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1 Una valutazione completa non invasiva con Ecocardiografia Trans-toracica e Tomografia Computerizzata (1) Una donna di 30 anni fu inviata per la chiusura percutanea di difetto del setto atriale (DIA). La a radiografia del torace mostrava cardiomegalia; ipertensione arteriosa polmonare; e il segno della paziente non era cianotica, presentava un soffio sistolico da eiezione e un ampio sdoppiamento fisso del secondo tono. L "scimitarra" (A, frecce), un'opacità curvilinea prodotta dalla vena polmonare anomala destra (PV) che drena nella vena cava inferiore (IVC). Un ecocardiogramma ha dimostrato un DIA tipo ostium

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Una valutazione completa non invasiva con Ecocardiografia Trans-toracica e Tomografia Computerizzata (1)

Una donna di 30 anni fu inviata per la chiusura percutanea di difetto del setto atriale (DIA). La

a radiografia del torace mostrava cardiomegalia; ipertensione arteriosa polmonare; e il segno della

paziente non era cianotica, presentava un soffio sistolico da eiezione e un ampio sdoppiamento fisso del secondo tono.

L "scimitarra" (A, frecce), un'opacità curvilinea prodotta dalla vena polmonare anomala destra (PV) che drena nella vena cava inferiore (IVC). Un ecocardiogramma ha dimostrato un DIA tipo ostium

secundum (B, frecce, Online Video 1) con shunt sinistro/destro e vena polmonare anomala destra (scimitar vein) (C, frecce nere, Online Video 2), che si svuota nella congiunzione tra atrio destro (right atrium) e vena cava inferiore (IVC) confermato da Doppler spettrale (D). La tomografia computerizzata elevata con mezzo di contrasto ha evidenziato una grossa vena scimitarra (E, frecce) creata da una giunzione di due vene polmonari, la superiore destra (F, freccia) e l'inferiore (F, testa di freccia) che drenano nella vena cava inferiore (IVC). Questo caso illustra l'importanza del riconoscimento del segno della scimitarra in un

With an Atrial Septal

Indice: etabloccante  pleiotropico,  pag.  2‐11;  Lo  studio  BALANCE:  benefici  clinici  ed  esiti  nel 

l   o i  

paziente con difetto interatriale. L'errore nell'identificare la vena polmonare anomala o vena scimitarra porta alla persistenza dello shunt sinistro/destro e di ipertensione arteriosa polmonare anche dopo la chiusura dell'ostium secundum .

1. Puwanant S., Tumkosit M., Sitthisook S.,et al. Scimitar Sign in a Patient Defect. A Comprehensive Noninvasive Assessment With Transthoracic Echocardiography and Computed Tomography. J Am Coll Cardiol, 2009; 54:1556

 

Un  blungo  periodo  dopo  trapianto  intra‐coronarico  di  cellule  staminali  autologhe  del midollo osseo  in  pazienti  con  infarto  acuto  del  miocardio,  pag.  11‐15;  Acidi  grassi  omega‐3 polinsaturi  e  protezione  dalle  patologie  cardiovascolari,  pag.  16‐20;  Conseguenze Cardiovasco ari al Divieto del  Fum   in  Luogh  Pubblici e nei Posti di Lavoro, pag. 21‐23;  Il nuovo Codice di Deontologia dell’infermiere, pag. 24‐27 

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Il nebivololo è un bloccante del recettore β-adrenergico di terza generazione con

proprietà di vasodilatatore. A differenza di quelli del carvedilolo, che sono mediati dal blocco del recettore -adrenergico, questi effetti emodinamici nel caso del nebivololo, sono principalmente mediati da una stimolazione diretta della sintasi endoteliale dell'ossido nitrico (eNOS).

Meccanismi della Disfunzione Endoteliale 

L'endotelio regola non soltanto il tono ma anche la struttura e la biologia dei vasi sanguigni mediante la liberazione di numerose varie sostanze. L'ossido nitrico (NO) è prodotto via ossidazione in 2 stadi dell'aminoacido L-arginina, possiede potenti proprietà antiaterosclerotiche, e lavora in concerto con la prostaciclina per inibire

aggregazione piastrinica, adesione di neutrofili a cellule endoteliali, ed espressione di molecole infiammatorie. A concentrazioni elevate, NO inibisce la proliferazione di cellule muscolari lisce. L'emivita brevissima di questo radicale libero molto instabile è determinata principalmente dalla sua capacità di reagire con altri radicali liberi derivati dall'ossigeno come il superossido per formare l'intermediario perossinitrito assai reattivo. Di là di questo diretto effetto decontaminante di NO, superossido e perossinitrito possono innescare meccanismi che sono opposti a quelli di NO e, in concentrazioni elevate possiedono effetti citotossici mediati da un danno diretto ossidativo di proteine, lipidi, e acido deossiribonucleico (1). Una produzione di ossido nitrico (NO) e superossido (O2 –) sbilanciata porta a formazione inappropriata di perossinitrito (ONOO–). Perossinitrito e superossido causano disfunzione vascolare attraverso numerosi percorsi metabolici (1). Perossinitrito è un potente inibitore del sistema segnaletico di NO e prostaciclina (PGI2), e può causare disaccoppiamento di eNOS, per cui questo enzima produce superossido invece di NO. Perciò, la produzione nei tessuti di superossido e conseguente formazione di perossinitrito esercita un'importante

influenza sull'omeostasi vascolare e sulla biodisponibilità di NO. Infatti è stata recentemente dimostrata una diretta responsabilità dello stress ossidativo in fisiopatologia cardiovascolare, in quanto quei pazienti che mostrano segni evidenti di stress ossidativo vascolare presentano una prognosi peggiore (Fig. 1) (2).

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Figura 1 Radicali Liberi di Ossigeno in Fisiopatologia Cardiovascolare 

Figura 1: (Sinistra) Analisi Kaplan-Meier che dimostra la proporzione cumulativa di pazienti senza eventi cardiovascolari durante follow-up. L'effetto di vitamina C su vasodilatazione indotta da acetilcolina è diviso in valori sotto e sopra la mediana. Ẻ interessante rilevare che i pazienti che hanno risposto bene al trattamento con vitamina C presentavano una prognosi peggiore rispetto a quella dei pazienti con una debole risposta a vitamina C. Ciò indica che un marcato miglioramento indotto da vitamina C di disfunzione endoteliale evidenzia un aumentato stress ossidativo in arterie coronariche. (Destra) Ipotesi meccanicistica: vitamina C può restaurare la funzione di eNOS o per diretta decontaminazione di superosside (rosso) oppure recuperando (couple) eNOS. (1). NOS = sintasi dell'ossido nitrico; Vit = vitamina (2). Pertanto, il trattamento medico della disfunzione vascolare dovrebbe essere designato non solo all'incremento dei livelli di NO, ma anche alla riduzione di quelli di superossido e perossinitrito vascolare. In linea con tale principio, un certo numero di studi ha dimostrato che sostanze che semplicemente distribuiscono NO come i nitrati organici peggiorano invece che migliorare la disfunzione endoteliale perché si stimola ulteriore formazione di perossinitrito (3). Sono perciò necessari approcci terapeutici differenti: in situazioni di disfunzione endoteliale ed elevato stress ossidativo, il farmaco ideale dovrebbe stimolare produzione di NO e simultaneamente ridurre stress ossidativo nei tessuti vascolari.

Farmacocinetica e proprietà antiossidanti e stimolanti NO del Nebivololo 

Nebivololo è una combinazione racemica 1:1 di un isomero D- e uno L-. Al presente è il solo beta-bloccante (β) la cui struttura differisce fondamentalmente da quella derivata da propranololo (Fig. 2) (4).

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Figura 2 Struttura di Nebivololo Confrontata con quella di altri β­Bloccanti 

Gli effetti emodinamici indotti da nebivololo derivano dalla combinazione di numerosi meccanismi. Questi includono un effetto cronotropo negativo, inibizione del torrente simpatico dai centri vasomotori cerebrali, inibizione di adrenorecettori- 1 periferici (5), soppressione di attività reninica, e il più importante, diminuzione di resistenze vascolari periferiche. Mentre, l'isomero-D del nebivololo possiede rilevanti proprietà di β1-bloccante selettivo e blande di vasodilatazione, l'isomero-L determina la stimolazione di eNOS e conseguente vasodilatazione endotelio-dipendente (6), e soltanto ad elevati dosaggi soprafarmacologici esercita effetti β-bloccanti (7). Tali differenze tra isomeri potrebbero avere implicazioni cliniche, in quanto si potrebbe ipotizzare la loro somministrazione separata in pazienti selezionati. In combinazione, i 2 stereoisomeri di nebivololo cooperano nel costituire l'impatto emodinamico del farmaco (7,8). La selettività molto elevata per recettori adrenergici β1- versus β2- dell'isomero-D (Tabella 1) permette di spiegare i limitati effetti sulla reattività delle vie aeree e sulla sensibilità insulinica (9,10) come anche il minor effetto inotropo negativo di nebivololo in pazienti con scompenso cardiaco (11,12). Questa selettività tende a essere sopraffatta con dosaggi >10 mg e nei difetti di metabolizzazione, che causa la perdita di tale caratteristica positiva di nebivololo. Benché nebivololo non presenti attività

simpaticomimetica intrinseca (e ha proprietà -bloccanti, come carvedilolo), possiede attività agonistica sui β3-recettori, che permette in parte di spiegare i suoi effetti

endotelio tropici (5).

Tabella 1 Differenze di Selettività di β­Bloccanti per i Sottotipi di β­Recettori 

Composto Selettività β1/β2 Effetto Addizionale

Propranololo 1

Metoprololo 74

Bisoprololo 103

Celiprololo 69 agonismo β2 (polmoni, endotelio)

Carvedilolo 1 1-bloccante, antiossidante

Nebivololo 321 agonismo β2-3 (endotelio)

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Proprietà Elettrofisiologiche  

Come altri β-bloccanti, nebivololo possiede importanti propriertà elettrofisiologiche

poiché innalza la soglia di fibrillazione ventricolare, diminuendo aritmie ventricolari in modelli animali d'ischemia o cardiomiopatia indotta (13), e riduce la dispersione di QT, un marker di rischio aritmico (14). Inoltre, nebivololo riduce la dispersione dell'onda P sull'elettrocardiogramma, che attenuerebbe il rischio di fibrillazione atriale, una delle principali cause di morte nello scompenso cardiaco e nell'ipertensione (15).

Effetti Vasodilatatori Endotelio Dipendenti 

Accanto agli effetti cardiaci, la proprietà più interessante (e clinicamente rilevante) di nebivololo è la capacità di causare specifica vasodilatazione endoteliale. Gao et al. (16) ha dimostrato che la vasodilatazione dose-dipendente indotta da nebivololo è abolita dopo la rimozione di endotelio o inibizione di eNOS. Altri farmaci della stessa classe, come celiprololo o bopindololo, esercitano una stimolazione di eNOS simile a quella dell'isomero L di nebivololo (17–21). Tra i vari meccanismi proposti per spiegare l'azione rilassante vascolare indotta da nebivololo, (17,22), i più convincenti in proposito

includono attivazione di eNOS via legame di un metabolita del nebivololo a recettore-β2 (23), legame diretto di nebivololo al recettore-β3 (24), e/o stimolazione all'efflusso di trifosfato di adenosina endoteliale (Fig. 3) (25).

Figura 3: Processi molecolari coinvolti nell'emissione di NO  

Fig. 3: Nei glomeruli renali, nebivololo attiva canali ionici meccano sensibile, che successivamente rilasciano trifosfato di adenosina (ATP) che a sua volta stimola recettori P2Y, che provocano attivazione di eNOS calcio dipendente (25). Nebivololo o suoi metaboliti possono anche attivare recettori β2 (in arterie di conduttura) (23) o recettori β3 (in arterie di resistenza) (24), che tramite monofosfato ciclico di guanosina anche incrementano calcio intracellulare, attivando quindi eNOS. cAMP = monofosfato ciclico di adenosina; cGMP = monofosfato ciclico di guanosina; ERβ = recettore beta di estrogeni; eNOS = sintasi endoteliale di ossido nitrico; sGC = guanilato ciclico solubile (4).

La vasodilatazione eNOS dipendente di nebivololo è stata anche riprodotta nella circolazione umana arteriosa e venosa, (26–28). L'ampiezza di questo effetto è stata simile in pazienti ipertesi e volontari sani (Fig. 4), ciò dimostra che la presenza di malattia vascolare non limita la vasodilatazione endotelio dipendente e il beneficio emodinamico ottenibile per via farmacologica.

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Figura 4 Impatto di Nebivololo sulle risposte endoteliali e dei radicali liberi 

Fig. 4: Effetti di un'infusione intra-arteriosa di nebivololo sul flusso ematico dell'avambraccio in soggetti sani di controllo (A) e in pazienti con ipertensione essenziale (B) (26,27). In entrambi i gruppi, nebivololo ma non atenololo ha prodotto vasodilatazione, un effetto che fu antagonizzato dall'inibizione della sintasi endoteliale di ossido nitrico (eNOS). (C) Variazione percentuale del flusso ematico dell'avambraccio in risposta all'acetilcolina, vasodilatatore endotelio-dipendente, dopo trattmento rispettivamente con atenololo o nebivololo. Solo nebivololo ha migliorato in modo marcato la funzione endoteliale in pazienti ipertesi (30). (D) Nebivololo, ma non altri β-bloccanti, inibisce la produzione di superossido indotta da forbolester (PDBu) in neutrofili di conigli ipercolesterolemici (34). EPR = risonanza elettronica paramagnetica. Dati simili sono stati riprodotti anche con celiprololo, che può causare inoltre vasodilatazione coronarica diretta (29). In uno studio randomizzato doppio cieco in pazienti ipertesi, Tzemos et al. (30) hanno dimostrato che la terapia con nebivololo era associata con un miglioramento molto significativo della funzione endoteliale mediata da NO nonostante che gli effetti ipotensivi siano stati comparabili con quelli di atenololo, (Fig. 4). Gli effetti benefici sulla funzione endoteliale del trattamento con nebivololo sono stati dimostrati in fumatori (31) in pazienti con ipertensione (32) o malattia coronarica (33).

Studi Clinici  

Le indicazioni principali alla terapia con nebivololo includono ipertensione sistemica, scompenso cardiaco, e cardiopatia coronarica. Nell'ipertensione essenziale lieve o moderata, la terapia con 5-10 mg di nebivololo ha prodotto un impatto relativamente modesto su pressione arteriosa diastolica (35), una

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caratteristica che si ritiene contribuisca al profilo di sicurezza del farmaco. In termini di efficacia sulla pressione arteriosa sistolica, studi controllati (36–38) hanno evidenziato che nebivololo ha efficacia comparabile con quella di altri β-bloccanti e Ca2+-antagonisti ed è alquanto più potente degli inibitori l'enzima convertente l'angiotensina (ACE) (38). L'inizio tipico del massimo effetto anti-ipertensivo di nebivololo compare dopo 2 - 8 settimane di terapia; una durata intermedia tra quella degli ACE inibitori (più lenta) e quella di amlodipina (più rapida). Studi clinici e meta-analisi hanno dimostrato una minore efficacia dei betabloccanti nella prevenzione primaria di eventi coronarici, della mortalità totale e cardiovascolare rispetto ad altre terapie anti-ipertensive basate sull'uso di diuretici a basse dosi, specialmente negli anziani (39). Di 22 studi controllati randomizzati che hanno valutato beta-bloccanti per la cura dell'ipertensione, 9 di essi riportava i valori della frequenza cardiaca. I 9 studi valutarono 34,096 pazienti con beta-bloccanti contro 30,139 soggetti che assumevano altri anti-ipertensivi e 3,987 pazienti con placebo. Paradossalmente, una minore frequenza cardiaca (come quella raggiunta nei gruppi beta-bloccanti al termine dello studio) fu associata con maggiore rischio per gli end points che includevano, mortalità da tutte le cause (r = –0.51; p < 0.0001), mortalità cardiovascolare (r = –0.61; p < 0.0001), infarto miocardico (r = –0.85; p < 0.0001), ictus (r = –0.20; p = 0.06), o scompenso cardiaco (r = –0.64; p < 0.0001). A differenza dei pazienti con infarto miocardico e di quelli con scompenso cardiaco, nei pazienti ipertesi i beta-bloccanti associati con la riduzione della frequenza cardiaca aumentavano il rischio di eventi cardiovascolari e di morte (40). In mancanza di grandi studi sugli ipertesi e particolarmente di confronto di nebivololo con altri farmaci, l'impiego di un qualunque β-bloccante come primo agente nell'ipertensione rimane in discussione. Scompenso cardiaco. Grandi studi randomizzati e meta-analisi (41) hanno dimostrato che la somministrazione di β-bloccante riduce morbilità e mortalità a 5 anni di circa il 30% in pazienti con scompenso cardiaco. Il beta-blocco diminuisce spinta adrenergica, modula equilibrio simpatico-vagale e variabilità della frequenza e migliora la prestazione cardiaca. La terapia β-bloccante, tuttavia, non è priva di effetti collaterali in questi pazienti, principalmente a causa degli effetti inotropici e cronotropici negativi di tali farmaci. Mentre gli altri β-bloccanti agiscono tipicamente riducendo il volume sistolico, nebivololo e carvedilolo preservano la funzione ventricolare sinistra, causano vasodilatazione periferica, conservano volume sistolico e portata cardiaca, e preservano il cronotropismo cardiaco durante sforzo (42-45). Inoltre, rispetto a bisoprololo, nebivololo e carvedilolo non provocano l'incremento di (o in realtà migliorano) (46) pressione arteriosa e capillare polmonare (47). Recentemente, i ricercatori dello studio SENIORS (Study of Effects of Nebivolol Intervention on Outcomes and Rehospitalization in Seniors With Heart Failure) in pazienti con scompenso cardiaco anziani, oltre i 70 anni di età, hanno ottenuto con nebivololo, confrontato con placebo, sia una riduzione proporzionale del 14% di tutte le cause di mortalità che un miglioramento della funzione e dei diametri cardiaci (48) ma non dell'ospedalizzazione (49). Questi dati risultano essere in qualche modo meno favorevoli di quelli osservati con altri β-bloccanti, ma restringendo l'analisi a pazienti più giovani, <75 anni e con una frazione di eiezione <35%, si è rilevato un rapporto di rischio di 0.62, in linea con quello ottenuto in altri studi con altri β-bloccanti. Allora, la terapia con β-bloccanti costituisce un presidio importante e prezioso nel trattamento dello scompenso cardiaco, benché non si conosca l'esatto meccanismo di azione che include la riduzione dello stress parietale ventricolare, il rimodellamento vantaggioso del ventricolo sinistro, l'inibizione neuro-ormonale, la protezione da eventi ischemici. Al presente, non sono reperibili studi controllati di confronto degli effetti del nebivololo con quelli di altri β-bloccanti (selettivi o non selettivi), per cui sono necessari ulteriori studi comparativi.

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Malattia arteriosa coronarica. Nebivololo confrontato con atenololo si è dimostrato più efficace nel migliorare la tolleranza allo sforzo e il tempo di comparsa di angina durante il test ergometrico (50). Nebivololo e carvedilolo aumentano la riserva di flusso

coronarico in pazienti con cardiopatia ischemica e in quelli con cardiomiopatia dilatativa non ischemica, in misura più consistente di altri β-bloccanti. Questo reperto può essere associato ad una riduzione clinicamente rilevante della soglia ischemica (51). Nebivololo è controindicato in pazienti con grave bradicardia, blocco nodale atrio-ventricolare superiore al primo grado, shock cardiogenico, insufficienza cardiaca scompensata, e grave malattia epatica. In pazienti con asma o bronco-pneumopatia cronica ostruttiva, la maggiore selettività per i β1-recettori di nebivololo risulta in migliorata tollerabilità (52,53). In soggetti ipertesi, dopo 4 - 12 settimane di trattamento con nebivololo, sono effettivamente aumentati il flusso di picco espiratorio e i parametri di qualità di vita (54). Similmente, nebivololo non influenza libido e prestazione sessuale e, ciò probabilmente deriva da un'azione compensatoria dell'aumentata emissione di NO (54). In contrasto con metoprololo, nebivololo migliora i punteggi di attività sessuali secondarie e disfunzione erettile (55), una caratteristica che potrebbe migliorare notevolmente l'accondiscendenza a questo farmaco. Poiché è metabolizzato da CYP450-2P6, nebivololo è potenziato dagli inibitori di questo enzima, come l'antidepressivo fluoxetina, e quindi dovrebbe essere evitata la sua somministrazione contemporanea.

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Prof. Paolo Rossi, primario cardiologo Novara e-mail: [email protected]

Razionale 

Dopo un infarto del miocardio (IMA) si instaurano una serie di variazioni strutturali ed istopatologiche del ventricolo sinistro che determinano una progressiva riduzione delle sue performance. Scopo dello studio è stato quello di valutare l’effetto dell’impianto di cellule autologhe midollari (BMC) sull’ emodinamica, geometria e contrattilità ed esiti clinici a distanza di 5 anni da un episodio di IMA.

Metodi 

Furono sottoposti a trapianto di BMC autologhe per via intracoronarica 62 pazienti 7 ± 2 giorni dopo un IMA. Le cellule furono infuse direttamente nelle arterie dell’area infartuata. Il gruppo di controllo fu costituito da 62 pazienti con IMA e con confrontabile frazione di eiezione (EF) ventricolare sinistra (LV). Tutti i pazienti furono sottoposti a vari accertamenti quali coronarografia, cateterizzazione cardiaca destra, ECG a riposo e sotto-sforzo, ecocardiogramma ed ECG secondo Holter. Il follow-up fu effettuato a 3,12 e 60 mesi dopo il trapianto di BMC.

Risultati 

Tre mesi dopo la terapia con BMC si dimostrò un significativo miglioramento della EF e dell’indice di stroke volume. Anche le dimensioni dell’area infartuata furono ridotte in modo significativo e pari all’8%. La velocità di contrazione aumentò in modo significativo così come il rapporto fra la pressione sistolica ed il volume di telesistole. Si dimostrò inoltre un significativo miglioramento della capacità contrattile soprattutto nella zona periferica dell’area infartuata, dimostrata da un aumento del 31% della velocità di accorciamento del ventricolo sinistro (VCF),. L’area non infartuata non presentò differenze di VCF prima e dopo l’impianto di BMC. Dodici e 60 mesi dopo la terapia con BMC i parametri di contrattilità, lo stato emodinamico, e la geometria del LV rimasero stabili. La capacità di esercizio nei pazienti trattati con BMC fu aumentata in modo significativo e fu ridotta la mortalità rispetto al gruppo di controllo.

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Lo studio BALANCE: benefici clinici ed esiti nel lungo periodo dopo trapianto intra-coronarico di cellule staminali autologhe del midollo

osseo in pazienti con infarto acuto del miocardio.

Yousef M., Schnannwell CM., Mathias K., et al. The BALANCE Study Clinical Benefit and Long­Term Outcome After Intracoronary Autologous Bone Marrow Cell Transplantation in Patients With Acute Myocardial Infarction. J Am Coll Cardiol 2009;53:2262­2269 

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Discussione degli Autori 

Lo studio BALANCE rappresenta il trial con il follow up di maggiore durata di pazienti con IMA sottoposti a trapianto con BMC. I dati di questo studio sono in linea con quelli di meta analisi (1-3) che dimostrano che l’impianto di cellule staminali dopo IMA migliora i parametri emodinamici, gli indici di contrattilità e la struttura del ventricolo sinistro. L’impianto di BMC fu associato ad un significativo miglioramento anche di LP ( potenziale tardivo) e HRV ( variabilità della frequenza cardiaca). Altro elemento di estrema importanza è la riduzione della mortalità con un follow up medio di 4.6 ± 2.1 anni. Il tempo ottimale del trapianto, che nello studio BALANCE, è stato di 7 ± 2 giorni dopo l’esordio dell’IMA, è condizionato dal fatto che nei primi 5 giorni dopo un infarto il processo infiammatorio è massimo e che dopo 2 settimane inizia la formazione di scar che può ridurre l’effetto benefico della terapia con BMC. Pertanto il tempo ideale per il trapianto è compreso fra il 5° e il 14° giorno. Il miglioramento funzionale nell’area infartuata fu evidente soprattutto nella periferia in rapporto ad una più evidente rigenerazione di vasi e di cellule muscolari. Il rimodellamento del tessuto miocardio, dopo un IMA, rappresenta la principale causa di evoluzione verso l’insufficienza cardiaca che a sua volta aumenta in modo significativo la mortalità. Questo processo dipende dalla trasformazione acuta e cronica sia dell’area necrotica che dell’area peri-infartuale (4). Il rimodellamento si manifesta in circa il 60% dei pazienti dopo IMA (5). Le dimensioni dell’area infartuata costituiscono il principale fattore che determina il rimodellamento ventricolare. Lo studio ha dimostrato che la riduzione dell’area infartuata si accompagna ad un miglioramento della funzione ventricolare sinistra. Dato di estrema importanza è che lo studio BALANCE ha evidenziato una significativa riduzione della mortalità nel gruppo in terapia con BMC rispetto ai controlli (p=0.03) che dipende da 2 fattori: la riduzione dell’insufficienza ventricolare sinistra e delle aritmie severe. La riduzione dell’evoluzione verso l’insufficienza miocardica dopo terapia con BMC è determinata da un effetto favorevole sull’azione contrattile indotta da un minore rimodellamento miocardico. Questo studio ha infatti dimostrato che il trapianto con BMC determina numerosi miglioramenti funzionali quali un’aumentata contrattilità miocardica, una riduzione dello stress di parete, un’aumentato power miocardico. Questi effetti si mantengono negli anni e sono pertanto alla base della protezione, nei pazienti con IMA, nei confronti dell’evoluzione verso l’insufficienza miocardica. La seconda causa principale della riduzione della mortalità nei pazienti in trattamento con BMC riguarda le aritmie cardiache. Esistono evidenze consolidate che una funzione ventricolare sinistra compromessa aumenta le aritmie ventricolari maligne e predispone alla morte improvvisa. Dopo un IMA nel 20-30% dei casi si può manifestare una morte improvvisa legata ad un’aritmia cardiaca maligna. Tutti i pazienti trattati in questo studio non presentarono aritmie e questa riduzione del rischio aritmogeno dipende dal miglioramento di HRL e LP.

Commento 

I risultati di questo studio sono di grande interesse in quanto dimostrano che la terapia con BMC costituisce un trattamento nuovo ed efficace che è in grado di intervenire in modo strutturale nel miocardio danneggiato dopo un infarto. Altro elemento di grande importanza è che nel follow up si dimostra una riduzione della mortalità e non compaiono altri effetti collaterali dimostrando pertanto che la terapia con BMC dopo un IMA è sicura. Le BMC potrebbero non essere le cellule ideali per rigenerare il miocardio danneggiato. Le cellule più idonee dovrebbero essere autologhe, capaci di differenziarsi in cellule adulte nel cuore e altamente resistenti alla trasformazione maligna. Due tipi di cellule

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sono più promettenti: le cellule staminali pluripotenti indotte (iPS) derivate da tessuti propri dei pazienti e le cellule staminali cardiache degli stessi pazienti. Le iPS sono derivate dai fibroblasti della cute attraverso una riprogrammazione nucleare, che comprende l’inserzione di specifici trans geni nel nucleo dei fibroblasti (6,7). L’uso di iPS in trials clinici potrebbe incontrare importanti difficoltà regolatorie nell’applicazione clinica per l’approvazione nei Comitati Etici, perché oltre ad alcuni potenziali benefici, il metodo di riprogrammare il nucleo potrebbe determinare una trasformazione euplastica. Altra possibilità è utilizzare in coltura le cellule staminali derivate da una biopsia cardiaca. Altro elemento fondamentale è creare un ambiente ideale, recettivo ad accogliere le cellule staminali. Quando miociti cardiaci umani derivati da cellule staminali embrionali sono impiantati nel cuore di ratto danneggiato il 90% sopravvive, mentre quando le stesse cellule umane sono iniettate in un’area peri-infartuale, tipicamente fallisce il loro attecchimento (8). Questa resistenza all’impianto di cellule staminali nell’uomo può essere superata dalla somministrazione di farmaci adeguati con un aumento di cellule miocardiche nell’area infartuata di circa 2.5 volte nello spessore della parete miocardica (9). Elementi critici per un buon impianto anche se non ancora non ben noti, comprendono però l’inibizione dell’infiammazione e della morte cellulare programmata per apoptosi e fattori che promuovano la crescita cellulare. Infatti in un trial clinico non pubblicato sull’infusione di BMC (10) intracoronarica, 4 di 5 pazienti che risposero con un aumento maggiore del 15% della FE a 4 mesi di follow up ricevevano l’adenosina durate la procedura. Pertanto i dati più recenti della letteratura suggeriscono che il futuro della terapia genica sia l’uso di cellule pluripotenti sia di un ambiente recettivo alle cellule stesse. Il tempo di infusione delle cellule rimane un’incognita, in quanto l’infiammazione precoce crea un ambiente ostile all’impianto delle cellule, mentre l’evoluzione fibrotica impedisce la terapia nella fase subacuta o cronica di riparazione. Non esistono dati certi in quanto è dimostrato che ritardando la terapia con BMC nel modello sperimentale porcino a 1 mese dopo l’infarto si determina comunque una stabilizzazione della funzione cardiaca, con una differenza statisticamente significativa rispetto ai soggetti di controllo (11). Nella cardiopatia ischemica cronica un trial randomizzato sulla somministrazione intra-coronarica di BMC determinò un incremento della FE del 2.9% mentre nel gruppo di controllo la FE si ridusse di 1.2% a 3 mesi nel follow up. Un’alternativa attraente al trapianto delle cellule staminali autologhe derivate dal midollo osseo, è la riattivazione del differenziamento delle cellule cardiache endogene o di precursori cellulari in nuove cellule cardiache. Le cellule staminali residenti si trovano in quelle che sono definite le nicchie nel tessuto cardiaco. Questo approccio potrebbe avere il vantaggio di essere potenzialmente non invasivo e di utilizzare solo le cellule staminali residenti del paziente. Inoltre è estremamente interessante, poiché coinvolge diversi passaggi, tra cui la migrazione, la proliferazione e il differenziamento, che hanno tutti un ruolo per la buona riuscita della terapia. In ogni caso, quello che è chiaro è che il tessuto muscolare del cuore nell’adulto ha la capacità di riparare se stesso. In studi sperimentali è stato dimostrato che le cellule staminali cardiache residenti possono essere attratte da alcune citochine (fattori cardiotropici) quando iniettate nel cuore. Probabilmente l’ultima sfida per la miogenesi terapeutica (ri-generazione muscolare) è l’aumento del processo di mobilizzazione delle cellule staminali dal midollo osseo con l’aiuto di molecole definite chemio attrattori quali il fattore stimolante le colonie dei granulociti (G-CSF) o fattori stimolanti le colonie macrofagiche-granulocitiche (GM-CSF) pemettendo ad un numero rilevante di cellule staminali emopoietiche, di cellule

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staminali mesenchimatiche e dei precursori cardiaci dal midollo osseo, di arrivare a livello miocardico e di colonizzare i tessuti danneggiati dall’ischemia. Quindi, le cellule staminali migranti potrebbero impiantarsi nelle aree danneggiate del cuore. Questo approccio terapeutico – che potrebbe dimostrarsi utile nel trattamento di malattie cardiache – è stato seguito per la prima volta da Piero Anversa e collaboratori. L’applicazione sistemica di fattori chemio attraenti (chemochine) come il G-CSF o il GM-CSF promuove (i) la migrazione delle cellule staminali derivate dal midollo osseo nel muscolo cardiaco infartuato, e (ii) la proliferazione delle cellule staminali derivate dal midollo osseo o i precursori cellulari nel muscolo cardiaco per la rigenerazione e il recupero funzionale del cuore dopo un infarto.

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 Dr.  Mauro  Campanini,  Direttore  Dipartimento  Medico,  Direttore  Medicina  2  Azienda Ospedaliero  Universitaria  “Maggiore  della  Carità”  –  Novara,  Presidente  Regione  Piemonte FADOI (Federazione Associazione Dirigenti Ospedalieri Italiani) [email protected]  

Acidi grassi omega­3 polinsaturi e protezione dalle patologie cardiovascolari 

Carl J. Lavie, Jr., Cardiosource: 4 agosto 2009­09­27 Negli ultimi 65 anni si sono accumulate evidenze a supporto dei potenziali

benefici cardiovascolari di una dieta ricca di acidi grassi omega-3 polinsaturi (PUFA)1. Sinclair2 descrisse la rarità della malattia coronarica (CHD) negli Esquimesi della Groenlandia (“Eskimo Factor”) che consumavano una dieta ricca in balena, foca e pesce. Bang e Dyerberg3 riportarono che nonostante una dieta povera in verdura, frutta e carboidrati complessi e ricca in grassi saturi e colesterolo gli Inuit della Groenlandia avevano livelli di colesterolo e trigliceridi più bassi dei danesi e il rischio di infarto miocardico (MI) era marcatamente più ridotto nella popolazione della Groenlandia che in quella della Danimarca. Durante gli ultimi anni questo “Eskimo Factor” è stato individuato nei PUFA omega-3 e i meccanismi alla base dei benefici sono stati ulteriormente spiegati.

I PUFA omega-3 I costituenti principali dei PUFA omega-3 comprendono l’acido alfa-linolenico

(ALA), l’acido eicosapentaenoico (EPA) e l’acido docosaesaenoico (DHA). Sebbene la maggior parte delle evidenze siano arrivate dall’EPA e dal DHA, derivati dagli oli e dai pesci marini, esiste qualche supporto epidemiologico di un beneficio dell’ALA, il precursore vegetale dell’EPA. Come unica fonte dietetica di PUFA omega-3, l’ALA si trova in abbondanza nei semi di lino ed in misura minore negli oli di colza e di oliva, nelle noci ed in altra frutta secca; in tracce è presente in alcuni vegetali a foglia verde. L’ALA è generalmente considerato inadeguato perché l’uomo converte tipicamente meno del 5% di ALA in EPA e ancor meno, per non dire quantità trascurabili, in DHA.

Sebbene l’evidenza epidemiologica a supporto dell’ALA sia considerevolmente più debole di quella a supporto di EPA e DHA, alcuni studi propongono benefici dell’ALA nella protezione cardiovascolare4. D’altra parte esiste abbondanza di supporto ai benefici nella protezione cardiovascolare per l’EPA e ancor più per il DHA (figura 1)1.

Figura 1

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Meccanismi potenziali del beneficio dei PUFA omega-3 I potenziali benefici di salute dei PUFA omega-3 sono numerosi e rimangono un

attivo campo di ricerca, soprattutto riguardo la prevenzione cardiovascolare (figura 2). Figura 2

Sono tuttavia

necessari ulteriori studi che determinino il dosaggio ottimale nelle diverse popolazioni e stati di malattia, come pure i dosaggi relativi ottimali di DHA ed EPA1,5.

Sia il DHA che l’EPA sono presenti nella maggior parte dei pesci, soprattutto quelli ricchi di oli (ad esempio salmone, tonno, sardine, aringhe, trota, ostriche, etc), in una proporzione di 2:1, mentre gli oli di pesce hanno una proporzione di 2:3 o minore. Sebbene l’introduzione di DHA puro possa aumentare di una piccola quantità l’EPA, il contrario non è vero. Il DHA è più abbondante nel cuore e nei vasi e potrebbe avere rispetto all’EPA un miglior effetto antiaritmico e un miglior effetto su altri marcatori surrogati (per esempio la pressione arteriosa, il tono endoteliale e la vasodilatazione, i livelli di lipoproteine)6.

Protezione cardiovascolare clinica Sebbene si stiano accumulando dati di supporto al beneficio dei PUFA omega-3

in molte patologie cardiovascolari, comprese l’aterosclerosi, la fibrillazione atriale e le aritmie ventricolari complesse, probabilmente i dati più impressionanti ottenuti finora sono quelli relativi ai pazienti con CHD nel postinfarto, con ipercolesterolemia ad alto rischio, con scompenso cardiaco (HF) avanzato e, in particolare, con ipertrigliceridemia.

Postinfarto: Due studi di grande dimensione, il “diet and reinfarction trial” (DART)7 ed il GISSI-prevenzione8, che hanno arruolato congiuntamente più di 13000 pazienti postinfartuali, hanno dimostrato una riduzione della mortalità totale vicina al 30%. Nel GISSI-prevenzione, che valutava gli effetti del Lovaza (contenente 850mg di EPA/DHA combinati con un rapporto di 1,2:1) contro le cure convenzionali, i pazienti che assumevano Lovaza avevano una riduzione importante degli endpoint cardiovascolari (figura 3)9.

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Figura 3

Altri studi, come il recente sottopotenziato OMEGA, non hanno dimostrato tali benefici10.

Ipercolesterolemia: Nello studio JELIS11 18645 pazienti (circa l’80% in prevenzione primaria) con ipercolesterolemia sono stati randomizzati alla sola statina o a statina più EPA altamente purificato alla dose di 1800mg/die. Dopo 5 anni l’EPA aveva prodotto una riduzione del 19% degli eventi cardiovascolari maggiori (figura 4).

Figura 4

18

PUFA nello scompenso: numerosi studi epidemiologici recenti supportano i benefici dei PUFA omega-3 sulla protezione contro lo scompenso1,12. Un recente studio maggiore (GISSI-HF)13 ha randomizzato quasi 7000 pazienti con scompenso a Lovaza o placebo. Dopo correzione per i confondenti (figura 5), la terapia con Lovaza ha mostrato un piccola ma significativa riduzione della mortalità totale (9%; p<0,05) e della mortalità totale o ospedalizzazione per cause cardiovascolari (-8%; p<0,01). Questi benefici si traducono nella necessità di trattare 56 pazienti per 4 anni per evitare una morte o ospedalizzazione per cause cardiovascolari. In un editoriale il dott. Greg Fonarow ha evidenziato che i PUFA omega-3 “dovrebbero unirsi alla breve lista delle terapie per lo scompenso basate sull’evidenza che allungano la vita”, ed io ed i miei colleghi concordiamo con questa affermazione1,12.

PUFA omega‐3 e  ipertrigliceridemia: il ruolo maggiormente provato ed accettato dei PUFA omega-3 e nello specifico del Lovaza, una formulazione approvata dalla Food and Drug Administration (FDA), è in effetti quello nel trattamento della dislipidemia, specialmente l’ipertrigliceridemia severa. Nei pazienti con trigliceridi maggiori o uguali a 500mg/dl il Lovaza 4g riduceva i trigliceridi del 45% ed il colesterolo non-HDL del 14%, con un incremento del 9% delle HDL15; nei pazienti con trigliceridi compresi tra 200 e 499 mg/dl questa dose di Lovaza abbassava i trigliceridi del 30%16. Sebbene non sia stata dimostrata una riduzione degli eventi clinici impiegando questa dose di Lovaza per trattare l’ipertrigliceridemia, come evidenziato in precedenza dosi più basse (Lovaza 1g) hanno ridotto gli eventi clinici nel postinfarto8 e nello scompenso avanzato13 (Lovaza non ha tuttavia negli Stati Uniti indicazione nel postinfarto o nello scompenso).

Figura 5

Raccomandazioni cliniche:

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Per i pazienti senza CHD, l’America Heart Association (AHA) raccomanda due pasti di pesce ricco di oli a settimana, che hanno dimostrato di essere equivalenti a 500mg/die di EPA e DHA combinati17; questi dosaggi possono anche essere ottenuti da una o due capsule di olio di pesce da banco, a seconda della concentrazione di EPA e DHA. Anche altre organizzazioni hanno prodotto linee guida dirette ad incrementare il consumo di pesce1.

Le attuali linee guida AHA raccomandano una combinazione di EPA e DHA alla dose di 1000mg/die nei pazienti con CHD17. Questa dose può ora risultare appropriata anche nei pazienti con scompenso1,12,14. Poiché pochi pazienti consumano quattro o più pasti di pesce ricco di oli a settimana, questi dosaggi di EPA+DHA richiedono generalmente due o tre capsule di olio di pesce da banco, a seconda dell’esatta concentrazione di EPA e DHA (equivalenti ad un Lovaza, che non è approvato dall’FDA per questa indicazione). Nei pazienti con trigliceridi elevati potrebbero essere richiesti 3-5g/die di EPA+DHA, che in genere corrispondono a 6-12 capsule di olio di pesce da banco (o 4 Lovaza, la preparazione approvata dall’FDA).

Conclusioni Sulla base di evidenze considerevoli, il consumo ideale di EPA+DHA dovrebbe

essere almeno di 500mg/die per individui senza malattie cardiovascolari manifeste e almeno 800-1000mg/die per individui con CHD o scompenso noti. Come è stato recentemente descritto nei dettagli1, ulteriori studi sono necessari per determinare il dosaggio ottimale e i rapporti relativi di DHA ed EPA per fornire la massima protezione cardiovascolare nei soggetti a rischio, come pure nel trattamento dell’aterosclerosi, delle aritmie e dei disordini miocardici primitivi. Tuttavia la costellazione di dati suggerisce che questa storia rappresenti una “favola da pescatore a crescente credibilità”1.

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Conseguenze Cardiovascolari al Divieto del Fumo in Luoghi Pubblici e nei Posti di Lavoro 

Il fumo di seconda mano (o secondario) aumenta il rischio d'infarto miocardico acuto del 25% - 31% (1–5). In Paesi nei quali la prevalenza del fumo è elevata, ad esempio, in Britannnia 50% (6), in Europa 62% (7), e in Grecia 156% (8), rispetto al 22% in U.S.A. (2,9), l'infarto miocardico acuto in non fumatori è aumentato notevolmente. La relazione dose-risposta tra fumo di seconda mano e infarto miocardico acuto è non lineare, aumentando rapidamente anche a basse concentrazioni di fumo ambientale (10–12). I divieti di fumare in luoghi pubblici e nei posti di lavoro sono stati istituiti in molti Stati e città. Una revisione sistematica della letteratura e meta-analisi ha permesso di stimare l'effetto complessivo di tali divieti di fumare sul rischio d'infarto miocardico acuto nella popolazione generale. Come mostrato in figura 1 (13), l'incidenza complessiva del rapporto di frequenza IRR (incidence rate ratio) che confronta l'incidenza d'infarto miocardico acuto prima e dopo i divieti di fumare in luoghi pubblici e nei posti di lavoro è 0.83 (95% CI: 0.75 to 0.92), indicando che i divieti hanno, in media, ridotto l'incidenza d'infarto miocardico acuto del 17%.

Fig. 1: Risultati di meta­analisi di 11 studi in 10 luoghi geografici. 

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Figura  1:  Effetti  dei  divieti  di  fumare  in  luoghi  pubblici  e  nei  posti  di  lavoro  sull'incidenza  d'infarto miocardico acuto (approccio persone per anno) CI = confidence interval; IRR = incidence rate ratio (13). 

Commento 

La metanalisi ha evidenziato che gli studi con le dimensioni dell'effetto più piccolo (IRR prossimo a 1.0) includono tutti quelli eseguiti su popolazioni non U.S. e quello dello Stato di New York. Tutti questi studi interessano grosse popolazioni e riguardano brevi durate dopo il divieto del fumo ( 1 anno). L'analisi di meta-regressione fu usata per esaminare se regione (U.S. o non U.S.), estensione di popolazione, e durata del divieto abbia influenzato l'incidenza complessiva del rapporto di frequenza (IRR). Quando testati separatamente l'effetto della dimensione di popolazione non è significativo (p = 0.19), mentre sia la durata del divieto (p = 0.002) che la regione (U.S. vs. non U.S., p = 0.03) sono significativi. Poiché l'effetto dei divieti può non

essere massimale in 1 anno, è probabile che il tempo di osservazione dopo i divieti abbia inversamente correlato a IRR (13). Questa meta-analisi di 11 studies in 10 località evidenzia che divieti di fumare in luoghi pubblici e nei posti di lavoro sono associati con una riduzione di rischio complessivo d'infarto miocardico acuto del 17%. L'evidenza di un'associazione tra divieti del fumo e ridotta incidenza d'infarto miocardico acuto è rinforzata dai cambiamenti benefici in parecchi fattori intermedi, quali: elevati livelli di aderenza con i divieti (14,15,16), diminuita prevalenza di fumatori e tabaccherie (17,14,18), migliorata qualità dell'aria (19,20,15), e ridotta esposizione ambientale al fumo di tabacco (14,21,15,22). Rimarchevole è lo studio Helena (23), che ha documentato un ritorno alla frequenza d'incidenza d'infarto miocardico acuto prima del divieto in 6 mesi dopo la sua sospensione. Lo studio italiano in 4 regioni (24) ha rilevato una riduzione dei rischi solo negli uomini, mentre gli studi della regione Piemonte (25) e in Scozia (26) evidenziarono una maggiore diminuzione nelle donne. In Italia, gli uomini furono più propensi delle donne a interrompere il fumo dopo il divieto (27). Poiché la forza di lavoro è costituita

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proporzionalmente più di uomini, i divieti di fumare nei posti di lavoro potrebbero avere un maggiore effetto sull'esposizione al fumo di seconda mano fra gli uomini. Nondimeno, la maggiore riduzione, dopo il divieto, dei livelli di cotinina nel siero in donne non fumatrici (47%) rispetto agli uomini (37%) in Scozia (26) lascia intendere che l'esposizione è diminuita più tra le donne. Il rischio relativo associato con il fumo è maggiore nelle donne che negli uomini e presenta una relazione dose risposta più ripida (28).

Bibliografia 

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Dott. Gabriele Dell’Era, specializzando. Cattedra di Cardiologia Divisione Clinicizzata di Cardiologia, Azienda Ospedaliero Universitaria “Maggiore della Carità” – Novara. [email protected]

Il Collegio Nazionale Infermieri ha approvato nel gennaio 2009 il nuovo codice di deontologia, rappresenta una revisione della precedente versione del ’99, successiva a quella del ’77, che aveva già modificato la prima stesura del 1960. Una analoga necessità era stata considerata anche per il Codice di Deontologia Medica di cui l’ultima pubblicazione è del 2006 e la prima presentazione del 1907 a Torino. Questo si è reso necessario in considerazione delle capacità tecniche e scientifiche di una medicina sempre al passo dei tempi, ma soprattutto per una rivisitazione del ruolo di quei professionisti che operano in realtà nuove, non solo in riferimento alla nuova tecnologia ma anche per la mutata situazione socio-culturale. Certamente, le nuove indicazioni sono in linea con la tradizione, rappresentano l’evoluzione e la puntualizzazione di quegli obblighi e del modo di esercitare la professione infermieristica orientata alla cura del paziente, come stima della centralità della persona già individuata nella precedente stesura del Codice.

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Medicina  e Moralea cura di

Cleto Antonini

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Si delinea attualmente in campo sanitario, un più ampio esercizio della mansione e del ruolo dell’infermiere, come è l’esempio del percorso di studio istituito con la dirigenza universitaria, ad indicare non solamente professionalità acquisita attraverso la trasmissione dell’esperienza, ma valorizzata proprio dalla conoscenza scientifica che è un momento parallelo al metodo di lavoro con la professione medica. Si delinea in maniera sempre più precisa il profilo etico e deontologico di questa professione come anche la responsabilità connessa a questo ruolo. Non è qui il caso di considerare la necessità di un codice basato sul concetto legalista di associazione tra convenuti per regolare principi di correttezza tra soggetti all’interno della stessa categoria, ma all’opposto è il caso di individuare quel valore aggiunto, intrinseco alla specificità dell’infermiere che ruota attorno al concetto del prendersi cura del paziente. È su questa giustificazione che può avvenire il salto di qualità, ovvero, nella ricerca e nello sviluppo di quelle ipotesi di lavoro che individuano e migliorano non solo l’etica che ruota attorno al concetto del rendersi prossimi al paziente nella cura, ma che contestualizza i valori socio-culturali, attorno ai quali viene esercitata la professione dell’infermiere. Quindi, è necessario porre l’attenzione sul concetto di autonomia del paziente che esprime scelte di cura possibile attraverso l’informazione, il consenso, il rifiuto o l’indicazione di altre ipotesi di cura e diagnosi: temi sempre più discussi dai mass media. Allora, la promozione del “bene del paziente”, considerato secondo il modello d’interpretazione paternalista delle precedenti stesure codicistiche, deve essere ripresentato oggi attraverso la posizione della centralità della persona nella sua espressione di autonomia, autodeterminazione, come capacità di porre scelte e soluzioni condivise, nel liberare attraverso la cura della malattia, la persona da impedimenti, debolezze, dolore, difficoltà di ogni natura e causa che compromettano o riducano la sua manifestazione. Questo anche tenendo presente la mutata concezione di salute come espressa dall’OMS: condizione psicofisica e sociale di benessere che abbraccia tutta la dimensione della persona. L’infermiere al passo dei tempi deve saper interpretare la sua missione, confrontandosi con le indicazioni che gli derivano, rimotivare la sua forte identità, guadagnare quel valore aggiunto, dato da un sincero servizio alla comunità attraverso la cura della persona. La contestualizzazione della pratica infermieristica è un aspetto importante, dato dalle nuove applicazioni all’interno dei servizi sanitari, come lo sviluppo di nuovi ambiti lavorativi, della presa in carico di alcuni aspetti gestionali di rilievo, come la collaborazione nella donazione d’organo, nell’hospice, nell’attività assistenziale residenziale, nella partecipazione a programmi aziendali, nel controllo di qualità, delle infezioni, nello sviluppo di pari opportunità per le figure che operano nel percorso materno-infentile e nella cura del dolore. Sono tutti aspetti multidisciplinari che hanno stimolato nuovi valori professionali, come la dimensione collaborativa, la comunicazione dell’errore, l’obiezione di coscienza, il ricorso alla consulenza etica, la partecipazione alla scelta dei materiali e degli strumenti sanitari, l’allocazione degli infermieri nella gestione dei servizi. Gli aspetti di novità del Codice sono dal punto di vista formale la presentazione sequenziale degli articoli, facilmente accessibili, di facile lettura e memorizzazione, il guadagno in chiarezza e terminologia e una più accurata descrizione del contenuto e della norma, non trascurando l’attenzione ai valori, alla sensibilità, all’orientamento antropologico-culturale che riaffermano la centralità della persona nel progetto condiviso di cura. Quindi c’è il riaffermarsi dell’agire dell’infermiere (art. 2) al servizio della persona all’interno della famiglia e della collettività, nel riconoscersi nelle norme e negli

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obblighi sociali col chiaro richiamo alle responsabilità (art. 3), attraverso il dovere di cura, fondato sul rispetto della libertà e della dignità dell’individuo, improntato a principi (art. 4) di equità e giustizia che tengano conto dei valori etici, religiosi, culturali, di genere e di censo della persona. C’è un richiamo celato alla Dichiarazione dei Diritti Fondamentali dell’Uomo e ai principi etici espressi nella recente rivisitazione della Carta dei Diritti della Comunità Europea di Nizza del 2000, soprattutto quando ci si riferisce alla discriminazione di genere. Obiettivo dell’infermiere (art. 6) è riconoscere e promuovere la salute come bene fondamentale della persona nell’interesse dell’espressione del soggetto, ma anche della collettività, come descritto nel dettato Costituzionale agli artt. 32 e 5, sui limiti e obblighi della cura cui deriva l’esercizio delle professioni: certamente in un ambito vasto, come la prevenzione, la diagnosi e la cura, nel campo della riabilitazione e della palliazione, tutte dimensioni in cui si esercita la difesa ed il sostegno alla vita. Al Capo II del Codice si esprime la sensibilità propria della mansione infermieristica, impegno rivolto al sostegno della fragilità umana, tesa a recuperare la maggiore autonomia possibile del paziente, con la ricerca di soluzioni attraverso il dialogo promosso dalla domanda etica, da principi e valori condivisi. Importante è il richiamo (art.9) al primo dovere morale di agire con prudenza senza arrecare danno o nocumento alcuno e di contribuire, dal momento che la mansione si esercita all’interno di un team lavorativo a rendere le scelte eque dal punto di vista della distribuzione delle risorse. Tutto questo è possibile, al Capo III, perché la figura dell’infermiere si riveste di conoscenze e competenze che debbono essere sostenute dal dovere dell’informazione, attraverso l’aggiornamento continuo e la riflessione critica mossa sulla esperienza lavorativa. Inoltre la ricerca è motivo di applicazione delle conoscenze alla prassi in modo da promuovere la partecipazione diretta, attiva e convinta, mai derivata o altrimenti subita. È qui che si evince l’espressione di una figura tipica, positiva, di forte contenuto emotivo e partecipativo nella dinamica della cura che rende ragione dell’identità del ruolo caricato di tutti questi compiti. Questo obiettivo è favorito attraverso (artt. 13 e 14) la colleganza con altre professionalità e con l’integrazione delle conoscenze specifiche di ognuno, al fine di trovare soluzioni favorevoli alla cura, come rimuovere ambiti di inesperienza personale, con l’umiltà di essere sempre colmati nei propri difetti o manchevolezze. Inoltre la figura dell’infermiere è aperto alla consulenza bioetica come momento formativo e di interpretazione dell’esercizio di un dovere, rifiuta (art. 17) logiche di profitto e di mercato, dando la propria disponibilità all’interno del volontariato come in caso di emergenza e calamità naturali (art. 18). Al Capo IV è compito dell’infermiere promuovere stili di vita sani, favorevoli alla diffusione del valore della cultura della salute, in questo compito coinvolge l’assistito aiutandolo ad esprimere scelte e bisogni nel rispetto della sua volontà, durante tutto il percorso della cura. Inoltre rispetta la volontà del paziente di essere informato come di non sapere, servizio questo offerto alla verità attraverso il sostegno psicologico al soggetto debole di essere portato a conoscenza delle sue condizioni cliniche. Tutela e assicura la riservatezza (art. 26) dei dati, garantisce la continuità assistenziale e rispetta il segreto professionale come valore di fiducia con l’assistito. Inoltre si fa carico di promuovere la sicurezza sul lavoro partecipando a team di aggiornamento sulla valutazione dell’errore clinico. Recepisce il sostegno nei confronti del minore, aiutandolo a comprendere le scelte diagnostico-terapeutiche, principi espressi anche nella Convenzione di Oviedo (1997) sulla sperimentazione in campo biomedico, attenzione rivolta anche nei confronti dei soggetti deboli come l’anziano, il malato psichiatrico, o di coloro che non sono in grado

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di esprimere la volontà, pertanto facilmente sottoposti a discriminazioni, privazioni o maltrattamenti. L’infermiere presta assistenza (art. 35) in qualunque condizione clinica, sapendo riconoscere i bisogni e la necessità di cura dalla nascita fino al termine della vita, riconoscendo nelle terapie complementari quali la palliazione, l’assistenza psicologica e religiosa dei validi supporti quando non c’è più spazio per la medicina tradizionale. Inoltre pone l’attenzione sulla visione olistica della persona da curare, dove il beneficio della cura è tale solo se ricercato e giustificato nella prospettiva di un chiaro e sincero miglioramento delle condizioni di vita. Al contrario, non è perseguibile l’ipotesi di cura quando sostiene il solo aspetto del dato fisiologico, senza la valenza del riscontro di beneficio clinico. Quindi, riconosce la proporzionalità terapeutica, è contrario alla futilità e all’accanimento, non partecipa ad interventi di natura eutanasica, in ragione del sostegno sempre e comunque alla vita in ogni forma ed espressione a favore della speranza della cura, dono, sensibilità e virtù propriamente umana. Inoltre partecipa a campagne (art. 40) di educazione sociale a favore del recupero del sangue, di emoderivati, alla donazione di organi e tessuti, obiettivi che la comunità promuove e riconosce come fondamentali nello sviluppo di una coscienza di solidarietà civile. Dal punto propriamente ordinistico il richiamo al Capo V alla valorizzazione dei rapporti di colleganza, attraverso il rispetto, la stima dei colleghi alla solidarietà e alla partecipazione, condannando atteggiamenti contrari alla morale e agli abusi in campo professionale, per favorire comportamenti di emancipazione del decoro del proprio ruolo, perseguito con senso di lealtà, onestà e trasparenza. Partecipa al Capo VI, alle politiche sociali responsabili dell’equa allocazione delle risorse, per garantire il rispetto dei diritti dell’assistito come la valorizzazione del proprio ruolo professionale, denunciando i disservizi come gli esempi di sprechi e di “malpractice”, anzi compensando col proprio intervento le carenze e i disservizi che possono crearsi nella struttura in cui opera, proponendosi attivamente per favorire la riuscita del percorso di assistenza e mettendo in evidenza anche le ragioni che possono sistematicamente pregiudicare il suo mandato professionale, nella intenzione pur sempre di rimuovere le cause che si frappongono all’erogazione di un servizio sanitario di qualità. Riferimenti: Il nuovo Codice deontologico dell’infermiere, approvato dal Comitato centrale della Federazione Nazionale con deliberazione n. 1/09 del 10 gennaio 2009 e dal Consiglio nazionale dei Collegi IPASVI riunito a Roma nella seduta del 17 gennaio 2009. Dott. Cleto Antonini, Aiuto anestesista del Dipartimento di Rianimazione Azienda Ospedaliero Universitaria “Maggiore della Carità” Novara [email protected]