Un violino senza nome - Museo della Musica
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UN VIOLINO SENZA NOME Alla scoperta di uno strumento anonimo
costruito nella Brescia del XVII secolo
Il violino di scuola bresciana esposto nella chiesa di San Giacomo di Rialto a Venezia è uno degli strumenti più antichi della collezione “Artemio Versari”. La semplice fattura, la lavorazione non molto raffinata ed i legni di seconda scelta non ne pregiudicano la grande attrattiva: abbiamo infatti davanti a noi un rarissimo esemplare di violino di scuola bresciana, forse l’unico che si può ammirare pubblicamente in Italia, il che contribuisce ad accrescere ulteriormente l’aura di mistero che avvolge la liuteria bresciana del Seicento.
Lo strumento è stato per lungo tempo di proprietà degli Spìnola, una delle più antiche ed importanti famiglie genovesi, che, insieme alle famiglie Imperiale, Doria, Fieschi di Lavagna, Negrone, Grimaldi e Cattaneo della Volta, hanno segnato la vita politica della Repubblica di Genova. Gli Spìnola sono quindi i primi proprietari conosciuti di questo violino. L’importanza di questa famiglia contribuisce in qualche modo a nobilitare questo strumento, probabilmente scelto, infatti, per le sue ottime qualità acustiche. Lo strumento fu poi venduto a Fanfulla Lari, nato ad Empoli nel 1876 e morto a Firenze nel 1931, grande violinista, ottavo di nove figli: era in cattive condizioni di salute, affetto da tubercolosi e, inoltre, affetto da una grave scoliosi, che alterò il suo fisico, rendendolo anche anche timido e solitario. Dopo aver studiato con i musicisti Giuseppe Fabiani e Rinaldo Franci di Siena, si diploma brillantemente al Conservatorio Cherubini di Firenze. Si ricordano le sue mirabili interpretazioni del “Notturno” di Chopin, la “Sonata a Kreutzer” di Beethoven, il “Trillo del diavolo” di Tartini e le sue esecuzioni in quartetto. Fanfulla Lari è stato il musicista che ha commissionato la montatura moderna di questo violino, fino ad allora ancora barocco. Da Fanfulla Lari il violino passò nelle mani di un altro grande musicista italiano, Emilio Villani, uno dei fondatori del Quintetto d’archi del Teatro Carlo Felice di Genova, che successivamente lo vendette ad Enrico Costa, collezionista al quale tuttora è dedicato un premio del prestigioso Concorso Violinistico “Paganini”. Villani lo vendette infine all’attuale proprietario Artemio Versari, che generosamente lo espone al pubblico nella chiesa di Venezia.
Lo strumento è stato datato molto indicativamente attorno al 1600, ma, come spesso accade per quel periodo e quell’area di provenienza, non si hanno informazioni certe sul gran numero di liutai attivi nelle tante botteghe, sui musicisti e sulle prassi musicali che sono state generate in quel tempo. Il motivo di tale incertezza è forse da imputare alla scarsità di scritti in materia musicale, che per buona parte era ancora una disciplina tramandata oralmente o lasciata spesso all’improvvisazione. Per quanto riguarda, inoltre, i compositori e gli esecutori che conosciamo, essi non sono purtroppo associati al nome del costruttore dello strumento che suonavano, come invece accade oggigiorno. Conosciamo inoltre numerosi liutai del tempo a cui purtroppo non riusciamo ad associare nessuno strumento, o perché sono andati perduti, o perché non esiste correlazione tra l’autore e la sua creazione che, come in questo caso, rimane anonima. Come se non bastasse, la liuteria a Brescia (a quel tempo sotto il dominio veneziano) presenta caratteri molto meno costanti di quella cremonese: basti pensare che in molti casi non veniva usata nessun tipo di forma o di dima per i modelli o per delineare un riccio; la lavorazione avveniva in modo istintivo ed è nel protrarsi di questa istintività che si è delineato un approccio alla liuteria e quindi una scuola. Sappiamo, però, che nel 1630 la peste fece 21.000 vittime a Brescia (che contava circa 62.000 abitanti), e che in quella data morì l’ultimo esponente della prima scuola bresciana, Giovanni Paolo Maggini, allievo di Gasparo da Salò, che a sua volta continuava la tradizione liutaria della famiglia De Micheli. Nonostante questa perdita, comunque, la produzione musicale non cessò, anzi: in quegli anni furono attivi
validi compositori come Carlo Farina, Benedetto Vinaccesi e Biagio Marini, tra i più celebri, e di certo non mancarono costruttori di strumenti a sostenerli. Altri possibili costruttori del violino in questione potrebbero essere stati allievi che facevano apprendistato nelle botteghe dei grandi liutai bresciani, o forse artigiani prestati alla liuteria degli archi, che di solito erano più propensi alla costruzione di strumenti a pizzico come la cetra, molto in voga in quel periodo, e che vedevano una grande rappresentanza tra gli immigrati di area tedesca. Tra i liutai di cui sappiamo poco o niente, ma che lavorarono a Brescia tra 1500 e 1600, vale la pena di ricordare Giovita Rodiani, Andrea Lassigner, Matteo Benti, Michele Aisele e Matteo Railich. E’ un vero peccato che l’incertezza sull’attribuzione d’autore degli strumenti antichi li penalizzi certamente sul valore economico e culturale, e che non renda prestigio al musicista che li suona al pari di altri “griffati”.
Il cartiglio interno recita “Gasparo da Salò, In Brescia”, anche se possiamo escludere la mano di Gasparo per quanto riguarda alcuni particolari: i fori armonici ad esempio si discostano dallo stile tipico del maestro, che di solito intagliava i fori superiori ed inferiori delle ‘effe’ con lo stesso diametro e non come in questo caso con il foro inferiore più grande. Gli steli centrali sarebbero
inoltre stati più diritti e meno inclinati, lo sviluppo orizzontale delle volute che iniziano gli “occhi” molto più ridotto ed aggressivo.
Il filetto si mette subito in evidenza per la sua forza estetica, è molto più largo del normale, e delinea un andamento irregolare ed incerto, variabile sia nello spessore totale che nel rapporto tra lo spessore delle strisce.
La parte chiara è composta da un’essenza dura, forse bosso, e le strisce nere sono formate da una pasta d’ebano che, in modo irregolare, scrostata qua e là dal tempo, riempie gli spazi disponibili, compresi i numerosissimi graffi del coltello che è uscito dalla traiettoria prestabilita. E’ il lavoro di una mano incerta, che il tempo ha ulteriormente lavorato fino a raggiungere un altissimo livello di complessità.
La testa del riccio presenta anch’essa dei particolari interessanti: la gola termina alla maniera bresciana ben sotto il livello dell’occhio, con una fessura molto sottile. L’evoluzione del riccio è irregolare e tozza, lascia più spazio all’evoluzione verticale che a quella orizzontale, e l’ultimo giro termina, sempre in stile bresciano, piuttosto presto, lasciando spazio ad un piccolo occhio. La visione frontale della testa è troppo stretta nella parte centrale per essere il lavoro di Gasparo, ma alla sua maniera presenta i caratteristici tagli rientranti al lato delle volute.
Una caratteristica particolare, non comune tra gli strumenti bresciani, è il residuo di un contorno nero lungo lo smusso, ormai rimasto solo in alcuni punti. Il modello presenta le tipiche ‘C’ molto aperte, con le conseguenti punte rivolte molto all’esterno: questa caratteristica è la conseguenza della lavorazione di fasce molto spesse, difficili a piegarsi, ed il mancato utilizzo di una forma a controllarne l’andamento. La scelta del legno è molto caratteristica: l’acero, privo di marezzatura e senza disegno della venatura, lascia pensare ad una varietà italiana come l’acero di monte, un’essenza facilmente accessibile e di contenuto valore.
L’abete è invece di origine alpina: nonostante la modestia di un pezzo poco pregiato ci sono le caratteristiche del legno di alta quota.
Le venature centrali sono molto strette e si allargano molto man mano che raggiungono l’esterno. Nella parte destra della tavola sono presenti delle leggere maschiature che conferiscono una certa personalità al legno e ne denotano appunto, con il carattere della fibra, il carattere alpino.
Le bombature sono molto alte, eseguite in modo grossolano, e si distingue la lavorazione interna da quella dei canali esterni raccordati nell’insieme in modo frettoloso.
Lungo tutta la superficie si trovano i segni degli attrezzi ed in particolare sul fondo sono visibili i segni di lavorazione longitudinali di una rasiera. La vernice originale, marrone, risulta molto consumata su quasi tutto lo strumento, fatta eccezione per il riccio ed alcune parti della tavola.
Nei particolari questo violino non rappresenta l’emblema di una lavorazione raffinata: non c’è rapporto con l’alta liuteria dei grandi Maestri italiani, eppure da subito cattura l’attenzione, è uno strumento che sa regalare il grande fascino del tempo, raccontando al tempo stesso in modo sincero i gesti antichi dell’artigiano. Mentre allontana dall’incanto dei tecnicismi, lascia spazio ai segni dell’istintività, del combattimento tra l’uomo e la materia nella grande sfida che è la costruzione di un violino. In questo contesto si possono meglio interpretare i liutai bresciani, i quali erano probabilmente qualcosa di diverso rispetto alle “star” della liuteria (come spesso vengono etichettati i più celebri liutai del passato): qui possiamo ancora apprezzare la genuinità di un’estetica frugale, di un percorso a ritroso, dove viene distrutta l’idea romantica dell’artista come virtuoso della tecnica, facendoci ritrovare spazi di libertà dimenticati.