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XVII Congresso Nazionale AIV – Associazione Italiana di Valutazione – Napoli, 10-11 aprile 2014 “Per una cultura della valutazione: competenze professionali, pratiche democratiche e trasformazioni federaliste in Italia e in Europa” – Sessione: “Valutare i nuovi welfare” © Claudio Torrigiani – Università degli Studi di Genova 1 L’efficacia del trattamento delle dipendenze in Comunità terapeutica. Riflessioni da uno studio di caso Di Claudio Torrigiani 1 Abstract La cronica carenza di risorse economiche disponibili per il finanziamento del nostro sistema di Welfare, oltre a stimolare l’introduzione di apparati valutativi che consentano di qualificare e quantificare l’efficacia degli interventi di policy per ottimizzare l’impiego di tali risorse, ha da tempo indotto anche gli stessi soggetti attuatori delle politiche per conto delle PA ad interrogarsi su questi temi. Sono sollecitati in questa direzione specialmente gli enti che si occupano di soggetti molto fragili per favorirne l’inclusione sociale e lavorativa, in quanto gli interventi necessari in tali circostanze sono solitamente molto lunghi – ponendo problemi di efficienza – e molto tortuosi – lasciando dubbi e perplessità sull’efficacia degli stessi. Tra le policy che si caratterizzano in questi termini rientrano certamente gli interventi comunitari rivolti a persone con problemi di dipendenza. Tra le comunità terapeutiche che operano in Liguria ve n’è una con cui chi scrive sta collaborando che, fin dal 1973, si occupa di emarginazione giovanile, con particolare attenzione al recupero e reinserimento di tossicodipendenti e di prevenzione di comportamenti auto ed etero distruttivi. La Cooperativa sociale cui tale Comunità terapeutica fa capo ha da tempo avviato una riflessione generale inerente la valutazione dei servizi erogati ed ha recentemente promosso un percorso di ricerca finalizzato alla valutazione degli outcome prodotti dalla Comunità, che offre i suoi servizi a persone maggiorenni di ambo i sessi con problemi di abuso e dipendenza da sostanze e alcol. Il percorso riabilitativo tipico, che si rifà al modello del “Progetto Uomo”, prevede una prima fase di analisi della domanda, seguita da 3 moduli che iniziano dall’accoglienza, finalizzata all’aumento motivazionale al cambiamento, fino al reinserimento sociale, nel quale l’utente viene accompagnato nel suo percorso di reingresso nella società. A tale percorso si sono recentemente affiancati moduli brevi finalizzati a esigenze specifiche anche in relazione alle richieste del SerT. Il lavoro di ricerca valutativa qui sommariamente presentato ha preso le mosse da un’analisi della nutrita letteratura in materia relativa sia alle politiche sociali e sanitarie in generale che agli interventi sulle dipendenza in particolare. Il trattamento delle dipendenze è stato inquadrato nell’ampio alveo delle politiche attive – che richiedono l’attivazione dei destinatari per portare ad effetto gli obiettivi dell’intervento attuato – specificando il concetto di attivazione dell’individuo nei termini dei cambiamenti che lo interessano quanto a conoscenze, opinioni, atteggiamenti e motivazioni che, a loro volta, tendono a orientare il suo comportamento. Questo filo di ragionamento porta a problematizzare il rapporto tra processo attuativo e realizzazioni, risultati e impatti delle politiche, conducendo direttamente a rintracciare quale cardine teorico della riflessione la valutazione guidata dalla teoria del programma e nella valutazione realista. Su tali basi il percorso di ricerca è proseguito con un’analisi qualitativa che, attraverso interviste semi-strutturate, ha tentato di mettere in evidenza le caratteristiche del sistema dei servizi per le dipendenze a livello locale, evidenziandone in particolare l’organizzazione e il rapporto tra enti pubblici ed enti del privato sociale deputati all’attuazione degli interventi di comunità. Successivamente è stato avviato con i referenti e gli operatori della Comunità terapeutica un approfondimento qualitativo – svolto prima individualmente e poi in gruppo – finalizzato ad individuare indicatori di processo e di risultato condivisi e a costruire in modo partecipato strumenti di valutazione per monitorare i processi e il raggiungimento dei risultati – in particolare di quelli intermedi – da parte degli utenti della Comunità. Il lavoro – tutt’ora in corso – è proseguito con la somministrazione periodica degli strumenti da parte degli operatori e l’elaborazione e l’analisi dei dati condivisa dal valutatore con referenti e operatori della Comunità. I risultati sembrano mettere in evidenza alcune criticità negli assunti alla base dell’intervento valutato, sia sotto il profilo dei 1 Ricercatore presso l’Università degli Studi di Genova ([email protected]).

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federaliste in Italia e in Europa” – Sessione: “Valutare i nuovi welfare”

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L’efficacia del trattamento delle dipendenze in Comunità terapeutica. Riflessioni da uno studio di caso Di Claudio Torrigiani1 Abstract La cronica carenza di risorse economiche disponibili per il finanziamento del nostro sistema di Welfare, oltre a stimolare l’introduzione di apparati valutativi che consentano di qualificare e quantificare l’efficacia degli interventi di policy per ottimizzare l’impiego di tali risorse, ha da tempo indotto anche gli stessi soggetti attuatori delle politiche per conto delle PA ad interrogarsi su questi temi. Sono sollecitati in questa direzione specialmente gli enti che si occupano di soggetti molto fragili per favorirne l’inclusione sociale e lavorativa, in quanto gli interventi necessari in tali circostanze sono solitamente molto lunghi – ponendo problemi di efficienza – e molto tortuosi – lasciando dubbi e perplessità sull’efficacia degli stessi. Tra le policy che si caratterizzano in questi termini rientrano certamente gli interventi comunitari rivolti a persone con problemi di dipendenza. Tra le comunità terapeutiche che operano in Liguria ve n’è una con cui chi scrive sta collaborando che, fin dal 1973, si occupa di emarginazione giovanile, con particolare attenzione al recupero e reinserimento di tossicodipendenti e di prevenzione di comportamenti auto ed etero distruttivi. La Cooperativa sociale cui tale Comunità terapeutica fa capo ha da tempo avviato una riflessione generale inerente la valutazione dei servizi erogati ed ha recentemente promosso un percorso di ricerca finalizzato alla valutazione degli outcome prodotti dalla Comunità, che offre i suoi servizi a persone maggiorenni di ambo i sessi con problemi di abuso e dipendenza da sostanze e alcol. Il percorso riabilitativo tipico, che si rifà al modello del “Progetto Uomo”, prevede una prima fase di analisi della domanda, seguita da 3 moduli che iniziano dall’accoglienza, finalizzata all’aumento motivazionale al cambiamento, fino al reinserimento sociale, nel quale l’utente viene accompagnato nel suo percorso di reingresso nella società. A tale percorso si sono recentemente affiancati moduli brevi finalizzati a esigenze specifiche anche in relazione alle richieste del SerT. Il lavoro di ricerca valutativa qui sommariamente presentato ha preso le mosse da un’analisi della nutrita letteratura in materia relativa sia alle politiche sociali e sanitarie in generale che agli interventi sulle dipendenza in particolare. Il trattamento delle dipendenze è stato inquadrato nell’ampio alveo delle politiche attive – che richiedono l’attivazione dei destinatari per portare ad effetto gli obiettivi dell’intervento attuato – specificando il concetto di attivazione dell’individuo nei termini dei cambiamenti che lo interessano quanto a conoscenze, opinioni, atteggiamenti e motivazioni che, a loro volta, tendono a orientare il suo comportamento. Questo filo di ragionamento porta a problematizzare il rapporto tra processo attuativo e realizzazioni, risultati e impatti delle politiche, conducendo direttamente a rintracciare quale cardine teorico della riflessione la valutazione guidata dalla teoria del programma e nella valutazione realista. Su tali basi il percorso di ricerca è proseguito con un’analisi qualitativa che, attraverso interviste semi-strutturate, ha tentato di mettere in evidenza le caratteristiche del sistema dei servizi per le dipendenze a livello locale, evidenziandone in particolare l’organizzazione e il rapporto tra enti pubblici ed enti del privato sociale deputati all’attuazione degli interventi di comunità. Successivamente è stato avviato con i referenti e gli operatori della Comunità terapeutica un approfondimento qualitativo – svolto prima individualmente e poi in gruppo – finalizzato ad individuare indicatori di processo e di risultato condivisi e a costruire in modo partecipato strumenti di valutazione per monitorare i processi e il raggiungimento dei risultati – in particolare di quelli intermedi – da parte degli utenti della Comunità. Il lavoro – tutt’ora in corso – è proseguito con la somministrazione periodica degli strumenti da parte degli operatori e l’elaborazione e l’analisi dei dati condivisa dal valutatore con referenti e operatori della Comunità. I risultati sembrano mettere in evidenza alcune criticità negli assunti alla base dell’intervento valutato, sia sotto il profilo dei

1 Ricercatore presso l’Università degli Studi di Genova ([email protected]).

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processi che sotto quello dei risultati ma anche l’utilità della valutazione come strumento di riflessività a disposizione degli operatori anche per favorire il confronto continuo sui presupposti dell’agire quotidiano e sugli effetti che esso produce sui destinatari dell’intervento. 1. Quadro teorico e metodologico e letteratura di riferimento La letteratura scientifica inerente la valutazione delle politiche e dei servizi sociali in generale2 e di quelli inerenti il trattamento delle dipendenze in particolare3 è piuttosto ricca. Qui di seguito riprendo (Torrigiani, 2012a) alcune problematiche metodologiche generali e una ricognizione sulla linee guida internazionali in materia e sulle ricerche già effettuate in ambito internazionale. A conclusione del paragrafo vengono illustrati gli obiettivi del percorso di valutazione che in corso di realizzazione presso una Comunità terapeutica operante nel Comune di Genova. 1.1 Questioni teorico-metodologiche generali Come ho avuto modo di sottolineare recentemente (Torrigiani, 2012a), il trattamento delle tossicodipendenze, in modo particolare quello attuato in comunità terapeutica, va inquadrato nella grande famiglia delle politiche attive, cioè di quelle politiche che richiedono l’attivazione dei destinatari. Solitamente gli operatori affrontano tale questione utilizzando il termine motivazione, come a sottintendere che la disponibilità di un certo tipo di intervento sia una premessa sufficiente per l’attivazione dei destinatari potenziali dello stesso e comunque riversando implicitamente a priori sull’utente la responsabilità per l’eventuale insuccesso del trattamento. Questa considerazione, solo apparentemente provocatoria nei confronti degli operatori, induce a riflettere sulla plausibilità del nesso tra le politiche implementate e l’effettiva attivazione dei destinatari delle stesse. Il riferimento all’attivazione4 del destinatario di un intervento rimanda ai cambiamenti che lo interessano in termini di conoscenze, opinioni, atteggiamenti e motivazioni che, a loro volta, tendono a orientare il suo comportamento. La politica pubblica parte sempre dalla definizione di un problema collettivo rispetto al quale si pone di raggiungere entro un certo tempo obiettivi generali misurabili grazie a indicatori operazionalizzati in termini di dati aggregati osservabili. Ma per osservare in futuro la riduzione del dato aggregato è necessario modificare ora comportamenti individuali. I meccanismi di attivazione rimandano all’interazione tra la politica pubblica implementata e l’attivazione del destinatario e all’eventualità che la prima possa (o meno) indurre l’attivazione del secondo. Questo filo di ragionamento ci aiuta a problematizzare il rapporto tra processo attuativo e realizzazioni, risultati e impatti delle politiche e ci conduce direttamente alla valutazione guidata dalla teoria del programma. La valutazione delle politiche pubbliche, infatti, può (e dovrebbe) dare un contributo al miglioramento sociale (Owen e Rogers, 1999) grazie alle conoscenze che è in grado di produrre sull’implementazione delle politiche e sui loro effetti e la teoria del programma è uno strumento prezioso che il valutatore può utilizzare per produrre e sistematizzare tali conoscenze. 1.1.1 La valutazione guidata dalla teoria del programma

2 Palumbo, 2001; Bezzi, 2001, 2010; De Ambrogio, 2003; Tomei, 2004; Bertin, 2007, 2009; Corposanto, 2007; Campanini, 2006; Ciucci, 2008; Palumbo e Torrigiani, 2009; Torrigiani, 2010; Palumbo, 2011. 3 Sorio, 1995; Fagioli e Ugolini, 1996; Morandi, 1989, 1993, 2006; Serpelloni, De Angeli e Rampazzo, 2002; Serpelloni, Macchia e Mariani, 2006; Sorio e Morandi, 2001; Ugolini e Giannotti, 1998; Ugolini, 2005, Bezzi e Morandi, 2007; Cipolla, 2007; Casciani e Masci, 2007; Serpelloni, Mollica e Rimondo, 2011. 4 Preferisco utilizzare il solo termine ‘attivazione’ che in quanto concetto ‘dinamico’ implica già il riferimento a un ‘processo’ rendendo ridondante l’espressione ‘processo di attivazione’.

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Ho già avuto modo di sottolineare (Torrigiani, 2010) la valutazione guidata dalla teoria si fonda sulla constatazione che la policy5 oggetto di valutazione è caratterizzata dalla «presunzione, implicita o esplicita, fondata sulla scienza o sul senso comune, che all’attuazione di un intervento o all’erogazione di un servizio siano connessi determinati effetti, che giustificano l’investimento di tempo e risorse in quell’intervento o servizio [corsivo mio]» (Palumbo, 2001, p. 228): esiste un nesso causale tra l’implementazione e il verificarsi degli effetti attesi. Tale presunzione è però temperata dalla consapevolezza che, nel mondo reale, è pressoché impossibile controllare tutte le condizioni potenzialmente influenti sul dipanarsi degli effetti ipotizzati; ciò impone di soppesare con attenzione qualunque assunto causale e di sottoporlo a controllo empirico (Bhaskar, 1997; Sanderson, 2000, 2002; Callaghan, 2008) tanto più se facciamo nostra la nozione di causalità generativa alternativa a quella classica di causalità sequenziale (cfr. in questo senso Elster e Coleman). L’approccio alla valutazione guidato dalla teoria del programma ha proprio la finalità di: - esplicitare le assunzioni sottostanti sul perché un programma dovrebbe funzionare; - seguire tali assunzioni attraverso la raccolta e l’analisi dei dati in una serie di fasi; - osservare se gli eventi che si pensava avrebbero avuto luogo nel programma si sono poi

effettivamente realizzati (Weiss, 2000; Stame, 2001) e, ove opportuno, quali altri effetti intenzionali o meno, rilevanti per le finalità dell’intervento si sono verificati.

I fautori di questo approccio ritengono che esplicitare la teoria del programma nella fase di avvio della sua valutazione (anche ex post) sia un passaggio necessario, poiché: - sia nel caso in cui le finalità e gli obiettivi non siano connessi in modo ragionevole con le

condizioni sociali problematiche da cui la policy trae origine, - sia nel caso in cui non risultino credibili le assunzioni e le aspettative relative:

� ai modi di funzionamento del programma, � al modo in cui i servizi vengono forniti, � al modo in cui dall’erogazione del servizio dovrebbero derivare risultati e impatti sui

destinatari e sul contesto, non è plausibile che il programma possa essere efficace ed è perciò poco sensato procedere alla sua valutazione. Esplicitare la teoria del programma e validarla è necessario perché solo così il valutatore e gli stakeholder possono accertare la valutabilità6 della policy e conseguire i primi importanti apprendimenti relativi a quali siano le dimensioni rilevanti della vita delle persone interessate su cui essa incide e a quali siano le eventuali modifiche necessarie al suo miglioramento7 (Rossi, Lipsey e Freeman, 2004). Nell’ambito di una valutazione guidata dalla teoria del programma il primo compito consiste dunque nello sviluppare un frame concettuale che espliciti come il programma valutato intende risolvere il problema sociale da cui ha tratto origine (Donaldson, 2007). La teoria del programma infatti spiega perché il programma prevede certe azioni (e non altre) e rende palese il fondamento logico in virtù del quale è ragionevole aspettarsi che tali azioni portino a conseguire i risultati desiderati (Rossi, Lipsey e Freeman, 2004). Tra le diverse definizioni8 di teoria del programma alcune si focalizzano sul processo di implementazione, mentre altre mettono in maggiore evidenza il legame tra il programma e gli

5 Politiche pubbliche nel loro complesso, programmi specifici, singoli progetti, servizi ecc… 6 Non a caso Rossi, Lipsey e Freeman (2004) trattano la teoria del programma in un capitolo del loro noto volume dedicato all’evaluatibility assessment e, in tal senso, fanno specifico riferimento a un articolo di Wholey (1979). 7 In questo senso alcuni aspetti possono emergere anche solo dall’esplicitazione della teoria del programma e prima della valutazione vera e propria, ad esempio quando emergano delle macroscopiche incongruenze tra la teoria del programma percepita dagli attuatori e quella percepita dai destinatari. 8 Bickman definisce la ‘teoria del programma’ come «la costruzione di un modello plausibile e sensibile di come si suppone che un programma funzioni» (Bickman, 1987). Lipsey, dal canto suo, definisce la teoria del programma come «una serie di proposizioni riguardo a cosa avviene nella black box durante la trasformazione degli input in output; ossia come una situazione negativa sia trasformata in una situazione migliore grazie agli input di trattamento» (Lipsey, 1993,

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outcome attesi. La distinzione tra processo di implementazione e sequenza causa-effetto che lega l’implementazione agli outcome attesi è stata ben articolata e rappresentata da Rossi, Lipsey e Freeman (2004); gli Autori mostrano che un programma – che prevede certe azioni e per essere messo in opera presuppone determinate risorse finanziarie ed umane, richiede l’impiego di strutture e mezzi appropriati ecc… – di fatto non ‘prende vita’ se non nel contesto spazio temporale in cui, con la fornitura di servizi, avvengono le transazioni tra le diverse componenti appena menzionate coordinate nella fornitura dei servizi previsti, da un lato e la popolazione target effettivamente servita, dall’altro. Al contempo i destinatari potenziali del programma si muovono in un sistema complesso, in cui il programma trova spazio in quanto sottosistema e divengono destinatari reali solo nel contesto spazio temporale in cui interagiscono con i servizi forniti dal programma. Tale interazione tra destinatari reali e servizi implementati può avere come effetto delle modifiche nelle opinioni, nelle attitudini, nelle competenze, nelle motivazioni e, come conseguenza9, nei comportamenti dei destinatari e tali modifiche possono a loro volta essere la causa di ulteriori cambiamenti (vedi figura 1). Figura 1 – Rappresentazione analitica del processo di implementazione, dei legami tra implementazione e risultati e relative teorie specifiche

Fonte: adattato da Rossi, Lipsey e Freeman, 2004, p. 140

Gli Autori distinguono tre componenti specifiche della teoria del programma: 1. il piano di organizzazione del programma (organizational plan) è un insieme di proposizioni

relative a come le risorse finanziarie, le strutture e le attrezzature, il personale impiegato e le modalità di organizzazione e gestione del programma rendono possibile la fornitura dei servizi previsti;

2. il piano di utilizzo del servizio (service utilization plan) comprende le assunzioni inerenti il modo in cui la popolazione target viene raggiunta, il contatto con il servizio e la fornitura dello stesso vengono garantiti nella sequenza, nei modi e nei tempi previsti e, quando il servizio non è

p. 36). Donaldson definisce8 la teoria del programma come: «il processo attraverso cui si presume che le componenti del programma influenzino gli outcome e le condizioni a cui si ritiene che tali processi operino» (Donaldson, 2007, p. 22). 9 Come enunciato nella “legge dell’effetto indiretto” (Hansen e Mc Neal, 1996).

Transazioni tra le operazioni del programma e la popolazione servita

Sede, personale e attività del programma …

Interazione della popolazione con il sistema di fornitura

Popolazione target

Programma

Arena servizio

Piano di utilizzo del servizio

Piano di organizzazione del programma

Outcome prossimali

Outcome distali

Teoria dell’impatto

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più necessario o non è appropriato, il rapporto con il destinatario viene concluso. Queste due componenti rappresentare insieme la teoria del processo (program process theory10);

3. la teoria dell’impatto (program impact theory) contiene le assunzioni sul processo di cambiamento avviato dal programma e sul miglioramento di condizioni che ne risulta; essa delinea le sequenze causa-effetto attraverso le quali ci si attende che il programma produca i mutamenti nelle condizioni sociali cui era rivolto (Rossi, Lipsey e Freeman, 2004).

Sia la teoria del processo sia la teoria dell’impatto aiutano il valutatore ad impostare e condurre il disegno di valutazione. La prima aiuta a comprendere il disegno del programma e a inquadrare correttamente le domande valutative relative alla sua attuazione: il programma è (o è stato) implementato come previsto? In caso contrario, la valutazione degli outcome potrebbe essere fuorviante, attribuendo risultati insoddisfacenti al programma in quanto ipotesi di cambiamento (teoria dell’impatto), piuttosto che alla sua non corretta implementazione (teoria del processo). Per questo è importante assicurarsi che un programma sia stato implementato in modo appropriato prima di valutare se ha prodotto gli outcome previsti (Donaldson, 2007). La seconda aiuta a comprendere se il programma modifica atteggiamenti, opinioni e comportamenti dei destinatari come previsto11. L’utilità dello schema proposto da (Rossi, Lipsey e Freeman, 2004) è che esso mette ben in evidenza i vincoli che derivano all’implementazione del programma – e alla sua potenziale efficacia – dall’essere embedded in contesti organizzativi complessi che richiedono il coordinamento e la cooperazione di diversi attori sociali. Tale considerazione, che è valida anche quando si consideri una singola organizzazione, diviene ancor più rilevante quando le organizzazioni di riferimento sono due o più, come nel caso di politiche sociosanitarie che vedono nel coordinamento, nella cooperazione e nell’integrazione tra attori pubblici e attori dei privato sociale un presupposto ineludibile per la loro implementazione e ed efficacia. 1.1.2 La valutazione realista Altro cardine teorico della riflessione che consente di inquadrare meglio il problema dell’interazione tra policy e destinatario è rintracciabile nella valutazione realista12 di Pawson e Tilley (1997), i cui fondamenti metodologici sono ripresi da Pawson (2006) in un più recente volume dedicato alla evidence-based policy. La questione chiave è una: cosa funziona nella policy? Nell’approccio realista si opta per un modello di causalità generativa, il cui tratto fondamentale è quello di “cercare i poteri causali all’interno degli oggetti, degli agenti e delle strutture sotto osservazione” (Pawson, 2006, p. 21). Pawson evidenzia che “per i realisti, la causazione non è intesa come successione regolare di eventi e perciò non si basa sulla ricerca di tali regolarità [che] … al massimo potrebbero suggerire dove cercare candidati come meccanismi causali” (Sayer, 2000; cit. in Pawson, 2006, p. 21). Il modello di causalità generativa comprende tre componenti principali che sono: - i modelli di risultato: la evidence-based policy mira a scegliere un tipo di intervento sulla base

della constatazione che esso abbia una ragionevole probabilità di riprodurre i risultati positivi conseguiti altrove, ma considerato che nei programmi sociali non esistono panacee universali, per individuare connessioni causali abbiamo bisogno di comprendere quali siano i modelli di risultato piuttosto che cercare regolarità di risultato. La totalità dei risultati osservati può fungere da guida empirica iniziale per future localizzazioni ottimali (Pawson, 2006, p. 22).

10 La program process theory permette in sostanza di capire «come si arriva a produrre quei servizi o attività che costituiscono l’input o la causa da cui ci attendiamo i risultati del programma, in base alla teoria dell’impatto (corsivo mio)» (Palumbo, 2001, p. 335). 11 La costruzione delle diverse componenti della teoria del programma valutato attraverso processi partecipativi attentamente mediati dal valutatore può inoltre consentire agli attori inclusi di trarre apprendimenti rilevanti e di definire insieme possibili corsi di azione futuri configurando processi virtuosi di produzione di capitale sociale (Torrigiani, 2004; 2005; 2010). 12 Che rientra nel filone della valutazione guidata dalla teoria.

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Queste “uniformità maleducate” sono definite anche “demi-regolarità” (Lawson, 1997) che non devono scoraggiare lo studioso: le demi-reg infatti “mostrano che gli interventi funzionano selettivamente. Sono l’inizio della spiegazione causale” (Pawson, 2006, p. 23).

- i meccanismi generativi; nell’analisi realista i meccanismi sono “il motore della spiegazione”; a partire dalle demi-regolarità osservate “il meccanismo ci dice cos’è, nel sistema, a generare l’uniformità. Il meccanismo spiega la relazione causale descrivendo i ‘poteri’ inerenti quel sistema [...]. Il meccanismo spiega cos’è, nel sistema, a far accadere le cose” (ibidem). Ma nel caso dei programmi sociali, “cosa accade dentro di loro che può indurre le persone a cambiare? Quali sono i meccanismi generativi sottostanti?”. Pawson risponde che i programmi sociali “funzionano solo se le persone decidono di farli funzionare” (ibidem, p. 24). Il loro funzionamento dipende dal ragionamento dei soggetti coinvolti; qualunque sia l’intervento considerato esso “può funzionare come previsto solo se i soggetti vanno avanti con la teoria del programma e scelgono di utilizzare le risorse come previsto” (ibidem). E’ quindi necessaria un’indagine sempre più approfondita sul meccanismo generico di funzionamento, ossia “il meccanismo di scelta sotto lo stimolo delle risorse del programma” (ibidem). Il riferimento al ragionamento dei soggetti coinvolti nel programma implementato ci fa pensare immediatamente alla loro attivazione o, viceversa, mancata attivazione cui abbiamo fatto riferimento sopra.

- le condizioni di contesto. Nell’approccio realista alla comprensione della relazione causale il contesto è il “concetto partner” del meccanismo. Il nesso di causalità occorre solo se è all’opera un meccanismo generativo, ma scoprire il meccanismo in azione è solo metà dell’impresa, poiché “l’associazione tra l’operare del meccanismo e il verificarsi del risultato atteso non è fissa. Piuttosto, i modelli di risultato sono condizionati dal contesto” (ibidem). I programmi sociali sono inseriti, per definizione, entro condizioni pre-esistenti che ne limitano il successo potenziale ponendo vincoli che “si nascondono in attesa di ogni programma” (ibidem, p. 25). In linea generale il modo di funzionamento del contesto è caratterizzato dal fatto di “vincolare le scelte degli stakeholder nell’ambito di un programma. I soggetti di un programma infatti si trovano sempre di fronte a una scelta, che però è limitata” (ibidem) da diversi fattori quali le loro caratteristiche pregresse, le loro relazioni preesistenti, il potere di cui dispongono o meno. C’è quindi sempre una scelta da parte dei soggetti, ma non un atto di libero arbitrio: i programmi fanno sempre i conti con scelte vincolate, situate in condizioni preesistenti che al pari degli stessi processi interni all’intervento considerato, determinano il saldo tra vincitori e vinti (ibidem).

In sintesi, dunque, - gli interventi mettono a disposizione delle risorse che attivano meccanismi di scelta (M), - tali meccanismi sono adottati selettivamente in conformità con le caratteristiche dei soggetti e

delle circostanze in cui si trovano (C), - questo processo dà luogo a una varietà di modelli di risultato (R). Figura 2 – Componenti base della spiegazione causale realista

Fonte: Pawson, 2006, p. 22

Contesto (C)

Risultato (R)

Meccanismo (M)

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Nel gergo realista le connessioni causali sono definite in termini di “configurazioni di contesto, meccanismo, risultato” e, sottolinea Pawson, questa impostazione – in cui “tutti e tre gli elementi devono essere considerati per affrontare la questione chiave, [ossia] cosa funziona?” – è in netto contrasto con la visione successionista, che privilegia la ricerca di “regolarità di risultati” (ibidem). Tutto ciò ha conseguenze affatto rilevanti per la ricerca valutativa, che per dirsi tale deve “affrontare la questione [relativa a] cosa funziona, per chi e in quali circostanze? [corsivo mio]” (ibidem). Pawson sottolinea che gli interventi sono attivi e che se pensiamo a come essi possano modificare le condizioni problematiche che affrontano, ci rendiamo conto che nella maggior parte dei casi ciò che innesca il cambiamento è il modo di ragionare dei destinatari dell’iniziativa, così “gli effetti sono generalmente prodotti dagli individui [stessi] e ne richiedono l’impegno attivo […] e il fatto che una policy sia attuata per mezzo di interventi attivi [indirizzati] a soggetti attivi ha implicazioni profonde per la metodologia della ricerca [corsivo mio]”, in particolare nel fatto che “la conoscenza del modo di ragionare [degli stakeholder] è parte integrante della comprensione dei risultati [degli interventi] [corsivo mio]” (ibidem, pp. 26-28). Ne consegue che, nel ricercare indizi del successo o viceversa dell’insuccesso degli interventi, alcuni elementi di spiegazione andranno ricercati proprio nel modo di ragionare e di reagire dei diversi stakeholder prima ancora che nelle modifiche eventualmente riscontrabili nei dati aggregati che hanno motivato l’inserimento del problema nell’agenda di policy. Il riferimento al contesto e alla relazione tra contesto e meccanismo è molto interessante in riferimento alla fase di disegno delle politiche e degli interventi, in quanto suggerisce che i diversi tipi di intervento, anche nell’ambito dello stesso contesto territoriale, possono e probabilmente dovrebbero essere modulati in relazione a specifici contesti sociali, se non addirittura personali, in un’ottica di personalizzazione degli interventi e di centralità dell’utente per favorire l’efficacia degli interventi stessi. Queste considerazioni sono molto interessanti per la valutazione degli interventi nell’ambito delle dipendenze ove si consideri ad esempio come negli ultimi anni si siano diversificati i profili dei destinatari degli interventi (nuove tipologie di dipendenza, nuove sostanze, poli-assunzione, doppia diagnosi, abbassamento dell’età di insorgenza …) o come possa essere diverso il background culturale nel caso di utenti provenienti in comunità terapeutica dal carcere in pena alternativa. 1.2 Linee guida internazionali per la valutazione del trattamento delle tossicodipendenze Nelle linee guida dell’OMS per la valutazione del trattamento delle tossicodipendenze (OMS, OEDT e UNDCP, 200613) leggiamo che alcune tipiche domande cui dovrebbe rispondere la valutazione dell’outcome sono, ad esempio: - la qualità di vita degli utenti è migliorata grazie al trattamento? - il trattamento ha indotto una riduzione nella quantità/frequenza di uso di sostanze psicoattive? - la partecipazione dell’utente al trattamento è la causa del miglioramento (eventualmente)

riscontrato? La necessità di una valutazione dell’outcome è ricondotta alla constatazione già sopra richiamata che se anche gli utenti mostrano un miglioramento dopo aver fruito del trattamento, non significa necessariamente che sia stato proprio il trattamento a determinare questi cambiamenti che potrebbero invece essere spiegati da altri eventi che hanno avuto luogo durante o dopo il trattamento, dalla maturazione dell’utente o da una variazione (positiva o negativa) legata alla situazione contingente dell’utente piuttosto che al trattamento valutato. Dal punto di vista metodologico vengono richiamati pregi e limiti dei disegni sperimentali e quasi-sperimentali oltre ad altre questioni inerenti: la selezione degli utenti, la dimensione del campione,

13 Riprodotto da Marsden, Ogborne, Farrell e Rush, (2000).

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il tempo e la frequenza del follow-up, la preparazione ed il reperimento dell’utente per le interviste di follow-up, la conduzione delle interviste di follow-up, la selezione e la formazione degli intervistatori. Per quanto riguarda la scelta degli indicatori di outcome vengono menzionate tre macro aree di indagine che sono: a) la riduzione del consumo di sostanze psicoattive, b) il miglioramento della funzione personale e sociale, c) la riduzione dei rischi nell’ambito della salute pubblica e della sicurezza. Gli Autori sottolineano che nel condurre una valutazione di outcome “è importante sviluppare una teoria o quantomeno un quadro di riferimento per rendere conto del perché un processo di trattamento produce l’outcome misurato… le valutazioni di processo sono il partner naturale della valutazione di outcome e una valutazione di outcome di buona qualità dovrebbe sempre avere una componente di processo [corsivo mio]” (Marsden, Ogborne, Farrell e Rush, (2000, p. 18). 1.3 Ricerche internazionali e cenni sulle riflessioni e le ricerche nazionali14 1.3.1 Ricerche internazionali In un’ampia revisione della letteratura scientifica sulle ricerche internazionali nell’ambito della valutazione dell’outcome e del processo di trattamento delle tossicodipendenze Bertoncelli e Serpelloni (200615) riportano l’esperienza realizzata negli Stati Uniti a partire dalla fine degli anni ’60 del secolo scorso nell’ambito dei progetti nazionali di ricerca promossi e finanziati dal NIDA (National Institute Drug Abuse) e quella promossa in Gran Bretagna dal Department of Health Task Force. Le ricerche statunitensi – che hanno tutte come obiettivo la valutazione degli esiti dei programmi di trattamento – sono l’una la naturale evoluzione della precedente, anche in ragione dell’evoluzione storico sociale generale e del fenomeno della tossicodipendenza in particolare. Nell’ambito di tali studi sono presi in considerazione programmi terapeutici di varia natura: - trattamenti ambulatoriali con metadone a mantenimento; - trattamenti residenziali in strutture e comunità terapeutiche (talora distinti in trattamenti a breve

e lungo termine); - trattamenti ambulatoriali drug-free; - trattamenti di disintossicazione. La prima ricerca statunitense denominata DARP (Drug Abuse Reporting Program) è stata condotta tra il 1969 e il 1972 su 43.943 utenti inseriti in 139 programmi terapeutici erogati da 52 enti di riabilitazione, introducendo anche la comparazione con un gruppo di persone che hanno completato le procedure di ammissione ma che successivamente non hanno ricevuto il trattamento. I dati sono stati raccolti all’avvio e durante il trattamento e, successivamente, studi di follow-up hanno seguito gli utenti fino a 12 anni dopo il termine del trattamento. Il progetto DARP è caratterizzato da una prospettiva di tipo longitudinale e si basa su un processo complesso di raccolta di dati che mettono in primo piano non solo la diversa natura dei programmi riabilitativi, ma anche il loro funzionamento nei diversi contesti territoriali, anticipando in questo senso almeno in parte la proposta metodologica di Pawson e Tilley (1997) sintetizzata dagli Autori nella “formula” prima richiamata (M + C = O). Per una sintesi dei risultati16 di questo progetto di ricerca si rimanda a De Angeli e Serpelloni (2002, p. 117)

14 Buona parte di questo paragrafo riprende e sintetizza i lavori di De Angeli e Serpelloni (2002) e di Bertoncelli e Serpelloni (2006) citati nel testo. 15 Il testo riprende e aggiorna quello precedentemente pubblicato da De Angeli e Serpelloni (2002). 16In estrema sintesi: a seconda del tipo di trattamento, dopo 12 mesi tra il 55% e il 65% il 64% dei pazienti non ricorre più all’ uso degli oppiacei; il tempo investito nel trattamento riabilitativo è il fattore predittivo più importante; il trattamento in comunità terapeutica riduce sia la dipendenza da sostanze psicotrope che i comportamenti criminali; a sei mesi dall’intervento il 61% del campione abbandona l’uso giornaliero di oppiacei per almeno un anno e la

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Il progetto di ricerca TOPS (Treatment Outcome Prospective Study) ha l’obiettivo di ampliare ed approfondire alcuni ambiti del progetto di ricerca DARP e di fornire una panoramica di studi specializzati. Nel quadro di questo progetto vengono raccolti dati relativi a 11.750 utenti inseriti in 41 programmi di trattamento tra il 1979 e il 1981, periodo in cui negli Stati Uniti si verificano cambiamenti importanti nei modelli di consumo e l’immissione nel mercato di nuove sostanze psicoattive, oltre alla diminuzione del consumo di eroina a favore della cocaina e del crack17. Il progetto di ricerca Methadone Maintenance Evalutation è condotto da John C. Ball e Alan Ross tra il 1995 e il 2000 in tre città statunitensi18. I dati utilizzati riguardano 633 pazienti appartenenti a 6 diversi programmi terapeutici basati sull’assunzione di metadone a mantenimento. Il tentativo dei ricercatori è determinare le componenti della cosiddetta “scatola nera del trattamento riabilitativo” per comprendere che cosa renda efficace un trattamento basato sul metadone rispetto ad un altro. Per ogni programma terapeutico, sono state raccolte informazioni sul contesto e sul programma stesso19. Per accertare l’efficacia dei trattamenti sono stati definiti specifici indicatori di risultato: - la misura in cui i comportamenti di abuso di sostanze sono diminuiti o scomparsi; - la misura in cui i comportamenti criminali sono diminuiti o scomparsi. I ricercatori hanno studiato in parallelo le caratteristiche dei programmi, il luogo e l’ambiente di attuazione e le caratteristiche dei fruitori. Sono inoltre state realizzate delle base-line comparative, relative a ciascun periodo della vita del paziente, per osservare il tipo di vita condotto dal paziente prima dell’ammissione al programma riabilitativo, le caratteristiche del comportamento di abuso durante l’ultimo periodo di dipendenza e i cambiamenti avvenuti nel comportamento di abuso durante il trattamento. Tra le variabili associate all’efficacia del trattamento20 sono incluse le caratteristiche del paziente21 nonostante queste abbiano un impatto minore se confrontate con le componenti del programma riabilitativo e le variabili di processo22. Il progetto DATOS (Drug Abuse Treatment Outcome Studies) condotto dal NIDA tra il 1989 e il 2003 utilizza dati raccolti su un campione di 10.010 utenti adulti che tra il 1991 e il 1993 hanno preso parte a uno dei 96 programmi terapeutici che hanno aderito al progetto in 11 città ritenute

partecipazione ai trattamenti successivi è associata a risultati migliori; chi segue programmi di disintossicazione ambulatoriale ottiene risultati meno rilevanti rispetto a chi è inserito in altri tipi di programmi (De Angeli e Serpelloni, 2002, p. 117). 17 Questo progetto evidenzia l’efficacia dei diversi tipi di trattamento nel ridurre l’uso giornaliero degli oppiacei e di altre sostanze illecite durante e dopo il trattamento, mette in luce i cambiamenti nei comportamenti di consumo delle sostanze psicotrope ed il fenomeno del poli-consumo. Evidenzia inoltre come gli utenti con problemi legali o costretti dall’apparato giudiziario ad entrare in trattamento tendano a rimanervi più a lungo. Emerge dallo studio l’efficacia dei programmi nel ridurre i comportamenti criminali e che i programmi di metadone a mantenimento caratterizzati da politiche di dosaggio flessibile, personale specializzato, frequente monitoraggio delle urine e servizi più complessi determinano nei pazienti un numero minore di ricadute. 18 New York City, Philadelfia e Baltimora. 19 In particolare informazioni relative all’ambiente di provenienza degli utenti, al numero di persone tossicodipendenti nel luogo di provenienza, le caratteristiche del programma terapeutico, la costituzione dello staff, le caratteristiche del servizio, i servizi di counseling e i servizi medici integrati offerti, le politiche sociali locali, le pratiche amministrative e le procedure. 20 I ricercatori mostrano che le analisi multivariate rappresentano il metodo migliore per rilevare quali variabili contribuiscono in misura maggiore ad esiti positivi. 21 Razza, età di inizio dei comportamenti di abuso, passato di tossicodipendente e comportamento criminale. 22 I risultati principali sono i seguenti: i trattamenti riabilitativi con metadone a mantenimento danno esito favorevole in pazienti che rimangono in trattamento almeno un anno; tra gli utenti che hanno compiuto in passato atti criminali il 79% di quelli che rimangono in trattamento almeno per sei mesi cessano tali comportamenti; nello studio di follow-up a cinque anni dalla conclusione del trattamento il 71% dei pazienti che sono rimasti più a lungo in trattamento metadonico a mantenimento non fa più uso di droghe per via iniettiva; i programmi di trattamento che danno esiti più favorevoli sono caratterizzati dalla possibilità di offrire percorsi riabilitativi basati sul mantenimento a lungo termine e prestazioni di counseling.

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rappresentative degli Stati Uniti. I dati relativi al trattamento sono raccolti al 3° e al 6° mese dall’avvio dello stesso, mentre quelli di follow-up sono rilevati a 12 mesi dal termine23. Nell’ambito di questo programma vengono studiati in particolare: - gli esiti dei trattamenti e come essi sono associati alle diverse fasi della tossicodipendenza e del

trattamento stesso; - l’evoluzione del sistema dei servizi di trattamento, inclusa l’erogazione e l’utilizzazione del

servizi primari e accessori; - le componenti che rendono efficaci i trattamenti, inclusi i fattori che favoriscono l’accettazione

e il mantenimento del programma terapeutico da parte degli utenti. Per quanto riguarda gli strumenti di ricerca il progetto ha previsto la somministrazione di interviste all’avvio del trattamento e successivamente dopo 1, 3 e 6 mesi con la raccolta di dati di diverso tipo24. Le interviste di follow-up sono state somministrate a 12 mesi dal termine del trattamento e a 24 mesi per le persone in trattamento con metadone. Sono inoltre stati somministrati ai responsabili e agli operatori di 75 dei 96 programmi aderenti questionari relativi ai processi del trattamento con domande relative a: natura del programma, struttura terapeutica, filosofia del servizio, disponibilità dei servizi, politica, composizione dello staff, pianificazione del trattamento e tipo di cura somministrata. La ricerca NTORS (National Treatment Outcome Research Study), che prende spunto dagli studi sopra richiamati e condotti negli Stati Uniti, è un importante studio longitudinale di valutazione dell’outcome condotto in Gran Bretagna tra il 1995 e il 2000 dal Dipartimento della Salute. Gli obiettivi principali dello studio sono: - monitorare i progressi dei pazienti inclusi nei programmi terapeutici; - conseguire una panoramica dei diversi programmi riabilitativi nell’ambito delle

tossicodipendenze; - produrre informazioni utili nel definire adeguate politiche sul consumo e abuso di sostanze. Nel 1995 sono stati raccolti dati provenienti da 1.075 utenti inclusi in 54 programmi riabilitativi riconducibili a 4 tipi: programmi residenziali; ricovero e programmi riabilitativi; programmi di comunità; trattamento con metadone a mantenimento e a scalare. La raccolta dei dati ha previsto tre richiami di follow-up dal termine del trattamento (a 1, 2 e 5 anni dalla dimissione) per monitorare l’evoluzione del paziente. I risultati di questo studio, benché simili a quelli riscontrati negli Stati Uniti, rilevano differenze relative al contesto socio-culturale e all’emergente consumo di stimolanti, amfetamine e crack oltre ai problemi legati alla dipendenza dall’alcool e all’assunzione di più sostanze (polidipendenza). Il progetto di ricerca DTORS (Drug Treatment Outcome Research Study) è uno studio longitudinale sulla valutazione dell’outcome dei trattamenti nel Regno Unito “e rappresenta un aggiornamento indispensabile dello studio NTORS, alla luce dei continui mutamenti nei pattern d’uso delle sostanze e dei diversi profili dei consumatori” (Bertoncelli e Serpelloni, 2006, p. 126)25.

23 Il campione di studio per il follow-up è costituito da un sottoinsieme di 3.147 utenti di cui 2.966 (pari al 70%) sono stati intervistati con successo. 24 Relativi a: caratteristiche demografiche dell’utente, tipo di impiego, curriculum vitae, condizioni di reddito, stile di vita, genitorialità, eventuali precedenti penali; condizioni generali di salute, stato di salute mentale e diagnosi psichiatrica; livello di uso e consumo di droghe e alcool prima del trattamento, sostanza utilizzata con maggior frequenza e tipologia della dipendenza, comportamenti a rischio di HIV; erogazione dei servizi e soddisfazione del cliente. 25 I principali risultati dello studio sono i seguenti: il trattamento è efficace nel ridurre i comportamenti pericolosi associati all’uso di droga; a prescindere dal tipo di trattamento e dal modo in cui viene erogato, la motivazione della persona è un elemento cruciale per il successo dell’intervento; il trattamento deve essere abbastanza flessibile da adattarsi ai bisogni differenziati degli utenti; l’accesso al trattamento attraverso il sistema giudiziario è altrettanto valido di altri canali; i benefici del trattamento sono superiori ai costi (Donmall et al., 2009).

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Di grande interesse anche il riferimento ai National Outcome Measurements (NOMs) del SAMHSA (Substance Abuse and Mental Health Services Administration), che nel 2001, in collaborazione con le organizzazioni governative degli Stati Uniti, ha creato un sistema a matrice che guida le attività dei servizi per il trattamento delle tossicodipendenze e per i disturbi mentali nella raccolta dei dati relativi ai propri programmi terapeutici. Sono stati introdotti 10 indicatori di outcome nazionali (National Outcome Measurements - NOMs) che si riferiscono a tre principali aree di valutazione: a) trattamento per disturbi mentali; b) trattamento per disturbi da abuso di sostanze; c) progetti preventivi sull’abuso di sostanze. Per ogni area sono previsti 10 ambiti26 di indagine e ad ogni ambito sono associati specifici indicatori di outcome. SAMHSA ha il compito di coordinare la raccolta dei dati provenienti dai diversi stati e, al fine di migliorare le prestazioni dei servizi, la raccolta dei dati e di facilitare le decisioni degli amministratori, ha finanziato anche il progetto “Outcomes Measurement and Management System” (SOMMS). Le informazioni che vengono raccolte provengono da diverse fonti27 (Bertoncelli e Serpelloni, 2006, pp. 130-131). Accanto alle ricerche sopra citate vanno ricordati i lavori di George De Leon, che in quarant’anni di ricerche sul tema ha analizzato diverse tematiche tra cui: l’importanza della ricerca sulle tossicodipendenze e il loro trattamento (De Leon, 1993); le relazioni tra consumo di eroina ed esperienza e comportamento sessuale nei tossicodipendenti (De Leon e Wexler, 1973); il fattore di autoselezione nella ricerca sul trattamento delle tossicodipendenze (De Leon, 1998), il ruolo delle comunità terapeutiche (De Leon, 1986; 2004), la relazione tra motivazione ed efficacia del trattamento in comunità (De Leon et al., 2000). 1.3.2 Riflessioni e ricerche a livello nazionale: cenni A livello nazionale ci limitiamo a ricordare alcune significative esperienze di valutazione o di riflessione sui prerequisiti necessari per la valutazione dei servizi per le tossicodipendenze. Morandi (1989; 1993) si interroga sui criteri e le modalità più opportune per valutare l’intervento sulle tossicodipendenze. Nell’ambito di un volume dedicato alle attività di valutazione nei SerT della Regione Emilia-Romagna, Cristina Sorio propone alcune linee guida per la definizione di un sistema informativo con finalità valutative (1995). Sulla scia della nascita degli osservatori sulle dipendenze, nel volume curato da Fagioli e Ugolini (1996) vengono specificate le aree e i contesti specifici di impegno della pratica sociologica rispetto al tema specifico delle tossicodipendenze: il sistema informativo, la valutazione dei servizi, la ricerca, la lettura sociologica del fenomeno tossicodipendenze, la certificazione delle informazioni, insieme alle pratiche di prevenzione e di intervento sociale. Ugolini e Giannotti (1998) dedicano un volume alla prevenzione delle tossicodipendenze e, a partire da alcune esperienze condotte nei servizi per le dipendenze dell’Emilia Romagna, riflettono sui criteri utilizzati per valutare l’impatto degli interventi sugli atteggiamenti e i comportamenti dei soggetti in potenziali condizioni di rischio, precisando che un programma di prevenzione, per poter essere oggetto di valutazione, deve essere elaborato prevedendo diversi obiettivi intermedi, che è necessario mantenere distinta la valutazione del cambiamento degli atteggiamenti da quello dei comportamenti e che è importante stabilire in modo corretto l’arco temporale entro cui valutare i risultati dell’azione preventiva. Morandi e Sorio (2001) analizzano le caratteristiche e l’evoluzione del fenomeno tossicodipendenze in Emilia Romagna ed in particolare a Modena. Serpelloni, De Angeli e Rampazzo curano nel 2002 la pubblicazione di un manuale inerente la valutazione dell’outcome nei trattamenti della tossicodipendenza con l’obiettivo

26 1) uso di droghe e di alcol e riduzione della sintomatologia psicologica; 2-5) processo di riabilitazione e guarigione; 6) valutazione dell’accessibilità ai servizi; 7) ritenzione in trattamento e la riduzione delle ospedalizzazioni per il trattamento della salute mentale; 8-10) qualità dei servizi. 27 National Survey on Drug Use and Health (NSDUH), National Survey of Substance Abuse Treatment Services (N-SSATS).

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di “aiutare gli operatori che lavorano nell’ambito delle tossicodipendenza a migliorare la qualità dei servizi e delle conoscenze sui problemi associati alla tossicodipendenza”. Nel volume curato da Ugolini nel 2005, a fronte alla grande eterogeneità di usi e abusi di sostanze si pone il tema dell’efficacia degli interventi che va posto in modo diverso per sostanze diverse, per usi diversi, per abusi diversi, indirizzando in modo opportunamente differenziato ma pur sempre coerente la valutazione della qualità e la ricerca dell’outcome nei servizi pubblici e in quelli privati. Morandi (2006) torna ad analizzare le caratteristiche e l’evoluzione del fenomeno tossicodipendenze in Emilia Romagna ed in particolare a Modena. Sempre nel 2006, insieme e Macchia e Mariani, Serpelloni cura la pubblicazione del manuale “OUTCOME La valutazione dei risultati e l’analisi dei costi nella pratica clinica nelle tossicodipendenze”, realizzato nell’ambito del progetto del progetto NOP (National Outcome Project) del Ministero della Solidarietà Sociale con l’obiettivo di permettere agli operatori del settore la valutazione dei trattamenti e l’analisi dell’efficacia degli stessi nell’ambito delle tossicodipendenze. Bezzi e Morandi (2007) si chiedono se sia possibile valutare il trattamento delle dipendenze e propongono un “approccio pragmatico” per definire, a partire dalle diverse culture professionali implicate, che «cosa debba intendersi per “buon” o “efficace” esito del trattamento delle dipendenze» (ibidem, p. 26). Casciani e Masci (2007) affrontano il tema del progressivo mutamento del fenomeno tossicodipendenza e si chiedono come debba trasformarsi a sua volta il sistema dei servizi – e aggiungiamo noi, le modalità e gli strumenti per la valutazione dell’efficacia dei servizi. Costantino Cipolla (2007) sottolinea le prospettive metodologiche e sociologico statistiche più diffuse a livello europeo per approcciare con rigore lo studio del fenomeno “droga” nonostante le difficoltà che presenta lo specifico campo di indagine. A maggio 2011 il Dipartimento Politiche Antidroga e il Ministero della Salute pubblicano il Manuale Operativo SIND – Sistema Informativo Nazionale sulle Dipendenze, al fine di disporre di uno strumento comune che consenta una raccolta dati standardizzata e una successiva elaborazione in grado di assicurare agli operatori, ai gestori e ai decisori interessati una buona rappresentazione del fenomeno oggetto del loro intervento. A novembre dello stesso anno il Dipartimento Politiche Antidroga della Presidenza del Consiglio dei Ministri ha pubblicato le Linee di indirizzo e orientamenti organizzativi per l’integrazione dell’offerta e dei servizi (Serpelloni, Mollica e Rimondo, 2011), in cui al capitolo 7 viene affrontato il tema della “valutazione degli esiti”: ribadita l’importanza di valutare l’efficacia dei servizi rispetto al “raggiungimento degli obiettivi assegnati” (ibidem, p. 59) il filo del ragionamento si sposta poi sulla “qualità degli interventi assistenziali” (ibidem, p. 60). Nel 2012 Palumbo, Dondi e Torrigiani curano un volume centrato sul rapporto tra l’evoluzione del fenomeno delle dipendenze nella società contemporanea e l’appropriatezza del modello di intervento delle Comunità terapeutiche: questo modello di intervento è ancora valido in una società in cui si moltiplicano le sostanze e le forme di dipendenza e i confini tra normalità e patologia sono sempre più labili? Le Comunità Terapeutiche hanno saputo adattarsi a questi mutamenti? Come si sono modificate in questi anni? Con quali altri servizi devono costruire alleanze operative e strategiche? Quale rimane il loro specifico contributo alla cura e alla riabilitazione? Sono utilizzabili su tutta la gamma degli interventi necessari, dalla prevenzione alla terapia, o hanno una peculiarità su cui devono essere concentrati i loro sforzi? Questo ultimo riferimento bibliografico ci riconduce direttamente al caso specifico di valutazione di cui si tratta in questa sede. 2. L’oggetto della valutazione: una Comunità terapeutica operante presso il Comune di Genova Tra le comunità terapeutiche che operano in Liguria ve n’è una con cui chi scrive sta collaborando da diverso tempo che, fin dal 1973, si occupa di emarginazione giovanile, con particolare attenzione

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al recupero e reinserimento di tossicodipendenti e di prevenzione di comportamenti auto ed etero distruttivi. La Cooperativa sociale cui tale Comunità terapeutica fa capo ha da tempo avviato una riflessione generale inerente la valutazione dei servizi erogati ed ha promosso un percorso di ricerca finalizzato alla valutazione degli outcome prodotti dalla Comunità, che offre i suoi servizi a persone maggiorenni di ambo i sessi con problemi di abuso e dipendenza da sostanze e alcol. Nel seguito viene descritto sinteticamente il servizio della Comunità terapeutica (oggetto della valutazione) per poi passare alla descrizione degli obiettivi della ricerca valutativa, la metodologia proposta e i primi risultati emersi. 2.1 I servizi erogati dalla Comunità Terapeutica (breve analisi dell’evaluando) La struttura della Unità operativa Comunità Terapeutica offre i suoi servizi a persone maggiorenni di ambo i sessi con problemi di abuso e dipendenza da sostanze e alcol. Il contratto terapeutico per l’ingresso e l’adesione al percorso riabilitativo viene stipulato tra la persona interessata, il referente della Comunità ed il referente dell’Ente inviante autorizzato (il SERT). Il percorso riabilitativo tipo prevede una prima fase di analisi della domanda, seguita da 3 moduli suddivisi in 8 fasi che iniziano dall’inserimento, finalizzato all’aumento motivazionale al cambiamento, fino al reinserimento sociale, nel quale l’utente viene accompagnato nel suo percorso di reingresso nella società. L’inserimento nelle varie fasi del programma riabilitativo viene effettuato valutando la situazione individuale dell’utente ed è legato allo stadio motivazionale nel quale lo stesso si trova all’ingresso. Di seguito una sintetica elencazione28 dei moduli e delle fasi previste, che hanno una durata massima complessiva di 24 mesi. - Fase 0 – Analisi della domanda di inserimento ricevuta dal SerT e verifica degli obiettivi e della

motivazione dell’utente prima dell’accettazione. Modulo 1 – Accoglienza - Fase 1 – Orientamento, dismissione della terapia sostitutiva, accettazione e condivisione delle

regole comunitarie. - Fase 2 – PRECT (Pre Comunità Terapeutica). Partecipazione attiva alla vita sociale della

comunità, strutturazione ed organizzazione del tempo e degli impegni della giornata, confronto con il gruppo dei pari e con lo staff di operatori.

Modulo 2 – Inserimento in Comunità - Fase 3. Lavoro sul problema di dipendenza che ha influenzato e condizionato le relazioni

personali significative (familiari e/o affettive). - Fase 4. Rafforzamento delle competenze sociali interne alla Comunità, assunzione di

responsabilità complesse relative a un settore della Comunità. - Fase 5. Assunzione di responsabilità per la formulazione di proposte inerenti la prosecuzione del

programma di risocializzazione esterna. - Fase 6. Elaborazione della re-inclusione sociale. Ricerca del lavoro, consolidamento dei rapporti

con l’ambiente esterno e dei rapporti amicali esterni, approccio alla gestione economica Modulo 3 – Reinserimento Sociale - Fase 7. Prosegue la separazione dalla Comunità e la risocializzazione esterna. Verifica

dell’autonomia e responsabilità personale e sociale, gestione delle difficoltà quotidiane esterne, capacità progettuale, rapporto tra affettività e sessualità.

- Fase 8. Sganciamento definitivo dal programma previa verifica inerente il mantenimento degli obiettivi raggiunti rispetto a: rapporti, lavoro, affettività, autorevolezza ed autonomia.

Riportare questa sintetica descrizione dei moduli e delle fasi previsti dal percorso in Comunità pare particolarmente interessante in relazione al riferimento sopra richiamato alla teoria del programma (cfr. par. 1.1): moduli e fasi rappresentano in effetti il service utilization plan della nostra policy, in

28 Per una descrizione più dettagliata, comprensiva degli strumenti di intervento terapeutico e riabilitativo utilizzati nelle diverse fasi, si rimanda a Torrigiani, 2012a.

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quanto scandiscono l’interazione tra utente e servizio dall’ingresso in Comunità al reinserimento definitivo nel contesto sociale. D’altro canto gli obiettivi intermedi riferiti a ciascuno dei moduli e delle fasi previsti richiama l’impact theory, delineando le sequenze di causa-effetto che permetterebbero di passare dalla dipendenza da sostanze ed esclusione sociale allo stato drug free e al pieno reinserimento nel contesto economico, sociale e relazionale. 2.2 Il ruolo attuale della valutazione nel percorso terapeutico Come si desume dalla lettura del percorso tipo e degli strumenti che esso prevede, la valutazione delle condizioni in ingresso degli utenti, dei progressi che essi compiono durante il percorso e dell’adeguatezza delle loro condizioni in uscita rispetto al reinserimento sociale occupano una parte molto consistente della attività realizzate dagli operatori: il loro è un agire al contempo riabilitativo, terapeutico educativo e valutativo. Ciò nonostante, la molta valutazione che viene agita dagli operatori nei confronti degli utenti è sovente molto poco strutturata e formalizzata e perciò scarsamente visibile e difficilmente comunicabile sia all’interno che all’esterno: da un lato, a causa della mancanza di strumenti adatti, che consentano di registrare le osservazioni degli operatori e tenerne memoria, dall’altro, a causa di una già densa routine lavorativa, che mal si concilia con la compilazione di strumenti ove registrare tutti gli elementi valutativi quotidianamente rilevati dagli operatori e spesso condivisi in modo destrutturato e informale. E’ inoltre da sottolineare che l’attività valutativa che occupa attualmente gli operatori della Comunità consiste quasi esclusivamente nella valutazione dei casi, mentre la comunicazione all’esterno e la valorizzazione del lavoro svolto da strutture di questo tipo richiede di affiancare ad essa una valutazione del servizio (cfr. in questo senso, ad es. De Ambrogio, 2003). Infine, non esistono forme di collaborazione strutturata con i servizi territoriali e sociali distrettuali che consentano di conoscere gli esiti a medio e lungo termine dei percorsi nei confronti delle persone che hanno concluso positivamente i percorsi in comunità. Il percorso terapeutico prevede l’utilizzo di alcuni strumenti di valutazione delle condizioni dell’utente al momento del suo ingresso in Comunità. In particolare in questa delicata fase vengono normalmente utilizzate: - un’intervista strutturata (ASI29) articolata in 3 macro-aree (area familiare / sanitaria /

economica) a ciascuna delle quali viene assegnato un punteggio che consente di calcolare un indice specifico che riflette la gravità della condizioni di disagio dell’utente;

- un’intervista di gruppo30, che vede la partecipazione dell’operatore, dell’utente e di uno o due ospiti della Comunità, in cui viene stabilito di comune accordo l’obiettivo del primo periodo. Sulla base di questa seconda intervista viene formalizzato il contratto terapeutico iniziale, ossia un primo obiettivo terapeutico riportato nella scheda dell’utente.

E’ da notare, con riferimento in particolare al secondo punto, che nasce in questo modo una sorta di “doppio binario” delle aspettative sul trattamento, in quanto l’obiettivo concordato tra operatore – utente – altri ospiti della CT non rispecchia necessariamente quelli definiti dal SERT che ha inviato l’utente in Comunità. Si tratta di un aspetto molto rilevante, soprattutto in una prospettiva valutativa che accordi il necessario rilievo all’integrazione della rete dei servizi. Come noto, infatti, proprio gli obiettivi costituiscono un imprescindibile punto di riferimento per valutare l’efficacia dell’azione considerata: è evidente che la non corrispondenza degli obiettivi dell’intervento attesi dai diversi attori rilevanti rappresenta un elemento problematico dal punto di vista valutativo, se non altro in quanto pone la necessità di valorizzare adeguatamente i diversi legittimi punti di vista. Per quanto riguarda poi le condizioni in uscita dalla Comunità e quindi l’outcome prodotto dal trattamento terapeutico, gli strumenti valutativi attualmente in uso sono: - colloqui con l’operatore,

29 Addiction Severity Index (McLellan et al., 1980) e successive modificazioni. 30 Si tratta di una modalità strutturata in autonomia dagli operatori.

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- gruppi di confronto con l’operatore e altri utenti che stanno affrontando il percorso e che in un certo senso “mettono alla prova” le dichiarazioni dell’utente rispetto al suo recupero.

Fatta salva l’intervista ASI, si tratta quindi di modalità valutative poco strutturate, che non consentono di specificare i risultati raggiunti dall’utente, né di mettere in evidenza quali meccanismi abbiano consentito di raggiungerli – cioè di spiegare a quali condizioni l’intervento ha successo – né di confrontare facilmente i risultati raggiunti da utenti diversi, tutti aspetti significativi al fine di migliorare le perfomance e l’efficacia del servizio e di retroagire sulle modalità di intervento degli operatori. Peraltro la stessa definizione di “successo dell’intervento terapeutico” può essere molto diversa sia in relazione alle condizioni in ingresso dell’utente sia in considerazione del punto di vista culturale e professionale prescelto31. 2.3 Gli obiettivi della percorso valutativo intrapreso (ma non ancora concluso) Alla luce di quanto sopra evidenziato, gli obiettivi che ci si proponeva di raggiungere attraverso il percorso di ricerca intrapreso possono essere così sintetizzati. 1. Analizzare gli obiettivi riabilitativi stabiliti dal SERT e dai Servizi sociali del Comune e gli

obiettivi terapeutici definiti dall’utente e dall’operatore della Comunità terapeutica. Confrontare gli obiettivi definiti dai diversi soggetti, esplicitare le eventuali incongruenze e favorire il confronto su questo punto tra i diversi soggetti.

2. Analizzare approfonditamente il percorso tipo di riabilitazione, i meccanismi attivati, le metodologie educative adottate in funzione dei diversi obiettivi posti, la congruenza delle metodologie educative specifiche con gli obiettivi terapeutici, i fattori di contesto che possono influenzare positivamente o negativamente il percorso di riabilitazione; esplicitare le teorie del programma degli attori del percorso terapeutico per evidenziare le probabili incongruenze e giungere alla formulazione di una teoria co-prodotta e partecipata.

3. Analizzare con gli operatori della CT la nozione di successo terapeutico, individuare su questa base obiettivi terapeutici trasversali e condivisi da tutti gli operatori e indicatori dei relativi risultati.

4. Analizzare gli strumenti di valutazione in uso presso la Comunità e il SERT; se del caso proporre aggiustamenti e integrazioni agli strumenti utilizzati o costruire appositi strumenti di valutazione in collaborazione con gli operatori alle luce dell’analisi effettuata al punto 1 e al punto 3.

5. Attuare una prima sperimentazione delle modalità e degli strumenti di valutazione definiti insieme agli operatori della Comunità e se del caso porre in essere i correttivi necessari.

6. Predisporre modalità e strumenti di rilevazione degli esiti ad una certa distanza di tempo dall’uscita tal percorso, da definire in modo condiviso con i servizi sociali comunali e distrettuali.

Un ultimo e non meno importante interrogativo di ricerca, che trapela ed è trasversale a quelli sopra riportati, riguarda il grado di integrazione del percorso relativamente breve degli utenti all’interno della Comunità terapeutica, con quello più lungo e probabilmente più difficoltoso che li ha condotti fino alla Comunità e che li attende una volta fuori. Dall’integrazione tra le diverse fasi di questo macro-percorso di reinserimento sociale dipende con tutta probabilità l’efficacia del trattamento in comunità che, a dispetto della continuità di supporto che spesso richiederebbe l’utente in carico, deve prevedere una conclusione vincolata in primis a considerazioni relative al costo dell’intervento stesso.

31 In un interessante articolo comparso sulla Rassegna Italiana di Valutazione, Bezzi e Morandi (2007) fanno notare che in relazione a culture professionali diverse e riferimenti valoriali differenti “si può immaginare che per taluni un buon esito del trattamento implichi la completa astinenza da qualunque sostanza… mentre per altri lo stesso buon giudizio potrebbe riguardare un individuo che abbia cambiato modalità di assunzione … abbia intrapreso un programma educativo e si astenga da comportamenti antisociali pericolosi” (ibidem, p. 27).

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3. Analisi del campo semantico Su queste basi si è proceduto, anche in virtù di quanto evidenziato nel paragrafo 1.1, ad una serie di interviste e incontri con gli attori di riferimento, per individuare sia gli elementi di sistema ed organizzativi che condizionano inevitabilmente l’attuazione ma anche la stessa progettazione dell’intervento riabilitativo in comunità, sia i criteri di qualità ed efficacia dell’intervento e, in una fase successiva, gli indicatori di risultato e le condizioni di efficacia. A tale riguardo sono stati sentiti il Servizio Dipendenze della ASL e i SerT, interlocutore privilegiato in quanto Ente inviante gli utenti, i referenti dei Servizi sociali del Comune, la responsabile e gli operatori della Comunità terapeutica. La tabella che segue sintetizza gli step del lavoro di analisi svolto Figura 3 – Step per l’analisi del campo semantico Strumento Attore coinvolto Focus Interviste individuali

Primari Ser.T. ASL locale

Elementi di sistema ed organizzativi e criteri di qualità ed efficacia dell’intervento in Comunità (p.d.v. sanitario)

Intervista gruppo

Referenti Servizi Sociali Comune

Elementi di sistema ed organizzativi e criteri di qualità ed efficacia dell’intervento in Comunità (p.d.v. sociale)

Interviste individuali

Responsabili e operatori comunità

Elementi di sistema, organizzazione interna, indicatori di efficacia dell’intervento

Restituzione interna

Responsabili comunità

Lettura critica di quanto emerso e definizione step successivo

Seminari di gruppo

Responsabili e operatori comunità

Specificazione indicatori di risultato e condizioni efficacia dell’intervento

3.1 I referenti del SerT 3.1.1 Elementi di contesto Il peso “relativo” degli utenti e dei costi del trattamento in comunità e nel SerT: le persone con dipendenze che sono ospitate in comunità terapeutiche residenziali sono pari a circa il 5% dell’utenza complessiva del SerT (fino a un massimo del 6-7%). L’investimento dedicato a questo tipo di intervento è notevole ed una giustificazione delle risorse dedicate è quindi necessaria e utile, tanto più che in rapporto al costo dell’intervento ambulatoriale presso il SerT il costo dell’intervento residenziale è superiore, anche se manca un dato preciso a questo riguardo. Nuove forme di dipendenza e di consumo: il fenomeno dipendenza è estremamente cambiato negli ultimi anni: sono cambiate le tipologie di consumi e si è affermata l’abitudine al poli-consumo; si è molto diffusa la dipendenza da psicofarmaci e sono in espansione varie forme di dipendenza legate non all’uso di sostanze ma a particolari comportamenti (dipendenza dal gioco d’azzardo, dal sesso, dall’uso di internet ecc.), tutti fenomeni molto legati alle pressioni che la società esercita verso determinati consumi e/o comportamenti. Al contempo è superata l’emergenza HIV e il SerT non si identifica più con il tossicodipendente sieropositivo all’HIV. Nuovi tipi di utenti : accanto a eroinomani incapaci di condurre una normale vita sociale, figurano persone più o meno giovani che sono inserite, lavorano, hanno risorse da sostenere e mantenere nei propri usuali contesti di vita e che quindi percepiscono l’inserimento in comunità terapeutica come un’interruzione del loro percorso di vita e di lavoro. Anche per questa ragione attualmente si considera quello della dipendenza come un problema che si affronta nel tempo con continuità, con impegno e cercando di fronteggiarlo e superarlo all’interno della propria comunità di vita piuttosto che in comunità terapeutica.

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Utenti sempre più giovani: tra le evoluzioni più rilevanti riguardo al profilo dell’utenza figura l’abbassamento dell’età di accesso al SerT (e alla comunità), che vede utenti nel pieno dell’adolescenza accanto a persone di 40-50 anni (o più). Questo dato impone delle modifiche al modello di intervento della comunità terapeutica, nato per persone tendenzialmente più mature. L’intervento sui giovani deve mantenere caratteristiche diverse da quello sugli adulti, prevedendo ad esempio la frequenza dell’ambito scolastico e adeguate opportunità di socializzazione con i pari. Utenti con problemi psichiatrici e disturbi della personalità: sono sempre più numerose le situazioni che necessitano di un approccio meno rigido e univoco, non solo educativo, ma che tenga conto anche della dimensione psichiatrica che, sempre più spesso, è parte del problema anche se in modo non così evidente o importante come nei casi di “doppia diagnosi”. Molti sono i casi complessi di disturbi di personalità che non trovano sempre risposta dalle strutture anche a causa di limiti effettivi anche nelle competenze degli operatori. Utenti provenienti dal carcere è massiccia la presenza di utenti provenienti dal carcere (che scontano in comunità la “pena alternativa”). Dal punto di vista degli operatori della comunità emerge la difficoltà di conciliare la cultura carceraria con il tipo di approccio educativo tipico della comunità e di adeguare il ruolo dell’educatore con quello di controllore nel caso di condotte particolarmente inadeguate. Da parte dei referenti del SerT emerge invece la difficoltà ad orientare adeguatamente il percorso e definirne i tempi senza una presenza continuativa degli operatori del SerT in carcere32. Attualmente, a differenza di quanto avveniva prima, la persona che arriva in comunità dal carcere non ha normalmente esercitato un adeguato lavoro di introspezione e giunge all’avvio del percorso con idee ben poco chiare rispetto a quello che sta andando a fare. 3.1.2 Le criticità nel sistema e le possibili strategie di risposta I colloqui con i referenti del SerT hanno permesso di focalizzare un certo numero di criticità , legate da un lato all’evoluzione del fenomeno e agli elementi di contesto, dall’altra ai rapporti tra gli attori del sistema, in particolare tra SerT e comunità terapeutiche. Bisogni variegati e necessità risposte differenziate e flessibili: la realtà genovese è molto complessa sia dal punto di vista quantitativo e sia qualitativo: da un lato, quindi, i bisogni in termini di tipo di intervento sono variegati e, dall’altro, la collaborazione tra SerT e comunità terapeutiche è più difficile di quanto non avvenga in contesti più circoscritti. I dati relativi all’evoluzione del fenomeno dipendenza e alle tipologie di utenti in carico (vedi sopra) si scontrano con l’impostazione tradizionale delle comunità terapeutiche, nate 40 anni fa sulla spinta di un’emergenza in assenza di risposte strutturate e di esperienza consolidata sui trattamenti dei disturbi legati alla compulsività. L’idea che un trattamento protratto possa determinare una sorta di “guarigione” è contraddetta dal riemergere dei problemi, che hanno molto a che fare col modo in cui i soggetti si relazionano con il proprio ambiente di vita, all’uscita dall’ambiente comunitario. Strutture pesanti che limitano la flessibilità. Uno dei limiti individuati nelle comunità presenti a livello locale è che si tratta di strutture anche fisicamente molto grosse, con tutta una serie di maggiori rischi, pericoli, potenziali insidie soprattutto sul fronte della sostenibilità economica,

32 In passato, infatti, era presente all’interno del carcere un servizio formalmente riconosciuto – il SerT Strutture Penitenziarie – e la presenza continuativa all’interno dell’istituto di pena consentiva agli operatori del SerT di avere ben presente la situazione dei detenuti che avrebbero voluto e/o potuto intraprendere un percorso comunitario. Ciò permetteva loro di suggerire in modo avveduto se avviare o meno tale percorso, dettandone ragionevolmente i tempi. Le trasformazioni successive – che non prevedevano la presenza fisica di un ufficio del SerT all’interno del carcere – hanno modificato radicalmente il sistema: gli operatori hanno continuato a fare il loro lavoro, andando a colloquio con i detenuti dietro loro richiesta, ma evidentemente nei confronti del paziente che chiede di andare in comunità non vi è più potuta essere quella presa in carico - prima attuata soprattutto da parte degli psicologi e degli assistenti sociali - che facevano un notevole lavoro di preparazione per un progetto di riabilitazione all’esterno. Allo stato attuale la Regione ha provveduto a fare marcia indietro e a deliberare – a un anno dall’uscita del SerT dal carcere – che la salute mentale e il SerT devono riorganizzarsi all’interno del carcere stesso. Così un sistema che aveva la sua ragion d’essere e comunque funzionava piuttosto bene rispetto agli obiettivi riabilitativi, prima è stato smantellato ed ora deve essere ricostituito senza la certezza che equilibri ormai raggiunti vengano ritrovati.

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rispetto a strutture più piccole e quindi più agili. Tali grosse strutture peraltro fanno fatica ad aziendalizzarsi, ad accettare il “rischio d’impresa” rendendo il sistema sclerotizzato. Risposte tardive ai nuovi bisogni. L’adeguamento degli strumenti in relazione all’evoluzione del fenomeno è considerato estremamente tardivo: il sistema è viceversa molto irrigidito e faticosamente vengono istituiti protocolli nuovi per le nuove tipologie di persone dipendenti che il SerT si trova a trattare. In questo senso, le comunità dovrebbero acquisire maggiormente l’idea di “rischio imprenditoriale” e comunque di una certa pro-attività. Gli operatori del SerT percepiscono peraltro una maggiore specializzazione in realtà esterne – che di fatto rappresentano una minaccia rispetto a quelle locali – cui sovente hanno deciso di rivolgersi per trovare una risposta ritenuta maggiormente adeguata. Professionalità non sempre del tutto adeguate. Le comunità terapeutiche e gli operatori dovrebbero acquisire maggiore professionalità per quanto riguarda il lato terapeutico a fronte di un originario approccio sostanzialmente pedagogico che, rispetto alle nuove esigenze, appare non al passo coi tempi. Le comunità dovrebbero diventare più “laiche”, uscendo dalla dimensione ideologica e acquisendo uno spirito più aziendale, lavorando in modo più strutturato e scientificamente fondato, valutando le diagnosi, i percorsi, gli esiti e assumendo decisioni basate su evidenze empiriche piuttosto che su impostazioni individualistiche. L’area critica dell’inserimento sociale L’area dell’inserimento sociale è considerato un aspetto ancora molto carente nelle strutture a livello locale: anche se ultimamente qualcosa è cambiato, (sono disponibili degli appartamenti e c’è una dimissione graduale) è ancora tutto da verificare; si tratta di un’area su cui vigilare molto, perché la persona andrebbe molto accompagnata da questo punto di vista, perché è un’area critica. L’ambiente comunitario e i giovani Gli utenti giovani sono difficilmente inseribili all’interno di comunità dove possono trovare delle persone anche molto più avanti con gli anni: si pone un problema di modelli di identificazione, in quanto accanto agli educatori ci sono gli altri ospiti adulti, che possono proporsi ai giovani sotto vari aspetti. Questa è una delle ragioni che ha spinto il SerT a servirsi per gli utenti più giovani degli inserimenti extra-regionali. Il costo del distacco dal proprio contesto di vita. Il trattamento in comunità presenta poi un problema in termini di costi sociali (ad es. il distacco dall’ambiente usuale di vita, dalla famiglia, dall’eventuale luogo di lavoro ecc.) che possono preludere a futuri maggiori difficoltà di reinserimento sociale e lavorativo. Vi sono elementi di autocritica da parte del SerT riguardo agli interventi prestati ambulatorialmente sia sul piano della terapia farmacologica che della psicoterapia. La psicoterapia. Un tempo infatti si riteneva che se fatta bene, due volte alla settimana per 5 o 10 anni potesse “rivoluzionare” la vita dell’utente; si è però osservato che, in realtà 1) è oltremodo difficile che si riesca a mantenere un rapporto terapeutico di questa durata; 2) è e sarebbe comunque un onere eccessivo rispetto alle possibilità economiche dell’utente; 3) i risultati non sono comunque all’altezza delle aspettative. Gli interventi farmacologici protratti presentano finiscono per divenire cronicizzanti e non portano da soli a quel cambiamento che si auspica nell’utente; momentaneamente tamponano e sembrano risolvere i problemi della persona, ma poi di fatto i problemi ritornano. Quel tipo di intervento ha finito per creare del disagio sia tra gli operatori che nell’utenza, in quanto le reali possibilità di miglioramento non corrispondevano alle aspettative. Anche il SerT genovese è ritenuto dimensionalmente sproporzionato e il fatto di essere un’unica organizzazione facente capo a un Dipartimento la blocca e la sclerotizza, nonostante vi siano delle differenziazioni nei servizi territoriali in considerazione dei bisogni emergenti nel contesto specifico in cui operano. Il lavoro di rete: un giogo clinico e terapeutico. Uno dei punti critici è individuato dai referenti del SerT nella difficoltà al lavoro di rete che ancora rappresenta un punto debole del sistema. E’ oggettivamente complesso far dialogare in modo efficiente ed efficace 6 SerT e 4 comunità

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terapeutiche e avere un approccio pienamente condiviso, ma vi è anche una certa reciproca rigidità, relativa all’approccio alla problematica all’individuazione delle modalità di intervento e di risposta ai bisogni cui si accompagna a un’inevitabile asimmetria nella relazione tra ente inviante e ente erogatore del servizio. Si noti come rispetto allo schema di figura 1 gli elementi sopra evidenziati ci portino a riflettere sull’attuale configurazione dell’organizational plan e del service utilization plan. Riguardo al primo punto è particolarmente interessante accennare alla complessità organizzativa alla base dell’intervento terapeutico in comunità: alla complessità organizzativa interna (la comunità terapeutica è una unità operativa di una realtà organizzativa – la cooperativa sociale – che la comprende insieme ad altre unità e servizi) si somma quella esterna o di sistema (il servizio è erogato dalla comunità su richiesta di un Ente inviante, uno dei SerT locali, che fanno capo ad un Dipartimento all’interno dell’ASL). Da tale complessità organizzativa discendono differenze nelle culture professionali di riferimento e attese diverse in termini di impostazione e standard di servizio. Riguardo al secondo punto sia la sopra citata complessità organizzativa che la differenziazione dell’utenza e dei bisogni portano immediatamente a riflettere sulla necessità di modelli differenziati e flessibili di interazione tra servizio e utenza potenziale. A partire dagli elementi di criticità evidenziati i referenti del SerT hanno individuato nelle seguenti le possibili strategie di risposta. Differenziazione dei servizi e individualizzazione dei percorsi: è necessario definire servizi differenziati e percorsi individualizzati in risposta alla varietà di bisogni che emergono sia tra le diverse categorie di utenza sia all’interno della stessa categoria. La differenziazione dei percorsi dovrebbe riguardare da un lato contenuti e proposte del lavoro in comunità, ma anche gli aspetti logistici e la tempistica dei percorsi. La comunità per i giovani. Le comunità terapeutiche locali devono divenire luoghi più adatti a ospitare gli utenti più giovani in carico al SerT. La comunità terapeutica – se adeguatamente strutturata e organizzata – è considerata peraltro l’intervento forse più adatto a questa tipologia di utente, per il quale una permanenza anche prolungata in Comunità può significare un’esperienza di vita, di confronto con gli altri e con sé stesso, anche per rendersi meno dipendente dalla famiglia, lavorare dentro e fuori dalla comunità. La comunità per gli adulti: il percorso breve. L’utente di età compresa tra i 25 e i 40 ha mediamente almeno 10 anni di esperienza di tossicodipendenza e poli-assunzione; sovente ha maturato abilità sociali e professionali, ha lavorato, talvolta è sposato/a e con figli: una persona che ha una sua strutturazione di vita. Per queste persone si immagina un percorso breve – 3-6 mesi – per disintossicarsi, ri-orientarsi, recuperare la capacità di meditare e di stare con se stessi, riprendere il prima possibile le proprie abilità e tornare al proprio lavoro e ai propri affetti. La sostenibilità di questo tipo di percorso è legata al fatto che la persona sia avviata a gruppi territoriali da continuare a frequentare una volta dimessa. Le donne con bambino. Si tratta di una tipologia molto particolare, che in mancanza di supporto familiare e di altre strutture di riferimento (es. “comunità madre bambino”) può sfociare in una situazione di grave disagio sociale e necessita perciò di un percorso di assistenza e di accompagnamento un po’ più lungo, in quanto può essere implicato il periodo della gravidanza e poi quello dei primi anni di vita del bambino. L’avvio del percorso e i casi di ricaduta. La residenzialità è pensata anche come risposta alle fasi di avvio del percorso dell’utente, quando è in stato confusionale e gli è necessario un certo tempo per fare il punto della situazione e decidere sul da farsi, o anche in fasi successive, se capita di avere delle ricadute, per fermarsi nuovamente a riflettere calibrare al meglio l’intervento. Sono quindi immaginabili più momenti in cui un periodo presso la comunità terapeutica può avere la valenza di check-up della situazione, supervisione del percorso e definizione delle strategie di mantenimento dei risultati raggiunti.

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Gli utenti cronici e i casi di grave disagio sociale (fascia anziana). Per gli utenti particolarmente difficili, i “cronici”, anche nel lungo periodo è arduo immaginare un pieno reinserimento sociale e lavorativo e sarà sempre necessaria una qualche forma di sostegno: in questi casi si rende necessario trovare delle soluzioni forse ancora più flessibili, che consentano ad es. un rientro alla sera o al sabato e alla domenica, ma comunque delle forme di sostegno che andrebbero distinte dalle comunità terapeutiche: queste ultime infatti sono a volte tenute a erogare servizi anche prolungati nel tempo, se strettamente necessario, ma comunque il loro apporto dovrebbe avere un orizzonte temporale definito. Sono inoltre da considerare i numerosi casi in cui la mancanza di risorse economiche e di riferimenti cui fare appoggio mina le possibilità materiali di sopravvivenza delle persone fuori dalla comunità. In particolare va progettato realisticamente il sostegno all’abitare e anche attraverso forme di coabitazione, che potrebbero essere sostenute dagli stessi operatori della comunità ma all’esterno di questa supportando anche la capacità di gestire risorse economiche limitate per far fronte alle necessità quotidiane. E’ dunque necessario partire dagli aspetti concreti e materiali per poi allargare agli altri aspetti. Le micro comunità. I bisogni attuali in tema di dipendenze richiederebbero un panorama di comunità più piccole ma differenziate tra di loro: quindi una rete effettiva di strutture che operassero con diverse tipologie di intervento rendendo questo particolare mercato più flessibile rispetto ai bisogni emergenti. In questo senso la soluzione “ideale” potrebbe essere rappresentata da un consorzio di comunità. La pronta accoglienza. E’ già in rodaggio un nuovo filone di intervento in risposta ai casi di grave crisi (anche a seguito di ricaduta) in cui l’utente non necessariamente comincia un percorso destinato a protrarsi nel tempo all’interno della comunità, ma è aiutato a superare il momento di maggiore scompenso e magari a progettare un percorso successivo che però avviene al di fuori della comunità. Le associazioni di auto e mutuo aiuto: la clinica diffusa. Tra le risposte ai bisogni delle persone dipendenti è da valorizzare anche il ruolo delle associazioni di auto-aiuto e mutuo-aiuto in quanto la comunità non è solo quella residenziale, ma è anche e forse più la comunità presente sul territorio. Si tratta di gruppi auto-finanziati – perciò a costo 0 per la società, per i servizi e per le famiglie – ma con un elevato valore aggiunto per le persone che partecipano e diventano così protagoniste dei loro percorsi. Questo permette anche di sostenere trattamenti di lungo periodo. La presenza di questi gruppi sul territorio ha anche un valore sociale e culturale: con il loro intervento danno appoggio non solo alla persona, ma anche alla famiglia, alla comunità locale e, in qualche modo, all’intera società. La coterapia. Una della strategie più promettenti è lavorare sulla “coterapia”, ossia utilizzare diversi strumenti, equilibrati fra di loro, a dosaggi33 differenti a seconda della fase che sta attraversando l’utente e soprattutto attivare contemporaneamente le risorse delle persone e delle famiglie: il primo farmaco è infatti la consapevolezza delle persone di essere protagoniste del loro percorso e, da questo punto di vista, è sempre molto importante anche il coinvolgimento della famiglia. Sulla via del lavoro di rete è necessario un lavoro comune rivolto alla chiara focalizzazione delle criticità e a una più approfondita lettura del significato delle problematiche cliniche ed organizzative riscontrate nel lavoro congiunto. Sono stati formati al proposito due piccoli sottogruppi di lavoro costituiti da operatori del SerT e delle Comunità, uno sulla progettazione del servizio di pronta accoglienza e uno sulla progettazione di un modulo dedicato agli utenti adolescenti. Nel complesso, dunque, risulta insostenibile un unico modello standard di comunità terapeutica valida per tutte le tipologie di utenti mentre è necessario costruire un modello più sfaccettato,

33 In analogia a quanto avviene nelle terapie del tumore, dove si utilizzano la radioterapia, la terapia chirurgica, la chemioterapia.

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rispetto ai bisogni, e intercomunicante, rispetto ai percorsi degli utenti, che comprenda delle “camere di compensazione” tali da consentire un passaggio graduale da un servizio ad un altro o dalla presa in carico alla dimissione dell’utente. Un forte accento riguarda inoltre la necessità di ripensare i tempi dei percorsi, mettendo a punto percorsi più brevi e immaginando degli utilizzi più parziali dei diversi servizi da parte delle persone. 3.1.3 Il processo visto dal SerT 1) Il primo step del processo consiste nella selezione degli utenti in carico al SerT che potrebbero trarre beneficio dal passare un certo tempo in comunità. A seconda delle caratteristiche della persona si decide se deve essere inviata in comunità e, in caso affermativo, la comunità che meglio si sposa con le problematiche del caso. Si tratta di un passaggio che attualmente è a totale appannaggio degli operatori del SerT. Gli operatori delle comunità premono affinché la valutazione preliminare del caso divenga un momento collegiale, condiviso dagli operatori del SerT e quelli di tutte le comunità presenti sul territorio che, insieme, sulla base delle caratteristiche dell’utente e dei suoi bisogni, decidono quale sia la scelta più opportuna. Questa ipotesi, peraltro, è considerata farraginosa e difficilmente percorribile dagli operatori del SerT. 2) La decisione viene resa ufficiale all’interno del “Gruppo Comunità”, che si riunisce ogni 15 giorni e durante il quale vengono comunicati i nomi e i cognomi degli utenti che verranno inviati e le rispettive comunità di destinazione. A questo punto l’utente viene invitato a recarsi presso la comunità prescelta per effettuare i primi colloqui e in seguito viene nuovamente sentito dal servizio per valutare l’incontro con la comunità. Contemporaneamente l’operatore del SerT contatta quello della comunità per confrontarsi rispetto ai primi incontri avuti con l’utente. Un certo livello di condivisione si riscontra proprio nella fase dell’accoglienza. Nella fase successiva, quella del trattamento vero e proprio, si riscontra nuovamente una certa rigidità reciproca tra operatori del SerT e della Comunità. 3) La conclusione del percorso viene progettata insieme dagli operatori del SerT e della Comunità nei casi in cui vi è progettazione comune sul percorso. Le dimissioni vengono programmate e precedute da visite degli operatori del SerT in comunità. Successivamente l’utente rientra al SerT oppure mantiene i contatti con gli operatori delle comunità. I problemi più rilevanti si incontrano nelle situazioni in cui l’utente non dispone di risorse proprie all’esterno della comunità e/o non vi sono riferimenti, quali ad esempio la famiglia. Rispetto all’inserimento lavorativo un problema grave è la frammentazione del sistema e la mancanza di borse lavoro che consentano una transizione graduale verso il pieno reinserimento socio-lavorativo. 3.1.4 Gli obiettivi del percorso in comunità visti dal SerT Il percorso in comunità ha il significato di un intervento forte nel tempo, abbastanza concentrato, che ha l’importante funzione di definire meglio con la persona quali siano i suoi bisogni e le aree dove necessità di investire. Ci si attende che la persona: riceva supporto nella fase acuta di crisi, acquisisca una maggiore capacità introspettiva, consegua un miglioramento sul piano del benessere psicologico; focalizzi meglio desideri e aspirazioni; impari a riconoscere la discrepanza tra ciò cui aspira e ciò che può realizzare; acquisisca le competenze necessarie ad affrontare i problemi; sia autonoma nei limiti delle sue possibilità; sia consapevole delle proprie risorse e potenzialità; risolva il problema dipendenza; non faccia uso / non ecceda nell’uso di sostanza/e; ritrovi un rapporto positivo e di reciproco sostegno con la famiglia; riesca a reinserirsi nella comunità territoriale; sia soddisfatta dell’esperienza vissuta in comunità. Si pone il problema di come affiancare la persona una volta dimessa dalla comunità per non mettere a rischio i risultati raggiunti. In relazione a questo ultimo punto è necessario: realizzare un maggior grado di apertura della comunità al contesto sociale di riferimento; riconoscere e promuovere le forme di auto e mutuo aiuto e il loro supporto e sostegno alla persona che viene dimessa dalla comunità.

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3.2 Referenti dei Servizi sociali del Comune 3.2.1 Le attività promosse dal Comune Il Comune si occupa dei servizi a bassa soglia per le persone in condizione di dipendenza delle politiche per la casa e le attività per il reinserimento lavorativo. I servizi di bassa soglia sono: Drop-in Center, servizio rivolto a persone dipendenti in condizioni di marginalità che offre ristoro dalla strada con un approccio sia di riduzione del danno sia di opportunità offerta all’interno di una dimensione relazionale; Odissea, la comunità di accoglienza per le persone senza fissa dimora con problemi di dipendenza. Su questi servizi il Comune continua a mantenere degli investimenti significativi e importanti, sia dal punto di vista economico sia per il sostegno “politico” a questo tipo di intervento. Il tema del reinserimento lavorativo pone il problema rilevante dell’integrazione con la Provincia e i servizi per l’impiego. Rispetto al tema del reinserimento sociale è rilevante l’esperienza dei servizi del comune che si occupano dell’assegnazione degli alloggi con un’attività finalizzata a favorire il mantenimento dell’alloggio alle persone in difficoltà e ad evitare che si arrivi alle condizioni che determinano la decadenza dell’assegnazione dell’alloggio favorendo, per contro, il mantenimento della casa. Si tratta di approcci e risposte differenziate che vanno valorizzate quanto il classico sostegno economico che andrebbe ripensato rispetto all’ammontare previsto. Si tratta di servizi che – nonostante la riduzione dei costi – sono più onerosi rispetto a esperienze simili rivolte a persone senza fissa dimora ma non dipendenti, in quanto la tipologia di utenza, cioè persone dipendenti in fase attiva, richiede la presenza di figure professionali aggiuntive rispetto a quelle necessarie in situazioni in cui il problema dipendenza non sussiste. 3.2.2 Il ruolo del Comune come attivatore della comunità locale Un obiettivo che interessa trasversalmente sia i comuni sia la ASL e il SerT è quello di costruire intorno alla persona – soprattutto nella fase di dimissione e di post-dimissione – una rete di relazioni che è la condizione per la sostenibilità dei risultati raggiunti e grazie a cui la persona potrà sostenere in modo autonomo atteggiamenti e comportamenti che le consentano di gestire al meglio la propria vita. Questa finalità comune potrebbe essere il terreno su cui tornare a ragionare e progettare in modo integrato tra i diversi attori del sistema. I SERT e le Salute Mentali della ASL hanno una tradizione antica di gruppi di auto e mutuo aiuto nel campo delle dipendenze mentre il Comune ha una sua storia di auto e mutuo aiuto su altri versanti, ad esempio la tematica dei care-giver dell’Alzheimer. Quello dell’auto e mutuo aiuto potrebbe essere un terreno da aggiornare che rimane sempre all’interno di quella finalità primaria di come costruzione di una rete intorno alle persone in termini di sostegno e opportunità. Si tratta di tipologie di intervento indicate nella fase di reinserimento sociale e non nella fase attiva, problematica, patologica in cui il dipendente deve essere sostenuto con tutti i dovuti accorgimenti da professionalità adeguate. E’ un filone da sviluppare nelle politiche dei servizi dei prossimi anni, anche in ragione della riduzione delle risorse economiche disponibili, valorizzando, da un lato, la grande risorsa professionale dell’amministrazione rappresentata da tutti i dipendenti, gli operatori, gli assistenti sociali gli psicologi, gli educatori ecc… e, dall’altro, restituendo e riconoscendo il ruolo attivo delle comunità locali aiutandole ad essere più competenti. 3.2.3 Criticità e obiettivi La mancanza di un pensiero integrato. Nell’approccio al problema tossicodipendenze a livello locale e della costruzione dei relativi servizi tra loro integrati – tra gli enti ausiliari, la ASL e lo stesso Comune – c’è stato un “periodo d’oro” in cui la disponibilità di fondi finalizzati e vincolati ha permesso una progettazione piuttosto ambiziosa, attenta a cogliere i diversi aspetti del problema e la costruzione di un progetto e di un pensiero integrato. Nel momento in cui il fondo 309 è venuto a mancare questa capacità di progettazione integrata si è persa e con essa molto di quanto era stato realizzato per l’assetto dei servizi. Le ASL si sono andate sempre più aziendalizzando e i temi della

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sanità hanno assunto una visione sempre più “ospedaliera” e meno “territoriale”; nel contempo si è verificata una diffusa riduzione di risorse. Tali fattori hanno contrastato il mantenimento e l’evoluzione di un pensiero integrato. Conoscere il bisogno nascosto. Il bisogno non è o non dovrebbe essere un fatto privato o patrimonio di organizzazioni specifiche ma dovrebbe invece raggiungere una dimensione il più possibile condivisa. Riguardo a come interpretare il bisogno e trattarlo da fasi in cui tutto aveva una dimensione più pubblica si è passati a riportare gradualmente tutto in una dimensione particolarmente privata, in cui si sa sempre meno chi avvicina in modo più diretto il bisogno a livello territoriale. E’ necessario ritentare un approccio comune insieme al SERT e agli enti ausiliari interessati per ridefinire il senso del reinserimento sociale, che ha assunto una dimensione decisamente più ampia che comprende casa, relazione, appartenenza in un luogo riconosciuto. Gli ostacoli all’integrazione tra gli attori del sistema. Un fattore di resistenza rispetto all’integrazione tra gli attori riguarda la “filiera della persona” a partire dall’ingresso nel sistema della CT fino al reinserimento: chi ha in testa la persona? Dovrebbe esistere un continuum ma c’è un prima e c’è un dopo: il continuum della persona dove si colloca? Chi ne ha la responsabilità? E’ un’integrazione molto operativa che ristabilisce i posizionamenti istituzionali delle organizzazioni coinvolte e che potrebbe essere garantita ad esempio da profili professionali. Questo tipo di integrazione è agita nell’operatività ma non è prevista a livello formale. Affrontare alcune problematiche richiede competenze specifiche e nel caso delle dipendenze la componente sanitaria e gli imprescindibili bisogni di cura che ne derivano non possono trovare risposta da parte del Comune che si può invece occupare di interventi nel disagio sociale. E’ quindi opportuno e necessario che ci sia la prevalenza di un attore istituzionale rispetto alla gestione di un’area problematica ma non l’esclusività e, piuttosto, una visione integrata dei bisogni e dei servizi come previsto dalla stessa istituzione dei distretti socio-sanitari ma serve un modello utile all’attuazione di questi principi. L’emergenza giovani. In comunità arrivano utenti sempre più giovani tossicodipendenti e ciò evidenzia da un lato la maggiore necessità di un lavoro di prevenzione e dall’altro il ruolo delle politiche giovanili. Come può agire il Comune su questo fronte? Da un lato la competenza delle comunità locali nel “prendersi cura” della persona rientra nell’accezione di prevenzione, a tutti i livelli. Sulle micro politiche per i giovani il Comune investe molto, sia dal punto di vista delle risorse sia dal punto di vista delle attività. Il problema grosso sulle politiche giovanili è la mancanza di un piano nazionale. Come affrontare il rischio di “bruciare” un’intera generazione non può essere la sfida di un Comune ma dovrebbe essere oggetto di visione più ampia che impatta anche su altri attori istituzionali come la scuola, la formazione ecc… per dare luogo a “politiche di senso”. Anche per i giovani si rimarca la necessità di un approccio integrato che riconduca i singoli alla loro appartenenza alla comunità locale per fornire loro il sostegno necessario anche in una prospettiva di lungo periodo.

3.3 Responsabile e operatori della Comunità terapeutica Le interviste effettuate con responsabili ed operatori della Comunità terapeutica avevano l’obiettivo di analizzare, in particolare: � l’organizzazione della comunità allo stato attuale, e le criticità che la caratterizzano anche in

considerazione dell’evoluzione del fenomeno tossicodipendenza e della limitata disponibilità di risorse pubbliche;

� il processo di attuazione dell’intervento, individuando in particolare gli elementi che dovrebbero potersi riscontrare in un intervento adeguato e quelli che possono essere considerati indicatori di criticità nel processo di attuazione;

� i risultati che ci si attendono sulla singola persona in carico dall’attuazione dell’intervento, tenendo in considerazione le diverse fasi in cui esso si articola.

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Qui di seguito vengono messi in evidenza gli elementi di maggior rilievo emersi dalle interviste rispetto a ciascuno dei punti sopra elencati. 3.3.1 L’organizzazione e le sue criticità Esperienze lavorative sovrapposte e stratificate. Si tratta di una caratteristica naturale di tutte organizzazioni, che in questo caso è evidenziata non come elemento positivo, di arricchimento e di stimolo al confronto o come aspetto “neutro” ma come una criticità, probabilmente in ragione della rapida evoluzione negli ultimi 20 anni del fenomeno tossicodipendenze, da un lato e della stessa società dall’altro, che sembra aver determinato il sovrapporsi di esperienze e punti di vista diversificati da parte dei diversi operatori dell’organizzazione. C’è chi evidenzia una certa: confusione rispetto al punto di riferimento educativo/terapeutico, poco chiaro e condiviso tra gli operatori che avrebbero: una limitata consapevolezza […] rispetto all’organizzazione […] e ai suoi obiettivi. Si tratta di sottolineature di grande rilievo, in quanto denotano una scarsa conoscenza della mission organizzativa e degli strumenti a disposizione per il suo raggiungimento. Non mancano alcune critiche, pacate ma molto dirette, allo stesso modello organizzativo e ai suoi fondamenti valoriali. Qualcuno infatti nota che: la comunità si basa su schemi e modelli sociali desueti rispetto all’evoluzione della società esterna, [che c’è] mancanza di aderenza tra le richieste della società esterna e la comunità [e, ancor più “nello specifico” che] il progetto uomo è desueto rispetto all’evoluzione della tossicodipendenza. Vien dunque da chiedersi se il problema consista più nella “confusione” e “mancata consapevolezza” di quella che è l’organizzazione e dei suoi obiettivi, ovvero nella difficoltà da parte degli operatori a rapportarsi quotidianamente con le problematiche che incontrano sulla base di un approccio che non percepiscono più al passo con i tempi e con il fenomeno tossicodipendenza e, quindi, potenzialmente poco efficace. Il trattamento da “organizzativo” tende a divenire “individuale” . Il trattamento terapeutico dell’utente tende cioè a diventare un processo in carico al singolo operatore piuttosto che all’intera struttura. Questo dato evidenzia una difficoltà a armonizzare il lavoro “uno a uno” che caratterizza il rapporto tra educatore e persona in carico, con l’apporto essenziale e “sgravante” che l’organizzazione dovrebbe garantire al singolo operatore, che invece finisce per prendere in carico la persona, ma come singolo operatore e non come membro dell’organizzazione. Si tratta di una criticità non da poco che da un lato contrasta con l’approccio di comunità e dall’altro espone i singoli a un rischio elevato di burn-out. Questo elemento concorre tra l’altro a spiegare il notevole turnover degli operatori in comunità che a sua volta incide sulla professionalizzazione degli operatori. La scarsità di risorse economiche impedisce peraltro di ovviare a questo problema ostacolando il rafforzamento quali-quantitativo dello staff di operatori. Guardando al sistema comunità-ambiente esterno emerge che il rapporto tra la comunità e realtà esterna e, più in particolare, la capacità di adattamento dell’organizzazione è considerata un elemento problematico. Qualcuno infatti fa notare che la flessibilità dell’organizzazione rispetto agli input esterni e alle emergenze tende ad essere passiva, e che l’emergenza quotidiana è molto rilevante rispetto alla vita della comunità. Sono elementi di grande importanza e gravità se percepiti in modo così chiaro, in quanto una struttura socio-sanitaria come la comunità terapeutica, in relazione continua con attori esterni e con emergenze quotidiane è chiamata a saper rendere “ordinaria” la gestione di questi elementi di complessità sistemica, che non dovrebbero interferire troppo con l’attuazione dell’intervento terapeutico. Del resto si evidenzia anche una certa difficoltà di comunicazione con il mondo esterno alla comunità, ammettendo una certa: difficoltà di coniugare il dinamismo insito nella comunità con meccanismi più “stabili” di monitoraggio e valutazione aspetto che, coniugato a una certa mancanza di consapevolezza degli aspetti “burocratici” legati all’attività dell’operatore in Comunità finisce per comportare una limitata restituzione al SerT del lavoro svolto in comunità a livello individuale. Si tratta di un aspetto assolutamente centrale nell’economia di questo percorso di ricerca, in quanto evidenzia due criticità di base, legate l’una alla cultura organizzativa, l’altra alle

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caratteristiche insite nel lavoro di comunità: gli operatori dovrebbero pertanto acquisire una mentalità più orientata alla rendicontazione dell’attività, che al momento è piuttosto carente; è peraltro indispensabile che un sistema di monitoraggio e valutazione, per funzionare correttamente, si adatti e segua il dinamismo dei processi piuttosto che ostacolare il loro fluire. Sono stati poi messe in evidenza alcune caratteristiche dell’utenza o della struttura che ostacolano una piena attuazione del metodo educativo comunitario e mettono a priori a repentaglio l’efficacia del trattamento in comunità: la consistente presenza di utenti provenienti dal carcere (50% circa) mette in discussione l’impostazione del trattamento. Si tratta di un aspetto rilevante, in quanto evidenzia la contrapposizione tra la cultura carceraria, in cui vige il codice dell’omertà, con quella comunitaria, la cui parola d’ordine è la confrontazione costante e quotidiana tra gli ospiti della comunità e tra questi e gli operatori, mettendo tra l’altro in discussione il ruolo di “educatore” di questi ultimi a favore di un diverso ruolo di “controllore”. Altro aspetto rilevante è legato all’età degli ospiti della comunità, infatti, da un lato, la presenza di utenti giovani mette in discussione la validità del metodo di lavoro utilizzato in comunità e, dall’altro, c’è tra gli operatori la consapevolezza che la comunità non offre opportunità adeguate a ragazzi in giovane età quali la possibilità di fare uscite, avere passatempi, svolgere attività sportive e ludico ricreative ecc. Si noti che questi elementi di criticità confermano quanto evidenziato anche dai referenti del SerT. Riguardo all’organizzazione anche strutturale del servizio viene fatto notare che la compresenza di servizi diversificati […] ma interdipendenti […] implica che il metodo educativo della comunità non possa essere impiegato in modo pieno. Ad esempio le strutture deputate al trattamento delle persone con doppia diagnosi o con HIV sono dipendenti dal servizio di cucina della Comunità per quanto riguarda la ristorazione dei propri ospiti e ciò implica che i pasti devono essere forniti anche se i responsabili della cucina non si mostrano in grado eseguire il proprio compito in modo adeguato. In questo senso viene evidenziato che: il lavoro sulle responsabilità degli utenti è “edulcorato” rispetto a quanto avveniva un tempo. Un ulteriore elemento di criticità legato alla caratteristiche “fisiche” della struttura è legato poi al numero di ospiti presenti in comunità. Viene infatti notato che gli utenti sono pochi rispetto alle esigenze di manutenzione della struttura. Si tratta di un aspetto interessante che ha implicazioni non solo economiche34 ma anche sul piano del metodo educativo: da un lato, infatti, il basso numero di utenti della comunità impedisce l’adeguato avvicendamento nell’adempimento dei diversi ruoli e il “tutoraggio” da parte dei più “anziani” nei confronti dei più “giovani”, dall’altro questa condizione spesso richiede che gli educatori si sostituiscano agli utenti, assumendo la responsabilità del lavoro in questione, con ovvie conseguenze negative rispetto al raggiungimento degli obiettivi educativi prefissati. 3.3.2 Il processo terapeutico e il rapporto operatore utente: le criticità Dagli incontri con i responsabili e gli operatori è emerso che il processo tende ad essere meno chiaramente strutturato rispetto a un tempo, quando le fasi del percorso erano più chiaramente definite (dalla fase di accoglienza in cui la persona è aiutata a lavorare sulla propria emotività, alla seconda di comunità in cui gli sforzi sono concentrati sulla responsabilità e l’autodeterminazione, alla terza dei reinserimento in cui il focus dell’intervento è il rapporto con la realtà esterna). Le ragioni di questa tendenza sono rintracciate nel fatto che le esigenze (mediche, legali, lavorative) degli utenti tendono a stemperare la strutturazione del percorso “standard” ed in particolare l’attuazione della seconda fase (quella della comunità vera e propria focalizzata sulla responsabilizzazione del soggetto) durante la quale, in modo quasi paradossale la comunità si sta assumendo [la responsabilità di] tutta una serie di azioni che un tempo erano delegate all’utente

34 come vedremo trattando il punto di vista del SerT la “pesantezza” delle strutture comunitarie è chiaramente percepita come un retaggio del passato – quando strutture di questo tipo erano funzionali – che ostacola l’adeguamento dei servizi alla nuova configurazione dei bisogni.

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[…]. Ne deriva che rispetto al lavoro terapeutico con l’utente rimanga un punto interrogativo relativo allo step centrale, quello della responsabilizzazione e quindi del problem solving. Questa osservazione generale relativa al processo ha un riscontro più chiaramente visibile nelle caratteristiche del rapporto tra operatore e persona in carico e nella natura di tale “presa in carico”. Come si accennava sopra, infatti, la relazione tra operatore e utente tende a divenire individuale, facendo ruotare il percorso terapeutico attorno un rapporto a due, il che contrasta con l’approccio del lavoro in comunità. Il risvolto più critico di questa tendenza si ha quando l’operatore si sostituisce all’utente nella soluzione dei problemi, il che contrasta con l’obiettivo di responsabilizzare la persona e renderla autonoma. Ciò contribuisce inoltre a generare una confusione dei ruoli tra operatore e utente, in quanto il primo dovrebbe essere di stimolo e guida al secondo e quindi essere sì, “al suo servizio”, ma non sostituirsi a lui nella lettura dei problemi e nella presa di decisioni, bensì supportarlo nel compiere in prima persone tali azioni. Questa dinamica, tra l’altro, comporta che l’operatore sia talvolta portato a basare il proprio rapporto terapeutico sull’emotività, attendendosi riconoscenza e gratitudine da parte della persona in carico per la vicinanza emotiva e il concreto aiuto prestatole, giungendo talvolta all’estremo del ricatto morale35. Alcune criticità nel processo riguardano il rapporto tra Comunità terapeutica e l’ente inviante, in primis il SerT. In particolare gli operatori lamentano che all’avvio del percorso sovente la documentazione in arrivo dai SerT è incompleta e contiene indicazioni generiche. Questa problematica ha motivazioni varie e non facilmente risolvibili: in primo luogo il rapporto interpersonale tra terapeuta/operatore e persona in carico è irriducibile a qualsiasi tipo di strumento e per quanto approfondito e puntuale possa essere l’esame degli operatori del SerT prima dell’invio alla Comunità terapeutica, nel momento in cui essi si trovano a stendere una relazione, compilare un modulo per l’invio non potranno mai restituire appieno quanto essi hanno percepito e vissuto nel rapporto con la persona. Una ulteriore riflessione riguarda proprio il tipo di rapporto che intercorre tra la persona in carico e i due tipi di struttura (e operatori): se è certo che il rapporto con il SerT e i suoi operatori può essere molto prolungato nel tempo e nella frequenza e quindi favorire una conoscenza approfondita dell’utente da parte degli operatori, questo non sarà mai paragonabile al tipo di rapporto che si instaura con la convivenza in Comunità, durante la quale, tra l’altro, divengono ben più manifesti i comportamenti e gli atteggiamenti della persona nella relazione con il gruppo dei pari e con gli stessi operatori. E’ del resto indubitabile che un’indagine indipendente compiuta dagli operatori del SerT, da un lato e da quelli della Comunità, dall’altro, è una garanzia per la persona che viene presa in carico e motivo di confronto e arricchimento tra gli operatori e, forse, una passo in avanti verso il successo terapeutico. Sul fronte delle informazioni e del lavoro di rete si registrano evidenti criticità sottolineate anche dal SerT. Emblematico a questo riguardo il caso del sistema informativo MFP: alcuni operatori della Comunità fanno notare, infatti, che gli operatori del SerT e della CT non possono accedere ai dati reciprocamente caricati su MFP: paradossalmente, un sistema informativo online che dovrebbe facilitare la comunicazione tra i diversi attori del sistema è, al contrario, fonte di frustrazione proprio rispetto agli stessi obiettivi per i quali è stato concepito e implementato. Un ulteriore elemento di criticità del processo che ha a che vedere con il rapporto tra SerT e Comunità è individuato nella durata del percorso terapeutico, infatti, dal punto di vista degli operatori della Comunità il tempo previsto è insufficiente per lavorare con l’utente in relazione ai problemi che presenta e alla loro gravità: si tratta di un aspetto cruciale che tra l’altro, come visto trattando il punto di vista dei referenti del SerT, in qualche modo contrappone l’ente inviante a

35 “Ma come, dopo tutte le attenzioni che ti ho dato, dopo tutto quello che ho fatto per te, è così che mi ripaghi?”

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quello ausiliario. Referenti e operatori del SerT, infatti, criticano in genere l’eccessiva durata del percorso comunitario. Un altro problema relativo alle esigenze di monitoraggio e rendicontazione dell’attività svolta è che nonostante la buona volontà l’operatore non ha tempo sufficiente per annotare tutte le osservazioni che compie sui singoli utenti: è un limite rilevante perché impedisce non solo una restituzione efficace dell’andamento del processo da parte della Comunità al SerT ma anche la condivisione piena delle osservazioni effettuate tra gli stessi operatori della Comunità. Ulteriori elementi di criticità del processo riconducibili all’atteggiamento della persona rispetto a percorso terapeutico o alla relazione che si viene ad instaurare tra operatore e utente. Secondo quanto riferito dagli operatori sovente l’utente presenta una motivazione molto scarsa o assente, mentre è evidente che qualsivoglia cambiamento può darsi solo a condizione che la persona in carico abbia un atteggiamento costruttivo e si attivi rispetto agli obiettivi concordati con gli operatori della comunità. Altra problematica si verifica quando l’utente accetta le proposte dell’operatore senza essere realmente consapevole del proprio problema: è una criticità riguarda che in particolare la prima e la seconda fase del percorso comunitario, finalizzate proprio a migliorare la consapevolezza, la responsabilità e l’auto-direzione da parte della persona. Criticità specifiche riguardano poi l’atteggiamento della persona in carico rispetto alle difficoltà che incontra; talvolta, infatti: l’utente sottovaluta le difficoltà che può incontrare nel proprio percorso mentre in altri casi pare annichilito dalle difficoltà che può incontrare nel proprio percorso. Un altro problema che riguarda proprio la seconda fase del percorso consiste nel fatto che gli utenti più avanti nel percorso sono in reinserimento e quindi non possono assumere responsabilità di gestione all’interno; in pratica chi ha già maturato dei progressi significativi rispetto all’assunzione di responsabilità, alla capacità di problem solving, ecc… e sarebbe quindi in grado di affiancare gli operatori nella rieducazione degli altri ospiti della Comunità e di supervisionarne il lavoro in una proficua dinamica di peer education, accede invece alla fase successiva già orientata al reinserimento lavorativo, costringendo tra l’altro gli operatori, come detto sopra, a sostituirsi agli utenti nell’assunzione delle responsabilità. In relazione al metodo educativo e terapeutico adottato nella Comunità gli operatori notano che talvolta l’utente non è capace di utilizzare gli strumenti che gli sono stati messi a disposizione in comunità; il riferimento qui è alle diverse occasioni di confronto e di crescita previste (in particolare vari strumenti per il confronto tra utenti e tra utenti e operatori sia in forma individuale che di gruppo). Non meno critico è il caso in cui tali momenti di confronto sono utilizzati, ma in modo improprio o addirittura controproducente. Accade infatti talvolta che l’utente utilizzi gli strumenti (es. gruppo dinamico) come momento di scarico della tensione e non come momento di crescita. Una criticità legata in particolare alla terza fase del reinserimento si verifica quando l’utente ha poche se non nulle esperienza lavorative da far valere nella ricerca di un’occupazione, problema che solleva tra l’altro la questione spinosa relativa all’integrazione tra politiche socio-sanitarie e politiche del lavoro e della formazione e peraltro emersa anche dal confronto con il SerT. Ulteriore criticità legata alle caratteristiche degli utenti è rintracciata nel fatto che l’operatore a causa della consistente presenza di detenuti in pena alternativa si trova a rivestire un ruolo “equivoco” (da educatore diviene una sorta di controllore): questo ha importanti ripercussioni sia sul ruolo degli operatori e come essi si percepiscono e sono percepiti dagli ospiti della Comunità, sia sugli equilibri interni tra gli utenti provenienti dal carcere e non e tra questi due gruppi e il gruppo degli operatori della Comunità: come accennato in precedenza vengono infatti a “scontrarsi” la cultura delle confrontazione (comunitaria) e quella dell’omertà (carceraria). 3.3.3 Condizioni di successo dell’intervento e indicatori di processo e di risultato A partire da quanto emerso dalle interviste con responsabili e operatori della Comunità è stata avviata una riflessione di gruppo finalizzata a chiarire in primo luogo quali dovrebbero essere le caratteristiche di un percorso terapeutico adeguato e positivo sul piano degli atteggiamenti e dei

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comportamenti sia dell’utente che dello stesso operatore, per individuare i fattori che condizionano il successo dell’intervento e gli indicatori di processo. Successivamente la riflessione del gruppo si è spostata sull’individuazione degli indicatori dei risultato, tenendo conto dell’articolazione in fasi del percorso comunitario e dei risultati intermedi (o prossimali) che un utente dovrebbe raggiungere per poter passare da una fase a quella seguente La figura riportata di seguito (figura 4) riporta alcuni degli indicatori così individuati rapportati alle diverse fasi del percorso comunitario. Come si vede a ciascuna fase del percorso è ricondotto dagli operatori e dai responsabili il raggiungimento di risultati intermedi che sono del resto propedeutici a quelli prefissati per la fase successiva del percorso. I risultati raggiunti dall’utente in ciascuna fase devono poi – e non è scontato – essere mantenuti dopo il passaggio alla fase successiva e insieme sono funzionali al raggiungimento degli obiettivi finali del percorso, chiaramente riferiti all’inclusione sociale e all’autonomia della persona. Al contempo vi sono atteggiamenti e comportamenti sia dell’utente che dello stesso operatore in assenza dei quali è difficile immaginare che si possano raggiungere sia i risultati intermedi che tantomeno quelli finali. Figura 4 – Alcuni degli indicatori di processo e di risultato individuati con gli operatori rapportati alle fasi del percorso comunitario 4. Costruzione degli strumenti, raccolta e analisi dei dati e sostegno all’uso della valutazione Dopo questo lavoro di chiarificazione concettuale il percorso valutativo è proseguito con la costruzione degli strumenti di osservazione. Anche questa fase è stata svolta in collaborazione con gli operatori e i responsabili grazie a incontri successivi che hanno portato alla costruzione di 5 schede, le prime due riferite agli indicatori di processo e ai fattori condizionanti, le altre tre ai risultati raggiunti dall’utente nelle diverse fasi del percorso: • scheda valutazione processo – operatore, • scheda valutazione processo – utente, • scheda valutazione risultati accoglienza,

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• scheda valutazione risultati comunità, • scheda valutazione risultati reinserimento. Le schede di valutazione contengono un numero variabile dai 10 ai 25 item riferiti agli indicatori precedentemente individuati e rispetto ai quali all’operatore è richiesto di dare una valutazione su una scala di tipo Likert a 5 modalità di risposta. Dopo una prima sperimentazione e confronto di gruppo le schede sono state compilate dall’operatore di riferimento e dal responsabile per ciascun utente. Nel caso della valutazione dell’operatore, la scheda è stata sia auto-amministrata (autovalutazione) sia compilata dal responsabile in riferimento a ciascuno degli utenti. La compilazione della scheda di processo è alternata con quella di risultato per consentire un feedback sui comportamenti e sugli atteggiamenti attesi da operatore e utente in relazione ai risultati ottenuti dall’utente. L’osservazione dei punteggi ottenuti in risposta ai singoli item o a gruppi riferiti alla stessa dimensione consente un feedback analitico sulle aree problematiche dell’utente e, allo stesso tempo, il punteggio medio complessivo rapportato al punteggio massimo ipotetico permette di avere un feedback complessivo sui risultati raggiungi al momento considerato in ciascuna fase. Tale dato consente poi di osservare nel tempo la variazione positiva o negativa dello stesso utente (che può essere confrontata con il punteggio ottenuto sugli indicatori di processo sia dall’utente che dal suo operatore) di avere un feedback sull’efficacia del percorso per gruppi di utenti o di tutti gli ospiti della Comunità e permette di confrontare utenti diversi che si trovano nella stessa fase o in fasi diverse del percorso nel momento considerato. Figura 5 – Esempio di grafico basato sui risultati di due valutazioni successive sugli indicatori di risultato della scheda relativa all’accoglienza

A mero titolo esemplificativo in figura 5 si vede che le valutazioni successive ottenute dall’utente sui diversi indicatori permettono di osservarne l’andamento (per la maggior parte stabile o in peggioramento) rispetto ai diversi obiettivi chiave della fase considerata. Allo stesso tempo il punteggio medio ottenuto, 72% nella prima osservazione, 64% nella seconda, permette di notare un peggioramento nella situazione complessiva. La lettura dei risultati delle valutazioni attraverso le tabelle e i grafici prodotti dal valutatore viene effettuata in gruppo con gli operatori riuniti e il responsabile, al fine di sostenere l’uso della valutazione sia rispetto al lavoro sui singoli casi considerati e valutati sia come momento di riflessione e confronto sulle ragioni delle valutazioni attribuite dagli operatori e quindi, indirettamente, come momento formativo per il gruppo responsabile – operatori.

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5. Considerazioni conclusive A conclusione di queste pagine aggiungiamo solo qualche riflessione sul percorso valutativo intrapreso (e non ancora concluso). La prima riguarda la cultura della valutazione, ancora scarsa anche in contesti in cui essa è già in effetti molto praticata – anche se talvolta in modo poco formalizzato e strutturato – e comunque indispensabile al raggiungimento dei risultati del servizio. Anche se la valutazione in questo caso è stata richiesta e voluta (non imposta) dalla cooperativa sociale che eroga il servizio considerato, molti degli operatori coinvolti hanno manifestato non poche resistenze al processo valutativo interpretandolo – nonostante i ripetuti tentativi di chiarimento da parte del valutatore – come una minaccia alla legittimazione del proprio ruolo. Sono stati necessari molti mesi di lavoro per superare questo atteggiamento e osservare maggior coinvolgimento e cooperazione. La seconda riflessione riguarda l’utilità della valutazione. Nonostante le resistenza sopra citate e una volta superatele, questo processo valutativo ha cominciato a mostrare la sua utilità favorendo una lettura più omogenea e condivisa dei processi e degli obiettivi del servizio grazie al confronto tra operatori, permettendo di individuare le criticità e di ragionare insieme sui modi più opportuni di superarle: si può dire, insomma, che questa valutazione sta producendo un processo di apprendimento organizzativo. In alcuni casi la valutazione sembra anche rassicurare gli operatori fornendo uno strumento di orientamento rispetto al loro agire quotidiano. Del resto è certo che il percorso e gli strumenti di valutazione rappresentano, dal punto di vista della Comunità e della Cooperativa sociale che la comprende, un elemento di argomentazione dei risultati raggiunti (e non) e quindi anche di negoziazione con l’Ente inviante. A tale riguardo benché si sia partiti proprio da una ricognizione dei punti di vista degli altri attori del sistema, appare ora necessario condividere e confrontarsi con l’ente inviante sul percorso intrapreso fino a questo punto. Come già accennato si tratta di un work in progress che prevede di svilupparsi ancora grazie al confronto con e tra gli operatori per addivenire ad una maggiore strutturazione logica del percorso e alla costruzione di una teoria del programma condivisa dagli operatori attraverso una ulteriore riflessione sull’attuale articolazione del percorso, sugli strumenti utilizzati nelle diverse fasi e sullo scostamento tra quanto previsto dal programma e quanto effettivamente realizzato nella sua implementazione. Aggiungo da ultimo che non sembra pensabile, allo stato attuale, procedere a un lavoro di questo tipo senza un supporto esterno, non certamente per incapacità del responsabile o degli operatori, quanto per una intrinseca difficoltà – soprattutto in contesti come quello considerato, pressati da emergenze quotidiane – a trovare dei momenti e degli spazi di confronto che, peraltro, sono indispensabili ove si voglia riflettere sul proprio agire per migliorarlo. Riferimenti bibliografici Bhaskar R. (1997), A Realist Theory of Science, London, Verso. Bertin G. (2007), Governance e valutazione della qualità nei servizi socio-sanitari, Milano, FrancoAngeli. Bertin G. (2009), Complessità e valutazione: l’impatto sulle pratiche dei servizi socio-sanitari, “Rassegna Italiana di

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