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1 Tra curiosità e storia: la Provincia di Pavia dall’A alla Z Progetto n° 3 realizzato dagli alunni delle cl. 1^ C, 2^ C, 2^ F e 3^ C , e coordinato dalle Prof.sse Marenghi Annamaria e Cremaschi Maddalena a.s. 2012/13 Scuola Secondaria di 1° grado “F. Crispi di Pieve Porto Morone Istituto Comprensivo di Chignolo Po Dirigente : Dott.ssa Lanati Loredana

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Tra curiosità e storia:

la Provincia di Pavia dall’A alla Z

Progetto n° 3 realizzato

dagli alunni delle cl. 1^ C, 2^ C, 2^ F e 3^ C , e coordinato

dalle Prof.sse Marenghi Annamaria e Cremaschi Maddalena a.s. 2012/13

Scuola Secondaria di 1° grado “F. Crispi di Pieve Porto Morone

Istituto Comprensivo di Chignolo Po Dirigente : Dott.ssa Lanati Loredana

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Dopo i progetti:

“Progetti per riflettere”, realizzato nell’a.s.2007/08,

“Detti dialettali della cultura contadina pievese”, realizzato nell’a.s.2008/09,

“Filastrocche contadine” ; realizzato nell’a.s.2009/10,

“Leggende pievesi”, realizzato nell’a.s.2010/11,

“Leggende pavesi”, realizzato nell’a.s.2011/12,

quest’anno,

continuando il nostro lavoro di ricerca sulle storie locali,

abbiamo rivolto l’attenzione alle leggende

su tutta la provincia di Pavia,

con “Tra curiosità e storia: la Provincia di Pavia dall’A alla Z”.

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Qualche notizia sui nostri paesi

ALBUZZANO

Dal latino Albutius, considerato il fondatore del borgo, citato nel 969, come appartenente al

monastero di S. Salvatore di Pavia; dopo la battaglia di Pavia, subì varie dominazioni: francese,

spagnola, austriaca, fino alla nascita del Regno d’Italia.

Personaggi illustri

Cesare Angelini

Nato ad Albuzzano nel 1886, fu sacerdote, educatore, poeta e scrittore rinomato ed incisivo; fu

segretario del vescovo di Cesena, cappellano militare durante la 1^ guerra mondiale, rettore del

Collegio Borromeo di Pavia dal 1939 al 1961; morì nel 1976. Fu uno studioso del Manzoni e tra le

sue opere ricordiamo Il dono del Manzoni, Invito al Manzoni.

I tosati della Madonna Un tempo, nel giorno della festa del patrono, si portavano i bambini dal barbiere perché fossero

rapati a zero; gli abitanti pensavano che la rasatura portasse fortuna.

Per tradizione religiosa era la Madonna della parrocchia a portare fortuna; quando il vescovo

Angelo Peruzzi, nel 1576, si recò in visita nel paese, il parroco gli riferì che nel giorno della

Madonna le madri facevano radere i figli e il vescovo, ritenendo ciò una superstizione, ordinò di

sospendere quell’abitudine. La tradizione della tosatura risalirebbe ai Longobardi: il taglio dei

capelli e della barba erano simboli di alleanza e di sottomissione. Desiderio, ultimo re longobardo

inviò un suo figlio alla corte carolingia di Pipino il Breve con la testa rapata, in segno di resa e di

pace.

ARENA PO

Il toponimo, in dialetto Réina, è un derivato da arena, ”sabbia,” giustificabile per la vicinanza

dell'abitato al fiume Po.

Arena: il reperto preistorico! Grazie ad Arena Po l'Italia vanta, dal 1993, il suo primo reperto di animale preistorico: un

pleisosauro, grosso rettile marino. Per Arena Po non si tratta del primo ritrovamento perché, nella

zona, è stato portato alla luce di tutto: scheletri di elefanti, di ippopotami e perfino un cranio di

femmina di megacero, un enorme cervo.

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La leggenda del vino Buttafuoco

Si racconta che durante la 2^ Guerra d’Indipendenza (1859), una divisione austriaca di marinai fu

inviata nei pressi di Arena Po, con il compito di traghettare i soldati da una riva all'altra del Po.

Quando fu deciso di spostarli sotto il comando delle truppe di terra, i marinai, non contenti della

nuova destinazione, si nascosero in una cantina tra le colline sopra Stradella e lì si ubriacarono col

vino rosso. Pochi mesi dopo, la marina austro-ungarica varò una nave chiamata Buttafuoco; il tipo

di vino che i marinai avevano bevuto si chiamò allora Buttafuoco.

BADIA PAVESE

Fino al 1928 era denominata Caselle Badia, da cui il nome Casè o Casel ancora usato, ma il

comune è citato anche solo come Badia. Possiede origini molto antiche e sono state portate alla

luce tombe di età protovillanoviana; il nome del borgo è spesso citato in documenti d'età

medioevale, feudale e comunale.

BELGIOIOSO Nel 1377 era Castro Zojoso, indicante un luogo di villeggiatura, un castello, riserva di caccia dei

Barbiano e poi dei Belgioioso.

Il paese è citato per la prima volta nell'età comunale. Nel XIV sec. Galeazzo II Visconti edificò il

castello ( è attribuito a lui) e l'acquedotto; mancano però documenti attestanti l’anno di fondazione.

Nel 1431 divenne feudo di Alberico da Barbiano, nel 1475 fu affidato a Ercole d'Este e nel 1524,

dopo un breve periodo di governo di Vespasiano Colonna ritornò, nel 1536, alla famiglia Barbiano

che prese il nome del paese, Belgioioso. Nel 1769 il feudo divenne principato e nel 1700 furono

aggiunti al castello altre costruzioni, ma con stili diversi. Presso il castello furono ospitati il re

francese Francesco I nel 1525 (per una notte, quando fu fatto prigioniero dopo la battaglia di

Pavia) e nei secoli successivi gli scrittori Giuseppe Parini e Ugo Foscolo.

I Brusacrist Belgioioso: il nome del paese fa pensare a cose belle e gioiose, ma il soprannome dei suoi abitanti,

al contrario, è spaventoso e terribile: “ i brusa Crist”. Il motivo di questo risale a un fatto accaduto

molti anni fa, quando già vi era l'usanza di baciare il volto di Cristo morto in croce, esposto nel

giorno del Venerdì Santo.

A Belgioioso, prima della processione, nello scurolo ( la cripta sotto l'altare maggiore) la folla era

in fila in attesa di baciare il Cristo; vi era un giovanotto dai lunghi e folti capelli, di cui si vantava.

Giunto il suo turno, si inginocchiò devotamente, ma s'inchinò troppo e, al momento di rialzarsi, la

lunga capigliatura restò impigliata nella croce. Il giovane cercò in ogni modo di liberarla, ma senza

riuscirci; sembrava trattenuto come in una morsa tra le dita delle mani di Cristo. Ogni tentativo di

liberarsi fu vano, così come inutile fu l’aiuto dei presenti, silenziosi e stupiti per quanto accadeva; i

capelli sembravano ingarbugliarsi ancora di più! L'unica soluzione fu quella di tagliarli! Il giovane,

disperato per aver perso, come il biblico Sansone, quella che lui considerava la sua ricchezza e la

sua bellezza, trasformò subito in ira e odio contro il crocifisso la sua devozione e, come un pazzo,

urlando e piangendo, corse fuori dalla chiesa e per tutta la notte diede fuoco ad ogni crocifisso che

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trovava nelle chiese, nelle piazze, in ogni angolo.

Da quel giorno gli abitanti di Belgioioso sono chiamati “Brusacrist”.

La Madonnina del Morone A circa duecento metri dal centro di Belgioioso, si trova una piccola chiesa, ora chiusa ai devoti

perché pericolante. A essa è legata un'antica tradizione in onore della ”Madonnina del Morone”,

che prende origine da un episodio accaduto molti secoli fa. In una calda sera d'agosto, terminati i

lavori nei campi, dei contadini stavano ritornando alle loro case, quando furono abbagliati da una

luce improvvisa che filtrava attraverso le foglie di un gelso (in dialetto muron). Grande fu il loro

stupore quando, al centro della luce videro apparire la figura di Sant'Anna con in braccio sua figlia,

la Madonna bambina. Qualche tempo dopo, sul luogo della visione fu costruita la chiesetta

dedicata proprio a Maria Nascente. Un precedente primitivo affresco, fatto eseguire dai paesani su

un muretto vicino al gelso, per ricordare l'episodio, fu inglobato nell'edificio sacro, diventandone

la pala d'altare. Proprio in onore di Maria Nascente, che si festeggia l'8 settembre, fu introdotta

l’usanza, rimasta fino agli anni Ottanta del XX sec., di battezzare lì i neonati in questo giorno; la

cerimonia che si svolgeva a settembre coincideva con la festa per la Madonna. Nei secoli la

chiesetta fu abbellita e restaurata; alla fine del Seicento ciò avvenne per opera dei conti Barbiano e

intorno al 1980, a cura della famiglia Melzi d'Eril, che ne è ancora proprietaria. Fino al 2003,

prima che l'edificio religioso fosse dichiarato inagibile, vi si svolgeva anche una novena.

Personaggi illustri

Cristina di Belgioioso Durante il Risorgimento, nel 1859, in Lombardia, anche le donne ebbero parte attiva nella seconda

guerra d'Indipendenza: si occuparono dei numerosi soldati feriti nelle varie battaglie. Esse

soccorsero ben 125.000 soldati, rimasti feriti e ammalatisi dopo le varie battaglie di Montebello,

Magenta, San Martino, Solferino, curandoli a Pavia, Milano, Brescia e Mantova. Molte donne poi

morirono, contagiate da malattie infettive, durante il loro lavoro amorevole di cura ed assistenza.

Da ricordare è Cristina Trivulzi Principessa di Belgioioso che si prodigò, spinta da ideali

umanitari, con altre donne, per aiutare, curare ed alleviare la sofferenza di tanti soldati.

Fu amica di Anita Garibaldi ed insieme curarono i feriti di guerra.

Il fantasma della principessa Cristina Si racconta che, nel parco del castello, di notte, si aggiri il fantasma della principessa Cristina di

Belgioioso, la quale ebbe una vita travagliata e fu invidiata della gente, per la sua bellezza, per la

sua libertà. Si innamorò del suo segretario, Gaetano, con il quale andò a vivere nella villa di

Locate, ma quando l’uomo morì di tubercolosi, Cristina volle imbalsamarlo e lo nascose in una

stanza del castello di Belgioioso. La ragazza morì nel 1871 e fu sepolta a Locate, in una tomba di

marmo, riaperta dopo 50 anni, ma essa non conteneva il suo corpo, che fu poi ritrovato in una

tomba anonima, poco distante da quella del giovane: il corpo era intatto, ma subito si dissolse. Il

fantasma di Cristina e di Gaetano sono stati visti da molti testimoni aggirarsi, mano nella mano, di

notte, nel castello.

BEREGUARDO

In dialetto Balguart, richiama Belriguardo, unavilla estense o altri centri; il nome fu dato dai

Visconti. Il castello fu edificato da Luchino Visconti (1292-1349) come roccaforte, con una

vasta riserva di caccia; fu implicato in numerosi avvenimenti bellici e passò a varie famiglie, poi

all’Ospedale di Milano, per divenire infine patrimonio del comune di Bereguardo.

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Le leggendarie imprese amorose di Isabella

La giovane e colta Isabella Fieschi fu la terza moglie di Luchino Visconti; fu una donna di facili

costumi e si diceva che il padre dei gemelli, i suoi primi due figli, fosse Galeazzo II, nipote del

marito. Luchino aveva avuto anche lui numerose storie amorose ma, ormai ammalato, era turbato

dalle dicerie sulla moglie, in particolare dopo la crociera della donna a Venezia; partita da

Bereguardo, ella si era imbarcata a Lodi per assistere alla festa dell’ Ascensione, con altre belle

fanciulle e i loro amanti; fece tappa a Mantova da Ugolino Gonzaga e a Venezia dal doge

Francesco Dandolo, incontrandosi con diversi nobili. Ritornata a Milano, si accorse dello stato

d’animo vendicativo del marito e anticipò le sue intenzioni, avvelenandolo. Luchino, infatti, morì

misteriosamente nel 1349.

BRALLO di PREGOLA

Secondo la tradizione, da questo luogo transitarono le truppe di Annibale dopo la battaglia del

Trebbia (218 a.C.), per proseguire verso la Liguria e l'Umbria. Da questo presunto passaggio sono

nate leggende e racconti ricchi di fascino. Una è quella che Annibale si ferì ad una mano e per

ricordare l’episodio, il monte dove si era ferito si chiamò Lesima (dal latino “lesa manu”), l'attuale

monte Lesima.

BRONI

Broni nel 1047, Bruna nel 1048 e Bronna nel 1119, dal latino “prunus”; citata anche come

Comillomagus o Cameliomagus. Di origine romana, passò a Pavia nel XII sec. Coinvolto nelle

lotte tra Guelfi e Ghibellini, tra Pavesi e Milanesi, da feudo dei Beccaria passò poi ai Savoia.

Personaggi illustri Nativi di Broni: Paolo Baffi, governatore della Banca d’Italia, economista;

Alberto Alesina, economista; Tiziano Sclavi, fumettista (Dylan Dog);

qui visse il comico dialettale Lasaratt (Mario Salvaneschi); qui risiede l’ex campione russo di

ciclismo, Eugenij Berzin (vinse il Giro d’Italia nel 1994). La leggenda di san Contardo

Broni è situato sulla via Emilia, dove transitavano i pellegrini per recarsi a Santiago; il giovane

Contardo, che disprezzava la ricchezza e preferiva vivere in povertà, apparteneva alla nobile

famiglia degli Estensi di Ferrara; nel 1249 intraprese il lungo cammino insieme con due compagni

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e fece sosta a Broni e salì su un colle, che oggi porta il suo nome; per la piacevolezza del luogo

chiese al Signore di farlo morire lì se il suo destino era quello di morire durante il viaggio e Dio lo

esaudì: fu preso da improvvisi e così forti dolori che i suoi compagni lo portarono in un albergo

dove l’oste, per paura che i suoi lamenti gli facessero perdere i clienti, lo spostò in una casupola

vicina. Abbandonato da tutti per la contagiosità dell’atroce malattia, veniva sfamato da un cane

che, quotidianamente, gli portava del pane. Il giovane però morì dopo alcuni giorni. Subito le

campane si misero a suonare da sole e sul volto di Contardo i profondi segni della sofferenza

lasciarono posto a un aspetto sereno, mentre il corpo emanava un soave profumo. Il suo corpo fu

sepolto in una nicchia della chiesa di San Pietro, ma poi, per numerosi prodigi testimoniati dai

fedeli che andavano a venerarlo, fu spostato presso l’altare e diventò il patrono di Broni. Si

celebrano due feste il 16 aprile, giorno della sua morte e il 28 agosto giorno della traslazione del

corpo nel 1249. Il santo è particolarmente invocato contro epilessia e mal di testa. Si usa avvolgere

attorno alla testa del malato bende di lino benedette. Ogni anno, il 16 aprile, avviene la

distribuzione del pane benedetto di San Contardo, nel santuario.

Il colle di S. Contardo Sulla sommità del colle, che domina Broni, è stato costruito un santuario dedicato a San Contardo,

patrono della città. La comunità cristiana bronese ha disposto, lungo il percorso, i pannelli, delle

stazioni della Via Crucis, in ceramica policroma e, in occasione della festa patronale, la Via Crucis

viene illuminata da una suggestiva fiaccolata. E’ stato creato, alla base della cappella, il gruppo

statuario dell’Angelo Custode, con i bambini in preghiera.

CANNETO PAVESE

Montù de' Gobbi, diventò Canneto nel 1885 ( dal latino cannetum-canneto); passò dai Gobbi al

feudo di Broni, poi ai Candiani nel XVII sec. E’ famoso per i suoi vini, tra i quali il Sangue di

Giuda.

Il Vino “Sangue di Giuda” Il nome è legato sia al colore rosso rubino del vino, con riflessi violacei, sia a una leggenda. Essa

racconta che Giuda, impiccatosi e passato a peggior vita, dopo quella di traditore di Gesù, condotta

sulla terra, si fosse pentito del suo gesto e Gesù, per perdonarlo, lo avrebbe fatto resuscitare. Giuda

sarebbe ricomparso in carne e ossa in Oltrepò, precisamente a Canneto Pavese ma gli abitanti,

riconoscendolo, decisero di ucciderlo ancora, perché traditore di Gesù; Giuda si salvò grazie a un

dono ai viticoltori della zona: risanò le loro viti dalla malattia che le aveva colpite. Essi, per

ringraziarlo, gli dedicarono il nome del loro vino rosso, dolce.

CASTEGGIO Clastegium, poi Clastidium (titolo di un dramma del poeta Nevio), modificò più volte il nome, fino

all’attuale. Sorse sui resti di un villaggio dei Liguri ed è famoso per la battaglia nella quale i

Romani, guidati dai consoli Scipione e Marco Claudio Marcello, sbaragliarono a Clastidium, nel

222 a. C. i Celti condotti da Virdumaro, aprendosi così la via alla conquista dell'Insubria (più o

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meno l'attuale Lombardia). Appartenne a Tortona, fu saccheggiato dal Barbarossa nel 1175 e passò

a varie famiglie, dai Visconti agli Sforza, fino al XVIII sec.

Personaggi illustri F. Anselmi, partigiano; G. M. Giulietti, esploratore; M. Baratta, geografo; A. Della Seta,

archeologo; F. Coralli, generale dei bersaglieri; C. Riccardi, pittore.

La valle buia (Scuropasso) Annibale: numerose sono le leggende che sopravvivono su di lui nella provincia di Pavia.

Casteggio e Romagnese si contendono il privilegio di aver dissetato il condottiero africano con le

acque dei loro torrenti; Vigevano si vanta di aver ospitato la “pugna ad Ticinum” (la battaglia sul

Ticino); Cigognola, sostiene di avere assistito al passaggio del cartaginese e del suo esercito. Nella

vicina Valle Scuropasso, il comandante delle truppe di Cartagine, dopo la battaglia sul fiume

Trebbia e la ferita riportata ad una mano sul Monte Lesima, avrebbe definito “passaggio buio” la

stretta valle dell’Oltrepò che da Broni porta agli Appennini, verso il confine piacentino, che però

non sembra per nulla una valle buia.

La fontana di Annibale Casteggio, per la sua posizione strategica sulle prime colline dell’Oltrepò, è stata più volte

interessata da episodi bellici. Il più importante è quello riguardante la battaglia avvenuta nel 222

a.C. tra Romani e Celti. Il condottiero che lasciò una traccia a Casteggio fu il cartaginese Annibale

che, con i suoi famosi elefanti si sarebbe fermato per riposare ed abbeverarsi a una fontana che

tuttora esiste lungo l'attuale via Emilia, poco fuori Casteggio, in direzione di Broni. Quel che

ancora si vede oggi sono i resti di una cloaca romana, che sarebbe stata il teatro dell'avvenimento.

A un episodio simile la fantasia popolare fa risalire addirittura il nome del fiume Tidone, che scorre

ai confini tra la provincia di Pavia e quella di Piacenza. Sul finire del 218 a.C., sconfitti i Romani

al Trebbia, Annibale e i suoi soldati sostarono per dissetarsi a una limpida sorgente d'acqua, nei

pressi di Romagnese. Era così fresca e buona quell'acqua, che Annibale volle in qualche modo

ringraziare e, lanciando il suo anello nell’acqua, esclamò: ”Tibi dono”, (te lo dono). Da quella

frase sarebbe derivato il nome Tidone, dato a quel torrente.

CAVA MANARA

Fu Cava (canale scavato per deviare il fiume) fino al 1863, poi fu aggiunto Manara, in memoria di

Luciano Manara, bersagliere lombardo, che combatté in questi luoghi, contro gli Austriaci, nel

1849, durante la 1^ guerra d’indipendenza, dopo aver partecipato alle 5 giornate di Milano. Dal

1738 fu possedimento sabaudo.

Personaggi illustri G. Albani, ex-calciatore ; G. Golgi, Nobel per la medicina, fu medico a Cava. Antonio Bordoni,

matematico.

Il passaggio di Sant'Agostino Secondo la tradizione locale, Sant'Agostino passò da Cava Manara, luogo di sosta per i pellegrini

diretti in Francia o a Milano ( la Cavea cum taberna ).

In questo luogo si fermò Sant'Agostino durante un viaggio, ma anche dopo la sua morte fece però

un’apparizione a Cava; da Ippona le sue spoglie mortali furono sottratte da San Fulgenzio agli

Ariani e trasportare nel 508 a Cagliari, in Sardegna finché Liutprando, re dei Longobardi, acquistò

quelle sante spoglie a peso d'oro e nell'anno 725 le fece trasportare a Pavia, nella basilica di S.

Pietro in Ciel d’Oro. Si racconta che proprio in quel periodo S. Agostino sia apparso

miracolosamente a un gruppo di pellegrini, in cammino verso Roma, nei pressi di Cava, vestito

con abiti papali, pronunciando il suo nome e diffondendo una luce incredibile, che lasciò sbigottiti.

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CAVA MANARA – antiche leggende su TORRE DE' TORTI Tra i fiumi Po e Ticino si stende un territorio ricco di insediamenti abitati, legati alla presenza dei

cavalieri Templari. In località Torre de' Torti (frazione di Cava Manara) si trova una grande

cascina, un tempo convento, dedicato a Santa Maria e dipendente dal monastero di Santa Teodote

in Pavia; in questa zona, nell’antichità, pare si celebrassero i riti dei Celti; infatti proprio qui

sembra sia stato trovato un pozzo pieno di resti ossei umani e ciò ha portato alla nascita di molte

leggende. Una di queste racconta che, a volte, dalle aperture del cascinale esce una palla infuocata

che compie ampi giri sui campi lì intorno, quindi raggiunge le rive del fiume, mentre si svolge un

combattimento tra i fantasmi di due cavalieri.

Si narra anche dell’esistenza di un tunnel sotterraneo, che parte dalle cantine del cascinale ed

arriva alla cascina dei Frati e alla cascina Caselle, un tempo luogo di sosta dei cavalieri Templari.

Altre leggende raccontano di 4 cripte sotterranee, sovrapposte fra loro, che conducono, attraverso

un passaggio segreto, ad un oscuro pozzo.

CHIGNOLO PO Il toponimo, che corrisponde forse a Cugnolum di un documento medioevale, deriva dalla voce

lombarda chignòeu (dal latino cuneulus“piccolo cuneo”), nel significato di “punta di terra fra

fiumi.”

Origine del burattino Guignol La più grande piazza del paese di Chignolo Po é intitolata a Guignol. Tra il Cinquecento e il

Seicento, ci fu una emigrazione di lavoratori della seta, dall'Italia settentrionale verso la Francia e,

in particolare, verso Lione, quando Francesco I, nel XVI sec. invitava e reclutava i tessitori; molti

artigiani partirono da Como, Bergamo e anche da Chignolo Po. I Chignolesi conservarono però le

loro tradizioni in Francia, dove si divertivano rappresentando commedie, dopo giornate di lavoro.

Uno dei personaggi era un pupazzo con la testa di legno, che avevano portato dal loro paese.

Qualche tempo dopo, nel 1808, Laurent Mourguet impiantò a Lione un teatrino di burattini in cui il

primattore si chiamava proprio Guignol; questa maschera/burattino assomigliava moltissimo a uno

dei personaggi dei teatrini dei setaioli chignolesi, chiamati “les chignoles” e il famoso Guignol ha

pertanto radici chignolesi. Nel settembre 1981 una delegazione lionese suggellò il rientro in patria

del burattino, con una visita ufficiale a Chignolo Po. La piazza principale del paese venne

ribattezzata “Guignol”. Nel 2006, per ricordare il 25° anniversario del rientro a Chignolo, è stata

organizzata una grande festa, con la sfilata di 5 grandi pupazzi per le vie del paese. Nel municipio

è ospitata la Casa Guignol, testimonianza delle tradizioni.

Il museo lombardo del vino Da alcuni anni il castello di Chignolo Po, di origini trecentesche, ma rimaneggiato nel secolo XVI

e ristrutturato nel XVIII, quando divenne la residenza di campagna dal cardinale Agostino Cusani,

vescovo di Pavia, ospita il Museo Lombardo del Vino. Nelle dodici sale, allestite nelle cantine, si

possono osservare antichi attrezzi e oggetti riguardanti la vitivinicoltura, notizie sulle zone di

produzione lombarda (Oltrepò, Bresciano, Riviera del Garda, Mantovano, Franciacorta …), con

ricchezza di materiale documentario e fotografico; in una enoteca sono raccolti i pregiati vini DOC

ed un’altra sala, dedicata alla gastronomia, mostra gli abbinamenti tra cibi e vino.

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CODEVILLA

Bertoldo di Codevilla

Da caput (capo), forse l’inizio del borgo e villae (vicus, podere, villaggio). In età longobarda è

ambientata una curiosa leggenda: del Bertoldo nostrano. Essa ritiene che lo spiritoso contadino sia

di Codevilla o meglio della località Casa Bertuggia, vicina a Mondondone e a Retorbido. Nella sua

casa si sarebbe recato più volte il re Alboino, durante i tre anni d’assedio di Pavia (569-572). La

diceria, col tempo, è divenuta leggenda.

COPIANO

Anticamente Cuplano, dal latino Cop(p)ius, con l’errata trasformazione di “pi in pl”. Appartenne

al feudo di Corteolona fino al 1622, quindi passò a D. Salerno, ad A. Omodei e infine a G. B.

Modignani nel 1717.

CORTEOLONA

Fondato dal re longobardo Liutprando nel sec. VIII come Curtis Regia, conservò tale nome con i

re carolingi, che spesso vi tennero le assemblee del regno italiano e vi promulgarono i loro

capitolari. In dialetto Curtlòna, è un composto di corte (dal latino Curtis,”fattoria rurale”ma

anche” beni di un signore e del re”) e di Olona, il fiume che lambisce il paese.

Personaggi illustri P. Maffi, cardinale; C. Rossella, giornalista.

Gli anodonti La roggia Castellara è un grosso fosso che riceve acqua da un ramo del fiume Olona, in seguito ad

uno sbarramento (detto Travacca), a monte di Corteolona. Essa è opera antica di monaci, che la

scavarono nel 1471, per bonificare le paludi della valle dell'Olona, in modo da convogliarvi le

acque stagnanti e malariche che furono poi distribuite sui terreni circostanti, irrigandoli,

fertilizzandoli e permettendo una resa migliore. Grazie a loro, Corteolona ha potuto servirsi in

modo intelligente di una preziosa risorsa per risaie, vigneti, marcite e mulini.

Nel novembre 1994 l'alluvione del Po, che devastò le province di Alessandria e Pavia, risparmiò

Corteolona, ma le acque tumultuose del fiume in piena finirono nella roggia, portandovi gli

anodonti, molluschi bivalvi d'acqua d'olce.

(I Cinesi da sempre usano le loro conchiglie per i cammei; mettendo un piccolo oggetto tra la

conchiglia e il mantello, nel giro di un anno esso viene ricoperto da madreperla.)

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COSTA DE’ NOBILI

I1 cognome Nobili deriva da una famiglia pavese (prima era Costa degli Scanati, dal nome di una

famiglia che governò nel Medioevo e poi, fino al 1863 era Costa San Zenone). Il nome Costa dal

latino costa ”costa, costola, fianco”, indica geograficamente “le falde e le dorsali dei monti “o in

pianura “le leggere ondulazioni lungo il corso dei fiumi”. Il paese sorge in realtà su un’altura. Dal

1475 alla fine del 1700 fece parte del feudo di Belgioioso, appartenente ai Barbiano.

CURA CARPIGNANO

Prima era Carpignano, nel 1863 fu prima Cava Carpignano e poi Cura Carpignano. Dal lombardo

cura (luogo in cui si curano ed imbiancano le tele) e da carpignano (fondo rustico), dal latino

Carpinius; nel Medioevo appartenne all’ospedale di S. Lazzaro di Pavia.

Un paese diviso in due Prado, frazione di Cura C. è diviso in due da una strada: a sinistra è territorio di Pavia, a destra di

Cura. Nel parco di Villa Imbaldi c’è invece un albero enorme, un “ginkgo biloba”, l’albero della

vita, di oltre 300 anni; famoso per le sue proprietà benefiche, si ritiene che le sue foglie, messe

sotto il cuscino, garantiscano una lunga vita.

Il sasso del tesoro Alla frazione Prado - “Prai” di Cura Carpignano, molto tempo fa, lungo la strada proveniente da

Pavia c’era un enorme sasso, con una scritta: “Gran tesoro troverà chi mi rivolterà.” Molti

provarono a sollevarlo in tutti i modi, con leve e con altri mezzi, ma non ci fu niente da fare, il

masso non si spostava. Fu convocata anche un’assemblea di capifamiglia, che decisero di unire gli

sforzi, così installarono impalcature e argani e, davanti alla folla, accorsa anche dai paesi vicini,

per assistere all’evento, finalmente il sasso si capovolse ma, sotto ad esso fu trovata un’altra

scritta: “Grazie per avermi rivoltato!”

FILIGHERA

Da filicaria (dal latino filex o felex-felce), appartenne al vicariato di Belgioioso, passò poi agli

Sforza, agli Este e quindi ai Barbiano nel 1536.

Ha due elementi caratteristici: l’arco settecentesco, l’purtòn, cioè l’ingresso al paese per chi arriva

da Belgioioso e la chiesa dei Santi Giuseppe ed Ambrogio, del 1500, che ha la fronte rivolta a sud

e non a ovest, come le altre chiese; sul campanile, costruito nel 1718 c’è un bassorilievo con una

curiosa immagine: una graziosa ragazza, sorridente. Per questo Filighera è “al pais dla Bèla

Ridòn.”

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GARLASCO

Dal romano carus o carrulus, modificato nel Medioevo; nel 981 fu dato dall’imperatore Ottone al

monastero di S. Salvatore in Pavia; passò ai Visconti e poi ai Castiglioni nel 1436.

Nei pressi del santuario della Madonna delle Bozzole, poco lontano da Garlasco, sorgeva la

leggendaria Antona, dove nel 218 a. C. avvenne la battaglia tra Cartaginesi e Romani. Qui esisteva

una necropoli gallica e vi sorse poi un accampamento romano; infatti sono stati trovati, in scavi

effettuati nel 1938, anfore, urne, monete, oggetti di origine gallica e romana. Si parla anche di una

sorgente di acqua miracolosa.

Personaggi illustri: Ron, cantante.

La Bozzola e i suoi caragnòn La zona in cui sorge il santuario della Madonna della Bozzola era ricoperta di piante di

biancospino, in dialetto lomellino bòsla. Dopo il primo concilio di Nicea (365) fu costruita una

cappellina con l’immagine della Madonna. Nel 1460 il pittore Agostino da Pavia (chiamato per

affrescare la cappella del castello di Garlasco) attraversando il Ticino, si trovò in un mulinello (uno

di quei gorghi, tipici del fiume, simile ad un imbuto, che inghiotte lo sfortunato) e si salvò

miracolosamente; giunto a riva, si riparò da un improvviso temporale sotto la cappellina e promise

un affresco alla Vergine, che ancora oggi è venerata nel santuario. La prima domenica di settembre

del 1465, una bambina tredicenne sordomuta, di nome Maria, mentre pascolava il gregge nei pressi

della cappella, vide apparire sopra un cespuglio di biancospino la Madonna, che le disse:- Voglio

qui un santuario. Saranno tante le grazie! La giovane, col nome di Benedetta, entrò in un ordine di

clausura e fu iniziata la costruzione del santuario che nel Seicento, per l’affluenza dei pellegrini, fu

ampliato. All’interno del santuario l’immagine della Madonna è circondata dai cärägnòn d’lä

Bòslä, statue di legno del secolo XVIII, che rappresentano penitenti e dolenti (piagnucoloni). Il

santuario è meta di migliaia di pellegrini, soprattutto il Lunedì dell’Angelo (Pasquetta).

GENZONE

Dal nome germanico Geno poi Genzo (in dialetto Gensòn), o dal latino Gentio. Importante nel

Medioevo perché vicino ai confini orientali di Pavia, venne fortificato; appartenne a vari monasteri

e nel 1431 passò ai Barbiano di Belgioioso, ad altre casate e tornò a loro nel 1536.

GODIASCO

Era Godiliasco nel XIII, deriva forse dal latino Gaudellius o Gaudius.

Edoardo II morì in Oltrepò? A Godiasco c’è un mistero medievale: Re Edoardo II d’Inghilterra è stato davvero ucciso nel

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castello di Berkley in Inghilterra nel 1327 o si trova nell’eremo di Sant’Alberto di Butrio? Una

targa segna l’eremo come primo luogo di sepoltura del re e per gli abitanti della valle è una verità,

mentre per il mondo inglese Edoardo II è morto a Berkley. L’associazione culturale “Il mondo di

Tels” attraverso l’archivio Malaspina, recentemente acquistato dal Comune di Godiasco, si pone

l’obiettivo di trovare una traccia con un pool di storici e scienziati per confermare la tesi italiana.

Un romanzo “Towards Auramala” di Ivan Fowler, narra la seconda vita di Edoardo in Valle

Staffora!

GROPELLO CAIROLI

Da groppo, “altura, dosso”, nel 1888 è diventato Gropello Cairoli, per ricordare i fratelli Cairoli,

originari del paese e qui sepolti. Appartenne nel X sec. ai Rovescala, dal 1355 ai Beccaria e poi ai

Visconti. I 5 fratelli Cairoli, figli di un chirurgo, parteciparono alle guerre d’indipendenza; 3

morirono per ferite, uno per tifo e Benedetto, ferito durante la spedizione dei Mille, si salvò e

divenne deputato del Parlamento e poi 1° ministro nel 1871; in quell’anno salvò anche il re

Umberto I dall’attentato di un anarchico, rimanendo ferito.

Personaggi illustri I fratelli Cairoli, patrioti; C. Cantoni, filosofo; L. Beccari, vescovo e santo.

INVERNO

Pare che il suo primo nome fosse Ivern, indicante persona, di origine germanica, o derivante da

castra hiberna, di origine latina. Nel Medioevo appartenne ai Cavalieri di Malta, fino al 1786. La

croce dello stemma comunale è proprio quella di Malta. Quando nel 1113 il Papa Pasquale

approvò l’ordine religioso-militare di S. Giovanni di Gerusalemme, i frati cavalieri cercarono un

luogo dove sistemarsi e lo trovarono qui, ottenendolo dall’abbazia di Chiaravalle, in cambio di

un’altra cascina. I frati aiutarono la popolazione locale, i poveri, i pellegrini e solo più tardi il loro

ordine diventò quello dei Cavalieri di Malta.

LANDRIANO

Forse da Andriano; nel 1004 l’imperatore Enrico vi tenne una riunione e nel 1061 qui avvenne una

battaglia tra Pavesi e Milanesi; i signori locali ne presero il nome e la signoria fu confermata nel

1329.

Il fantasma del castello "Il castello di Landriano sorge su un isolotto circondato da un torrente; sembra infestato dal

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fantasma di una donna, Janet, che inizialmente si presenta e si comporta con naturalezza ma poi

mostra il suo lato inquietante, in grado di provocare uno stato di trance, finché assume il completo

controllo del corpo della persona su cui ha posato gli occhi. E' un fantasma che si muove

continuamente per non farsi individuare. Quando si fa buio, a volte, il suo spettro si manifesta;

emette un suono simile ed un canto o ad un lamento di donna, poi si materializza, mostrando il

suo viso nel portone d’ingresso o una figura confusa nelle finestre della facciata frontale

dell’edificio. "Janet era una donna vissuta alla fine del 1500, condannata al rogo per stregoneria e

giustiziata proprio nella piazza davanti al castello.

LARDIRAGO

Il castello

In dialetto Lardirà dal nome Lardarius. Il castello di Lardirago, del secolo XIV, subì diversi

rifacimenti, intorno alle sue mura dove si sviluppò il borgo. Appartenne a San Pietro in Ciel d’Oro

di Pavia; poi al collegio Ghislieri di Pavia.

Il sacrificio di Isabetta

Isabetta De Rizzi Trivulzio, vissuta nel 1500, era la giovane e bellissima figlia naturale della

contessa Isabetta e del condottiero Gian Giacomo Trivulzio che, impegnato a combattere non

conobbe mai la figlia. La madre diede la bambina in adozione ai De Rizzi, facoltosa famiglia che

la crebbero come loro figlia ed ella diventò bella, intelligente e generosa. Si innamorò, ma un

giorno un soldato francese tentò di violentarla e, sentendo le sue grida di aiuto, il padre accorse,

ma il bruto lo uccise. Richiamati dal suono delle campane giunsero degli uomini e il francese fu

linciato; la fanciulla, gravemente ferita, morì. La notizia del linciaggio di un suo militare scatenò

l’ira di Gian Giacomo il quale inviò i soldati che misero a ferro e fuoco il paese, uccidendo anche

l’innamorato di Isabetta. Il condottiero, saputo della morte di quella figlia mai conosciuta, si

disperò e lasciò il comando delle truppe del re di Francia (così raccontano). In realtà egli conservò

il suo incarico fino alla morte.

LINAROLO

In dialetto Linarò, deriva da linum, per le coltivazioni di questa pianta, la cui zona di produzione

era detta Linaria, mentre Urticaria, per l’abbondanza di ortiche, era detta la zona a nord; Toxicaria

la zona a sud, per le erbe velenose e Porcaria, dove si allevavano i maiali, la località verso Pavia.

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Sono stati ritrovati reperti romani, a testimonianza della sua antica origine. Nel XIII sec. il castello

fu dato ai Cane che, nel 1380 lo donarono all’ospedale di Pavia e poi fu acquistato dai Beccaria nel

1400. Situato sulla Via Francigena, il paese è citato da Gian Galeazzo Visconti che consiglia, agli

ammalati in viaggio, il ricovero presso l’ospedale di Ospitaletto di Linarolo.

Il Cristo di Vaccarizza Vaccarizza, frazione del comune di Linarolo, non dista molto dal fiume Po, il cui letto, in passato

scorreva più vicino all’abitato. Murato all’esterno di una casa privata, vi è un bassorilievo in

arenaria che si fa risalire ai secoli XI-XII e rappresenta un Cristo in croce, ai piedi del quale stanno

la Vergine e San Giovanni. Secondo una leggenda, in occasione di uno straripamento del fiume,

l’acqua giunse a lambire quel bassorilievo e il Cristo piegò le ginocchia per evitare di bagnarsi. In

quel momento l’acqua cessò di salire, ritirandosi piano piano.

MAGHERNO

Da maternus o maerno; la sua storia è legata a quella degli altri paesi sorti intorno alla riva destra

del fiume Lambro; appartenne al feudo di Villanterio, possesso del monastero di S. Pietro in Ciel

d’Oro di Pavia. Magherno (al centro della guerra)

Magherno ha antiche origini: sorse dove esisteva un accampamento romano; la leggenda motiva il

nome della “Via Borgo Oleario” con la costante presenza, nella zona, di eserciti e soldataglie di

varia origine e provenienza, che facevano largo consumo di olio a scopo alimentare e bellico.

Versavano sulla testa dei nemici, dall’alto delle mura, olio bollente; l’olio era usato per la

manutenzione delle armi o per il corpo, sia a scopo estetico che per proteggersi dal freddo. La “Via

Spadari” deriverebbe dalla partecipazione all’assedio di Pavia (1524-1525) dei feroci

lanzichenecchi, soldati tedeschi, abili nell’uso delle spade.

La forma di formaggio Un certo Pietro tornava, una sera di tanti anni fa, verso casa, dopo aver trascorso la serata in

un’osteria di Villanterio, dove aveva alzato un po’ il gomito e…scorse nelle acque della

Colombana, un’intera forma di formaggio, illuminata dalla luna piena; trovata una rete da pesca,

tentò di recuperare quel ben di Dio ma, nonostante gli sforzi non riuscì a prenderla. Altri, attirati

dal rumore, si unirono a lui per recuperare il formaggio, che all’improvviso sparì, con l’arrivo di

una nuvola che coprì la luna. Restarono tutti stupiti, senza capire dove fosse finito il formaggio,

per questo i maghernini sono i pescatori di formaggio.

MIRADOLO TERME

E’ citato in un documento nel 1034; era Miradolo fino al 1938 (Miradò), da miratorium, mirare

(belvedere), per la bella posizione, sulle colline di S. Colombano e Terme indica il luogo famoso

per le sue acque, in grado di curare sinusiti, bronchiti, reumatismi, problemi dermatologici…..

Sono stati ritrovati reperti celtici e romani, testimonianza delle antiche origini. Dal 1431 passò ai

Barbiano di Belgioioso.

Personaggi illustri V. Scotti (Gerry), conduttore televisivo; M. Ardemagni, calciatore; A. Radius, cantante.

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Un antico mare Un tempo il mare ricopriva questa zona, come testimoniano le conchiglie marine ritrovate in alcuni

terreni sabbiosi; (furono probabilmente movimenti tellurici di tipo vulcanico a provocarne la

scomparsa) per questo motivo le falde acquifere sono salmastre ed hanno proprietà curative. Le

terme erano dette Saline ed anche studiosi di fama, come Andrea Volta analizzarono le acque di

Miradolo.

MONTEBELLO

Il nome Montebello ricorda un certo Pietro Bello Bisnato, che nel 1194 vi avrebbe fondato una

chiesa.

Il paese appartenne nell'Alto Medioevo a signori locali, dai quali fu donato al Vescovo di Piacenza

e a lui fu tolto nel 1164 da Federico Barbarossa che lo assegnò alla Comunità Pavese. Nel 1172 vi

fu sconfitto il marchese del Monferrato dalle forze della Lega Lombarda. Filippo Maria Visconti lo

assegnò nel 1412 a Castellino Beccaria, al cui casato rimase fino al 1591. Per tutto il XVII sec. fu

un susseguirsi di feudatari spagnoli; dopo il 1700 Montebello seguì le vicende dell'intero Oltrepò.

Il luogo è legato a due battaglie, la prima combattuta il 9 giugno 1800 e vinta dai Francesi contro

gli Austriaci, la seconda, del 20 maggio 1859, vinta dai Franco-Piemontesi, sempre contro gli

Austriaci.

Si chiamava Giovanni, la piccola vedetta lombarda Il monumento ai caduti della battaglia di Montebello, viene commemorato ogni anno; é trascorso

più di un secolo e mezzo dall'evento bellico che aprì la Seconda Guerra d'Indipendenza.

Montebello fu infatti la prima vittoria dei Franco-Piemontesi sull'armata austriaca. Un episodio, il

cui protagonista è un coraggioso ragazzo, è legato alla battaglia di Montebello.

PICCOLA VEDETTA TRA VERITA' E FALSO STORICO

“Nel 1859, pochi giorni dopo la battaglia di Solferino e San Martino...”.comincia così il racconto

di De Amicis, tratto dal libro Cuore, della Piccola vedetta lombarda, che sembra togliere ogni

dubbio sulla collocazione dell'episodio, nell'ambito della battaglia di Montebello. Nelle campagne di Montebello gli eserciti Austriaco e Franco-Piemontese erano schierati, il 20

maggio 1859, per la battaglia, che si svolse a colpi di fucili e palle di cannoni; l'armata austriaca,

agli ordini del maresciallo Gyulay avanzò verso Casteggio, quasi un mese dopo l'ultimatum di

Vienna al Regno di Sardegna e l’aggressione dell’Austria al Piemonte, che portò all’intervento

francese. Un bambino di 12 anni, arruolato dai soldati francesi e italiani per segnalare i movimenti

dei nemici, che si era arrampicato su una pianta tra Campoferro e Montebello, in Oltrepò Pavese,

venne colpito in pieno petto da una palla di fucile sparata da un cecchino austriaco, diventando

così il primo eroe della Lombardia libera: la piccola vedetta lombarda, la cui storia è stata

raccontata nel libro Cuore, da Edmondo De Amicis; oggi quel ragazzo ha un nome. Secondo due

storici, Daniele Salarno e Fabrizio Bernini, il bambino orfano e contadino, sarebbe Giovanni

Minoli, nato il 23 luglio del 1847, il cui nome sarebbe stato ritrovato in un archivio a Milano. La

famiglia adottiva della piccola vedetta lombarda abitava a poche decine di metri dall’albero su cui

era salito. Il bambino, ferito nelle prime ore della battaglia e ricoverato in ospedale, morì nel

dicembre del 1859, circondato da soldati francesi e italiani, all'ospedale di Voghera. I medici lo

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curarono per sette mesi per problemi polmonari causati da un colpo di fucile. Della piccola vedetta

lombarda, però, non esiste una tomba. È probabile che le sue ossa siano finite in qualche ossario.

L'albero della Piccola Vedetta Lombarda è un pioppo (o un frassino) ancora oggi presente a fianco

della tangenziale Voghera-Casteggio, che da 150 anni la gente riconosce come l'albero di De

Amicis.

La battaglia violentissima provocò quasi 2500 vittime, tra morti e feriti; fu combattuta tra Voghera,

Casteggio e Montebello tra i Franco-Piemontesi, guidati dall'imperatore Napoleone III e da

Vittorio Emanuele II, che si contrapposero ai 30.000 uomini mandati in Oltrepò dall'imperatore

d'Austria Francesco Giuseppe. Il parroco di Montebello fu costretto a seppellire più di 400 soldati.

Gli Austriaci persero tempo prezioso, si ritirarono da Vercelli, facendo saltare il ponte sulla

ferrovia e il giorno dopo conversero in tre colonne sull’Oltrepò Pavese, verso il Lombardo-Veneto;

una si diresse verso Stradella in direzione Casteggio e si scontrò con la divisione francese del

generale Forey, con la cavalleria piemontese, i reggimenti Aosta e Novara e i cavalleggeri del

Monferrato; dopo vari assalti, i soldati di Gyulay furono cacciati. Anche Broni e Stradella furono

occupate, con l’eccidio di ben 5 membri della famiglia Cignoli.

L'episodio della piccola vedetta lombarda venne raccontato a De Amicis, spesso ospite, a

Codevilla, di una famiglia nobile.

Il monumento ai caduti della battaglia di Montebello viene commemorato ogni anno.

L'ossario di Montebello, dove riposano i resti dei 440 caduti (331 Austriaci e 109 Franco-

Piemontesi) si trova a un paio di chilometri dall'epicentro della battaglia ed i luoghi non sono

cambiati molto da allora; c'è sempre la strada (adesso, ovviamente, asfaltata) che lambisce le

colline e c’è la chiesetta di Santa Maria di Loreto.

MONTESCANO

Composto da monte e scagn, scan, (scannon “convalle”), appartenne al territorio della Versa, fu

poi del marchese Ugo d’Este nel 1029 e unito al feudo di Broni. In località Villa Fiorita sorge un

centro per la riabilitazione cardiologica, pneumologica e per la rieducazione funzionale, intitolato

al fondatore, professore Salvatore Maugeri; dispone di 242 posti letto ed è un fiore all’ occhiello

dell’ Oltrepò e dell’ intera provincia.

MONTICELLI PAVESE

Il toponimo è un evidente diminutivo di monte. Il paese, un tempo alla destra del Po, dopo le

deviazioni artificiali del fiume, realizzate fra il 1466 e il 1476, si ritrovò sulla sponda sinistra.

La festa della patata Sulla piazza di Monticelli, dopo le 20,30 di una qualsiasi sera dell'ultima settimana d'agosto, si

svolge la festa della patata! Il suo uso è molto diffuso nella zona; coltivata negli orti e cucinata in

mille ricette, la patata delizia il palato e riempie la pancia; le fette di patata servono anche come

calmante per i rossori e i pruriti cutanei, per gli occhi irritati e per la pulizia dei denti, mentre

l'acqua di cottura è ideale per la pulizia degli oggetti d'argento. Nella piazza di Monticelli sono

tutti invitati, per l’ultima settimana d’agosto, a gustare le deliziose ricette preparate dai volontari

del paese.

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MONTU’ BECCARIA

In epoca medioevale era Mons Acutus Beccariarum, monte acuto, mentre Beccaria è nome di

casato. Montacuto fece parte del feudo di Valle Versa; pervenuto nel XII sec. ai Beccaria, nel 1216

subì la distruzione del castello a opera dei Piacentini. Ai Beccaria rimase fino al 1591, quando

passò ai Salimbene.

MORTARA

Centro di origine gallica, fu poi fortificato dai Romani, come Mortaria, stagno. L’oca è l’animale

simbolo che da il nome alla sagra del paese. Famoso è il salame d’oca, ma anche il palio dell’oca

o il gioco dell’oca con pedine umane o la sfilata in costume per ricordare gli Sforza.

L’altare dei morti Durante la dominazione longobarda Mortara era Pulchra Silva (Silvabella) per i boschi ricchi di

selvaggina, poi una strage modificò il nome in Mortis Ara “Altare della morte”.

Nel secolo VII i Longobardi, guidati dal re Desiderio, erano minacciati dal re franco Carlo Magno.

Un attacco franco fermò i longobardi, nella località Pulchra Silva. La battaglia infuriò per l’intera

giornata. Si dice che rimasero morti sul terreno 32.000 Franchi e 44.000 Longobardi, oltre a

moltissimi feriti. Del combattimento non sono mai state trovate tracce. Si racconta anche che Carlo

Magno perse due suoi valorosi paladini, in quella battaglia: Amelio d’Alvernia e Amico di Beyre e

che, talmente addolorato, abbia cambiato il nome della città, ordinando di seppellire i due cavalieri

in un monastero, che fu poi l’abbazia di Sant’Albino, costruito vicino a Mortara. Ai due martiri fu

reso omaggio dai pellegrini che passavano da Mortara nel viaggio verso Roma o Gerusalemme,

sulla Via Francigena.

PARONA

Questo paese nacque nel 1058, nel XII secolo era Pairona dal nome Pario o dal latino Parius, o

dal personale Parrona, Parronius.

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Il dolce tipico: le offelle

L’offella è il dolce lomellino: è un biscotto ovale, messo per la prima volta in forno nel 1849.

Pietro Colli e Francesca Panzarasa accolsero nella loro osteria i soldati di Re Carlo Alberto, prima

dello sfortunato scontro, vicino a Mortara, durante la 1^ guerra d’indipendenza; si rifocillarono

nella loro osteria, con frittata e rane, polenta, vino di San Quirico e i prelibati dolci. La ricetta delle

offelle rimase segreta fino alla morte delle figlie, che non avevano rivelato la ricetta del dolce

neppure a Pietro Guglielmone, l’industriale dolciario di Mortara, nonostante la fame, la miseria, le

difficoltà per un fratello cieco. Inizialmente le offelle venivano prodotte in quantità limitate e

vendute a numero, anziché a peso, tanto erano preziose. Il lancio commerciale del dolce arrivò, dal

1969 in occasione della sagra dedicata a questo prodotto. La Pro loco ne tutela il marchio.

PIEVE PORTO MORONE

Centro agricolo e industriale, Pieve Porto Morone, si trova sulla riva sinistra del Po, grande fiume

(il più lungo d’Italia: 652 km.) che è sempre stato il protagonista della storia del paese, a una

trentina di km a sud-est del capoluogo, Pavia.

Il nome di Pieve Porto Morone, di origine fluviale, (indica lo stretto legame che il paese aveva con

il fiume), ricorda il Porto o passaggio che fino al 7° o 8° secolo era stato stabilito sul Po (punto di

approdo e imbarco per il trasporto delle merci che viaggiavano sulla via Emilia e sul fiume Po),

lungo la strada Francigena e sugli itinerari dei traffici commerciali. Il ponte di barche, che ancora

oggi compare sulla stemma comunale, collega Pieve a Castel San Giovanni, nel piacentino.

Non è improbabile che il distintivo Morone (Moronus, Moronis, Moronius) gli sia stato aggiunto

per qualche grosso gelso o morone (morus, in latino; “Muròn”, in dialetto) che sorgeva vicino al

porto stesso e serviva come insegna a chi voleva traghettare sull'altra riva o alle navi che dovevano

farvi sosta per gli scambi; la pianta di gelso era molto diffusa a quel tempo in zona perché serviva,

oltre che a delimitare i confini di proprietà, anche ad alimentare i bachi da seta.

Nell’antichità Porto Morone era probabilmente una colonia romana, come attestano i

ritrovamenti archeologici del II sec. d.C.

Appare con il nome di Plebs Porti Moronus in un documento del 1176, dell'imperatore Federico I.

Alla primitiva denominazione di Porto Morone fu quindi unito il titolo di Pieve, Parrocchia

Plebana (Plebs).

Fu signoria dei Conti Rovescala dal 1228; nel XIV secolo passò ai Visconti e poi agli Sforza; nel

XV secolo fu incluso nel Vicariato di Belgioioso. Passò sotto il dominio dei Francesi e degli

Austriaci, infine confluì nel 1859 nel Regno d’Italia (1860). Numerose sono state le inondazioni

del Po; secondo lo storico Terzo Cerri, dal 1157 al 1830, ben 31; nell’ultimo secolo ricordiamo le

alluvioni del 1951, 1994 e 2000.

Personaggi illustri Clemente Canepari: ciclista

Ambrogio Pelagalli: ex-calciatore

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La “Crus”- Il Crocifisso – simbolo di Pieve Una volta, nel centro della piazza S.Vittore, sorgeva una croce, retta da una colonna di granito, su

una base di mattoni; ad essa i Pievesi erano molto affezionati.

Un giorno, un camion, in retromarcia, andò a sbattere contro la Croce; la colonna in mattoni finì a

terra, completamente distrutta, mentre la croce e la colonna in granito che la reggeva, parzialmente

salvate, furono parcheggiate nel cortile della parrocchia: era il 21 aprile 1964 Dopo quel giorno si

incominciò a discutere se rimettere la Croce o no, ma non se ne fece nulla per anni. I Pievesi erano

tristi perchè la croce era diventata un monumento importante e spesso la ricordavano, finché

qualcuno pensò di ripristinarla, ma in un luogo diverso. Oggi, dopo molti anni, il famoso

crocifisso, rimasto per anni abbandonato in un deposito, è tornato alla luce, è stato risistemato dal

Comune ed è situato nel piazzale della chiesa, dal maggio 2009, dove tutti lo possono ammirare.

La colonna in granito è posta su una base che riporta due scritte: una ricorda l’abbattimento del

1964 e l’altra la benedizione inaugurale del Vescovo, in occasione della Fiera del 17 maggio 2009.

La “CRUS” è un simbolo del paese, è un monumento storico e i Pievesi sono contenti di rivederla

sistemata.

Perché era stata costruita quella croce, proprio sulla piazza del paese? Forse fu innalzata al tempo

della famosa peste di S. Carlo o forse era ancora più antica, eretta contro il pericolo delle alluvioni,

assai frequenti in zona. Non pare che sia stata sempre al medesimo posto o che sia la stessa del

1181, ma è accertato che una croce è sempre stata sulla piazza, in mezzo al paese, finché è stata

abbattuta da un maldestro camionista.

Il porto e il gelso o “muron”

Il paese deve il suo nome all’esistenza di un porto, di rilevante importanza, per i collegamenti tra

Pieve e Castel San Giovanni, nel Piacentino; già i Romani avevano un porto sul Po e un pontone

galleggiante, contrassegnato dalla presenza di un grande gelso, in dialetto “mùron”che avrebbe

dato il nome al borgo.

Ancora oggi, lungo i campi di Pieve esistono i “muron”, non più così abbondanti come un tempo,

ma si riconoscono per le loro chiome verdi, rigogliose e tondeggianti; in estate i ragazzi mangiano

i loro frutti, rossi e neri, buoni, dolciastri ed appicicaticci.

San Vittore Martire La Chiesa Parrocchiale è dedicata a San Vittore Martire; la dedicazione a S. V. è precedente alla

stessa venerazione della reliquia conservata a Pieve e già attestata nel 1322 da un documento,

conservato nell’Archivio Vaticano. La reliquia del santo arrivò a Pieve probabilmente alla fine del

XVII sec. e un documento parrocchiale del 4 maggio 1686 ne indica l’autenticità; si tratta di S.

Vittore, martirizzato a Milano durante l’impero di Massimiliano, estratto però dal cimitero Ciriaco

a Roma. C’è stata una confusione tra due santi “Vittore”, uno milanese ed uno romano. Molti

sacerdoti hanno celebrato la festa di S. Vittore, riferendosi al santo di Milano ma…il S. V. presente

a Pieve è un martire di Roma; non c’è identità tra il S. V. a cui è dedicata la chiesa e il S. V. di cui

si venera la reliquia: la testa di S. Vittore, conservata nella chiesa di Pieve, è comunque una

testimonianza autentica di fede.

Il drago

…il drago usciva alla sera e l'acqua diventava rosso sangue… Pieve era un paese della vallata del fiume Po, circondato da immense distese di boschi, vere

foreste con alberi secolari, percorsi raramente da sentieri, transitabili solo da carri trainati da buoi.

Il fiume allagava spesso queste zone lacustri, lasciando poi, quando si ritirava, delle buche piene

d’acqua e di pesci, dove giovani ed anziani si recavano per pescare.

Uno di questi stagni “fupon” (in dialetto pavese) era: “la buca a d'l'inferan” in pratica lo “stagno

dell'inferno”, perchè si colorava di rosso sangue.

La leggenda tramandata raccontava che di notte un “drago”, che dormiva nei fondali dello stagno,

usciva per divorare le incaute prede che trovavano riparo sulla riva, essendo un luogo naturalmente

sicuro, …. ma non era così.

Al mattino, la carneficina notturna lasciava lo stagno intriso di un “rosso sangue” impressionante,

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in modo particolare nelle giornate temporalesche.

Quando la pesca era necessità, i ragazzi si recavano a pescare con le canne nei vari stagni della

zona, ma mai in quello della “buca a d'l'inferan” perchè la leggenda tramandata incuteva timore.

Questo stagno oggi è “lo stagno di Capelli” e si trova ormai in aperta campagna, circondato da

campi di riso e granoturco.

Per arrivarci, basta prendere dalla Piazza San Vittore, via della Vittoria, proseguire sempre dritto,

lasciare la strada asfaltata, prendere quella sterrata costeggiando il fosso “Bedo” e prima di

arrivare all'arginella; lo noterete ben tenuto e recintato, a sinistra.

Oggi il color rosso sangue non c’è più, ma i ragazzi degli “anni quaranta” lo ricordano benissimo!

ROMAGNESE

E’ attestato, nei secoli X-XI, come Romanise, forse derivato dalla famiglia Romanius. Appartiene

al feudo di Zavattarello, passò all’abbazia di S. Colombano di Bobbio e poi ai Dal Verme. È

famoso il Giardino Botanico Alpino di Pietra Corva.

I sassi neri Era l'anno 614, Colombano, un vecchio monaco irlandese, decise di mettersi in viaggio per

diffondere il cristianesimo in Europa e arrivò fino a Bobbio.

Lungo il sentiero che da Romagnese porta alla Pietra del Corvo, si imbatté nel diavolo: aveva

l’aspetto di un ometto magrolino, dai capelli rossi, il naso adunco e un sorriso astuto. Il sant’uomo

lo riconobbe subito, ma non riuscì a scacciarlo e il demonio incominciò a tentarlo. “Torna indietro

e ti darò la gloria, il potere e l'eternità. Tu sei un uomo, ma sarai come Dio!”

Il monaco gli rispose: “Vattene! Non sono solo, Dio è con me e costruirò proprio vicino al fiume

Trebbia un luogo santo ed i miei seguaci si moltiplicheranno come le stelle.” Il diavolo non riuscì

a convincerlo in nessun modo e dovette desistere dal suo tentativo; quando, dalla Pietra del Corvo,

vide le buone opere del Santo, preso dalla rabbia, raccolse le pietre scure lungo la riva del fiume e

le lanciò verso la valle, per distruggere il santuario che Colombano stava costruendo. Il monaco,

però, accortosi di quanto stava succedendo, alzò la mano destra, per fermare quelle pietre lanciate

dal diavolo, che finirono nel luogo che ancora oggi è detto “Pietra del Corvo.” Salendo da

Romagnese, si vedono dei grandi massi scuri: sono le “pietre di Satana” che gli abitanti della zona

chiamano “sassi neri.”

SAN GENESIO

È San Genesio fino al 1929 ed indica il S. patrono; Uniti indica i paesi aggiunti a questo Comune.

Il castello fu distrutto da G.G. Visconti per far posto al parco del castello di Pavia, nel 1396.

Il patrono degli attori e dei mimi

Ci sono due santi con il nome di S. Genesio: il primo è il protettore dei notai; il secondo era un

attore pagano, il quale inscenava la parodia dei cristiani, ridicolizzando le loro oscure cerimonie e i

loro riti, suscitando l’ilarità del pubblico. L’imperatore Diocleziano, persecutore dei primi cristiani,

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amava assistere alle sue esibizioni. Sembra anche che l’attore, in incognito, assistesse alle riunioni

clandestine dei cristiani. Una sera la sua imitazione era perfetta e pregava con tanto impegno. Il

pubblico era sbalordito, ma l’attore non stava recitando: pregava e celebrava veramente perché,

illuminato dalla Grazia Divina, si era convertito. Al termine lo disse al pubblico, che insorse contro

Genesio. L’imperatore Diocleziano, inferocito, lo fece arrestare, lo torturò e lo decapitò. Così il

commediante diventò santo e patrono degli attori.

SAN MARTINO SICCOMARIO

Il nome ricorda il culto di S. Martino di Tours, ma patrono è la Madonna della neve; Siccomario

richiama un nome germanico (Sichemari o Sigimario) del sec. VIII o IX, dato al territorio

circostante. Fondato dai Romani, appartenne al feudo di Sommo e nel 1649 ai Beccaria, quindi a F.

di Gattinara, ai Menocchio e ai Buglione.

SANNAZZARO DE’ BURGONDI

Deriva dal santo martire Nazario, condannato a morte, insieme con il compagno Celso, dal

governatore di Milano per ordine dell’imperatore Nerone. Al martire è dedicata l’antica chiesa. Il

secondo nome, Burgondi, risale alla popolazione barbarica dei Goti; Teodorico saccheggiò la

Lomellina facendo dei prigionieri che, portati in Francia e poi liberati grazie al vescovo di Pavia

Epifanio, si stabilirono a Sannazzaro, così aggiunsero ”de’ Burgondi” ma, secondo un’altra

versione, deriva dalla nobile famiglia pavese dei Sannazzaro, de’Bergonzi o de’Burgondi che,

ricevuta l’investitura del feudo vi aggiunsero tale nome per distinguerlo da altre località omonime.

SAN PONZO (Val di Nizza)

I miracoli della grotta

San Ponzo, noto come asceta, pare abitasse nelle grotte intorno all'omonimo borgo, in Val Staffora;

figlio di un imperatore romano, si convertì al Cristianesimo, rifugiandosi in queste grotte per

sfuggire alle persecuzioni. Scoperto dai pagani, fu decapitato e il suo corpo, conservato dai pochi

seguaci, fu ritrovato nel Medioevo; fu poi dichiarato santo ed anche oggi è venerato nella zona.

Si racconta di numerose guarigioni di malattie renali e di "prodigi" che si verificano dopo un

complesso rito che vede l'ammalato passare attraverso uno stretto cunicolo, per poi restare coricato

per qualche tempo a terra, in una delle grotte.

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SANTA CRISTINA e BISSONE

Il paese prende il nome dal patrono, S. Cristina; Bissione o Bissone, dall'anno 1000, forse è un

alterato di un nome latino Blassius o semplicemente deriva dal dialettale bissa, ''Biscia'' (o milò -

milordo) di cui la zona era piena e spesso d’estate, anche oggi, i contadini ne vedono nelle

campagne circostanti. S. Cristina apparteneva al feudo di Chignolo, passò nel 1600 agli Este e poi

al Collegio Germanico Ungarico; Bissone era proprietà dei Borromeo/Visconti e poi dei

Litta/Visconti/Arese.

Una fanciulla virtuosa: Santa Cristina da Bolsena Santa Cristina deve il suo nome a un'abbazia benedettina, in passato potentissima, poiché sulla via

Francigena. Si racconta che la bellissima giovinetta fu rinchiusa dal padre in una torre, insieme con

dodici sue compagne poiché, convertitasi al cristianesimo, si rifiutò di sposare un pagano. Allora il

padre la fece rinchiudere in prigione e flagellare, poi la consegnò ai giudici che la sottoposero a

supplizi corporali. Ogni volta però tre angeli accorrevano a rincuorarla e a guarirle le ferite. Infine,

con una pietra legata al collo, fu gettata nel lago; gli angeli sorressero la pietra, impedendo che

Cristina annegasse. Il carnefice la uccise allora a colpi di lancia.

Il museo contadino della “Bassa Pavese” Il museo contadino della Bassa Pavese di Santa Cristina e Bissone ricostruisce la realtà contadina

del passato: mille attrezzi e più sono ordinati per tipologia d'attività: da taglio, da stalla, per la

mungitura e la lavorazione del latte; per il lavoro dei campi: raccolta del foraggio, mietitura;

gioghi, basti e finimenti per gli animali; attrezzi usati dai braccianti delle aree paludose e sono in

mostra anche i mezzi agricoli da trasporto, il tutto in ampi spazi.

SANTA GIULETTA

Anticamente fu abitata dai Liguri e dai Galli e poi dai Romani; è’ formata da due nuclei: il castello

e la villa, sorti intorno alla chiesa, dedicata a Santa Giuletta, di origine medioevale, da cui il nome

del paese.

S. Giuletta è venerata in parrocchia, ma il patrono è S. Colombano. Possesso di Piacenza, dal

Barbarossa fu data al monastero di S. Pietro in Ciel d’oro di Pavia, nel 1164; passò al feudo di

Broni, poi ai Beccaria, ai Porcara nel 1536, agli Isimbardi nel 1694 e ai Trotti. Il paese era noto

per la produzione dei giocattoli e soprattutto delle bambole, alle quali è dedicato un museo.

Personaggi illustri Quirino Cristini, creatore di cartoni animati.

Le tagliatelle La zuppa alla pavese è una specialità culinaria le cui origini risalgono alla famosa battaglia di

Pavia del 1525.

Un’altra ricetta è però legata a una battaglia: il 19 maggio 1859 era una bellissima giornata

primaverile. Il marchese Lorenzo Isimbardi era preoccupato, perché nella pianura sottostante il

castello c’era un gran movimento di soldati: due eserciti, quello austriaco e quello franco-

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piemontese, si preparavano alla battaglia di Montebello. Il marchese possedeva estese proprietà

nella zona e, tornato da un giro a cavallo per rendersi conto della situazione, gli fu annunciata la

visita di quattro ufficiali piemontesi, che stavano perlustrando la zona. Mentre il padrone di casa e

i quattro ospiti stavano bevendo, giunsero due ufficiali austriaci, anch’essi in perlustrazione;

grande fu l’imbarazzo! Il padrone di casa, per risolvere la situazione invitò tutti a colazione.

In cucina, presi alla sprovvista, prepararono rapidamente qualche piatto, tra cui le tagliatelle alla

Santa Giulietta, a base di lingua e prosciutto crudo, che furono molto apprezzate.

SANT’ALBERTO DI BUTRIO

Nell'abbazia di Sant'Alberto ci sono solo due tombe: in una si trova il corpo di Sant’Alberto e

nell'altra c’è una scritta “Qui è la tomba dove fu sepolto Edoardo II re d’Inghilterra, che sposò

Isabella di Francia e al quale successe il figlio Edoardo III”. Un re dell’Inghilterra medioevale tra i

monti del nostro Appennino? E’strano! E non è citato in nessun testo storico.

La storia ufficiale dice che, dopo la sua abdicazione in favore del figlio Edoardo III, Edoardo II fu

rinchiuso nel castello di Berkeley, dove venne ucciso il 21 settembre 1327 e sepolto nel sontuoso

monumento dell’abbazia di Gloucester, fatta costruire dal figlio. La storia non ufficiale racconta

che fu fatto fuggire e, per parecchi anni, visse in abbazie e conventi, facendo vita da penitente, per

redimersi dai suoi peccati; sembra che abbia trascorso due anni in un convento presso Acqui

Terme, poi nel castello di Cecima, nell'Oltrepò ed infine a Sant'Alberto, dove morì e fu sepolto!!!.

SANTA MARGHERITA STAFFORA

Barbablu e il castello dei Malaspina

Nel castello dei Malaspina, a Santa Margherita Staffora, la leggenda racconta che uno dei

proprietari, emulo di Barbablù, si sia liberato di alcune mogli, buttandole del pozzo.

SANTA MARIA DELLA VERSA

Prima si chiamava Soriasco; nel 1863 ha assunto il nome attuale e Soriasco è rimasto ad una

frazione; in dialetto è “la Madona” la zona dove sorge la chiesa parrocchiale, costruita sul luogo di

un antico edificio campestre definito miracoloso.

Versa è il nome del torrente, citato nel 1216, il cui nome indica “una curva o storta” o “acqua che

si riversa”, da cui Versa, (dal latino vertere). Passata nel 1029 agli Este, fu distrutta nel 1216 dai

Piacentini che ne rivendicavano il possesso; passò poi a Pavia e in seguito ai Visconti.

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SAN ZENONE

Il nome, che risale al 1863, ricorda il santo patrono; appartenente a S. Colombano dal 1374, passò

al feudo di Belgioioso nel 1475.

La forma di formaggio Successe in un tempo lontano. Era una notte d'estate, serena, calda, afosa; la luna piena brillava nel

cielo e due sanzenonesi si trovarono a chiacchierare sul ponte vecchio dell'Olona quando, vuoi per

la stanchezza, vuoi per la pancia vuota, vuoi per un bicchierino di troppo all'osteria, scambiarono il

riflesso della luna piena per una forma di formaggio che galleggiava sulle acque del fiume. I due

non credevano ai loro occhi ma ma sì...era proprio una forma di formaggio, tonda, grossa. Che

fortuna! Com'era finita in fondo al pozzo? Bisognava recuperarla a tutti i costi; perchè qualcuno

l'aveva persa o forse nascosta proprio lì? Sembrava proprio che l'Olona impietosita, per i tempi di

magra, volesse offrire la cena. Corsero subito a procurarsi una bilancia da pesca ed una volta

ritornati, continuarono per tutta la notte a cercar di tirar su la forma. Ogni volta che tiravano su la

bilancia, sembrava che il formaggio cadesse nella rete ma poi, come per magia, fuggiva.

Arrivarono le luci dell'alba e la forma continuava a fuggire e lo stomaco brontolava per la fame,

quando si accorsero che, con la luce solare che stava nascendo, il riflesso diventava quasi

trasparente e la formaggia era solo la tonda immagine della luna piena, che si rifletteva nell'acqua.

Ci restarono molto male quei due giovani, che tornarono a casa stanchi morti e, soprattutto, con la

pancia vuota. Ancora di più restarono male nei giorni successivi, quando la storia si diffuse per il

paese e divennero oggetto di derisione da parte di tutti.

Da allora, per prendere in giro i Sanzenonesi, dicono loro di andare a pescare la forma di

formaggio e ancora oggi, quando i paesani passano sul ponte, cercano di scorgere fra le acque la

formaggia (luna), che per loro è il simbolo del piccolo paese.

Il gufo E’ alto quasi due metri, con due occhi enormi, il gufo che Spessa non ha voluto, considerandolo

portatore di sfortuna e che invece San Zenone ha accolto con buon augurio. L’autore del gufo è

Vittorio Francalanza, artista sanzenonese, che ha creato la sua opera utilizzando vecchi vomeri di

aratro; la scultura in ferro è rimasta per alcuni mesi in un in una cascina, prima di essere posta al

confine tra i due comuni. Gli abitanti di Spessa hanno però chiesto al sindaco del paese di

allontanarla ed è stata così collocata al centro di San Zenone, in attesa di trovarle un posto

definitivo. I suoi abitanti non hanno certo paura di leggende popolari e vecchie tradizioni.

Personaggi illustri

Gianni Brera Il personaggio più famoso, nato a San Zenone al Po è il giornalista e scrittore Gianni Brera. Di

modesta famiglia, il padre era il sarto/barbiere del piccolo paese della “bassa pavese”,

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trascorse l'infanzia nel paese natale, poi si trasferì adolescente presso una sorella a Pavia; amante

del calcio, iniziò a collaborare con vari giornali, scrivendo cronache sportive. Dopo la seconda

guerra mondiale, lavorò alla “Gazzetta dello Sport” e ne divenne direttore. Brera possedeva uno

stile agguerrito, vivace, critico, arricchito di parole dialettali. Scrisse anche romanzi: II corpo della

ragassa, 1974; Naso bugiardo, 1977; Il mio vescovo e le animalesse; molti i testi sportivi e storici.

Morì in un incidente automobilistico presso Codogno. La sua tomba è nel cimitero di S. Zenone.

Giovanni Alessandro Brambilla Nato a S. Zenone nel 1728 e morto a Padova nel 1800, fu medico chirurgo di grande ingegno e

fama; promosse lo sviluppo della chirurgia in Europa centrale; fu chirurgo dell’esercito austriaco e

medico personale di Giuseppe II, figlio dell’imperatrice d’Austria, Maria Teresa. Promosse la

nascita di una grande Accademia, Josephina, scuola di chirurgia, a Vienna.

San Zenone vanta altri personaggi importanti

l'attore Ferruccio Garavaglia (1878-1912), che recitò per Gabriele D'Annunzio in alcune sue

rappresentazione teatrali;

il pittore Antonio Villa (1883-1962), che affrescò la parrocchiale di San Zenone e numerose chiese

del pavese, tra cui San Pietro in Ciel d' Oro;

l'educatore Marco Rodolfi (1842-1919), che per mezzo secolo insegnò a generazioni di ragazzi i

valori civili e morali;

il vescovo Monsignor Ferdinando Rodolfi (1876-1943), assistente del Papa Pio XI, che insegnò al

seminario vescovile di Pavia e fu vescovo a Vicenza;

il deputato Fabrizio Maffi (1868- 1955), scienziato e docente universitario, che fu dirigente

comunista a livello internazionale e deputato in sei legislature.

SIZIANO

Il conte di virtù Gian Galeazzo Visconti per tutta la vita amò Agnese Mantegazza. Agnese era una bella ragazza di

Siziano, intelligente, colta, che attraeva tanti giovani. Nel 1382, Gian Galeazzo era signore di

Pavia; era detto ”Conte di Virtù” per la sua contea di Vertus, dote della moglie Isabella di Francia;

amava la caccia e un giorno, mentre inseguiva un cinghiale, l’animale si trovò la strada sbarrata

dal Ticinello dove una donna lavava i panni e aveva con sé un bambino in fasce sull’erba. Il

cinghiale afferrò il bimbo e scomparve nella boscaglia, ma il conte lo inseguì, salvando la vita al

bambino. Ferito al fianco dall’animale, l’uomo fu portato nella villa dei Mantegazza, dove Agnese

lo curò e si innamorò di lui, ricambiata. Purtroppo il padre di Agnese, coinvolto in una congiura, fu

perseguitato e fu organizzato il rapimento di sua figlia. Un servo fedele avvertì però, Agnese che,

pur sapendo se avesse tradito Gian Galeazzo, non sarebbe più stata perseguitata, non volle tradire

l’amato e di notte fuggì su un isolotto dell’Olona, ma per la violenza del fiume, Agnese cadde in

acqua; aggrappata ad un tronco, finì a Genzone, dove fu salvata dagli uomini di Gian Galeazzo.

Dopo questa prova d’amore, il conte volle Agnese con sé a Pavia in un palazzo vicino al castello.

Dalla loro relazione nacque Gabriele, che fu legittimato per concessione imperiale.

SPESSA

Dal latino spissa (silva) bosco fitto; era un’antica proprietà delle chiese pavesi di S. Giovanni

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Domnarum e S. Maria Gualtieri, ceduta ai Beccaria di Montebello e poi ai Fiamberti. Nel 1374

passò al distretto di S. Colombano e poi di Belgioioso.

STRADELLA

(Oltrepò)

“Il grappolo d’uva” “Il grappolo d’uva” è una curiosa ma azzeccata definizione dello scrittore sportivo, nativo di San

Zenone, Gianni Brera, per definire l’Oltrepò che, per le sue ricchezze agro-alimentari e storiche

attira pavesi, milanesi, piacentini e genovesi, proprio come il grappolo zuccherino attira le api .

L’Oltrepò ha la forma di un triangolo, delimitato a ovest dal torrente Staffora, a est dal Tidone-

Bardonezza, a nord della riva destra del Po e a sud dalle montagne dell'Appennino, tra Piemonte

ed Emilia.

L'originario sviluppo e la distribuzione dei centri abitati dell'Oltrepò sono legati alla

conformazione e alle caratteristiche del terreno; molti paesi sono sorti allo sbocco delle valli, cioè

al termine delle grandi vie naturali dei commerci, come è avvenuto per Voghera, vicina allo

Staffora, per Casteggio al Coppa, per Broni allo Scuropasso e per Stradella alla Versa.

Dal punto di vista economico, l'Oltrepò presenta una zona montana poco produttiva, che ha saputo

sfruttare in parte l’aspetto turistico, una fascia collinare che ha valorizzato l'agricoltura vitivinicola

e la pianura con le colture cerealicole e bieticole, dove è diffusa la media e piccola proprietà

terriera..

Negli ultimi decenni, l'Oltrepò ha visto svilupparsi il turismo del fine settimana.

Il culto dei morti Molte sono le credenze popolari legate al culto dei morti e radicate nella cultura paesana. C’è ad

esempio la tradizione di Ognissanti e del giorno dei Defunti. In alcuni paesi si crede che il 2

novembre i morti tornino nelle case che hanno abitato in vita ed i familiari si alzano all'alba per

rendere la casa accogliente, mangiano di magro e recitano le preghiere dei defunti e il rosario,

tenendo in mano tre corone, così si fa penitenza per le loro anime.

Un tempo i bambini si sbrigavano per partecipare alle funzioni dei morti perché, a conclusione del

rito religioso, la perpetua li accoglieva in canonica per riempire di ceci bollenti e profumati il

pentolino di rame che avevano portato da casa. Ancora oggi, in tanti paesi della nostra provincia, il

giorno dei morti si cucinano questi legumi, “i sisar di mort”, con verdure e cotenna di maiale.

Si riteneva un tempo che, nella notte di Ognissanti accadessero stregonerie e incantesimi

particolari, perchè era la notte del Grande Sabba, quando spiriti maligni e streghe si radunano

intorno a grandi querce e noci. Per questo i viandanti e i pellegrini non attraversavano boschi e

luoghi isolati, per evitare di essere attirati da una dolce melodia, in grado di far perdere loro

l'anima.

Le campane del Foro Boario Le campane possono essere di aiuto, sia contro le disgrazie sia contro i fulmini del cielo.

A Stradella, nel 1859 le cinque campane, costruite dalla ditta Barigozzi di Milano, furono issate

sulla torre del campanile. Una leggenda raccontava che l'oro mescolato con il metallo usato per

fonderle avrebbe reso perfetto il suono delle campane e tenuto lontano le disgrazie dalla cittadina,

così molte donne si recarono in piazza per donare anelli, bracciali, orecchini d'oro.

Le note delle campane hanno un significato religioso: il do è il “campanone” che rintocca il

mezzogiorno e le varie ore piene; il fa e il sol chiamano la gente alla messa; il re suona l'Ave

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Maria; il mi batte tre rintocchi per segnalare la morte di qualcuno o suona a distesa per avvertire

dell’arrivo di temporale e cercare di allontanarlo, sparpagliando le nuvole minacciose e

scacciandole; le campane suonano a festa tutte quante insieme.

Tra storia e leggenda: le fisarmoniche Il trentino Mariano Dallapè, dopo un’infanzia e un'adolescenza trascorse in miseria, ventenne

abbandonò le montagne per cercare fortuna in Italia, portando come unico bagaglio un vecchio

organetto. Giunto a Genova, trovò impiego presso il porto. Un incidente sul lavoro lo rese inabile e

claudicante, per cui decise di tornare al paese natale. A Stradella però l'organetto si guastò e

Mariano cercò di ripararlo, ma ne nacque uno strumento nuovo: la fisarmonica a cassetta, che fu

un successo, usata in tutte le forme e i generi musicali, dalla musica popolare, al jazz. Mariano, nel

1876, fondò a Srtadella la fabbrica di armoniche Mariano Dallapè & figlio, che diresse fino alla

morte. Grazie a Mariano Dallapè, Stradella può vantare il titolo di “capitale mondiale della

fisarmonica”. La cittadina oltrepadana, ha voluto dedicargli il Museo della fisarmonica, inaugurato

nel 1999, dove è presente anche un piccolo laboratorio artigianale ed una esposizione di circa 40

strumenti, con moltissime foto e schede informative.

Personaggi illustri

Agostino Depretis Nato a Cava M. nel 1813, eletto nel Parlamento subalpino nel 1848 e in quello italiano nel 1862,

successe al Rattazzi nella direzione della Sinistra e più volte fu nominato Primo Ministro; si

occupò della gestione delle ferrovie, promosse una riforma elettorale, il trasformismo, per avere

sempre la maggioranza in Parlamento, portò l’Italia nella Triplice Alleanza; morì a Stradella, suo

paese d’adozione, nel 1887.

Ulisse Marazzani E’ un altro personaggio illustre di Stradella, dove nacque nel 1867; fu medico chirurgo apprezzato,

politico e benefattore; morì a Vigevano nel 1951.

Le leggende della merla Esistono numerose leggende per spiegare la denominazione degli ultimi giorni di gennaio, “i dì

d’la mèrla.”

I giorni della merla sono considerati i più freddi dell’anno: il 29, 30 e 31 gennaio; per alcuni sono

il 30, 31 genn. e il 1° di febbr.; per altri il 31 genn. e il 1° e il 2 di febbr. ( da cui i proverbi: “Dù a

gh’io e v’un l’imprestarò; v’un a gl’ò e dù imprestarò”).

La protagonista, la merla, in certe zone è una deliziosa ed innamorata fanciulla nel giorno delle

nozze, mentre in altre è un uccello, appunto il merlo.

In passato questi giorni erano l’occasione per rituali scaramantici e soprattutto per i festeggiamenti

che dovevano servire ad allontanare il gelo dell’inverno, ricreando un clima di festosa convivialità.

Oggi non rimane che una vaga memoria dei festeggiamenti e rare sono le manifestazioni che

sopravvivono.

Un inverno particolarmente freddo colpì l’Europa nel 1929 (l’anno della crisi di Wall Street); nei

giorni dall’11 al 15 febbraio il gelo raggiunse il culmine e la neve fece la sua comparsa anche sulle

coste dell’Africa del Nord; ghiacciarono le rive del Po e dell’Arno, alcuni minori laghi appenninici

ed anche il lago di Garda; in Puglia caddero due metri di neve e a Roma nevicò così tanto che

molti fili dell’energia elettrica si spezzarono; freddo e nevoso fu anche il 1985; memorabile per il

gelo resta anche il 2012: in febbraio le acque dei nostri fossi sono gelate, molte tubature dell’acqua

di tante case sono gelate, causando inevitabili problemi.

Già dai tempi di Dante era diffusa la leggenda di un merlo che, visto il buon tempo alla fine di

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gennaio, credendo che fosse finito l’inverno disse al padrone: ”Or non ti curo, domine,” e se ne

volò via. Per questo il poeta scrisse: ”Ormai più non ti temo\come fe' l’ merlo per poca bonaccia.”

(Purgatorio cap. 13)

Leggenda di 1) STRADELLA Tanto tempo fa i vescovi di Pavia usavano passare l'autunno in Oltrepò, nella rocca di Montalto

che, dalla cima del colle sopra Stradella, domina la pianura del Po. Un anno, il vescovo portò con

sé a Pavia, come aiutante, un giovane del luogo. Passati alcuni anni, il giovane fece ritorno al suo

paese dove rivide la cugina, che era diventata una graziosa fanciulla, soprannominata “la bella

merla”. I due giovani si innamorarono e fissarono la data di nozze: il 29 gennaio, incuranti del

fatto che da qualche giorno faceva talmente freddo che il Po era gelato. I festeggiamenti si

protrassero per 3 giorni e poi, il 31, i novelli sposi partirono alla volta di Pavia. Occorreva

attraversare il Po, passando con il carro sopra lo strato di ghiaccio di cui era ricoperto il fiume. (A

quel tempo non esistevano ponti e il Po si attraversava solo in barca). Improvvisamente la crosta di

ghiaccio incominciò a scricchiolare e cedette, sotto il peso del carro nuziale, che venne

immediatamente inghiottito dalle gelide acque, insieme alla povera sposa, tra gli sguardi attoniti e

terrorizzati di parenti ed amici. Lo sposo, illeso, immerse più volte le braccia nelle acque gelide,

nel disperato ma vano tentativo di afferrare la sua sposa, trascinata via per sempre dalla corrente. Il

suo corpo non fu mai ritrovato. (Sono in molti a credere che ogni inverno, negli ultimi 3 giorni di

gennaio, ”i giorni della Merla”, il suo fantasma torni a vagare tra le mura dell’antica rocca).

Disperato e pazzo di dolore, il giovane rimase per diverso tempo tra la vita e la morte. Si alzò dal

letto solamente in aprile. Fissava la casa che non avrebbe mai abitato e vagava senza meta,

cercando disperatamente la sua sposa. Morì alla fine dell'estate; i più vecchi ricordano che, nei

giorni più freddi, le ragazze da marito si radunavano sulla riva del Po per cantare questa canzone:

E di sera e di mattina /la sua merla poverina,/piange il merlo e piangerà.

Leggenda di 2) TORRAZZA COSTE Un tempo i merli erano bianchi come la neve. Gennaio stava per finire; era stato un mese molto

mite, al punto che una candida merla, incontrando gennaio mentre si godeva lo spettacolo delle

colline, lo derise, fischiettando allegramente. Gennaio finse indifferenza, ma si precipitò verso

un'altissima montagna ricoperta di ghiacci eterni, dove si procurò una buona scorta di freddo, poi

tornò a valle e vi scatenò una gelida bufera che durò 3 giorni. La merla, costretta a lasciare il nido

per non congelare, trovò riparo nel caldo tepore di uno dei tanti camini del paese (da sola o forse

con l’intera famigliola). Arrivato febbraio, l'aria si fece tiepida e la merla riprese a svolazzare

contenta, ma le sue piume non erano più bianche: erano diventate nere, come la fuliggine del

camino, dove si era riparata dal freddo. Da allora tutti i merli nacquero con il piumaggio nero e gli

ultimi giorni di gennaio sono chiamati “i giorni della merla.” (i merli bianchi restano un’eccezione

per le favole)

TORRE DE’ NEGRI

Torre de' Negri (Tud di Négar) sorge a breve distanza dal Po, ai margini della valle alluvionale del

fiume.

Apparteneva alla famiglia degli Scanati ed era detto, per questo, Casa o Torre degli Scanati, poi

passò ai Negri di Pavia, nel 1697, da cui il nome del paese; fece parte della Campagna Sottana

pavese e dal XV secolo, del Vicariato di Belgioioso, feudo degli Estensi. Nel 1394, Umberto Negri

edificò una chiesa, dedicata a S. Antonio Abate, che diventò la Chiesa Parrocchiale. Nel 1697 i

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Negri della Torre ottennero il feudo e nel 1706 il titolo di Conti.

Nel 1929 il comune di Torre de' Negri fu unito a Belgioioso ma, dopo la Liberazione, nel 1947, il

comune di Torre de' Negri fu ricostituito.

Si celebra la sagra della Madonna della Cintura e si valorizzano i prodotti enogastronomici del

luogo.

I boschi della Ramazzotta Se dopo una giornata di lavoro o nel pomeriggio di una tranquilla domenica, (mentre il sole

tramonta e gli ultimi raggi cadono sul bosco silenzioso, suscitando un'atmosfera di pace, rotto

soltanto dal movimento furtivo di qualche uccello) si percorrono i boschi della Ramazzotta, sarà

come entrare in un mondo fatato... ricco di enormi alberi che richiamano un mondo antico, con le

loro cortecce segnate del tempo, che hanno resistito alle tempeste e che conservano i ricordi di

vicende secolari.

TORRE D'ISOLA

E’ un composto di Torre e Isola, indicanti una torre e forse un’isola sul fiume; seguì le vicende di

Pavia, passò ai Botta ai Cusani-Visconti e ai Litta-Modignani.

La battaglia di Torre d’Isola Qui si svolse, secondo la leggenda, una battaglia tra due imperatrici che ambivano al trono,

Adelaide e Teofano, nonna e madre del piccolo Ottone III, che a soli 3 anni era diventato

imperatore del Sacro Romano Impero, la notte di Natale del 983, alla morte del padre. Adelaide fu

la vincitrice e ordinò di uccidere tutti coloro che, di notte, si aggiravano nel luogo dello scontro. Le

sentinelle scorsero una donna che con un lumicino cercava, tra i morti, il corpo del figlio e non

ebbero il coraggio di ucciderla. Adelaide, impietosita, ordinò di costruire una torre per ricordare

l’eroismo di tutti i soldati caduti in battaglia e da allora il paese è diventato Torre d’Isola.

Il fantasma del marchese Antoniotto La villa di Torre d'Isola fu costruita nel sec. XVIII dai marchesi Botta Adorno. Il fantasma presente

nella villa è quello del suo fondatore, il marchese Antoniotto, un ufficiale asburgico, del quale non

si conosce il luogo di sepoltura e che ogni tanto, di notte, appare ai suoi eredi: sposta i quadri, fa

rumori nella parte più antica della casa. Forse il fantasma cerca di rivelare il luogo in cui nascose il

tesoro della Repubblica di Genova, quando il governatore fuggì, sconfitto ed in gran fretta,

portando con sé il tesoro. Arrivò a Torre d'Isola, nella sua villa, ricostruita sul palazzotto più

antico già esistente. Antoniotto aveva intrapreso la carriera militare, si distinse in battaglia e fu

anche ambasciatore, presso la corte di Russia e di Prussia; a Genova, come governatore della città,

fu così arrogante (anche per vendicare il padre che, accusato di complottare contro il doge, era

stato esiliato dalla città) che provocò l’insurrezione del popolo, il 5 dicembre 1746; dopo un mese

gli Austriaci furono cacciati da Genova. Il marchese, dopo la sua fuga, pare abbia nascosto il

tesoro, contenuto in una ventina di casse, in uno dei suoi tre castelli (Silvano Pietra, Branduzzo e

Torre d’Isola), ma niente è mai stato trovato. Morì ad 88 anni, senza figli; forse è sepolto a Pavia,

nella chiesa dei santi Gervaso e Protasio, dove si trova una lapide che si era fatto scolpire nel 1757,

ma il suo fantasma non ha ancora pace e pare che vaghi nell’ala vecchia di questo castello, dove si

pensa che sia nascosto il tesoro. Qualcuno volle cercare il tesoro, con l'aiuto di sedute spiritiche,

ma senza risultati.

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TORREVECCHIA PIA

Leggenda o realtà? Nell'anno 49 a.C.il legionario romano Lucio Mario ricevette in dono, da Caio Giulio Cesare, una

centuria nei territori selvaggi della Gallia Cisalpina. Lucio decise di stabilirsi nei territori al di là

del fiume Padus, si comprò 4 schiavi e con loro, dopo un lungo viaggio, arrivò in quel territorio

ricco di acquitrini e di boschi, dove si fermò. Il terreno era ricco di argilla e gli schiavi la

impastarono e modellarono mattoni e tegole che poi cossero nelle fornaci, costruirono una casa,

crearono vasi, anfore. Il terreno fu bonificato e altri romani giunsero lì e vi costruirono le loro

ville. I secoli passarono e l'impero romano fu poi travolto dai barbari. In un documento del 1181

compare per la prima volta il nome di :” Turre” detta” Vegia”.

Pia Pia era una giovane e bella fanciulla aristocratica che visse nel XVI sec. a Torrevecchia; si

innamorò di un contadino, Domenico Orsolino. Un giorno però la domestica Rosa, anch'ella

innamorata di Domenico, scoprì la storia e per gelosia raccontò tutto al suo signore che ripudiò la

figlia, la rinchiuse nella vecchia torre ed esiliò il contadino. La giovane scriveva lettere

all'innamorato e le consegnava a Rosa ma la serva bruciava nel camino quelle lettere d'amore.

Passarono mesi e Pia si rese conto che Domenico non sarebbe mai più tornato da lei, così decise

di chiedere perdono al padre, di entrare in convento e di aiutare i poveri. Solo prima di morire

Rosa rivelò il segreto a Pia che la perdonò. La notizia si diffuse e gli abitanti, per ricordare la

generosità di Pia vollero aggiungere il suo nome a quello del paese, che diventò Torrevecchia Pia .

VAL DI NIZZA

Nizza è il nome del torrente, affluente della Staffora. Nella valle sorge il castello di Oramala.

Il castello di Oramala Le prime fonti sul castello di Oramala risalgono al 976, anno in cui Ugo d'Este donò l’edificio al

vescovo di Pavia. Nel 1164 il castello passò ai Malaspina. Anche Dante Alighieri, esule da

Firenze, fu ospite nel castello ed immortalò i Malaspina nel Purgatorio.

Il castello di Oramala, nel quale non manca una botola sopra la prigione ed un foro per

versare l’olio caldo sui nemici, è infestato da spettri e fantasmi. “Ogni 25 dicembre, a

mezzanotte, si accende la luce della terza sala della torre, che rimane accesa per alcune ore e

poi si spegne. Il fenomeno sarebbe provocato dagli spiriti dell’imperatore Federico

Barbarossa, del marchese Obizzo Malaspina (che nel XII secolo era il proprietario del

castello) e di sua moglie che, dopo tanto digiuno, si rifocillano la vigilia di Natale, in un

cenone preparato per loro in una sala chiusa. I Malaspina ospitarono il Barbarossa nella

rocca per una notte, (dopo aver deposto il Papa e messo un Antipapa a Roma) e aiutarono

l’imperatore, inseguito dalle truppe del Carroccio, a fuggire dall’Italia. Sembra che nel

cortile del maniero, appoggiato al pozzo, il Barbarossa abbia dato lui il nome Oramala al

castello, ispirandosi alla sua condizione. Nel castello si sentono strane voci e rumori,

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soprattutto nei mesi invernali ed autunnali, quando si avverte il rumore di zoccoli di cavalli

lanciati al galoppo, di armi e di battaglie, come se si combattesse. Attorno a questo castello

sono successe sempre strane cose. Secondo una maledizione, ogni 25 anni si verifica

qualche fatto di sangue nei pressi o dentro al maniero: una ragazza che giocava fra i ruderi,

precipitò dalla torre e perse la vita; un uomo morì ai piedi del castello!!!

VARZI

Di origine ligure, “var”, fiume, nell’età romana e nell’Alto Medioevo Varzi fu stazione di posta nel

percorso tra il Mar Ligure e la Pianura padana; i Malaspina governarono a lungo, dal 1164, per

decreto del Barbarossa, quando Varzi dipendeva da Oramala; il XII e XIII sec. rappresentano il

periodo di massimo splendore; gli Sforza subentrarono nel 1604.

Non si conosce la data di costruzione del castello; oggi restano solo ruderi ricoperti di edera.

I Malaspina possedevano una casa a Varzi nel 1168; il feudo di Varzi è datato 1275. Il castello

sorge al centro del paese e la sua torre è sempre stata adibita a prigione; è detta Torre delle streghe

perché nel 1460 vi furono rinchiuse 25 donne ed alcuni uomini, condannati dal tribunale

dell’Inquisizione, con l’accusa di stregoneria, che furono poi bruciati sulla pubblica piazza.

Il fantasma di Bernabò nel castello Del castello oggi rimangono solo ruderi ricoperti di edera. Nel 1514 il castello di Cella, feudo dei Malaspina, fu assediato e distrutto dai soldati di

Massimiliano Sforza, figlio di Ludovico il Moro; Bernabò Malaspina, che aveva favorito la fuga

del cardinale Giovanni de’ Medici, il futuro papa Leone X, fu catturato dallo Sforza, portato a

Voghera, dove fu squartato vivo. La leggenda racconta che il suo fantasma ritorna periodicamente,

di notte, nel castello di famiglia, dove visse i momenti più belli della sua vita.

VIGEVANO

Nell’816 è attestato come Vicongena, nome che cambia varie volte fino a Vigevine nel 1058 e

Vegleveno, Veglivino nel sec XI. Forse deriva da vicus-vico- villaggio e dal nome germanico di

persona- Gebuin- Di origine forse longobarda, fu a lungo contesa da PV e MI; finì a Torriani, ai

Visconti, agli Sforza; qui nacque Ludovico Sforza, il Moro, che abbellì la città con molti edifici.

Passò a Carlo V e nel 1700 ai Savoia.

Personaggi illustri Lucio Mastronardi:c maestro e scrittore.

I fantasmi del castello

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Si racconta che nel castello vaghino i fantasmi delle dame di Beatrice d'Este, la giovanissima

sposa di Ludovico il Moro, che morì di parto, mettendo alla luce il 3° figlio, alla fine del 1400. Gli

spiriti apparirebbero nelle logge degli appartamenti riservati alle donne, nelle afose notti estive.

Il drago Si narra dell'esistenza di sotterranei che, dal castello di Vigevano portavano al Ticino e fino a

Milano. I sotterranei erano la tana di un mostro gigantesco, un serpente con ali ampie come quelle

dei pipistrelli, con occhi in grado di incantare chi aveva la sfortuna di incrociare il suo sguardo e

che emanava un fetore insopportabile, capace di tramortire anche a distanza. Chi aveva osato

entrare nei sotterranei, ne era poi fuggito terrorizzato (se era riuscito a salvarsi). Alcuni prigionieri

del castello pare siano scomparsi senza lasciare traccia, forse portati via dal drago. Non si sa che

fine abbia fatto il mostro!

Il cavallo di Ludovico Dopo la sconfitta di Novara del 1500, Ludovico il Moro era ormai senza regno. Quella notte un

cavallo bianco giunse al galoppo nel palazzo, salì le scale del castello, nitrendo e lanciando

vampate di fuoco; era il cavallo di Ludovico, che egli non aveva portato in battaglia per salvarlo e

che ora cercava il padrone. Il destriero, con gli zoccoli, scavò un buco nel terreno e poi sparì nel

buco.

Il rogo del diavolo S. Bernardo di Chiaravalle, nel 1135, doveva recarsi a Vigevano per una predica ma il diavolo, per

impedirgli di giungere in tempo, gli tolse una ruota dalla carrozza; Bernardo catturò il diavolo e lo

sostituì alla ruota mancante, così raggiunse Vigevano. Per tradizione si celebra a Vigevano “Il rogo

del diavolo” sulla piazza della chiesa, alla fine di agosto. Il diavolo, legato a una corda, viene

calato su una catasta di legno e se brucia velocemente significa che sarà un anno sfortunato.

La torcia e il gattino

La sera del 1 novembre, giorno dei Santi, una donna camminava velocemente verso il convento di

San Pietro Martire, a Vigevano. Suonavano le campane e faceva freddo. Quel convento, dove san

Domenico aveva convertito molti eretici, era illuminato ma, ad un tratto, apparvero tante luci

anche lungo la strada: erano le torce di molte persone che si avvicinavano. La donna, impaurita, si

nascose; gli uomini camminavano lenti, a due a due, vestivano un saio grezzo, lungo fino ai piedi e

calzavano sandali. Uno di loro si avvicinò alla donna e, passandole la torcia, le disse: “Tenetela

voi!” “Da dove venite?” riuscì a balbettare la donna, spaventata ma, … senza risponderle, l’uomo

rientrò nel gruppo e la processione si allontanò. La donna corse in chiesa, pregò e poi ritornò a

casa, con la torcia accesa in mano. La spense e poi la mise in una cassapanca. Il giorno dopo,

quando aprì la cassa, trovò al posto della torcia il braccio di una persona e, terrorizzata, la

rinchiuse e corse a riferire a un padre del convento la sua terribile esperienza. Egli le disse di

tornare quella sera nello stesso punto dove aveva incontrato la processione, portando con lei il

braccio del morto e di cercare l’uomo senza la torcia per ridargliela, insieme a un bel gattino

bianco, animale sacro alla Madonna che, da bambina, ne aveva sempre uno accanto a sé. La donna

ubbidì, ridiede il suo braccio all’uomo, insieme al gattino. Nella chiesa della Madonna della Neve,

a Vigevano, c’è l’affresco del 1400 della Madonna con il bambino che gioca con un gattino.

Sembra che Leonardo da Vinci si sia ispirato a questo affresco per dipingere la Madonna del gatto.

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VILLANTERIO

Nel Medioevo era Villa Lanterii (dal latino villa, dimora di campagna e dal nome di persona

Lanterio); nel Medioevo appartenne al monastero di S. Pietro in Ciel d’Oro che la assegnò ad una

famiglia locale che prese il nome di Capitani di Villanterio, poi passò agli Schiaffinati, ai Ricci ed

ai Vitali.

VISTARINO

L’arcone e la galleria segreta Forse deriva dal latino Vestorinus o Vestorius; nel 1181 era autonomo e passò in feudo ai Beccaria

nel 1450, poi ai Giorgi e nel 1659 ai Vistarini.

Si racconta che accanto alla rocca dei Beccaria sorgesse la casa di un eremita. Sui resti della rocca

sorse poi il palazzo dei conti Giorgi ed i resti delle antiche costruzioni furono portati alla luce

successivamente. Dove sorgeva l’eremo fu costruita la chiesa parrocchiale, ma resta un arcone che

unisce il cortile del palazzo alla chiesa ed accoglie come una grande porta chi entra in Vistarino da

Belgioioso. Una piccola galleria, costruita sulla volta, permetteva ai conti di recarsi in chiesa ed

assistere alle funzioni religiose, senza essere visti dalla gente, aprendo un lunotto ribaltabile, verso

la navata.

VOGHERA

Viquerae, come risulta nel 915, da vicus (vico, villaggio) e Iria, antico nome del fiume Staffora,

che attraversa la città, o nome dell’antico villaggio, distrutto dai barbari. Fondata dai Liguri e

conquistato dai Romani nel 197 a. C., appartenne a Tortona e fu feudo del vescovo di Tortona, al

quale fu donato dall’imperatore Ottone nel 979. Quando il Barbarossa distrusse Tortona, la città fu

donata da Enrico IV al Comune di Pavia, nel 1191. Passò ai Monferrato, ai Beccaria e ai Visconti

nel 1314, quindi dopo varie casate, tornò ai Dal Verme nel 1523 e poi ai Dal Pozzo; nel 1748 fu dei

Savoia e nel 1770 ottenne il titolo di città.

Le fave e le predizioni

A Voghera e nell’Oltrepò Pavese si cantava e si mimava il gioco de “La bela vilana la pianta la

fava...” L'origine della danza era una ritualità contadina per propiziare un buon raccolto. La fava, il

primo germoglio primaverile, era il simbolo della resurrezione. Antico ingrediente anche per i filtri

delle fattucchiere ha conservato, nei tempi, la sua caratteristica magica, usata dalle donne

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lombarde per predire fortuna o sfortuna e nozze più o meno felici. Sotto il cuscino delle donne si

ponevano tre fave, in un sacchetto: una intera, una semisbucciata, una completamente sbucciata.

Se al mattino successivo veniva tolta per prima dal sacchetto la fava sbucciata significava l’arrivo

di disgrazie o un marito povero.

ZAVATTARELLO

Dal dialetto Zavatteè, ciabattino. Fu donato dall’imperatore al monastero di S. Colombano a

Bobbio nel 972; fu feudo dei Dal Verme nel 1387, poi di Federico di Luxembourg nel 1491 e di

Galeazzo Sanseverino nel 1520, dopo la morte del quale, in seguito alla battaglia di Pavia, tornò ai

Dal Verme.

Il fantasma I fantasmi popolano il castello Dal Verme di Zavattarello.

Anche la troupe del programma “Mistero” di Italia 1, si è recata nel borgo medievale, nel 2011, per

uno speciale dedicato a queste strane e inquietanti presenze. Il fantasma sarebbe, secondo gli

abitanti del paese, lo spirito del conte Pietro Dal Verme, feudatario del XV secolo, avvelenato dalla

duchessa Chiara Sforza, figlia di Ludovico il Moro, nel 1485, proprio nel castello di Zavattarello.

La donna della potente famiglia milanese, era stata rifiutata da giovane, come sposa, (matrimonio

di convenienza, per unire due potenti famiglie del Nord Italia) dallo stesso Dal Verme, innamorato

di Camilla Del Maino, che sposò ma morì misteriosamente (forse assassinata dal marito o forse dai

parenti di Pietro, perché avvenisse il matrimonio con Chiara). Il conte la sposò in seconde nozze,

nel castello di Z. e per vendetta, a causa del primo rifiuto, ella lo uccise, avvelenandolo con la

cicuta (pare con l’appoggio dello zio Ludovico il Moro). Da allora molte persone giurano di aver

visto e sentito aprirsi e chiudersi le porte nelle sale dell'ultimo piano della rocca, dove c’era la

camera da letto del conte Pietro. Qualcuno ha visto anche comparire figure in abiti medioevali

lungo i corridoi. Nel 2011, durante un concerto nel castello, pare sia sparito inspiegabilmente uno

spartito musicale.

ZECCONE

Natale con il diavolo In passato, durante una veglia natalizia, si verificò uno strano avvenimento. Al Mulino Nuovo, nel

comune di Zeccone, la famiglia dei mugnai era guidata da Pinelu, legatissimo al lavoro e poco

amante delle funzioni religiose. Nella notte di Natale, Pinelu era impegnato al mulino, a macinare

farina. I suoi familiari invece si recarono in Chiesa per la Santa Messa di Mezzanotte. Rimasto

solo, il vecchio mugnaio si recò nel locale macina ed allo scoccare della mezzanotte sentì un forte

vento che spense i lumi ad olio e un forte boato che fece tremare i mulini. Spaventato, Pinelu si

accovacciò, tese l'orecchio; gli sembrò che il rumore provenisse dalla roggia Carlesca; cauto,

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l’uomo si mosse per osservare il canale che alimentava le pale del mulino. Mentre si avvicinava

alle pale, notò che erano in ordine, ma ferme; avanzò e vide un robusto e villoso caprone, dalla

lunga barba nera, che impediva il movimento delle pale, con le sue lunghe corna. Dallo spavento,

Pinelu rimase senza fiato, mormorando: “Quello è il diavolo!” Il caprone, che era proprio il

demonio, osservava il mugnaio con ghigno beffardo e gli disse di andare a dormire, tanto le pale

erano inservibili. Pinelu, spaventatissimo, si avviò verso la sua stanza, non riuscendo tuttavia a

prendere sonno. Alle prime luci dell'alba, Pinelu si recò nel locale macina, per verificare il

funzionamento delle ruote e notò che sopra le macine vi era un profondo solco che impediva la

frantumazione dei cereali. Da quel giorno, Pinelu modificò il suo comportamento; preso dal suo

senso di colpa per non aver rispettato la festività natalizia, si dedicò con rispetto alle funzioni del

Santo Natale.

Una notte di luna A Cascina Bosco, una modesta cascina agricola, in una notte di luna piena, Gianni, barbiere di

professione e pescatore per hobby, si recò con il suo cane verso il fossato che costeggia la cascina

il “Cavone“, portando con sé la fiocina per pescare qualche luccio. Vide nell’acqua una forma di

formaggio, probabilmente caduta dal carretto di qualche casaro, pensò lui. Gianni cercò un

attrezzo per afferrare il formaggio, ma non trovando nulla corse verso casa, quando incontrò

l’amico Serafino, al quale raccontò del formaggio “ piovuto dal cielo”. L’uomo si offrì di aiutarlo

con un rastrello e una rete, ma la forma si frantumò e i due cercarono di recuperare almeno i

frammenti di formaggio. Questi però si sparpagliarono, finché la luna sparì, ma anche il formaggio

era sparito; tra i due uomini scoppiò un vivace litigio con reciproche accuse e si arrivò alla rissa. Il

giorno successivo, i due si ritrovarono entrambi, malconci, nella sala d’attesa del medico. Alla fine

i due amici fecero pace e si accordarono per un nuova gara di pesca.

ZERBO

Il toponimo, in dialetto Zèrb, riflette la voce lombarda zerb “terreno incolto,” acerbo, che indica

terra incolta e si ripete in altre nomi locali.

L'insediamento ebbe forse origine, così come quello della frazione Torre Selvatica, da

fortificazioni erette sulla riva sinistra del Po ai tempi delle prime rivalità tra Pavesi e Piacentini,

che spesso si scontravano lungo il fiume.

Nei più antichi documenti è chiamato Gerbo, Gerbi, villa Gerbidi e risulta possedimento di Corte

Olona, sede regale lombarda e del monastero di S. Agata in Pavia, uno dei primi nella Lombardia

cristiana, fondato nel 672. Nel 1187 papa Urbano III conferma a S. Agata alcuni beni, tra cui

Jerbum.

Nel 1374 Zerbo e Torre Selvatica appartengono al vicariato di S. Colombano, poi a quello di

Belgioioso.

Il castello, nei primi tempi, fu proprietà di una famiglia pavese guelfa, Pavaro o Paveri, nel 1453

passò ai Bracazoli e nel 1683 divennero signori di Zerbo e Torre Selvatica i marchesi Ghislieri e

nel 1771 i conti Gallarati-Scotti. Durante le numerose guerre, questa zona, situata sulle rive del Po

fu più volte attraversata da eserciti; si ricorda il saccheggio dei Franco-Spagnoli nel 1746.

Il castello, del 1600, situato su un’altura, era circondato da un vecchio fossato; è disposto su tre

lati, chiusi da un muro di cinta; ai lati si notano ancora antichi edifici, forse fortificati e sul muro di

questi è dipinto lo stemma della famiglia Roverselli. Dietro il palazzo vi sono abitazioni dette

Colombarone (da colombaie), una torre rimaneggiata e resti di una rocca medioevale. Torre

Selvatica ha subito molte trasformazioni; negli anni venti i contadini iniziarono inutili scavi,

sperando di trovare un leggendario tesoro.

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La chiesa di Zerbo divenne parrocchiale nel 1500 e nel 1819 fu completamente ristrutturata.

Zerbo leggermente staccato dalla riva del Po non ebbe mai un porto o un attracco sul fiume, a

differenza di S. Zenone e Pieve Porto Morone; per questo la sua vita e la sua economia non furono

di tipo fluviale, ma agricolo.

Personaggi illustri

Diego Marabelli, ciclista;

Padre Michele Pio Fasoli, martire in Etiopia, beatificato nel 1998.

Zerbo ha onorato il suo martire con la statua lignea nella chiesa, la raffigurazione del martire

francescano in un quadro, la composizione di un inno ispirato alla vita Beato, l’intitolazione di una

Piazza, la collocazione nell’omonima piazza di una statua in bronzo ed un libro con le

testimonianze degli scritti sul Beato Michele Pio ed i suoi due confratelli nei burrascosi viaggi

verso l’ Etiopia, la loro terra di missione, dove è avvenuto il loro martirio con un’ atroce

lapidazione. Proclamato beato da Giovanni Paolo II nel 1988, il frate possedeva una vasta cultura,

temperamento artistico (sapeva dipingere ed eseguire opere in bronzo)e creò il vocabolario e una

grammatica della lingua abissina.

Al cucù dal Zèrb Le sponde del fiume Po sono popolate da numerosi uccelli, tra cui il cuculo (cuculus canorus-che

depone un solo uovo senza covarlo, perchè lo deposita nel nido di altri uccelli, sostituendolo a un

uovo presente). E’ un uccello migratore, che vive nei boschi e nella zona lungo il Po, fitta di

boschi, adatta alla vita del cuculo, chiamato così per il verso del suo canto, che fa proprio “cucù-

cucù”. Comincia a cantare ad aprile, la stagione degli amori e finisce a metà maggio. Si racconta

che un abitante del luogo, mentre passeggiava sulle rive del Po, costeggiate dagli ombrosi boschi

e pioppeti, in una calda giornata estiva, vide levarsi all'improvviso dai rami degli alberi qualcosa

di indefinibile che emanava degli urli, che sembravano quasi richiami. L'uomo, alzando lo

sguardo, abbagliato dal sole, intravide un essere alato, luminoso, fosforescente che si librava in

alto nel cielo. Stupito ed incredulo, tornato a casa di corsa, raccontò di aver avuto una visione

strabiliante; il fatto suscitò perplessità e anche risa. (Probabilmente si trattava del cuculo che,

spaventato era volato via emettendo il suo “cu-cu”). La storia si diffuse e da allora gli Zerbesi

sono soprannominati “cucù”.

Forse il cuculo smetteva di cantare a maggio perché proprio a metà del mese, alla festa del patrono

di Zerbo, S. Pietro, gli Zerbesi, per festeggiare mangiavano tutti i cucù del Po. (a San Pedar quei

dal Zerb i masan al cucù).

Cucù è detto in realtà il gallo che si cucina nel giorno di festa del paese, a S. Pietro; ancora oggi,

per prendere in giro uno Zerbese o soltanto qualcuno credulone lo si definisce “cucù”.

Perchè gleva Delaide Negli anni passati, a Zerbo abitava una signora di nome Adelaide, che aveva un cane che si

chiamava “Perchè”. Quando qualcuno le chiedeva: ”Come si chiama il tuo cane?”, lei diceva:

”Perchè” e l'altra persona: ”Perchè voglio saperlo...”, Adelaide di nuovo: ”Perchè” e la storia

continuava per le lunghe. Adesso, quando qualcuno chiede troppi perchè: “perchè questo, perchè

quello..., si risponde: ”perchè gleva Delaide!

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ZERBOLO’

Dal lombardo zerb, “terreno incolto” più il diminutivo, da cui zèrbol; fu fondato nel 1259 dai

Beccaria, che vi costruirono un castello-residenza e nel 1437 divenne dominio visconteo.

La storia di Zerbolò è legata al Ticino, che scorre a poche centinaia di metri; un tempo era un

luogo di stagni, paludi e boschi folti, soprattutto per la mancanza di scoli artificiali; fu bonificato

nel XIII sec. anche perché nei pressi di Parasacco c’era un ponte di barche di importanza

strategica, spesso causa di lotte fra Pavia e Milano, che se ne contendevano il possesso. Subì

numerose inondazioni, ma riuscì a svilupparsi per la presenza di canali che favorirono la nascita di

molte aziende agricole.

ZINASCO

Zinàsc con il suffisso asco, forse derivato dall’antico Accenna; di probabile origine romana, fece

parte del feudo di Sommo, passato ai Gattinara nel 1673 e poi agli Olevano.

La 1^ battaglia della 2^ guerra d’indipendenza Il 29 aprile 1859 le truppe austriache, guidate dal generale Gyulai, passarono il Ticino al

Gravellone, a Bereguardo e a Vigevano e proprio vicino a Zinasco avvenne la 1^ battaglia.

L’armata nemica si diresse verso Sairano, dove si scontrò con uno squadrone di cavalleggeri del

“Saluzzo Cavalleria”; gli Austriaci lasciarono sul campo tre soldati ma, verso sera, tornarono

verso Zinasco Vecchio, dove si era accampato parte del Saluzzo. I Piemontesi avevano però

mandato in esplorazione un sergente e un soldato a cavallo, che furono attaccati e mentre il primo,

caduto da cavallo, riuscì a ritornare all’accampamento, il soldato fu ferito mortalmente

Bibliografia La provincia di Pavia - Quaderno di documentazione - Ottobre 2003 - Provincia di Pavia

Leggende e storie - Quaderno di documentazione - Ottobre 2004 - Provincia di Pavia

Leggende pavesi – Comune di Chignolo Po

Storie e leggende pavesi - G. Falzone – La Spiga 2001

Associazione culturale Varzi Viva

Enciclopedia Wikipedia

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INDICE

Presentazione pag.2

Albuzzano, Arena Po pag.3

Badia Pavese, Belgioioso pag.4

Bereguardo pag.5

Brallo, Broni pag.6

Canneto, Casteggio pag.7

CavaManara pag.8

Chignolo Po pag.9

Codevilla, Copiano, Corteolona pag.10

Costa De’ Nobili, Cura Carpignano, Filighera pag.11

Garlasco, Genzone, Godiasco pag.12

Gropello Cairoli, Inverno, Landriano pag.13

Lardirago, Linarolo pag.14

Magherno, Miradolo Terme pag.15

Montebello della Battaglia pag.16

Montescano, Monticelli Pavese pag.17

Montù Beccaria, Mortara, Parona pag.18

Pieve Porto Morone pag.19

Romagnese , San Genesio pag.21

San Martino Siccomario, Sannazzaro De’ B., San Ponzo pag.22

Santa Cristina e Bissone, Santa Giuletta pag.23

Sant’ Alberto di B., Santa Margerita S., Santa Maria della Versa pag.24

San Zenone al Po pag.25

Sizano, Spessa Po pag.26

Stradella pag.27

Torrazza Coste, Torre de’ Negri pag.29

Torre d’Isola pag.30

Torrevecchia Pia, Val di Nizza pag.31

Varzi, Vigevano pag.32

Villanterio, Vistarino, Voghera pag.34

Zavattarello, Zeccone pag.35

Zerbo pag.36

Zerbolò, Zinasco pag.38