, perché internet, avvicinandocele, ce le impoverisce, ce le tra-sforma, ce le riduce a immateriali parvenze. Ma così diventa ad-dirittura possibile – ed è questo per molti di noi, come lo è per molti dei nostri studenti, un paradosso davvero mostruoso – diventa possibile, dicevo, studiare la storia dell’arte senza quasi che sentiamo più il bisogno di andare a vedere le opere d’arte, quelle vere, senza cioè riconsiderarle concretamente in rappor-to, per esempio, all’esperienza nostra del ‘paesaggio’ di cui esse sono state e continuano a essere parte: non può che venirne fuori, ormai, una storia dell’arte fatta di opere ridotte alla par-venza immateriale la quale, distaccatasi dalle opere d’arte ‘vere’, non conserva di esse alcuna idea di fisicità, né possiede la ben-ché minima capacità di coinvolgimento emotivo che derivava anticamente dalla ‘presenza’, dalla ‘corporeità’, dal rapporto col ‘paesaggio’ e col ‘contesto’, nonché dalle tradizioni e dai ricordi che, dentro quel ‘paesaggio’, dentro quel ‘contesto’, rivivevano attraverso le immagini, vivevano nelle immagini. La storia dell’arte ha finito per ridursi, insomma, a una storia di immagini ‘morte’, staccate cioè dai contesti culturali, religiosi, rituali da cui esse provenivano: in fondo, è proprio questo tipo di storia dell’arte, scientificamente distaccata dalla ‘vita’, a rispecchiare bene, nel panorama multimediale e globalizzato che stiamo vi-vendo, il nostro attuale impoverimento culturale. In considerazione di quanto detto, questa miscellanea sulle «Immagini vive» è stata pensata anzitutto come raccolta di te-stimonianze sugli orientamenti odierni della disciplina storico-artistica la quale – oggi come non mai afflitta, per di più, dall’arido specialismo accademico che l’ha ridotta alla più morti-ficante inutilità sociale –, ambisce, vorrebbe o dovrebbe ambi-re, alla riconquista dei più vasti orizzonti della storia umana, nonché alla ricerca dei legami profondi che uniscono il passato al presente e, dunque, l’uomo alla società e le civiltà, seppure lontane nello spazio o nel tempo, l’una all’altra.

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Ebbene questi due fascicoli della V annata (2015) di «Horti He-speridum», ciascuno diviso nei due tomi che ora finalmente pre-sentiamo, raccolgono i contributi di quanti, archeologi, medievi-sti, modernisti e contemporaneisti, abbiano voluto rispondere al nostro call for papers intervenendo su argomenti sì molto diversi, però tutti collegati a un’idea medesima: quella di verificare, nel passato come nel presente, una certa qualità ‘attiva’ che sia sto-ricamente appartenuta, o appartenga, alle immagini. Esattamente come lo enunciavamo nel sito internet di «Horti Hesperidum», alla fine del 2013, era questo il contenuto del no-stro call for papers:

La rivista semestrale «Horti Hesperidum» intende dedicare il pri-mo fascicolo monografico del 2015 al tema delle “Immagini vive”. Testimonianze letterarie di varie epoche, dall’antichità pagana all’età cristiana medievale e moderna, permettono di indagare il fenomeno antropologico dell’immagine percepita come presenza “viva”, capace di muoversi, parlare, interagire con gli uomini. Saranno prese in particolare considerazione le seguenti prospettive di indagine: 1. Il rapporto tra il fedele e l’immagine devozionale 2. L’immagine elogiata come viva, vera, parlante, nell’ekphrasis let-teraria 3. L’iconoclastia, ovvero l’“uccisione” dell’immagine nelle rispetti-ve epoche

Ora, una siffatta formulazione – cui ha partecipato Ilaria Sforza, antichista e grecista – presupponeva, nelle nostre intenzioni, le proposte di metodo già da noi avanzate nell’Editoriale al primo primo numero di «Horti Hesperidum» (2011), dove avevamo cercato di insistere sulla necessità di guardare alle opere d’arte secondo un’ottica diversa da quella più tradizionalmente disci-plinare che, in sostanza, si era definita, pure nella molteplicità degli indirizzi metodologici, tra Otto e Novecento. Allora, infat-ti, ci chiedevamo: Ma sono pienamente condivisibili, oggi, intenzioni di metodo come le seguenti, che invece meritano la più rispettosa storicizzazione? Ri-

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muovere ogni «ingombro leggendario», auspicava Longhi, che si frap-ponesse tra lo storico e le opere. Considerare queste ultime con il do-vuto distacco scientifico. Guardarle «in rapporto con altre opere»: evi-tare cioè di accostarsi all’opera d’arte – come però sempre accadeva nelle epoche passate – «con reverenza, o con orrore, come magia, come tabù, come opera di Dio o dello stregone, non dell’uomo». Ne-gare, in definitiva, «il mito degli artisti divini, e divinissimi, invece che semplicemente umani». Queste affermazioni, rilette oggi alla luce di nuove esigenze del nostro contemporaneo, finiscono per suonare come la negazione delle storie dell’arte in nome della storia dell’arte. Come la negazione degli uomini in nome dello storico dell’arte. Come la negazione dei modi di vedere in nome della connoisseurship. Come la negazione, in definitiva, della stessa ‘storia’ dell’arte. Infatti la storia ha davvero conosciuto miracoli e prodigi, maghi e stregoni, opere or-ribilmente belle, sovrumane, inspiegabili, e artisti terribili e divini. Lo storico di oggi ha il dovere di rispettare e comprendere ogni «ingom-bro leggendario», senza rimuoverlo; dovrebbe avere cioè il dovere di sorprendersi di fronte alle ragioni per cui, anticamente, a destar «me-raviglia», «paura», «terrore» erano i monumenti artistici del più lonta-no passato come anche le opere migliori degli artisti di ogni presente. Quell’auspicato e antiletterario distacco scientifico ha finito in certi casi per rendere, a lungo andare, la disciplina della storia dell’arte, guardando soprattutto a come essa si è venuta trasformando nel pa-norama universitario degli ultimi decenni, una disciplina asfittica, non umanistica perché programmaticamente tecnica, di uno specialismo staccato dalla cultura, dalla società, dal costume, dalla politica, dalla religione». In effetti, dalla cultura figurativa contemporanea provengono segnali ineludibili – gli odierni storici dell’arte non possono non tenerne conto – che ci inducono a muoverci in ben altra dire-zione rispetto alle indicazioni enunciate da Roberto Longhi nel-le sue ormai lontane Proposte per una critica d’arte (1950) alle quali ci riferivamo nell’appena citato Editoriale di «Horti Hesperidum» del 2011. Pensiamo, per esempio, a quanto si verificava in seno alla 55a Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Ve-nezia (2013), quando artisti e critici dovettero condividere il bi-sogno di ritrovare la fede – quella fede che, anticamente, era co-sì sconfinata – nel ‘potere’ delle immagini, e di ritrovare, ten-tando di recuperarla dal nostro passato, «l’idea che l’immagine

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sia un’entità viva, pulsante, dotata di poteri magici e capace di influenzare, trasformare, persino guarire l’individuo e l’intero universo»: d’altronde una tale idea non la si poteva affatto rite-nere estranea alla tradizione culturale da cui noi stessi prove-niamo nonostante che la modernità ‘illuministica’ abbia tentato di cancellarla, respingendola come vecchia, come appartenente a una «concezione datata, offuscata da superstizioni arcaiche»1. Così, persino sulle pagine del catalogo della stessa Biennale del ’13 (come pure su quelle dell’11, dove era fatta oggetto di rim-pianto addirittura la potenza mistica di cui in età medievale era capace la ‘luce’, contro il buio introdotto da una deprecata età dei ‘lumi’), l’urgenza di un rinnovato sguardo sul passato e sulla storia era già di per sé un fatto sorprendente e audace: tanto più se, per contrasto, ripensiamo all’altrettanto audace rifiuto del passato che lungo il XX secolo fu provocatoriamente mosso, in nome della modernità, da parte delle avanguardie e delle neo-avanguardie. Del resto, «la parola ‘immagine’ contiene nel suo DNA, nella sua etimologia, una prossimità profonda con il corpo e con la morte: in latino l’imago era la maschera di cera che i romani creavano come calco per preservare il volto dei defunti»2: ma visto che gli uomini del nostro tempo se ne sono dimenticati, serviva ricordare ai visitatori della Esposizione Internazionale che il misterio primigenio della scultura funeraria era, ed è, quel-lo «di opporre alla morte, all’orizzontalità informe, la vericalità e la rigidità della pietra»3. Di fronte a questa nuova disponibilità dei ‘contemporaneisti’ nei confronti della ‘storia’, gli storici dovrebbero, da parte loro, tornare a cercare nel contemporaneo le motivazioni della loro stessa ricerca. Sottratte alle rispettive dimensioni rituali, magi-che, funerarie, devozionali e religiose – quelle dimensioni che la civiltà moderna, multimediale e globalizzata ha tentato di annul-

1 La Biennale di Venezia. 55a Esposizione d’arte. Il palazzo enciclopedico, a cura di M. Gioni, Venezia, Marsilio, 2013, p. 25. 2 Ibidem, p. 25. 3 Ibidem, p. 26.

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lare definitivamente – le immagini sono diventate vuoti simula-cri, come paiono esserlo quando le si vedono esposte, scientifi-camente classificate, dietro le vetrine o dentro le sale dei musei al cui interno esse hanno finito per arricchirsi di significati nuo-vi, certo, ma diversi da quelli che molte di esse possedevano al tempo in cui – citiamo sempre dal catalogo dell’esposizione del ’13 – «magia, miti, tradizioni e credenze religiose contavano quanto l’osservazione diretta della realtà»4.

4 Ibidem, p 28.

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L’ARTISTA POST-HUMAN

NEL RAPPORTO TRA UOMO E MACCHINA

ALESSIA DE PALMA

Il panorama del nostro tempo ci offre svariate e inedite riprove del rapporto, sempre strettissimo, tra ‘arte’ e ‘scienza’, tra ‘uo-mo’ e ‘macchina’. Tanto più se teniamo conto dell’attenzione spropositata che le generazioni giovanili manifestano nei con-fronti della ‘corporeità’: appare, infatti, evidente come l’uso oggi così diffuso di piercing, tatuaggi e operazioni di chirurgia estetica rispecchi un disagio profondo nei confronti dell’immagine del proprio corpo, ma nello stesso tempo implichi atteggiamenti esibitamente narcisistici. Del resto, già alla produzione artistica del secolo precedente erano noti i comportamenti per così dire di ‘devianza’ nei riguardi dell’accettazione del proprio corpo, in relazione ai complessi meccanismi psicologici che portano all’autolesionismo, all’anoressia, alla depressione, all’obesità, alle varie dipendenze, fino al punto da vedere il corpo dell’uomo

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come «la zona di confine dell’identità tra l’io e l’altro, tra una cultura e l’altra, tra il reale ed il virtuale»1. Per chiarire il senso di questa ultima constatazione, vogliamo ora esaminare alcuni casi di performances riconducibili alla corren-te artistica Post-Human, che appaiono giocati su di una inestrica-bile commistione tra vita umana e congegni elettronici, tra bio-logia e tecnologia. Il termine Post-Human in ambito artistico è stato coniato nel 1992 dal gallerista e curatore americano Jeffrey Deitch che così intese riferirsi a un proprio allestimento esposi-tivo che comprendeva esperimenti di manipolazione del reale, di trasformazione dal naturale all’artificiale2. In definitiva Post-Human vuole indurre lo spettatore a interrogarsi sul tema della ‘manipolazione’ continua e spesso violenta che viene praticata sul corpo. Per esempio, le ‘trasformazioni’ cyborg realizzate dal performance artist australiano Stelios Arcadiou in Limassol, in arte Stelarc, ri-sultano dall’utilizzo di ‘appendici’ tecnologiche, per così dire unite in simbiosi con il corpo umano in maniera reale, non si-mulate attraverso la finzione artistica. L’artista si serve di stru-menti medici, di protesi robotiche avvalendosi altresì di sistemi di realtà virtuale, di indagini biotecnologiche con cui, secondo il suo manifesto3, è possibile scrutare il corpo umano in maniera estremamente ravvicinata. Nelle sue performance l’artista ha messo a punto una sofistica-tissima tecnica di reti elettriche, collegate al proprio corpo attra-verso numerosi innesti artificiali impiantati chirurgicamente nel proprio corpo. Così, per circa un decennio, l’artista ha indossa-to un’appendice meccanica a forma di braccio, altamente tecno-logica, in parte da lui stesso progettata. Questo esperimento ar-tistico gli ha permesso di esibirsi in performance come Third hand

1 ALFANO MIGLETTI 1999, p.44. 2 POLITI, KANTOVA 1992. 3 Nel 1995, trecento tra artisti e scienziati hanno firmato il manifesto dell’arte e della cultura Transumanista. La dichiarazione è stata elaborata da Natasha Vita-More che ha ulteriormente istituito una dottrina poetica di espressione Transumanista. Cfr. MORE, VITA-MORE 2013.

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(1981-1994), in cui il suo ‘terzo braccio’ robotico poteva essere comandato, oltre che da una trazione muscolare da lui esercitata su di esso volontariamente, anche dai comandi a distanza che gli venivano impartiti dal pubblico attraverso dispositivi collegati ad internet, così da ritrovarsi l’artista succube di movimenti che non poteva rifiutarsi di eseguire (fig. 1). Certo, è ormai frequente l’uso di protesi anatomiche, special-mente nei casi di mutilazione. Fatto è che le intenzioni sottese alla proposta teorica stelarchiana risultano paradossali: le braccia sono tre, dunque non sembra esserci nessuna volontà di ristabi-lire una condizione originaria di ordine naturale; anzi, l’artista mira ad un superamento dell’ordine naturale, nella pragmatica espansione corporea inorganica, non per via di una semplice costruzione robotica separata, autonoma e controllata a distanza come potrebbero apparirci le strutture dei droni4, o dei cyborg5, ma attraverso una vera e propria estensione materiale innestata nella struttura originaria del proprio corpo, producendo un mi-sto di carne e di tecnologia che varca la soglia dell’umano, per come viene ancora tradizionalmente inteso6. Nella performance eseguita con il dispositivo Frectal Flesh (1995) l’artista non collega al computer esclusivamente il suo braccio meccanico, ma tutto il suo corpo, dando così la possibi-lità al pubblico di interagire con esso per ricavarne in simultanea uno spettacolo di danza approssimativa e macabra, dove la co-reografia sembra comporsi di una misteriosa combinazione tra movimenti volontari ed involontari. Di fronte a tutto questo è inevitabile pensare agli antichi automi e alle macchine teatrali; ad esempio, il frenetico coordinamento di centinaia di elementi mobili che simultaneamente salivano e scendevano dai palchi nel teatro barocco, automatizzava, per così dire, il ruolo degli attori i quali, sollevati a suon di musica e

4 I droni sono velivoli privi di pilota che possono essere comandati a distanza. 5 Il Cyborg nell’epoca attuale è un’intelligenza artificiale che può avere fattezze an-tropomorfe o polimorfe e che risulta programmato per compiere mansioni al servizio dell’uomo. 6 POPPER, 1983.

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fluttuanti nell’aria, recitavano per lo più la parte delle marionette manovrate da un groviglio di attrezzature e da occulti macchini-sti7. Tali rappresentazioni erano, in passato come oggi, in grado di comporre metafore, di trasmettere la sensazione di possedere una nuova straordinaria libertà di movimento, unita però alla paura di subire una schiacciante oppressione da parte del mezzo meccanico8. Il confronto che vorremo attuare tra le varie ricerche performa-tive presenti nel panorama artistico contemporaneo mira a indi-viduare quali tra queste stiano effettivamente spingendosi oltre le metodologie note, che si tratti quindi di opere in grado di in-globare linguaggi diversi come la recitazione, la pittura, la scena cinematografica, la danza oppure la sperimentazione tecnologi-ca, dove il corpo venga utilizzato in contiguità con il mezzo meccanico, al solo fine di potenziare le esperienze sensoriali. Esiste insomma una terra di frontiera tra performance e new media, per tanti anni rimasta marginale rispetto agli spazi dominati dal-le avanguardie. Il performer artist catalano Marcel Lì Antunez Roca è presente sulla scena internazionale dal 1990; fondatore e direttore della compagnia teatrale spagnola La Fura dels Baus9, con cui ha ap-profondito l’indagine elettronica nei confronti delle immagini del corpo e della drammaturgia, arrivando così a definire, con un termine da lui coniato, la ‘sistematurgia’10. Per la compagnia La Fura dels Baus la ‘sistematurgia’ viene inte-sa come una complessa relazione tra le tecnologie, che durante lo spettacolo vengono dominate da un performer insieme agli spettatori. Si tratta di un contesto scenico del tutto inedito, drammatizzato dalla presenza di sistemi digitali interattivi che, elaborati artisticamente, realizzano effetti di forte impatto emo-tivo oltre che visivo. Ne deriva uno spettacolo razionale e fero-

7 BATTISTI 2001, pp.107-108. 8 BATTISTI, SACCARO 1985, pp. 31-33. 9 CORÀ, BELLASI 2009. 10ZANELLA, PRATI, BROGGINI 2007.

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ce al tempo stesso, dove entrano pure in gioco diversi simboli e rebus che tengono direttamente impegnato il pubblico. Durante le performance del gruppo, il corpo umano sembra coesi-stere in perfetta simbiosi con i software presenti. Al pubblico vie-ne proposto di indossare delle interfacce meccaniche, i cosid-detti ‘esoscheletri’, protesi in grado di pilotare la scenografia vi-siva e l’impianto sonoro, oppure di telecomandare degli enormi robot che diventano spesso i protagonisti dello spettacolo. Il gruppo artistico arreda con tutti questi elementi un luogo fan-tastico che interagisce con chi lo abita, ricreando così una specie di piscina onirica nella quale, in un certo qual modo, ci si può immergere anche da svegli. La video-animazione Protomembrana (2006)11 ci illustra accurata-mente i procedimenti di ‘sistematurgia’ e di drammaturgia che il collettivo ci propone. In particolare, vi si osserva come l’impianto narrativo di storie fantastiche, accompagnato da un’animazione grafica, si sviluppi lungo quattro capitoli: 1) In-troduzione o Storia di Martín; 2) Le Interfacce o Storia del gesto; 3) Il calcolo o Lucía e il gatto e 4) Il Medium o le cinque membrane tipiche del-la novela latina (fig.2). Gli episodi vengono ‘interpretati’ dal dreskeleton indossato dal performer, che è in grado di catturare le immagini e i suoni che gli si interpongono per modificarli, ri-producendoli attraverso proiezioni multimediali. Ciò che alla fine ne risulta è un montaggio delle immagini degli stessi spetta-tori e dei performer, catturate da dispositivi elettronici e successi-vamente inserite (attraverso altri meccanismi tecnologici) all’interno di un flusso ‘narrativo’ prodotto dai disegni dell’artista, prima sviluppati su un modello cartaceo e successi-vamente ‘animati’ attraverso supporti informatici software per es-sere riutilizzati nell’opera. L’elemento musicale, le luci e gli altri elementi scenici presenti nel teatro o nel museo, vengono trattati come accessori interat-tivi, telecomandati dallo stesso Marcel Lì Antunez, presente sul-la scena nei panni, per così dire, di un esoscheletro meccanico

11 CORÀ, BELLASI 2009.

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di sua invenzione, il dreskeleton (fig. 3), che, stando in piedi, di fronte ad un pannello di controllo collegato a diversi computer, gli permette di condurre la regia di uno spettacolo che per buo-na parte è frutto di improvvisazione. Le pratiche artistiche utilizzate da questo collettivo consistono, quindi, principalmente, nell’animazione grafica e nel suono inte-rattivo manipolato attraverso software ed hardware, e nella produ-zione di scene teatrali che compongono la storia attraverso ulte-riori immagini registrate dal video streaming e dal dreskeleton12 du-rante l’esecuzione della performance, le quali compaiono montate in maniera sincronica all’interno della narrazione. Attraverso l’ausilio di complessi sistemi informatici di calcolo, diventa possibile narrare più storie in simultanea, così da tra-sformare, continuamente e imprevedibilmente, la rappresenta-zione scenica.

12 Il dreskeleton è un’interfaccia corporea creata ed indossata dall’artista Marcel Lì Antunez Roca durante le sue esibizioni. Essa è dotata di connessioni multiple che sfruttano software di montaggio audio-video e reti elettriche per costruire una storia che può essere autonomamente manipolata, pilotando più contenuti multimediali e più supporti contemporaneamente.

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Bibliografia ALFANO MIGLETTI 1999 = F. ALFANO MIGLETTI, Identità Mutanti,

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L’ARTISTA POST-HUMAN

Horti Hesperidum, V, 2015, II 2 113

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