Tra il Naso e le Orecchie non c'è solo il Pelo

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Volume gratuito dedicato al cane

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!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!Edito!in!proprio!da!Attilio&Miconi!–!Marzo!2013!!Distribuzione,gratuita,in,formato,elettronico.,Vietata,la,riproduzione,,anche,in,forma,parziale,previa,,autorizzazione,da,parte,dell’autore.,,È,comunque,consentito,l’utilizzo,a,fini,didattici,citando,la,fonte.,!

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Se credo di poterlo fare, acquisirò sicuramente la capacità di farlo,

anche se all’inizio non dovessi averla !Il presente lavoro prende spunto dall’enorme fascino rappresentato dalle capacità del cane di apprendere, memorizzare, evolvere con l’umano. Quello tra il cane e l’umano è definibile come un incontro speciale, direi nodale, per meglio definire nostra storia co-evolutiva. Analizzerò l’incontro tra cane e umano, attraverso un percorso storico utile per comprendere come l’evoluzione sulle conoscenze della mente e del cervello non sia più coniugabile con l’osservazione del comportamento del cane attraverso due lenti distinte, tendenti, come suggerito dal modello Behaviorista e solo in parte colmato dall’etologia classica, a separare comportamento da esperienza cognitiva. La scienza moderna, infatti, grazie ai passi che ha compiuto, è finalmente in grado di unire ciò che Cartesio ha diviso oltre 300 anni fa: la mente e il cervello. Indagherò come è nata la relazione tra uomo e cane approcciandomi attraverso una visione multimodale, dalle attuali scoperte delle neuroscienze cognitive alla psicologia sistemica e sociale per giungere alla naturale evoluzione della cinofilia, definita e studiata dall’etologia cognitiva e dalla zooantropologia applicata.

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Per rendere comprensibile il percorso di ricerca che ho intrapreso, ho ritenuto opportuno suddividere la presente opera in capitoli. Consiglio il lettore di seguire l’ordine suggerito per dare un senso compiuto e continuità a quanto mi sono ripromesso di trasmettere e divulgare. !

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Per comprendere l'altro, cioè per imitare i suoi sentimenti,

ci mettiamo in una prospettiva di imitazione interna, che in qualche modo fa sorgere,

fa sgorgare in noi dei sentimenti analoghi, in virtù di un'antica associazione tra

movimento e sensazione” FRIEDRICH NIETZCHE

Il cervello che apprende Il neuro-scienziato Vittorio Gallese (Rivista di Psicoanalisi, 2007, LIII, 1, 197-208) individua diversi meccanismi neuronali di rispecchiamento e simulazione che non appartengono solo al dominio delle azioni (come inizialmente affermato dal Prof. Rizzolatti), ma che sono riferibili anche a quello delle emozioni e delle sensazioni. Secondo quanto afferma il Prof. Gallese, tutto ciò potrebbe essersi evoluto filogeneticamente in relazione all’ottimizzazione del controllo delle relazioni corporee con il mondo e, successivamente, aver subito un processo di exaptation. Questa osservazione, in ambito sociale, si rivela utile per interpretare il comportamento altrui. Pertanto, l’analisi di Gallese ci offre la possibilità di riflettere anche sull’addomesticamento del cane, accreditando la maggiore probabilità del postulato che ritiene essere frutto di un maternaggio da parte dell’umano

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del cucciolo di lupo. L’argomento della domesticazione lo tratterò in seguito, poiché lo ritengo centrale per dare spiegazione dell’attaccamento secondario tra cane e umano. I cani, così come gli umani, utilizzano il sistema dei neuroni specchio come canale interpersonale diretto, definibile “canale emozionale”. Ciò presuppone che non ci sia una comunicazione mediata dalla coscienza, bensì una comunicazione che potremmo definire di ordine cognitivo. Tuttavia questo non significa che questi meccanismi non possano essere modulati in alcune rappresentazioni anche da aspetti cognitivi vissuti dal cane o, comunque, dalla personalità del pet, ovvero da quelli che chiamiamo i suoi piani prossimali d’esperienza! Un buon punto di partenza per inquadrare la dimensione implicita della capacità intersoggettiva tra cane e umano di trasferire significati da un’identità all'altra, è il riconoscimento di alterità dell’altro. In questa prospettiva, ci viene incontro la definizione zooantropologica di alterità, così come la descrive il Prof. Roberto Marchesini: il cane riconosciuto nei predicati di soggettività, diversità e peculiarità.!Difatti è attraverso il riconoscimento delle differenze tra due individui di specie diverse, nel nostro caso il cane e l’umano, che il corpo può essere definito come il veicolo in grado di mediare questo trasferimento, sia dal punto di vista dell’espressione

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del significato che da quello della capacità di decodificarlo da parte del soggetto osservante. Quanto sopra si realizza sia quando siamo noi ad osservare il cane, sia quando semplicemente restiamo spettatori delle sue espressioni metaverbali, paraverbali, cinestesiche e prossemiche. Nell’ambito della psicologia costruttivista viene analizzata e sottolineata proprio la dimensione dell'intersoggettività nella costruzione della soggettività; il che non significa che la soggettività non abbia una sua dimensione estremamente importante. Esse divengono due dimensioni complementari. Tuttavia, se non riconoscessimo il valore dell'intersoggettività, rischieremmo di approdare malinconicamente ancora all’immagine della mente e dello psichismo che ha prevalso e caratterizzato le scienze cognitive nel corso degli ultimi ‘50 anni: la mente come insieme di associazioni atte a rispondere a stimoli esterni. La capacità di trasferimento di significato a livello interindividuale è ascrivibile al concetto di empatia. È Sigmund Freud, nel 1921, che riconosce fondamentale il meccanismo di trasferimento di significato interindividuale, attribuendogli la definizione di empatia. A tal proposito scrive: "Una via conduce dall'identificazione, attraverso l’imitazione, all'empatia, cioè alla comprensione dei meccanismi mediante i quali ci è consentito assumere un qualsivoglia atteggiamento nei

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confronti della vita mentale altrui”. E ancora precisa: “È solo per mezzo dell'empatia che siamo in grado di conoscere l'esistenza di una vita psichica diversa dalla nostra”. Il neuroscienziato Vittorio Gallese (Gallese 2003, 2006a, 2007) riprende il concetto di empatia attribuendogli il significato di Consonanza Intenzionale: “…in condizioni normali non siamo alienati dal significato delle azioni, emozioni, o sensazioni esperite dai nostri simili, in quanto godiamo di quella che definisco una ‘consonanza intenzionale’ col mondo degli altri”. Ritengo utile sottolineare alcune acutezze che esprime Gallese: • la prima è “nostri simili”. Si è simili non solo

perché ci si assomiglia fisicamente, lo si è soprattutto se esiste la possibilità tra due entità, anche di specie diverse come il cane e l’uomo, di comunicare in maniera proattiva;

• la seconda è “il mondo degli altri”. Mai come in nessun’altra osservazione tra specie diverse, il mondo degli altri per i cani e per gli umani rappresenta un mondo comune: con il cane condividiamo le modalità di azioni, sensazioni ed emozioni, ma – e questo è il dato nuovo emerso con la scoperta dei neuroni specchio – condividiamo anche alcuni dei meccanismi nervosi che presiedono a quelle stesse azioni, sensazioni ed emozioni.

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Wolfgang Köhler (1887 - 1965), psicologo che condusse numerosi studi rivolti al comportamento delle scimmie, sostenne nei suoi lavori che l'azione non deve essere necessariamente osservata dal soggetto ricevente per attivare i neuroni specchio. Di fatto, egli afferma che se l’azione che eseguiamo si accompagna a un suono caratteristico, come ad esempio, quello sentito mentre rompiamo una nocciolina, il solo suono dell'azione è sufficiente ad attivare i neuroni specchio dell’individuo che successivamente lo riascolterà. Deduco pertanto che il suono per chi lo ascolta arrivi ad essere pregno di contenuto semantico. Se trasliamo il “rompere la nocciolina” di Kohler al suono del moschettone del guinzaglio, probabilmente nel nostro cane si attiveranno i neuroni specchio indipendentemente dalla modalità sensoriale che li veicola (il moschettone = udito, la pettorina = vista, ecc.). Pertanto, cosa accade nel cervello quando osserviamo i gesti comunicativi di una individuo che parla, di una scimmia che comunica con il lipsmaking e di un cane che abbaia? Le risposte a queste domande sono oggetto di studio e i primi segnali incoraggianti ci arrivano da queste ricerche sulla ormai scientificamente provata capacità di empatia tra cane e umano e, quindi, sulla reciproca capacità di “sparare” i nostri neuroni specchio.

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Tuttavia, secondo Buccino et al. (2004), quando sentiamo un nostro conspecifico parlare si osserva un’attivazione bilaterale del sistema pre-motorio che include l'area di Broca; diverso quando osserviamo una scimmia, nel qual caso si evidenzia un’attivazione pre-motoria bilaterale di intensità ridotta. Infine, secondo l’autore, quando vediamo il cane abbaiare si ha un’assenza completa di attivazione motoria. I risultati di questo esperimento, secondo l’autore, indica una realtà “oggettiva”: non è necessaria una risonanza motoria per comprendere ciò che vediamo. Secondo questo studio, la qualità della comprensione dell’abbaio del cane è molto diversa dalla qualità del comprendere che c'è un uomo che parla … Esclamo: «Oddio, ma cosa scrive?!» Mi spiego meglio sull’esclamazione che mi è sorta spontanea e me ne scuso, ma non la cancello. Prendendo spunto da quanto scrive Edith Stein (1916-1989) nel suo libro sull'empatia, l’autore scrive: “Riferendomi all'osservazione di azioni animali, posso per esempio entro-sentire un dolore, quando l'animale viene colpito e ad esempio sta soffrendo. Ma altre cose, certe sue posizioni, certi suoi movimenti, mi sono date solo come rappresentazioni vuote, senza la possibilità di un riempimento. Quanto più mi allontano dal tipo uomo, tanto più piccola diventa questa possibilità di riempimento”. Ecco pertanto che, a mio parere, le conclusioni di Buccino et al. (2004) relative all’abbaio del cane

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potrebbero non essere del tutto oggettive. L’autore, a parer mio, non ha valutato alcuni prerequisiti che avrebbero validato l’esperimento, e più precisamente: • quali competenze della comunicazione del cane

aveva l’uomo che lo osservava; • se l’uomo che osservava il cane possedeva un

cane oppure no; • se era o meno un medico veterinario esperto in

comportamento, un istruttore, ecc. E se le conoscenze comunicative dell’uomo sottoposto al test fossero come le mie per un australopiteco? Immagino che se oggi potessi conoscere Lucy, la più antica femmina di Australopithecus afarensis (o australopitecina) ritrovata, risalente a circa 3,5 milioni di anni fa, difficilmente riuscirei a comunicare, a relazionarmi e a provare empatia per lei, mentre riuscirei a farlo con un cane, conosciuto o sconosciuto che sia. Gallese mi offre un ulteriore conforto a quanto sostengo, dando sostanza e linfa al mio disaccordo rispetto all’esperimento di Buccino. Trovo interessante, per inquadrare quanto affermo, un suo articolo (Rivista di Psicoanalisi, 2007, LIII, 1, 197-208): “[…] La ricerca neuro-scientifica nell’immediato futuro dovrà sempre più concentrarsi sugli aspetti in prima persona dell’esperienza umana e cercare di studiare meglio

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le caratteristiche personali dei singoli soggetti d’esperienza. Ciò che ci rende chi siamo non è solo il possesso di meccanismi nervosi condivisi, ma anche un percorso storico individuale fatto di esperienze soggettive uniche e particolari. Questa dimensione storica dell’esserci nel mondo, per usare un’espressione heideggeriana, è fino ad ora rimasta in gran parte inesplorata dalla ricerca neuro scientifica”. E ancora, il lavoro svolto presso la Scuola di Psicologia dell'Università di Birkbeck (Londra) mi offre ulteriori spunti di riflessione sul probabile ruolo che giocano i neuroni specchio tra cane e uomo, non tanto nel riprodurre schemi motori, visto le nostre differenze fisiologiche, ma piuttosto sulle capacità di “sparare” sulle nostre componenti posizionali e motivazionali (vedi Marchesini). I ricercatori londinesi hanno condotto il primo studio al mondo teso a dimostrare le capacità empatiche del cane domestico (Canis familiaris) nei confronti dell'uomo, avvalorando queste capacità attraverso la contagiosità reciproca dello sbadiglio umano per il cane. Lo studio, che si chiama «Dogs catch human yawns», è stato pubblicato dalla rivista scientifica «Biology Letters» della britannica Royal Society, di cui cito un breve passaggio: “[…] se lo sbadiglio è diffuso tra i vertebrati, quello contagioso è stato documentato finora solo tra poche specie, come appunto l'uomo, ma anche tra molti primati come gli scimpanzé, i macachi e gli orangotango. Questa

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ricerca dimostra che l’“effetto-contagio”, nel caso dello sbadiglio, non esiste soltanto tra gli umani e i primati, ma anche tra i canidi e gli umani”. Gli autori della ricerca descrivono inoltre l’esistenza di una sorta di facoltà di immedesimazione tra uomo e cane: i cani possono infatti recepire le indicazioni sociali e comunicative dell'umano come, per esempio, gli sguardi o i cenni delle mani per indicare un oggetto. Probabilmente, e in questo ha ragione il Prof. Buccino, il vero ostacolo per osservare i neuroni a specchio tra cane e uomo è insito nell’incapacità dell’uomo di riconoscere il linguaggio del cane e attivare patterns comunicativi adeguati sia a livello cognitivo che istintuale. Da qui la deriva dell’addestramento associazionista in voga tra gli addestratori. Come sottolinea il Prof. Marchesini, il pattern relazionale con il cane deve essere rivisitato passando da un approccio antropocentrato ad un approccio cinocentrato, imparando come umani ad instaurare con il pet una relazione basata su un “linguaggio” comune incentrato sulla reciprocità e la comprensibilità da parte di entrambi i soggetti che entrano in relazione. In questa direzione, è il linguaggio del corpo ad essere definito il “linguaggio” comune, utile sia per educare sia per disciplinare la relazione tra noi e il nostro cane. In tal senso, la psicologia sociale ha descritto come,

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più o meno consapevolmente, imitiamo il comportamento non verbale altrui, stabilendo che ci piace di più chi ci imita meglio (con ciò si spiegherebbe perché l’istruttore all’inizio comunichi meglio del proprietario con il cane). Inoltre, il mimarsi reciproco si incrementa quanto più è intima la relazione con l’altro e quando abbiamo lo scopo di affiliare l’altro (vedi tutti i versetti che facciamo ai cuccioli o l’accucciarsi in loro presenza). Termino con i neuroni a specchio citando un altro studio: Tomasello e collaboratori (Tomasello et al. 2005) hanno definitivamente dimostrato che lo scimpanzé può superare un test volto a indagare le capacità di “imitazione” solo se viene svolto in un contesto competitivo da parte del primate (risorsa alimentare), ma non è in grado di svolgere lo stesso test se gli viene proposto attraverso un contesto collaborativo, cosa invece perfettamente alla portata di un cane (vedi: Do Dogs (Canis lupus familiaris) Make Counterproductive Choices Because They Are Sensitive to Human Ostensive Cues? - Sarah Marshall-Pescini mail, Chiara Passalacqua, Maria Elena Miletto Petrazzini, Paola Valsecchi, Emanuela Prato-Previde). I risultati di questa ricerca dimostrano le qualità socio-collaborative del cane nei confronti dell’uomo, inserendolo a pieno titolo come nostro partner, cosa che non è avvenuta con un primate. Sembra quindi che nel 2012 si possa affermare che le neuroscienze finalmente prendono a braccetto la

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psicologia e la filosofia, rendendo più attuale che mai il pensiero di Helmuth Plessner (1892-1985), profondo conoscitore di biologia, zoologia e medicina, il quale, nell’opera I Gradi dell’Organico. La condizione Umana- 1928/2006, p. 325, scrisse: “Ad ogni realizzazione di un io, di una persona in un singolo corpo, è premessa la sfera del tu, del lui, del noi. […] Che il singolo uomo finisca, per così dire, nell’idea di non essere solo e di non essere soltanto una cosa, bensì di avere come compagni altri esseri senzienti come lui, non ha come base un atto speciale, quello di proiettare la propria forma di vita verso l’esterno, ma appartiene ai presupposti della sfera dell’esistenza umana”.

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La neurogenesi Negli anni ’60 Joseph Altman sfidò l’idea corrente di allora che postulava: “nessun nuovo neurone può “nascere” nel cervello adulto”. Egli pubblicò in tal senso una serie di lavori (Altman J, Das GD, 1965, J. Comp. Neurol. 137, 433; Altman J, Das GD, 1965, Nature) volti a dimostrare l’evidente presenza di cellule proliferanti e proliferate nel giro dentato dell’ippocampo, nel bulbo olfattorio e nella corteccia cerebrale di ratti adulti, oltre che nella neocorteccia di gatti adulti. Inoltre Altman fu capace di dedurre che tali cellule fossero micro-neuroni (Altman J, Das GD, 1965, Nature) e suggerì come questi potessero giocare un ruolo decisivo nei processi di apprendimento e memoria nell’animale. Non è chiaro, ancora oggi, come mai il mondo scientifico abbia tenuto in scarsissima considerazione quelle, a parer mio, straordinarie scoperte. Solo quindici anni dopo, Michael Kaplan e collaboratori (Kaplan MS, Hinds JW, 1977, Science, 197, 1092; Kaplan MS et al., 1985, J. Comp. Neurol. 239, 117), attraverso l’utilizzo del microscopio elettronico, finalmente supportarono i risultati ottenuti da Altman e dal suo staff. Gli sviluppi successivi portarono alla rivendicazione dei lavori pionieristici di Altman e Kaplan e alla generale accettazione da parte di tutta la comunità scientifica internazionale della continua genesi di neuroni nel cervello dei mammiferi adulti, ponendo

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in tal modo fine, nel corso degli anni ’90, al dogma centrale delle neuroscienze. L’introduzione di nuovi approcci tecnologici e metodologici per la marcatura delle nuove cellule e per la loro caratterizzazione fenotipica permise di dimostrare che la neurogenesi può essere sia costruttiva che distruttiva. Oggi sappiamo che la costruzione o la perdita di neuroni è regolata da importanti variabili come lo stress, la complessità ambientale, l’attività motoria e l’apprendimento ed è emersa la possibilità che la neurogenesi in età adulta, in particolare nell’area ippocampale, possa essere determinante per i processi cognitivi in tutti gli animali dotati di un sistema nervoso complesso. Questo dovrebbe far riflettere ogni educatore e istruttore, che si trovi a proporre attività di tipo educativo o cinosportivo, su come impostare il training. Inoltre recentemente è stato scoperto che anche il cervelletto, oltre a svolgere funzioni motorie, è coinvolto nel ricordo e nelle emozioni. Anche in questa area del cervello è stato osservato come particolari cellule staminali si “specializzino” divenendo nuovi neuroni. Pico Caroni, direttore del gruppo di ricerca dell’Istituto “Friederich Miescher Institute for Biomedical Research” di Basilea, insieme al gruppo di ricerca dell’Istituto Nazionale di Neuroscienze e dell’Università di Torino diretto da Piergiorgio Strata, pubblica su “Nature” del maggio 2011” lo

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studio: “Learning-related feed forward inhibitory connectivity growth required for memory precision”. Con questa ricerca, il team di ricerca svizzero/italiano indaga la capacità del cervello di auto-generarsi per riorganizzarsi in maniera più funzionale in base alle esperienze vissute dal soggetto e allo stesso tempo la capacità di potare quelle strutture neuronali non funzionali a consolidare l’apprendimento o fonte di disagio continuo. Gli studiosi trovano che la sede dell’affinamento di questo processo risieda nella corteccia cerebellare e nell'ippocampo. È proprio in queste due regioni cerebrali che durante la fase di acquisizione dell'informazione si assiste ad un rimaneggiamento delle strutture sinaptiche esistenti e al germogliare di nuove sinapsi definite eccitatorie. Tuttavia, si è anche riscontrato che nel periodo iniziale di apprendimento di una nuova informazione si generano sinapsi eccitatorie in eccesso e solo successivamente avviene l'opera di sfoltimento per mezzo di piccoli circuiti inibitori definiti neuroni piramidali. !!

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Non puoi imparare a nuotare nel mare della vita

se prima non ti sei soffermato ad ascoltare le onde

che si infrangono sulla riva ATTILIO MICONI

Condizionamento Classico Il primo approccio di studio dell'apprendimento ef-fettuato sul cane fu il cosiddetto apprendimento di tipo associativo per contingenza temporale (altrimen-ti detto condizionamento classico) di Ivan Pavlov (1849-1936). L’esperimento prendeva in esame la sa-livazione del cane provocata dal suono di un campa-nello associato ad una risorsa alimentare. Questo la-voro rese Pavlov conosciuto in tutto il mondo accademico e non solo. Così, che nel 1904 gli valse il Premio Nobel per la Medicina e Fisiologia. Tuttavia, meno conosciuto è lo studio che identifica il medico fisiologo russo come colui che negli anni successivi condusse esperimenti sul cane per indaga-re le nevrosi dell’umano. Nel testo “Conditioned Reflexes and Psychiatry” (1936) Ivan Pavlov, all'età di 86 anni, pubblica i ri-sultati ottenuti in seguito ad esperienze traumatiche, provocate volontariamente dall’autore, sui cani. Indi-viduò e definì quattro temperamenti base nei cani,

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che a loro volta si potevano liberamente combinare tra loro dando vita a temperamenti misti, simili a quelli individuati e postulati da Ippocrate (460-370 a.C.). Vediamo ora nel dettaglio quali sono questi tempe-ramenti e come sono stati definiti dall’autore: 1. Cane Collerico ("Strong Excitatory") 2. Cane Sanguigno ("Lively") 3. Cane Flemmatico ("Phlegmatic") 4. Cane Melanconico ("Melanchonic") Secondo Pavlov, i cani inquadrabili nei primi due temperamenti, di fronte a uno stress indotto, rispon-devano con aggressività. Tuttavia, il sanguigno appa-riva essere più controllato ed equilibrato nelle rispo-ste, del collerico. Il flemmatico e il melanconico rispondevano a diffe-renza dei primi due passivamente allo stress. Anche se osservava come il melanconico, dimostrava grandi difficoltà a far fronte alle situazioni angoscianti fino ad essere paralizzato dalla paura (freezing). Secondo lo scienziato russo tutti i quattro tipi di tem-peramento potevano essere indotti nel cane, portan-dolo in breve tempo ad un drastico cambiamento della personalità. L’esaurimento nervoso provocato nel cane (nervous-breakdown), aveva la conseguenza di attivare la così detta scarica abreativa (creare nel soggetto forti emozioni contrastanti tra loro, esem-pio: premio o scossa elettrica su un marker emozio-nali simili e difficilmente distinguibili tra loro). Lo scopo di questa tecnica e permettere di far riaffiorare

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alla memoria dell’animale esperienze rimosse, bloc-cate nell'inconscio dai meccanismi di autodifesa. Per dimostrare quanto affermava, Pavlov creò artifi-cialmente le condizioni affinchè i cani avessero un “esaurimento nervoso” indotto attraverso quattro tipi di stress: 1. Aumento d’intensità del segnale a cui il cane era

condizionato (aumento del voltaggio della scarica elettrica).

2. Prolungamento del periodo tra lo stimolo condi-zionato e la somministrazione del cibo o della scarica elettrica (allo scopo di accrescere la ten-sione e l'incertezza).

3. Confusione dei segnali di condizionamento tra stimoli positivi e negativi (tale pratica si avvicina a quella utilizzata per provare la teoria del doppio legame, che vedremo più avanti).

4. Provocare nel cane una debilitazione fisica. Pavlov notò che il nuovo pattern di comportamento indotto nei cani attraverso lo stress, poteva persistere anche per lungo tempo, in particolare se l’animale faceva parte della tipologia caratteriale 2 e 3. Curioso è notare come queste applicazioni siano state riservate ai prigionieri dei russi e dei cinesi durante le guerre e con i contestatori del regime per indurli a terapie mirate a “rieducarli”. Lo studioso individuò tre stadi progressivi, che por-tavano verso l’esaurimento nervoso del cane: 1. Equivalent-phase: il cane risponde in maniera

simile a tutti gli stimoli condizionati.

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2. Paradoxical-phase: gli stimoli di lieve entità producono risposte nel cane più vigorose di quel-le ottenute con attivazioni di forte entità (esem-pio: si osservano reazioni di rabbia o gioia immo-tivata).

3. Ultraparadoxical-phase: si osserva una inversio-ne drastica nel comportamento nel cane. Po-tremmo definirla un’inversione di polarità: il cane si affeziona a colui che odiava per il dolore subito durante gli esperimenti (sindrome di Stoccolma).

Le sperimentazioni prevedevano che durante le fasi 2 e 3 il cane dovesse passare attraverso periodi di estrema eccitazione, terrore, rabbia, spaesamento, confusione (vedi Arousal), in modo che il grado di suggestionabilità crescesse in maniera proporzionale agli stati che oggi definiremmo emozionali. Pavlov voleva dimostrare con questo esperimento che i cani, come gli esseri umani, hanno una crisi quando il loro sistema neuronale non riesce a fron-teggiare una situazione di stress, che li porterebbe a rivedere tutto il loro repertorio comportamentale alla ricerca di un sistema adattativo utile per superare il disagio. Tornando a quanto accennato in precedenza rispetto alla teoria del doppio legame, il fisiologo russo con-dusse un altro importante esperimento allo scopo di dimostrare la nevrosi da stress, appunto la teoria del doppio legame. Pavlov addestrò un cane a distinguere fra un’ellisse e un cerchio per poi successivamente rendere queste

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due figure sempre più simili e meno distinguibili, cambiando la loro prospettiva e l’inclinazione, ren-deva impossibile al cane il compito di distinguerle. Dopo vari tentativi falliti, il cane manifestava eviden-ti sintomi psicotici. Ciò accadeva perché il cane continuava a credere di trovarsi all’interno di un contesto (cornice) di di-scriminazione dell’oggetto, mentre il contesto di rife-rimento, come riconoscere l’oggetto, era cambiato per via della diversa prospettiva di visualizzazione. L’animale, non più in grado di discernere il cerchio dall’ellisse (situazione di scacco), tentava di inventa-re nuovi stratagemmi per riuscire a risolvere il pro-blema evitando le punizioni sull’errore inflitte con la scossa elettrica (euristiche). Di fronte all'incertezza sistematica e procedurale da parte del cane, Pavlov rilevò la presenza di uno di questi tre tipi di strategia di azione: 1. il cane si rifiutava di rispondere, soffrendo le

scosse a fronte dell'indifferenza delle sue reazioni ad evitarle;

2. il cane si sforzava di rispondere correttamente, cercando parossisticamente di affinare o rielabo-rare “associazioni” che gli permettessero di evita-re il dolore quando sbagliava il target;

3. il cane rispondeva a casaccio, indifferente all'”associazione” che gli suscitava lo stimolo vi-sivo.

Questo trattamento imposto ai cani dimostra come per loro sia impossibile sfuggire alle premesse epi-

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stemologiche del sistema di addestramento conativo basato sul rinforzo negativo e la punizione, tanto che alla fine saranno costretti a cambiare il comporta-mento osservabile dall’addestratore, volenti o nolen-ti. Tuttavia, il punto centrale da considerare è che que-sto cambiamento imposto oggi si inquadra nella pato-logia che in psichiatria è definita “schizofrenia”. Le ricadute in termini patologici del cane a medio e lun-go termine saranno inevitabili con il rischio di indur-re malattie del comportamento.

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Condizionamento operante È la scuola americana il cui interprete è Burrhus Frederic Skinner (1904-1990), che introduce l’apprendimento attraverso il condizionamento ope-rante e da vita alla scuola comportamentista. Skinner è interessato unicamente all'osservazione del comportamento osservabile e alla relazione che ha con le contingenze di rinforzo, cioè delle occasioni in cui a una determinata risposta fa seguito una ricom-pensa. La sua idea è che questo tipo di analisi possa essere sufficiente a spiegare ogni forma di appren-dimento, incluso quello linguistico. Il setting di ricerca entro cui lo psicologo americano sviluppò questa teoria è unicamente svolto in in labo-ratorio, pertanto egli afferma che nell’apprendimento le condizioni ambientali non sono necessarie affinché questo possa avvenire; lo battezza con il suo nome: Skinner Box. All’interno di un box si introduceva una cavia con il compito di premere un tasto o spingere una leva per aprire una dispensa contenente del cibo. L'animale veniva affamato, per ottenere la condizione di alta at-tivazione motivazionale, questo permetteva di osser-vare il comportamento che assumeva la cavia alla ri-cerca del cibo di cui percepiva l’odore. Secondo Skinner, nel suo vagare, inavvertitamente il topo premeva il giusto meccanismo per arrivare al cibo (prove ed errori), che aveva la funzione di rin-forzo positivo.

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Secondo l’autore, questo comportamento casuale, quando rinforzato, tendeva ad essere sempre più fre-quente, fino a che l'animale arrivava a premere diret-tamente la leva che apriva la dispensa con il cibo, perché condizionato. A questo punto, secondo lo psicologo americano, l'a-nimale aveva appreso, senza la necessità di averlo compreso, un'operazione (interazione volontaria complessa) condizionata esclusivamente dal rinforzo positivo. Per accelerare il processo di condizionamento ope-rante, introdusse allora una tecnica chiamata model-laggio. Consisteva nel sorvegliare attentamente la cavia nel box, dandole immediatamente una pallina di cibo ogni volta che questa si avvicinava in modo casuale, vagando nel labirinto, alla leva che dava l’accesso al cibo. Rinforzando questo comportamento, di per sé proba-bile, rendeva ancora più probabile che fosse appreso (non compreso). La prima volta veniva premiato (at-traverso un rinforzo positivo) un comportamento che si avvicinava gradualmente a quello che si voleva sviluppare (anche se solo approssimativo), la seconda solo le esecuzioni che progredivano in una situazione più corretta rispetto alle aspettative dello sperimenta-tore, la terza si premiavano solo le prestazioni ancora più “corrette”, e così via. Pertanto, secondo l’approccio comportamentista è importante, per sviluppare uno shaping (modellamen-to) efficace, che i rinforzi siano continui e orientati sui criteri performativi del docente sul discente, attri-

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buendo al cane solo il compito di eseguire quello l’addestratore ritiene essere la strada migliore per ot-tenere una ricompensa. Sono tuttavia possibili anche rinforzi intervallati (ef-fetto slot machine), ma essi risultano più utili per riapprendere comportamenti già appresi. Gli studi sulle tecniche di apprendimento proposto dal condizionamento operante, hanno, in estrema sin-tesi, portato a postulare una serie di condizioni che lo rendono più efficace: • L'apprendimento è più veloce se il rinforzo segue

immediatamente la prestazione motoria, premiare immediatamente l’animale quando compie l’azione desiderata.

• Il rinforzo variabile costruisce un apprendimento meno veloce, ma tende a essere più stabile nel tempo, quello che molti addestratori chiamano il “creare aspettative” nel cane.

• Il rinforzo positivo, a parità di tempo, è più vali-do e attivo del rinforzo negativo (lo dice anche skinner!).

• La forza del condizionamento è maggiore se si alternano le sedute di addestramento ad altre atti-vità (anche questo lo dice skinner!).

• Rinforzi incoerenti a comportamenti diversi sono il punto di partenza per stati di impotenza appresi e nevrosi.

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Questo tipo di risposta da parte dell’animale presenta grosse incongruenze per essere considerato appren-dimento. Si può meglio identificare come un’associazione di eventi concatenati tra loro che danno origine a una risposta non esplicitata nel cane, al contrario non essendo compresa da questi, il ri-schio di indurre fissità cognitive è assai alto. È bene ricordare che la teoria skinneriana sui proces-si di apprendimento attraverso il condizionamento operante è criticata non solo dalla zooantropologia e dalle scienze cognitive relazionali, ma fu criticata aspramente dagli stessi allievi di Skinner!. Infatti, nel 1961 gli allievi di Skinner, Keller e Bre-land pubblicano l’articolo “The misbehavior of orga-nisms”, parafrasando e pungolando ironicamente, il titolo del primo lavoro svolto dallo stesso Skinner e pubblicato nel 1938: “The behavior of organisms”.

Keller e Breland erano proprietari di un centro di ad-destramento per animali destinati a vari compiti, per lo più a scopi militari e d’intrattenimento. Grazie all’esperienza maturata sul campo applicativo del loro lavoro di addestramento di animali, decisero di pubblicare un articolo dal titolo: “The misbehavior of organisms”. Keller e Breland denunciano le diffi-coltà e gli insuccessi riscontrati durante l’attività di addestramento attraverso il condizionamento operan-te. Queste sono le conclusioni che ne traggono: “[…] Dopo 14 anni di costante condizionamento ed osser-

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vazione di migliaia di animali, concludiamo riluttanti che non è possibile capire, predire o controllare il comportamento di una specie qualsiasi senza una comprensione dei suoi comportamenti istintivi, della sua storia evolutiva e della sua nicchia ecologica”. “ […] potrebbe essere opportuno esaminare, ciò che è stato tenuto nascosto o non valutato, e che ha portato a risultati disastrosi seguendo la teoria del Behavio-rismo”. Secondo Keller e Breland: i presupposti fondamentali taciuti o ignorati dal comportamentismo riguardano il fatto che il comportamento è osservato in laboratorio, che l’animale è considerato una tabula rasa virtuale e che le differenze tra specie sono ritenute insignifican-ti, poiché, secondo questa teoria, tutte le risposte so-no meccanicamente condizionabili a tutti gli stimoli. Attraverso questa analisi essi affermano che: “la teo-ria del condizionamento operante non è più sosteni-bile”. Keller e Breland, a riprova di quanto affermano, pubblicano i disastrosi risultati ottenenti seguendo il paradigma behaviorista. Inoltre, argomentano: “[…] A dispetto dei nostri primi successi ottenuti con l’applicazione della teoria del condizionamento, be-havioristically-oriented. Siamo pronti ad ammettere, che grazie alle considerazioni introdotte dall’Etologia negli ultimi anni, riscontriamo di aver avuto maggiori successi sull’osservazione pratica del comportamento animale, rispetto a quanto osservato e pubblicato dagli scienziati che hanno fatto ricerche

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esclusivamente in laboratorio per spiegare l’apprendimento. Inoltre, come abbiamo scoperto di recente abbiamo maggiori successi, se prendiamo in considerazione l’evoluzione e l’istinto come base per la ricerca scientifica. Questo punto di vista può esse-re illuminante e a nostro avviso, se ulteriormente svi-luppato, porterà a una drastica revisione e semplifi-cazione del quadro concettuale dal sorprendente potere esplicativo […]”.

Tra i tanti esperimenti condotti dai due ricercatori e addestratori, può rivelarsi utile descriverne uno a tito-lo esemplificativo. Il test condotto sui suini: “ Il Maiale che raccoglie le monete”. Un chiaro esempio applicativo dell’infondatezza della teoria del Behavi-rismo.

L’esperimento prevede che un maiale, addestrato at-traverso il condizionamento, debba raccogliere mo-nete di legno di grandi dimensioni e, successivamen-te, depositarle in un grande “salvadanaio”. Il maiale doveva raccogliere le monete e portarle all’interno di un recipiente. I ricercatori, naturalmente, sono partiti da una sola moneta collocata vicino al contenitore, per arrivare a quattro o cinque. I suini sono stati condizionati molto rapidamente e non hanno manifestato difficoltà nell’eseguire il comportamento, poichè si tratta di animali natural-mente famelici (i rinforzi alimentari sono molto ap-

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prezzati) e per molti versi anche parecchio docili. Tuttavia questo particolare comportamento appreso dal maiale, dopo un periodo di alcune settimane o in alcuni casi di mesi, sembrava peggiorare di giorno in giorno. In un primo momento il maiale addestrato andava ve-locemente a prendere la moneta di legno per portarla nel contenitore e correva indietro per prenderne un’altra. Riponeva le monete rapidamente e ordina-tamente e continuava così fino a quando le risposte agli stimoli fossero completate (non c’erano più mo-nete da raccogliere). A quel punto otteneva un rinfor-zo alimentare. Si è osservato solo in seguito che, trascorso un perio-do di alcune settimane, la risposta allo stimolo diven-tava sempre più lenta. Inoltre, il comportamento os-servabile del suino appariva sempre più “confuso” e “incerto”. Il maiale correva verso la moneta, ma sul percorso verso il contenitore, anziché depositarla, come faceva all’inizio, la lasciava ripetutamente ca-dere, la raccoglieva e la faceva cadere nuovamente, la lanciava in aria e così via. I ricercatori inizialmente ipotizzarono che questo comportamento potesse essere semplicemente il dil-ly-indugi (indugiare), causato dalla stanchezza dell’animale. Tuttavia, il comportamento alternativo (gioco n.d.r.) a quello condizionato persisteva. Anzi, si osservava un incremento degli “errori” anche quando i ricercatori aumentarono il diametro della moneta per abbassare le difficoltà iniziali. L’animale, quindi, non ripresentava, perché annoiato, il compor-

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tamento appreso, a dispetto di quello che all’inizio del condizionamento proponeva in circa dieci minuti (annoiato, demotivato n.d.r.). Lo stesso comporta-mento è stato osservato per tutti i suini sperimentati. Keller e Breland commentano così questi risultati: “[…] alla luce di fallimenti così eclatanti, che furono uno shock non indifferente per noi, in quanto non c’era nulla nel nostro background sulle teorie del comportamentismo che ci preparassero a tale inca-pacità di prevedere e controllare il comportamento degli animali con cui avevamo lavorato per anni. Questi esempi (non ho citato gli altri per brevità n.d.r.), di cui ci sentiamo orgogliosi, rappresentano un chiaro e totale fallimento della teoria del condi-zionamento. Sono dimostrazioni evidenti della diffe-renza rispetto a quello che normalmente ci si aspet-terebbe sulla base della teoria behaviorista. Inoltre, le ricerche da noi condotte hanno definito la diagno-si d’insufficienza della teoria skinneriana, in quanto l’apprendimento non dipende da sottili interpreta-zioni statistiche o sulla prestidigitazione semantica. L’animale, semplicemente, non fa quello che è stato condizionato da fare”.

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Il cognitivismo A partire dall’inizio degli anni ’60, all’interno del movimento comportamentista, si sviluppano nuove teorie incentrare sulla mente e sui processi che ne scandiscono l’attività. I pionieri di questo progresso verso il cognitivismo sono: Clark L. Hull (1884 - 1952) e Edward C. Tolman (1886 – 1959). Il modello di apprendimento di Hull è improntato su una struttura ipotetico-deduttiva che ha come obietti-vo di orientare la psicologia attribuendogli regole matematiche. Proprio Hull definì la sua teoria come matematico-deduttiva, per indicare non solo che essa è centrata sul metodo ipotetico-deduttivo, ma soprat-tutto che è sperimentata in maniera rigorosamente quantitativa. Il metodo è di tipo formale. Partendo da principi indefiniti e definizioni sviluppa postulati, co-rollari, teoremi e problemi. I postulati sono enunciati prima in forma verbale, poi in notazione logica sim-bolica formale e infine spiegati da esempi sperimen-tali. I teoremi sono quindi prima enunciati, poi dimo-strati con ispirazione matematica da definizioni e postulati, infine, se possibile, testati sperimentalmen-te. Il paradigma dell’opera di Tolman segna il passaggio dal behaviorismo alle idee delle ipotesi cognitiviste. Infatti lo scienziato introdurrà il postulato di appren-dimento latente (Tolman -Introduction and removal of reward, and maze performance in rats – 1930). L’apprendimento latente metteva in crisi il concetto

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di eguaglianza fra prestazione e apprendimento, pre-so a principio dai comportamentisti precedenti. Tolman e condusse alcuni esperimenti su tre gruppi di topi all’interno di un labirinto con l’obiettivo di trovare la strada per raggiungere l’uscita. Il primo gruppo riceveva del cibo come rinforzo (Gruppo A), il secondo gruppo invece non riceveva alcun tipo di rinforzo (Gruppo B), mentre il terzo riceveva un rin-forzo solo dall’undicesimo giorno in avanti (Gruppo C). I topi del gruppo A apprendevano con velocità superiore del gruppo B e del Gruppo C, ma a partire dal dodicesimo giorno, il giorno successivo all’introduzione del rinforzo, la prestazione dei topi del gruppo C migliorò fino ad eguagliare e poi a su-perare quella dei topi del gruppo A. Questo era in netto contrasto con la teoria di Thordi-ke e Hull che consideravano l’apprendimento come una stretta connessione tra stimolo e risposta (Kinlbel et al, 1991). L’esperimento Tolman, sopra descritto, aprirà la strada ai concetti di “scopi”, “aspettative” e “mappe cognitive”. Tolman si allontana dal comportamenti-smo precedente, arrivando a descrivere concetti sem-pre più di stampo cognitivista che, anche se in forme diverse, ritroveremo nella psicologia della Gestalt.

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La teoria della Gestalt A metà del ‘900, attraverso l'opera di Köhler (Gestalt Psychology - 1929), nasce la psicologia della Ge-stalt. Studiando i processi di apprendimento nelle scimmie antropoidi, lo scienziato ha osservato come ci sia una comprensione immediata ed improvvisa nell’apprendimento, definendolo apprendimento per insight: si tratta di un processo di apprendimento per configurazione dello spazio del problema, una ristrut-turazione concettuale degli elementi disponibili e conseguente salto verso la soluzione. Lo studio ha evidenziato che per apprendere sono ne-cessari due fattori principali: 1. L'intenzionalità nella risoluzione del problema. 2. Il fatto che gli apprendimenti siano frutto di per-

corsi concettuali e cognitivi piuttosto che di pure operazioni motorie.

La ricerca condotta da Köhler evidenziò la strategia comportamentale di scimpanzé posti di fronte al compito di raggiungere una banana accessibile so-lamente tramite l'utilizzo di una serie di bastoni di diversa lunghezza. Infatti, solo montando insieme due bastoni lo scimpanzé avrebbe potuto raggiunge-re il frutto. Dopo lunga esplorazione degli strumenti a propria disposizione, della gabbia e dell'ambiente esterno, lo scimpanzé all'improvviso (come per una

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intuizione) montò i due bastoni e raggiungendo la banana. !Pertanto, si osserva come i soggetti osservati negli esperimenti di Köhler non hanno seguito un percorso per prove ed errori (teoria di Skinner), ma hanno uti-lizzato da una parte le loro risorse cognitive e dall’altra gli elementi del problema. Questo ha per-messo loro di trovare una precisa soluzione, utiliz-zando le euristiche per risolvere il problema. !

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Il Problem Solving Se le teorie gestaltiste prendono atto dell'apprendi-mento come fattore concettuale, il problem solving sottolinea l’intelligenza cognitiva ed emotiva di chi apprende, rappresentando il primo reale approccio alla psicologia cognitiva e allo studio dell’intelligenza come fattore promotore per l’apprendimento. Il problem solving è un processo mentale volto a in-dividuare un percorso che porta il cambiamento da una situazione iniziale a una disposizione finale, è legato al riferimento di “sé” come soggetto, quindi capace di ricercare la soluzione personale e soggetti-va, volta alla risoluzione del problema. L’apprendimento non è più osservato come processo meccanicistico. Ulric Neisser, psicologo statunitense di origine tede-sca, nella sua opera “Psicologia cognitivistica” (ed. it. di Cognitive Psychology, 1967) evidenzia il pro-blem solving come strategia efficace di apprendimen-to. Egli definisce il concetto di problem solving at-traverso tre fasi che portano l’animale ad apprendere, trovando una soluzione soggettiva al problema: 1. La prima fase dell’apprendimento prevede com-

prendere e prendere atto delle parti mancanti per affrontare il problema, dato in termini di coordi-nate generali della situazione di partenza.

2. La seconda fase consta della definizione di mete e finalità insite nel problema, acquisizione di in-

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formazioni relativa allo stato finale da raggiunge-re.

3. Infine, l'ultimo momento del processo consiste nella strutturazione di una serie di operazioni co-gnitive che permettono di strutturare strategie per arrivare alla meta finale.

L'autore identifica una serie di caratteristiche del processo di problem solving affinchè l’apprendimento risulti efficace: • Definizione delle dimensioni semantiche e con-

cettuali per definire il contesto ambientale. • Gerarchizzazione degli schemi mentali, acquisiti

in altri contesti. • Fare appello alle risorse attive del discente. Que-

sto concetto, che si lega ai piani prossimali di esperienza del discente, risulta essere centrale in una formazione orientata allo sviluppo creativo di tipo andragogico (il contrario di pedagogico, ov-vero la capacità di apprendere nell’età adulta per soddisfare bisogni personali nel momento in cui li si vive). L’individuo adulto valuta attentamente l’aspetto costi-benefici che comporta lo sforzo cognitivo della soluzione di un problema (vale a dire solo se ne vale la pena).

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Le mappe cognitive David Ausubel (1918-2008) sottolinea l’importanza dei piani prossimali di esperienza del soggetto adulto nell’apprendimento, osservando: “[…] Se dovessi condensare in un unico principio l'intera psicologia dell'educazione direi che il singolo fattore più impor-tante che influenza l'apprendimento sono le cono-scenze che lo studente già possiede. Accertatele e comportatevi in conformità con il vostro insegna-mento”. Dalla considerazione di Ausubel si deduce che è pos-sibile una stretta correlazione tra i nuovi apprendi-menti e le conoscenze precedentemente acquisite. Questo collegamento tra l'esperienza e l'apprendi-mento permetterà al discente di concatenarla a quan-to già di sua conoscenza. Solo da questo momento in poi la nuova informazione può considerarsi realmen-te appresa (Strickland, 1997). Rumelhart (1980) offre ulteriore ninfa a questo pen-siero introducendo il concetto di “schema”. Secondo l’autore, lo schema è una struttura di dati per la rap-presentazione di generici contenuti della memoria. Gli schemi sono quindi pacchetti di informazione presenti nella memoria dell’individuo. Questi, colle-gandosi con il nuovo da conoscere, ne facilitano l’apprendimento in modo specifico. Dunque, secondo Rumelhart, esisterebbero schemi interni che rappre-sentano la nostra conoscenza riguardo agli oggetti, alle situazioni, agli eventi, alle sequenze di eventi,

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alle azioni e alle sequenze di azioni (Rumelhart, 1980). Ai continui mutamenti dell’ambiente non ogni circostanza ci appare nuova ed insolita. Siamo capaci di riconoscere rapidamente gli elementi e gli schemi noti nel mondo che ci circonda e quindi utilizzarli per apprendere nuove capacità per far fronte ai mutamen-ti.

Piaget teorizza le fasi evolutive cognitive del bambi-no e dell’interazione di queste con l’ambiente che lo circonda, concettualizzando il paradigma dell’assimilazione e del accomodamento. Secondo Piaget, l’assimilazione consiste nell’acquisizione di un evento o di un oggetto all’interno di uno schema comportamentale o cogni-tivo già raggiunto, pertanto “assimilato” nelle com-petenze del soggetto. È l’interazione con il “nuovo” che richiede una fase di “accomadamento”, la quale si fonda sulla modifica della struttura cognitiva o del modello comportamentale preesistente, così da inca-merare nuovi oggetti o eventi che devono essere ap-presi. I due processi si avvicendano in una continua ricerca di trovare l’equilibrio tra l’appresso e ciò che il soggetto sta apprendendo, con lo scopo principale di riportare, nel nostro caso il cane, in un nuovo stado di omeostasi sensoriale, stabilizzando le fluttuazioni connesse tra il “saper fare” e l’“imparare a fare” (omeostasi). Influenzata da questa chiave di lettura, si inserisce l’opera dello psicologo statunitense Jerome Bruner (1915). Vedremo più avanti, nella trattazione delle

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patologie del cane, quanto ci saranno utili altre opere di questo studioso, soprattutto quelle legate al gioco come fattore di cambiamento. Partendo dalle teorie piagetiane, Bruner studia come la cultura ricopra un ruolo di fondamentale importanza nello sviluppo dell’individuo (da qui prende il nome la Teoria del Culturalismo). Secondo il Culturalismo qualsiasi atto di conoscenza nasce dalla interdipendenza della men-te del soggetto che crea la cultura e la cultura stessa in cui sono espresse le conoscenze. Il docente, se-condo questo approccio, si deve preoccupare non so-lo di come insegnare ma anche di quali contenuti e conoscenze trasmettere al discente, e la decisione sul cosa trasmettere deriva ed è influenzata dalla cultura di appartenenza del docente. Altro aspetto fondamentale, di derivazione pretta-mente piagetiana, è la convinzione che il discente du-rante l’atto di conoscere debba svolgere un ruolo at-tivo, e debba essere reso consapevole delle motivazioni e delle modalità educative che lo riguar-dano. Da un punto di vista ontologico, l’apprendimento del bambino (e del cane) è suddiviso in quattro fasi di cui il docente deve tenere conto: 1. la capacità di azione 2. la riflessione 3. la condivisione 4. la cultura

Bruner fu il primo a sottolineare gli elementi di rela-zione sociale come una parte integrante

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dell’elaborazione e dell’apprendimento delle infor-mazioni, fenomeno che egli stesso definì come “otte-nere informazioni da parte di qualcuno usando la mente di qualcun altro” (Bruner 1961). Lo psicologo americano, infatti, afferma: “ […] la conoscenza di una persona non ha sede esclusiva-mente nella sua mente, in forma solistica, bensì an-che negli appunti che prende e consulta sui notes, nei libri con brani sottolineati che sono negli scaffali, nei manuali che ha imparato a consultare, nelle fonti di informazioni caricate nel computer, negli amici che si possono rintracciare per richiedere un riferi-mento o un’informazione, e così via quasi all’infinito […] giungere a conoscere qualcosa in questo senso è un’azione sia situata sia distribuita. Trascurare que-sta natura situazionale e distribuita della conoscenza e del conoscere, significa perdere di vista non soltan-to la natura culturale della conoscenza, ma anche la natura culturale del processo di acquisizione della conoscenza" (Bruner, 1992). Se il sapere quindi non è scindibile ma anzi è deter-minato dal dove e dal come, allora possiamo affer-mare una nuova concezione dell'apprendimento, de-finito come attività cognitiva situata (Brown, 1989), cioè il saper fare in specifici contesti (Leave, cit. Va-risco, 1995). Negli anni ’70 e successivamente il cognitivismo fu oggetto di revisione dall’interno, che condusse ad una parziale autocritica delle teorie precedenti. Alla metà degli anni ‘80 si giunse a considerare il cogniti-

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vismo una sorta di prosecuzione dello stesso beha-viorismo. Sulla base del progresso tecnologico delle neuro-scienze, che offrirono nuove indicazioni, gli studiosi svilupparono il nuovo orientamento definito Scienze Cognitive, ovvero un approccio orientato in ambito multidisciplinare. Numerosi sono gli spunti e le me-todologie prese in prestito da altri settori quali la me-dicina, le scienze motorie, la biologia, l’informatica, la filosofia, la fisica, la matematica e le neuroscienze. Gli sviluppi più recenti dell'analisi dei processi co-gnitivi prendono in esame le dinamiche del contesto sociale: da qui la nascita della teoria sociale cogniti-va, che studia l’interazione fra cognizione e input provenienti dalla collettività. Il focus si sposta dallo studiare l’individuo contestua-lizzato nella società alla coevoluzione del soggetto con l’ambiente che lo circonda, generando sistemi socio-culturali e cognitivo-sociali che portano l’individuo ad essere quello che è.

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Scienze cognitive: il Costruttivismo Il costruttivismo è un approccio multimodale per or-ganizzare una nuova teoria sull’apprendimento basa-ta sul paradigma che mediante la riflessione sulle no-stre esperienze del mondo e con il mondo, riusciamo ad edificare la nostra conoscenza. Ogni individuo ha dei modelli mentali che usa per dare significato alle proprie esperienze (bias). L'ap-prendimento, secondo i Costruttivisti, è il processo di adeguamento dei modelli mentali del soggetto, attra-verso il riordino delle nuove esperienze in termini implementativi (Funderstanding, 1998). Le teorie costruttiviste, analogamente a quelle comportamenti-ste e cognitiviste, assumono varie forme per spiegare l’apprendimento. Tuttavia, la distinzione fondamen-tale è, che mentre i behavioristi vedono l’apprendimento come nient’altro che la risposta pas-siva, automatica, agli stimoli ambientali e i cognitivi-sti lo osservano come cosa astratta, come rappresen-tazioni simboliche nella mente degli individui, il pensiero costruttivista vede l’apprendimento come un’entità complessa e soggettiva. La conoscenza, dunque, non può essere trasmessa meccanicamente da un individuo all'altro, ma deve essere rielaborata da ogni soggetto, quindi prende le distanze dal con-cetto di conoscenza assoluta e oggettiva dei compor-tamentisti e dei cognitivisti, dando spazio anche ad una nuova visione del concetto di intelligenza. Se il Costruttivismo nasce dalle intuizioni di Bruner

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(costruttivismo culturale – Bruner e Cole), è affasci-nante la visione di Jonassen (costruttivismo socio-interazionista– Papert e Jonassen), che considero uno degli esponenti più interessanti, fondatore di una teo-ria, a mio avviso, fondamentale nella pedagogia e educazione cinofila. La concezione costruttivista (Duffy e Jonassen, 1992) considera la conoscenza un prodotto culturalmente, socialmente, storicamente, temporalmente, conte-stualmente costruito. Il soggetto costruisce la propria conoscenza all'interno di una comunità di attori co-protagonisti (Fish, 1980), cioè attraverso un'intera-zione fitta e continua dell’individuo con l'ambiente culturale, sociale, fisico in cui vive e opera. Si co-struiscono nuove conoscenze non solo sulla base di quelle già possedute, rielaborandole, ma anche attra-verso la negoziazione e la condivisione dei significati che gli altri ne danno. Si parla di costruzione della conoscenza attraverso interazione concettuale con l’altro (Bloom, cit. Varisco, 1996), di decentramento e differenziazione tra i contesti di interpretazione di uno e dell’altro (Caravita e Halld,n. 1995). Quindi, a differenza dell'approccio comportamentista che considera il discente come un sistema modellabi-le tramite opportuni stimoli e rinforzi, il costruttivi-smo sostiene un modello di discente che costruisce da solo le proprie strutture di conoscenza, attraverso l'interazione sia con l'ambiente, sia attraverso le rela-zioni sociali. Jonassen definisce due derive pericolose per un ap-

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prendimento efficace: 1. L’ipersemplificazione, di concetti estremamente

complessi da parte del docente (educatore o istruttore cinofilo). Questa estrema banalizzazio-ne non consentirà ai discenti (sistema famiglia in-terspecifico) di cogliere l’essenza dei concetti che si vogliono trasmettere, in un esempio: insegnare ai proprietari a mettere sul “seduto” al cane senza insegnare loro il significato di controllo, auto-controllo, o peggio la differenza tra efficacia e auto-efficacia;

2. la persistenza, nel caso di apprendimento con del-le lacune superficiali, così come espresse al punto uno. Offre al sistema famiglia interspecifico (so-prattutto ai proprietari), rappresentazioni fuor-vianti, aprendo le porte a teorie personali del concetto di educazione del cane. Queste possono prendere con estrema facilità il sopravvento sulle teorie scientifiche. Il risultato spesso osservabile, attraverso questo “cattivo” apprendimento è co-me le nuove conoscenze non rispecchino nessuna l’applicazione e implicazione fuori dai contesti in cui sono state apprese, il cane nel campo di adde-stramento non tira al guinzaglio, ma in passeggia-ta è un trattore.

Pertanto, per sfruttare al meglio le nuove competenze offerte al sistema famiglia interspecifico, occorre che queste abbiano come obiettivo l’apprendimento si-gnificativo per tutto il sistema (cane-proprietario). Evitando di centrare l’intervento sul controllo del

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guinzaglio, teso a cambiare il comportamento del ti-rare, ma piuttosto concentrando l’intervento, orien-tandolo nella direzione di individuare i fattori emo-zionali e motivazionali che portano il cane a tirare, cambiando lo stato emozionale, presto il cane impa-rerà che lo stato di benessere provocato dal guinza-glio morbido durante la passeggiata è significativa-mente e qualitativamente migliore dello sforzo centrifugativo espresso attraverso la tensione sul guinzaglio. Il risultato dell’apprendimento significativo lo si ot-tiene attraverso la soluzione dei problemi (problem solving), non sicuramente attraverso il loro controllo o inibizione. Ciò perché, nella vita e nel quotidiano, i soggetti, siano cani o umani, sono chiamati a risolvere conti-nuamente problemi, la cui funzione è dare uno scopo, una motivazione all’apprendimento per il naturale superamento della difficoltà. A parer mio, va superata l’idea dell’istruttore cinofilo come nastro trasportatore di conoscenza o addirittura come portatore assoluto della conoscenza per far sì che il cane e la famiglia affidataria apprendano CON l’istruttore e non dalle tecniche che il egli propone. Le conoscenze dell’istruttore, dunque, assumono il compito di “mediare” l’apprendimento. Il ruolo del docente è indiretto: può stimolare e supportare il processo cognitivo del sistema famiglia interspecifi-co, ed è attraverso tale processo che può condurre all’apprendimento reale da parte del discente. L’esecuzione di attività o di compiti di apprendimen-

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to con tali fini porta i cani a sviluppare proprie abilità intellettive e funzionali riferite al sé come soggetto attivo nel mondo. !

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“Ci sono lezioni da imparare circa l’evoluzione umana ricercandole sulla cognizione sociale e colla-

borativa osservate nel cane” BRIAN HERE

L’Etologia Classica Influenzati dai lavori sul comportamento animale studiati da Darwin, i naturalisti di scuola europea de-cisero di fare studi osservando gli animali nel loro ambiente. Nasce così l’Etologia (dal greco: ethos: il posto in cui si vive, e logos: raccontarlo): la scienza del comportamento animale comparata. Negli anni ’30 questa disciplina si sviluppa sotto la guida di Nikolaas Tinbergen e del suo amico Konrad Lorenz. Ma solo nel 1973 essi furono insigniti da parte della comunità scientifica del meritato ricono-scimento del Premio Nobel, che condivisero con Karl Von Frisch, un ricercatore austriaco famoso per il suo lavoro sulla comunicazione mediante danza nell’ape domestica.” Secondo Lorenz ci fu una lotta ideologica importante tra le due scuole, da una parte l’Etologia e dall’altra il Behaviorismo. Per la scuola behaviorista, i concetti espressi dagli etologi non potevano essere considerati di valore scientifico perché troppo soggetti a dare spiegazioni che richiedevano variabili non controllabili. I com-

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portamentisti affermavano che solo quanto oggetti-vamente controllabile e riproducibile potesse essere elemento di legittimità per la conoscenza scientifica. Rifiutavano, quindi, tutto ciò che potesse essere valu-tato semplicemente attraverso l’osservazione natura-le, deridendo le metodologie degli etologi con la pre-suntuosità di chi si ritiene unico portatore di scienza. La corrente behaviorista si spinse al punto di negare la presenza dell'istinto nell’animale, dichiarando dogmaticamente che tutti i comportamenti si manife-stano solo se appresi attraverso il condizionamento. Queste affermazioni portarono i behavioristi al moni-smo esplicativo che oggi in tutti i campi viene ridi-mensionato e, come ho precedentemente documenta-to, dai più contestato. Pur concordando con alcune critiche mosse dai com-portamentisti in relazione alla sperimentazione, che deve essere il più rigorosa e oggettiva possibile, Lo-renz nel 1965 ritenne che tali dichiarazioni insite nel pensiero comportamentista fossero false ed errate. Egli osservò che solo i processi di apprendimento possono essere esaminati sperimentalmente in labo-ratorio, mentre il comportamento può essere appreso e osservato solo in natura. Nei lavori di Konrad Lorenz, iniziati nel 1931, viene teorizzato l’imprinting attraverso uno studio fatto sul-le oche. Vedremo che questa teoria non è riscontrabi-le nel cane, sebbene se ne senta parlare spesso negli ambienti cinofili. La scoperta dell’imprinting sui volatili da parte dell’etologo austriaco avvenne in modo del tutto ca-

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suale. Venne così descritta dallo stesso Lorenz: “… Per ventinove giorni avevo covato le mie venti pre-ziose uova di oca selvatica… solo negli ultimi due giorni io avevo tolto alla tacchina le dieci uova bian-castre, ponendole nella mia incubatrice… volevo spiare ben bene il momento in cui sarebbero sguscia-ti fuori i piccoli, e ora quel momento fatidico era ar-rivato… la mia prima ochetta era dunque venuta al mondo, e io attendevo che, sotto il termoforo che so-stituiva il tiepido ventre materno, divenisse abba-stanza robusta per poter ergere il capo e muovere alcuni passetti. La testina inclinata, essa mi guarda-va con i suoi occhi scuri; o meglio, con un solo oc-chio, perché come la maggior parte degli uccelli, an-che l’oca selvatica si serve di un solo occhio quando vuole ottenere una visione molto netta. A lungo, molto a lungo mi fissò l’ochetta, e quando io feci un movimento e pronunciai una parolina, quel minuscolo essere improvvisamente allentò la tensio-ne e mi salutò: col collo ben teso e la nuca appiattita, pronunciò rapidamente il verso con cui le oche sel-vatiche esprimono i loro stati d’animo, e che nei pic-coli suona come un tenero, fervido pigolio… E io non sapevo ancora quali gravosi doveri mi ero assunto per il fatto di aver subìto l’ispezione del suo occhiet-to scuro e di aver provocato con una parola imprevi-dente la prima cerimonia di saluto”. L’intento di Lorenz era dimostrare che l’imprinting fosse un comportamento innato che non fosse attiva-to dalle cure parentali.

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Definì in seguito le principali caratteristiche di que-sto fenomeno di attaccamento, osservando che: • l’imprinting avviene sempre durante un periodo

sensibile; trascorso questo periodo, l’animale perderà la capacità di imprintarsi;

• l’imprinting è irreversibile: infatti, contrariamen-te all’apprendimento, che è sempre labile, la co-noscenza dell’oggetto scatenante persisterà per tutta la vita;

• l’imprinting seleziona non i caratteri individuali, ma quelli specie-specifici… “un’oca selvatica imprintata sull’uomo segue tutti gli uomini”;

• l’imprinting implica sempre e solo una reazione determinata da un oggetto specifico, sia parenta-le che sessuale;

• l’imprinting può completare un’azione istintiva non ancora installata (per esempio, il determini-smo del partner sessuale);

• gli stimoli dolorosi sembrano rinforzare l’imprinting (al contrario dell’apprendimento, dove lo stimolo doloroso porterà all’evitamento).

Il meccanismo dell’imprinting osservato negli uccel-li, tuttavia, non è riscontrabile nei mammiferi nidicoli e carnivori, quali i cani, così come non è riscontrabile nell’uomo. Quanto si osserva nei mammiferi evoluti, compreso il cane, è un fenomeno definito impregna-zione. A differenza dell’imprinting, l’impregnazione ha le seguenti caratteristiche:

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• si verifica utilizzando un largo ventaglio di sti-moli esterni;

• alcuni stimoli sono più efficaci di altri (per il ca-ne, ad esempio, il volto umano);

• l’attaccamento aumenta in funzione della durata dei contatti;

• esistono più periodi di attaccamento con delle va-riabili temporali, detti periodi sensibili;

• una nuova impregnazione sarà difficile dopo la fine dei periodi sensibili.

Una caratteristica importante nei cani è la possibilità di una doppia impregnazione: la socializzazione pri-maria (tra conspecifici) e la socializzazione seconda-ria (tra interspecifici) con connotazioni diverse. Ad esempio, un cucciolo difficilmente potrà impre-gnarsi (attaccamento secondario) alla specie umana, se non avrà creato un legame di attaccamento a un umano in un periodo sensibile della sua vita (Colan-geli, R., Giussani, S. - Medicina comportamentale del cane e del gatto, vedi tabella di seguito):

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Lorenz e il modello psico-idraulico Il modello psico-idraulico proposto da Lorenz è frut-to di un lavoro condiviso con Freud sull’aggressività dell’individuo e sulle pulsioni. Non mi dilungherò su questo modello che in ambito cinofilo ha creato non pochi problemi ai cani. Ad esempio, l’idea di far sca-ricare le energie a un border collie facendolo correre dietro una pallina si è dimostrata assolutamente in-fondata. Il cane si allena giorno dopo giorno, con il solo risul-tato che se all’inizio si stancava, ad esempio corren-do dietro una pallina con l’intento del proprietario di scaricare le energie pulsionali, con il tempo si osser-va, attraverso il maggior allenamento del comporta-mento legato alle motivazioni ontogenetiche e filo-genetiche , manifestando il comportamento cinetico con maggior frequenza e anche decontestualizzato. Per spiegare i meccanismi che portano un animale a realizzare comportamenti finalizzati a raggiungere uno scopo, Konrad Lorenz propose un modello cono-sciuto come modello psico-idraulico secondo cui per ogni specifica pulsione interna vi sarebbe una sorta di serbatoio entro il quale si va progressivamente accu-mulando un liquido. La fuoriuscita del liquido dalla base del serbatoio è controllata da una valvola tenuta chiusa da una mol-la, a sua volta collegata da una leva posta esterna-

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mente: l’apertura della valvola è di norma provocata da un pressione del braccio della leva esterna (ovve-ro, la comparsa dello specifico stimolo-segnale). Tut-tavia può essere aperta anche dalla pressione eserci-tata dal liquido che si accumula lentamente nel serbatoio con il passare del tempo e concorre nel de-terminare l’apertura della valvola e quindi permettere la fuoriuscita del liquido stesso. Se il tempo intercorso dall’ultimo atto consumatorio, indipendentemente da quale esso sia stato, è conside-revole, può man mano ridursi la specificità dello sti-molo-segnale e persino uno stimolo improprio può determinare nell’animale una risposta consumatoria sbagliata. Talvolta, secondo Lorenz, la pressione motivazionale interna (la quantità di liquido nel serbatoio) è talmen-te elevata che, pur in assenza totale di appropriati stimoli esterni, l’animale mostra un modulo compor-tamentale assolutamente estraneo al contesto, ma uti-le per scaricare il serbatoio sotto pressione; in questo caso si potrebbe parlare di attività sostitutiva.

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Etogramma e vocazioni delle razze canina Per realizzare un percorso pedagogico, educativo e di istruzione è indispensabile conoscere l’etogramma e le vocazioni del cane che abbiamo di fronte, tenendo sempre a mente che esiste anche la componente filo-genetica, che non deve mai assolutamente essere tra-scurata. Ogni cane è dotato di dimensioni di relazio-ne personali e referenziali con il gruppo umano nel quale è integrato: dimensioni affettive, ludiche, edo-niche, epistemiche e sociali come afferma Roberto Marchesini. Nei capitoli successivi tratteremo gli aspetti applicativi di questi specifici referenziali. I Coppinger nel 1983 pubblicarono una tabella che riportava l’ipotesi secondo la quale la diversa morfo-logia dei cani corrisponderebbe a gradi differenti di neotenia. Essi, riprendendo lo studio dello stesso Lo-renz, teorizzarono che si potessero così definire cin-que comportamenti nei cani adulti, frutto della sele-zione sull’aspetto neotenico, che determina caratteri comportamentali proporzionali alle fasi di crescita del suo antenato lupo. Secondo questa teoria, l’aspetto fisico del cane ripropone anche l’aspetto comportamentale osservabile nelle varie fasi di cre-scita del lupo: adolescente, giocatore con oggetti, pa-ratore, tallonatore e adulto (stadio inserito successi-vamente).

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Questa teoria è basata su due concetti fondamentali: Eterocronia: si tratta di un insieme di processi che hanno come risultato il rallentamento (pedomorfosi) o l’accelerazione (paramorfosi) dei processi di svi-luppo dell’individuo rispetto all’antenato) Pedomorfosi: significa “con l’aspetto di un giova-ne”. Consiste in una variazione fenotipica e/o genoti-pica per cui gli individui adulti di una specie conser-vano i tratti propri degli esemplari non ancora maturi. La Neotenia è un tipo di pedomorfosi che porta ad una forma giovanile matura sessualmente. Un anima-le pedomorfico, quindi, ha sempre e comunque un aspetto giovanile, mentre un animale neotenico rag-giunge la maturità sessuale prima, e questo cambia il

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suo comportamento, ma potrebbe avere lo stesso l’aspetto dell’adulto ancestrale. Neotenia e pedomorfosi sono fenomeni entrambi le-gati all’eterocronia. Secondo i coniugi Coppinger (1983), a seconda del grado di pedomorfismo le razze avrebbero diverse capacità di esibire comportamenti di dominanza e sottomissione. L’aspetto pedomorfico corrisponderebbe ad un com-portamento pedomorfico. Gli stadi neotenici secondo i Coppinger PRIMO STADIO, stadio del neonato I cani al primo stadio neotenico hanno caratteristiche fisiche prepotentemente infantili, tipiche dei cuccioli di lupo dal primo al secondo mese di vita. Il muso è corto, le orecchie sono piccole e pendenti, il cranio è tondeggiante, il corpo tozzo e l’andatura goffa. Psi-cologicamente il cucciolo di lupo è legato esclusiva-mente alla madre e ai fratelli e allontanarsi da loro gli provoca paura e stress. Il mondo esterno gli interessa pochissimo e ha paura di tutto ciò che non conosce, quindi tende a reagire aggressivamente a qualsiasi stimolo estraneo. Le razze inserite dai Coppinger in questo gruppo so-no tutti i molossoidi e alcune razze da compagnia.

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Questi cani sono lottatori senza inibizioni rituali (che compaiono infatti solo nel lupo adulto), ottimi guar-diani perché estremamente territoriali (in loro “tana” e “territorio” sono addirittura sinonimi), non molto adatti alle attività che richiedano un alto tempera-mento (ovvero velocità di reazione agli stimoli) e spi-rito di iniziativa. Non sono gerarchici, perché l’ordinamento gerarchi-co nel lupo inizia solo dai tre mesi: per loro il concet-to di “padrone-capobranco” non esiste. Esiste invece il concetto di “padrone-mamma”, perché é questa che amano e rispettano e a cui, quindi, obbediscono. SECONDO STADIO, stadio del gioco I cani al secondo stadio neotenico si avvicinano al cucciolo di lupo dal terzo al quarto mese di vita. Ma-nifestano curiosità e vivacità verso gli stimoli esterni, giocano spontaneamente con i fratelli e con i genito-ri, cominciano a uscire dalla tana e a interagire (sem-pre in modo ludico) con altri membri del branco, ma diffidano ancora di ciò che non conoscono. Provano grande piacere nel prendere tutto in bocca. L’aspetto fisico presenta orecchie pendenti o semie-rette, ma più lunghe rispetto alle razze del primo sta-dio, muso allungato e corpo più agile e proporziona-to. In questo stadio sono inseriti i Retrievers e la mag-gior parte dei braccoidi. Sono poco adatti a compiti di guardia e difesa perché ancora carenti dal punto di vista del coraggio; inoltre hanno ormai abbandonato il legame con la tana ma

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non hanno ancora sviluppato una sufficiente territo-rialità di tipo alimentare/sessuale (tipica dell’adulto). Di indole giocosa e affettuosissima, hanno una vera “passionaccia” per il riporto. Cominciano a intuire il concetto di gerarchia, ma sono ancora legati alla ma-dre: il padrone ideale è quello che sa tenere un com-portamento intermedio tra “mamma” e capobranco. TERZO STADIO, stadio del paratore In questo stadio i cani corrispondono al lupacchiotto di 4-6 mesi. Le orecchie sono ormai erette o quasi erette, il muso si è ulteriormente allungato, l’andatura è agile e sciolta. Il cane non è più in “fase orale” e quindi è meno appassionato al riporto: manifesta invece la tendenza a sorpassare qualsiasi oggetto (o animale) in movimento, “intercettandolo” e tagliandogli la strada. Questo comportamento viene definito dagli autori di “parata” e rappresenta una sorta di prepara-zione al comportamento predatorio, che nelle fasi evolutive del lupo si manifesterà poco tempo dopo e che si tradurrà nell’inseguimento della preda e nel tentativo di afferrarla ai talloni. Secondo i coniugi Coppinger, in natura, dai 3 ai 6 mesi avvengono le fasi di ordinamento gerarchico e di ordinamento del branco dei lupi, quindi questi cani sono già molto ge-rarchici e collaborativi. Si identificano in questo gruppo la maggior parte dei lupoidi, specialmente quelli da pastore come il pasto-re tedesco, il pastore belga, il pastore svizzero, ecc. Questi cani sono adatti a compiti di guardia, perché

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già territoriali; di difesa, perché sono pronti a tutto per il padrone-capobranco; di pista, perché conosco-no già le tecniche di caccia che li spingono a usare l’olfatto; di conduzione del gregge, perché tendono a “raggruppare” gli animali che vengono loro affidati. Le razze che appartengono al terzo stadio sono quelle più duttili ed eclettiche, perché mostrano una maturi-tà psichica “quasi” adulta ma restano assai dipendenti dai superiori gerarchici. QUARTO STADIO, stadio del tallonatore Nello stadio del tallonatore, il cane presenta un fisico simile a quello del lupo adulto: orecchie dritte, muso lungo, muscolatura ben sviluppata, corpo agile. I tal-lonatori sono indipendenti, capaci di prendere inizia-tive in proprio e fortemente predatori (sono già nello stadio in cui devono collaborare con gli adulti nella caccia). Tendono a inseguire la preda e a bloccarla, addentandola nei quarti posteriori. Sono fortemente gerarchici. Rispettano solo il capobranco, mentre non sanno più cosa farsene di una “mamma”. Con loro è più efficace una dominanza “seriosa” di una sdolci-nata e ricca di coccole. Appartengono a questo stadio alcuni levrieri, tutti i cani nordici da caccia e due da slitta: il Samoiedo e l’Alaskan Malamute. QUINTO STADIO, stadio dell’adulto Nel quinto stadio il cane somiglia sia fisicamente che caratterialmente a un lupo adulto. Non abbaia quasi più (secondo l’autore l’abbaio è una manifestazione), ma può ululare per motivi sociali.

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Estremamente indipendente e predatore, può avere un legame molto forte solo con i membri di rango superiore che sappiano conquistarsi la sua stima (è anche prodigo di affetto, ma questo non basta per far-si obbedire). Le razze inserite in questo gruppo sono i levrieri più primitivi (per es. l’Azawakh) e le rimanenti due razze nordiche da slitta: il Siberian Husky e il Groenlande-se. Tra i due, il Groenlandese è ancora più “adulto” dell’Husky e la sua “gestione” è riservata a veri co-noscitori della psiche canina.

Questa pubblicazione però è stata fortemente criticata e contestata da parte di chi ha osservato uguali capa-cità di comunicazione sociale in razze che secondo questa scala dovrebbero risultare molto diverse tra loro. Lo stesso Coppinger scrisse vent’anni dopo che “La maggior parte delle teorie sul pedomorfismo e sulla neotenia derivano dalla percezione che i cani tendo-no ad avere musi più corti quando confrontati con i lupi. Io stesso caddi in questa trappola nei primi anni del progetto sui cani da guardia del gregge. Ma i ca-ni adulti non hanno teste con proporzioni simili a quelle di un cucciolo di lupo”. Robert Wayne lo dimostrò definitivamente in una pubblicazione scientifica del 1986 sulla morfologia del cranio di canidi selvatici e domestici. Egli scoprì che tutte le razze canine hanno lo stesso rapporto tra la lunghezza del palato e la lunghezza totale del cra-nio.

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Proprio Wayne nel 1986 afferma: “[…] Se i cani fos-sero lupi pedomorfici avrebbero una conformazione cranica rispetto alla razza simile a quella dei lupi: neonati, cuccioli o adolescenti, ma non è così. Le te-ste dei cani sembrano più corte solo perché in alcuni casi sono più larghe rispetto a quelle dei lupi. La larghezza però non è un tratto pedomorfico. L’ipotesi neotenica, quindi, non è uno strumento utile per spiegare l’evoluzione del cane rispetto al lupo, non perché sia sbagliata a priori, ma piuttosto per-ché nessuno ha trovato il modo per dimostrarla”.

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L’Etologia Cognitiva Quasi ovunque ci sono persone e cani, quindi studia-re il cane nel suo ambiente naturale significa oggi os-servarlo al nostro fianco, il più delle volte, in aree profondamente e fortemente urbanizzate. Nonostante ci siano tante così tante persone in tutto il mondo che vivono con i cani, sono pochissimi i ri-cercatori in ambito cognitivo relazionale e neuro-biologico a trovarli degni d’interesse scientifico, pre-ferendo spesso ad altre specie (vedi i primati) per spiegare le capacità dell’umano. Tra questi pochi scienziati, una notevole eccezione è rappresentata da Charles Darwin, che ha trovato i ca-ni estremamente interessanti per le sue ricerche. Egli ha quindi proposto nel suo lavoro Le origini delle specie (Darwin, 1859) una serie di esempi che illu-strano le variabilità negli animali domestici, soprat-tutto nei cani, dal momento che in nessun’altra specie si trovano così chiaramente elementi di prova delle

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modificazioni osservabili attraverso la coevoluzione con l’uomo (Ritvo, 1998). Fortunatamente in tempi recenti un certo numero di scienziati: etologi, biologi e cognitivisti hanno co-minciato a considerare i cani assai interessanti per le loro ricerche (Cooper et al., 2003; Miklosi et al., 2004). Il motivo di questo interesse è che i cani sem-brano avere alcune abilità “speciali” per la compren-sione del comportamento sociale e comunicativo dell’umano. Le competenze del cane sembrano esse-re di gran lunga più flessibili, addirittura simili a quelle umane, rispetto a quelle di altri animali filoge-neticamente legati all’uomo in modo più stretto, co-me ad esempio, gli scimpanzé. Ciò indica che vi sia una reale possibilità che l’evoluzione convergente (coevoluzione) tra Canis familiaris e Homo sapiens abbia permesso la com-parsa di alcuni tratti simili, anche se ovviamente espressi in maniera diversa, tra le due specie. Sono state evidenziate le competenze sociali e comu-nicative del cane, entrambe adattate e funzionali non solo per alcuni tipi di interazioni con gli esseri uma-ni, ma adeguate a creare una relazione profonda tra le specie. Due specie, l’uomo e il cane, anche se lonta-namente imparentate (appartengono entrambi alla classe dei mammiferi), condividono tratti simili nell’interpretazione del proprio sistema socio cogni-tivo e relazionale con l’altro. È possibile, quindi, che questa caratteristica così simile non sia sorta in ma-niera indipendente tra le due specie, ma è plausibile pensare sia causa del processo evolutivo condiviso.

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Pertanto, le competenze sociali del cane rappresenta-no un caso di evoluzione convergente con gli esseri umani, i quali sono stati in grado di agire sulla pres-sione selettiva che ha guidato l’evoluzione dei cani. Una recente ricerca basata su studi comparativi tra uomo e cane (Hare e Brian, 2004) ci suggerisce co-me questi tipi di inferenze evolutive abbiano giocato un ruolo fondamentale sull’intelligenza sociale, sia del cane che dell’essere umano, attraverso un percor-so di contaminazione reciproco. Sarebbe interessante verificare ulteriormente come un processo simile e contrario ha avuto un ruolo nel dare forma alla cognizione umana.

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Attaccamento L'attaccamento è un concetto molto importante per gli animali che vivono in gruppo, in quanto dalle at-tività di gruppo, importantissime per i cani, dipendo-no le relazioni che si instaurano tra i componenti del-lo stesso. Il rapporto cane-umano, come già detto, ha una lunga storia co-evolutiva. Pensare ancora al cane come ad un lupo addomesticato, oggi non ha più nessun signi-ficato scientifico; l’idea del proprietario capo branco e del cane gregario può e deve essere definitivamente messa in soffitta, a favore di quella che il cane ci considera, cioé come il suo “papà” o la sua “mam-ma” adottiva e di altra specie.

Partendo da questo presupposto, ci possiamo avvale-re degli studi che molti psicologi hanno condotto sul legame speciale che unisce la madre ed il suo bambi-no. Da queste ricerche emerge che le capacità colla-borative e cognitive del bambino dipendano sostan-zialmente dalla qualità della relazione che s’instaura con la madre. Al fine di dimostrare se esiste lo stesso comporta-mento di attaccamento nel cane (Canis familiaris) come nel bambino, verso la figura di attaccamento umana, un gruppo di ricercatori dell’Università Loránd Eötvös University (József Topál, Ádám Miklósi, Vilmos Csányi e Antal Dóka) hanno utilizza-to la ricerca sviluppata da Mary Ainsworth (Strange Situation Test, 1969), studio che ha postulato i criteri

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che regolano il legame di attaccamento tra bambino e figura genitoriale. Questo ricerca ha offerto la possibilità di osservare la presenza di importanti analogie tra cane e bambino nella manifestazione del comportamento di attacca-mento. Sono state osservate cinquantuno diadi (cani e pro-prietari) attraverso il test di Ainsworth (1969) modi-ficato in funzione delle differenze comunicative del cane rispetto al bambino. I risultati hanno dimostrato che i cani giovani e adulti mostrano indistintamente patterns comportamentali di attaccamento verso i proprietari. L’esperimento ha dimostrato che la notevole variabi-lità nel comportamento di attaccamento dei cani agli umani non ha alcun riferimento di genere (uomo o donna) ma piuttosto è influenzato dall’età, dalle con-dizioni di vita o dalle vocazioni di razza del pet. La relazione cane/uomo è descritta prendendo in esame tre dimensioni di risposte: ansia, accettazione (oppu-re accoglienza, approvazione) e iper-attaccamento. Un’analisi della ricerca rivela come anche nei cani si possano evidenziare sostanzialmente cinque modelli di attaccamento, che spaziano dal sicuro all’insicuro. Questi comportamenti di attaccamento dei cani verso l’uomo sono del tutto simili a quelli osservati nel test originale della Ainsworth (integrato negli anni suc-cessivi da Wartner nel 1986, Main e Cassidy nel 1987 e da Crittenden nel 1988) sui bambini. Secondo lo schema originale di Mary Ainsworth et al. (1978) il comportamento di attaccamento di un

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bambino tra uno e due anni di età può essere classifi-cato secondo tre modelli: 1. il primo si distingue come attaccamento “sicuro”; 2. il secondo “ansioso evitante”; 3. il terzo è l’attaccamento “ansioso resistente”. Un quarto modello di attaccamento “disorienta-to/disorganizzato” fu individuato nel 1986 da Mary Main e Judith Solomon. Infine è stata definita anche la quinta categoria, la quale consente di segnalare quei casi, in realtà assai rari, che non hanno caratteristiche sia del gruppo 1 che del gruppo 3 (hanno caratteristiche intermedie) o che non sono classificabili con i modelli 1, 2, 3 e 4.

Claude Béata, ricercatore della scuola francese, offre un’attenta riflessione sui modelli di attaccamento e di come questi, anche se “categorizzati” in modo rigido, possano essere rappresentativi per consentire un’attendibile previsione sull’organizzazione psico-logica ed emozionale nel cane, evidenziando come modelli di attaccamento problematici nel cucciolo possano generare future patologie comportamentali nell’adulto. Béata convalida questa teoria proponendo le patolo-gie osservate nel cane adulto rivisitando il modello di attaccamento che ha avuto con i proprietari nel pe-riodo di socializzazione secondaria, suddividendoli in quattro categorie: 1. I “Sicuri”. E’ molto improbabile che questi cani

siano predisposti all’ansia da separazione. In ge-nere sono adattabili e capaci di affrontare i cam-

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biamenti. Tuttavia, essi potrebbero essere dei po-tenziali candidati a manifestare disturbi competiti-vi di relazione.

Dei rimanenti tre gruppi fanno parte gli animali vis-suti senza l’impegno rassicurante da parte del pro-prietario, spesso poco attento alle esigenze socio-relazionali e cognitive del cucciolo. 1. Gli “ansiosi-evitanti”. I cani di questo gruppo

cercano di evitare contatti con le persone scono-sciute, mostrando alti livelli di stress se avvicinati. È quindi facile supporre che questi animali da adulti potranno sviluppare fobie e saranno molto inibiti nel comportamento esploratorio.

2. Gli “ansiosi-resistenti”. Sono cani ambivalenti che passano da una richiesta di contatto insistente al rifiuto dello stesso una volta ottenuto. Ad esempio, durante le coccole da parte del proprieta-rio alternano fasi di esuberanza a sequenze di ag-gressione per irritazione, ringhiando o mordendo-gli le mani.

3. I “disorganizzati”. Questi cani fanno poca diffe-renza tra le diverse figure umane che li circondano e non riconoscono nel proprietario un centro refe-renziale o base sicura. Si osserva in questi indivi-dui una scarsa capacità di gestire gli autocontrolli; spesso sono degli iperattivi (Sindrome di ipersen-sibilità – iperattività) (Pageat P., Patologia del comportamento del cane, 1999).

4. Nella pratica quotidiana, la conoscenza e l'identi-ficazione dei diversi stili di attaccamento può quindi affinare notevolmente i consigli dati ai

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proprietari. Il professionista che non tiene conto di questi modelli di attaccamento nell'analisi dei di-sturbi comportamentali e quindi nella costruzione di terapie adeguate per risolverli porterà quasi inevitabilmente all’insuccesso del percorso riabili-tativo stesso.

5. Questo approccio all’educazione e rieducazione del cane esplora dunque in un nuovo modo la comprensione dei grandi problemi dello sviluppo. Si deve tener conto innanzi tutto della qualità di attaccamento del cucciolo verso il proprietario, che sempre più è figura “genitoriale” piuttosto che padrone o “capo branco”.

Recenti studi dimostrano una differenza sostanziale tra cuccioli di cane e cuccioli di lupo. Nonostante i lupi osservati siano stati allevati dall’uomo con una socializzazione secondaria impeccabile (contatto con i loro partner umani venti ore al giorno per i loro primi quattro mesi di vita), questi cuccioli non sono capaci di discriminare tra il loro proprietario e l’estraneo quando sono lasciati soli in un recinto po-co familiare per un certo periodo. Al ritorno del pro-prietario non lo guardano e non gli vanno incontro. L’umano, per i lupi, a differenza di quanto avviene per i cani, non agisce come una “base sicura”. Queste differenze tra i lupi e i cani dimostrano che il processo di attaccamento nei cani non è solo frutto di esperienze sociali maturate durante l'esposizione in tenera età agli esseri umani, ma è un processo molto

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più profondo che nasce dalla stretta co-evoluzione tra le due specie. In conclusione: se per Bowlby, padre dei primi studi sulla teoria dell’attaccamento, il legame di attacca-mento primario condizionerà i futuri legami affettivi intra ed interspecifici. Gli studi moderni sull’attaccamento dimostrano che la figura materna non è considerata esclusiva. I legami di attaccamen-to s’intrecciano anche con le altre molteplici figure stabili dell’ambiente con cui il cane si relaziona e che si prendono cura di lui (figure definite caregivers), vale a dire i proprietari, gli educatori/istruttori cinofi-li e gli amici a due e a quattro zampe. Inoltre, sicco-me il legame di attaccamento varia a seconda delle figure di riferimento, esso può portare allo stabilirsi nel cane di diversi tipi di attaccamento. Questo aspet-to dimostrerebbe come in alcune famiglie il cane ab-bia diversi piani di relazione con i diversi componen-ti del suo nucleo famigliare interspecifico. In questa direzione ci vengono incontro gli studi di Rutter (1993), il quale esprime un concetto, a parer mio, parecchio importanti nella relazione con il pet: “i differenti legami stabiliti dalla persona possono compensare o supplire le relazioni primarie even-tualmente insicure”. È ancora Gilligan (1997) che afferma: “il legame di attaccamento non è fissato una volta per tutte nei primi mesi di vita; può essere mo-dificato da influenze tardive connesse a cambiamenti nelle relazioni familiari o da legami extra-familiari o, ancora, dal sostegno sociale”.

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Capacità relazionali tra cane e uomo Brian Hare pubblica nel 2004 una ricerca sulle capa-cità relazionali tra cane e uomo (“Domestic Dogs Use Humans as Tools”, Encyclopedia of Animal Be-havior Vol. I pp. 277-285). Il lavoro è stato integrato successivamente in colla-borazione con un gruppo di ricerca internazionale formato dal Department of Evolutionary Anthropolo-gy & Center for Cognitive Neuroscience, Duke Uni-versity, Durham, NC (U.S.A.) e dal Max Planck Insti-tute for Evolutionary Anthropology, Leipzig (Germania). I ricercatori che vi hanno preso parte sono: Brian Hare, Alexandra Rosati, Juliane Kaminski, Juliane Braüer, Josep Call e Michael Tomasello. Utilizzando un semplice test, questo gruppo di ricer-catori ci ha permesso di capire come il legame tra ca-ne e uomo sia un qualcosa che non ha precedenti in natura. Gli studiosi hanno dimostrato che il luogo comune che afferma che si possano analizzare il comportamento e l’apprendimento del cane osser-vando quelli del lupo non è più proponibile. Sarebbe, come voler dimostrare il comportamento e l’apprendimento umano osservando gli scimpanzé. Oppure, come preferisco ogni tanto osservare durante le mie lezioni, paragonare il lupo al cane equivale, secondo me, al fare una analisi antropologica di una grande metropoli, prendendo a modello di riferimen-

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to e indagando un gruppo di clochard presenti nella sua stazione o metropolitana. Gli autori della ricerca sottolineano come il test deb-ba essere necessariamente semplice se si vuole inda-gare una vasta gamma di individui di specie diverse. Infatti, l’esperimento consiste nel nascondere una ri-compensa in uno dei diversi contenitori uguali e opa-chi presenti nel set posizionati in diversi punti dell’ambiente. Un ricercatore dirige lo sguardo nella direzione del contenitore contente il premio, nel ten-tativo di aiutare il soggetto analizzato a trovarlo. I neonati umani trovano questo tipo di attività banal-mente facile da circa 14 mesi di età, in concomitanza con l’imparare la comunicazione verbale (Behne et al., 2005). Tuttavia, è sorprendente come gli scim-panzé, animali abilissimi nel trovare soluzioni a tanti altri problemi sociali, mostrino scarse attitudini nell’utilizzare le indicazioni sociali e comunicative degli umani per risolvere il compito sottoposto dal test (Tomasello et al., 2003). Al contrario, i cani domestici, abituati a relazionarsi con l’uomo, mo-strano un’impressionante flessibilità nel risolvere il problema assegnatogli (Hare et al., 1998;. Miklosi et al., 1998). La maggior parte dei risultati delle ricerche indirizza-te all’osservazione di comportamenti sociali e comu-nicativi tra le specie sono stati ottenuti utilizzando il paradigma della cosiddetta scelta dell’oggetto (An-derson et al., 1995).

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Nella scelta dell’oggetto si utilizza un pezzetto di ci-bo o un gioco che agisce come premio. Si nasconde il premio sotto un oggetto posizionato tra altri uguali (di solito due tazze opache distanti un metro una dall’altra). Il soggetto dell’esperimento conosce il premio e sa che è stato nascosto sotto un contenitore, ma non sa sotto quale sia stato nascosto. Lo sperimentatore umano cerca di indirizzare l’animale indicandogli la posizione del premio (ad esempio, indicando o guardando la tazza che lo con-tiene). Una volta che il ricercatore la addita, l’animale è invitato a cercare in uno dei due conteni-tori. Se sceglie il contenitore indicatogli, gli è con-sentito di recuperare la sua gratifica, mentre se sce-glie il contenitore sbagliato gli viene mostrato solo che la ricompensa era stata nascosta nel contenitore indicato. Questa procedura è ripetuta dalle dieci alle venti vol-te, al fine di confrontare le reali prestazioni del sog-getto di imparare a usare l’indicazione dello speri-mentatore, anziché agire spontaneamente o casualmente. I primati sottoposti al test, due specie di scimpanzé (Pan troglodytes e Pan paniscus), risultano essere particolarmente incapaci di trovare i premi riferendo-si all’umano che gli indica il target corretto, eviden-ziando una quasi totale incapacità di una attività so-ciale-comunicativa interspecifica. Ci vogliono decine di prove, da parte dei primati, affinché imparino a utilizzare informazioni sia quando vengono fornite da

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un essere umano sia da un conspecifico (Anderson et al., 1995;. Call et al., 2000). Ad esempio, un gruppo di scimpanzé addestrati a scegliere un contenitore che un uomo stava indican-do, toccandolo, non erano più in grado di sceglierlo se un essere umano riproponeva lo stesso compito so-lo guardandolo (Povinelli et al., 1997). I risultati ottenuti con i cani invece risultano essere molto diversi da quelli osservati con i primati. In tutti gli studi (Hare et al., 1998; Miklosi et al., 1998, 2000;. Hare e Tomasello, 1999; Agnetta et al., 2000; McKinley e Sambrook, 2000), condotti in diversi la-boratori, la maggior parte dei cani sono stati sponta-neamente in grado di utilizzare una serie di indizi di-versi offerti loro dall’uomo per localizzare il premio nascosto. Nello specifico: • L’uomo indica con la mano il target (lo sperimen-

tatore si trova a più di un metro di distanza dal target e punta la mano nella sua direzione);

• L’uomo indica il target ruotando la testa (lo spe-rimentatore gira solo la testa verso il target, il re-sto del corpo rimane statico);

• L’uomo s’inchina o annuisce quando il cane va verso la direzione corretta del target;

• L’uomo pone un marker (un legnetto evocativo) di fronte alla tazza contenente il premio.

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Inoltre si è osservato che alcuni cani erano addirittura capaci di trovare la soluzione se il ricercatore si diri-geva verso il contenitore sbagliato, ma contempora-neamente osservava e girava la testa verso il conteni-tore giusto. Allo stesso modo, i cani sono in grado di trovare il premio nascosto anche osservando come agisce un loro conspecifico. In tutti questi casi i cani hanno utilizzato in modo ef-ficace i segnali dell’uomo dimostrando, attraverso l’esperimento, di essere in grado di avere capacità socio-collaborative con l’uomo e con i propri con-specifici. Per validare questi test sono state prese in considera-zione una serie di procedure di controllo, come ad esempio: • non dare indicazioni visive ai cani dei luoghi do-

ve veniva posizionato il contenitore con il pre-mio;

• prestare attenzione che i soggetti non utilizzasse-ro semplicemente i riferimenti olfattivi per indi-viduare il cibo;

• riproporre le prove cambiando la posizione dei target e l’ambiente dove si svolgeva l’esperimento.

In tutti i casi si è osservato che i cani non sono riusci-ti a trovare il cibo nascosto al di sopra delle loro pos-sibilità se non grazie a un segnale visivo da parte del ricercatore.

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Forse ancora più sorprendente è osservare come i ca-ni, in altri studi, abbiano risolto problemi cognitivi e socio-collaborativi ancora più complessi di quelli de-scritti. Ad esempio, se viene posto un marker per raggiunge-re il target ma poi viene rimosso prima che la scelta dei cani sia orientata verso lo stesso, questi dimostra-no di essere in grado di ricercare immediatamente le indicazioni date dall’uomo per risolvere il problema, evidenziando le loro capacità sociali e collaborative, non essendo attratti solo dal marker (Reidel et al., 2005). I cani, come i neonati umani e a differenza degli scimpanzé (Povinelli et al., 1999), sono in grado di localizzare il cibo nascosto solo osservando la testa e la direzione degli occhi dell’uomo. Questo suggerisce che i cani sono capaci di indivi-duare comportamenti comunicativi umani, a diffe-renza di altri comportamenti, in modo più simile a quello di neonati umani di quanto non facciano gli scimpanzé. Un’altra linea di ricerca ha dimostrato come i cani siano in grado di valutare ciò che un umano può o non può vedere in una serie di contesti. Ad esempio, se un uomo lancia una pallina al cane e poi gli volta le spalle, il cane, quasi sempre, gli riporta la pallina girandogli intorno al corpo per poi farla cadere di fronte al suo volto (Hare et al., 1998;. Miklosi et al., 2000). Inoltre, quando i cani possono scegliere tra due esseri umani con del cibo, preferiscono orientare

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la loro attenzione verso l’uomo la cui testa e gli occhi sono visibili (Gasci et al., 2004;. Viranyi et al., 2004; Vescovo e Young, 2005), cosa che gli scimpanzé non sono capaci di fare spontaneamente (Povinelli e Ed-dy, 1996). I cani evitano anche di avvicinarsi al cibo trattenuto da un uomo quando questo ha gli occhi aperti, a dif-ferenza di quando li ha chiusi (Call et al., 2003). Di nuovo un qualcosa che i primati non sono in grado di fare spontaneamente (Povinelli e Eddy, 1996;. Ka-minksi et al., 2004b). Inoltre, i cani evitano di avvici-narsi al cibo quando è visibile un umano che glielo vieta attraverso una finestra trasparente di piccole dimensioni che funge da barriera tra il cane e l’uomo. In questa situazione i cani sono in grado di prendere la decisione di non avvicinarsi al cibo intuendo il di-sappunto dell’uomo che li osserva attraverso la fine-stra (Brauer et al., 2004). I cani sono in grado di imparare a conoscere l’ambiente degli esseri umani in una varietà di modi sorprendente, modi che possono essere altamente comunicativi o addirittura non comunicativi. Quando il proprietario chiede al cane di andare a prendergli un oggetto utilizzando una semantica che il cane non conosce, ad esempio gli chiede di prende-re una chiavetta USB, il cane molto probabilmente prenderà un qualunque oggetto che non ha mai cono-sciuto come richiesta; al contrario, se gli si chiede di andare a prendere qualcosa che conosce, ad esempio la sua pallina, il cane la recupererà senza esitazione.

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Da questa osservazione si deduce che il cane è in grado di fare una sorta di ragionamento per esclusio-ne (se il proprietario avesse voluto la pallina l’avrebbe chiamata con il suo nome, quindi la richie-sta è un’altra tra le cose che il cane non conosce per nome, per cui prova a prenderne una tra le tante per lui nuove). Tali capacità sociali sono state dimostrate solo studiando l’apprendimento linguistico dei bam-bini (Kaminski et al., 2004a; ma vedi Markman e Abelev, 2004). Infine, i cani che osservano un umano o un conspeci-fico risolvere semplici compiti sono più veloci e lo svolgono con maggior successo rispetto ad altri cani che non hanno assistito alla dimostrazione (Slabbart e Rasa, 1997; Pongracz et al., 2001, 2003;. Kubinyi et al., 2003a, b). Il fatto che i cani siano così esperti nel campo sociale ci induce a chiederci come e perché i cani hanno ac-quisito una specializzazione pro-sociale per risolvere i problemi che coinvolgono gli esseri umani.

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Le convergenze evolutive tra i cani e gli esseri umani

“… Quindi, se l’uomo va sulla selezione, e quindi modificando qualche particolarità,

andrà inconsciamente, ma quasi certamente a modificare altre parti della struttura,

a causa delle misteriose leggi della correlazione di crescita.”

DARWIN 1859

Il fatto che i cani domestici, a differenza delle scim-mie (nonostante queste siano primati come noi), sia-no in possesso di competenze socio-cognitive di tipo umano, ci impone la ricerca dell’origine di come queste abilità si siano potute sviluppare. Potrebbe essere che queste somiglianze tra i cani e gli esseri umani rappresentino un caso unico a livello interspecifico di evoluzione convergente di tipo co-gnitivo? Un caso, come direbbe il Prof. Marchesini, di impregnazione? La spiegazione più semplice per dare risposta a que-ste particolari competenze socio-cognitive dei cani con gli esseri umani è che i cani crescono in una non usuale co-evoluzione con l’uomo e hanno così l’insolita opportunità di imparare dall’essere umano. L’uomo è il centro referenziale del cane (Call e To-masello, 1996).

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Diversi studi avvalorano la tesi di Tomasello, compa-randola ancora una volta a quanto si è ricercato os-servando i primati. È stata così dimostrata la capacità di usare spontaneamente un certo numero di segnali sociali nel compito della scelta dell’oggetto, studian-do due coppie di scimpanzé adulti cresciuti e allevati dagli esseri umani (Itakura e Tanaka, 1998; Call et al., 2000). Dal momento che tutte le prove descritte finora sono state fatte su cani adulti, è del tutto possibile che, come le scimmie cresciute dagli umani, i cani possa-no acquisire continuamente nuove capacità comuni-cative e sociali osservando gli uomini. Questa ipotesi ci suggerisce che la capacità del cane di leggere i se-gnali sociali umani migliora nel corso della sua vita e varia a seconda della quantità e della qualità di espe-rienze che il cane ha avuto relazionandosi con l’uomo. Tuttavia è stato osservato come nel cane ci siano ca-pacità ontogenetiche nella comunicazione sociale con l’uomo. Un confronto trasversale tra cuccioli di di-verse fasce di età ha dimostrato che non ci sono dif-ferenze nella loro capacità di usare un marker di pun-tamento o lo sguardo umano per orientarsi verso il contenitore contenente il premio. Quasi tutti i cuccio-li, compresi quelli di appena nove settimane, hanno risposto al test in modo eccellente. Inoltre sono stati osservati un gruppo di cuccioli molto socializzati con l’uomo e un gruppo di cuccioli tenuti in un ambiente ipostimolante. Confrontando le capacità di utilizzare le indicazioni e lo sguardo dell’uomo, si è rilevato

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come i componenti di entrambi i gruppi siano stati abili a utilizzare questi segnali e non è stata riscontra-ta alcuna differenza tra loro. Questo, ovviamente, come ho già sottolineato precedentemente, non signi-fica che l’apprendimento non possa avvenire durante la vita del cane attraverso i piani prossimali di espe-rienza (Hare et al., 2002). Ad esempio, ci sono prove che i cani che fanno atti-vità con l’uomo sono più veloci nell’apprendere gli stimoli sociali umani rispetto ai cani da compagnia (McKinley e Sambrook, 2000). Comunque, nel loro insieme, questi risultati supportano l’ipotesi che i ca-ni richiedano una quantità minima di relazione con l’uomo, rispetto ai primati, al fine di imparare a leg-gere il comportamento sociale e comunicativo umano anche se, al tempo stesso, non si deve escludere che tali abilità possano essere plasmate e arricchite dal rapporto di collaborazione con l’uomo. Ma se gli umani hanno poco in comune con i pri-mati, cosa ha in comune il cane con il lupo? Un confronto del DNA mitocondriale prelevato da un campione mondiale di cani suggerisce che la dome-sticazione del lupo sia iniziata in Asia orientale. In particolare si pensa che gli antenati del cane fossero i lupi cinesi, che sono relativamente piccoli e docili ri-spetto ai loro parenti più grandi, europei e americani (Savolainen et al., 2002).

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I cani, come antenati diretti dei lupi, potrebbero aver ereditato le abilità di questi per la lettura del compor-tamento dei loro conspecifici. I lupi sono cacciatori sociali e probabilmente per loro è necessario leggere le indicazioni dei loro conspeci-fici e delle loro potenziali prede al fine di collaborare efficacemente in branco durante la caccia (Clutton-Brock, 1999; Coppola e al., 2001). Ma se questa ipotesi fosse vera dovrebbe dimostrare che le competenze sociali mostrate dai cani siano os-servabili anche analizzando i lupi (Hare e Tomasello, 1999). Al contrario, i lupi testati finora non sono particolar-mente abili nella lettura degli stimoli sociali umani. In questo esperimento sono molto più simili agli scimpanzé piuttosto che ai cani. Due studi indipendenti hanno dimostrato che lupi in cattività, allevati da esseri umani, non sono abili co-me i cani nella lettura degli stimoli sociali umani per trovare il cibo nascosto (Hare et al., 2002;. Miklosi et al., 2003). I lupi si rapportano con le persone in modo molto di-verso rispetto ai cani. In un esperimento, cani e lupi, allevati entrambi dagli umani, sono stati messi di fronte ad un compito impossibile da realizzare da soli (aprire una scatola chiusa con all’interno del cibo). I cani, quasi subito, arrendendosi alla oggettiva diffi-coltà di quanto proposto, volgevano lo sguardo alter-nativamente tra la scatola e l’uomo alla ricerca di in-dicazioni. I lupi, al contrario, hanno continuato a cercare di risolvere il problema da soli, fino alla fine

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del test e senza mai cercare lo sguardo o la collabora-zione umana (Miklosi et al., 2003). I cani quindi vo-gliono o si aspettano la collaborazione da un umano, mentre i lupi non riconoscono l’umano come partner in grado di aiutarli. Quindi, il raffronto non fornisce alcun supporto per confermare l’ipotesi che i cani abbiano ereditato le loro competenze socio-cognitive dai lupi. È sorprendente come queste ricerche lascino aperta la reale possibilità che le competenze socio-cognitive del cane si siano evolute durante il processo di dome-sticazione da parte dell’uomo. Queste capacità, molto probabilmente, sono nate durante le decine di mi-gliaia di anni in cui le nostre due specie, uomo e ca-ne, hanno convissuto. Parlando di distanza tra cane e lupo, strano ma vero, attraverso lo studio di una zecca abbiamo i primi dati affidabili per delineare il rapporto tra 85 razze di cani domestici e la lontanza dal loro progenitore, il lupo (Parker et al., 2004). Questi dati, ottenuti studiando la filogenesi di una zecca, sembrano fornire supporto sperimentale alla teoria dello stadio di evoluzione del cane. Più precisamente nove razze (Chow-Chow, Husky, Malamute, Shar-Pei, Shiba-Inu, Akita, Le-vriero Afghano, Saluki e Basenji) sono state identifi-cate come le più geneticamente vicine al lupo rispetto a tutte le altre razze esaminate. Questo ricerca solleva il sospetto che queste razze siano più vicine al lupo poiché non hanno subito la seconda ondata di sele-zione da parte dell’uomo, come invece è avvenuto

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per il resto delle razze canine campionato (Hare et al., 2004). È probabile che la prima fase di domesticazione del cane si sia verificata a causa della selezione naturale. I lupi meno timidi e diffidenti dell’Asia Orientale hanno tratto un vantaggio selettivo grazie a queste doti caratteriali, sfruttando una nuova nicchia per procurarsi il cibo: quella creata dall’immondizia la-sciata nei pressi di insediamenti umani. Esiste anche un’altra tesi, che ipotizza come le doti di epimeleti-che dell’umano associate al suo istinto sillegico, lo abbia indotto ad allevare cuccioli orfani. A parer mio il perché sia avvenuto non riveste una grande impor-tanza, se non a livello antropologico. Ritengo invece molto interessante evidenziare quella che Hare definisce la seconda fase della domestica-zione del cane, la quale si è verificata durante il mil-lennio scorso, quando gli esseri umani cominciarono a selezionare intensamente e intenzionalmente i cani per utilizzi specifici, prendendo come riferimento il loro aspetto, le loro attitudini di lavoro e le loro ca-pacità di avere comportamenti socio-comunicativi (Coppola e al., 2001). L’ipotesi di Hare, della sele-zione delle razze da parte dell’uomo, presuppone che tutti i cani siano stati selezionati per la loro capacità di comunicare con gli esseri umani a scopo coopera-tivo. È dunque lo stesso uomo, nel tentativo di rende-re i cani geneticamente più lontani dal lupo, li avreb-be resi più flessibili nella loro capacità di usare e riconoscere i segnali comunicativi. Questa pressione selettiva sembra aver influito sulle capacità comuni-

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cative del cane, orientandole verso un aumento di competenze indipendentemente da altri caratteri ere-ditari sotto selezione. Per verificare questa interessante ipotesi, Hare e Brian hanno confrontato quattro gruppi di razze di cani, osservando le loro capacità di mettersi in rela-zione con l’uomo attraverso comportamenti sociali e comunicativi. L’esperimento proposto dai ricercatori è sempre lo stesso precedentemente descritto: i cani devono cer-care un premio nascosto tra oggetti uguali. La scelta delle razze esaminate è stata effettuata ba-sandosi sul tipo di selezione (da lavoro e da compa-gnia, secondo la classificazione fatta dall’American Kennel Club) e sulla vicinanza genetica rispetto al lupo (prendendo in esame lo studio sulla zecca, di cui accennato sopra): • Cani non da lavoro e più geneticamente vicini al

lupo: Basenji, • Cani da lavoro e più geneticamente vicini al lupo:

Husky e Malamute (cani da slitta), • Cani da compagnia meno geneticamente simili al

lupo: Carlini o Cavalier King, • Cani da lavoro meno geneticamente simili al lu-

po: Golden Retriever e Labrador. L’esperimento e distinto da due fasi. È importante sottolineare che tutte le razze di cani osservate sono state abili nell’utilizzare i segnali sociali-comunicativi umani per trovare il premio nascosto. I

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cani, quindi, indipendentemente dalla relazione gene-tica con i lupi, sanno comunicare e cooperare inten-zionalmente con gli esseri umani, anche se i Retrie-vers e gli Husky si sono distinti per le loro capacità di usufruire con più destrezza, durante il test, di tutte le indicazioni sociali offerte loro dagli sperimentato-ri. Questi risultati suggeriscono che, se da una parte la pressione selettiva esercitata dall’uomo ha migliorato la capacità da parte del cane di leggere la comunica-zione umana, dall’altra ha dimostrato che esiste una componente ereditaria per questa capacità indipen-dente dalle altre vocazioni di razza. I confronti filogenetici tra le razze sono sempre più studiati in ambito sperimentale dai comportamentali-sti che si occupano di etologia cognitiva per testare varie ipotesi su come le differenze genetiche possano influire in modo significativo sia sul comportamento sia in ambito cognitivo del soggetto preso in esame. In estrema sintesi, studi comparativi tra le diverse specie di canidi suggeriscono che i cani, a differenza dei loro cugini prossimi (lupi, volpi, ecc.), hanno svi-luppato una specializzazione socio-cognitiva e capa-cità relazionali con l’umano durante la processo di domesticazione.

Inoltre, Hare e Brian (Encyclopedia of Animal Be-havior Vol. I, 2004) sostengono che il confronto tra razze di cani sembra supportare l’ipotesi che la prima ondata di selezione abbia influito sulla reattività emozionale. La successiva selezione, che ha portato

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il cambiamento ereditario attraverso le razze, ha por-tato a un’ulteriore specializzazione per impiego dei gesti umani comunicativi da parte dei cani classificati da lavoro. Gli autori osservano e concordano su un fatto: “Ci sono lezioni da imparare circa l’evoluzione umana ricercandole sulla cognizione sociale e colla-borativa osservate nel cane”.

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Implicazioni cognitive e sociali del cane nell’evoluzione I sorprendenti risultati di queste ricerche suggerisco-no che gli umani abbiano come parenti più stretti, in termini evolutivi, i cani. L’intelligenza sociale dell’uomo e del cane non può essere vista soltanto come un processo di adattamen-to all’ambiente, ma piuttosto come il risultato della selezione correlata alla modificazione della struttura cerebrale e, in particolare, del sistema limbico e di quello endocrino. Questi risultati suggeriscono inol-tre la possibilità che alcune delle abilità sociali, co-gnitive e comunicative degli esseri umani potrebbero essere in comune con i cani perché l’evoluzione delle due specie è avvenuta in un modo simile. Seguendo questa linea di ragionamento, si potrebbe avvalorare l’ipotesi secondo cui la moderna società umana sia frutto di una sorta di auto-domesticazione (selezione sui sistemi di controllo della reattività emozionale), in cui furono selezionati i caratteri umani uccidendo gli individui poco capaci di inserir-si in un gruppo sociale: gli emarginati, coloro che manifestavano aggressività o i dispotici. (Boehm, 1999; Leach, 2003; Wrangham, 2001). Così, proprio come i cani domestici, la selezione sull’uomo è probabilmente avvenuta osservando i fe-notipi (ovvero il complesso dei caratteri visibili di un

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individuo), che sono il risultato dell'interazione tra il patrimonio genetico (genotipo) e le condizioni am-bientali. Genotipi uguali possono, se sottoposti all'a-zione di fattori ambientali differenti, produrre fenoti-pi identici, generati da genotipi differenti (fenocopia), ricercando le forme di reattività emozio-nali più docili. Questo ha permesso ai nostri antenati, gli ominidi, un nuovo spazio di adattamento in cui le relazioni socia-li hanno acquisito sempre maggior peso, consentendo le successive forme complesse d’interazioni sociali e comunicative che caratterizzano la vita culturale umana di oggi. Probabilmente, quindi, la comprensione delle inten-zioni comunicative dell’altro può esserci anche sol-tanto con lo scopo di informarlo delle nostre dotazio-ni personali, senza alcun beneficio diretto per se stessi. Questa capacità, che può essere definita empa-tia, è specie-specifica del patrimonio sociale e cogni-tivo degli esseri umani con un'unica eccezione in na-tura, il cane. Inoltre, sembrerebbe che l’evoluzione di questa ca-pacità, unica in natura per l’uomo e il cane, debba es-sere preceduta dall’evoluzione del temperamento, in-teso come processo di adattamento al cambiamento, altrimenti chiamato fattore di resilienza. Nel complesso, quindi, possiamo dire che i nostri compagni cani si sono integrati alla relazione tra umani possedendo capacità incredibilmente simili al-le nostre.

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In futuro, la ricerca sui cani potrebbe potenzialmente fornire ai genetisti comportamentali la possibilità di identificare ed esplorare pienamente il percorso on-togenetico umano che è stato oggetto di selezione e che ha permesso l’evoluzione sociale cognitiva della nostra specie. I cani, insomma, in qualche modo sono responsabili di quello che siamo oggi. !!

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“… La medicina comportamentale dei prossimi anni difficilmente potrà fare a meno […]

delle dimostrazioni sempre più fitte sui rapporti che esistono tra cervello e organismo, tra mente

e corpo, tra stress e modificazioni somatiche”. MASSIMO BIONDI

Lo stress: fattore di crescita In questo capitolo tratterò lo stress dalla sua compar-sa epistemologica grazie ad Hans Selye (1907-1982) al concetto di resilienza allo stress (Werner & Smith, 1992), intesa come fattore soggettivo in grado di produrre cambiamenti adattativi positivi anche dalle condizioni di disagio. Massimo Biondi, Direttore del Dipartimento di Scienze Psichiatriche e Medicina Psicologica de La Sapienza - Università di Roma, a tal proposito so-stiene: “… La medicina comportamentale dei pros-simi anni difficilmente potrà fare a meno […] delle dimostrazioni sempre più fitte sui rapporti che esi-stono tra cervello e organismo, tra mente e corpo, tra stress e modificazioni somatiche”. (1997). Marie Anaut (2003), Professore in Psicologia dello Sviluppo e Scienze dell’Educazione al Dipartimento di Scienze, Università Lumière Lyon 2, specializzata in psicologia dell’educazione, evidenzia come i risul-

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tati delle neuroscienze definiscano che: “il sistema immunitario […] si sviluppa in parallelo attraverso il sistema nervoso centrale, con il quale stabilisce un incrocio permanente”.

Recenti studi legati alle neuroscienze hanno inoltre dimostrato che gli eventi stressanti, se controllati e sostenuti dal sistema famiglia, possono giocare un ruolo non necessariamente disadattante per il sogget-to che ne è coinvolto, sia esso umano o cane. Elena Malaguti, pedagogista psicologa e psicoterapeuta, a tal proposito, osserva attraverso le pagine del suo li-bro “Educarsi alla Resilienza” come: “L’intensità degli avvenimenti stressanti e la ripetizione delle sorgenti dello stress possono abituare l’organismo, con una conseguente diminuzione della risposta a questo stato, permettendone così l’adattamento”.

Tuttavia, nel 2010, il Prof. Sergio Pimpinelli, coordi-natore di un gruppo di ricerca interuniversitario, pub-blica sulla rivista “Nature” un’interessantissima ri-cerca su come i fattori di stress collegati all’ambiente in cui viviamo possano cambiare non solo il compor-tamento (processo cognitivo di adattamento allo stress), ma anche il genoma degli organismi e dunque influire direttamente sull’evoluzione della specie pre-sa in esame. Questa scoperta ha un peso enorme nell’avallare le teorie evoluzionistiche darwiniane classiche che, come sappiamo, attribuiscono un ruolo da co-protagonista proprio all’ambiente nella sele-zione evolutiva di ogni essere vivente.

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Cos’è lo stress Il termine stress deriva dal latino strictus, che signifi-ca serrato, compresso. Nel XVII secolo gli anglosas-soni attribuivano alla definizione di stress il signifi-cato di “difficoltà” e “afflizione”. Storicamente il termine stress è stato usato in psico-logia per la prima volta dal medico fisiologo di origi-ne austriaca H. Selye (Nature, 1936) che introdusse tale concetto analizzando le risposte fisiologiche emesse dagli organismi in seguito alla somministra-zione di sostanze nocive. La definizione di Selye identificava lo stress come “la risposta non specifica dell’organismo a ogni ri-chiesta effettuata a esso”. È Levi che all’inizio degli anni ’70 riformula la defi-nizione di stress, suddividendolo in stress positivo (eustress) e stress negativo (distress). Secondo Levi, l’eustress o stress positivo si determina quando nel soggetto, nel nostro caso il cane, lo stressor (attiva-zione emozionale) è sotto controllo. Il cane, pertanto, ha le capacità cognitive di adattamento psicofisico allo stimolo ambientale e quindi sarà in grado di ri-tornare con successo al suo stato iniziale di omeostasi sensoriale (ritorno alla tranquillità). Di contro, il distress ha origine quando il cane non è in grado di affrontare e gestire gli eventi che attivano le sue emozioni. Ne conseguono stati di ansia, di tri-stezza e di impotenza (fase di esaurimento). A inquadrare meglio il concetto di distress è William Lawrence Cassidy, che individua tre peculiarità degli

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stressors che innescano questo meccanismo: incon-trollabilità, insalubrità e difficile prevedibilità (Cas-sidy, 2002). Tuttavia identiche situazioni stressanti possono in-durre risposte neuro-psicologiche completamente di-verse, a seconda che il cane che vi è sottoposto riesca o meno a mettere in atto una reazione “difensiva” adeguata, grazie alle sue esperienze sociali e proso-ciali. Tale difesa venne denominata dal ricercatore H. Selye Sindrome Generale di Adattamento. La Sindrome Generale di Adattamento, pertanto, è un aspetto particolarmente rilevante nell’ambito della gestione dello stress da parte del cane. Selye identifi-ca la capacità di far fronte allo stress inserendo il fat-tore di coping (to cope, in inglese, significa ‘far fron-te’, ‘tener testa a’). Questo aspetto è collegato proprio al concetto di adattamento allo stimolo stres-sante che ha influenzato l’assetto emozionale del ca-ne. Le capacità di coping del cane sono soggettive. Os-servandolo di fronte allo stimolo stressante è possibi-le valutare la capacità di affrontarlo, di controllare le emozioni che lo stimolo esterno gli ha indotto, assor-bendone la domanda che ha attivato la necessità di trovare una risposta adattativa che gli permetterà di ricollocarsi agilmente in una condizione di omeostasi sensoriale. Se, al contrario, l’intensità, la frequenza e la durata dello stimolo non permettono al cane di attivare ri-sposte adeguate, si instaura nel soggetto una situa-

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zione che lo porterà in breve all’esaurimento delle energie psico-fisiche,ovvero al distress. È bene met-tere in evidenza che lo stato di distress non dipende tanto dalle caratteristiche dell’agente stressante, quanto piuttosto dalla risonanza psicologica indivi-duale che si determina. Ad esempio, se un cane ha paura dei temporali e il trainer mette in risalto la ri-sonanza psicologica del paziente (magari con l’ascolto di un CD con i suoni di un nubifragio uni-versale), molto probabilmente otterrà una risonanza psicologica maggiore nel paziente, con il rischio di porre in atto un processo di generalizzazione della paura anche verso altre fonti di frastuono. La posizione teorica espressa da Selye sulla defini-zione di stress viene ulteriormente approfondita dagli studi di Lazarus (1981), il quale affronta la tematica dello stress individuando sostanzialmente tre catego-rie di stress: • il danneggiamento/perdita (harm/loss); • la minaccia (threat); • la sfida (challenge). Secondo Lazarus, la valutazione di tali situazioni è soggettiva, pertanto definisce lo stress come l’attivazione dell’organismo in relazione alla valuta-zione degli eventi che sono percepiti dall’individuo stesso come potenzialmente minacciosi per il proprio benessere psico-fisico (appraisal). Lazarus analizza il concetto di stress considerandolo quale risultante dell’interazione tra le diverse variabi-

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li ambientali. Nel cane, ad esempio, queste variabili possono essere espresse dalle richieste (ambientali e sociali) e dalla capacità di farne fronte (le capacità del cane di assorbirle e sostenerle). Zeidner e Saklofske, nel 1996, si spingono ulterior-mente in avanti, postulando la non esistenza di stili di coping adattivi o disadattivi a priori. Pertanto le strategie adottate dal cane per far fronte allo stress possono risultare efficaci in una situazio-ne, ma le stesse potrebbero non esserlo in un’altra. Ad esempio, modalità che risultano positive se usate moderatamente e temporaneamente reattive (come il lancio della pallina), possono divenire negative se usate in modo esclusivo, quindi generalizzate. Pertanto, l’elemento essenziale per un buon adatta-mento del cane allo stress, soprattutto nel caso di eventi stressanti duraturi nel tempo, è la flessibilità nell’uso delle strategie di coping, cioè la capacità di far apprendere al nostro compagno non umano come non irrigidirsi su un’unica strategia, ma anzi di riu-scire a cambiarla qualora si dimostri inefficace e di-sadattiva. !A tal proposito, il proprietario (ma è meglio definirlo centro referenziale per il cane) può intervenire con l’aiuto dell’istruttore su quattro macroaree sulla componente adattativa dello stress: • coping “centrato sulle emozioni”: si riferisce alla

regolazione dello sconforto emotivo;

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• coping “centrato sul problema”: permette di ge-stire il problema all’origine dello sconforto del cane;

• coping “evitante”: consente di diminuire la ten-sione emotiva attraverso strategie passive (esita-zione, fuga, evitamento);

• coping “vigilante”: permette di risolvere la situa-zione attraverso strategie attive (ricerca di infor-mazioni, di sostegno sociale, di mezzi euristici).!

È proprio da quest’ultimo, il “coping vigilante”, che viene ispirata la prospettiva situazionale (o transazio-nale) (Lazarus, 1999, 2000; Lazarus & Folkman, 1984). L’aspetto fondamentale che ci offre questa prospettiva è come il coping sia un processo che in-clude le interazioni tra il cane e il suo ambiente, inte-so sia come luogo in cui vive, sia in ordine psico-sociale e relazionale con i proprietari. Gli aspetti co-gnitivi ed emozionali sono quindi interconnessi, le relazioni sociali (intra e interspecifiche) famigliari sono centrali per trovare nuove strategie di adatta-mento. !Scherer (Component Process Model, 2001), inoltre, postula le componenti che determinano un adatta-mento funzionale allo stress definendo come l’organismo attui cinque tipi di valutazione in rispo-sta ad un’attivazione emozionale (stressor): • novità; • piacevolezza intrinseca;

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• coerenza con i propri piani di esperienza; • abilità a gestire l’evento percepito; • compatibilità dell’evento con il concetto di sé e

con le norme sociali. È quindi chiaro come anche nel cane le emozioni giochino un ruolo fondamentale basato sulla valuta-zione degli eventi che, mi ripeto, sono percepiti sog-gettivamente come potenzialmente minacciosi oppu-re no perché dipenderanno dai piani prossimali di esperienza del soggetto (appraisal).

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Resilienza: esegesi dello stress A metà del ‘900, a seguito della diffusione di nuovi modelli psicologici quali la psicologia umanistica e la psicologia costruttivista, si è assistito all’instaurarsi di un nuovo archetipo. Un vero e pro-prio cambiamento di prospettiva che ha spinto gli psicologi a focalizzare le ricerche sulle parti sane dell’individuo, quindi sulle risorse positive. Pertanto si è assistito a un passaggio nodale per le scienze comportamentali, dalla cura della malattia al-la promozione delle parti sane per affrontarla. Questo nuove ricerche si sviluppano attraverso l’analisi di due prospettive di base: • La prima ha come obiettivo lo studio del piacere

visto in un’ottica personale e legato ad emozioni positive del soggetto (Kahneman & Diener, 1999).

• La seconda aderisce al concetto aristotelico di eudaimonia (che letteralmente vuol dire essere un buon demone, nel senso di genio, coscienza, da Wikipedia), ovvero persegue ciò che è utile all’individuo e ne arricchisce la personalità (Ryan, 2000). La prospettiva eudaimonica non si limita alla soddisfazione individuale, ma si sof-ferma sul processo d’interazione e mutua influen-za tra benessere individuale e collettivo. La felici-

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tà individuale è quindi realizzabile solo nell’ambito dello spazio sociale (Dalle Fave, 2004).

Uno degli assunti centrali della psicologia costruttivi-sta è come questa si basi sulle emozioni positive del paziente per superare il suo disagio. Diversi studi hanno dimostrato come le esperienze emozionali po-sitive possano essere in grado di ampliare le risorse cognitive, fisiche e sociali, costituendo riserve alle quali attingere di fronte a una minaccia o un forte di-sagio (Fredrickson, 1998, 2001). Da queste considerazioni, comprendere come il cane negozia, risolve e cresce di fronte agli eventi stres-santi è fondamentale per un professionista che si oc-cupa di educazione e terapia comportamentale. La mia proposta di approccio al disagio del cane si basa fondamentalmente su due espressioni della psicolo-gia costruttivista tra loro strettamente correlate, il flourishing (branca della psicologia positiva e si può definire come capacità di vivere in un range ottimale di funzionamento, che connota bontà, creatività, cre-scita e resilienza) e la resilienza, e su come il loro po-tenziamento può passare attraverso il gioco con il ca-ne, quest’ultimo inteso come fulcro pedagogico, educativo, nonché riabilitativo per il cambiamento comportamentale.

Secondo Keyes e Lopez (2002) la capacità di “flouri-shing” è l’esemplificazione della salute mentale.

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I “rifiorenti” non sono solo gli individui liberi dalla malattia, ma tutti i soggetti, umani e non, dotati di una vitalità emotiva, con capacità di elaborare rispo-ste motivazionali adeguate allo stress, addirittura di uscirne con nuove competenze. Perché ciò possa concretizzarsi nella relazione con il cane è fonda-mentale instaurare relazioni sociali positive impron-tate all'autenticità; il riconoscimento, da parte del si-stema famiglia interspecifico, dei sentimenti e delle emozioni del proprio cane; l'empatia da parte del proprietario in grado di sostenere, attraverso un ascolto attivo e attento alle differenze di specie, il proprio cane; l'accettazione, ovvero accettare l’altro nei valori di alterità che lo rappresentano. Il cane è pertanto osservato come soggetto attivo che attraverso le sue emozioni, pensieri e azioni, non solo costruisce se stesso, ma influenza l’ambiente e gli al-tri componenti della famiglia e da questi a sua volta ne è influenzato. La psicologia di comunità assume come obiettivo esplicito il concetto di resilienza, ossia l’empowerment, che nel suo significato si sintetizza come il processo di potenziamento, di accrescimento delle risorse, di ampliamento delle competenze rela-zionali, d’integrazione sociale di un soggetto in diffi-coltà. Il legame tra i significati di coping visti sopra e la re-silienza risulta essere apparentemente molto stretto. La differenza, in realtà, sta nel fatto che il coping si riferisce al qui e ora e alle risposte del cane in quel

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momento, mentre la resilienza si disegna in una cir-costanza temporale “dilatata”, in quanto essa è in buona parte acquisita dal cane attraverso un preciso percorso di adattamento e attaccamento famigliare nel tempo. Le risposte del soggetto saranno quindi espressione di un modello adattativo sistemico fami-gliare e sociale. Tra gli studi che si sono occupati di resilienza, il più celebre, all’interno del quale per la prima volta fece la sua comparsa il termine stesso, fu quello di Werner e Smith (1992). A partire dagli anni ’50 e per circa un trentennio la psicologa Werner condusse una ri-cerca su circa 700 neonati dell’isola Kauai (Hawaii). Osservò che, secondo i parametri della psicologia classica, molti di questi neonati avrebbero dovuto possedere tutti i prerequisiti per una prognosi di disa-gio psichico o sociale, in quanto sottoposti a molte-plici fattori di rischio: nascita difficile, povertà, fa-miglie con problemi di alcolismo, malattie mentali, aggressività, etc. Al contrario di quanto si potesse supporre, un terzo di questi bambini, settantadue per la precisione, riuscirono comunque in età adulta a migliorare la proprie condizioni di vita, divenendo soggetti in grado di strutturare relazioni famigliari e sociali stabili. La capacità di questi individui di inte-grarsi positivamente, nonostante le circostanze sfavo-revoli della loro infanzia, ha aperto la strada alla ri-cerca di quali fossero i fattori di protezione che avessero permesso loro di avere uno sviluppo ade-guato: il fattore resiliente, appunto.

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Secondo Alice Miller, psicologa di origine polacca, la resilienza può essere considerata come una combi-nazione di caratteristiche fisiologiche e di fattori di personalità. Gli studi che seguono questa direzione si sono quindi focalizzati sull’identificazione di quelle caratteristi-che fisiche e psicologiche che consentono al soggetto di superare le avversità. “Comprendere cosa aveva reso resilienti quei settan-tadue bambini consentì di spostare l’ottica dall’analisi sui motivi che determinano una fonte di disagio, verso l’indagine e successivamente la presa in carico e cura di quelle risorse individuali, fami-gliari e sociali che consentono alla persona di inte-grare le proprie risorse con i propri limiti e com-prendere che l’esperienza traumatica provocata dallo stress può divenire un’occasione formativa di crescita personale“ (Malaguti, 2005). E ancora, scrive Alice Miller a proposito di resilienza e di danni che si compiono utilizzando metodi educa-tivi assertivi e punitivi: “Le vittime di questo tipo di violenza non possono contare sull’empatia della so-cietà, perché l’intera società nega la loro sofferenza, in quanto nega la propria. […] Per questa ragione le vittime della violenza pedagogica non possono svi-luppare alcuna resilienza … senza l’aiuto di una so-cietà consapevole e ben informata, i bambini che vengono picchiati restano solo con la loro sofferenza repressa, e per tutta la loro vita, saranno convinti che sono stati picchiati per il loro bene. Non possono

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sviluppare nessuna consapevolezza di questa ingiu-stizia, quindi nessuna resilienza”. Nel panorama attuale la resilienza è un ambito di studio multimodale: diverse discipline scientifiche indagano questo fenomeno, ognuna da un punto di vista disciplinare, ma integrabili una con l’altra. Le neuroscienze pongono attenzione alla funzione plastica del cervello, capace di sostenere il soggetto traumatizzato grazie alla riattivazione funzionale di circuiti neuronali del benessere (Edelman, 1992; Le Doux, 1996) e al processo definito neurogenesi: la capacità del cervello dei mammiferi superiori di ge-nerare nuovi neuroni in grado di immagazzinare il cambiamento positivo (Strata, 2011). La psicologia definisce la resilienza come una trama, dove il filo dello sviluppo s’intreccia con quello af-fettivo e sociale (Cyrulnik, 2001). La resilienza è quindi una capacità che si sviluppa all’interno della dimensione relazionale ed è accresciuta e fortificata da tutte le esperienze in grado di favorire un senti-mento di efficacia personale e di valorizzazione del Sé (Emiliani, 1995).

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Tipi di resilienza in cinofilia La resilienza individuale del cane può essere inter-pretata attraverso gli studi fatti sui bambini resilienti dagli psicologi Masten, Best & Garmezy (1990). Come i bambini, anche i cani con capacità resilienti individuali (un tempo veniva definita sommariamen-te “tempra”) appaiono attivi, autonomi, di buon ca-rattere, capaci di stabilire rapporti positivi con gli al-tri cani o umani e capaci di mettere a frutto le proprie abilità cognitive, sociali e collaborative. Questi cani sono caratterizzati da un buon livello di autostima. Sono inoltre in grado di stabilire legami pro-sociali con la maggior parte degli umani e sono disponibili a ricevere cure parentali sostitutive in grado di fornire loro sostegno. I cani con una resilienza individuale sono quindi in grado di gestire le difficoltà, trovando anche al di fuori della loro cerchia famigliare relazioni protettive in grado di integrare le difficoltà vissute all’interno del nucleo stesso. L’istruttore può svolgere un ruolo fondamentale per contribuire all’educazione o riabili-tazione di questi soggetti. La resilienza famigliare, come descritto da McCub-bin, indica l’abilità del nucleo parentale di rafforzare le competenze utili a risolvere positivamente le sfide della vita, resistendo ai fattori stressogeni e permet-tendo di uscirne, addirittura, rafforzati (McCubbin, 1988).

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Ma quali sono gli stili relazionali che rendono possi-bile questo processo? Il Modello Circonflesso del Funzionamento Fami-gliare, sviluppato da Olson, Candyce e Douglas (1989), identifica tre caratteristiche imprescindibili per lo sviluppo di comportamenti adattativi del si-stema famiglia: 1. la coesione famigliare: che facilita il senso di ap-

partenenza e il riconoscimento dell’individualità; 2. l’adattabilità: che permette di bilanciare la flessi-

bilità e la stabilità famigliare; 3. la comunicazione: che deve essere chiara, aperta

e significativa. McCubbin e Patterson (1983) definiscono un model-lo di resilienza famigliare chiamandolo ABCX. Gli autori sottolineano come la percezione degli stressors da parte della famiglia implichi non solo la loro comprensione, ma anche la consapevolezza delle ri-sorse attivabili dal gruppo per far fronte al problema. Per essere in grado di rispondere alle sfide, i cani e i loro proprietari devono saper attribuire significato agli eventi, eventualmente destrutturandoli e ristrut-turandoli secondo il proprio schema cognitivo. In questo modo, l’evento diviene comprensibile, giusti-ficabile e affrontabile attraverso la realizzazione di piccoli obiettivi di volta in volta ritenuti attuabili. È il gioco uno dei veicoli che ci offre maggior capacità per lavorare in questo senso con il sistema famiglia interspecifico. Conoscere il cane nei valori sociali e culturali che

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trasmette alla famiglia è fondamentale per la sua educazione in ambiente interspecifico, dove il ruolo di capo-famiglia (coordinatore e centro referenziale) è fatto di umani. Walsh (2002), evidenzia l’importanza di tre fattori: 1. i sistemi di credenze: che consentono alla fami-

glia di elaborare un insieme integrato di valori, individuando obiettivi e progetti per il futuro;

2. i pattern organizzativi: che implicano flessibilità, senso di coerenza, capacità di utilizzare risorse sociali e culturali e di attivare reti di comunità;

3. i processi comunicativi: che devono essere chiari e consentire la condivisione delle emozioni tra ogni componente, cane o uomo che sia (n.d.r.).

La resilienza sociale, è definita come una collettività sia grado di sviluppare azioni per rafforzare la com-petenza individuale e di gruppo al fine di affrontare e gestire il corso di un cambiamento sociale (Castellet-ti, 2006). Questa competenza offre la possibilità di rispondere efficacemente alle avversità che sfidano il l’ambiente fisico e sociale, raggiungendo nel contempo un livel-lo di funzionamento migliore rispetto alla condizione precedente l’evento critico e mostrandosi capace di ritrovare un equilibrio dopo la situazione di crisi. Può inoltre essere definita come l’esito di un proces-so che non origina esclusivamente nel momento in cui si verifica l’evento critico, ma che dipende anche dalle modalità con cui la comunità si prepara ad af-frontare le situazioni avverse (Kendra & Wachten-

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dorf, 2003). Promuovere la resilienza in una comunità, ad esem-pio un centro cinofilo, implica valorizzarne le cono-scenze, le competenze, i valori, la cultura, in modo tale che questi possano rappresentare una risorsa nel fronteggiare le difficoltà e nell’adattamento alle di-verse circostanze del singolo membro (Manyena, 2006). Si determina così uno spostamento, da un’ottica in cui la focalizzazione è sulle carenze, sui bisogni e sulle vulnerabilità della sistema interspeci-fico a una visione delle potenzialità creative e delle risorse presenti in esso. In questa direzione, uno dei modelli più completi è quello proposto da Sarig (2001) che considera la compresenza di: a) senso di appartenenza alla comunità; b) controllo sulle situazioni di crisi; c) atteggiamento di sfida agli eventi negativi, riletti e rivisitati come opportunità; d) prospettiva ottimistica, in cui le avversità sono considerate come temporanee e come occasione di rinnovamento; e) competenze utili ad affrontare e superare le diffi-coltà; f) valori e credenze condivisi che rinforzano l’identità e i legami interni alla comunità nei momen-ti di crisi; g) sostegno sociale, fornito da reti e organizzazioni formali e informali.

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Clauss-Ehlers e Lopez-Levy (2002) pongono invece l’accento in modo particolare sulla cultura di comu-nità. I valori, le norme, i sistemi di significato costi-tuiscono fattori di resilienza capaci di favorire la con-sapevolezza, il senso di appartenenza alla comunità e quindi la partecipazione alle azioni collettive in caso di eventi critici. Quando le comunità sono resilienti sono in grado di reagire e di modificarsi in rapporto alle pressioni provenienti dall’esterno che ne sollecitano le strutture e le risorse. Secondo Prati (2006) la complessità degli eventi cri-tici affrontati dalla comunità richiede una lettura in ottica ecologica, dal momento che nella valutazione del livello di resilienza della comunità dovrebbero essere tenuti in considerazione non soltanto i fattori interni alla famiglia interspecifica (n.d.r.), ma anche quelli esterni (rapporti con altre entità sociali). La valutazione della resilienza sociale di una comu-nità non può quindi che essere letta in una prospetti-va di macro-livello, che consideri come imprescindi-bili elementi di analisi gli aspetti etici, bio-etici, sociali, famigliari che incidono sulla vita della comu-nità. Indagare i processi di resilienza analizzando l’interazione e le transazioni tra i diversi livelli coin-volti (si pensi all’approccio multidisciplinare nel trat-tamento delle patologie del comportamento del cane) può costituire un primo passo per costruire una go-vernance attiva (Olsson et al., 2004) che

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consenta di affrontare la continua sfida rappresentata dall’incertezza cui il sistema famiglia deve far fronte nel suo percorso evolutivo.

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Promuovere la resilienza nel cane Modello di Richardson adattato (n.d.r.) Richardson e colleghi (Richardson, Neiger, Jensen & Kumpfer, 1990) propongono un modello lineare del processo della resilienza. Definiscono questo model-lo applicabile a individui, coppie, famiglie, comunità e gruppi. Personalmente sostengo che possa agevol-mente essere applicabile anche ai gruppi interspecifi-ci, quindi anche a famiglie composte da cani e uma-ni. Il postulato di Richardson afferma l’esistenza in ogni essere evoluto di qualità resilienti innate e di propen-sioni alla resilienza che si formano durante il corso della vita. La descrizione del processo di resilienza parte dallo stato di “omeostasi psico-fisica, ludica” del cane, ov-vero dall’adattamento della sua mente, del corpo e della voglia di giocare rispetto alle condizioni di vita, siano esse buone o cattive. Questo stato è definibile come “spazio confortevole” al quale il cane tende a rimanere ancorato. Però que-sto spazio confortevole di omeostasi è continuamente bombardato da stimoli sia interni che esterni: eventi stressanti, atteggiamenti conativi dei proprietari, ma anche opportunità, nuove possibilità di far fronte e risolvere nuovi problemi, ricordi piacevoli o spiace-voli ecc.

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Quanto queste attivazioni possano mettere il cane in crisi dipende da quanto il soggetto, in precedenti momenti di sospensione-reintegrazione, sia riuscito a potenziare e rafforzare le sue qualità resilienti. Il cane impara gradualmente a far fronte ad alcuni eventi stressanti senza per questo uscire dal suo stato di allostasi, questo stato delle cose è particolarmente apprezzabile durante il gioco. Quando si trova a dover fronteggiare eventi sia posi-tivi sia negativi, mai sperimentati prima o vissuti senza che ci sia stata una crescita resiliente, l’interazione tra l’attivazione emozionale e i fattori protettivi determina la sospensione o meno dello sta-to di allostasi sensoriale. Il momento di “sospensione” equivale al punto di de-cisione, un momento nel quale il modo di vedere e affrontare la situazione impone di fare una scelta e attraverso questa il cambiamento potrà essere positi-vo o negativo. Nel momento della sospensione si attraversano due sottofasi. Durante la prima, emergono nella mente del cane tutta una serie di emozioni (perplessità, con-fusione, stupore) che lo inducono alla riflessione e all’introspezione. Interviene, quindi la seconda sotto-fase nel corso della quale gradualmente, in modo conscio e inconscio, il cane inizia a elaborare possi-bili strategie da mettere in atto. Da questa seconda sottofase ha inizio il processo de-finito di “reintegrazione”, che può evolversi in quat-tro diversi esiti: 1. Nella reintegrazione resiliente il pet arriva a

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identificare, considerare e nutrire le sue qualità resilienti. Questo esito potenzierà e incrementerà le capacità di coping del cane e sfocerà nella cre-scita, conoscenza e comprensione di sé (autosti-ma).

2. Nel ritorno allo stato di allostasi viene persa l’opportunità di crescere. Il cane si limita ad af-frontare e superare il momento attuale di disequi-librio per poi ritornare alla stato di partenza senza che ci sia stato il rafforzamento della propria ca-pacità di coping. Un esempio può essere il boc-cone usato come esca: il cane impara a seguire l’esca per ritornare all’omeostasi sensoriale otte-nuto il premio, ma da questa esperienza non trae nessuna nuova capacità riferita al sé. Ciò che viene a mancare, nell’esempio sopra cita-to, è il momento di riflessione e introspezione che viene saltato a favore di una ricerca immediata di soluzioni pratiche al problema.

3. Anche nel terzo esito, la reintegrazione con per-dita viene a mancare il momento di riflessione e introspezione da parte del cane. A differenza del ritorno allo stato di omeostasi, le soluzioni che vengono scelte dal cane si dimostrano essere al di sopra delle sue reali possibilità. Riuscirà con fati-ca ad affrontare e forse superare l’evento e con-cluderà il momento di sospensione e reintegra-zione con la perdita della stima in se stesso, della motivazione e talvolta della spinta a riaffrontare il problema, se si ripresentasse, evitandolo. Un esempio sono gli esercizi di problem solving, nei

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quali i criteri che il professionista o il proprietario propongono al cane sono troppo alti rispetto alle competenze cognitive del cane. Dover abbassare il criterio è quindi fondamentale nel cercare di limitare il danneggiamento che si è comunque de-terminato.

4. Nella reintegrazione disfunzionale si osserva lo scenario peggiore, ossia il cane, per affrontare il problema, ricorre a comportamenti sostitutivi, come le stereotipie, l’evitamento dell’interazione, comportamenti auto ed etero distruttivi come mordersi la coda e le mani, fino a reindirizzare la frustrazione mordendo il proprietario (aggressio-ne ridiretta). Per fortuna anche in questi casi, il più delle volte, grazie ad un opportuno intervento terapeutico da parte del Medico Veterinario Comportamentalista e dell’Istruttore Comporta-mentale, è possibile che si verifichi una reinte-grazione resiliente posticipata. Ad esempio: un cane sottoposto ad addestramen-to conativo con punizioni fisiche può andare in-contro ad una iniziale reintegrazione disfunziona-le o con perdita (Stereotipia da costrizione, Patologia del comportamento del cane, “P. Pa-geat, 2000”). Seguito all’interno di un contesto terapeutico protetto e appropriato, potrà riaffron-tare i blocchi del suo passato e un nuovo momen-to di sospensione e reintegrazione attraverso il gioco terapeutico dal quale ne uscirà fortificato.

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Resilienza e attaccamento (vedi attaccamento cap. 3 – pag. 66) Tra gli elementi costitutivi dei processi di resilienza, Newman e Blackburn (2002) hanno definito tre livel-li, utilizzabili, a mio parere, anche analizzando il si-stema interspecifico: 1. Livello individuale: si osserva il cane per quanto

riguarda le caratteristiche vocazionali di tipo co-gnitivo, affettivo ed espressivo, nonché i suoi piani prossimali d’esperienza.

2. Nel livello familiare si strutturano importanti processi relazionali, quali l’assunzione di ruoli e la loro valorizzazione.

3. Il livello sociale, il più esteso, si interviene su tut-te le variabili sociologiche (per esempio le classi di socializzazione del cucciolo possono esercitare un importante impatto nel promuovere oppure ostacolare le condizioni che favoriscono i proces-si di crescita, a seconda delle competenze dell’educatore o dell’istruttore cinofilo che le or-ganizza).

La famiglia, intesa come centro referenziale per il cane, svolge pertanto un ruolo fondamentale per co-struire capacità resilienti nel cane stesso, nello speci-fico sul piano delle sicurezze, delle emozioni e nell’instaurarsi di una relazione di attaccamento “si-cura” per il cane. La teoria dell’attaccamento ipotizza, infatti, la conti-nuità del legame oltre il periodo della sua formazio-

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ne, grazie alla costituzione di modelli complessi sia delle figure affettive umane sia del cane stesso. I feromoni di appagamento dell’essere umano d’altro canto sono molto simili a quelli del cane: l’affinità di struttura è pari a circa il 95%. Questo spiega in parte l’attaccamento interspecifico (canide/umano), tutta-via non è trascurabile il ruolo svolto anche da tutti gli altri sensi: udito, vista, tatto, olfatto, gusto. Il proprietario promotore della resilienza nel cucciolo di cane Nel pattern d’attaccamento sicuro, i modelli operativi si costituiscono a cominciare dalla rappresentazione che il cane ha del proprietario, come questi sia in grado di rispondere positivamente e in modo coeren-te alle richieste di aiuto e conforto. Risposte coerenti, in grado di soddisfare i bisogni del cucciolo, faranno sì che l’animale si senta “autorizzato” a esprimere le proprie emozioni e impari a farlo in modo appropria-to. I cani che hanno potuto sperimentare una relazione stretta con la loro “base sicura” umana accogliente, di supporto, sempre pronta e capace di riconoscere i segnali di sconforto, di disagio e parimenti in grado di dare risposte in modo sollecito, divengono soggetti capaci di esprimere le proprie emozioni e di equili-brare il comportamento esplorativo con quello di at-taccamento. Per il cane sapere di poter contare sul centro referen-ziale (il proprietario), nel momento del bisogno gli consente di mantenere e sviluppare una sicurezza in-

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terna, mantenendo un appraisal medio anche nei momenti di difficoltà. A tal proposito è interessante conoscere il lavoro condotto sui nuclei famigliari umani da Reiss e Oli-vero (Reiss, 1981; Reiss e Olivero, 1980). Lo studio fornisce prove su come nelle famiglie che hanno sa-puto farsi promotrici di resilienza si riscontrano mol-te delle caratteristiche dell’attaccamento sicuro. Il cane è parte della famiglia. È quindi fondamentale, affinché un cane possa svi-luppare capacità resilienti, l’esistenza di una relazio-ne con la figura di riferimento in grado di fornire vi-cinanza e attenzioni (close and caring relationship). Le sperimentazioni sulla close and caring relation-ship hanno dimostrato come questa sia il fattore pri-mario, rispetto ad altri, per consentire al cane un’adeguata autostima e un’elevata efficienza rela-zionale con l’umano. Le variabili sottoposte a valutazione oggettiva hanno inoltre consentito l’identificazione di alcuni parame-tri di base che caratterizzano la resilienza famigliare: si tratta di pattern di relazione che prevedono la coe-sione, la flessibilità, la comunicazione aperta, la ca-pacità di problem solving e di sostenere il proprio si-stema di convinzioni (Walsh, 1998).

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Giocare significa allenare la mente alla vita. Un gioco non è mai solo un gioco.

STEPHEN LITTLEWORD

Il gioco Il gioco e l’etologia cognitiva L’etologia cognitiva presenta molte analogie con lo studio delle scienze cognitive, che si sono occupate di gioco per spiegare i meccanismi di apprendimento nell’età evolutiva. Lo studio del gioco è da sempre uno dei temi preferiti dell’etologia cognitiva (Fagen 1981; Smith 1984; Mitchell 1990; Bekoff e Byers 1998; Burghardt 1999). Proprio prendendo in esame il gioco, l’etologia cognitiva è stata in grado di esemplificare i molteplici contributi delle ricerche etologiche sullo studio della mente. Pertanto l’etologia cognitiva offre alla comprensione del gioco molteplici enunciazione, tra le quali: • la possibilità di comprendere ciò consente di

scomporre un fenomeno complesso, come il gio-co, in tratti elementari, verificabili comparativa-mente in specie diverse e in sequenze comporta-

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mentali distinte (Burghardt 1999), come quelle che avvengono tra umano e cane;

• Attraverso il gioco si ha un chiarimento dei mec-canismi comunicativi sociali del cane (Bekoff 1975; 1995);

• la possibilità di evidenziare e verificare sperimen-talmente i rapporti fra il gioco e altri comporta-menti, come ad esempio le relazioni fra sequenza predatoria nel cane e gioco con oggetti (Leyhau-sen 1979; Hall 1998) o dei rapporti fra lotta reale e gioco di lotta (Watson 1998);

• una valutazione empirica delle numerose suppo-sizioni sulle funzioni del gioco, o producendo parziali ricerche smentendo pregiudizi consolidati e indicando nuove possibilità di apprendimento attraverso il gioco (Pellis e Pellis 1998; Pellis 2002).

Bekoff e Byers, nel 1998, individuano cinque priorità di indagini rese possibili attraverso lo studio del gio-co: • indagare quali specie animali giocano e quali no,

e da ciò ricostruire la storia evolutiva e il valore adattivo di tale comportamento;

• raccogliere dati sulla distribuzione del gioco se-condo fasce d’età, sia nell’uomo che in altri ani-mali, per comprendere il ruolo del comportamen-to ludico nell’evoluzione comportamentale;

• individuare la tangibilità delle varie ipotesi con-correnti sulle funzioni adattive del gioco, raffi-

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nando tali teorie e sviluppando osservazioni più dettagliate;

• catalogare le cause e i meccanismi del compor-tamento ludico, per studiarne in seguito l’integrazione con il livello funzionale in contesti diversi dal gioco;

• lo studio delle componenti cognitive del gioco, per capire quale ruolo esso abbia nello sviluppo mentale dell’uomo e di altri animali.

Tutte queste priorità offrono l’opportunità migliore per l’integrazione interdisciplinare fra etologia cogni-tiva e scienze della mente: la comprensione della co-gnizione animale in un quadro evolutivo completo e coerente.

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Il gioco fonte di apprendimento I behavioristi sono sempre stati dubbiosi quando si parla di gioco nell’apprendimento e non soltanto per quanto concerne i loro procedimenti di ricerca (il gioco non ha nulla a che vedere con i laboratori), ma anche per quel che riguarda la scelta dei temi che se-condo il loro punto di vista devono prestarsi a una trattazione rigorosamente scientifica. La posizione comportamentista, pertanto, si fonda sul paradigma che al gioco non si possa attribuire un se-rio interesse scientifico. Numerosi behavioristi osser-vano che il gioco è un concetto molto vago, quindi scientificamente inutile. Esso comprende un miscu-glio eterogeneo di comportamenti che, a loro dire, dovrebbero essere esaminati separatamente. Tuttavia i differenti approcci allo studio del gioco hanno dato una descrizione accurata dei vari aspetti insiti in questo fondamentale fenomeno per l’evoluzione e l’apprendimento: 1. Il gioco è piacevole e divertente. Anche quando

non è effettivamente accompagnato da segni di allegria, è comunque valutato in modo positivo dagli attori che lo svolgono.

2. Il gioco non ha scopi oggettivi. Le sue motiva-zioni sono intrinseche e non perseguono altri obiettivi. È definibile più come un godimento dei mezzi che uno sforzo rivolto ad un particolare fi-

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ne. Il gioco non ha quindi un significato utilitari-stico, può essere considerato “afinalistico”.

3. Il gioco è spontaneo e volontario. Non è obbliga-torio, ma liberamente scelto dagli attori.

4. Il gioco richiede un impegno attivo da parte dei giocatori. Se così non fosse si interromperebbe o non inizierebbe.

5. Il gioco ha relazioni correlate a tutto ciò che si può definire non-gioco. Tutti i giochi richiedono, infatti, la comprensione da parte dei partecipanti del fatto che ciò che si fa non è necessariamente ciò che sembra. (Garvey, 1977).

È interessante analizzare come alcuni studiosi hanno indicato un’utile definizione del gioco, intendendo come gioco un comportamento esprimibile solo se i bisogni primari e fisiologici sono appagati. Quindi, secondo queste ricerche il gioco non è: • Un comportamento consumatorio, • Un comportamento strumentale che conduca vi-

sibilmente al comportamento consumatorio o un visibile scopo con finalità istituzionalizzate,

• Una competizione in vista di uno standard di ec-cellenza,

• Un comportamento vincolato dalle esigenze dell’interazione sociale attraverso regole pre-costituite.

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Il gioco e il cane L’interesse per lo studio del comportamento di gioco animale e umano ha avuto una espansione negli ulti-mi vent’anni in concomitanza con l’enorme lavoro svolto su ogni aspetto dello sviluppo infantile e so-prattutto su quello dei primi anni di vita del bambino. Tra gli scienziati che si sono occupati di pedagogia e gioco non è possibile non citare Brunner, definendo quelle che secondo lui sono le caratteristiche sostan-ziali del gioco. Lo scienziato americano evidenzia alcune tra le ca-ratteristiche principali del gioco: • Il prevalere dei mezzi sui fini. Questa considera-

zione definisce come il gioco liberi l’organismo dalle necessità immediate imposte dal compito e di conseguenza riduca o neutralizzi la tensione. Questo non vuol significare che il gioco sia privo di scopi, anzi. Liberato dalla necessità inevitabile di un fine cui attenersi strettamente nel-l’apprendimento “serio”, colui che gioca riesce ad arricchire le sue competenze in maniera tale da rendere più articolate le sue azioni e i sue espe-rienze ed estendere così il raggio della sua capa-cità.

• Secondo Bruner, la differenza fra il gioco e il la-voro sta proprio nel fatto che l’obiettivo resta in-variato mentre i mezzi per raggiungerlo possono cambiare. Nel gioco l’animale cambia sia i mezzi che gli obiettivi, acquistando una più chiara con-

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sapevolezza delle possibilità di connessione delle esperienze e degli esiti che ne conseguono per poterle accumulare e utilizzare in future occasioni non necessariamente ludiche.

• La seconda caratteristica del gioco è la riduzione del rischio d’insuccesso. Poiché i comportamenti nell’ambito ludico sono spesso derivati da se-quenze che non gli sono proprie, si determina la diminuzione o l’eliminazione del rischio d’insuccesso.

• Una terza caratteristica è la sospensione tempora-nea della necessità del risultato. Dal momento che il procedimento ha la preminenza sul risulta-to, un ostacolo, che sarebbe d’intralcio se fosse incontrato nel corso della soluzione di un pro-blema serio, durante il gioco è affrontato con se-renità e perfino con allegria.

• Infine, la caratteristica più importante del gioco, che è alla base di tutte le altre, è la sua natura vo-lontaria. Chi gioca è libero da minacce ambientali e da necessità urgenti. Il comportamento nel gio-co ha origine per iniziativa del soggetto che lo propone e da questi può essere interrotto in qual-siasi momento senza sentirsi in una situazione difficile.

E ancora, dal pensiero di Bruner: • La persona o l’animale che gioca con oggetti e

con azioni, acquista abilità nel connetterli fra loro in modi insoliti senza essere frenato dal rischio di

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insuccesso. Inoltre, poiché il gioco ha l’importante funzione di ridurre la tensione al po-sitivo compimento di un atto, esso rappresenta una buona occasione per tentare nuove combina-zioni comportamentali che, diversamente, sotto pressione funzionale, non potrebbero essere spe-rimentate.

Savage-Rumbaugh (Savage-Rumbaugh et al.1980) ci fa inoltre notare quanto il premio nel gioco non sia il rinforzo per compiere l’attività. Lo studioso, a tal proposito, documenta l’episodio di uno scimpanzé che risolveva dei problemi dietro l’incentivo di pezzi di banana. Un giorno, però, invece di mangiare i pez-zi di banana dati come ricompensa li mise in fila. Evidentemente aveva risolto le prove per se stesso e non per ottenere la ricompensa.

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Educare il cane attraverso il gioco Secondo Vygotskij, psicologo che mi ha influenzato in modo particolare nel decidere la stesura di questo libro, il gioco ha la funzione di avvicinare l’individuo all’oggettività della realtà. Il cane, quando gioca, accetta di sottoporsi a delle re-gole. Grazie ad esse deve ritardare, controllandoli e autoregolandoli, i propri impulsi immediati, quindi attraverso le regole del gioco impara ad agire con-cordando i ruoli sia con i cani più adulti, sia con i proprietari umani, attraverso piani di relazione e co-municazione efficaci. Attraverso il gioco il sistema famigliare interspecifi-co mette in evidenza le regole delle relazioni sociali e collaborative, mostrandone l’inderogabilità nel rive-larsi disposti a vivere secondo tali regole e soprattut-to a condividerle. Pertanto un cane timido o competitivo trarrà benefici dall’apprendimento di nuove competenze espresse durante il gioco. Diventerà capace di comprendere che i propri desideri non possono essere realizzati con la stessa urgenza con cui si presentano e che qualche volta possono anche non essere soddisfatti. Di fatto è più interessante e piacevole ciò che intrin-secamente rappresenta il gioco piuttosto di ciò che si conquista attraverso esso. Il gioco sociale, quindi, permette al cane di capire che è importante vivere e agire insieme piuttosto che cercare soddisfazioni immediate che si possono otte-

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nere individualmente, ma non possono essere condi-vise. Inoltre dal punto di vista cognitivo tutti i giochi han-no delle regole che i cani difficilmente comprende-rebbero se fossero imposte dall’uomo nella realtà. Nel gioco non sono presenti schemi comportamentali fissi, ma piuttosto copioni da seguire a cui la mente dei cani non è abituata, pertanto attraverso le attività ludiche il pet si esercita a pensare per schemi astratti. Il gioco inoltre rappresenta l’area dove è possibile definire lo sviluppo potenziale del cane, offrendogli l’opportunità di oltrepassare le capacità presenti, gra-zie alla possibilità di saltare le risposte istintive pre-ferendogli quelle percettive.

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Memorizzare meccanicamente le informazioni si rivela vantaggioso solo per riproporre

esattamente lo stesso comportamento, Al contrario dare un significato a ciò

che si memorizza facilita l’apprendimento di nuove informazioni che miglioreranno la qualità

del comportamento stesso

La memoria Se l'apprendimento è il processo grazie al quale il ca-ne acquisisce nuove informazioni, la memoria è il processo che gli garantisce il mantenimento di quelle informazioni. Si può pensare alla memoria come lo scrigno dove sono contenuti infiniti frammenti di buona parte delle esperienze di vita e dei ricordi che hanno partecipato alla costituzione della identità individuale (Rose 1994; Cestari e Brambilla 2001; Laroche 2002; Ghi-rardi e Casadio 2002). Nella fase di apprendimento i lineamenti di una for-ma o di un’emozione intensa, vengono iscritti in un ricordo così che alcune forme possono evocarne altre e lo stesso le emozioni. Pertanto percepire significa classificare i vari ricordi; questo avviene attraverso l'attivazione di mappe concettuali neuronali che rap-presentano tali forme o emozioni nella memoria.

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In questo senso si ritiene che ogni nuova esperienza aggiunga nuove connessioni a una rete preesistente. Inoltre qualunque neurone può far parte di molte reti e, pertanto, di molti tipi di memorie esperenziali. (Rose 1994; Damasio 2000; Cestari e Brambilla 2001). La memoriasi organizza e divide in memoria a breve termine e in memoria a lungo termine: quest'ultima è composta da due sistemi di base, la memoria esplicita o dichiarativa e la memoria implicita (Squire e Kan-del 2002a). Oggi i neurobiologi, a dispetto del fatto che si ritenesse la memoria collocata in precise aree del cervello, hanno dimostrato che nei mammiferi superiori questa è costituita da molteplici reti neuro-nali (Goldman-Rakic 1992). Nei processi di memorizzazione si possono distin-guere almeno quattro fasi, indicate con i termini en-coding (codifica), consolidation (consolidamento), storage (immagazzinamento) e retriva (recupero). • Il termine "codifica" si riferisce al processo ini-

ziale di riconoscimento ed elaborazione dell'in-formazione appena appresa.

• Il termine "consolidamento" corrisponde al pro-cesso di trasformazione della memoria appresa in forma stabile.

• Il termine "immagazzinamento" riguarda i mec-canismi poco noti di mantenimento dell'informa-zione appresa.

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• Infine il termine "recupero" è fondamentale per richiamare allo stato di coscienza l'informazione immagazzinata (Cestari e Brambilla 2001).

La memoria a breve termine e la memoria lungo ter-mine si diversificano per le modalità secondo le quali è in esse rappresentata l'informazione. La memoria a breve termine privilegia le caratteristi-che fisiche dello stimolo mentre la memoria a lungo termine privilegia il significato dello stimolo rispon-dendo con le rappresentazioni cognitive. La memoria a lungo termine si basa su due sistemi distinti: la memoria semantica e la memoria episodi-ca Tulving (1972). La memoria semantica rappresen-ta la memoria dei fatti o delle conoscenze generali; la memoria episodica contiene tutti gli aspetti autobio-grafici del cane.

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La memoria a breve termine La memoria a breve termine, come ho accennato, privilegia le caratteristiche fisiche dello stimolo o stressor, il cui contenuto può seguire due strade di-stinte:

• essere dimenticato, se lo stressor è null’atro che un avvenimento unico con un basso profi-lo di attivazione;

• oppure, se si ripresenta più volte o con mag-giore intensità, viene consolidato nella memo-ria a lungo termine.

Quando si parla di memoria a breve termine si usa come sinonimo "memoria di lavoro", una funzione, questa, che permette di mantenere temporaneamente attiva una rappresentazione (ad esempio, la ciotola per il cane) affinché possa essere subito utilizzata (ciotola=si mangia!). La memoria di lavoro è complementare alla "memo-ria associativa", una forma di memoria questa, che acquisisce le abitudini e le archivia nella memoria a lungo termine per garantirci di provvedere all'attiva-zione di risposte immediate non “ragionate”. Un esempio in umana potrebbe essere il fatto che se ve-diamo le luci di stop dell’autovettura che ci precede mentre guidiamo la nostra automobile freniamo sen-za dover “ragionare”. La neurofisiologia ha permesso la rilevazione dell'at-tività elettrica di singoli neuroni nella corteccia cere-brale nei primati, dimostrando come alcuni neuroni

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mostrano un incremento dell'attività elettrica durante la presentazione dello stimolo, mentre altri si attivano nel periodo di ritardo quando cioè l'animale è impe-gnato a ricordare l'informazione. Infine una terza classe di neuroni reagisce più intensamente quando ha inizio la risposta. In estrema sintesi, queste esperienze di neurofisiolo-gia avvalorano la tesi che l'attività della memoria di lavoro viene modulata da differenti classi di neuroni e che quindi non si può parlare di comportamento istintivo.

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La memoria a lungo termine La memoria a lungo termine assicura il ricordo di maggiori informazione per periodi di tempo molto lunghi, anche tutta la vita del cane. Sulla base di studi di psicologia cognitiva, Tulving e all. (1972) hanno classificato la memoria a lungo termine in memoria implicita ed esplicita (cosciente): • La memoria implicita è rappresentata dai com-

portamenti che si esprimono normalmente attra-verso l'esecuzione di risposte “automatiche”. Ad esempio, se il cane vede una lepre in un prato quasi sicuramente la sola visione attiverà in lui il comportamento predatorio.

• La memoria esplicita o dichiarativa, invece, si basa sull'attività della mente a livello cosciente e su processi cognitivi di valutazione comparativa (quello stimolo assomiglia a quell’altro).

Successivi studi (Cestari e Brambilla 2001) hanno ul-teriormente affinato questo concetto di memoria con-scia o esplicita, introducendo ulteriori distinzioni e creando due ulteriori sottogruppi: la memoria seman-tica (i significati dei ricordi) e la memoria episodica (gli eventi individuali). La memoria semantica si riferisce al patrimonio di conoscenze soggettive del cane e include il significa-to delle parole che utilizza il proprietario (copertina, acqua, pappa, pallina, ecc.) e le regole (non si tira al guinzaglio, non si compete sui giochi, non si salta

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addosso per salutare e così via). Le informazioni del-la memoria semantica sono indipendenti dall’ambito temporale e spaziale. Ad esempio, una pallina è rico-nosciuta come tale dal cane indipendentemente dalla dimensione e colorazione della stessa, che possono rendere lo stesso oggetto apparentemente molto di-verso. Quindi la memoria semantica fa riferimento alle conoscenze possedute dal cane come soggetto.Il significato che egli attribuisce alle suddette cono-scenze è l'aspetto cruciale per un corretto apprendi-mento. Uno dei modi di rappresentare l’organizzazione dei concetti nella memoria a lungo termine è attraverso i modelli di reti semantiche. I primi modelli di reti semantiche risalgono agli anni sessanta. Si trattava, in realtà, di reti semantiche im-postate su associazioni logico-gerarchiche piuttosto rigide. Il processo di rappresentazione seguiva infatti un percorso univoco e obbligato in base ad una di-stanza predefinita tra i nodi concettuali e non rispon-deva agli aspetti soggettivi ed empirici dell’esperienza (modello computazionale). Tuttavia a metà degli anni ’70 Collins e Loftus (1975) elaborarono un primo modello di memoria semantica basato su un’organizzazione più flessibile, teorizzando la propagazione dell’attivazione (spread activation), osservando che in presenza di una attiva-zione emozionale si genera una carica elettrica in de-terminati neuroni che corrispondono ad un specifico nodo concettuale. Il neurone attivato, attraverso le si-napsi, trasmette l’impulso elettrico ai neuroni adia-

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centi, attivandoli a loro volta. Secondo Collins e Lof-tus, i nodi disterebbero l’uno dall’altro in modo va-riabile in base al grado di somiglianza semantica tra i concetti che attiva lo stimolo emozionale. Tanto più lo stimolo è forte, quanto minore saranno la distanza e il tempo di attivazione dei neuroni interessati. Di conseguenza, più saranno le connessioni che li uni-scono, più la propagazione diminuirà d’intensità in funzione del tempo intercorso dall’attivazione emo-zionale che ha prodotto lo stimolo. Il tempo di attivazione tra un nodo e un altro è in funzione dell’accessibilità: tanto più un concetto sarà collegabile ad un altro tanto più sarà minore il tempo di percorrenza e quindi la risposta comportamentale nel cane. La teoria della propagazione dell’attivazione implica, dunque, la possibilità di organizzare la conoscenza in base a diverse rappresentazioni possibili, le quali consentono di attivare diversi percorsi in una rete semantica. La relazione tra i nodi non è quindi fissata sulla base di un’organizzazione gerarchica predeterminata, ma varia sulla base della prossimità e della somiglianza semantica fra i nodi, i quali si organizzano in base ai diversi tipi di relazione. L’attivazione può quindi av-venire a diversi gradi e provenire da nodi diversi in base alle esperienze maturate dal cane attraverso i suoi piani prossimali d’esperienza. In questo modo la creazione di una mappa concettua-le diviene un’esperienza soggettiva che favorisce la creazione di forti connessioni tra i nodi, modificando

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all’interno delle reti semantiche la distanza tra i nodi stessi e facilitandone l’attivazione nel momento del recupero dalla memoria a lungo termine. La memorizzazione “significativa” è un’ulteriore ca-pacità del cervello di mantenere le informazioni at-traverso l’uso delle mappe cognitive e consente di in-tegrare le nuove informazioni negli schemi o script in cui si organizza la conoscenza del mondo. Gli script sono strutture astratte e flessibili, dei knowledge packet (Schank 1982) che si attivano nell’interazione con il mondo esterno. Ogni qualvolta si presenta un nuovo input, esso viene messo a con-fronto con gli script che il soggetto possiede sul con-testo e su quella determinata circostanza. Tuttavia la memoria è un sistema dinamico che inte-gra e riorganizza il nuovo input attraverso un proces-so che Rumelhart e Norman (1978) definiscono di accrescimento, creazione e aggiustamento, attraverso il quale si modificano gli schemi esistenti o ne sono creati di nuovi, in un continuo processo che si accor-da con i concetti di assimilazione e accomodamento teorizzati da Piaget. Tale corso avviene nella costante ricerca di significa-tività sulla base dell’esperienza del cane. La costruzione di mappe concettuali, frutto di nuovi apprendimenti, amplia quanto già acquisito dal pet, facilitando il processo di integrazione delle nuove conoscenze. Così come gli schemi o script sono il prodotto dell’attività costruttiva del soggetto (Cor-

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noldi 1978), le mappe concettuali sono il frutto della riflessione metacognitiva su tale effetto. In quest’ottica esse sono dunque funzionali sia ai pro-cessi di apprendimento sia ai processi d’immagazzinamento e di recupero dell’informazione nella Memoria a Lungo Termine. Fino ad ora ho esaminato la parte della memoria con-scia del cane. Osserviamo ora cosa accade nella me-moria implicita, che contiene la maggior parte delle elaborazioni cerebrali mnemoniche che non avven-gono a livello conscio. Le abitudini, le capacità, le preferenze individuali e gli stati emotivi del cane non sono controllati dalla coscienza, anche se ne gover-nano il comportamento e contribuiscono a definirne la personalità (Mishkin e Appenzeller 1987; LeDoux 1998; Squire e Kandel 2002a,b). In questo puzzle di capacità di ricordare sia a livello conscio che inconscio, la memoria procedurale con-sentirà al cane di acquisire quelle che definiamo abi-tudini. Questo sistema partecipa selettivamente al sapere del cane sul come fare le cose: imparare a camminare sulle griglie, riconoscere e risolvere immediatamente giochi di problem solving già eseguiti in precedenza, tirare la slitta per un cane nordico o affrontare un percorso di agility per un cane allenato a fare quella disciplina cinosportiva. La memoria procedurale quindi concorre allo svilup-po delle "abilità" pratiche di un determinato compor-

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tamento consolidato, che sono largamente inconsce anche se si svolgono nella vita di ogni giorno (Schac-ter 2001). Pertanto, le abilità con cui il cane si cimenta quoti-dianamente dipendono dalla sua esperienza passata e dalle occasioni che ha avuto per apprendere e far pra-tica in merito a specifiche capacità motorie, percetti-ve e cognitive. Le abilità motorie, una volta apprese, sono immagaz-zinate nelle procedure che si possono esprimere at-traverso l'azione. Sapere passare dentro un tubo per un cane che fa agility è parte dell'insieme di abilità motorie che non richiedono l'intervento della memo-ria semantica. È inoltre noto che una volta appreso in maniera co-sciente come affrontare il tubo, questa abilità nel ca-ne rimane "memorizzata a lungo termine”. Tuttavia l’incremento nella velocità di esecuzione non dipende dal ricordo del gioco. Molto spesso i proprietari di cani, ignorando tutto quanto sopra esposto, propongono sempre le stesse attività pen-sando di aumentare la performance. Al contrario così facendo diminuiscono l'acquisizione di capacità co-gnitive a favore di meccanismi inconsci, cioè di in-tuizioni sul modo di procedere fondati sulla memoria non implicita. Concludo questa capitolo sulla definizione di memo-ria mettendo in rilievo come le mappe concettuali siano funzionali all’apprendimento e alla memoriz-

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zazione a lungo termine e che il loro impiego come “strumento” didattico può favorire la formazione di un ricordo stabile facilmente recuperabile dal cane, in quanto frutto di un’attività di scoperta e riflessione. !

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“Noi viviamo molto vicini. Quindi il nostro scopo della vita è aiutare gli altri.

E se non potete aiutarli, almeno non fate loro del male.”

DALAI LAMA

Eredità e Comportamento Uno studio interessantissimo che riguarda le voca-zioni di razza nei cani è stato pubblicato da Andina (Sisca Observer, Anno 6, Numero 2, Dicembre 2002) col titolo “Eredità e comportamento: Differenziazio-ne comportamentale della specie Canis familiaris nel corso della selezione dei diversi raggruppamenti raz-ziali”. La bellezza e l’interesse di questo lavoro mi ha portato a chiederne l’autorizzazione per la pubblica-zione, autorizzazione che il dott. Andina mi ha con-cesso e di questo lo ringrazio. Mi sono permesso di integrare il testo alla luce dei passi da gigante che, grazie alla zooantropologia e all’etologia cognitiva, sono stati fatti nei dieci anni trascorsi dalla pubblica-zione originale. L’obiettivo di questo lavoro è fornire al Medico Ve-terinario, all’educatore e all’istruttore cinofilo la pos-sibilità di informare il futuro proprietario in relazione alle caratteristiche comportamentali dei vari gruppi razziali. Conoscendone l’attitudine, può essere infatti

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più facile prevedere se un individuo di una data razza ha buone probabilità di adattarsi allo stile di vita del futuro proprietario e alle aspettative di quest’ultimo. Le razze di cani ufficialmente riconosciute sono più di 400 e variano per taglia dal kg scarso del Chihua-hua all’oltre un quintale del San Bernardo. Questa enorme variabilità di forma e dimensione, frutto di millenni di selezione da parte dell’uomo, si accom-pagna ad una pari variabilità nell’espressione dei comportamenti tipici di specie. È impensabile che il lungo ed articolato processo evolutivo che a partire dal lupo (Canis lupus) ha con-sentito di arrivare al cane (Canis familiaris) in tutte le varietà che esistono oggi, non abbia modificato in maniera diversa da razza a razza il complesso eto-gramma di questo progenitore comune. Sono sorte in ambito scientifico diverse diatribe sull’origine evolutiva del cane. Dal punto di vista ge-netico si è potuto riscontrare una corrispondenza quasi completa tra il DNA del lupo e quelli di cane, sciacallo e coyote (rispettivamente Canis lupus, C. familiaris, C. aureus e C. latrans ). Tuttavia studi che analizzano il DNA mitocondriale possono supportare l’ipotesi che tutte queste specie animale derivino da un antenato comune, molto simi-le al lupo, di cui si possono praticamente considerare sottospecie. Lupo, cane, sciacallo e coyote sono in grado, se in-crociati, di dare prole feconda e sono contraddistinti unicamente da differenze di natura ecologica ed eto-

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logica, oltre che morfologica (Clutton-Brock, 1995). Dal punto di vista sociale questi animali hanno adot-tato strategie socio-comportamentali assai diverse, a seconda del tipo di risorse ambientali disponibili. Lo sciacallo e il coyote sono monogami; il lupo può vivere solitario, in gruppi famigliari o in grandi bran-chi (Abrantes, 1997); il cane, a sua volta, può adotta-re tutte queste strategie sociali ma mantenere un re-pertorio vocazionale imposto dalla pressione selettiva, fatta dall’uomo, per esaltare certi repertori comportamentali a discapito di altri. Così osserviamo alcuni cani convivere agevolmente in mute numerose e senza conflitti, mentre altri tollerano a malapena la presenza di un esemplare di sesso opposto per il solo periodo dell’accoppiamento. Per meglio comprendere il comportamento del cane è bene analizzare le caratteristiche che oltre 15.000 an-ni fa – sulla data certa il dibattito continua ad essere aperto – hanno fatto sì che l’uomo lo scegliesse come primo animale domestico. I più antichi reperti ar-cheologici che possono confermare una convivenza di uomini e cani risalgono al periodo Mesolitico, cir-ca 10.000 anni prima di Cristo (Davis e Valla, 1978). Si può ipotizzare che la prima funzione utile svolta dal cane fosse quella di sentinella avvisatrice: i cani selvatici/lupi avevano probabilmente cominciato a vivere intorno agli insediamenti umani cibandosi dei residui alimentari che reperivano nelle discariche (al-tra funzione utile era proprio quella di “spazzini”) e quando qualcuno, uomo o animale, si avvicinava av-visavano che il territorio era stato “invaso”. Questo

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servizio era sicuramente molto utile in un mondo fre-quentato da temibili fiere e tribù nemiche. La convivenza più stretta con il lupo ha permesso all’uomo di notare la grande efficacia predatoria, spesso frutto del lavoro di gruppo, di questo animale. I passi successivi della coevoluzione delle due specie sono stati la collaborazione nella caccia e, successi-vamente, la sorveglianza degli armenti, poiché da cacciatore-raccoglitore l’uomo stava diventando col-tivatore e allevatore. L’uomo ha in questo modo attuato un processo di se-lezione artificiale. Il criterio con cui venivano scelti i soggetti che potevano accedere alla riproduzione e acquisire così la possibilità di trasmettere il loro cor-redo genetico alle generazioni successive era quello di privilegiare i soggetti più efficaci nel lavoro. Ciascun comportamento può essere considerato come una sequenza di schemi motori, che ne sono le com-ponenti elementari. Il modo in cui ogni schema mo-torio è eseguito da un individuo è anche condizionato da come lo specifico assetto genetico dello schema stesso è stato elaborato in base all’esperienza. Com-portamenti geneticamente programmati hanno biso-gno comunque di essere attivati e modulati, spesso in periodi critici o situazioni specifiche. (Questa consi-derazione dovrebbe farci riflettere su come non sia un bel gioco per alcune razze il tira e molla o il lan-cio della pallina). Per esempio, il comportamento materno ha una forte base istintiva, ma viene notevolmente migliorato

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dall’apprendimento che può essere frutto di esperien-za avuta da eventuali parti precedenti o dall’aver as-sistito e partecipato all’allevamento di cucciolate da parte di altre femmine. Esiste comunque un limite oltre il quale l’ambiente non è in grado di influenzare l’intensità con cui si manifesta un comportamento determinato genetica-mente: non è possibile far comparire repertori assenti o cancellare del tutto quelli presenti. Tuttavia è pos-sibile reindirizzare il comportamento del cane modu-lando il suo arousal, offrendogli, attraverso un per-corso pedagogico ed educativo, piani prossimali d’esperienza che possono influenzare comportamenti “indesiderati”, minimizzandoli. Ad esempio un cane da seguita selezionato per ab-baiare durante l’inseguimento, può tendere a farlo anche in altre circostanze in cui è eccitato. Alcuni comportamenti del cane sono riconoscibili nel comportamento predatorio ancestrale ereditato dal lupo. In predazione viene eseguita una sequenza di atti contraddistinta da una successione di fasi conse-cutive concatenate: localizzazione/sguardo - avvici-namento - inseguimento - morso per immobilizzare - morso per uccidere - consumo della preda (Coppin-ger e Coppinger, 2001). Si può osservare come nei comportamenti tipici delle varie razze l’uomo abbia abilmente modulato questa sequenza interrompendola prima del completamento, ipertrofizzando quindi alcune sequenze e/o inibendo-ne altre. Si possono così vedere cani che mettono in atto tutta la sequenza, come ad esempio i segugi che

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trovano, scovano, inseguono e uccidono la volpe, op-pure cani che arrivano all’immobilizzazione della preda ma non la uccidono, come i levrieri arabi (poi-ché la religione musulmana prevede che l’uomo non possa mangiare carne di animali non uccisi e dissan-guati da lui). Alcuni cani invece si limitano a localiz-zare e avvistare, esasperando la fase di avvistamento con un’immobilità molto spettacolare ed elegante, osservabile nel cane da ferma. Attraverso la selezione è stato possibile modulare an-che l’espressione di schemi motori legati alla socia-lizzazione e alla capacità di comunicare. In particola-re, nelle diverse razze è stato notevolmente influenzato il comportamento agonistico. Sostan-zialmente non vi sono grosse differenze nelle modali-tà con cui i cani competono, la variazione è nella fa-cilità con cui i suddetti comportamenti possono essere evocati: in alcune razze si osserva per esem-pio la mancanza o la ridotta capacità di recepire se-gnali di sottomissione o di interrompere un’aggressione per preservare la propria integrità, come i cani da combattimento o quelli da caccia in tana (Scott e Fuller, 1965). Attraverso la selezione possono anche comparire repertori comportamentali agonistici nuovi: ad esempio, è stato ottenuto un ceppo di cani da combattimento che prima dell’attacco colpisce con il petto l’avversario per sbilanciarlo, attraverso l’incrocio di soggetti che ca-sualmente presentavano questo comportamento (Coppinger, 2001). Si potrebbe andare avanti all’infinito a fare esempi

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di come l’uomo ha pescato a suo piacimento nel “calderone” dei repertori comportamentali del cane isolando quei comportamenti o quelle sequenze di schemi motori che più gli facevano comodo, equipa-rando la selezione effettuata sul cane a quella condot-ta da Mendel sui piselli. Fino alla seconda metà dell’800 le razze che noi oggi conosciamo praticamente non esistevano. Solo da quel periodo l’uomo ha cominciato a mettere in atto programmi di allevamento zootecnicamente evoluti, in cui gli individui venivano isolati sessualmente e veniva effettuata una vera e propria selezione artifi-ciale, registrando poi gli accoppiamenti nei libri ge-nealogici ed impedendo la riproduzione dei soggetti non iscritti ai suddetti libri. Il criterio prevalentemente utilizzato sino a quel mo-mento per identificare i soggetti degni di trasmettere le loro caratteristiche alle generazioni successive era quello di scegliere gli individui che meglio sapevano svolgere il lavoro specifico per il quale erano stati se-lezionati originariamente. I caratteri morfologici il cui valore è prevalentemente “estetico” (colore o lunghezza del mantello, porta-mento delle orecchie o della coda e così via), sono stati presi in considerazione in un periodo successivo. Purtroppo oggi le differenze morfologiche vengono spesso superficialmente considerate come le uniche da osservare per valutare la razza, il che porta a una selezione di razza basata sui canoni imposti dalla “bellezza” del soggetto a discapito delle attitudini e delle vocazioni caratteriali.

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Il profilo comportamentale di un individuo di una specifica razza è l’espressione di un assetto genetico esattamente come lo sono i caratteri morfologici. A differenza dei lupi, i cani sono capaci di esprimere una grande attività collaborativa con l’uomo, ma è utile sottolineare che questa non è uguale in tutte le razze. Prima di passare a una descrizione delle vocazioni comportamentali delle varie razze è bene mettere in chiaro il fatto che una classificazione di questo tipo ci consente di effettuare previsioni di tipo approssi-mativo sull’effettivo carattere di un cane. Il compor-tamento infatti è frutto di una molteplicità di fattori tra i quali la componente puramente ereditaria e ge-netica è rilevante, ma non certo preponderante. Il tipo di previsione che si può fare sulla base della razza è tendenzialmente di tipo probabilistico: se noi pren-diamo per esempio 30 cuccioli di setter di tre mesi e li mettiamo di fronte ad una quaglia noteremo che la maggior parte tenderà a mettersi in ferma, ma è im-probabile che lo facciano tutti, e quelli che non fer-mano rimangono comunque dei setter. Nel momento in cui si decide di adottare un cane di razza bisogna prendere in considerazione anche diversi altri fattori come sesso, taglia e stile di vita dei futuri partner umani.

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Il Sesso Quasi tutti coloro che decidono di prendere un cane per la prima volta vogliono un maschio. Non sempre è la scelta migliore. Tra i vantaggi si può considerare il fatto che non va in calore e sicuramente non si ri-schia di avere cucciolate indesiderate. Spesso è più appariscente, con più pelo, una testa più grande, insomma a prima vista più “bello”. Almeno in teoria è possibile poter usare il maschio come ri-produttore guadagnando con i diritti di monta. Gli svantaggi invece comprendono il fatto che molto più spesso delle femmine non va d’accordo con i conspecifici dello stesso sesso. Inoltre è più frequente che marchi in casa, scappi e vagabondi. Quando deve sporcare emette piccoli quantitativi di urina ripetuta-mente per marcare il territorio, e le uscite igieniche (non le passeggiate che sono necessarie in egual mi-sura per entrambi i sessi) devono essere più lunghe. Più frequentemente delle femmine ha problemi di ti-po gerarchico (competitivo n.d.r.) nei confronti dei proprietari. La femmina rispetto al maschio è più piccola e sicuramente meno appariscente. Se non si procede con la sterilizzazione richiede attenzioni nei periodi di calore. Quando è libera emette tutta l’urina in una volta e le uscite igieniche sono più brevi. Spesso la femmina è di indole più dolce e affettuosa. (Non vi sono differenze provate nella capacità socio-collaborativa e performativa in specifici compiti tra i due sessi n.d.r.).

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La Taglia Un luogo comune piuttosto diffuso è quello che con-sidera un cane piccolo meno bisognoso di spazio e attività rispetto ad uno grande. Non sempre è vero, anzi spesso è vero il contrario. Numerosi piccoli cani adottati oggi come soggetti da compagnia hanno alle spalle generazioni di soggetti selezionati nel lavoro come cani da caccia, come de-rattizzatori di stalle e case, come sentinelle avvisatri-ci e sempre vigili o addirittura come pastori. Tutte queste vocazioni non sempre costituiscono la miglio-re premessa per una convivenza serena in un ambito urbano strettamente promiscuo come quello in cui vive la maggior parte della popolazione umana. Un altro preconcetto molto diffuso, specialmente tra il genere maschile umano, ma non solo, è quello che i cani di taglia piccola non si possano considerare cani a tutti gli effetti, ma una sorta di giocattoli da signo-ra, dotati di una dignità inferiore rispetto a individui di taglia più cospicua. Ovviamente questo non è vero. È possibile che molti cani di piccola taglia non siano correttamente socializzati con i conspecifici in quan-to i proprietari li hanno sistematicamente sottratti alle interazioni (per esempio prendendoli in braccio) per paura che venissero feriti dai cani più grandi. Questi individui rischiano effettivamente incidenti gravi perché, non avendo la possibilità di relazionarsi con gli altri durante lo sviluppo, non acquisiscono i reper-tori di comunicazione che consentirebbero loro di ge-

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stire le interazioni in maniera non cruenta da adulti. Qualunque cane, di qualsiasi taglia, in realtà, se la-sciato socializzare correttamente nel periodo giovani-le, è in grado di imparare a gestire le interazioni con i conspecifici. La tendenza a relazionarsi in maniera competitiva con gli altri cani è sicuramente diversa nelle varie razze, ma non in correlazione con la di-mensione. I cani di taglia grande spesso sono poco attivi, meno reattivi e si muovono meno di soggetti più piccoli. Bisogna comunque tener conto del fatto che un cane più grande ha dei costi di gestione più alti di uno pic-colo oltre ad avere un ingombro effettivo maggiore. Va inoltre previsto che un soggetto di taglia cospicua richiederà un proprietario in grado di controllare fisi-camente la sua notevole forza in caso di necessità.

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Vocazione e utilizzo finale Il criterio con cui inizialmente sono state differenzia-te le razze è stato quello di ottenere soggetti specia-lizzati per determinati impieghi, in cui fosse meno impegnativo nel passaggio da una generazione all’altra il lavoro necessario per ottenere un ausiliario operativo ed efficace. Parallelamente si è messa in atto una evoluzione dell’aspetto esteriore perfezionata enormemente nell’ultimo secolo sia per le sue valenze funzionali che per quelle estetiche. Mano a mano che il cane si è staccato dalla sua fun-zione utilitaristica strettamente lavorativa le sue ca-pacità performative sono diventate a volte inopportu-ne perché prive di un contesto in cui esprimersi. Se si sceglie un cane da lavoro (di qualunque tipo di lavoro si tratti) dobbiamo tenere conto delle esigenze dell’animale che abbiamo preso. Se queste non sono compatibili con le nostre faremmo meglio a pensare a quale è il costo di sopprimere completamente impulsi per lui spontanei (ammesso che siamo così capaci da riuscire nell’impresa) in termini di impegno per noi e di sofferenza per l’animale. Per un cane il poter esprimere i comportamenti in-trinseci del suo patrimonio genetico fa parte del sod-disfacimento dei bisogni vitali, come il mangiare. Gli schemi motori, specialmente quando ipertrofizzati, hanno forti motivazioni interne ed è la loro stessa esecuzione che fornisce appagamento. Quando adot-

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tiamo un cane da lavoro, se abbiamo a cuore il suo benessere oltre che il nostro, dobbiamo tenere conto anche di questo, analizzando le effettive possibilità di soddisfare le esigenze etologiche del nostro compa-gno. Andando a verificare per quale utilizzo sono state se-lezionate le razze, si può avere un’idea delle eventua-li difficoltà di adattamento che potrebbero incontrare in un contesto molto diverso. La Federazione Cinologica Internazione ha classifi-cato le razze suddividendole in) dieci raggruppamen-ti, seguendo un criterio puramente morfologico e fi-logenetico che non sempre unisce razze con attitudini e vocazioni simili.

I. Cani da pastore e bovari, esclusi bovari svizzeri II. Cani di tipo Pinscher, Schnauzer e Molossoidi,

Bovari svizzeri III. Terrier IV. Bassotti V. Cani di tipo Spitz e primitivi

VI. Segugi e cani per pista di sangue VII. Cani da ferma

VIII. Cani da riporto, da cerca e da acqua IX. Cani da compagnia X. Levrieri

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Gruppo I. Cani da pastore e bovari Parlando di cani da pastore bisogna distinguere bene se si tratta di pastori conduttori o di pastori guardiani del gregge perché le loro attitudini e vocazioni sono molto diverse. Basta aver visto una volta un pastore che lavora con i cani nel condurre un gregge per capire cosa si inten-de per cooperazione cane-uomo: i conduttori sono forse i cani in cui la pressione selettiva sull’impulso collaborativo è stata massima. Le tecniche di accer-chiamento che i lupi usavano quando cacciavano in gruppo sono state trasferite nel lavoro con le pecore. Ovviamente è stato necessario interrompere la se-quenza predatoria a livello del morso per afferrare (cani pizzicatori e bovari) o subito prima (cani che guidano con lo sguardo). L’aspetto caratteriale selezionato in queste razze è la disponibilità nello svolgere e apprendere nuove atti-vità e di risolvere problemi imprevisti, affrontandoli in stretta collaborazione con il pastore. Il proprietario viene a essere una figura di riferimento primario. Intelligenza adattativa e capacità socio-relazionali rendono la comprensione di quello che si vuole da loro più semplice. Posto che oggi non tutti i cani conduttori guidano le greggi, il forte impulso collaborativo è stato dirottato su altre molteplici atti-vità come la protezione civile, le attività cino-agonistiche (agility, obedience, disc dog, ecc.), la guida per ciechi o l’assistenza ai sordi o ai disabili.

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Una peculiarità di queste razze è la versatilità. Per sentirsi gratificati devono sentirsi impegnati in attivi-tà collaborative con il proprietario e la sua famiglia. È necessaria una precisazione per quanto riguarda le razze di cani che effettivamente sono ancora usate come pastori (Border Collies, Kelpies australiani e pochi altri), ultimamente oggetto di un improvviso successo più legato a un fattore di moda che non a un’effettiva adattabilità alle esigenze dei moderni proprietari. In questi cani la selezione è stata esaspe-rata per ottimizzare la resa lavorativa, ipertrofizzando alcuni schemi motori in modo da consolidare la com-ponente istintiva “innata” del comportamento di gui-da del gregge. Come spesso accade, la pulsione a mettere in atto gli schemi motori ipertrofizzati è for-tissima, ai limiti della nevrosi. La prolungata permanenza in situazioni in cui è im-possibile il soddisfacimento di queste pulsioni porta spesso alla loro attuazione fuori contesto, anche in maniera compulsiva, a meno che non si impegni l’animale per un tempo sufficiente in attività alterna-tive parimenti gratificanti. La vita del normale cane da compagnia di città, anche con un giardino a dispo-sizione, risulta quindi inadatta a fornire un grado ac-cettabile di benessere a questi animali. I problemi principali in cui si può incorrere con i pa-stori sono dati dall’inutilizzo delle loro ingenti risor-se intellettive e fisiche, che vengono di conseguenza dirottate su attività non molto utili e accettabili come l’abbaiare ossessivamente in risposta a qualunque stimolo, l’inseguire automobili, motorini, passanti (o,

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in mancanza di altro, la loro stessa coda), lo scavare buche e così via. Vi sono differenze tra razza e razza, ma tendenzial-mente sono cani abbastanza individualisti, che prefe-riscono un rapporto esclusivo con i proprietari e pos-sono mettersi in competizione con i conspecifici. I bovari non differiscono molto per le attitudini dai pastori: dovendo lavorare con animali più grandi e combattivi delle pecore sono tendenzialmente più brutali, spesso pizzicatori che sollecitano ciò che vo-gliono con morsi e, se non ben educati, possono dare problemi per questa propensione ad usare la bocca. Il lavoro del guardiano del gregge è completamente diverso: questi cani venivano lasciati per molto tem-po soli con gli armenti da sorvegliare, e non doveva-no far altro che impedire a chiunque tranne che al pa-store di avvicinarsi. Le loro decisioni dovevano essere abbastanza auto-nome dal momento che il pastore non sempre era presente per dare loro eventuali indicazioni. Il lega-me con l’uomo era molto meno strutturato di quello che avevano con il loro gregge e il territorio. Non era necessario un marcato impulso collaborativo, visto che i cani lavoravano da soli e da soli rimanevano per buona parte del loro tempo. La curiosità, così utile per apprendere, di chi deve affrontare sempre situa-zioni nuove, avrebbe potuto portare il guardiano ad allontanarsi dal suo territorio abbandonando ciò che doveva sorvegliare ed è quindi stata disincentivata, così come è stato disincentivato anche l’istinto preda-

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torio, sia perché poteva portare il cane ad abbandona-re le pecore per inseguire altri animali, sia perché, peggio ancora, avrebbe potuto essere indirizzato sulle pecore stesse. Questo tipo di vita è abbastanza simile a quello di un cane confinato per la maggior parte del suo tempo in un giardino, con scarsi contatti con il padrone e poco impegnato in attività di qualsiasi genere a parte la guardia. Si può quindi pensare che possa essere ac-cettato senza grossi problemi. Riassumendo:

• i pastori conduttori sono intelligenti, curiosi, con un marcato istinto predatorio, fortemente collaborativi e hanno bisogno di vivere a stretto contatto con il proprietario. Rendono al massimo se impegnati in attività collabora-tive anche complesse;

• possono avere una certa tendenza a vocalizza-re come facevano nella conduzione del greg-ge o per avvisare nella guardia;

• i cani da pastore usati per la guardia del greg-ge sono meno attivi, più indipendenti, spicca-tamente possessivi e territoriali, non così bi-sognosi di compagnia e non molto tolleranti nei confronti dei contatti fisici e delle costri-zioni;

• sono poco portati ad abbaiare esageratamente. Praticamente tutti i pastori guardiani sono di tipo molossoide e dovrebbero quindi apparte-nere al secondo raggruppamento.

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Fanno parte del gruppo dei pastori anche alcune raz-ze di recente realizzazione (Cane Lupo Cecoslovac-co, Lupo Italiano n.d.r.), ottenute ibridando cani e lu-pi con l’intento di ottenere la versatilità del primo e la prestanza fisica del secondo, particolarmente forte e resistente alle malattie. Dal punto di vista fisico il risultato sembra conforme agli obiettivi e questi ani-mali hanno un indubbio fascino, ma i cani ottenuti hanno anche una forte carica istintiva, sono vicini per certi aspetti a un animale selvatico e richiedono un proprietario esperto, che conosca l’etologia canina e che sia disposto a rischiare di accollarsi il lavoro di ripercorrere parzialmente il processo di domestica-zione in ogni individuo, pena, per chi sbaglia, il ri-trovarsi in casa un cane dotato di notevoli mezzi fisi-ci, con uno spiccato spirito di indipendenza, attitudini predatorie spinte e insufficiente controllabilità.

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Gruppo II. Cani di tipo Pinscher, Schnau-zer, molossoidi e bovari svizzeri Questo raggruppamento comprende diverse tipologie di cani anche molto diversi per struttura fisica e uti-lizzo. Le diverse taglie di Pinscher (in Italia sono dif-fuse quasi esclusivamente la nana e il dobermann), di cui praticamente gli Schnauzer sono la versione a pe-lo duro, sono principalmente cani da difesa o da guardia (avvisatori sempre vigili). Il cane da difesa personale deve essere ovviamente molto legato al proprietario, non deve essere troppo attaccato al terri-torio in quanto deve accompagnare l’uomo senza es-sere intimorito perché lontano da casa, non deve es-sere diffidente verso gli estranei, da cui è spesso circondato, e nemmeno deve essere ingiustificata-mente aggressivo, anche se la reattività è molto svi-luppata. Si tratta di cani in cui i comportamenti istin-tivi (capacità innate di svolgere lavori) sono poco presenti a vantaggio della versatilità di apprendere (capacità di acquisire comportamenti) che è ovvia-mente elevatissima. Il secondo gruppo comprende anche i molossoidi, ca-ratterizzati da struttura fisica massiccia, torace largo e profondo, testa importante, morso potente, labbra pendenti oltre il margine inferiore della mandibola, spesso prognati. Originariamente erano utilizzati dai romani come cani da guerra e per il combattimento nelle arene. Nel tempo, la loro funzione principale è diventata la difesa della proprietà e delle persone. Le

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loro caratteristiche sono senso del possesso marcato, resistenza al dolore, istinto predatorio poco sviluppa-to, una certa dose di combattività e alta competitività. In genere non sono cani con particolari propensioni collaborative con l’uomo, con le dovute eccezioni: sono molossi anche il Terranova, il Rottweiler e il Boxer, tutti cani molto versatili nell’istruzione e nella collaborazione con i proprietari. Anche se sembrano essere più lenti nell’ap-prendimento rispetto a molti pastori, sono meno sen-sibili e reattivi di questi sul piano emozionale. Si può fare una suddivisione tra i molossi usati per la guardia delle greggi (come pastori Maremmani, del Caucaso, cani da montagna dei Pirenei, Komondor, Sarplaninac e molti altri) e quelli passati ad altre fun-zioni come la guardia della proprietà e la difesa per-sonale. I primi conservano una forte diffidenza verso gli estranei, un legame fortissimo con il territorio e le proprietà che considerano essere loro. Non sono però particolarmente dipendenti dalla relazione con il gruppo di appartenenza, anzi, i contatti fisici troppo stretti li opprimono. Il secondo gruppo di molossi comprende gli inglesi Mastiff, Bullmastiff e Bulldog, il Dogue de Bor-deaux, gli italiani Mastino Napoletano e Cane Corso, l’Alano Tedesco e altri. Questi cani sono molto più portati a instaurare un rapporto stretto con il gruppo umano di appartenenza. L’aspetto fisico, caratterizza-to da una testa voluminosa, con occhi in posizione frontale e rotondeggianti, muso corto, spesso con profonde rughe di espressione, raccoglie quelle carat-

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teristiche infantili (neoteniche) automaticamente ac-cattivanti per l’uomo (e per tutti i mammiferi) e ca-paci di sollecitare forti istinti et-epimeletici. Anche nel comportamento questi cani conservano nella vita adulta atteggiamenti infantili ed epimeleti-ci, sono tendenzialmente giocherelloni, affabili ed esuberanti nelle loro manifestazioni di affetto. Spesso questi cani cercano con insistenza il contatto con l’uomo di cui sono piacevolissimi compagni e infles-sibili protettori della proprietà. Si tratta di cani che tendenzialmente possono avere una certa propensio-ne a gestire le interazioni in modo competitivo, ma con una reattività abbastanza bassa e uno scarso li-vello di attività generale. Tra i molossoidi vi sono anche cani utilizzati per la caccia come il Dogo Argentino, selezionato per la caccia di grossi animali tipo puma e giaguaro e, in Europa e in Italia, anche per la caccia al cinghiale. La combattività e il coraggio del molosso sono stati uniti all’olfatto e alla resistenza dei segugi e di altri cani da caccia. Il risultato è un poderoso culturista, deci-samente competitivo e reattivo, in cui i comporta-menti ostili possono essere evocati più facilmente che non in altri cani. I bovari svizzeri sono quattro, sicuramente con origi-ni comuni, differenziati più che altro per taglia e lun-ghezza del pelo. Erano cani da fattoria tuttofare usati come bovari, come guardiani, per il traino dei carretti del latte e così via. L’istinto predatorio è ridotto al minimo e la tendenza a manifestare comportamenti competitivi non molto marcata.

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Gruppo III. Terrier Il III gruppo raccoglie svariate razze di cani, suddivi-si a seconda delle funzioni, della struttura fisica e dell’utilizzo in terrier a gamba corta, a gamba lunga, di tipo bull e toy. Quasi tutti oggi sono considerati come animali da compagnia, ma la loro origine è sicuramente di cani da lavoro. Le diverse razze di terrier sono state quasi tutte selezionate in Gran Bretagna e la loro funzione era praticamente quasi sempre quella di cacciare no-civi quali topi, ratti, volpi, tassi e altri mustelidi. Questi, contrariamente ad altri cani, usati da nobili e aristocratici nella caccia sportiva alla volpe, erano i compagni delle classi più popolari che vivevano ne-gli ambienti periferici e più disagiati, quindi risulta-vano essere indispensabili per assolvere il compito di topicida. Vivevano a stretto contatto con i loro pa-droni a cui erano molto legati. Oltre a rendersi utili come derattizzatori, erano guardiani avvisatori e an-che piacevoli compagni. I Terrier svolgevano una funzione realmente utile per la sopravvivenza dei proprietari eliminando i compe-titori per il cibo e i portatori di malattie. Per essere utili ed efficaci non richiedevano addestramento o istruzione da parte dell’uomo. Infatti, poiché la pre-dazione si basava prevalentemente su pulsioni istinti-ve, i proprietari non dovevano praticamente insegna-re loro nulla. Nella caccia, i Terrier dovevano scovare con tenacia

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e uccidere le loro prede, tutte piuttosto combattive e determinate a sopravvivere, spesso simili o superiori a loro per taglia e forza. Una caratteristica dei Terrier è la marcata tendenza ad abbaiare durante lo scovo in tana per segnalare al cacciatore la propria posizione; ovviamente, in questi cani anche il livello di vigilanza e la prontezza alla reazione sono caratteristiche marcate. È stato verifi-cato che questa reattività è suscitata molto più facil-mente da stimoli sonori e visivi piuttosto che olfatti-vi, a differenza di quanto accade invece nei segugi, negli Spaniel e nei cani da ferma (Scott e Fuller, 1965). L’abilità nel lavoro dei Terrier era tale che i proprie-tari cominciarono a organizzare gare e scommesse fin tanto che alcune razze si specializzarono nel combattimento prima con altri animali e poi con altri cani. La tenacia e la velocità dei soggetti da caccia furono mescolate con la forza e la potenza del morso dei molossi, ottenendo gli antenati di Bulldog, Staf-fordshire, Pitbull e Bull-Terrier. Numerose sono le caratteristiche dei Terrier che li rendono adatti alla vita di città in veste di cani da compagnia, anche perché fin dalle origini venivano spesso tenuti in famiglia, all’interno delle mura do-mestiche, per il lavoro di bonificatori di cui sopra. Si tratta di cani dalla taglia abbastanza contenuta, l’aspetto accattivante, il carattere allegro e pronto al gioco anche in età avanzata. Se ben educati sono molto collaborativi, anche se la loro tenacia richiede un proprietario dotato di esperienza.

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Analizzando le vocazioni bisogna notare che spesso la soglia di attivazione per quanto riguarda i compor-tamenti competitivi è piuttosto bassa, mentre la com-battività è alta. L’istinto predatorio è molto ben svi-luppato. Tendono ad abbaiare con facilità e, a dispetto della piccola taglia, hanno un notevole biso-gno di muoversi e sono molto attivi ed eccitabili. Quasi tutte queste caratteristiche tendono ad essere ereditabili (Hart e Hart, 1988; Willis, 1995). La funzione del proprietario consapevole è quella di orientare queste vocazioni in maniera socialmente accettabile per sé e per gli altri. Specialmente i Terrier di tipo Bull (di taglia normale e nana), Staffordshire inglese e americano (cui si può aggiungere il Pitbull, anche se è una razza non rico-nosciuta) sono tendenzialmente molto competitivi con i conspecifici: l’attitudine a lottare all’ultimo sangue con le prede è stata trasferita nella lotta tra cani. È stato sovvertito il comportamento originario del lupo, che ritualizza le lotte interne al branco ren-dendole incruente per non minare l’efficacia predato-ria del branco (e quindi la possibilità di sopravviven-za) e sono stati selezionati soggetti che perdono facilmente la capacità di recepire i normali segnali di pacificazione dei loro conspecifici. Le tendenze competitive di questi cani sono generalmente indiriz-zate verso i conspecifici che sono uno stimolo prefe-renziale per scatenare un’aggressione, mentre il rap-porto con gli uomini è spesso ottimo, tanto da ren-derli piacevolissimi compagni per un proprietario che abbia saputo accreditarsi come centro referenziale.

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Gruppo IV. Bassotti Unica razza con nove varietà divise a seconda del ti-po di pelo (corto, lungo, ruvido) e di taglia (standard, nana, e kaninchen, ovvero più che nana). L’utilizzo era più o meno lo stesso dei terrier inglesi, ma sono stati selezionati in Germania. È un cane da caccia in tana per cui l’apparente deformità è risultata particolarmente utile per compiere questa attività. Si doveva introdurre in un cunicolo dove un animale come il tasso (Dachs in tedesco, da cui il nome della razza Dachshund) o altri nocivi come volpi, faine e così via, lottava per difendere la propria vita in una situazione in cui era impossibile fuggire. La preda doveva a volte essere uccisa direttamente dal cane, vista l’impossibilità per quest’ultimo di essere rag-giunto da parte del cacciatore. La dentatura dei bas-sotti è formidabile, quasi sproporzionata alla taglia. Estremamente sviluppato è il coraggio: sono cani ca-paci di lottare anche contro avversari di maggiore forza o dimensioni. Questa vocazione, che sarebbe suicida e scarsamente vantaggiosa ai fini della sopravvivenza in un animale selvatico, è stata ancora una volta esasperata e a volte è causa di problemi nei rapporti con i cani più grandi e forti (cioè quasi tutti). È bene ricordare che i bas-sotti di taglia standard (la maggioranza) per accedere alle competizioni devono superare almeno una prova attitudinale alla caccia, quindi questa vocazione è conservata e alimentata dagli allevatori ed è presente

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anche nei soggetti (la maggior parte) che non an-dranno mai a caccia. Mentre lavora, un bassotto deve comunicare ab-baiando al cacciatore dove è e cosa sta facendo, oltre al fatto di essere ancora vivo, quindi sarebbe un gros-so problema l’essere silenzioso e non abbaiare. Degno di nota il fatto che quelli che per un soggetto che lavora sono pregi (che vengono dunque ricercati e coltivati) come tenacia, impulso alla lotta, facile evocabilità dei comportamenti di aggressione, ten-denza ad abbaiare e così via, sono spesso fastidiosi difetti in un cane da compagnia e sono tutti conside-rati molto ereditabili (Hart e Hart, 1988; Willis, 1995). Essere un cane da lavoro, anche se con una notevole indipendenza, prevede comunque una certa disponi-bilità a collaborare con l’uomo e quindi i bassotti so-no cani che possono essere molto educati, anche se bisogna essere abbastanza attenti per diventare centro referenziale capace di reindirizzare la notevole ca-parbietà che li contraddistingue (se non fossero così cocciuti alla prima difficoltà uscirebbero dalla tana interrompendo la caccia). I loro pregi comunque sono considerevoli. I bassotti sono i cani più numerosi in Germania, patria, oltre che loro, del Pastore tedesco, leader incontrastato come numero di esemplari in quasi tutto il mondo. Il bassotto è vivace, affettuoso, giocherellone e attivo; non è pauroso o fragile e racchiude un’indole da cane grande in uno corpo piccolo. Sembra, inoltre, che vi siano piccole differenze tra le diverse varietà di pelo:

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i soggetti a pelo lungo mostrerebbero tracce dell’incrocio con gli Spaniels avendo un’indole più docile, specialmente se confrontati ai coriacei fratelli a pelo duro, più forti e competitivi.

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Gruppo V. Cani di tipo Spitz e primitivi Questo gruppo comprende i cani nordici, da slitta e da caccia, alcuni altri cani con morfologia simile (orecchie piccole ed erette, muso appuntito, pelo fol-to, coda più o meno arricciata e così via) di origine orientale, cinese e giapponese, o nord-europea, detti Spitz, e alcuni cani detti primitivi per la similitudine con il modello originario dei primi animali addome-sticati dall’uomo, straordinariamente simili alle raffi-gurazioni del cane di graffiti, geroglifici egizi e altre antichissime rappresentazioni. I cani nordici, in un recente passato, sono diventati improvvisamente comuni anche nelle nostre città perché diventati status symbol estremamente di mo-da. Questo fenomeno a dir poco deleterio ha portato in pochissime generazioni ad animali oggetto di una pressione selettiva molto spinta, tesa ad ottenere in-dividui adatti a diventare animali da compagnia in un ambiente per loro a dir poco ostile, confinati in un contesto radicalmente diverso da quello a cui si erano adattati. I cani da slitta, fisicamente perfetti per il clima proibitivo delle regioni artiche, trovano nei no-stri climi temperati o caldi il loro problema di adat-tamento principale. La convivenza tra cani e popolazioni artiche era mol-to stretta, ma il legame tra cani e uomini era fonda-mentalmente utilitaristico. I cani fornivano forza motrice, pelli, ausilio nella

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caccia e in casi disperati anche carne. Nel momento in cui la stagione non consentiva l’utilizzo delle slitte (la breve estate artica) i cani spesso venivano abban-donati a se stessi, o quasi, e si procacciavano il cibo cacciando o rovistando nelle discariche dei villaggi. Sopravviveva solo il più abile! A causa di un tale “passato prossimo”, provate a convincere un pur pingue e sazio Husky di città a non procacciarsi il cibo nel momento in cui avesse acces-so a un pollaio, a un secchio della spazzatura o a una bistecca incustodita! Quasi tutti i nordici non sono per niente competitivi nei confronti degli esseri umani, estranei o no, racco-gliendo lo spirito estremamente ospitale degli eschi-mesi. Quando vivevano in un deserto di ghiaccio tutti gli ospiti, in effetti molto rari, erano graditi. Il cane era spesso oggetto di scambio e non doveva essere troppo legato a un proprietario che probabilmente sa-rebbe cambiato più volte, tanto meno aveva senso che si attaccasse al territorio poiché vivevano come nomadi. La precarietà delle risorse vitali sicuramente scarse portava i cani a dover spesso combattere per esse, quindi una certa competitività è sicuramente presente, ma, come tra i lupi, rimanere gravemente feriti in scontri con membri del proprio stesso gruppo è deleterio alla sopravvivenza del gruppo stesso, quindi la capacità di ritualizzare gli scontri è molto sviluppata. L’indipendenza che in certe fasi della loro storia gli ha consentito di riuscire a sopravvivere può essere di ostacolo nel momento in cui cerchiamo di convincer-

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li che le nostre esigenze sono più importanti delle lo-ro (come per esempio quando chiediamo a uno di lo-ro di interrompere quello che sta facendo di diverten-te per venire da noi). Le peculiarità di questa razza sono: la notevole indi-pendenza, il fortissimo istinto predatorio, il bisogno di movimento, l’incapacità di fare la guardia. Questo garantisce loro un carattere affabile e scarsamente aggressivo nei confronti dell’uomo. Altre caratteristi-che sono: un repertorio di comunicazione amplissi-mo, il fascino della loro ancestralità e le indubbie ca-pacità sportive. Vi sono ovviamente differenze tra le diverse razze nordiche tra cui le più diffuse sono Siberian Husky, Alaskan Malamute, Samoiedo e Groenlandese. Tra le razze pure da slitta il siberiano è il più leggero e veloce ed è quello forse più reattivo. Ha un fortis-simo istinto predatorio. Tutte le specie con cui non è abbondantemente socializzato da cucciolo sono pre-dabili ed è un cacciatore molto efficace. Non fa asso-lutamente la guardia, accetta bene la vita di gruppo ed è sicuramente educabile anche se con una certa “difficoltà”. Il Malamute, di taglia decisamente più massiccia, impiegato per il traino pesante, è meno reattivo, più distaccato e placido del cugino siberiano e a volte è un po’ meno accomodante nei confronti dei conspe-cifici. Il Samoiedo è un cane con una storia “civilizzata” più lunga rispetto agli altri cani da slitta, e nel corso di questa storia ha potuto ricoprire di volta in volta

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ruoli diversi dal semplice traino, alla guardia, alla guida delle mandrie di renne, alla caccia e così via. Non si può definire uno specialista in nessuna disci-plina, ma le può svolgere più o meno tutte con risul-tati medi. Il Groenlandese è un vero cane da slitta per il traino pesante, non veloce ma estremamente resistente. Il suo carattere è piuttosto selvatico, poco adatto a una vita da compagno (visto che non lo è mai stato), do-veva solo trainare pesanti carichi sul pack. È molto competitivo con gli altri animali, poco collaborativo con l’uomo e ama cacciare. A proposito della capaci-tà di traino bisogna tenere conto che il tirare la slitta è un’attività complessa assolutamente appresa: è pos-sibile migliorare con la selezione la conformazione fisica in modo da ottenere soggetti massimamente idonei al loro lavoro, ma la capacità di tirare è co-munque frutto di apprendimento. Altri cani nordici completamente diversi per uso e indole sono i giapponesi, tra i quali il principale è l’Akita Inu, e il cinese Chow Chow. Il grande cane giapponese era usato per la caccia alla selvaggina di grossa taglia, per i combattimenti e per la guardia. Si tratta di animali tendenzialmente molto calmi e ri-flessivi, non particolarmente espansivi, sicuramente molto competitivi con i loro simili, diffidenti con gli estranei e dotati di una indubbia tendenza a manife-stare vocazioni offensive. Il cinese Chow Chow era un ausiliario polivalente le cui funzioni andavano dalla caccia alla guardia, senza escludere la produzione di carne e pellicce. Sicura-

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mente un carattere affabile non era tra le caratteristi-che che interessavano i selezionatori cinesi, più che altro interessati ad avere un ausiliario adattabile ai diversi lavori, ma non bisognoso di grosse capacità socio-cognitive e collaborative per svolgerli. Nel rapporto con il proprietario sono discreti e digni-tosi, abbastanza distaccati e decisamente non tolle-ranti verso le manipolazioni. Altro gruppo quello degli Spitz tedeschi, a cui si può assimilare il volpino italiano, di cui esistono diverse taglie (nana, piccola, media e grande), molto simili strutturalmente e caratterialmente. Sono cani la cui funzione principale, oltre alla compagnia, era quella di avvisare il gruppo di qualunque intrusione nel ter-ritorio. La soglia di attivazione a qualunque stimolo è superiore alla media e la tendenza ad abbaiare, anche eccessivamente, è presente. Sono comunque soggetti molto piacevoli per la stessa vivacità che in alcuni casi è il loro difetto. I cani primitivi come Basenji, Podengo spagnolo e portoghese, Cirneco dell’Etna e altri sono estrema-mente simili ai primi cani domestici per forma e atti-tudine. Il loro aspetto in genere è stato preservato da un contingente isolamento geografico. Sono quasi tutti cani da caccia. Il livello di domesticazione è si-curamente più basso rispetto a quello di razze più “sofisticate” dall’uomo. Sono indipendenti e istintivi, con un marcato istinto predatorio, nonostante la loro caccia non fosee sportiva ma fondamentale all’approvvigionamento alimentare dell’uomo.

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Gruppo VI. Segugi e cani per pista di sangue Se già nella specie canina l’olfatto è un senso molto importante, in queste razze lo è ancora di più. Fin da cuccioli, comparati agli individui di altre razze, privi-legiano l’uso dell’olfatto rispetto agli altri sensi e la loro abilità nel seguire le tracce è già significativa-mente maggiore rispetto a quella di altri cani, come per esempio i Terrier (Scott e Fuller, 1965). I segugi devono localizzare una traccia e mantenerla con costanza, anche in condizioni di difficoltà, se-guendo debolissime emanazioni. Caratteristica indi-spensabile è una solida tenacia, ai limiti della cocciu-taggine. Durante la caccia i segugi mantengono un legame non molto stretto con il cacciatore, con cui comuni-cano a distanza tramite un uso articolato della voce. Il cane dispone di una certa libertà di decisione e in-dipendenza nel lavoro che conserva anche nella vita quotidiana. Molti segugi collaborano in squadra, di-videndosi i ruoli come degli specializzati battitori, sono quindi cani in grado di vivere in gruppo. Pur con differenze tra razza e razza, la tendenza a lot-tare dei segugi è bassa posto che sarebbe contropro-ducente per animali che devono vivere in gruppo. La fase ipertrofizzata della sequenza predatoria è l’inseguimento, che può prevedere anche complesse tecniche di accerchiamento volte a indirizzare la pre-da a portata del cacciatore che è il centro referenziale della muta.

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Mentre molti segugi non portano a termine la preda-zione ma si limitano ad inseguire (poiché la sequenza predatoria si è arrestata a livello dell’inseguimento), altri possono avere anche il morso per afferrare o ad-dirittura la sequenza completa (escluso forse il con-sumo finale della preda). Tuttavia, si osservano differenze nella propensione alla lotta a seconda del tipo di selvaggina verso cui si sono specializzati: quelli che vengono usati prevalen-temente per cacciare la lepre, ed eventualmente il ca-priolo, sono meno combattivi e meno portati a mette-re in atto comportamenti di aggressione rispetto ai cani usati con cinghiali, volpi e altri animali di taglia maggiore e indole più minacciosa (puma, giaguaro, leone e così via). I segugi sono prevalentemente cani da lavoro, ten-denzialmente piuttosto specializzati per il tipo di pre-da cacciata e per le tecniche utilizzate. La conforma-zione dei repertori comportamentali si basa più sulla componente istintiva, geneticamente trasmessa da una generazione all’altra, che non sugli apprendi-menti conseguiti attraverso tecniche istruttive. Sicuramente sono cani meno versatili e plastici nell’educazione rispetto ai pastori o ad altri cacciatori come i Retrievers, gli Spaniels o i cani da ferma. Questi soggetti potrebbero rivelarsi non proprio adat-ti come compagni “di casa”. Riassumendo: tra le caratteristiche dei segugi posso-no essere problematiche la caparbietà, l’indipen-denza, il fortissimo impulso a seguire tracce odorose

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e la tendenza ad abbaiare. Tra i vantaggi si possono elencare la bassa aggressività e la facilità a vivere in un gruppo (anche di umani). Vi sono notevoli differenze nell’adattabilità a vivere in casa come cani da compagnia tra i soggetti appar-tenenti a razze prettamente da lavoro o a linee di san-gue usate solo per la caccia, rispetto a quei cani che da più tempo sono approdati ai salotti per un aspetto fisico particolarmente accattivante (le orecchie pen-dule che caratterizzano tutto il gruppo hanno un forte fascino). Tra i più diffusi segugi “da compagnia” troviamo il Beagle e il Bassethound, entrambi cani piacevolissi-mi per la vita in famiglia ma non privi di problemi. Gli individui appartenenti a dette razze hanno un tale impulso a seguire il proprio naso che costringono molti proprietari a tenerli permanentemente al guin-zaglio quando sono all’aperto in quanto “sordi” ad ogni richiamo (più il Beagle che non il Basset). Tra i segugi è stato inserito per una certa affinità morfologica anche il Dalmata che però non è prati-camente mai stato impiegato dall’uomo nella caccia, mentre veniva utilizzato per accompagnare le carroz-ze e difenderle da eventuali aggressioni. Altra vittima eccellente della moda per il suo mantel-lo unico e la pubblicità di alcuni film, questo splen-dido cane è stato spesso oggetto di adozioni avventa-te e conseguenti abbandoni. Non tutti, infatti, sono preparati a orientare il dispendio di inesauribili ener-gie di un cane nato per fare chilometri di corsa e co-stretto a percorrerli in un appartamento cittadino.

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Diverse razze di segugi sono presenti in più versioni di taglia e pelo, per adattarsi meglio nello stile di la-voro alle esigenze di seguita dei disparati tipi di sel-vaggina, agli ambienti e anche ai cacciatori. La ridu-zione della taglia spesso è ottenuta non con una diminuzione assoluta, ma con l’accorciamento degli arti, conservando e selezionando in purezza i portato-ri di una mutazione casuale. I cani così ottenuti, detti “bassetti” (Bassethound, Basset Artesian Normand, Basset Ardeane Vandeen e così via) sono più lenti e riflessivi e meglio si adattano a un cacciatore che va a piedi (le mute di segugi in origine erano seguite a cavallo) o ad una persona che non va a caccia ma si limita a passeggiare. Altro segugio sui generis è il Rodesian Ridgeback, cane africano ottenuto mescolando segugi occidentali con cani da caccia locali, specializzato nella caccia al leone e ad altre prede di grosse dimensioni (successi-vamente il suo ardore nella seguita e la sua combatti-vità sono stati utilizzati nel barbaro lavoro dell’inseguimento degli schiavi fuggiti). È caratteriz-zato da un maggior coraggio e da una più spiccata competitività.

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Gruppo VII. Cani da ferma Queste razze sono state selezionate dall’uomo che ha cominciato a cacciare con le reti e, successivamente, con il fucile. Il cane doveva localizzare il selvatico, quasi sempre di penna, inseguirlo e spingerlo a porta-ta del cacciatore, indicando con precisione dove si trovava con una postura abbastanza spettacolare detta ferma, che consiste nell’esasperazione dello sguardo fisso che precede l’aggressione nella sequenza preda-toria ancestrale. Ovviamente per poter vedere ciò che il cane indicava il cacciatore doveva essere vicino, quindi il legame tra uomo e cane doveva essere mol-to stretto. L’istinto predatorio è forte, ma l’impulso a seguire la selvaggina non è tale da far perdere al cane il collegamento con il proprietario centro referenzia-le. La sequenza predatoria si arresta alla fase di sguardo fisso o, eventualmente, al “morso per afferrare” mes-so in atto quando il cane deve recuperare la selvaggi-na uccisa e riportarla. Impulsività, reattività e combattività sono da medie a scarse perché controproducenti nel compito. Il cane deve bloccare la predazione limitandosi allo sguardo fisso e non deve avventarsi sull’animale finché non riceve il segnale per lo sfrullo (messa in movimento del volatile). Deve essere poco possessivo e suffi-cientemente collaborativo da consegnare una risorsa interessante come una preda appena uccisa al caccia-tore anziché mangiarla. Anche la combattività verso

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gli altri cani deve essere bassa perché spesso caccia-no in piccoli gruppi, magari assieme ad altri cani specializzati in funzioni diverse (come per esempio il riporto) e comunque vengono in contatto con loro conspecifici durante le battute. I cani da ferma sono divisi in inglesi (i tre Setter: in-glese, irlandese e Gordon; il Pointer) e continentali (numerosi bracchi delle varie regioni europee). I sog-getti appartenenti alle razze continentali a volte sono meno specializzati sulla selvaggina di penna e più fa-cilmente devono compiere anche il lavoro di riporto. Gli standard di lavoro di diversi bracchi tedeschi considerano non difettoso il comportamento di un cane che insegue, cattura ed uccide una preda da pelo durante la caccia. Questo maggiore completamento della sequenza predatoria ancestrale può riemergere più facilmente nei cani da ferma tedeschi rispetto ai soggetti di razze britanniche. Durante la cerca un cane da ferma non ha bisogno di abbaiare per comunicare al cacciatore dov’è, poiché è sempre in vista. Inoltre non deve allarmare il selvati-co facendolo alzare in volo prima che sia sotto il tiro del fucile. Quindi, i fermatori abbaiano poco. Molti cani da ferma hanno un aspetto molto piacevo-le ed elegante. Questo ha favorito lo sviluppo di linee di sangue in cui le caratteristiche estetiche erano più importanti delle effettive capacità venatorie, così come è anche accaduto il contrario, ovvero cani da caccia bravissimi ma effettivamente poco rispondenti ai canoni morfologici delle razze di appartenenza.

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Per alcune razze la differenza tra i soggetti da lavoro e le linee di bellezza è diventata enorme e bisogna necessariamente tenere conto dell’attitudine della li-nea di sangue dell’individuo che prendiamo in consi-derazione.

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Gruppo VIII. Cani da riporto, da cerca e da acqua Anche questo gruppo è formato prevalentemente da razze di cani usati originariamente nella caccia, spe-cificamente per il ritrovamento della selvaggina ab-battuta e per il suo recupero anche in acqua (Retrie-vers) o per lo scovo senza ferma (Spaniels). Tra questi cani sono comprese alcune tra le razze più diffuse al mondo come Labrador, Golden Retriever e Cocker Spaniel (inglese e americano), tutte ampia-mente impiegate anche per compiti molto diversi dal-la caccia, che spaziano dalla semplice compagnia, al servizio di guida per i ciechi, all’assistenza ai disabili e ai non udenti. Della sequenza predatoria i Retrievers hanno conser-vato solo la fase di localizzazione e il morso per af-ferrare. Lo sconfinamento nella fase successiva, il morso per uccidere, si traduce in un difetto grave det-to “bocca dura”, che ha base genetica ed è quindi molto difficile da correggere. (Coppinger, 2001). Il lavoro originario del Retriever prevedeva che cer-casse il selvatico abbattuto, lo recuperasse anche dall’acqua e lo riconsegnasse intatto al cacciatore. Questo altruistico intento prevede che il cane accetti incondizionatamente le prerogative di possesso del leader/proprietario su una risorsa allettante come un animale morto. La docilità (disponibilità a collabora-re) di questi cani è sicuramente molto sviluppata. Qualunque forma di competitività, anche verso gli

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altri cani (con cui spesso doveva andare a caccia), è stata scartata nei programmi di selezione. Chiara-mente questa reattività li rende poco adatti al lavoro di guardia e difesa personale. Quasi tutti i Retrievers sono molto versatili nello svolgere attività collaborative e sono adatti anche per compiere compiti complessi e non naturali per il ca-ne. Le abilità istintive non sono molto sviluppate a vantaggio della versatilità nell’apprendimento di compiti nuovi e articolati attraverso capacità socio-collaborative e cognitive concertate con l’umano. Gli Spaniels sono cani da cerca, prevalentemente usati su selvaggina da penna, che battono il terreno con il naso a terra per trovare il selvatico e farlo pas-sare davanti al fucile del cacciatore. Non fermano e non abbaiano, ma usano molto la coda per comunica-re la distanza della preda (modificando frequenza e tipo di scodinzolio). Visto il tipo di comunicazione il collegamento tra cane e padrone deve essere molto stretto. Tra i cani da caccia possessività e competitività sono molto basse perché controindicate per il lavoro (gli Spaniels spesso devono anche riportare). Il Cocker ha avuto negli anni passati un vero e pro-prio boom, diventando improvvisamente di moda (specialmente nella varietà fulva), e ha risentito della produzione in massa di soggetti non selezionati né morfologicamente né caratterialmente. Sembra che ci sia stata in passato una popolazione di Cocker, in particolare a mantello unicolore (Willis, 1995), che

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manifestava problemi di natura aggressiva, ma oggi che la razza non è più di moda la selezione ha recu-perato il carattere originario, affabile e docile. Il Cocker americano, leggermente più piccolo di ta-glia e con un mantello decisamente più lungo e im-pegnativo per la toelettatura, è oramai unicamente un cane da compagnia, meno reattivo del cugino inglese ma anche meno collaborativo con l’uomo. Vi sono diversi altri Spaniels meno diffusi, come gli Springer, inglese e gallese, il Clumber, il Field e altri che, pur con differenze nello stile e nella velocità di lavoro, sono abbastanza simili nell’indole e nella so-glia di attivazione. Si tratta di cani che anche se non utilizzati nel loro lavoro originario possono essere ot-timi compagni, a patto che gli si consenta di svolgere le necessarie attività all’aperto per un tempo suffi-ciente. Per uno Spaniel una passeggiata in campagna con il proprietario non differisce molto da una battuta di caccia. La tendenza ad allontanarsi non è troppo accentuata. I rapporti con i conspecifici sono in gene-re buoni e non competitivi.

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Gruppo IX. Cani da compagnia Questo raggruppamento raccoglie numerose razze di origine e conformazione anche molto diversa, accomunati da caratteristiche che li rendono adatti come cani da compagnia. La taglia è in quasi tutti questi cani inferiore alla me-dia, per rendere meno impegnativa la gestione in ca-sa. La struttura morfologica è in genere quella di altri cani da lavoro, però miniaturizzata. Selezionando i soggetti di taglia più piccola si è sconfinato a volte nel nanismo, più o meno armonico. Abbiamo animali con occhi grandi e rotondi, spesso in posizione fron-tale, teste tondeggianti e grandi in proporzione al corpo, denti piccoli e musi corti. Questo tipo di con-formazione si avvicina molto a quella dei cuccioli di tutti i mammiferi e innesca nell’uomo istinti innati di protezione e cura. Spesso anche il carattere mantiene una conformazione neotenica; questi cani conservano comportamenti infantili come la richiesta di attenzio-ni, la propensione al gioco e lo scarso istinto predato-rio. Non avendo mai dovuto lavorare, tendenzialmen-te non sono particolarmente abili a svolgere attività complesse con l’uomo (fanno eccezione i barboni) e nemmeno possiedono repertori istintivi (come per esempio i Terrier e i bassotti). Abbiamo lupoidi, Spaniels e molossoidi di piccola taglia, versioni ridotte dei fratelli maggiori che ne ri-prendono parzialmente anche le caratteristiche attitu-dinali.

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I cani con conformazione braccoide, anche se ridotti ad una taglia nana, magari con gambe corte, sono per esempio Bichon, Bolognesi, Maltesi e i barboni stessi (in tutte le varianti di taglia). I cani di origine orientale come Pechinesi, Shih-Tzu, Lhasa Apso, Chin Giapponese e Spaniel Tibetano sono sempre molto reattivi, specialmente agli stimoli sonori, ma hanno un livello di attività generale più basso (specialmente Pechinesi e Shih-Tzu). I molossoidi di piccola taglia come Carlino, Boule-dogue francese e Boston Terrier sono decisamente pigri e poco reattivi anche se possono avere una maggiore propensione al confronto con gli altri cani e a volte possono essere anche competitivi (derivano pur sempre da mastini). Vicini ai piccoli molossi, con cui probabilmente di-vidono le origini, ci sono i Griffoncini belgi, in tutte le varietà di mantello, che caratterialmente somiglia-no molto ai mini mastini. I piccoli Spaniels da compagnia (Cavalier e King Charles) riprendono il piacevole carattere docile e ar-rendevole degli antenati da caccia. Sono poco reatti-vi, poco attivi e poco competitivi. Al di là delle caratteristiche morfologiche, influenza-te dal senso estetico dei selezionatori originari indi-pendentemente dalla loro funzionalità, i cani da com-pagnia sono frutto di un processo di selezione molto condizionato dalla loro conformazione comporta-mentale. I comportamenti sociali, in particolare verso l’uomo, sono sempre stati fondamentali per la soddi-sfazione del proprietario che decideva di prendere un

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cane da compagnia, forse molto di più che non in al-tri cani prettamente con linee da lavoro. Quando si prendono in esame i cani da compagnia non si può non tenere in considerazione il fatto che molto spesso sono costretti a vivere in un contesto, quello delle città moderne, estremamente diverso dall’ambiente in cui si è sviluppato il loro progenito-re. Le esigenze etologiche della specie sono spesso trascurate a vantaggio di una più o meno consapevole soddisfazione di fabbisogni di socializzazione umani. A volte, per vicariare altre carenze relazionali, su questi piccoli animali vengono proiettati trasporti af-fettivi squilibrati. Questo processo spesso è accom-pagnato da una forte antropomorfizzazione, etica-mente piuttosto discutibile, che può portare a erronee interpretazioni dei moduli di comunicazione della specie. Le modalità di allevamento di questi piccoli cani e la loro gestione da adulti spesso non consentono il cor-retto sviluppo dei repertori relazionali canini, che hanno sì una base genetica, ma che richiedono un percorso di apprendimento e affinamento. Si possono avere anomalie dei comportamenti sociali intraspeci-fici, come per esempio quelli sessuali e materni, sca-valcate attraverso fecondazione assistita e allattamen-to artificiale. Viene così consentita la riproduzione di individui “biologicamente perdenti” perché inadatti alla conservazione della specie. Fortunatamente, una gestione rispettosa dei periodi sensibili e dei processi di socializzazione intra ed in-terspecifica può ancora recuperare repertori profon-

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damente radicati nel patrimonio genetico e un pro-gramma di allevamento responsabile può ottenere in-dividui adatti a compiere il loro importantissimo la-voro di compagni. Esattamente come la selezione artificiale ha prodotto per esempio cani da slitta fisicamente e psichicamen-te conformati per affrontare al meglio il traino, un analogo processo d’incroci programmati ha dato co-me risultato cani adattati all’ambiente urbano e al ti-po di vita a questo connesso. I cani di città difficil-mente svolgono lavori impegnativi, anzi nel corso della giornata non hanno quasi mai niente da fare. Spesso il cane trascorre la maggior parte del tempo in presenza di qualcuno, ma senza avere particolari re-lazioni o interazioni. Un compagno cittadino ideale non deve essere particolarmente reattivo e non deve rispondere negativamente a un contesto monotono o povero di stimoli ambientali e relazionali. Ciò nonostante va osservato che il naturale bisogno del cane di svolgere attività collaborative o avere in-terazioni sociali, se non soddisfatto, può essere sosti-tuito con comportamenti indesiderabili sia di tipo di-struttivo che di tipo depressivo. Costringere a una vita di inattività un cane da lavoro è una decisione che dovrebbe essere profondamente ponderata (e se possibile evitata). Al contrario, si può ipotizzare che un cane da compagnia possa trarre un livello accettabile di benessere da una bella passeg-giata e da un cuscino di fianco alla scrivania del pa-drone.

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Gruppo X. Levrieri I levrieri sono forse i cani di razza più antichi. Han-no sostanzialmente conservato inalterata la loro for-ma nei secoli, caso abbastanza unico nel panorama delle razze canine che si sono evolute nel corso della loro storia, cambiando sensibilmente anche nel giro di pochi decenni. Esistono rappresentazioni di cani quasi identici agli attuali fin dai geroglifici egizi, passando per affreschi rinascimentali e stampe otto-centesche. Il gruppo è decisamente omogeneo: cambiano da una razza all’altra quasi solo la taglia e il mantello. La forma è costante perché determinata dalla funzione, che è quella di sviluppare la velocità massima nella caccia ad inseguimento a vista. Il tipo di preda e il clima della regione geografica di origine hanno in-fluenzato le dimensioni e la lunghezza del pelo: i ca-ni che cacciavano piccoli animali come lepri e gaz-zelle sono più leggeri e piccoli, quelli che si dovevano cimentare contro lupi, cinghiali, leopardi o cervi hanno sviluppato ovviamente una taglia più co-spicua. Esistono due ceppi di levrieri: gli orientali (Saluki, Sloughi, Azawak e Afghano) e gli europei (Greyhound, Deerhound, Irish Wolfhound, Whippet, Piccolo Levriero Italiano, Borzoi Russo, Galgo Spa-gnolo, Magiar Agar e Levriero Polacco).

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I cani orientali si differenziano l’uno dall’altro più che altro per la lunghezza del mantello. Sono caratte-rizzati da linee spigolose, con dorsale orizzontale e rettilinea, orecchie pendenti, e hanno un’indole più selvatica dei cugini europei. Sono discendenti diretti di cani utilizzati per la caccia e tenuti unicamente per questa funzione. I musulmani hanno un rapporto ab-bastanza ostile con i cani, e i levrieri sono un’eccezione a questa repulsione unicamente per la loro utilità nella caccia. Venivano persino ammessi nelle tende, per condividere la spartana vita dei loro proprietari nomadi. Il tipo di caccia era abbastanza istintivo, non particolarmente curato nell’aspetto sti-listico e non bisognoso di competenze specifiche del cane. La preda veniva localizzata dai cacciatori a ca-vallo, eventualmente con l’aiuto di falchi, e a quel punto venivano liberati i levrieri, i quali inseguivano e atterravano l’animale che spesso restava tramortito dalla violenza dell’impatto ad alta velocità e veniva poi ucciso dai cacciatori (il corano vieta l’assunzione di carni di animali che non siano stati macellati dall’uomo per iugulazione). Dal punto di vista comportamentale, le peculiarità dei levrieri orientali sono quindi l’istinto predatorio mol-to marcato, che li porta ad inseguire (e raggiungere) qualunque cosa si muova, il carattere riservato e ab-bastanza timido, l’essere poco gratificati dai contatti fisici e non molto tolleranti verso le manipolazioni. Nei confronti degli altri cani non sono particolarmen-te portati a competere, potendo anche cacciare in

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coppie o piccole mute, e non sono combattivi. Le loro capacità socio-collaborative con l’uomo ri-sultano essere piuttosto scarse. La tendenza a vocalizzare è bassa, anche se per la lo-ro naturale diffidenza verso gli estranei possono esse-re dei discreti guardiani. I levrieri europei, tra cui i più numerosi sono Greyhound e Whippet, hanno linee più flessuose, dorsale curvilinea, orecchie a rosa, mantello raso o ruvido. La caccia coi levrieri è stata oramai eliminata ed eventualmente sostituita con forme di sport quali Coursing (di campagna) e Racing (su pista). Fin dagli albori della razza i levrieri erano appannaggio delle classi aristocratiche presso le quali erano tenuti in grande considerazione (era vietato possedere levrieri alle classi inferiori) e spesso condividevano le son-tuose abitazioni con i loro proprietari. Anche l’aspetto caratteriale era quindi seguito e coltivato nella selezione. Pur essendo sempre cani diffidenti, i levrieri europei sono più docili degli orientali e ancor meno competi-tivi verso i conspecifici, poiché durante le corse at-taccare altri concorrenti è un comportamento pena-lizzato pesantemente. Possono sorgere problemi per aggressioni verso pic-coli cani, scambiati per prede, oltre che ovviamente verso gatti, conigli e animali da cortile o selvatici. L’impulso all’inseguimento è sempre marcatissimo, la tendenza a vocalizzare scarsa e la tolleranza alle manipolazioni maggiore di quella dei parenti orienta-

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li. La tendenza ad usare l’olfatto è decisamente scar-sa in queste razze. Se si garantisce loro la possibilità di muoversi quoti-dianamente all’aperto, i levrieri, specialmente di cep-po europeo, sono cani abbastanza adatti alla vita di città per l’indole silenziosa, discreta e fondamental-mente abbastanza pigra e poco combattiva.

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Conclusioni Il comportamento originario del cane ancestrale/lupo è andato notevolmente modificandosi attraverso l’ipertrofizzazione o l’eliminazione di schemi motori già presenti e con la comparsa di comportamenti nuovi. Questo processo è stato possibile grazie a un pro-gramma di selezione dei riproduttori che dimostrava-no di possedere al meglio le caratteristiche desidera-te. Nel passaggio da una generazione all’altra è stata alterata la frequenza di comparsa di determinati feno-tipi comportamentali. Nel corso della selezione arti-ficiale è possibile procedere per migliorare un parti-colare carattere, ma questo non sarà quasi mai l’unico a modificarsi. Questo fenomeno è stato documentato da un esperi-mento iniziato negli anni ’50 e che continua ancora ai giorni nostri. Lo scienziato russo Dmitry Konstanti-novich Belayev ed il suo staff iniziarono all’interno di un grande allevamento di volpi da pelliccia (volpe argentata, Vulpes vulpes) in Unione Sovietica un progetto di miglioramento genetico. Belayev voleva scoprire se selezionando solo la caratteristica della docilità fosse possibile indurre un processo di dome-sticazione. Le volpi usate all’inizio dell’esperimento erano molto diffidenti nei confronti dell’uomo e mo-stravano comportamenti aggressivi. Le volpi, nei primi mesi di vita, avevano contatti ripetuti con l’uomo, che consistevano nella somministrazione del cibo e nella manipolazione.” Nel giro di un numero relativamente ridotto di gene-

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razioni (30 generazioni e meno di 40 anni) egli ot-tenne animali geneticamente domestici, che anziché aggredire o fuggire cercavano spontaneamente il con-tatto con gli esseri umani. Ma insieme a questo cambiamento se ne verificarono altri non previsti: comparvero caratteristiche fisiche nuove e non desiderabili, non presenti nei riprodutto-ri originari, come le orecchie cadenti, la coda arric-ciata e, ancor peggio, il mantello pezzato (Coppinger e Coppinger, 2001). Accanto a queste caratteristiche macroscopiche, le misure dei livelli ormonali di questi animali testimo-niarono una grossa diminuzione degli ormoni tiroidei e dei corticosteroidi (come il testosterone), i tipici ormoni dell’aggressività e della paura. Questo studio dimostra quanto un processo di sele-zione “coi paraocchi” porti inesorabilmente alla comparsa di un fenotipo nuovo o almeno non previ-sto. Purtroppo questo criterio è quello che prevalen-temente è stato applicato nell’allevamento canino ne-gli ultimi decenni. L’aspetto morfologico dei riproduttori è praticamente l’unico elemento preso in considerazione e la conse-guenza di ciò è la nascita di soggetti che possono ri-sultare affetti da patologie sia di natura organica sia della sfera di tipo comportamentale. Sarebbe auspicabile un’inversione di tendenza nell’allevamento canino, che prevedesse una valuta-zione delle doti comportamentali dei cani prima di avviarli alla riproduzione. Attualmente la regolamen-

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tazione italiana, delegata per decreto ministeriale all’ENCI, non prevede controlli obbligatori per l’iscrizione ai libri genealogici, nemmeno per il con-trollo delle malattie genetiche “somatiche”. Alcuni club di razza hanno previsto norme restrittive per il conseguimento di riconoscimenti e titoli, ma la per-centuale sulla popolazione di soggetti controllati è molto scarsa e tutto è affidato alla coscienza (e alle tasche) degli allevatori più coscienziosi. Dovrebbe essere ben differenziato il risultato frutto di una visita di medicina comportamentale (n.d.r.), rispetto a quello di una prova di lavoro, che è il frutto di uno specifico addestramento e quindi non trasmis-sibile alle generazioni successive (Willis, 1995). Pur essendo ormai innegabile una forte influenza ge-netica sulle vocazioni caratteriali degli individui, non si può prescindere dalle condizioni in cui si svolge la prima parte della vita del cane. Le esperienze precoci, modulate dalla reattività indi-viduale, sono alla base dell’omeostasi sensoriale del cane. Un cane geneticamente perfetto ma non corret-tamente arricchito cognitivamente nella fase della sua vita in cui dovrebbe acquisire le competenze di socia-lizzazione, ha elevate possibilità di sviluppare pato-logie del comportamento. Studi retrospettivi sulla correlazione tra luogo di sviluppo e problemi com-portamentali insorti successivamente hanno stabilito che c’è un legame statisticamente significativo tra luogo e modalità di allevamento (allevamenti inten-sivi, allevamento famigliare, canili e rifugi, negozio di animali e così

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via) e patologie comportamentali (Serpell e Jagoe, 1995). Da ciò si evince quanto le responsabilità degli alleva-tori siano rilevanti.