Tipicamente Buono

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1. Introduzione I contributi raccolti in questo volume sono basati sui risultati di un pro- getto di ricerca finanziato dall’Agenzia Regionale per lo Sviluppo e l’Inno- vazione in Agricoltura (ARSIA) della Regione Toscana. Negli ultimi anni la Toscana è stata teatro di una grande vitalità imprenditoriale nel comparto delle produzioni alimentari di qualità. Lo testimoniano senza possibilità di dubbio le 19 produzioni che hanno già ottenuto il riconoscimento di una de- nominazione geografica ai sensi del regolamento CEE 2091/92 e gli altret- tanti prodotti che hanno avviato l’iter di riconoscimento. Lo confermano gli oltre 400 prodotti “tradizionali” censiti dall’ARSIA ai sensi dell’articolo 8 del decreto legislativo 173/98: una risorsa di tradizioni produttive, di “saper fare” che esprimono tutto il potenziale di sviluppo delle filiere agroalimenta- ri di qualità. Il recupero e la valorizzazione di produzioni agroalimentari tipiche co- stituisce un’opportunità irrinunciabile per le aree rurali della Toscana. Nel- la sua attività di trasferimento dell’innovazione verso gli operatori agricoli e gli attori del mondo rurali, l’ARSIA si è trovata spesso di fronte a richie- ste di orientamento e supporto da parte di singoli imprenditori, reti di im- prese, istituzioni locali interessate a valutare la possibilità di realizzare un progetto di valorizzazione delle tradizioni produttive locali. Da questa do- manda è nato il tavolo progettuale che ha portato al bando di ricerca sulla base del quale è stato finanziato il progetto su “Prodotti tipici, percezioni di qualità lungo la filiera e possibilità di sviluppo nel mercato” che qui viene presentato. Il tavolo progettuale ha condotto al finanziamento di una ricerca finalizzata (i) ad approfondire la conoscenza della realtà delle produzioni agroalimentari tipiche della Toscana e (ii) all’analisi critica dei processi di 9 1. TIPICITÀ, QUALITÀ E SVILUPPO DEL MERCATO: I TERMINI DEL PROBLEMA * di Donato Romano e Benedetto Rocchi * Donato Romano ha curato i paragrafi da 1 a 3, Benedetto Rocchi il paragrafo 4.

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1. Introduzione

I contributi raccolti in questo volume sono basati sui risultati di un pro-getto di ricerca finanziato dall’Agenzia Regionale per lo Sviluppo e l’Inno-vazione in Agricoltura (ARSIA) della Regione Toscana. Negli ultimi anni laToscana è stata teatro di una grande vitalità imprenditoriale nel compartodelle produzioni alimentari di qualità. Lo testimoniano senza possibilità didubbio le 19 produzioni che hanno già ottenuto il riconoscimento di una de-nominazione geografica ai sensi del regolamento CEE 2091/92 e gli altret-tanti prodotti che hanno avviato l’iter di riconoscimento. Lo confermano glioltre 400 prodotti “tradizionali” censiti dall’ARSIA ai sensi dell’articolo 8del decreto legislativo 173/98: una risorsa di tradizioni produttive, di “saperfare” che esprimono tutto il potenziale di sviluppo delle filiere agroalimenta-ri di qualità.

Il recupero e la valorizzazione di produzioni agroalimentari tipiche co-stituisce un’opportunità irrinunciabile per le aree rurali della Toscana. Nel-la sua attività di trasferimento dell’innovazione verso gli operatori agricolie gli attori del mondo rurali, l’ARSIA si è trovata spesso di fronte a richie-ste di orientamento e supporto da parte di singoli imprenditori, reti di im-prese, istituzioni locali interessate a valutare la possibilità di realizzare unprogetto di valorizzazione delle tradizioni produttive locali. Da questa do-manda è nato il tavolo progettuale che ha portato al bando di ricerca sullabase del quale è stato finanziato il progetto su “Prodotti tipici, percezioni diqualità lungo la filiera e possibilità di sviluppo nel mercato” che qui vienepresentato. Il tavolo progettuale ha condotto al finanziamento di una ricercafinalizzata (i) ad approfondire la conoscenza della realtà delle produzioniagroalimentari tipiche della Toscana e (ii) all’analisi critica dei processi di

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1. TIPICITÀ, QUALITÀ E SVILUPPO DEL MERCATO:I TERMINI DEL PROBLEMA*

di Donato Romano e Benedetto Rocchi

* Donato Romano ha curato i paragrafi da 1 a 3, Benedetto Rocchi il paragrafo 4.

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valorizzazione in atto, riuscendo tuttavia fornire anche una serie di rispostesul piano dei metodi e delle strategie da mettere in atto, sia a livello di im-presa che di istituzioni, per sviluppare il loro mercato.

Questo volume sintetizza e approfondisce i principali risultati raggiunti sulpiano scientifico, tentando di costituire una risposta al primo dei due obietti-vi, quello conoscitivo. Come risposta alle domande degli operatori il progettoha prodotto anche un risultato pensato per essere “strumento” da usare sulcampo: la Guida alla valorizzazione delle produzioni agroalimentari tipiche,recentemente pubblicata dall’ARSIA. I due lavori sono complementari e rap-presentano un esempio paradigmatico dell’approccio dell’ARSIA al finanzia-mento della ricerca nel quale l’incremento delle conoscenze cerca di farsisempre strumento utilizzabile dagli operatori del settore.

Questo capitolo introduttivo è articolato come segue. Nel paragrafo 2 vie-ne presentato lo stato dell’arte del problema della definizione della qualità nelcaso dei prodotti alimentari tipici. Il paragrafo 3 riassume brevemente l’arti-colazione e la struttura logica del progetto. Il paragrafo 4 infine presenta unasintesi dei contributi raccolti nel volume.

2. Il problema della qualità nel caso delle produzioni alimentari ti-piche: lo stato dell’arte

I processi di sviluppo di particolari aree o regioni implicano sempre unarelazione dinamica tra dimensione globale del mercato e realtà locale dellaproduzione. A livello macro-economico è stato evidenziato come la dinamicastrutturale dei sistemi economici, sia causata, in un contesto di redditi cre-scenti come conseguenza del progresso tecnico, da una continua evoluzionedella domanda (Pasinetti, 1984). L’analisi di casi di studio dei processi di svi-luppo ha confermato questo nesso con un’evoluzione globale della domanda.I sistemi locali di sviluppo manifestano una capacità stabile nel tempo di ri-prodursi quando riescono ad instaurare un rapporto di complementarità (dua-lità) tra un particolare nucleo di bisogni manifestato dalla domanda a livelloglobale e una specifica realtà produttiva. L’esperienza del made in Italy evi-denzia come lo stabile successo dei suoi sistemi locali di produzione sia con-nesso con una domanda di specialità, “…merci e servizi differenziati, tenden-zialmente sempre più personalizzati e sempre più distanti dalla routine …deiconsumi ordinari” (Becattini, 2000: 126).

Anche per i processi di sviluppo rurale endogeno è stata proposta un’in-terpretazione basata sulla capacità di determinati territori rurali, specializzati-si nel tempo, per una complessa serie di cause socio economiche, in produ-zioni agroalimentari di qualità (contrapposte a riduzioni di massa di merciagricole indifferenziate), di “localizzare” una quota crescente di domanda an-che attraverso la creazione di specifiche barriere di tipo istituzionale (Polido-

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ri e Romano, 1997; Rocchi e Stefani, 2000). La possibilità di avviare anche inaree rurali in ritardo di sviluppo simili processi sembra possibile, consideran-do come non solo le caratteristiche di “autenticità”, ma anche quelle di “loca-lità” delle produzioni alimentari sempre più associate dal consumatore allasalubrità dei cibi (Marsden et al., 2000).

L’evoluzione che si è avuta nella natura e nelle motivazioni del consumoalimentare, nella distribuzione e nelle possibilità dirette e indirette di acquistodel prodotto tipico (pasti fuori casa, turismo eno-gastronomico, utilizzazionein ricette tradizionali diffuse dai media, fiere, sagre e manifestazioni folklori-stiche, e-commerce) ha notevolmente ampliato lo spazio di mercato di questiprodotti, ma al tempo stesso ha reso più delicato il meccanismo di trasmis-sione e di riconoscimento della qualità. È evidente, tuttavia, come il successodi una particolare produzione tipica su un mercato non limitato all’ambito lo-cale richieda che, lungo la filiera che porta dalla produzione al consumo, laqualità delle produzioni venga definita e trasmessa in modo coerente dai di-versi agenti economici.

Una ricerca volta ad approfondire le conoscenze relative alla creazione,valorizzazione e comunicazione della qualità nelle filiere di produzioneagroalimentari tipiche deve affrontare il problema qualità secondo moltepliciangolature complementari tra loro:

a) studiare le diverse concezioni di qualità espresse dagli agenti economici;b) analizzare i processi di comunicazione della qualità nella serie di scambi

che portano dalla produzione al consumo, la natura e l’evoluzione delle re-ti di relazioni che legano sistemi locali di produzioni e consumatori;

c) studiare le soluzioni istituzionali per la definizione e comunicazione dellaqualità delle produzioni.

2.1. Agenti economici e concezioni di qualità lungo la filiera agroalimentare

La letteratura sul contenuto simbolico della tipicità percepito dal consu-matore è abbastanza copiosa (Romano e Cavicchi, 2006). Informazioni al ri-guardo sono contenute nell’indagine Nomisma sui prodotti tipici (Nomisma,2000) che riprende anche una precedente indagine INRA sull’atteggiamentodei consumatori europei. Secondo l’indagine Nomisma la percezione dellaqualità-tipicità di un prodotto da parte dei consumatori è legata principalmen-te alla sua genuinità (“prodotto genuino senza conservanti”), secondariamen-te al suo “ottenimento da materie prime del territorio”, “con metodi artigia-nali”, “sulla base di ricette tradizionali”, o ancora alla sua “acquistabilità di-rettamente nel luogo di produzione”. Da queste indagini risulterebbe ancheuna scarsa conoscenza dei marchi di tutela DOP e IGP, mentre si evidenzie-rebbe una disponibilità a pagare consistente (circa il 50%) in più per un pro-dotto tipico da parte di circa la metà degli intervistati.

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Altri lavori (Van Ittersum et al., 2000) hanno posto in relazione l’acquistodi prodotti regionali con il sesso dell’acquirente, l’età, la numerosità del nu-cleo familiare, il reddito, il luogo di residenza, l’importanza che i consumato-ri assegnano al prezzo (o alle denominazioni di origine, alla qualità, alla mar-ca, alla fiducia riposta nel punto di vendita, alla presentazione del prodotto).

Queste variabili socio-economiche e comportamentali dei consumatori so-no talora state utilizzate per classificare i consumatori in categorie quali il“conoscitore”, il “succube della marca”, il “razionale”, lo “sparagnino”, il“disponibile ad ogni tipo di acquisto”, traendo informazioni anche dai com-portamenti di acquisto rilevabili dalle carte di credito.

Meno frequente nella letteratura è la valutazione del comportamento di ac-quisto dei consumatori in relazione alle situazioni di acquisto1. Analisi in que-sta direzione sono state fatte solo incidentalmente, ad esempio per analizzarel’atteggiamento dei consumatori riguardo ai canali commerciali del circuitobreve (Vannoppen et al., 2000), con riferimento alle diverse forme organizza-tive nell’offerta di prodotti tipici (Brunori et al., 2000), o nel quadro dell’a-nalisi della domanda di agriturismo in Toscana (Balestrieri, 1996).

Nell’ambito degli studi che analizzano i processi di ricerca e selezionedei beni da parte dei consumatori, le caratteristiche dei beni sono state clas-sificate in base alla rilevanza dei costi di informazione prima e dopo l’acqui-sto (Nelson, 1970; Darby and Karny, 1973). Seguendo Anderson (1994) èpossibile così distinguere caratteristiche search, caratterizzate da bassi costidi quality detection prima dell’acquisto (dimensioni, colore); caratteristicheexperience, per le quali il costo di accertamento della qualità è elevato primadell’acquisto ma è basso al momento del consumo (caratteristiche organolet-tiche); caratteristiche credence per le quali l’accertamento autonomo del li-vello qualitativo da parte del consumatore è costoso sia prima che dopo l’ac-quisto.

È evidente che la provenienza della carne da razze autoctone o l’area dicoltivazione di una particolare ciliegia non sono direttamente verificabili dal-l’acquirente né prima né dopo l’acquisto e quindi ricadono tra le caratteristi-che credence. Il consumatore considera questo tipo di caratteristiche quandol’informazione su di esse è fornita in maniera sufficientemente credibile2. Lamancanza di credibilità dell’informazione è invece causa di scelte sub-ottima-li ed equivale a scelte in stato di ignoranza basate su rappresentazioni sogget-tive delle probabilità che l’alimento abbia o meno certe caratteristiche non ve-rificabili.

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1. Ad esempio piccola o grande distribuzione, direttamente nei luoghi di produzione in oc-casioni di turismo o escursionismo, nel consumo dei pasti fuori casa, attraverso il commercioelettronico.

2. In genere è necessario che una terza istituzione tra acquirente e venditore si faccia ga-rante della correttezza dell’informazione stabilendo standards, procedure di analisi, o di trac-ciabilità, certificazioni, e penalità per i comportamenti fraudolenti.

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Relativamente diffusi sono i lavori di stima del valore delle singole carat-teristiche basati su dati di mercato. Questo tipo di studi si possono compren-dere sotto la tipologia delle funzioni di prezzo edonico per mezzo delle qualisi stima il contributo marginale al valore di un bene dato dalle singole carat-teristiche. Tuttavia tali studi prendono in considerazione tutte le caratteristi-che contemporaneamente e non permettono di evidenziare l’interazione tra letre tipologie di caratteristiche. Inoltre il prezzo di mercato è sempre frutto diuna interazione tra domanda ed offerta e non è possibile identificare la do-manda per le singole caratteristiche da una semplice funzione di prezzo edo-nico senza informazioni aggiuntive (Rosen, 1974).

Passando a considerare i produttori di specialità locali, essi sono invecespesso legati ad una concezione della qualità che conserva un notevole livel-lo di autonomia rispetto a quella del consumatore. Le produzioni tipiche sonostate interpretate in chiave sociologica come una commoditization della cul-tura locale: una strategia volta a trasformare una conoscenza locale (cioè mo-do di fare e modo di intendere il mondo) in una risorsa disponibile per il ter-ritorio (Ray, 1998). Indagini sul campo mettono in evidenza come siano so-prattutto gli aspetti della specificazione dei metodi di produzione e dei mate-riali utilizzati i parametri ai quali i produttori associano il concetto di qualità:piccola scala di produzione, coinvolgimento personale, lavorazione manualesono generalmente le espressioni concrete di tale concezione della qualità (Il-bery e Kneafsey, 2000; Pilati e Ricci, 1991).

A proposito della distribuzione occorre dire che è alquanto limitativo im-maginare un collegamento produzione-consumo dei prodotti tipici che pas-sasse esclusivamente da canali distributivi dedicati. Se è vero infatti che i di-stributori, oggi sempre più concentrati, esercitano un condizionamento – chepuò risultare sfavorevole per i prodotti tipici – sulle scelte del consumatoreagendo sulle sue motivazioni, sul suo livello di conoscenza e di apprezza-mento delle caratteristiche dei prodotti, è anche vero che è ormai terminata lafase in cui il “marchio” della produzione veniva mortificato dalla grande di-stribuzione rimanendo assogettato al principio-ricatto che “il produttore nonvende attraverso il commercio ma vende al commercio” (Spranzi, 1991). Og-gi l’impresa distributrice è impegnata anch’essa nella generale tendenza alladifferenziazione estrema della produzione di beni e servizi, che si esprimeprincipalmente con i marchi del produttore, per cogliere ogni piega della do-manda, come pure nell’accettare il ruolo di “impresa responsabile”(Magatti eMonaci, 1999) sensibile agli umori degli stakeholders (Carrol, 1991). Non so-lo per il suo potere di induzione dei consumi, dunque, ma anche per la sua ca-pacità di interpretare i bisogni dei consumatori e di accettare compiti di re-sponsabilità sociale, è importante conoscere la nozione di qualità-tipicità per-cepita e perseguita dalla distribuzione, verificandone la coerenza con la no-zione di qualità-tipicità degli altri attori della filiera.

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2.2. La comunicazione della qualità lungo la filiera agroalimentare

La realizzazione di una produzione tipica, in un ambito geografico circo-scritto ed espressione di una tradizione produttiva è condizione necessariama non sufficiente ad avviare un processo di sviluppo rurale, anche in pre-senza di una domanda potenziale di “specialità” all’esterno della realtà loca-le. La creazione di una rete di relazioni specificamente orientata a creare uncollegamento tra produttori e consumatori appare indispensabile. Nelle co-siddette short food supply chain (SFSC) il prodotto giunge al consumatoreinsieme all’informazione necessaria a costruire un rapporto fiduciario con illuogo di produzione, con gli attori coinvolti e con i metodi usati nella pro-duzione (Mardsen et al., 2000). Quanto più ampio è il mercato (in senso geo-grafico) tanto più complesso è l’interfaccia che si deve realizzare per con-servare nel tempo una relazione reale tra consumatori e luogo di produzione.I sistemi locali di sviluppo presentano tipicamente l’addensamento di una re-te di rapporti a livello locale di tipo orizzontale e di breve distanza, volta adincrementare il potere lungo la filiera da parte degli operatori delle fasi piùintimamente legate al territorio (Favia, 1992) La crescita di una domandaesogena al territorio, tuttavia, richiede in misura crescente l’integrazione nel-la rete di attori in grado di sostenere i processi di innovazione e favorire l’in-staurarsi di nuove convenzioni di qualità. Come teorizzato dalla scuola con-venzionalista francese, infatti, la qualità e, in modo ancora più specifico, latipicità, sono il frutto di un processo di costruzione sociale al quale parteci-pano, in un dato contesto spaziale e temporale, tutti gli agenti coinvolti, di-rettamente o indirettamente, nel processo che va dalla produzione al consu-mo; in tale ambito, i diversi attori convergono attorno ad una stessa conven-zione di qualità (Eymard Duvernay, 1989 e 1993; Gomez, 1994; Sylvander,1995). La varietà di forme che tale processo assume, nello spazio e nel tem-po, sono alla base della diversità e quindi della compresenza di diversi mo-delli di coordinamento con cui gli attori producono-valorizzano-distribuisco-no-consumano la specifica qualità dei prodotti.

Questi aspetti sono ancora più evidenti nei prodotti tipici, caratterizzati dauna maggiore densità simbolica, nei quali la presenza di convenzioni e formedi coordinamento “particolari” è strettamente legata all’evoluzione che ha in-teressato il loro significato agli occhi del consumatore e i modi con cui talediverso significato si rapporta al comportamento di acquisto.

Nel rapporto prodotto tipico-consumatore entrano in gioco una comples-sità di elementi, in parte riconducibili ai caratteri del consumatore, in parte aicaratteri del prodotto. Tra i primi assumono importanza l’appartenenza o me-no al territorio e, all’interno di questo, al mondo della produzione, la cono-scenza dei contenuti di tipicità e/o di tradizione del prodotto, le motivazionidell’apprezzamento/ricerca di tali prodotti e, ovviamente, l’età, le disponibi-lità economiche, il livello culturale. Dal lato del prodotto, sono fondamentali

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gli specifici requisiti materiali e/o immateriali, ma assumono comunque im-portanza anche aspetti come il contenuto in servizi (facilità d’uso, informa-zioni, ecc.), l’adeguatezza rispetto alle norme igienico-sanitarie di base, la di-sponibilità in termini quantitativi e nel tempo. Tale rapporto non si presentaovviamente cristallizzato, ma in continua evoluzione, sia per i cambiamentiche intervengono negli stili di consumo, sia per l’interazione dei consumatoricon gli altri attori che partecipano al processo di definizione della specificaqualità: i produttori, i trasformatori e i distributori. Questi ultimi se da un la-to traggono dai caratteri del consumatore elementi per impostare le proprieazioni e strategie di marketing, dall’altro esercitano essi stessi un condiziona-mento sulle sue scelte, agendo sulle sue motivazioni, sul suo livello di cono-scenza e di apprezzamento delle caratteristiche dei prodotti.

La molteplicità delle forme così assunte dal rapporto prodotto-consumato-re, alla cui base stanno specifiche e diverse convenzioni sulla qualità tra gliattori coinvolti, trova espressione concreta nella varietà di rapporti tra circuitidi produzione e di circolazione, che sono in grado di combinarsi variamentee sono caratterizzati da un alto potenziale innovativo. In essi i requisiti quali-tativi dei prodotti tradizionali e tipici possono dunque essere oggetto di mo-dalità diverse di definizione, comunicazione e garanzia, così come diversepossono essere le modalità di collocazione sul mercato, dal rapporto più omeno diretto e formale con il consumatore, alle modalità organizzative concui ne viene gestita la distribuzione.

2.3. Le possibili soluzioni istituzionali per la definizione e la comunicazio-ne della qualità lungo la filiera agroalimentare

La rilevanza dei problemi informativi legati alla valutazione della qualitàdelle produzioni tipiche determina una maggiore complessità a livello dicoordinamento tra imprese, e l’insorgere di costi legati all’organizzazionedelle transazioni e alla segnalazione della qualità al consumatore. La “chiusu-ra istituzionale” (Polidori e Romano, 1997) attraverso una definizione forma-le della realtà produttiva locale mediante strumenti legislativi come il sistemadelle denominazioni di origine può essere interpretata come una tappa nellaformazione e riproduzione di un ponte istituzionale tra produttori locali econsumatore globale. Le DO, oltre a rappresentare per i produttori locali unabarriera istituzionale per la creazione di una posizione di monopolio legata alpossesso del fattore terra (Rocchi e Stefani, 2001), possono infatti essere in-terpretate come un meccanismo di associazione di un’identità locale ad unadeterminata produzione attraverso la trasformazione della conoscenza localein “proprietà intellettuale”, con la possibilità di riversarla anche su altre pro-duzioni provenienti dal medesimo contesto (Moran, 1993).

In linea con le problematiche evidenziate, nella letteratura economico-agraria è stata posta una crescente attenzione, in termini generali sul ruolo

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delle istituzioni come elemento fluidificante delle relazioni tra imprese appar-tenenti a sistemi di produzione territoriali (Fanfani e Montresor, 1998), e inmaniera particolare sulle peculiarità delle modalità di organizzazione delletransazioni e del ruolo delle istituzioni relative ai prodotti di qualità specifica(Ménard, 1996; Glandières e Sylvander, 1999; Valceschini, 1995) e soprattut-to ai prodotti fortemente legati al territorio di origine (Chappuis e Sans, 1999;Barjolle e Sylvander, 1999; Belletti, 1999; Marescotti, 1999).

L’efficacia nel rispondere ai problemi informativi attraverso l’impiego diappropriati meccanismi istituzionali diviene dunque un fattore fondamentaledi competitività per i sistemi di imprese, specialmente quando questi sianoorientati alla produzione di prodotti di qualità specifica che richiedono risor-se dedicate e tecnologie meno efficienti dal punto di vista dei costi di produ-zione rispetto a prodotti “standard”.

Nell’ambito dei prodotti di qualità specifica si assiste dunque a un forteaumento dell’impiego di segni di qualità come elementi di differenziazione edi valorizzazione del prodotto. In particolare, il sistema agroalimentare, ri-spetto ad altri settori economici, è caratterizzato da una grande diffusione disegni collettivi di qualità, di varia tipologia per quanto concerne natura (pub-blica o privata), livello di garanzia offerto, modello organizzativo e principi difunzionamento adottati, funzioni effettivamente svolte (Pilati e Flaim, 1994;Raynaud e Sauvée, 1999) e, ovviamente, caratteristiche che il marchio di qua-lità intende segnalare.

Sotto quest’ultimo profilo una particolare rilevanza hanno l’origine deiprodotti e le caratteristiche del processo produttivo utilizzato. A fronte delledinamiche generali dei mercati alimentari e delle sempre più esigenti richie-ste espresse da talune fasce di consumatori, la segnalazione sul mercato degliattributi qualitativi connessi all’origine territoriale dei prodotti risulta semprepiù difficoltosa e richiede l’impiego di appositi strumenti, non solo nel casoin cui il collocamento avvenga su canali distributivi di tipo lungo ma anchequalora esso sia effettuato nell’area di produzione.

In considerazione del fatto che ordinariamente i prodotti tipici sono realiz-zati da piccole-medie imprese, è evidente l’esigenza del ricorso a forme di se-gnalazione della qualità di tipo collettivo. Tra esse assumono una particolareimportanza le Denominazioni Geografiche (DOP e IGP) previste dal Reg.(CEE) 2081/92.

La possibilità di attivazione e il successo delle strategie di segnalazionedella qualità adottate dipendono dalla capacità di risposta ai problemi orga-nizzativi e di coordinamento tra imprese diverse, operanti sia allo stesso sta-dio della filiera che a stadi diversi; tali problemi sono tanto più significativi sesi considera che le imprese che partecipano al processo di produzione e valo-rizzazione del prodotto tipico condividono risorse collettive connesse alla co-munanza territoriale e alla tradizione di produzione, ma allo stesso tempo

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spesso non sono omogenee per quanto concerne i caratteri del prodotto rea-lizzato e le stesse tecnologie impiegate per ottenerlo.

Un altro aspetto di fondamentale importanza consiste nella difficoltà diaccesso delle imprese – in special modo quelle di minore dimensione e ca-ratterizzate da una maggiore artigianalità dei processi svolti – all’impiegodelle denominazioni geografiche. Queste ultime infatti richiedono un ade-guamento delle imprese ai sistemi di certificazione e di controllo collettivi,il quale comporta per le imprese dei costi di riorganizzazione e di imple-mentazione di nuovi sistemi di controllo e di produzione; inoltre possono es-sere rilevanti anche i costi espliciti connessi all’attività di controllo dell’En-te di certificazione, soprattutto in dipendenza del livello di dettaglio previstodal Disciplinare in merito ai caratteri del processo di produzione e del pro-dotto realizzato. La scelta di un adeguato disegno del disciplinare delle mo-dalità organizzative e di controllo nell’ambito della denominazione di origi-ne si rivela dunque strategico per garantire l’accesso delle imprese alla de-nominazione.

Altro aspetto di fondamentale importanza nel determinare il successo diuna denominazione geografica è connesso alla coerenza dello strumento ri-spetto alla tipologia dei canali commerciali seguiti dalle imprese, in quanto lostrumento della denominazione non manifesta nello stesso modo i propri ef-fetti di segnalazione della “qualità” del prodotto su tutti i canali.

Al momento attuale sono scarsi in Italia gli studi rivolti ad analizzare iproblemi di implementazione delle Denominazioni Geografiche e di altri se-gni collettivi di qualità, il modo con cui tali strumenti sono effettivamente uti-lizzati dalle imprese, e i loro effetti sulle imprese e sulle relazioni tra impre-se, ivi compreso quelli sull’accesso del prodotto a nuovi canali di colloca-mento dei prodotti.

3. La struttura del progetto

Questa ricerca si propone di esaminare alcuni aspetti del consumo e dellaproduzione di specialità alimentari tradizionali toscane utilizzando un approc-cio multidisciplinare dove l’analisi economica e di marketing, supportata dal-l’apporto scientifico di esperti di tecnologia alimentare, si integra con le di-scipline propriamente sociologiche. L’impostazione data alla ricerca è tesa,inoltre, a favorire un fruttuoso scambio di informazioni e supporto tra istitutidi ricerca ed utilizzatori finali dei risultati, a loro volta coinvolti attivamentenell’esecuzione del programma di lavoro.

L’asse portante della ricerca è stata l’analisi delle diverse concezioni diqualità esistenti lungo la filiera delle specialità alimentari considerate (a livel-lo della produzione, della distribuzione e del consumo), per verificarne la coe-renza. Quest’ultima, viene considerata una premessa indispensabile alla crea-

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zione di una rete di relazioni stabili in grado di conservare una “comunica-zione” tra i consumatori ed il territorio di provenienza dei prodotti tipici an-che all’estendersi del mercato (in senso quantitativo e spaziale). Per questomotivo il progetto ha compreso anche una serie di azioni volte ad analizzarel’assetto istituzionale che caratterizza i sistemi locale di produzione studiati,sia per quanto riguarda le reti di relazioni tra gli agenti economici, che con ri-ferimento alla regolamentazione della valorizzazione della tipicità alimentareed al suo impatto sui comportamenti economici.

Gli obiettivi generali del progetto sono sia di natura positiva che normativa:a) approfondire la conoscenza delle dimensioni fondamentali in base alle

quali i diversi operatori della filiera concepiscono e valutano la qualità del-le produzioni alimentari tipiche;

b) individuare le possibili azioni, realizzabili sia a livello di impresa che a li-vello di sistema locale di produzione, volte a favorire e a rendere sosteni-bile lo sviluppo della domanda delle specialità alimentari oltre i mercatitradizionali.

Il progetto è articolato in sette workpackages logicamente coordinati se-condo lo schema riportato in Fig. 1.

Tutte le azioni di ricerca sono state sviluppate facendo riferimento ad unaserie di case studies costituiti da produzioni agroalimentari tipiche regionali,scelte in modo da poter confrontare diverse tipologie di prodotto (fresco vs.trasformato), con differente livello di riconoscibilità sul mercato, con gradi di

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Descrivere le concezioni di qualità lungo la filiera

Valutare la disponibilità a pagare

Valutare la coerenza delle concezioni

Analizzare le reti di relazioni

Valutare le possibilità di impiego delle denominazioni

geografiche

Favorire la sostenibilità del sistema locale di qualità

al crescere del mercato

Divulgazione

Figura 1 – Organizzazione della ricerca in workpackages

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riconoscimento istituzionale differenziati (IGP, prodotti agroalimentari tradi-zionali riconosciuti a livello regionale e selezione ARSIA) e con diverso gra-do di sviluppo di reti di relazioni volte alla loro valorizzazione (Presidi SlowFood). In particolare sono stati individuati tre prodotti (il lardo di Colonnata,la ciliegia di Lari e il Pecorino a Latte Crudo Montagna Pistoiese) che sonostati studiati in tutti i WP, con l’obiettivo di costruire casi di studio completi;altri prodotti sono stati interessati solo da alcune azioni di ricerca con l’obiet-tivo di ampliare, per alcuni aspetti, le possibilità di analisi comparata.

4. I contenuti del volume

La struttura logica del progetto, così come presentata in Fig. 1 se da un la-to ha consentito di mettere in evidenza la ricchezza degli approcci metodolo-gici utilizzati per affrontare efficacemente un problema intrinsecamente com-plesso, rende allo stesso tempo ragione della molteplicità di risultati prodottinel corso della ricerca.

Un fondamentale criterio di suddivisione dei risultati del progetto permet-te di distinguere contributi con prevalente contenuto positivo da contenuti conprevalente contenuto normativo. L’uso del termine “prevalente” è motivatodalla scelta di un approccio alla ricerca fortemente ancorato all’indagine sulcampo, con l’analisi dei casi di studio a costituire il comune denominatore eil punto di contatto dei diversi workpackage. Conseguenza inevitabile di que-ste scelte è la presenza di contenuti empirici di rilievo anche nei contributicon maggiore valenza normativa da un lato; e un costante riferimento a pro-blematiche di contenuto normativo nei contributi che presentano i risultatidelle indagini effettuate dall'altro. Così, ad esempio, mentre il tentativo di sin-tesi di quelli che devono essere gli aspetti fondamentali dei processi di valo-rizzazione delle produzioni tipiche (capitolo 8) è sistematicamente posto aconfronto con quanto è emerso dall’analisi dei casi di studio, dall’analisi del-la disponibilità a pagare dei consumatori per le caratteristiche di tipicità delleproduzioni alimentari (capitolo 3) emergono importanti indicazioni di naturanormativa ai fini della loro valorizzazione. Nonostante questo sistematicosconfinamento tra il piano dell’indagine empirica e quello della definizione dipercorsi e strategie, tuttavia, i diversi contributi possono essere classificati neidue gruppi secondo un criterio di prevalenza.

Data l’impostazione della ricerca che, nelle finalità del finanziatore, avevacome primo obiettivo un sostanziale incremento delle conoscenze disponibilisul fenomeno delle produzioni agroalimentari tipiche e del loro crescente suc-cesso, la maggior parte dei lavori raccolti in questo volume hanno un conte-nuto prevalentemente empirico. In essi vengono presentate la metodologia ele dimensioni delle indagini effettuate, l’analisi dei dati raccolti ed i principa-li risultati raggiunti.

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I primi due lavori affrontano il problema della qualità dei prodotti tipicidal lato della domanda. Il consumatore, anche solo come “convitato di pie-tra”, è stato sempre presente in tutte le parti della ricerca, anche quando og-getto di indagine erano i sistemi locali dove i prodotti tipici nascono e gli at-tori che in tali sistemi operano per la loro valorizzazione. È infatti, l’esisten-za di una domanda in crescita e sempre più globale, di contenuti immaterialinei prodotti alimentari capaci di tenerli radicati ad precisi contesti locali; l’e-sigenza di una ri-tradizionalizzazione, ri-localizzazione del cibo che in questianni ha favorito il rinnovato successo, su nuove basi e in nuovi mercati, ditanti prodotti alimentari tradizionali. Tuttavia una parte delle azioni di ricercaera stata esplicitamente dedicata al punto di vista del consumatore.

Il contributo di Giovanni Balestrieri su I consumatori e i prodotti alimen-tari tipici della Toscana (capitolo 2) presenta i risultati di un’indagine la cuifinalità è stata quella di realizzare una prima “mappatura” delle diverse con-cezioni di qualità che guidano il comportamento dei diversi attori della filie-ra. Data la loro finalità esplorativa, le indagini effettuate sono state ad ampiospettro e hanno utilizzato approcci differenziati: dall’organizzazione di focusgroup, alla somministrazione di questionari strutturati e non, alla realizzazio-ne di interviste in profondità con testimoni privilegiati. Le indagini si sono ri-volte innanzitutto ai consumatori, raggiunti in diversi contesti in modo da co-gliere la più ampia gamma possibile di atteggiamenti ed attitudini verso i pro-dotti considerati. Così i focus group con acquirenti presso la grande distribu-zione si sono affiancati alla distribuzione di questionari durante sagreorganizzate intorno a due dei prodotti considerati e alle interviste aperte conturisti italiani e stranieri presso la struttura ricettiva gestita da uno dei partnerimprenditoriali della ricerca. L’obiettivo è stato quello di delineare il ruolosvolto dai prodotti tipici nello stile di vita dei soggetti contattati, l’importan-za delle diverse motivazioni (edonistiche, utilitaristiche e non utilitaristiche)nelle scelte di consumo alimentare, le molteplici dimensioni del “valore” at-tribuito dai consumatori al prodotto tipico, la valutazione soggettiva dell’affi-dabilità delle principali fonti di informazioni intorno alla qualità alimentare.Il quadro che emerge dal lavoro di Balestrieri è quello di una domanda forte-mente differenziata al suo interno sia in termini di conoscenza dei prodotti edelle caratteristiche di tipicità, che in termini di motivazioni nel consumo.Non esiste insomma “il” consumatore di alimenti tipici: piuttosto queste pro-duzioni, se correttamente valorizzate, sembrano capaci di rispondere efficace-mente a diverse finalità e modelli di consumo. Una caratteristica dei consumidi questi prodotti già rilevata in altre indagini e che viene confermata dai ri-sultati della ricerca è la presenza di un’importante dimensione etica nel con-sumo di prodotti tipici: una dimensione che viene riconosciuta e almeno in li-nea di principio valorizzata anche dalla grande distribuzione alimentare.

Sempre rivolto alla domanda, anche se circoscritto ad un aspetto più spe-cifico, è il capitolo di Stefani et al. su La disponibilità a pagare dei consu-

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matori per le caratteristiche di tipicità (capitolo 3). Gli autori presentano i ri-sultati raggiunti attraverso la realizzazione di una serie di procedure speri-mentali che, nel loro complesso, hanno coinvolto un campione di 284 consu-matori chiamandoli a partecipare ad aste per l’acquisto di cinque prodotti ali-mentari tipici della Toscana: il biroldo e il farro IGP della Garfagnana, il Lar-do di Colonnata, la Ciliegia di Lari e il Pecorino a Latte Crudo MontagnePistoiesi. Attraverso l’analisi delle offerte fatte nel corso delle aste, la meto-dologia utilizzata ha permesso di valutare quanta parte della disponibilità apagare per i prodotti proposti dipendesse dalla loro “tipicità”, un attributocomplesso e immateriale che lega l’alimento ad una determinata provenienzageografica. I risultati sembrano indicare che, sia pure all’interno di un quadroestremamente complesso di interazioni tra aspettative basate sulle conoscenzepregresse, segnali di qualità associati al prodotto ed esperienza sensoriale delconsumo, esiste una correlazione positiva tra identità territoriale di un prodot-to e disponibilità a pagare dei consumatori per il suo acquisto. Si tratta di con-clusioni che mentre da un lato confermano le prospettive di valorizzazioneper alcune produzioni alimentari tradizionali, dall’altro offrono importanti in-dicazioni in merito alle strategie di comunicazione dell’identità territoriale edalla loro coerenza con le caratteristiche organolettiche dei prodotti proposti aiconsumatori.

A metà strada tra consumo finale e mondo della produzione l’oggetto diindagine del contributo proposto da Rocchi e Gabbai su La definizione dellaqualità lungo al filiera: un’indagine qualitativa su alcune produzioni tipichetoscane (capitolo 4). Il lavoro presenta i risultati di un indagine presso unaquarantina di soggetti operanti a diverso titolo lungo la filiera di produzio-ne/commercializzazione di quattro prodotti tipici regionali, svolta utilizzandola tecnica del focus group. Il coinvolgimento di diverse tipologie di attore(produttori, grossisti, rappresentanti della grande distribuzione, dettaglianti)ha permesso di utilizzare le discussioni, svolte secondo una traccia struttura-ta ed omogenea nei diversi casi di studio, per riprodurre il processo di nego-ziazione del concetto di qualità lungo le filiere delle produzioni considerate.La content analysis ha fatto emergere i “temi concettuali” intorno ai qualiviene definita la qualità: tra i più rilevanti quelli del gusto, delle caratteristi-che (in senso ampio) del territorio di origine, della salubrità. Sono aspetti del-la qualità importanti per tutte le tipologie di attore di tutte le filiere conside-rate. Tuttavia il significato assegnato a ciascuno di essi e l’importanza relati-va attribuita sono differenziati sia tra le diverse tipologie di attore che tra lediverse tipologie di prodotto. Nel processo con il quale la qualità viene defi-nita e comunicata lungo il percorso che porta i beni dai sistemi locali di pro-duzione alla tavola dei consumatori emerge un potenziale contrasto di auto-rità tra i produttori e gli operatori a valle (in particolare la grande distribu-zione) nella definizione della qualità. Allo stesso tempo le forme di certifica-zione dell’origine sembrano poter costituire uno strumento organizzativo

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capace di comporre potenziali contrasti negli obiettivi perseguiti e riequili-brare i rapporti di forza lungo la filiera.

La parte più strettamente empirica del volume viene completata da tre la-vori nei quali vengono presentati i risultati di indagini dirette presso i sistemilocali nei quali le produzioni tipiche nascono. Nel lavoro di Brunori et al., suL’analisi dell’organizzazione dei sistemi socio-economici dei prodotti tipiciattraverso l’approccio di network (capitolo 5), gli autori concentrano la loroattenzione sull’evoluzione del reticolo istituzionale che si sovrappone al pro-cesso produttivo. L’idea di partenza è che la crescita del mercato di una pro-duzione tipica comporti non solo una riorganizzazione logistica della filierama soprattutto una ridefinizione della rete di relazioni che legano gli attori,vecchi e nuovi, della filiera. Solo la formazione di un network di attori attor-no ad una concezione di qualità condivisa permette al sistema produttivo dicrescere con il mercato senza snaturare l’identità che lo contraddistingue.L’approccio metodologico dell’actor network viene applicato all’analisi inprofondità, basato su un’apposita ricerca sul campo, di uno dei casi di studiodel progetto, il Pecorino a Latte Crudo Montagne Pistoiesi.

Ai Percorsi di istituzionalizzazione delle produzioni agroalimentari tipiche(capitolo 6) è dedicato il lavoro proposto da Belletti e Marescotti. Anche inquesto caso il materiale conoscitivo è frutto delle indagini dirette presso i si-stemi locali di due dei prodotti considerati dalla ricerca: la Ciliegia di Lari eil Lardo di Colonnata. Attraverso il confronto tra due casi di studio diversi pertipologia e notorietà del prodotto, gli autori mettono in luce le finalità perse-guite dai diversi attori, i nodi istituzionali e i possibili esiti del percorso cheentrambe le filiere hanno avviato per ottenere il riconoscimento della deno-minazione geografica del prodotto secondo il regolamento 2081/92. La certi-ficazione dell’origine geografica, come è emerso anche dagli altri studi dellaricerca, rappresenta uno strumento fondamentale nella valorizzazione delleproduzioni alimentari tipiche sia perché capace di attivare la disponibilità apagare del consumatore, sia come momento di negoziazione dei conflitti in-torno alla qualità all’interno della filiera. L’istituzionalizzazione dell’origine,tuttavia, comporta un percorso complesso, i cui esiti non sono scontati in par-tenza, all’interno del quale strategie individuali e interessi collettivi devonoconvergere verso una sostenibilità di lungo periodo.

Un approfondimento del tema del riconoscimento dei percorsi di istituzio-nalizzazione è proposto infine nel contributo dedicato a Costi e modelli orga-nizzativi nelle denominazioni geografiche (capitolo 7) nel quale Belletti et al.si soffermano su uno dei punti critici introno ai quali si gioca spesso il suc-cesso o il fallimento dei prodotti tipici sul mercato: quello dei costi della va-lorizzazione. Il percorso di valorizzazione viene affrontato come un investi-mento collettivo che si sviluppa in un ciclo progettuale. Dopo un’interessantediscussione di tutte le tipologie di costo connesse con le diverse fasi di unprogetto di denominazione, che potrebbe costituire un’utile schema nella pre-

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disposizione di business plan per la costituzione di un nuovo marchi di origi-ne, gli autori propongono anche la quantificazione di una delle componentipiù rilevanti, quella dei costi diretti di uso, utilizzando i dati raccolti sui casidi studio del Pecorino Toscano DOP, Olio Toscano IGP e Vitellone Biancodella Toscana Centrale IGP Chianina.

I contributi elencati fin qui danno un’idea della mole di materiali e cono-scenze accumulate nei tre anni di realizzazione del progetto dalle quattrounità di ricerca coinvolte. I risultati presentati in questo volume costituisconouna scelta ed una discussione di una parte dei risultati presentati in nove rap-porti di ricerca. I seminari interni del progetto, programmati con il procederedelle ricerche, hanno costituito un’occasione per sviluppare una serie di ri-flessioni di natura normativa, circa le strategie e le politiche che gli operatorie delle istituzioni per favorire la crescita del mercato delle produzioni tipichetoscane. Gli ultimi due contributi del volume, anche alla luce di una letturacomplessiva della parte empirica del progetto, propongono una sintesi diquanto emerso da tale discussione.

Nell’analizzare Il processo di valorizzazione delle produzioni agroalimen-tari tipiche Belletti et al. si pongono nell’ottica di un sistema locale che ipo-tizzi di avviare un progetto di valorizzazione di una sua produzione alimenta-re. L’obiettivo del lavoro è quello di fornire elementi di carattere metodologi-co sui passaggi fondamentali da affrontare in sede di impostazione della stra-tegia di valorizzazione e sulle principali aree in cui questa strategia deveessere articolata. Infatti, di fronte ad un mercato sempre più sensibile ai valo-ri immateriali del cibo come quelli portati dalle caratteristiche di tipicità, manel quale l’offerta di prodotti tipici si fa sempre più ricca e articolata, le retidi imprese e le comunità locali sono chiamate sempre più ad una consapevo-le progettazione delle loro azioni di valorizzazione, per non esporre al rischiodi insuccesso sforzi e risorse personali e collettive che sono talvolta consi-stenti. Così l’azione collettiva per la valorizzazione della qualità delle proprieproduzioni, dovrà articolarsi in una consapevole mobilizzazione delle risorsee in adeguate azioni di qualificazione degli operatori e di commercializzazio-ne dei prodotti, nel contesto di una crescente integrazione con tutte le risorsedel territorio. Il capitolo proposto in questo volume rappresenta in un certosenso un complemento, su un piano di discussione metodologica, della Guidaalla valorizzazione delle produzioni agroalimentari tipiche, (AAVV, 2006),uno dei principali output operativi del progetto che è una sorta di manuale diorientamento rivolto agli operatori nato a partire dall’esperienza del progettodi ricerca e recentemente pubblicato da Arsia.

Il capitolo conclusivo di Rocchi e Romano su Coerenza tra le concezionidi qualità e possibilità di sviluppo del mercato, infine, tenta di tirare le som-me del progetto ponendosi nell’ottica del governo regionale che, attraversol’ARSIA, ha finanziato la ricerca e che a ragione intravede nelle produzioniagroalimentari di qualità un’opportunità importante per lo sviluppo delle

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aree rurali. Utilizzando ancora una volta il problema della definizione e co-municazione della qualità come criterio guida per mettere in evidenza op-portunità e vincoli nello sviluppo del mercato delle produzioni tipiche gli au-tori propongono alcune indicazioni sulle possibili azioni di governance delsistema delle produzioni tipiche in vista di un suo sviluppo coerente e dura-turo nel tempo.

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1. La percezione della qualità dei prodotti tipici nella letteratura

Al quesito di come i consumatori percepiscono la qualità dei prodotti tipi-ci l’indagine Nomisma (Nomisma, 2001) risponde che secondo i consumato-ri gli attributi della tipicità sono, in ordine di importanza:

– la genuinità e l’assenza di conservanti;– l’uso di materie prime del territorio per la fabbricazione;– l’ottenimento con metodi artigianali di produzione;– la riferibilità a una ricetta tradizionale;– l’acquistabilità nel luogo di produzione.

Dunque i consumatori collegano, in misura prevalente, i prodotti tipici adattributi di genuinità e di assenza di conservanti che in realtà questi prodottinon possiedono sempre. A determinare questo giudizio certamente influisce ilfattore emotivo, poiché la preoccupazione dei consumatori non solo italianiper la sicurezza alimentare è fortemente cresciuta in questi anni di frequentiemergenze igienico-sanitarie a carico del cibo prodotto con sistemi industria-li per il grande mercato. È comprensibile quindi che i consumatori siano por-tati a idealizzare come sicuri i prodotti tipici, che appartengono spesso a uncircuito produttivo e commerciale circoscritto e vicino, per i più maggior-mente credibile e controllabile. Resta il fatto però che la percezione della qua-lità dei prodotti tipici da parte dei consumatori, dal momento che presentaelementi di contestualità riguardo al clima generale di reazioni emotive cau-sate dagli eventi eccezionali che colpiscono i consumi alimentari, non può es-sere determinata una volta per tutte, ma va continuamente monitorata.

Dal rapporto Nomisma si desume anche che, posto di fronte alle indica-zioni correnti utilizzate per comunicare la qualità dei prodotti tipici, il consu-matore si dimostra incerto: oltre l’80% non conosce le IGP, e il 71% non co-

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2. I CONSUMATORI E I PRODOTTI ALIMENTARITIPICI DELLA TOSCANA

di Giovanni Balestrieri

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nosce le DOP. Ma al tempo stesso i consumatori giudicano importante la pro-venienza del prodotto e la presenza di una etichetta chiara, rivelando di esi-gere qualità e marchi che la segnalino. Esiste quindi un problema di comuni-cazione della qualità dei tipici che l’attuale sistema di etichettatura non è ingrado di fronteggiare.

Quando ci riferiamo ai prodotti tipici in genere abbiamo in mente produ-zioni offerte in quantità limitate, domandate da segmenti circoscritti di mer-cato, commercializzate all’interno di canali dedicati. Una recente indagineISMEA (ISMEA, 2002) sui prodotti agroalimentari protetti in Italia rivela in-vece che la grande distribuzione non può più essere considerata estranea allacommercializzazione dei prodotti tipici. Da questa indagine risulta infatti chegli ipermercati e i supermercati rappresentano il canale che negli ultimi anniha sostenuto la crescita della spesa in prodotti tipici, assorbendone attualmen-te il 61%. Il dettaglio tradizionale è invece in declino anche in questo com-parto, coprendo solo il 20% della spesa in prodotti tipici. Certamente questofenomeno risulta così conclamato perché fra i prodotti tipici ve ne sono anchealcuni di grande mercato, come i vini, gli oli di oliva, il parmigiano e i pro-sciutti di Parma e San Daniele, che coprono la parte preponderante della spe-sa delle famiglie in prodotti tipici e si prestano ad essere veicolati dalla gran-de distribuzione vantaggiosamente. Tuttavia anche i prodotti tipici di nicchia,negli anni più recenti, sembrano avere riscosso l’interesse della grande distri-buzione. Nell’impostare le nostre indagini sul consumo, quindi, abbiamo rite-nuto opportuno assegnare spazio ai clienti della grande distribuzione e deter-minare anche i requisiti di qualità dei prodotti tipici ai quali questa fa riferi-mento.

L’indagine ISMEA fornisce anche spunti di riflessione e operativi pergiungere a una valutazione delle possibilità di consumo dei prodotti specificiconsiderati nella presente ricerca (Lardo di Colonnata, Pecorino a latte crudodella Montagna Pistoiese, Spinacio della Val di Cornia, Ciliegia di Lari, Mar-rone del Mugello), in particolare per quanto riguarda il posizionamento dimercato di tali prodotti. Seguendo il suggerimento ISMEA, vanno considera-ti due indicatori utili allo scopo, la “quota trattanti” e la “copertura pondera-ta”. La quota trattanti viene suggerita come indicatore di penetrazione delprodotto tipico, in quanto ne misura la quota di spesa che i consumatori gliassegnano nel comparto. Ad esempio, il peso degli acquisti di pecorino sul to-tale degli acquisti di prodotti tipici effettuati dagli acquirenti di pecorino. Lacopertura ponderata viene suggerita invece come indicatore della propensioneall’acquisto dei prodotti tipici, in quanto valuta la quota di acquisti della clas-se prodotti tipici sviluppata dai soli acquirenti del prodotto che consideriamo.Ad esempio, la percentuale di acquisti di prodotti tipici che compete agli ac-quirenti di pecorino. Per quanto riguarda i prodotti oggetto specifico della no-stra analisi è presumibile che si tratti di prodotti caratterizzati da una bassaquota trattanti, cioè prodotti che rappresentano una quota modesta del panie-

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re di spesa dei tipici da parte dei loro acquirenti, e da una copertura pondera-ta da determinare, in quanto possono riferirsi sia a grandi che a piccoli acqui-renti di prodotti tipici. Sappiamo già, quindi, che le azioni di marketing perquesti prodotti dovranno certamente tendere a migliorarne il grado di accetta-zione, ma anche, forse, ad aumentare la generica spesa per prodotti tipici.

2. Alcuni approcci metodologici all’analisi della domanda di pro-dotti tipici

Dovendosi procedere all’analisi della percezione della qualità dei prodottitipici da parte dei consumatori in un ambito di ricerca che prevede lo studiodi tutte le fasi delle filiere, si è cercato di prendere spunto da vari approccimetodologici a carattere sistemico, e in particolare:

– il Total Food Quality Model (in seguito approccio TFQM);– l’approccio che fa riferimento ai meccanismi di reputazione (in seguito ap-

proccio REP);– la teoria delle convenzioni (in seguito approccio CONV);– l’approccio che fa riferimento alla Costruzione Sociale della Qualità (in

seguito approccio CSQ).

Estremizzando le differenze di questi approcci possiamo sinteticamente di-re quanto segue.

II TFQM1 viene espressamente proposto come schema integrativo per ana-lizzare aspetti legati alle scelte di consumo alimentare e alla percezione dellaqualità. Esso poggia sulla distinzione fra percezione della qualità prima e do-po l’acquisto, e si presta ad analizzare problematiche legate alla trasparenzadella qualità, al ruolo dei marchi e delle etichettature, alla percezione, da par-te del consumatore, della tecnologia di produzione degli alimenti, alle carat-teristiche di “credence” dei prodotti alimentari, al ruolo della produzione ca-salinga, ai cambiamenti di comportamento dei consumatori in situazioni dicrisi. Legata alla distinzione fra percezione della qualità prima e dopo l’ac-quisto vi è la constatazione che è impossibile determinare prima dell’acquistoalcune importanti caratteristiche qualitative della maggior parte dei prodottialimentari, ad esempio il sapore (i prodotti alimentari, cioè, sono caratterizza-ti in modo limitato da elementi qualitativi di ricerca). Pertanto il processo discelta del consumatore presuppone la formazione di aspettative di qualità, esolo dopo l’acquisto il consumatore perviene a una esperienza di qualità. Ilconsumatore forma le sue aspettative di qualità sulla base di indicatori di qua-lità, comunemente distinti in intrinseci e estrinseci. Gli indicatori intrinseci

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1. Si veda, in proposito, Grunert et al. (1996).

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sono le caratteristiche fisiche del prodotto, gli indicatori estrinseci più comu-ni sono il prezzo del prodotto, il tipo di esercizio dove si acquista, la marca,le caratteristiche richiamate dalla pubblicità.

La percezione della qualità sulla base degli indicatori intrinseci ed estrin-seci può essere molto imperfetta fino a rendere problematica la formazione diconvinte aspettative di qualità da parte del consumatore. Ciò è vero soprattut-to per le caratteristiche di qualità igienico-sanitaria e per la natura delle tecni-che di produzione. In questi casi è invitabile il ricorso a indicatori di qualitàdi tipo credence, che spesso, come nel caso delle caratteristiche di processo oigienico-sanitarie, non possono essere sottoposti alla prova dell’esperienza.La percezione degli elementi di costo, unitamente alla percezione delle carat-teristiche qualitative intrinseche ed estrinseche, determinano la formazionedelle aspettative di qualità e quindi l’intenzione di acquisto. La possibilità disaggiare le caratteristiche organolettiche del prodotto sostituisce in pieno que-sto processo portando il consumatore allo stesso livello di percezione dellaqualità che gli è consentito dall’esperienza post acquisto. Il confronto di talicaratteristiche con quelle attese, che sono quelle che di fatto hanno indotto ilconsumatore all’acquisto, determina la ripetitività o meno dell’acquisto. Tra-dotto in procedura di indagine, lo schema di analisi contenuto nel TFQM puòrisolversi in un accertamento, attraverso un focus group di consumatori se-guito da un test di assaggio, delle modalità di formazione delle aspettative diqualità e della loro verifica attraverso l’esperienza.

L’approccio CSQ chiede di concentrare la nostra analisi non tanto sullateorica qualità oggettiva dell’offerta (come vorrebbe l’approccio tecnologico),né sui segnali e sui segni emessi dal prodotto (approccio di marketing), quan-to piuttosto sulla concreta soggettiva qualità-significato che deriva all’offertadall’interpretazione dei segni e dei segnali emessi dal prodotto, e sui mecca-nismi di interazione sociale che determinano la formazione dei significati. Se-condo questo approccio le preferenze e le scelte dei consumatori vanno indi-viduate nel vissuto dei consumatori stessi. Così, ai fini di una politica di mer-cato, esse possono giungere a rappresentare percezioni di qualità modificabi-li ad uso dell’offerta attraverso l’informazione, ovvero la produzione e/ol’autorizzazione di segni e segnali, oppure influenzando, attraverso la comu-nicazione e la creazione di standards, i meccanismi di traduzione dei segni edei segnali in significati. Sia per la fase del consumo, che per quelle della pro-duzione, trasformazione e distribuzione, i focus group rappresentano il meto-do di indagine più appropriato, in quanto consentono in modo economico“l’estrazione dei come e dei perché” da fenomeni non ancora conosciuti neiloro confini, come nel nostro caso (Guthman, 2002).

L’approccio REP punta principalmente sulla creazione, mantenimento ecomunicazione della qualità dell’offerta, quindi va incluso fra gli approcci diqualità totale, in quanto combina l’approccio tecnologico, che pone l’accentosul prodotto, e il marketing convenzionale, che pone l’accento sui segni e i se-

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gnali. Anche in questo caso le preferenze e le scelte dei consumatori non so-no considerate prioritarie (come invece vorrebbe il principio della sovranitàdel consumatore), ma piuttosto inducibili dall’offerta. Per quanto riguarda lepolitiche, quindi, l’approccio REP conduce all’uso dei segni e dei segnali del-l’offerta per l’allargamento del mercato. L’approccio non richiede necessaria-mente indagini al consumo basate su focus group: anche indagini sulla do-manda di tipo quantitativo, o le meno costose e più approfondite interviste atestimoni privilegiati, consentono di procedere nell’analisi basata sull’approc-cio REP2.

L’approccio CONV presuppone l’analisi della pluralità delle possibili rela-zioni lungo la catena produzione-consumo, anche a livello di singolo prodot-to, il quale può essere contemporaneamente commercializzato direttamente,affidato a intermediari commerciali, trasformato, producendo caratteristichedi convenzione molteplici. È un approccio equilibrato quanto ad autonomiadel ruolo degli attori (produzione, distribuzione, consumo), naturalmente piùin alcune forme di convenzione che in altre (nelle “convenzioni” industriali,ad esempio, prevale la nozione di qualità del trasformatore, in quelle “distri-butive” prevale la leadership di canale e quindi la nozione di qualità-tipicitàdella GDO). Inoltre l’approccio CONV richiama, come l’approccio CSQ,l’attenzione sul ruolo dei meccanismi di interazione sociale nella costruzionedella qualità. Non è quindi classificabile esclusivamente nell’approccio tecno-logico, di marketing convenzionale, di qualità totale e di CSQ, è un approcciosui generis che ai fini delle politiche di mercato richiede la ricostruzione delcomplesso di interazioni sociali fra gli attori che conducono alla particolarecostruzione della qualità-tipicità.

Un riferimento utile, infine, per valutare il comportamento della grande di-stribuzione in quanto “gatekeeper” nei rapporti fra produzione e consumo diprodotti tipici, è quello del comportamento consapevole e responsabile, “eti-co” dell’impresa, che è diventato un elemento importante del contratto che le-ga l’impresa stessa alla comunità nella quale opera. Sono molte infatti le for-ze e gli attori che, in maniera diretta o indiretta, spingono le aziende a inseri-re nella propria agenda, quale tema strategicamente rilevante, i consumatoricon i loro valori oltre che con le loro esigenze di stretto consumo: l’ambien-te, il benessere economico e sociale delle popolazioni più deboli, l’identità dicultura e tradizioni delle comunità locali. Ogni impresa, poi, ha relazionicomplesse con le persone, i gruppi e le organizzazioni presenti nella società.Alcune di queste relazioni sono volute o desiderate, altre non lo sono. In ognicaso le persone e le organizzazioni con cui le aziende sono coinvolte hannoun interesse nelle decisioni, nelle azioni e nei risultati dell’impresa. Tali sog-getti, quindi, si possono definire portatori di interesse e sono un elemento cru-

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2. Per un accesso guidato alla letteratura sui meccanismi di reputazione e sulla teoria delleconvenzioni si veda Pacciani et al. (senza data).

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ciale nel determinare il successo o il fallimento di un’impresa. Sotto la spintadei portatori di interesse l’impresa può essere indotta a scalare la piramidedella responsabilità sociale (figura 1) superando i livelli convenzionali dellaresponsabilità economica e legale. L’impresa che desideri efficacemente co-noscere le forze sociali ed economiche che hanno con lei un legame signifi-cativo può applicare una metodologia che va sotto il nome di “analisi deglistakeholder”.

Figura 1 – La piramide della responsabilità d’impresa (Fonte: Carrol, 1991)

3. Le indagini effettuate

Per le nostre indagini sulla percezione della qualità dei prodotti tipici daparte dei consumatori ci siamo serviti di focus group, interviste aperte e in-terviste a mezzo di questionari chiusi. Sono state anche effettuate interviste a

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Responsabilità

filantropica

L’impresa come buon

cittadino

Responsabilità etica

L’impresa si comporta secondo le attese della

comunità

Responsabilità legale

L’impresa obbedisce alle leggi che sono la

codificazione dell’etica della società

Responsabilità economica

L’impresa deve generare profitti

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testimoni privilegiati della grande distribuzione alimentare e dell’e-commer-ce, e ad alcuni grossisti e dettaglianti tradizionali.

Per quanto riguarda i consumatori, nei focus group abbiamo coinvolto ac-quirenti della grande distribuzione, in particolare del partner della ricercaCoop del Tirreno (ex Toscana Lazio), e residenti urbani dell’Area Pisana edell’area industrializzata di Pontedera. Abbiamo invece rivolto interviste aper-te ai turisti italiani e stranieri di un’area di turismo rurale, l’Alta Val di Ceci-na, dove opera un altro partner della ricerca, il Residence San Francesco diPomarance. Il riferimento, nei focus group e nelle interviste, è stato princi-palmente ai generici prodotti tipici, solo sussidiariamente ai prodotti tipicispecifici che nella nostra ricerca costituiscono altrettanti casi di studio. Perdue di questi prodotti, il Lardo di Colonnata e La Ciliegia di Lari, abbiamoperò effettuato interviste ai frequentatori dell’annuale sagra utilizzando unquestionario chiuso. Per il Lardo di Colonnata abbiamo anche organizzato untest di assaggio “cieco” contrapponendolo a un suo “clone”. Al test, condottoda un esperto del partner Coop del Tirreno, hanno partecipato i soci già coin-volti nei focus group.

Con i focus group e le interviste aperte ci siamo proposti di determinarevari aspetti collegati alla percezione della qualità dei prodotti tipici da partedei consumatori, vale a dire:

a) il ruolo svolto dai prodotti tipici nelle abitudini non solo di consumo ali-mentare ma anche di vita dei singoli e delle famiglie;

b) l’importanza sia delle motivazioni utilitaristiche e edonistiche, che di quel-le non utilitaristiche nelle scelte di consumo alimentare;

c) la molteplicità delle dimensioni, anche “etiche”, del valore attribuito aiprodotti alimentari che hanno una definita origine territoriale;

d) la natura e l’affidabilità, soggettivamente intesa, delle fonti di informazio-ne che contribuiscono a formare l’opinione e l’atteggiamento di acquistodei consumatori nei riguardi dei prodotti tipici.

Nel selezionare gli intervistati abbiamo cercato di realizzare la diversifi-cazione tipologica che ci è sembrata maggiormente significativa per gli sco-pi dell’indagine. Ad esempio, il fatto che ai focus group siano stati chiama-ti a partecipare soci Coop deriva dall’esigenza di portare nell’analisi l’even-tuale influenza di una catena distributiva che è stata la prima a introdurrenella distribuzione alimentare un comportamento “socialmente responsabi-le”, interpretando in modo proattivo e strategico le potenzialità delle moti-vazioni “etiche” della domanda. Tali potenzialità, a nostro avviso, si espri-mono non solo sotto forma di sensibilità, da parte del consumatore, per laqualità dell’ambiente (prodotti biologici) e per le problematiche del sotto-sviluppo (prodotti del commercio equo e solidale), ma anche sotto forma didesiderio di contribuire, attraverso il consumo dei prodotti tipici, alla con-servazione e valorizzazione del patrimonio di tradizioni locali che caratte-

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rizza questi prodotti. Chiaramente senza trascurare il fatto che la grande di-stribuzione alimentare, dovendo rispondere alle aspettative di altri portatoridi interessi, è indotta anche a sostituire la sua gerarchia di attributi qualita-tivi a quella dei consumatori nel processo di costruzione sociale della qua-lità dei prodotti tipici. Alla valutazione di questi aspetti sono dedicate le in-dagini presso la GDO.

I focus group con residenti delle aree urbane sono serviti per sondare l’at-teggiamento verso i prodotti tipici di soggetti che – soprattutto quelli abitantinella zona industrializzata – hanno legami deboli con i territori di produzionee quindi partecipano da posizioni remote al processo di costruzione socialedella qualità dei prodotti tipici. Al contrario i turisti rurali sono stati intervi-stati perché si configurano come consumatori “orientati” dei prodotti tipici.Infatti, le occasioni di consumo e di acquisto di questi prodotti in zona di pro-duzione rappresentano per molti turisti rurali una motivazione importante delparticolare tipo di vacanza prescelto.

Sia nei focus group che nelle interviste si è proceduto avendo cura di fareemergere dalla conversazione le risposte a un insieme strutturato di quesiticoerenti con le finalità dell’indagine sopra richiamate. In particolare:

– la nozione posseduta di prodotto tipico;– la gamma di prodotti tipici acquistati e consumati;– il momento, il luogo e la frequenza degli acquisti;– gli eventi, le occasioni che determinano tali acquisti;– le motivazioni del consumo di prodotti tipici e i canali di comunicazione

che contribuiscono a formare tali motivazioni;– la disponibilità a pagare per i prodotti tipici in generale.

I questionari distribuiti in occasione delle sagre della Ciliegia di Lari edel Lardo di Colonnata, potendosi contare in questo caso su un campione nu-meroso, sono stati strutturati in modo da consentire la valutazione delle ri-sposte non solo in funzione delle variabili socio-anagrafiche degli intervista-ti, ma anche delle loro abitudini di acquisto per quanto riguarda i prodottibiologici e i prodotti del commercio equo e solidale. Abbiamo fatto ciò alloscopo di verificare se la motivazione “etica” in senso lato è anch’essa unacomponente della concezione di qualità posseduta dal consumatore di pro-dotti tipici.

Il test “cieco” di assaggio è stato condotto sul Lardo di Colonnata e suun altro lardo, il lardo della Bottega di Adò, che dichiara le stesse caratteri-stiche. Ai 13 partecipanti al test, conoscitori e non del Lardo di Colonnata,è stato chiesto di valutare separatamente e nel complesso, con un punteggioda 1 a 10, le caratteristiche di aspetto, consistenza al palato e gusto dei duelardi.

Le interviste ai testimoni privilegiati della grande distribuzione alimentarehanno riguardato, con riferimento ai prodotti tipici, le esigenze di massa cri-

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tica e di logistica specifica, la destinazione o meno di appositi spazi di vendi-ta, la gamma dei prodotti trattati, il bacino di rifornimento, l’apposizione delmarchio e altre garanzie del distributore, il livello di responsabilità sociale ac-ceduto (economico, legale, etico, filantropico).

4. I risultati delle indagini

4.1. La nozione di prodotto tipico, la gamma di prodotti tipici consumati, ilmomento e il luogo dell’acquisto

Nella tabella 1 abbiamo riassunto, con riferimento alle tipologie di consu-matori considerate, la nozione di prodotto tipico che questi possiedono, la va-rietà e la frequenza di acquisto dei prodotti, e il luogo di acquisto. Abbiamofatto ciò prendendo in considerazione e riportando le risposte più frequenti al-l’interno di ciascuna tipologia di consumatori, ma vi è stata una grande va-rietà di risposte.

Alcuni degli intervistati hanno mostrato di possedere una nozione moltovaga di prodotto tipico, confondendolo con il prodotto locale e talora con ilprodotto di marca. All’inizio dello svolgimento dei focus, con i primi inter-venti, è sembrato che solo i partecipanti con livello educativo e condizione so-ciale più elevati possedessero una nozione di prodotto tipico che fa leva sutecniche di produzione e abitudini di consumo radicate nelle tradizioni di zo-ne geografiche ben delimitate, certificate, caratterizzate da cultura e stili di vi-ta originali. Con il procedere della conversazione, tuttavia, a dimostrazionedella validità della tecnica del focus group da questo punta di vista, dal con-fronto delle posizioni è apparso che nelle scelte di acquisto i partecipanti sicomportano con maggiore consapevolezza riguardo alla natura del prodottotipico. Fanno eccezione i turisti rurali stranieri, i quali confondono la tipicitàcon l’origine toscana e italiana del prodotto. Come ci si poteva attendere, so-no invece i turisti rurali italiani quelli che possiedono una nozione di prodot-to tipico corretta nella sostanza e nell’espressione, mentre i soci Coop dimo-strano di fare riferimento a una nozione di prodotto tipico corretta nella so-stanza solo nel momento che rivelano quali prodotti acquistano. Di interessela posizione dei residenti in aree urbane, i quali frequentemente legano la ti-picità alla salubrità del prodotto, come abbiamo visto essere stato rilevato conl’indagine Nomisma.

Al momento di elencare i prodotti tipici che conoscono e consumano, ituristi rurali stranieri, coerentemente con la loro nozione di prodotto tipicocitano i tipici prodotti mediterranei, e cioè vino, olio e ortaggi. Ma anche isoci Coop, e in modo più esclusivo i residenti delle aree urbane concentranoi loro acquisti nei prodotti tipici che sono stati definiti di “ampio bacinogeografico di lavorazione e di acquisizione degli input”, cioè il Parmigiano

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Reggiano, il Grana padano e il Prosciutto di Parma che nel loro insieme co-prono più di 2/3 del mercato dei prodotti tipici (Nomisma, 2001). La tipolo-gia di prodotti di interesse per la nostra ricerca, i prodotti di nicchia, cioè iprodotti tipici caratterizzati da un bacino geografico di produzione e di ac-quisizione degli input ristretto, ricorre solo nelle citazioni dei turisti ruraliitaliani e, talora, dei soci Coop. A tale proposito merita citazione, in vistadella più generale discussione sul ruolo della località nel processo di costru-zione della qualità e nel consumo dei prodotti tipici, la circostanza che alcu-ni intervistati hanno elencato principalmente prodotti originari delle loro zo-ne, spesso prodotti di nicchia, mentre altri hanno citato prodotti provenientida tutta l’Italia, e nessuno prodotti tipici stranieri. Il ruolo dei consumatorinella costruzione sociale della qualità si prospetta diverso nei due casi. Nelcaso dei prodotti tipici di nicchia che provengono dalle loro zone di vita cipossiamo attendere che consumatori e produttori si trovino d’accordo su uninsieme di valori condivisi che non necessitano di essere comunicati permezzo dei canali formali e garantiti con marchi di origine, dal momento chesi tratta di valori interni al loro mondo e quindi ben noti e controllabili daentrambi, produttori e consumatori. Nel caso dei consumatori di prodotti ti-pici provenienti da altre regioni, invece, ci dobbiamo attendere che i consu-matori portino elementi e valori esterni ai luoghi di produzione nel processodi costruzione sociale della qualità, e che facciano affidamento in misuramaggiore sia sui canali formali di comunicazione che sulla denominazionedi origine.

La diversa nozione di prodotto tipico e il diverso comportamento di con-sumo delle tipologie di consumatori considerate spiegano anche la diversità difrequenza e il diverso luogo di acquisto dei prodotti tipici. I prodotti tipici diampio mercato si prestano ad essere acquistati durante tutto l’anno presso lagrande distribuzione, mentre i prodotti di nicchia vengono acquistati moltospesso all’azienda, in occasione di viaggi ed escursioni, e occasionalmentenei negozi specializzati. Risultano servirsi dei negozi specializzati i turisti ru-rali e i residenti delle aree urbane. Tuttavia non è solo per la fedeltà dei sociCoop nei confronti della “loro” catena distributiva, ma anche per la sempremigliore performance della GDO nel comparto che nelle zone dell’indagine simanifestano i segni di una graduale sostituzione della grande distribuzionealimentare ai negozi specializzati.

4.2. Le motivazioni alla base del consumo di prodotti tipici

Nella tabella 2 abbiamo riportato le valutazioni del grado di importanzache gli intervistati annettono a diverse possibili motivazioni del consumo diprodotti tipici. Riportiamo le valutazioni più frequenti raggruppate in due so-le alternative, importante e meno importante, non essendo stato possibile, da-

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te le modalità di intervista, pervenire a una più articolata modulazione dellerisposte.

Si conferma l’esistenza di una sorta di dualismo nel comportamento diconsumo. Gli intervistati che avevano elencato anche o principalmente i pro-dotti tipici locali, e cioè i soci Coop e i turisti rurali italiani, appaiono inte-ressati relativamente di più agli aspetti culturali dei prodotti che al gusto ealla salubrità degli stessi. Desiderano poterne conoscere le tecniche di pro-duzione, ne apprezzano il retaggio culturale e in particolare la loro capacitàdi testimoniare stili di vita originali; desiderano, attraverso il consumo diprodotti tipici, favorire la sopravvivenza delle tradizioni locali contro la cre-scente omologazione generata dai processi di globalizzazione. In altre paro-le, preferiscono acquistare prodotti tipici locali piuttosto che prodotti analo-ghi di altre regioni perché ritengono che in questo modo possono contribui-re alla sostenibilità economica delle attività che formano l’identità delle co-munità locali in cui vivono. L’osservazione di un comportamento siffattooffre sostegno all’argomentazione che l’etnocentrismo e il senso di respon-sabilità nei confronti della comunità di appartenenza vanno considerati ante-cedenti delle preferenze dei consumatori per i prodotti locali (Van Ittersum etal., 2000). Del tutto opposto risulta l’atteggiamento dei residenti delle areeurbane, i quali nel prodotto tipico cercano e percepiscono soprattutto gli ele-menti qualitativi edonistici e utilitaristici, ovvero il gusto e la salubrità. I tu-risti rurali stranieri si dimostrano ancora più disincantati nei confronti dellecaratteristiche non edonistiche dei prodotti tipici, poiché dichiarano di ac-quistarli – ovvero di acquistare quelli che considerano prodotti tipici – prin-cipalmente per il loro gusto.

4.3. Il grado di fiducia riposto nei canali di comunicazione della qualitàdei prodotti tipici

La maggioranza degli intervistati, indipendentemente dalla tipologia, hadichiarato di basarsi molto sull’esperienza per giudicare la qualità di un pro-dotto tipico (tabella 3), rivelando indirettamente un certo grado di sfiduciaverso ogni forma di comunicazione della qualità. Tuttavia tutti gli intervista-ti, con l’eccezione dei turisti rurali stranieri, pur confessando un certo scetti-cismo riguardo alla veridicità di talune indicazioni di origine, hanno dichiara-to di assegnare importanza all’etichettatura dei prodotti alimentari che ne ri-chiama la provenienza geografica. E hanno anche affermato di prestare atten-zione a tutti i tipi di etichettatura – ovvero marca e marchi di garanzia – ditutti i prodotti, non solo di quelli alimentari. Questo comportamento dei con-sumatori è coerente con quanto riferito dalla letteratura, e cioè che:

– esiste una somiglianza funzionale fra l’indicazione di origine e la marcadel prodotto che ne richiama l’origine geografica;

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– quanto maggiore è l’importanza che il consumatore annette alle etichetta-ture di certificazione della qualità e alla marca, tanto maggiore è la proba-bilità che egli acquisti un prodotto a denominazione di origine;

– in genere, i consumatori che assegnano importanza alla provenienza geo-grafica dei prodotti alimentari generici sono anche inclini ad acquistareprodotti con denominazione di origine. È anche vero, tuttavia, che le de-nominazioni di origine dei prodotti alimentari, sebbene conferiscano unvalore aggiunto al prodotto, sono poco conosciute dai consumatori (Van It-tersum et al., 2000; Nomisma, 2001).

Le diverse tipologie di consumatori hanno manifestato preferenze diffe-renziate riguardo alla capacità delle varie forme di vendita di comunicare laqualità dei prodotti tipici. I residenti delle aree urbane, differenziandosi netta-mente dalle altre tipologie di consumatori, hanno dichiarato di assegnare fi-ducia solo ai negozi specializzati, oltre che all’esperienza, mentre i media so-no stati considerati affidabili solo dai turisti rurali stranieri. Poco diffusa, inquanto limitata ai soli turisti rurali italiani, si è rivelata anche la fiducia nelledichiarazioni dei produttori nelle vendite presso l’azienda, mentre le indica-zioni qualitative fornite dalla grande distribuzione sono state considerate affi-dabili sia dai soci Coop che dai turisti rurali stranieri. A questo proposito vadetto che la letteratura non fornisce una chiara indicazione sull’effetto che lafiducia nel potere di garanzia della grande distribuzione può avere riguardoall’acquisto di prodotti tipici. È stata formulata l’ipotesi che i consumatori iquali scelgono e acquistano i prodotti alimentari spinti dalla fiducia che ri-pongono nella grande distribuzione molto probabilmente non acquistano pro-dotti tipici. Questi consumatori si affiderebbero all’avallo del distributore in-vece di basarsi sulla qualità dei prodotti perché incontrano difficoltà a ricono-scere i caratteri identificativi dei prodotti stessi. È per superare tali difficoltàche cercano nel distributore una guida e una garanzia. Van Ittersum et al.(2000) hanno posto in discussione questa ipotesi sulla base di alcuni risultatii quali mostrano che la fiducia nel punto di vendita al dettaglio e il modo dipresentarsi del prodotto tipico concorrono in pari misura nel determinarnel’acquisto.

Per quanto riguarda la disponibilità dei consumatori a pagare di più per iprodotti tipici che per i prodotti normali, i nostri intervistati si sono dichiara-ti favorevoli. Non sono venute chiare indicazioni in proposito solo da partedei turisti rurali stranieri i quali però, come abbiamo visto, trovano difficolto-sa la stessa identificazione del prodotto tipico. Coloro che sono disposti a pa-gare un “premio” per l’acquisto di un prodotto tipico motivano questa loro di-sponibilità con il desiderio di sostenere le economie locali, spesso quelle diappartenenza, e favorire la conservazione delle identità culturali che le carat-terizzano. L’entità del “premio” che gli intervistati sono disposti a pagare perla tipicità del prodotto varia in funzione del luogo di acquisto, ed è maggiore

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se l’acquisto avviene in viaggio nei luoghi di produzione (soci Coop) e neiluoghi di vendita che gli intervistati considerano più affidabili (i negozi spe-cializzati nel caso dei residenti urbani; l’azienda produttrice nel caso dei turi-sti rurali italiani). Di interesse la giustificazione che gli intervistati hanno da-to della loro maggiore disponibilità a pagare in queste particolari situazioni, ecioè che il sapore del prodotto tipico è migliore quando questo viene acqui-stato e consumato nei luoghi di origine. È una riprova della fondatezza del-l’affermazione di Guthman il quale sostiene che il gusto si colloca all’incro-cio fra la conoscenza e il piacere, tra il simbolismo e la materialità, e che unabuona parte di esso promana da uno scambio di significati all’interno del cir-cuito di produzione e di consumo del cibo (Guthman, 2002).

Sulla base dei risultati del nostro esperimento di assaggio “cieco” del Lar-do di Colonnata e di un suo clone l’apprezzamento del prodotto tipico sembradipendere anche dagli aspetti sensoriali e dalla conoscenza del prodotto stes-so (tabella 4). I 13 partecipanti al test hanno assegnato un punteggio maggio-re al Lardo di Colonnata sia per quanto riguarda separatamente l’aspetto, laconsistenza al palato e il gusto che per quanto riguarda la valutazione com-plessiva dei due prodotti. Tuttavia la preferenza per il Lardo di Colonnata è ri-sultata netta fra gli intervistati che avevano già assaggiato questo prodotto,inesistente o poco marcata fra gli intervistati che non lo avevano assaggiato.

Le interviste per questionario effettuate a carico dei frequentatori della sa-gra del Lardo di Colonnata confermano che il gusto è la caratteristica più ap-prezzata di questo prodotto tipico, considerata “molto importante” dalla qua-si totalità degli intervistati (tabella 5). Seguono per importanza la tecnica diproduzione artigianale e il richiamo delle tradizioni che si collega al consumodel prodotto.

4.4. Il ruolo della grande distribuzione alimentare nella percezione dellaqualità dei prodotti tipici

Abbiamo precedentemente rilevato che una quota consistente degli inter-vistati considera affidabili le indicazioni di qualità dei prodotti tipici trasmes-se dalla grande distribuzione. Nel nostro caso questa circostanza dipende inqualche misura dal particolare contesto in cui le interviste sono state effettua-te, per la presenza di una catena distributiva cooperativa nel territorio e deisuoi soci fra gli intervistati. In questo contesto probabilmente, in misura piùaccentuata che in altri, è in corso un processo di rapido e significativo coin-volgimento della grande distribuzione nella commercializzazione di prodottibiologici, del commercio equo e solidale e tipici. È un coinvolgimento mira-to a tenere il passo con la crescita del segmento di mercato sorretto da movi-menti sociali più ampi quali l’ambientalismo, l’etica nell’agire economico esociale, e la salvaguardia delle identità locali. La sua esistenza dimostra che

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la costruzione sociale della qualità dei prodotti tipici può includere attori eforze di solito considerate esterne ed estranee al mondo particolare in cui sisviluppano i circuiti in qualche modo “alternativi” dei prodotti tipici.

Il coinvolgimento della grande distribuzione nel circuito dei prodotti tipicinon rappresenta necessariamente un pericolo per i produttori tradizionali. Alcontrario, la formazione di modelli di funzionamento dei circuiti dei prodottitipici che comportano il contatto delle componenti locali con quelle esternepuò contribuire a rendere più concrete le possibilità che hanno i prodotti tipi-ci di favorire lo sviluppo rurale. Certamente possono sorgere problemi perchéil contatto con le forze esterne rende in genere più stringenti le esigenze diadeguamento igienico-sanitario delle produzioni, con costi spesso insostenibi-li e pericoli di snaturamento dei processi produttivi attraverso l’assoggetta-mento dell’offerta alle richieste della distribuzione e del consumo. Tuttavia,come risulta anche dalle nostre indagini, i consumatori e i distributori sonomotivati da preoccupazioni “etiche” tanto quanto sono motivati da preoccupa-zioni economiche convenzionali. Inoltre molti circuiti locali dei prodotti tipi-ci appaiono così robustamente ancorati alla loro natura artigianale che si hadifficoltà a immaginarne la sostituzione con i circuiti intensivi di capitale pro-ponibili dalla grande distribuzione.

Le interviste che abbiamo condotto presso testimoni privilegiati dellagrande distribuzione alimentare nazionale inducono a ritenere che questo set-tore imprenditoriale è entrato con convinzione nella logica della responsabi-lità sociale dell’impresa, e che la commercializzazione dei prodotti tipici è vi-sta come parte di questa logica. Le catene distributive interpellate sono CoopItalia, Conad, Esselunga e Carrefour Italia. Abbiamo inoltre voluto approfon-dire il modo in cui anche Esperya.com, impresa leader nel commercio elet-tronico alimentare, percepisce la tipicità dei prodotti. Per giungere a ciò ab-biamo condotto le interviste cercando di fare emergere i punti che riteniamopiù critici ai fini della evidenziazione del contrasto che può esistere fra la ge-nerale concezione di qualità dei prodotti da parte della grande distribuzione,in molti casi legata ad esigenze di funzionalità ed economicità della gestione,e la concezione di qualità dei prodotti tipici di produttori e consumatori. Que-sti punti sono elencati nella tabella 6, e riguardano:

– la richiesta di massa critica e/o il ricorso a una logistica specifica;– l’assegnazione di spazi di vendita specifici e/o l’impiego di accorgimenti

espositivi atti a comunicare un carattere di differenziazione dei prodotti ti-pici;

– l’ampiezza della gamma e la tipologia di prodotti tipici commercializzati;– il bacino geografico di rifornimento;– l’utilizzazione del marchio e/o della garanzia del distributore in associa-

zione al marchio del produttore;– l’adozione di iniziative a favore dei produttori e del territorio motivate da

senso di responsabilità sociale.

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Dalle interviste risulta che in genere la grande distribuzione tiene a che isingoli punti vendita si riforniscano in misura consistente sul territorio in cuisono localizzati. Vi sono poi delle politiche diverse di rifornimento, promo-zione e comunicazione della territorialità, che possiamo così riassumere:

– Carrefour, in quanto impresa estera, sente l’esigenza di assicurare che tut-to il prodotto alimentare ha una provenienza italiana;

– Conad punta a trasferire attraverso molti prodotti, regionalmente distribui-ti, un unico concept di qualità (tradizione, territorio, origini) del quale be-neficiano tutti i prodotti che hanno una loro territorialità specifica – è ilsenso dell’operazione Sapori & Dintorni – prestandosi a essere comunica-to attraverso media a copertura nazionale;

– Esselunga organizza settimane di prodotti tipici regionali, ma riserva an-che spazi privilegiati permanenti ad alcuni prodotti tipici;

– Coop interviene anche nell’organizzazione della logistica specifica perprodotti e aree che ne necessitano.

A proposito della logistica, un elemento di immaginabile potenziale con-trasto tra le esigenze della grande distribuzione e le caratterizzazioni quan-titative di molti prodotti tipici, Carrefour distingue fra prodotti tipici chepossono essere inseriti nella logistica di tutti gli altri prodotti e quindi dif-fusi su larga scala territoriale, e prodotti tipici per i quali è necessario con-cordare con i produttori modalità logistiche specifiche. Solo Esselunga af-ferma di richiedere quantitativi minimi per accettare di commercializzare iprodotti tipici.

Collegate alla territorialità vi sono poi le azioni di presidio e di promozio-ne all’estero. Coop, al presente, e Conad, come progetto a breve scadenza,collaborano all’opera di presidio dei prodotti in via di sparizione (IntesaCoop-Slow Food; progetto di presidi Conad). Conad, dopo la recente intesacon Leclerq, si adopra per la diffusione dei prodotti tipici italiani sui mercatiesteri. Analoga iniziativa non viene riferita da Carrefour. Va rilevato cheEsperya, l’impresa di e-commerce, afferma di effettuare consegne di prodottitipici anche all’estero, nonostante l’elevato costo richiesto dal trasferimentodei modesti quantitativi personalizzati.

Tutte le catene intervistate peraltro sovrappongono alla garanzia di origi-ne che il prodotto porta con sé dalla fase di produzione, una loro garanziaaggiuntiva. Questa garanzia è spesso rappresentata dall’insegna della catenaassociata alla descrizione delle verifiche operate dalla catena stessa sul pro-dotto, sulla provenienza e sulle tecniche di lavorazione di questo. Talora taliverifiche si esprimono in un marchio aggiuntivo (“Linea Qualità”, il già ci-tato “Sapori&Dintorni”, ecc.). In altre parole, anche nel caso dei prodotti ti-pici si risentono gli effetti della rivoluzione intervenuta nei rapporti fra pro-duzione e distribuzione, per cui la produzione non può più pensare di vende-re attraverso il commercio facendo leva solo sul proprio marchio, ma deve

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competere per vendere al commercio, accettando che la forza del marchiodel produttore si esprima principalmente nell’ottenere l’appropriazione dimargini minori da parte del distributore e più favorevoli collocazioni neglispazi di vendita.

Esselunga sembra anche voler entrare in concorrenza con la fase dellaproduzione quando asserisce di produrre direttamente, tramite due stabili-menti, pasta fresca, pasticceria, prodotti da forno. Nel complesso, tuttavia, la“virtuosa” mescolanza di considerazioni etiche (rispetto del potere della ter-ritorialità di creare qualità) e di marketing convenzionale (uso del potere del-la garanzia del distributore) conducono a una percezione della qualità da par-te della distribuzione che non include i temuti criteri di superamento dellamassa critica e di minimo costo unitario posseduti dai prodotti standardizza-ti della grande logistica distributiva.

Possiamo individuare indirettamente la concezione di qualità dei prodottitipici posseduta dalla grande distribuzione esaminando le risposte date al que-sito su “quali pensate che siano le caratteristiche di qualità che i consumatoriassegnano ai prodotti tipici”? Nelle risposte aleggia, naturalmente, la presun-zione che i prodotti tipici siano considerati di qualità dai consumatori perchéè la catena distributiva di cui sono clienti, spesso fedeli, che li controlla, li se-leziona e li propone. Però vengono riconosciuti esplicitamente, come più rile-vanti, i caratteri della “bontà” (caratteristiche organolettiche valutate positiva-mente) e la “territorialità” in quanto espressione di tradizioni e cultura, arti-gianalità (e anche salubrità) e il taglio e la pezzatura confacenti alla conser-vazione e al consumo. La disponibilità a pagare è riconosciuta più alta per ilprodotto acquistato in zona di produzione e per i prodotti tipici non di uso co-mune, quasi quotidiano. Riguardo a questi ultimi prodotti, presso la grandedistribuzione si ritiene talora che il consumatore abbia perso il contatto con laterritorialità e guardi alla marca non diversamente che per altri prodotti. Vie-ne però fatto rilevare che esistono qualità diverse della fornitura (in particola-re per il parmigiano e il prosciutto), per cui il consumatore cliente della gran-de distribuzione valuta spesso la qualità di questi prodotti in funzione della fi-ducia che ha nella catena.

Un cenno, infine, alla variante e-commerce della percezione della qualitàda parte della distribuzione. Per ora questo è un tipo di commercio che lagrande distribuzione tradizionale in alcuni casi non prevede, soprattutto per iprodotti tipici. L’ostacolo sta nella forma di vendita, che presuppone un’orga-nizzazione in grado di gestire convenientemente le consegne in 24 ore, quin-di specializzata. Questa è la condizione di Esperya, che chiede alla produzio-ne, come requisiti di qualità prioritari, una elevata qualità organolettica, e ilpossesso di marchio. Quest’ultimo requisito, tuttavia, può passare in secondopiano se un prodotto senza marchio risulta preferito al test di assaggio effet-tuato da esperti nominati dalla ditta. Una tale valutazione della qualità è coe-rente con la natura del segmento di mercato a cui è destinato il prodotto di

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Esperya. Si tratta infatti di un sotto-segmento del mercato di prodotti tipici,costituito da intenditori disposti a pagare un premium price elevato (anche40% in più).

5. Considerazioni conclusive

In sintesi, dalle nostre indagini è emerso che non tutti i consumatori sonoin grado di dire cosa sia un prodotto tipico e quali siano i prodotti tipici cheincontrano nella loro attività di spesa e di consumo. I turisti stranieri spessoidentificano la tipicità con l’italianità e la mediterraneità del prodotto, e diconseguenza non prestano attenzione ai segni che identificano i diversi pro-dotti tipici, non ne sperimentano la grande varietà offerta dai contesti territo-riali che visitano. I residenti urbani, d’altra parte, spesso confondono salu-brità e tipicità, e spesso si limitano a consumare i tipici di largo bacino di in-put e mercato. La corretta conoscenza dei prodotti tipici sembra retaggio deisegmenti più acculturati e affluenti, che spesso associano alla predilezioneper questi prodotti il turismo rurale e l’escursionismo in campagna e altreforme di “loisir” (cene con amici,escursioni e shopping a carattere eno-ga-stronomico).

Chi non conosce bene i prodotti tipici tende a ricercarli per le loro caratte-ristiche organolettiche, mentre il “conoscitore” è più sensibile all’aspetto ditradizione e cultura che accompagna il prodotto tipico, talora anche relegan-do in secondo piano l’aspetto del gusto. Abbiamo riscontrato questo fenome-no anche nelle indagini specifiche riguardanti la Ciliegia di Lari e il Lardo diColonnata, di cui non riportiamo i risultati per economia di spazio.

Probabilmente l’aspetto più inatteso della nostra indagine è rappresentatodal fatto che la grande distribuzione alimentare, fino a poco tempo addietroconsiderata inconciliabile con la filiera dei prodotti tipici, è entrata in tale fi-liera senza determinarne il temuto appiattimento verso una produzione indu-striale dei grandi quantitativi che la logistica e la distribuzione moderna ri-chiedono. Al contrario, in modo spesso proattivo (si pensi all’attività pionie-ristica di Coop Italia nel biologico, nell’equo e solidale e nelle produzioni ti-piche, appunto) la grande distribuzione ha inserito i prodotti tipici nelprocesso di personalizzazione del servizio commerciale che caratterizza la piùrecente risposta della distribuzione alla evoluzione dei consumi alimentari.Talora si riscontrano nella grande distribuzione alimentare anche i segni di uncomportamento di impresa socialmente responsabile rivolto ai prodotti tipici,come da tempo è avvenuto per i prodotti biologici e i prodotti del commercioequo e solidale. Nel caso dei prodotti tipici questo comportamento responsa-bile si rinviene nel riconoscimento, da parte della distribuzione, della neces-sità di capovolgere la tradizionale direzione del processo di formazione deiprezzi agricoli. Piuttosto che lasciare che tale prezzo si determini in modo re-

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Page 36: Tipicamente Buono

siduale dopo aver sottratto dal prezzo al consumo margini motivati dalla vo-lontà di ottemperare alla responsabilità economica, la distribuzione sembravoler adottare anche per i tipici un meccanismo di formazione del prezzo ana-logo a quello del fair trade, vale a dire un meccanismo che considera priori-tario il “giusto” prezzo per il produttore, e determina il prezzo al consumo ag-giungendovi un mark-up autoridotto affinché il prezzo finale possa risultarecompatibile anche con la disponibilità a pagare del consumatore.

Riferimenti bibliografici

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Page 37: Tipicamente Buono

Tabella 1 – Nozione di prodotto tipico, varietà di prodotti tipici consumati, frequenzadi consumo e luogo di acquisto, per tipologie di consumatori

Soci Coop Residenti urbani Turisti rurali Turisti rurali Toscana-Lazio (Pontedera) Italiani Stranieri(Viareggio) (Val di Cecina) (Val di Cecina)

Nozione Difficoltà a fornire Prodotto tipico Nozione di Nozione territo-di pro- una definizione ap- frequentemente prodotto tipico rialmente generica dotto propriata di prodotto definito come formalmente e (Toscana, Italia, tipico tipico, ma nelle valu- prodotto salubre sostanzialmente Mediterranea)

tazioni e nella pratica correttadi acquisto di prodotti tipici si fa riferimento a una nozione quasi sempre corretta

Prodotti Principalmente Quasi Principalmente Quasi tipici con- prodotti tipici esclusivamente prodotti di esclusivamente sumati caratterizzati da un prodotti tipici nicchia e tipici vino, olio e

ampio bacino geogra- caratterizzati da del luogo ortofrutta frescafico di provenienza un ampio bacino di vacanzadegli input e di produ- geografico di zione, ma anche pro- provenienza deglidotti tipici di nicchia input e di produ-

zione

Frequen- Consumo Consumo Consumo Consumo za di con- regolare dei regolare, regolare. regolare sumo dei prodotti di ampio essendo relativo I limiti della nel periodo prodotti bacino geografico; quasi esclusiva- stagionalità di vacanzatipici consumo occasionale mente ai prodotti sono compen-

e comunque limitato di ampio bacino sati dalla varietà dalla stagionalità per geografico di prodotti quanto riguarda i pro- consumatidotti di nicchia

Luogo Più spesso presso Secondo Dal produttore, L’acquisto di acqui- la grande distribu- comodità: dal e nei negozi principalmente sto dei zione Coop; talora produttore, nei di alimentari nei supermercati; prodotti direttamente dal negozi di del luogo di il consumo anche tipici produttore; durante alimentari o vacanza nei ristoranti del

i viaggi sia dal pro- al suopermer- attentamente luogo di vacanzaduttore che nei cato, spesso selezionati.negozi del luogo anche presso le Nei luoghi

boutique eno- di residenza gastronomiche abituale, prefe-

ribilmente nelle boutique eno-gastronomiche

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Tabella 2 – Importanza relativa di alcune motivazioni che possono indurre al consu-mo di prodotti tipici, per diverse tipologie di consumatori (“importante”, “meno im-portante” per la maggioranza degli intervistati)

Soci Coop Toscana- Residenti Turisti rurali Turisti rurali Lazio (Viareggio) urbani Italiani Stranieri

(Pontedera) (Val di Cecina) (Val di Cecina)

Gusto Meno Importante Meno Importanteimportante importante

Salubrità Meno important Meno Meno importante importante importante

Trasparenza del processo Importante Meno Importante Meno di produzione importante importante

Interesse culturale Importante Meno Importante Meno nel modello di vita importante

che esprime importante

Desiderio di preservare Importante Meno Importante Meno le tradizioni locali importante importanteminacciate dalla

“globalizzazione”

Tabella 3 – Grado di fiducia in alcuni canali di comunicazione e disponibilità a pa-gare per i prodotti tipici, per diverse tipologie di consumatori (fiducia “alta” o “bas-sa “per la maggioranza degli intervistati)

Soci Coop Toscana- Residenti Turisti rurali Turisti rurali Lazio (Viareggio) urbani Italiani Stranieri

(Pontedera) (Val di Cecina) (Val di Cecina)

Dichiarazioni Alta Alta Alta Bassain etichetta

Indicazioni del negoziante/ Bassa Alta Bassa Bassavendita in negozio

specializzato per i tipici

Garanzia del supermercato Alta Bassa Bassa Alta

Produttore Bassa Bassa Alta Bassa(acquisto in azienda)

Esperienza o passaparola Alta Alta Alta Alta

TV, altri Media Bassa Bassa Bassa Alta

Disponibilità a pagare 30% 20% 30% Nessuna (% in più rispetto (di più se (di più al negozio (di più dal indicazione

al prodotto generico) in viaggio) specializzato) produttore) chiara

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Tabella 4 – Risultati del test di assaggio effettuato ponendo a confronto il lardo diColonnata e il lardo della bottega di Adò)

Aspetto Consistenza Sapore Valutazione al palato complessiva

N. di partecipanti al test che avevano già assaggiato il lardo di Colonnata e gli hanno assegnato un punteggio:

– più alto di Adò 4 2 6 5– più basso di Adò 2 1 1 1– pari a quello di Adò. 1 4 0 1– Totale 7 7 7 7

N. di partecipanti al test che non avevano mai assaggiato il l. di C. e gli hanno assegnato un punteggio:

– più alto di Adò 2 3 3 3– più basso di Adò 1 3 2 3– pari a quello di Adò. 3 0 1 0– Totale 6 6 6 6

N. complessivo di partecipanti al test che hanno assegnato al lardo di Colonnata un punteggio:

– più alto di Adò 6 5 9 8– più basso di Adò 3 4 3 4– pari a quello di Adò. 4 4 1 1– Totale 13 13 13 13

Tabella 5 – Alcuni risultati delle interviste effettuate alla Sagra del lardo di Colon-nata Agosto 2003 (40 interviste)

Quanto sono importanti per lei queste caratteristiche del lardo di Colonnata?1 = poco; 2 = abbastanza; 3 = molto

% di intervistati che Grado medio considerano in qualche di importanza

misura importante il carattere assegnato al carattere

– aspetto esteriore 42,50 2,1– consistenza 42,50 1,5– sapore 95,00 3,0– richiamo delle tradizioni 57,50 2,6– tecnica di produzione artigianale, genuina 70,00 2,5

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Tabella 6 – Requisiti di qualità dei prodotti tipici richiesti dalla grande distribuzionealimentare e dall’e-commerce

Coop Italia Conad Esselunga Carrefour Esperya.com

Richiesta di Nessuna Difficoltà ad Richiesta di Vincoli di Differenziazionemassa critica Logistica accettare le tagli e pez- minimo delle delle tariffe e logistica per le piccole zature adatti forniture per per venire specifica piccole produzioni alla GDO le produzioni incontro alle

produzioni Denuncia di Richiesta di locali specifiche concordata carenza delle forniture che Adozione di esigenze di con i pro- strutture consentano di una logistica logistica duttori territoriali perseguire specifica per dell’e-com-Richiesta di servizio l’obiettivo di le produzioni mercedel bollo CEE distributivo “bontà e locali e di assogget- salubrità e un concordata tamento al minimo di con i controllo costanza produttoriqualità del della qualità”distributore

Spazi di Spazi di Spazi di Isole e Spazi di –vendita vendita vendita bacheche vendita dedicati e inizialmente in genere dedicate, comuniaccorgimenti separati ma comuni, soprattutto espositivi convergenti talora in occasione

a regime esposizioni delle Realizzazione speciali per “settimane di banchi suggerire regionali”assistiti e abbinamenti di cantina dei prodottiper i vini

Gamma Prodotti sia Prodotti sia Prodotti sia Prodotti sia Prodotti dotati di prodotti di nicchia di nicchia di nicchia di nicchia di marchio e tipici com- che a largo che a largo che a largo che a largo di qualità mercializzati bacino bacino bacino bacino organolettiche

di input di input di input di input elevate

Bacino di Politica di Politica di Politica di Impegno per Aspetto non rifornimento legame con legame con legame con il territorio rilevante per

il territorio il territorio il territorio “Italia” ma la forma debole non per le di vendita

vendite all’estero

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segue

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continua Tabella 6 – Requisiti di qualità dei prodotti tipici richiesti dalla grande di-stribuzione alimentare e dall’e-commerce

Coop Italia Conad Esselunga Carrefour Esperya.com

Uso del Ritiene che Garanzia Forte leva Scarso uso Ricorso allo marchio il marchio del affidata sul marchio- del marchio slogan e alla proprio e produttore e al concept insegna perché ritiene pratica dello richiami alla del distributore di qualità giustificata che il “scegliamo per garanzia del si combinino “sapori con le consumatore voi”, con l’uso distributore perché fanno e dintorni” “garanzie cerchi i di verifiche

riferimento aggiuntive” prodotti, non e test allo stesso che comporta i marchi di assaggioconcept di qualità

Iniziative Obiettivo – – Obiettivo di Promozioni per promozionali di prezzo “sviluppo incrementare e di responsa- “giusto” per i durevole” le vendite bilità sociale produttori Qualità e all’esterod’impresa Intesa con salubrità

Slow Food a prezzi per i presidi accessibili

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Page 43: Tipicamente Buono

1. Presentazione e obiettivi del lavoro

L’Italia è un paese particolarmente dotato di prodotti tipici e, poiché la ti-picità rappresenta una delle caratteristiche fondamentali della qualità, negliultimi anni si è cercato di difendere e migliorare la posizione competitiva del-le produzioni alimentari sui mercati internazionali proprio a partire dalla qua-lità del modello italiano1. Del resto, nella letteratura sul comportamento delconsumatore si è sempre più affermato lo studio dell’origine geografica comediscriminante della percezione di qualità di un prodotto.

Nelle indagini che presentiamo in questo lavoro è stata analizzata l’in-fluenza della regione di origine sulla valutazione dei prodotti alimentari daparte dei consumatori. A tal fine sono stati analizzati cinque diversi casi distudio: il Farro della Garfagnana, il Lardo di Colonnata, la Ciliegia di Lari,il Biroldo della Garfagnana e il Pecorino della Montagna Pistoiese2. Taliprodotti sono stati scelti perché accomunati da un elevato grado di tipicità,identificabile nella forte identità data dalle caratteristiche ambientali e stori-che delle aree di origine. Per ciascuno di essi sono stati stimati la disponibi-lità a pagare, o WTP (willingness to pay), ed i punteggi edonici a diversi li-velli di ampiezza dell’area di origine. In altri termini, le valutazioni che si ri-

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3. LA DISPONIBILITÀ A PAGAREDEI CONSUMATORI

PER LE CARATTERISTICHE DI TIPICITÀ*

di Gianluca Stefani, Benedetto Rocchi,Massimo Gioia e Alessio Cavicchi

* Massimo Gioia ha scritto i paragrafi da 1 a 3, Alessio Cavicchi i paragrafi 4 e 5, Gianlu-ca Stefani il paragrafo 6 e Benedetto Rocchi il paragrafo 7.

1. Nel corso della globalizzazione contemporanea, infatti, le regole su cui tradizionalmen-te si giocava la competizione internazionale si sono modificate, passando da una competizionebasata sui costi di produzione (e sui vantaggi comparati) ad una basata sulla qualità del pro-dotto (e sulla sua reputazione) (cfr., ad esempio, Romano, 2005).

2. I cinque prodotti sono stati studiati nell’ambito di due progetti di ricerca. Il pecorino, laciliegia ed il lardo sono stati studiati nell’ambito del progetto finanziato dall’ARSIA di cuiquesto volume costituisce uno dei risultati; il biroldo e il farro della Garfagnana sono statistudiati nell’ambito di un progetto finanziato dall’Istituto Nazionale per le Ricerche sullaMontagna.

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feriscono al prodotto tipico in quanto tale e che fanno riferimento alla defi-nizione esatta dell’area di origine, sono state confrontate con valutazioni re-lative a prodotti simili provenienti da aree concentriche progressivamentepiù ampie.

Il primo obiettivo della ricerca era di indagare come le differenze di WTPe di punteggio edonico per i cinque tipi di prodotto sotto condizioni diversesiano influenzate dalla natura dell’informazione a disposizione del consuma-tore. I regimi informativi prescelti sono stati quelli tipici dei lavori di analisisensoriale: assaggio cieco, presentazione della sola etichetta e assaggio delprodotto etichettato.

Il confronto tra casi di studio diversi ha inoltre reso possibile una meta-analisi per verificare se esista un pattern comune di valutazione rispetto ai di-versi regimi informativi e se esistano differenze ascrivibili a diversità di tipotecnologico e/o di status istituzionale (ad esempio, la presenza o meno di unmarchio di origine) dei prodotti.

I risultati specifici attinenti a questi tre obiettivi sono stati illustrati in ma-niera articolata in alcune pubblicazioni a cui si rimanda per ulteriori ap-profondimenti (Romano et al., 2005; Stefani et al., 2005; Stefani et al., 2006).In questo articolo si vuole illustrare sinteticamente i principali risultati relati-vi a tutta la ricerca evidenziando elementi comuni a tutti i prodotti e diver-genze nelle percezioni dei consumatori rispetto alle diverse provenienze e ti-pologie dei beni analizzati.

Il lavoro è strutturato come segue. Nel prossimo paragrafo verrà presenta-ta una rassegna della letteratura sul ruolo dell’origine geografica nella forma-zione del valore di un prodotto. La metodologia impiegata nell’analisi sarà il-lustrata nei paragrafi 3 e 4, mentre i paragrafi 5 e 6 sono dedicati all’analisidei risultati. Infine l’ultimo paragrafo proporrà alcune riflessioni conclusive.

2. Il ruolo dell’origine nella valutazione della qualità da parte delconsumatore

Nel caso della valorizzazione delle produzioni alimentari tipiche il rico-noscimento e la valorizzazione della loro qualità appare problematico a cau-sa delle asimmetrie informative che, al passare da una dimensione locale aduna globale del mercato, insorgono inevitabilmente (Pilati e Ricci, 1991). Lanatura experience e credence (Darby e Karny, 1973; Anderson, 1994) di mol-ti degli attributi rilevanti nella valutazione della qualità dei prodotti alimen-tari da parte del consumatore, richiede di conseguenza uno scambio infor-mativo adeguato tra produttori e consumatori relativamente alla qualità deiprodotti.

Le diverse forme di indicazione e garanzia dell’origine, in genere utiliz-zate nel processo di valorizzazione, assumono in questa ottica, una duplice

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valenza: se da un lato consentono al sistema locale di produzione di mante-nere il controllo sul legame tipicità-territorio attraverso la creazione di unmonopolio di qualità (Rocchi e Stefani, 2001), dall’altro “segnalano” al con-sumatore la qualità delle produzioni attraverso la loro origine geografico-cul-turale.

Ponendosi nell’ottica del consumatore è possibile individuare diversi livel-li di valutazione della qualità degli alimenti in relazione alle diverse fasi delprocesso di acquisto (Blackwell et al, 2001): quello della qualità desiderata,connesso alla fase di riconoscimento dei bisogni; quello relativo alla qualitàattesa, connesso alle fasi di ricerca di informazioni e di valutazione delle al-ternative di acquisto; e quello relativo alla qualità sperimentata, connesso al-le fasi di consumo e valutazione post-consumo. Il modello di total food qua-lity proposto da Grunert (1996) integra in un unico flusso le fasi del processodi acquisto e le diverse valutazioni ad esso connesse, interpretando il proces-so di scelta del consumatore secondo un approccio mezzi-fini (Grunert,1995). Nella fase pre-acquisto il consumatore si forma una serie di aspettati-ve relative alle caratteristiche experience e credence utilizzando una serie diattributi capaci di svolgere un compito di “segnalazione” della qualità (qualitycues: cfr. Steenkamp, 1990). Tali attributi, che possono essere sia intrinseciche estrinseci al prodotto, interagiscono con le conoscenze già in possesso delconsumatore (perché derivate da precedenti esperienze di consumo, o da altriprocessi di acquisizione di informazioni) favorendo la creazione di aspettati-ve sulla qualità.

All’interno di questo approccio, l’area di origine, che per sua natura rap-presenterebbe un attributo credence dei beni, non essendo di solito verificabi-le autonomamente dal consumatore, può essere definita come un cue, intornoalla qualità del prodotto, di tipo estrinseco, cioè non dipendente dalle caratte-ristiche fisiche del prodotto, che i produttori utilizzano per “segnalare” la qua-lità delle loro produzioni ai consumatori. La trasformazione dell’origine inquality cue associato al prodotto, tuttavia, pone un duplice problema informa-tivo: innanzitutto il consumatore deve percepire, sulla base delle sue cono-scenze pregresse, l’origine come un segnalatore pertinente alla valutazionedella qualità; in secondo luogo il consumatore deve ritenere credibile l’infor-mazione relativa all’origine che viene associata al bene oggetto di scelta.

Il consumatore seleziona i cues da utilizzare nella valutazione della qualitànella fase pre acquisto, sia in base alle caratteristiche del prodotto che in ba-se a caratteristiche personali. In particolare, i fattori che determinano l’impor-tanza di un cue vengono individuati nel legame che il consumatore percepisceessere presente tra esso e gli attributi presi in considerazione (predictive va-lue) e nella sicurezza del consumatore nei confronti della sua capacità di va-lutare uno specifico cue (confidence value) (Verleg e Van Ittersum, 2001). Irisultati illustrati da Verleg e Steenkamp (1999) nella loro rassegna bibliogra-fica evidenziano un significativo impatto della denominazione di origine sul-

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le valutazioni del consumatore e suggeriscono come per molti consumatori ladenominazione di origine sia caratterizzata da alti livelli di predictive e confi-dence value.

Van Ittersum (2001) esamina il ruolo dell’indicazione di origine come cue,al fine di individuare quando e come l’indicazione di origine entra in gioconel processo decisionale. Secondo il suo modello, la regione di origine puòessere uno dei fattori che inducono la fase di ricognizione del problema. In talcaso essa viene ritenuta responsabile dell’attivazione dell’individuo che deter-mina la decisione di acquisto. In caso contrario, l’influenza dell’indicazionedi origine è minore, ma rappresenta comunque uno dei motivi che, in presen-za di uno stato di tensione, indirizzano il comportamento del consumatoreverso una determinata direzione.

La possibilità che un prodotto tipico ha di essere preso in considerazionenel processo decisionale dipende molto dalla facilità con cui il consumatoreidentifica l’indicazione geografica durante la fase di ricerca di informazioni.A seguito della ricognizione del problema, il consumatore può recuperare leinformazioni sui prodotti tipici direttamente dalla memoria (ricerca interna),oppure può ottenere le informazioni dall’ambiente (ricerca esterna). L’acces-sibilità di queste informazioni nella memoria rappresenta un elemento chiavedurante la ricerca pre-acquisto ed è stato dimostrato come questa aumenti conil senso di appartenenza alla regione di origine del prodotto e con il coinvol-gimento del consumatore nei confronti della categoria a cui il prodotto appar-tiene.

Nella fase di valutazione e scelta delle alternative, il consumatore si rife-risce alle proprie convinzioni in merito alla capacità dell’area di origine difabbricare quel determinato prodotto e quindi all’immagine che egli si è fat-to della regione in questione. Si tratta di un’immagine di tipo multidimen-sionale (che dipende da elementi umani, dall’ambiente naturale e dal clima)attraverso la quale il consumatore inferisce sugli attributi posseduti dallaproduzione (Martin e Eroglu 1993). L’incontro tra gli attributi così stimati egli obiettivi del consumatore determina il substrato sul quale avviene il giu-dizio di valutazione del consumatore circa un determinato prodotto. Van It-tersum (2001) mostra come in questa fase l’influenza dell’indicazione geo-grafica sull’atteggiamento del consumatore sia maggiore in prodotti con altovalore aggiunto.

Il processo descritto porta così alla creazione di aspettative circa le conse-guenze funzionali, sociali ed emozionali legate al consumo del prodotto tipi-co responsabili dell’atteggiamento finale del consumatore e della scelta. Sequeste aspettative sono soddisfatte dall’effettivo consumo, si genera soddisfa-zione e un atteggiamento post-acquisto positivo nei confronti del prodotto ti-pico. Ogni volta che acquisti successivi confermano le aspettative, l’atteggia-mento post acquisto si rinforza e il consumatore può sviluppare lealtà neiconfronti del prodotto.

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3. Informazione e valutazione sensoriale

Le informazioni sono dunque un elemento essenziale per prendere deci-sioni nell’ambito del consumo alimentare. Tuttavia esistono differenze so-stanziali nella valutazione di attributi di tipo credence (come la presenza diresidui antiparassitari nella frutta) e di caratteristiche experience (come peresempio gli attributi sensoriali). I primi, infatti, non sono direttamente cono-scibili dai consumatori mentre le seconde possono essere indagate dopo l’ac-quisto e il consumo del prodotto. Non solo: la disponibilità di informazionirelative a determinate caratteristiche credence interferisce a sua volta sulla va-lutazione, attraverso il consumo, delle caratteristiche experience, determinan-do un quadro complesso di interazioni tra preferenze, percezioni e valutazio-ni sia ex post che ex ante il momento di consumo.

Schifferstein (2001) distingue tre tipi di modalità di misurazione delle pre-ferenze sensoriali del consumatore. In tutti i casi il risultato è un punteggiomisurato su una liking scale avente come estremi “mi piace molto” e “non mipiace per niente”; tuttavia ogni modalità è contraddistinta da un determinatoregime informativo.

Il primo tipo di test è quello di assaggio cieco (blind test) in cui si hainformazione limitata a cues intrinseci al prodotto (colore, ecc.) e ad attribu-ti experience di tipo sensoriale (sapore, odore, ecc.). In sostanza nell’assag-gio cieco solo le caratteristiche fisiche e organolettiche dell’alimento sono adisposizione del consumatore per la valutazione.Da un blind test si può otte-nere una misura di quella che può essere definta una performance effettiva(actual performance).

Il secondo tipo di test (expectation test) è al contrario caratterizzato dauna totale assenza di informazione riguardante gusto e olfatto, sostituita dacues intrinseci visivi (colore, forma etc.) e/o cues estrinseci come il packa-ging, l’immagine, l’etichetta e la descrizione verbale o scritta di un prodot-to: in questo modo si riesce ad ottenere una misura di performance attesa delprodotto che il consumatore costruisce combinando l’elaborazione del-l’informazione che gli viene presentata e quella che conserva nella sua me-moria.

Infine il branded o labelled test mette a disposizione del consumatore en-trambi i tipi di informazione (attributi experience e cues estrinseci) medianteuna prova di assaggio di prodotti etichettati. Attraverso il branded test si ot-tiene una misura della performance percepita (perceived performance). Nel-l’assaggio labelled si definisce una situazione analoga, almeno da un punto divista informativo, a quella del consumatore che sperimenta il prodotto dopoavere preso la sua decisione e effettuato l’acquisto. Nella sua valutazione lapercezione sensoriale interagisce con una determinata “percezione” della pro-messa di qualità proveniente dai diversi cues (intrinseci ed estrinseci) che lohanno guidato nella scelta e dei quali fanno parte anche attributi credence co-

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me ad esempio l’origine geografica o il rispetto di determinate norme di eco-compatibilità. È per questo che la valutazione edonica in queste condizionipuò discostarsi, anche significativamente, da quella effettuata in condizioniblind.

La differenza tra valutazione labelled e valutazione blind, che tecnicamen-te viene indicata nelle analisi dei sensorialisti come response shift, sembra es-sere un indicatore adeguato per isolare l’impatto diretto degli attributi creden-ce sulla valutazione degli alimenti. Ad esempio Guerrero (2001) ha eviden-ziato che se le caratteristiche di processo riguardano l’origine geografica delprodotto, il consumatore indifferente tra due prodotti nel blind test mostra in-vece una forte preferenza sensoriale per il prodotto ottenuto in aree specifichenel labelled test. Rimane tuttavia un problema metodologico legato al feno-meno della cosiddetta “assimilazione”. Infatti poiché le aspettative non con-fermate creano uno stato di sofferenza psicologica il consumatore riduce talesofferenza modificando le percezioni sensoriali nel senso delle aspettative(Anderson, 1973; Deliza e McFie, 1996; Schifferstein, 2001). Nella valuta-zione del response shift è necessario di conseguenza depurare l’analisi dal-l’effetto di simili interazioni

Anche se in alcuni lavori i punteggi misurati con scale di liking possonoessere fortemente correlati alla WTP e variare in maniera simile (Lange et.al., 2002), questo risultato non può essere generalizzato3. In generale la lette-ratura sul response shift si è concentrata sugli effetti dell’informazione sullapercezione degli attributi sensoriali e sulle relative misure edoniche. Vicever-sa nella presente ricerca la metodologia impiegata ha sistematicamente tenu-to in considerazione congiuntamente le valutazioni edoniche e quelle moneta-rie e l’esistenza di eventuali interazioni tra loro.

4. Metodologia

La ricerca si poneva l’obiettivo di indagare come le differenze di WTP e dipunteggi edonici per i cinque prodotti – il Farro della Garfagnana, il Lardo diColonnata, la Ciliegia di Lari, il Biroldo della Garfagnana e il Pecorino dellaMontagna Pistoiese – sotto condizioni diverse fossero influenzate dalla natu-ra dell’informazione a disposizione del consumatore.

La stima della WTP è stata effettuata attraverso la realizzazione di astesperimentali. Nel formato classico proposto da Vickrey i partecipanti invianoofferte di acquisto in buste chiuse ed il vincitore, colui che ha fatto l’offerta

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3. Infatti, la WTP non dipende soltanto dalle caratteristiche sensoriali del prodotto, ma an-che da attributi credence (fra cui la stessa origine geografica) che non necessariamente si ri-flettono sugli indici di preferenza misurati dall’analisi sensoriale.

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più alta, paga solo il prezzo corrispondente alla seconda migliore offerta. Èstato dimostrato (Vickrey, 1961) che questo meccanismo istituzionale inducei partecipanti a rivelare il loro vero prezzo di riserva (ovvero la massima di-sponibilità a pagare per il bene oggetto dell’asta).

A partire da questo schema di base, attraverso vari miglioramenti del dise-gno sperimentale è possibile considerare e misurare i processi di apprendi-mento e di formazione del valore. È inoltre possibile fornire incentivi che ren-dano più attendibili i valori rilevati, con i partecipanti soggetti a disciplina dimercato che effettuano pagamenti in moneta. Con questa tecnica di stima del-la disponibilità a pagare, infine, è possibile alterare sperimentalmente l’insie-me di informazioni di cui dispongono i consumatori (relativamente alla re-gione di origine), per osservare l’influenza dell’informazione disponibile sul-la valutazione del bene4.

In particolare nelle ricerche che qui si presentano, è stata adottata una pro-cedura di asta “n-th random price” che, invece di prevedere un solo vincitoretenuto a pagare il prezzo relativo alla seconda migliore offerta, contempla n-1 vincitori che pagano il prezzo stabilito dall’ennesima offerta, dove n è unnumero estratto casualmente superiore o uguale a 2 e inferiore al numero dipartecipanti. Questo meccanismo evita un problema proprio dell’asta di Vick-rey tradizionale, dove è stato osservato uno scarso coinvolgimento di coloroche effettuano offerte basse e che fronteggiano una probabilità molto bassa divincere e quindi di dover effettuare un reale pagamento (Shogren et al., 2001ae 2001b). Inoltre è stata data ai partecipanti la possibilità di scegliere il nu-mero massimo di confezioni che avrebbero acquistato nel caso che fossero ri-sultati vincitori di più aste. Questa procedura ha lo scopo di limitare gli effet-ti reddito sulla WTP (Melton et al., 1996a).

I regimi informativi definiti per la realizzazione delle aste sono stati quel-li tipici dei lavori di analisi sensoriale: assaggio cieco, presentazione della so-la etichetta e assaggio del prodotto etichettato (blind, expectation e labelled).Gli stimoli offerti ai consumatori per definire le proprie offerte, invece, sonostati le origini geografiche, differenziate nelle tre tipologie di prodotto propo-ste (cfr. tabella 1) nel caso di ciliegia, farro, pecorino e lardo.

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4. Nel campo dell’economia alimentare le aste sperimentali sono state impiegate in nume-rose indagini. La maggior parte dei lavori presenti in letteratura si propone la misurazione deibenefici per il consumatore derivanti da riduzioni del rischio alimentare (Shogren et al., 1994;Hayes et al., 1995; Buzby et al., 1998; Fox et al., 1995). Tuttavia alcune ricerche sono stateeseguite per valutare la risposta dei consumatori a nuovi prodotti che presentino un mix di ca-ratteristiche diverse dai prodotti standard (Melton et al., 1996a; Melton et al. 1996b; Hayes etal., 1996), o più specificatamente per valutare l’influenza delle informazioni presenti sulle eti-chette (Lange et al., 2002).

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Tabella 1 – Origini geografiche comunicate durante gli esperimenti

Ciliegia Farro Pecorino Lardo

Livello Lari Garfagnana Montagna Colonnata Pistoiese

Italia Toscana Appennino Alpi Apuane Tosco-Emiliano

Unione Italia Toscana ToscanaEuropea

Un protocollo leggermente diverso è stato adottato nel caso del Biroldodella Garfagnana, un sanguinaccio insaccato. Si tratta di una produzione mol-to particolare per caratteristiche organolettiche, natura delle materie prime(che comprendono il sangue e la testa del maiale) e processo produttivo, perla quale non era possibile individuare sostituti riferibili ad aree geograficheconcentriche e progressivamente più ampie. In questo caso il prodotto è statomesso a confronto con il Mallegato Pisano, un altro sanguinaccio toscano, eduna produzione di salame genericamente riferibile alla regione.

Sia i punteggi edonici che la disponibilità a pagare sono stati espressi daipartecipanti seguendo un protocollo sperimentale che combina test edonici easte sperimentali replicate in sei sessioni. I cinque prodotti sono stati trattati insessioni separate. In ogni sessione, i partecipanti hanno inizialmente presoparte a un assaggio cieco effettuato servendo loro porzioni dei prodotti alter-nativi, chiedendo di indicare la loro valutazione su una scala di preferenza.Successivamente è stato richiesto loro di fare delle offerte per campioni dellostesso prodotto che avevano precedentemente assaggiato. In seguito, per tutti iprodotti, con l’eccezione del Biroldo, le diverse etichette del prodotto in que-stione sono state consegnate ai partecipanti i quali, dopo essere stati invitati aindicare il loro punteggio edonico, hanno partecipato a una seconda asta. Infi-ne è stato effettuato un assaggio etichettato, con l’indicazione dei punteggi econ l’ultima asta l’esperimento si è concluso. Nel caso del Biroldo, viceversa,dall’asta basata sull’assaggio cieco si è passati direttamente all’asta connessaall’assaggio labelled. L’impatto di diverse condizioni di informazione è statovalutato dividendo le sessioni d’asta in due tipologie: in alcune tra l’assaggiocieco e quello con etichetta veniva fornito ai partecipanti un pieghevole infor-mativo sulle caratteristiche dei prodotti proposti (origine e storia, caratteristi-che del processo produttivo, ingredienti etc.); nelle altre non veniva propostaai consumatori alcuna informazione aggiuntiva.

I punteggi edonici sono stati espressi mediante indicazione del grado diapprezzamento per il prodotto su una scala lineare di 12 cm ancorata agliestremi “Mi piace moltissimo – Non mi piace per niente” nel caso degli as-saggi cieco ed etichettato. Nel caso dell’esame delle sole etichette la scala è

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stata invece ancorata ai valori “Mi piacerebbe moltissimo – Non mi piacereb-be per niente”. All’inizio della procedura i partecipanti hanno riempito unmodulo di consenso e hanno ricevuto 35 € come incentivo per partecipare al-l’esperimento. Il conduttore ha letto le istruzioni al fine di mitigare eventualidistorsioni provocate dalla variabilità delle condizioni sperimentali fra sessio-ne e sessione. Ciascun esperimento è stato caratterizzato da diversi passaggi.

Prima di cominciare la serie delle aste vere e proprie impiegando tre tavo-lette di cioccolata è stata effettuata una fase preliminare di training, finalizza-ta a familiarizzare i partecipanti con le scale utilizzate per esprimere i pun-teggi edonici e con le procedure delle aste. Successivamente ha avuto luogola fase vera e propria di valutazione.

Ai partecipanti è stato detto di assaggiare in sequenza tre porzioni di pro-dotto oggetto dell’analisi sotto condizione di assaggio cieco e di indicare laloro valutazione usando la scala lineare di liking precedentemente descritta.Successivamente sono state ricordate le istruzioni dell’asta n-th random pricegià impiegata nella fase di training. Un’asta si è svolta quindi contempora-neamente per l’acquisto delle tre confezioni (indicate come 1, 2 e 3) corri-spondenti ai campioni dell’assaggio cieco. I partecipanti hanno registrato leproprie offerte su un’unica scheda costituita da tre scale graduate con divisio-ni corrispondenti a 10 centesimi di euro e range da 0 a 5 euro. Prima dell’a-sta, sono stati forniti ai partecipanti i punteggi edonici che avevano assegnatoai vari tipi di prodotto nell’assaggio cieco.

La procedura per le altre condizioni di informazione (sole etichette e as-saggio del prodotto etichettato) è stata identica a quella per la condizione diassaggio cieco. Alla fine, per ogni asta, è stato estratto il numero casuale chedeterminava il numero di vincitori ed il prezzo da pagare. Quindi, sono statiresi noti i risultati delle aste ed i vincitori hanno realmente acquistato i pro-dotti pagando il prezzo a cui era stata vinta l’asta.

Alla fine di ogni sessione sperimentale a ciascun partecipante è stato chie-sto di compilare un questionario riportante informazioni relative alle propriecaratteristiche socio-demografiche.

5. I risultati: composizione, opinioni e atteggiamenti del campione

Dall’analisi del campione che ha partecipato alle sessioni sperimentaliemerge un certo equilibrio nella distribuzione delle caratteristiche demografi-che tra uomini e donne responsabili degli acquisti. Complessivamente hannopreso parte 284 persone di cui il 40,9% di età tra i 20 e 40 anni. Tuttavia laripartizione tra le fasce di età è distorta dalle sessioni aventi come oggetto distudio il Pecorino della Montagna Pistoiese perché in questo caso i parteci-panti sono stati studenti universitari fuori sede e le aste sperimentali sono sta-te svolte all’interno dei locali universitari del Polo delle Scienze Sociali diNovoli anziché presso le sezioni soci Coop.

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Tabella 2 – Distribuzione campione per età, sesso e titolo di studio

Numero %

20-40 anni 117 40,941 anni e oltre 169 59,1

Maschio 135 47,2Femmina 151 52,8

Laurea 34 11,9Scuola Media Superiore 160 55,9Scuola Media Inferiore 54 18,9Licenza Elementare 38 13,3

Totale campione 286 100

Per quanto riguarda il titolo di studio, la maggioranza assoluta del cam-pione è in possesso di diploma di scuola media superiore (55,9%) ma questodato è sicuramente influenzato dalla partecipazione degli studenti universitari(51 su 160) alle sessioni di analisi sul Pecorino della Montagna Pistoiese.

Il numero dei partecipanti è ben ripartito tra i 5 prodotti analizzati di cuisolo il farro vede una partecipazione superiore al 20% del totale.

Tabella 3 – Distribuzione del campione per prodotto analizzato

Prodotto Numero %

Pecorino 51 17,8Ciliegia 45 15,7Farro 77 26,9Lardo 56 19,6Biroldo 57 19,9Totale 286 100

Nel questionario compilato alla fine delle aste veniva chiesto ai parteci-panti di esprimere un giudizio riguardo all’importanza di alcuni attributi nel-la definizione della qualità di un prodotto alimentare. In generale i punteggimedi indicano che per i partecipanti la qualità è prevalentemente riconducibi-le alle modalità di produzione, che dovrebbe essere effettuata adottando stret-te norme igieniche e metodi rigorosi, alla conservazione del gusto originaledei prodotti (rispetto dell’identità del prodotto) e al gradimento del sapore sa-pore (tabella 4). Si tratta di preferenze in linea con i fondamentali concettiusati per descrivere la qualità delle produzioni tipiche anche nelle altre inda-gini effettuate presso i consumatori in questa ricerca (cfr. il capitolo 2) e giàmesse in evidenza in letteratura (Gabbai et al, 2004).

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Tabella 4 – Importanza di alcuni attributi nella definizione di prodotto alimentare diqualità

N Mean Std. Deviation

strette norme igieniche 129 4,5271 1,06123conservazione gusto 129 4,3023 0,98904sapore 126 4,254 0,93754provenienza Italia 73 4,2466 1,16405controllato certificato 127 4,2283 1,12115particolari metodi 126 4,1508 1,24623provenienza paesi definiti 126 4,0873 1,05087marchio qualità 130 3,8846 1,11115marca conosciuta 126 3,5079 1,21817aria appetitosa 73 3,3288 1,38499più caro della media 70 2,9714 1,32939

Una migliore comprensione delle preferenze espresse dai consumatoricoinvolti può essere ottenuta incrociando i punteggi attribuiti alle diverse ca-ratteristiche di qualità per il grado di legame con la regione di provenienza,nel nostro caso la Toscana, espresso da ciascun consumatore. Se ne ricava(cfr. Figura 1) che quando un soggetto esprime un legame labile tende acorrelare la qualità principalmente a fattori inerenti la sicurezza alimentarequali la “produzione osservando strette norme igieniche”, “l’osservanza diparticolari metodi” e la “certificazione di qualità”. Il “possedere un’aria ap-petitosa” e avere un “buon sapore” sembrano perdere il valore che viene at-tribuito invece da coloro che si sentono più legati al luogo dove vivono.

Per quanto riguarda il concetto di prodotto tipico (tabella 5), questo vieneassociato principalmente a quello di prodotto genuino mentre il fatto che pos-sa essere acquistato nei luoghi di produzione, pur avendo un valore superiorealla media nella scala da 1 a 5 (3,57) è il fattore che raccoglie minori consen-si. Non sono state rilevate differenze rilevanti nella stratificazione per classi dietà, reddito, sesso e nucleo familiare, a dimostrazione che il concetto di pro-dotto tipico viene percepito in maniera molto simile indipendentemente dallaclasse sociale di appartenenza.

Tabella 5 – Concetto di prodotto tipico

Media Dev. Standard

Prodotto genuino 4,53 0,858Materie prime del territorio 4,44 0,896Metodi artigianali 4,22 0,897Acquistabile nei luoghi produzione 3,57 1,262

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Figura 1 – Importanza di alcuni attributi nella definizione di prodotto alimentare diqualità e tipo di legame con la regione di provenienza

Altre domande sono state effettuate relativamente ai criteri seguiti nell’ac-quisto di prodotti alimentari. In generale vengono considerate prevalentemen-te le caratteristiche di naturalità, l’aspetto esteriore del prodotto, il metodo diproduzione e la denominazione di origine. Minore importanza sembrano as-sumere il tipo di negozio e la marca.

Tabella 6 – Importanza attributi per la scelta di un prodotto alimentare di qualità

N Media Dev. Standard

carattere naturale 129 4,6667 0,66536aspetto prodotto 128 4,5938 0,75751denominazione origine 123 4,3008 0,96611metodo prod.ne 127 4,1496 1,32784regione produzione 128 3,9766 1,09015prezzo non troppo alto 72 3,7917 1,13755etichetta qualità 125 3,752 1,15463carattere tradizionale 121 3,6446 1,23058prezzo non troppo basso 65 3,3846 1,33103marca 127 2,9764 1,24381tipo negozio 68 2,8676 1,56362

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aria

ap

pet

itosa

conse

rvaz

ione

gust

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pro

venie

nza

paesi definiti

pro

venie

nza

Italia

contr

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qualità

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te

5,00

4,00

3,00

2,00

1,00

0,005,00

4,00

3,00

2,00

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1,00

0,005,00

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3,00

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1,00

0,005,00

4,00

3,00

2,00

1,00

0,00

Leg

ato

alla

To

scan

a

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Per quanto riguarda le domande relative alle caratteristiche di “etnocen-trismo” e di “neofobia”, il campione mostra una propensione moderata allaprova di cibi nuovi confermata sia dai punteggi elevati associati alle propo-sizioni positive (“provo cibi nuovi” = 4,68) che da quelli più bassi delleproposizioni negative (“non ho fiducia nei cibi nuovi” = 3,3). Inoltre si no-ta una certa tendenza salutista evidenziata da punteggi superiori a 5 in tut-te le domande che riguardano l’atteggiamento nei confronti della salutepersonale.

Tabella 7 – Medie relative a caratteristiche “etnocentrismo” e “neofobia”

N Media Dev. Standard

Provo cibi nuovi 57 4,6842 1,77440 Non ho fiducia nei cibi nuovi 56 3,3036 1,71538 Se non so non provo 57 4,4211 1,96348 Mi piacciono cibi da paesi differenti 57 4,3509 1,91322 Cibi stranieri troppo strani 57 3,2632 2,07473 A una festa provo cibi nuovi 57 4,8246 1,83345 Mi fa paura mangiare cose nuove 57 2,9825 1,95019 Sono schizzinoso 58 3,3793 2,12609 Mangerei tutto 57 3,6316 2,15996 Mi piace provare ristoranti stanieri 58 4,3448 1,96952 Le cose andavano meglio prima 58 4,0000 1,65434 I prodotti sono sempre più scadenti 58 4,0862 1,78968 La qualità della vita sta peggiorando 57 4,8596 1,93131 Il progresso tecnico assicura futuro migliore 58 3,7759 1,70698 Moderna economia per domani migliore 58 3,9310 1,81477 Sono salutista 56 4,7500 1,57538 Prendo in considerazione la salute 58 5,8103 1,26292 Rinuncio a molto per salute 58 5,0690 1,76578 Penso di fare molto per salute 58 5,2241 1,32510 Sacrificherei molto per salute 58 4,9483 1,64820

Infine dall’analisi di altri dati che non vengono qui riportati, si rileva un at-teggiamento di chiusura da parte delle classi sociali più in difficoltà che nonprovano facilmente cibi nuovi (l’unico momento giudicato appropriato sem-brano essere le feste). Inoltre coloro che si sentono poco legati alla Toscanasono anche i soggetti meno attenti a stili di vita salutistici e quindi meno di-sposti a sacrificare molto per la propria salute.

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6. Risultati: origine e disponibilità a pagare

Nella tabella 8 sono messi a confronto alcuni indici riassuntivi delle ses-sioni di asta effettuate per i quattro prodotti trattati con lo stesso protocollo.Per ciascun tipo di prodotto e per ciascuna condizione di informazione (blind,expectation e labelled) sono riportati il valore medio della disponibilità a pa-gare espressa dai consumatori e il relativo coefficiente di variazione.

Considerando la valutazione in condizioni di completa informazione (la-belled ) si può rilevare come in tre casi su quattro (ciliegia, farro e lardo) le of-ferte mostrino una relazione inversa con l’estensione dell’area geografica diprovenienza, crescendo al ridursi di questa. In realtà l’intensità con cui questofenomeno si manifesta è differenziato tra i prodotti. Considerando ad esempio

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Tabella 8 – Disponibilità a pagare per tipo di prodotto e condizioni di informazione.Valori medi e coefficiente di variazione

Prodotto Regione di origine Blind Expectation Labelled

Ciliegia Estera 1,38 1,47 1,2874% 78% 86%

Italiana 2,32 2,44 2,6550% 45% 51%

Lari 2,24 2,35 2,6854% 47% 50%

Farro Italiano 1,37 1,22 1,2952% 52% 51%

Toscano 1,41 1,43 1,45 53% 48% 49%

Garfagnana 1,29 1,59 1,52 54% 46% 49%

Pecorino Toscano 1,11 0,95 1,15 83% 104% 98%

Appennino 1,62 1,17 1,73 66% 69% 66%

Montagna Pistoiese 1,39 1,24 1,62 77% 67% 75%

Lardo Toscano 2,72 2,87 2,68 67% 56% 63%

Apuane 3,41 3,36 3,78 56% 49% 47%

Colonnata 3,36 4,13 4,34 58% 48% 47%

Page 57: Tipicamente Buono

il delta rispetto alla WTP espressa in media per il più diretto sostituto (in ter-mini di estensione dell’area) questo appare più evidente nel caso del farro edel lardo; tendo conto anche della variazione intorno alla media, solo nel ca-so del secondo il prodotto tipico sembra collocarsi significativamente ad unlivello superiore nell’apprezzamento dei partecipanti.

Un’altra considerazione che emerge dal confronto dei quattro gruppi diaste riguarda la variabilità delle valutazioni espresse dai partecipanti: esse èsensibilmente più accentuata nel caso dei due prodotti con minore notorietà,sopratutto se si considerano i sostituti con area di provenienza più ampia. Undato che sembrerebbe indicare una maggiore incertezza nella valutazione del-la qualità.

Una prima analisi dei fattori che influenzano la disponibilità a pagare èpossibile attraverso un’analisi della varianza a misure ripetute. Il risultato peri quattro i gruppi di aste riferiti ai vari prodotti è sintetizzato nella tabella 9.Insieme alle condizioni di informazione ed all’ampiezza dell’area di origine èstato inserito come fattore di variabilità anche la sessione di asta, per tenerconto di fattori imprevisti come ad esempio quelli relativi alla composizionedel campione o al livello di adesione al protocollo per lo svolgimento degliesperimenti.

Tabella 9 – Analisi della varianza per la WTP (within effects)

Determinanti Ciliegia Farro Pecorino Lardo

p p p F pg.l. F level g.l. F level g.l. F level g.l. F level

sessione 2 0,03 0,97 5 3,67 0,01 2 4,06 0,03 3 2,31 0,09

condizione di informazione 2 3,55 0,03 2 2,54 0,08 2 7,67 0,00 2 7,63 0,00

origine 2 48,74 0,00 2 16,03 0,00 2 5,60 0,01 2 25,05 0,00

sessione x cond. inf. 4 1,41 0,24 10 0,53 0,86 4 0,76 0,55 6 0,50 0,81

sessione x origine 4 2,91 0,03 10 1,17 0,32 4 0,64 0,63 6 1,73 0,12

cond. Inf. x origine 4 2,13 0,08 4 11,49 0,00 4 1,44 0,22 4 4,92 0,00

sess. x cond. inf. x origine 8 2,06 0,04 20 0,33 1,00 8 1,44 0,18 12 1,36 0,19

Considerando una soglia di significatività del 5% il fattore sessione in-fluenza significativamente la WTP solo nel caso del farro e del pecorino. Idue stimoli introdotti dal disegno sperimentale hanno un effetto significativo

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in quasi tutti casi (con eccezione delle condizioni di informazione nel casodel farro). Anche in questo caso emerge una differenziazione tra farro e lardoda un lato e ciliegia e pecorino dall’altro: solo nei primi due infatti l’intera-zione tra origine e condizioni di informazione sembra influenzare significati-vamente la disponibilità a pagare dei consumatori. Nel caso della ciliegia ri-sulta significativa solo l’interazione tra tutti e tre i determinanti.

Una migliore comprensione delle modalità con cui origine e condizioni diinformazione interagiscono nel determinare la disponibilità a pagare emergedalla lettura della tabella 10 nella quale sono riportate, per ciascun prodotto,le differenze espresse in percentuale nel valore medio della WTP nelle diver-se condizioni di informazione.

Tabella 10 – Disponibilità a pagare e punteggio edonico. Effetto interazione con lecondizioni di informazione

Prodotto Regione differenze % WTP differenze %

di origine punteggio edonico

E-B L-E L-B E-B L-E L-B

Ciliegia Estera 6,8 -13,3 -7,4 -17,9 -1,9 -19,4 Italiana 5,0 8,6 14,0 -2,5 5,3 2,7

Lari 4,8 14,2 19,6 -15,8 22,7 3,3

Farro Italiano -10,9 6,1 -5,5 -17,8 13,2 -7,0 Toscano 1,1 1,4 2,5 15,8 -1,5 14,0

Garfagnana 22,7 -4,5 17,2 48,5 -9,6 34,2

Pecorino Toscano -14,1 20,6 3,6 -26,2 45,3 7,1 Appennino -27,4 47,8 7,3 -19,2 30,9 5,8

Montagna Pistoiese -10,6 30,4 16,6 0,6 1,2 1,8

Lardo Toscano 5,7 -6,8 -1,6 -1,9 -4,4 -6,2 Apuane -1,4 12,4 10,9 -10,4 15,6 3,5

Colonnata 22,6 5,1 28,9 8,4 9,4 18,6

B = blind, E = expectation, L = labelled

La differenza tra valutazione labelled e quella basata sull’assaggio cieco(L-B) rappresenta il response shift conseguente alla modificazione del quadroinformativo. Il modello di response shift della valutazione monetaria (WTP)appare omogeneo tra i quattro prodotti esprimendo una miglioramento dellaposizione relativa del prodotto tipico rispetto ai due sostituti in condizioni dicompleta informazione. L’unica differenza è rappresentata dal pecorino, uni-co prodotto per il quale la WTP cresce anche per il sostituto con area di ori-gine più ampia (pecorino toscano) sia pure in misura minore rispetto all’ori-gine Appennino e Montagne pistoiesi.

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Nel caso del farro e del lardo l’informazione produce lo stesso tipo di im-patto anche sulle aspettative dei consumatori (colonna E-B). Da notare ancheche per questi due prodotti i modelli di interazione tra informazione e origineappaiono coerenti sia che si consideri la disponibilità a pagare che il punteg-gio edonico: la conoscenza dell’origine migliora la performance relativa delprodotto tipico sia in termini di aspettative che di performance percepita.

Ciliegia e pecorino, viceversa, mostrano un comportamento opposto rela-tivamente all’impatto dell’informazione sulla disponibilità a pagare. Nel casodella ciliegia l’informazione incrementa le aspettative relative a tutte le tipo-logie di prodotto (valore positivo della differenza E – B), nel caso del pecori-no l’effetto dell’informazione è opposto (tutti segni negativi). Un’ultima os-servazione deve essere fatta nel caso del pecorino il quale presenta un’incoe-renza tra WTP e punteggio edonico se si considera il response shift.

Questi risultati sembrano nel complesso confermare una differenziazionetra farro e lardo da una parte e pecorino e ciliegia dall’altra; alcune cautelesono tuttavia necessarie nella valutazione relative all’effetto sessione sui ri-sultati. Da un lato, nel caso della ciliegia, ha avuto una certa influenza sui ri-sultati l’utilizzazione di un prodotto fresco e facilmente deperibile che ha in-trodotto una variabilità nelle caratteristiche intrinseche della frutta impiega-ta5. Dall’altro, nel caso del pecorino, potrebbe esserci stato un effetto legatoalle differenze nella composizione del campione e nel contesto di svolgi-mento degli esperimenti (cfr. paragrafo precedente). Nonostante ciò rimaneil fatto che lardo e farro, rispetto agli altri due prodotti, sono entrambi carat-terizzati da un livello di riconoscimento nel mercato sicuramente superioresia in termini di notorietà che di istituzionalizzazione del segnale di origine(IGP per il farro della Garfagnana).

Come già ricordato nel paragrafo 4, a causa della natura del prodotto, il di-segno sperimentale utilizzato per il Biroldo della Garfagnana è stato legger-mente differente. Nella tabella 11 sono presentati i valori medi e il relativocoefficiente di variazione della disponibilità a pagare per i salumi toscani po-sti a confronto nelle aste. In questo caso l’effetto dell’informazione sullaWTP può essere apprezzato confrontando le offerte delle aste nel corso dellequali ai consumatori sono state fornite una serie di informazioni sui prodotti(origine, modalità di lavorazione, ingredienti) e quelle delle aste durante lequali i consumatori hanno basato le loro valutazioni solo sull’ispezione visivadei prodotti e sull’assaggio

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5. Un’analisi dettagliata delle aste della ciliegia è proposta in (Stefani et al., 2005).

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Tabella 11 – Disponibilità a pagare per tipo di prodotto e livello di informazione. Va-lori medi e coefficiente di variazione

Livello di informazione Tipo di prodotto Esame visivo Assaggio

Senza Informazione Salame Toscano 2,37 2,3442% 41%

Mallegato 1,12 1,1082% 88%

Biroldo 1,39 1,4380% 71%

Con Informazione Salame Toscano 2,12 2,1748% 49%

Mallegato 1,38 0,9088% 133%

Biroldo 1,31 1,3295% 96%

Totale Salame Toscano 2,24 2,2545% 45%

Mallegato 1,25 1,0086% 110%

Biroldo 1,35 1,3787% 83%

L’assaggio provoca un effetto positivo sulla WTP nel caso del Biroldo edel salame toscano, mentre il Mallegato vede peggiorata la sua valutazione.Emerge piuttosto chiaramente una stabilità delle offerte rispetto alle condizio-ni di informazione, a parità di prodotto e di condizione sensoriale. Soprattut-to appare evidente la maggiore variabilità delle valutazioni relative ai sangui-nacci, prodotti in assoluto meno conosciuti6, similmente al caso già conside-rato in precedenza del pecorino a latte crudo.

La differenza tra le valutazioni basate sulla semplice ispezione visiva equella successiva all’assaggio è stata sottoposta a test di significatività. Nellatabella 12, accanto all’usuale t test per campioni dipendenti7 viene riportatoanche il test non parametrico di Wilcoxon.

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6. Molti partecipanti non li avevano mai assaggiati in precedenza.7. Si tratta infatti di misure ripetute sugli stessi soggetti.

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Tabella 12– Test statistici sulla differenza tra valutazioni con ispezione visiva e conassaggio

t-test per campioni Wilcoxon matched pair

indipendenti test

t p value T z p value

Biroldo della Garfagnana

PE con informazione 1,00 0,33 90 1,48 0,14 PE senza informazione 2,57 0,02 75 2,91 0,00 PE tutte le aste 2,54 0,01 334 3,08 0,00 WTP con informazione 0,09 0,93 97 0,30 0,77 WTP senza informazione 0,42 0,42 102 0,81 0,42 WTP tutte le aste 0,34 0,73 391 0,76 0,45

Mallegato Pisano

PE con informazione -2,12 0,04 94 1,86 0,06 PE senza informazione 0,53 0,60 164 0,29 0,77 PE tutte le aste -1,09 0,28 543 0,05 0,26 WTP con informazione -2,67 0,01 45 2,26 0,02 WTP senza informazione -0,04 0,97 107 0,30 0,77 WTP tutte le aste -1,97 0,05 296 1,74 0,08

Salame Toscano

PE con informazione 1,22 0,23 117 1,49 0,14 PE senza informazione 1,07 0,30 132 1,38 0,17 PE tutte le aste 1,59 0,12 484 2,05 0,04 WTP con informazione 0,61 0,55 78 0,70 0,48 WTP senza informazione -0,29 0,78 97 0,64 0,52 WTP tutte le aste 0,21 0,84 409 0,02 0,98

Le differenze appaiono significative solo nel caso del punteggio edonicoattribuito al Biroldo, che cresce dopo l’assaggio, ed in quello della WTP peril Mallegato che diminuisce in misura significativa dopo l’assaggio. La pre-senza di informazione sembra avere un effetto irrilevante se non negativo:l’assaggio incrementa significativamente il punteggio edonico del Biroldo so-lo nelle aste senza informazione, mentre in tutti e tre i salumi la disponibilitàdi informazioni abbassa la WTP media dopo l’assaggio (cfr. tabella 11).

La stessa analisi della varianza (tabella 13) rileva il ruolo preponderantedel tipo di prodotto e della conizione sensoriale (ispezione visiva vs assaggio)nel determinare le valutazioni.

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Tabella 13 – Analisi della varianza per la WTP (within effects): Biroldo

Determinanti g.l. F p level

Informazione su leaflet 1 0,17 0,68 Condizione sensoriale 1 1,43 0,24 Tipo di prodotto 2 32,63 0,00 Informaz x cond.sens 1 1,38 0,25 Informaz x tipo 2 0,33 0,72 Cond. sens x tipo 2 3,05 0,05 Informaz. x cond. sens. x tipo 2 2,66 0,07

I risultati delle aste relative al Biroldo della Garfagnana sembrano partico-larmente influenzate dalla natura del prodotto tipico oggetto dell’analisi. Nonsi tratta solo della modesta notorietà di questi particolari insaccati, che rendepiù incerta la valutazione dei consumatori. I sanguinacci, infatti, sono ali-menti con caratteristiche del tutto peculiari con la presenza di ingredienti co-me il sangue e la testa del maiale che, al di fuori dell’area di origine, dove esi-ste una cultura specifica legata alla tradizione produttiva, possono essere pro-blematici per molti consumatori. I risultati sembrano mostrare che questi fat-tori potrebbero avere un effetto prevalente rispetto ad un segnale di tipicitàlegato all’origine del prodotto.

7. Conclusioni

Le ricerche che sono state presentate in questo lavoro costituiscono innan-zitutto una conferma dell’importanza della condizione informativa nella valu-tazione della qualità alimentare. In assonanza con i risultati di altri studi rela-tivi al comportamento del consumatore, le aste hanno mostrato come l’infor-mazione relativa all’origine abbia un impatto significativo sulla valutazionedelle produzioni alimentari. La provenienza da aree ben identificate e suffi-cientemente circoscritte nella loro ampiezza può avere un effetto positivo sul-la disponibilità a pagare di molti consumatori. È il potenziale della tipicità, unpatrimonio spesso non sufficientemente valorizzato di molte piccole produ-zioni tradizionali, la cui esistenza è oggi legata solo alla conservazione di un“saper fare” localizzato e residuale.

L’analisi comparata tra i diversi casi di studio permette di sottolineareun’importante condizione che deve essere soddisfatta ai fini del successo (intermini di potenzialità di mercato) di un prodotto alimentare tipico. Se la se-gnalazione dell’origine può favorire una valutazione positiva di un prodotto,ciò tuttavia dipende dalle modalità con cui questo quality cue si inserisce nelquadro informativo a disposizione del consumatore. Nel corso del processodecisionale, infatti, le informazioni associate al prodotto vengono analizzate

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alla luce delle conoscenze pregresse interne al consumatore stesso e delleinformazioni ritenute pertinenti al problema di scelta che provengono dal con-testo esterno. Le differenze esistenti tra i casi del Farro della Garfagnana e delLardo di Colonnata da un lato, e del Pecorino Montagne Pistoiesi e della Ci-liegia di Lari dall’altro, sembrano indicare l’esistenza di un circolo virtuosotra notorietà del prodotto (come nel caso del Lardo di Colonnata, che rappre-senta un “caso” gastronomico), presenza di segnali “forti” di origine (come lacertificazione IGP) e riconoscibilità dell’area di provenienza (il caso dellaGarfagnana “turistica”). In presenza di queste condizioni anche i consumato-ri geograficamente e culturalmente più “lontani” sembrano rispondere piùcoerentemente ad un modello di valutazione della qualità alimentare che po-tremmo definire “origin oriented”.

Una riconoscibilità dell’origine è capace di generare disponibilità a pa-gare sia direttamente, come caratteristica del prodotto desiderata in quantotale dal consumatore, che indirettamente, attraverso quello che viene defini-to tecnicamente effetto “assimilazione”: in presenza di forti aspettative rela-tive agli effetti del consumo di un alimento il consumatore tende inconsape-volmente ad allineare la valutazione della qualità percepita alla qualità atte-sa. La presenza di entrambi gli effetti, come nel caso del farro e del lardo,sembra indicare l’avvio di una spirale virtuosa tra aspettative sull’origine,esperienza di consumo e fidelizzazione del consumatore verso una determi-nata “tipicità”.

Il complesso dei risultati che emergono da queste ricerche possono avereanche una valenza normativa ai fini della valorizzazione delle produzionialimentari tipiche. Un strategia di rinforzo (in termini di visibilità e utilizza-bilità) del cue dell’origine potrebbe infatti avere effetti benefici sulla WTP ela crescita del mercato anche lontano dall’area di origine. Non solo questoconferma l’importanza dell’adozione di marchi di origine, ma richiama an-che l’importanza della comunicazione collettiva relativa all’area geograficadi origine in quanto tale, anche indipendentemente dalla promozione delprodotto.

La “costruzione” del cue origine non dovrebbe tuttavia far dimenticareagli operatori dei sistemi locali ed agli attori lungo la filiera dei prodotti ali-mentari tipici che una disponibilità a pagare anche elevata per l’origine vienesempre messa al vaglio dell’esperienza di consumo. In presenza di esperien-ze significative di disconfirmation rispetto alle aspettative indotte dall’origine(ad esempio sul piano del gusto) il valore di quest’ultima come segnale diqualità potrebbe essere rapidamente messo in discussione. Non solo: come di-mostra il caso del Biroldo, sembrano valere anche precisi limiti di compatibi-lità di una produzione con la cultura alimentare dei consumatori ai quali vie-ne proposta. Nel recupero e nella salvaguardia del patrimonio delle tradizioniproduttive che sopravvivono numerose in Toscana sarà probabilmente neces-sario tenere in considerazione anche questo fattore.

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1. Introduzione

Con la crescente notorietà che può investire una produzione alimentare ti-pica a seguito di una strategia di valorizzazione di successo, la definizionedella sua qualità cessa di essere un aspetto implicito delle transazioni, che èpossibile mediare attraverso un sistema di conoscenze contestuali condivisedagli attori del sistema locale di origine. All’estendersi dell’ampiezza delmercato nuovi attori entrano in gioco lungo la filiera, nuovi consumatori conun diverso bagaglio di conoscenze si accostano al prodotto, nuove esigenze dinatura tecnica e logistica (trasporto, conservazione) incidono sulla natura del-le relazioni commerciali.

L’ipotesi di partenza su cui il progetto di ricerca è stato sviluppato è che lapossibilità di espansione del mercato dei prodotti tipici sia direttamente colle-gata al processo di definizione della qualità lungo la filiera, ed in particolareal livello di coerenza tra le concezioni di qualità espresse dai diversi attori.Per questo, nella struttura della ricerca, al termine di una preliminare faseesplorativa finalizzata ad una prima “mappatura” delle concezioni di qualitàesistenti nei diversi sistemi produttivi studiati, era prevista un’indagine di na-tura qualitativa attraverso la quale giungere ad una prima valutazione della lo-ro coerenza. In questo capitolo verranno presentati alcuni dei risultati emersiin tale parte del progetto1.

La natura esplorativa del lavoro ha determinato la scelta della metodolo-gia. Al fine di analizzare i processi attraverso i quali la qualità e i suoi attri-buti sono oggetto di un processo di continua definizione/negoziazione ad ogni

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4. LA DEFINIZIONE DELLA QUALITÀLUNGO LA FILIERA: UNA INDAGINE QUALITATIVA

SU ALCUNE PRODUZIONI TIPICHE TOSCANE*

di Benedetto Rocchi e Manuela Gabbai

* Il testo è frutto di lavoro comune: tuttavia Benedetto Rocchi ha scritto i paragrafi 1, 2, 4.1e 5, Manuela Gabbai i restanti paragrafi.

1. In particolare l’analisi è stata effettuata nel workpackage 2. Il rapporto di ricerca, con-tente tutti i risultati è scaricabile al sito. www.percezioniqualita.it

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fase della filiera, è stata adottata una tecnica d’indagine qualitativa utilizzatasia negli studi di marketing che in sociologia: il focus group.

L’obiettivo dell’analisi, di natura intermedia rispetto allo svolgimento delprogetto di ricerca, era quello di far emergere per quanto possibile tutte leproblematiche rilevanti, da approfondire nei successivi passaggi del progetto,relative al “discorso” intorno alla qualità che si sviluppa lungo la filiera. Pro-prio in considerazione dell’ampiezza attesa dei risultati sono state selezionatequattro diverse produzioni tipiche, da analizzare ciascuna attraverso uno spe-cifico focus group: la ciliegia di Lari, lo spinacio della Val di Cornia, il peco-rino a latte crudo della Montagna Pistoiese e il Lardo di Colonnata. Non solole quattro produzioni sono molto diverse nella loro natura (prodotti freschi etrasformati). I relativi sistemi locali rappresentano realtà molto diverse tra lo-ro in termini di fama, volume produttivo e struttura della filiera, ben rappre-sentando la forte eterogeneità del mondo produttivo riconducibile all’espres-sione “prodotto tipico”.

Il capitolo è così articolato. Nel paragrafo 2 verrà presentata una breve ras-segna finalizzata a rintracciare nella letteratura economica e sociologica temie modelli concettuali utili all’interpretazione dei risultati dell’indagine. Il pa-ragrafo 3 verrà dedicato all’illustrazione della metodologia seguita. Seguirà lapresentazione dei principali risultati: sia attraverso la definizione di un quadrogenerale (par. 4.1) che attraverso un’analisi più dettagliata delle risposte deipartecipanti intorno ai temi più rilevanti che sono emersi nella discussione in-torno alla qualità (par. da 4.2 a 4.4). Alcune considerazioni di sintesi verran-no proposte nel paragrafo 5.

2. Una rassegna della letteratura

Recentemente i consumatori hanno manifestato un interesse crescenteverso le produzioni tipiche, percepite da un lato come caratterizzate da stan-dard qualitativi più elevati, dall’altro come vettori di un richiamo al binomioconservazione della tradizione – sapere locale. Questa tendenza si concretiz-za in un recupero di molte tradizioni alimentari legate a specifici territori.Esse diventano marker dell’identità del territorio stesso permettendo ad areerurali, spesso marginali, di acquisire una maggior visibilità sul mercato glo-bale (Moran, 1993; Ray, 1998). Lo testimonia la diffusione delle forme dicertificazione dell’origine prevista dalla regolamentazione europea e la pro-gressiva enfasi attribuita al ruolo delle produzioni tipiche all’interno dellepolitiche di sviluppo rurale (De Stefano 2000; Nomisma, 2000). In questocontesto, la definizione della qualità alimentare appare una tematica centraleche connota allo stesso tempo lo sviluppo del mercato dei prodotti tipici e laloro notorietà.

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L’affermarsi di processi di sviluppo all’interno di sistemi locali centrati suproduzioni agroalimentari tipiche può essere studiato seguendo essenzialmen-te due prospettive. La prima, fa riferimento alle discipline dell’economia in-dustriale e della geografia economica; mentre la seconda deriva dalla sociolo-gia e si ricollega al filone degli agri-food studies.

Il primo approccio è incentrato sull’idea che per analizzare i processi disviluppo locale legati a produzioni di qualità sia necessario comprendere lanatura delle relazioni tra sistemi locali e domanda di mercato. I sistemi loca-li hanno la funzione di custodire delle conoscenze non trasferibili altrove maallo stesso tempo sono capaci di soddisfare una domanda di carattere globale(Becattini, 2000). Polidori e Romano (1997) sottolineano come le produzioniagroalimentari di qualità, oltre ad essere contraddistinte da un processo checonferisce forme di visibilità al territorio d’origine, siano spesso caratterizza-te da forme di ‘chiusura istituzionale’ (come nel caso delle denominazionid’origine) che hanno l’obbiettivo di proteggere le produzioni locali da imita-zioni e falsi industriali e allo stesso tempo di garantire alti standard qualitati-vi. In questo tipo di analisi nell’affermazione di sistemi locali di sviluppo ba-sati su produzioni agroalimentari di qualità, la domanda e la sua dinamica en-tra a tutti gli effetti come fattore causale determinante del processo. Ma nellamisura in cui una domanda progressivamente più ampia individua nelle pro-duzioni di uno specifico sistema locale una possibile risposta ai suoi bisogni,nel processo di sviluppo entrano in gioco forze esterne con le quali i compo-nenti della comunità locale si trovano ad interagire. Ray (1998) ad esempiosottolinea il ruolo dei movimenti di opinione interessati alla conservazionedelle tradizioni locali e delle istituzioni statali e/o comunitarie che, attraversola regolamentazione, mettono a disposizione risorse influenzando contempo-raneamente le modalità con cui lo sviluppo locale si realizza. Lo stesso allar-gamento del mercato di produzioni tipiche, al crescere della loro notorietà,modifica i rapporti di potere all’interno della filiera che collega offerta e do-manda, amplificando inevitabilmente il ruolo degli intermediari commerciali(Brannigan e Leat, 2003).

I sistemi locali centrati su produzioni alimentari di qualità hanno ricevutouna significativa attenzione anche da parte della sociologia rurale. In questaletteratura il consumo dei prodotti tipici è interpretato come una risposta alprocesso di industrializzazione del settore agroalimentare (Goodmann, 2003).Secondo questa lettura le pratiche di consumo dei prodotti tipici assumono unsignificato che va al di là delle valutazioni soggettive relative alle caratteristi-che organolettiche del prodotto diventando indice del desiderio di uno stile divita alternativo che contrasti le conseguenze negative della globalizzazionedelle abitudini alimentari. Pertanto i diversi attori reagiscono ai mutamenti delsistema alimentare globale attraverso la costruzione di pratiche alimentari in-torno ad una definizione alternativa della qualità che si basa su un rapporto

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più diretto tra il mondo della produzione e quello del consumo. (Mardsen eArce, 1995).

Pur nella loro diversità le due prospettive di analisi sopra citate presentanocon tutta evidenza numerosi punti di contatto e una sostanziale complementa-rità. Entrambe mettono in luce due dinamiche contemporaneamente operantiall’interno dei processi di sviluppo rurale: da un lato l’esistenza di sistemi diproduzione radicati in realtà locali con identità sociali ben definite e attiva-mente difese; dall’altro il tentativo di raggiungere una domanda sempre piùampia. Mardsen e collaboratori hanno qualificato questa tipologia di fenome-ni come filiera alimentare breve (short food supply chain: SFSC), “…espres-sione del tentativo (o della battaglia) dei produttori e dei consumatori di farincontrare nuovi tipi di offerta e domanda” (Mardsen et al., 2000: 415, nostratraduzione) attraverso una definizione ri-socializzata e ri-spazializzata del ci-bo nella quale l’origine entra come elemento di definizione di un alimento.

I vantaggi della catena di commercializzazione breve si basano sul fattoche il consumatore percepisce una maggiore prossimità nei confronti delmondo produttivo radicato in uno spazio geografico preciso. Questo fattoredenota come la fiducia aumenti all’instaurarsi di relazioni sociali sotto formadi scambio di informazioni tra produttori e consumatori (Sage, 2003).

Il progetto di ricerca all’interno del quale si inserisce questo lavoro, si po-neva l’obiettivo di analizzare il problema della definizione qualità delle pro-duzioni tipiche inteso come un processo dinamico che si realizza con, e ren-de possibile gli, scambi lungo la filiera. È infatti importante notare come lacomunicazione della qualità alimentare e dei suoi attributi favorisca l’elimi-nazione della distanza geografica tra produzione e consumo. Da quanto appe-na discusso appare chiaro come, attraverso la valorizzazione della tipicità diuna data produzione alimentare, sia possibile allo stesso tempo conservareuna relazione ‘diretta’ tra consumatore e sistema locale nel quale l’alimentoha origine. Ciò può avvenire indipendentemente dalla distanza (geografica e/oculturale) che separa il territorio di origine dallo sbocco finale di mercato fi-nale, purchè si realizzi una condivisione minima di conoscenze tra produttoree cliente/consumatore intorno alla qualità del prodotto.

Al fine di valutare i meccanismi attraverso i quali la qualità viene definitae valutata può essere utile fare riferimento alla teoria economica delle con-venzioni (Young, 1996; Wilkinson, 1997). Questo approccio teorico ha trova-to un fecondo campo di applicazione empirica proprio con riferimento ai pro-cessi di definizione della qualità dei beni (Eymard Duvernay, 1995). Alla ba-se sta la considerazione che “…la qualità è un costrutto sociale endogeno checontribuisce a coordinare l’attività economica degli attori” (Renard, 2003: 88,nostra traduzione). È l’esistenza di una base comune di valutazione conven-zionale della qualità (che si concretizza attraverso azioni che presuppongonola condivisione di un codice tacito di comportamento che a sua volta generaaspettative reciproche) a rendere possibile il funzionamento del mercato. L’e-

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sistenza di diverse “convenzioni costitutive” spiega forme diverse di coordi-namento degli agenti (Eymard Duvernay, 1989); diverse convenzioni di qua-lità relative ai beni identificano altrettanti ‘mondi della produzione’ (Salais eStorper, 1992). Se si considera l’applicazione di questa teoria al settore agro-alimentare appare chiara la contrapposizione tra produzione industriale e pro-duzione artigianale/locale. Diventa allora importante stabilire il quadro con-venzionale all’interno del quale gli attori (produttori, intermediari, consuma-tori) si muovono.

Nel caso delle produzioni alimentari tipiche particolarmente rilevante sem-bra essere il concetto di radicamento. Goodman (2003) in un suo studio met-te in evidenza come per le produzioni tipiche sia importante conservare e co-municare il radicamento nel tessuto economico e sociale di un determinatospazio geografico. Questo autore utilizza il termine embeddedness per spiega-re come nella definizione della qualità oltre alle caratteristiche organolettichee al processo produttivo sia rilevante considerare anche il tessuto di relazionisociali all’interno del quale il ruota il sistema produttivo. Winter (2003) sot-tolinea come la capacità di un prodotto alimentare di mettere in connessioneil consumatore con una specifica rete di relazioni sociali tende a configurarsicome un attributo del prodotto ricercato in sè. Kirwan a sua volta rileva che lasoddisfazione del consumatore include anche la fiducia, costruita attraversoun rapporto di scambio ripetuto nel tempo, nell’integrità personale del pro-duttore (Kirwan, 2003).

Questa molteplicità di temi ha costituito la base concettuale sulla quale èstata definita la metodologia e sono stati interpretati i risultati. Nel paragrafosuccessivo verrà delineato il research design dell’indagine svolta.

3. Metodologia

3.1. Un approccio qualitativo: la tecnica del focus group

Il focus group è una tecnica di intervista collettiva rivolta a gruppi nontroppo numerosi di soggetti opportunamente selezionati (Corrao, 2000). Lapeculiarità di questa tecnica che ne ha consigliato l’adozione consiste nel fat-to che un focus group permette non solo di rilevare le opinioni dei singoli par-tecipanti ma anche di analizzare il processo d’interazione sociale che avvieneall’interno del gruppo intervistato. Questa caratteristica appariva particolar-mente coerente con la prospettiva di filiera scelta per l’analisi, nella quale ledinamiche sociali e le reti di relazioni sono fondamentali per caratterizzare iprocessi di sviluppo.

Nel complesso è stato intervistato un totale di circa 40 operatori dellequattro filiere considerate. La selezione del campione è stata definita conl’obbiettivo di creare una piattaforma che permettesse alle diverse tipologie

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d’attori di discutere e mettere a confronto le loro concezioni di qualità. I par-tecipanti possono essere classificati come appartenenti a tre categorie: i pro-duttori, i grossisti e coloro che operano all’interno delle diverse realtà di com-mercializzazione finale dei prodotti (grande distribuzione e negozi al dettagliospecializzati).

La composizione del campione relativa ad ogni focus group e stata defini-ta in modo da garantire la presenza di almeno un rappresentante per ogni ca-tegoria d’attore così da permettere il mantenimento di una certa omogeneitànella struttura dei focus group, agevolando la successiva fase d’analisi com-parativa dei risultati ottenuti. Ai partecipante è stato corrisposto2 un gettone dipresenza.

Per quanto riguarda lo svolgimento dei focus group è importante ricorda-re due aspetti. Il primo riguarda la selezione del luogo nel quale si tiene la di-scussione. È, infatti, molto importante effettuare l’incontro in un luogo chesia percepito da tutti i partecipanti come neutro; il rischio che si corre se nonsi sceglie un luogo nel quale tutti i partecipanti si sentono a loro agio e allostesso tempo dove nessuno si sente in una posizione di vantaggio rispetto aglialtri, è che la discussione presenti vizi di metodo con quelli che si sentono inposizione di forza spesso tendenti a voler imporre la propria opinione al restodel gruppo. I risultati che si otterrebbero così non evidenzierebbero nè il con-fronto d’opinioni nè l’individuazione d’eventuali momenti di conflitto tra ipartecipanti danneggiando così i risultati della ricerca. Per ovviare a questoproblema, i focus group sono stati svolti presso istituzioni pubbliche o saleconferenze presenti sul territorio di riferimento per i quattro sistemi locali in-dagati.

Il secondo aspetto riguarda più da vicino lo svolgimento del focus group.Come sostengono Kreuger e Casey (2000), prima di iniziare la discussione èopportuno creare una situazione d’informalità, con lo scopo di favorire sindall’inizio il processo d’interazione sociale tra i partecipanti. Nel nostro stu-dio e stato quindi previsto un rinfresco di benvenuto che ha preceduto l’iniziodei focus group. I focus group hanno avuto una durata massima di 90 minutie sono stati interamente registrati allo scopo di procedere in una fase succes-siva all’analisi della trascrizione della discussione. La discussione è stata con-dotta da un moderatore, coadiuvato da due assistenti il cui ruolo era quello diattribuire gli interventi a ciascun partecipante e di annotare qualora si presen-tassero momenti di tensione o divergenza di opinioni tra in partecipanti.

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2. Il gettone di presenza ha la funzione di incentivare una partecipazione attiva dei parteci-panti responsabilizzandoli sul raggiungimento dei risultati. Per questo motivo la distribuzionedel gettone è stata preannunciata al momento dell’invito a partecipare. Non tutti i partecipantihanno tuttavia accettato, al termine della discussione, il gettone stesso.

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3.2. La traccia della discussione

Inizialmente il moderatore ha presentato gli obiettivi della ricerca eviden-ziando che il fine principale della discussione era quello di giungere in un pri-mo momento ad una definizione del concetto di tipicità dei prodotti agroali-mentari oggetto della ricerca. La caratterizzazione della tipicità permette, in-fatti, di indagare in una seconda fase l’esistenza di una relazione tra la defini-zione di prodotto tipico e la valutazione della qualità alimentare.

È importante notare che il consumatore pur non essendo stato coinvolto di-rettamente è rimasto sempre presente sullo sfondo della discussione. All’iniziodi ciascun focus group e stato, infatti, chiesto ai partecipanti di commentarealcune affermazioni espresse dai consumatori in una precedente ricerca an-ch’essa incentrata sulla qualità dei prodotti tipici (Gabbai et al., 2003). In se-guito, la discussione si è spostata sulla nozione di prodotto tipico, con l’inten-to di individuare le dimensioni generali che caratterizzano questa categoria diprodotti agroalimentari oltre a verificare se i partecipanti fossero in grado diraggiungere una definizione condivisa. Questa fase iniziale ha permesso dispostare la discussione sulle tematiche che riguardano le concezioni di qualitàdei diversi attori presenti all’interno di ciascuna delle quattro filiere agroali-mentari oggetto della ricerca. I partecipanti sono stati invitati a riflettere suimotivi fondamentali per i quali i prodotti tipici in generale, e quelli oggetto diciascun focus group in particolare, possono essere considerati prodotti di ‘qua-lità’ superiore, che si distinguono dai prodotti di industriali di largo consumo.

Infine i partecipanti hanno discusso sulle potenzialità di espansione delmercato delle produzioni tipiche sottolineando l’importanza della qualità co-me dimensione necessaria alla conservazione dell’identità dei prodotti stessidi fronte ad una crescita del volume produttivo. Queste tematiche hanno por-tato anche ad una valutazione dei pro e dei contro dei marchi di denomina-zione di origine.

3.3. L’analisi dei risultati

I dati raccolti nel corso dei focus group sono stati interamente trascritti alfine di procedere ad un’analisi qualitativa. L’approccio di analisi qualitativaadottato in questo studio fa riferimento a quello della grounded theory secon-do il quale i testi vengono analizzati in un processo iterativo durante il qualele classificazioni dei contenuti concettuali che derivano da successive letturedei testi, vengono impiegate nella costruzione di modelli interpretativi pro-gressivamente più strutturati (Miles e Huberman, 1994). La grounded theoryprevede che, in un primo momento la codifica dei testi venga eseguita singo-larmente da ogni ricercatore e che solo in un secondo momento i ricercatorisi riuniscano per discutere le loro classificazioni e scegliere quella che appli-

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cheranno nella versione finale dell’analisi dei dati. Questo processo, permetteai ricercatori di ottenere delle classificazioni omogenee limitando l’arbitra-rietà della codifica del testo.

A questo scopo e stato utilizzato NVivo, un programma che consente diassociare al testo una o più classificazioni stabilite dai ricercatori e successi-vamente di estrarre le parti di testo che contengono queste classificazioni.NVivo oltre a coadiuvare l’analisi qualitativa dei dati consente anche di crea-re delle griglie concettuali in grado di sintetizzare visivamente i risultati otte-nuti dall’elaborazione dei dati.

Infine, è stata svolta un’analisi del contenuto concettuale (content analy-sis) associato a ciascun tema. Quest’ultima parte dell’analisi è stata articolataseguendo due diverse prospettive: la prima ha posto a confronto i testi riferi-bili a diverse tipologie di prodotto (freschi vs. trasformati); la seconda le con-cezioni espresse dalle diverse tipologie e di operatore della filiera.

L’analisi completa delle trascrizioni è presentata nel rapporto di ricerca.Nel prossimo paragrafo verranno proposti alcuni tra i risultati più significati-vi raggiunti.

4. La definizione della qualità secondo i diversi attori della filiera

4.1. Un quadro generale

La discussione nei quattro gruppi ha fatto emergere una molteplicità di te-mi e concetti che vengono associati più o meno strettamente al concetto diqualità in relazione alle produzioni alimentari tipiche. L’analisi delle trascri-zioni, attraverso una procedura iterativa3 di codifica del testo, ha reso possibi-le sintetizzare le risposte fornite dai partecipanti intorno ad un set di ‘nodi te-matici’.

Tali nodi sono, come ovvio, legati tra loro da relazioni a volte consistentiin una semplice ‘associazione’ nel discorso, altre volte riconducibili a vere eproprie relazioni di causa-effetto.

La figura 1, costruita sulla base di un’analisi quantitativa delle ricorrenzedei nodi nelle trascrizioni, sintetizza la gran parte dei temi intorno ai quali sisono sviluppate le discussioni e consente di delineare la struttura delle rela-zioni tra temi diversi.

Emergono due gruppi di tematiche fortemente interconnessi al loro inter-no: il primo legato alle caratteristiche di salubrità e sicurezza del prodotto; il

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3. Ad una prima codifica svolta liberamente ed in parallelo dai componenti del gruppo diricerca ha fatto seguito la costruzione di una codifica dei temi e dei concetti condivisa ottenu-ta sulla base di un sistematico confronto del contenuto semantico delle categorie concettualimesse in evidenza da ciascun ricercatore.

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secondo, quello imperniato sui concetti di territorio e di origine, relativo allecaratteristiche del processo produttivo e del sistema locale nel quale nasce l’a-limento, a sua volta declinato secondo i molteplici aspetti di territorio, am-biente naturale, storia, cultura, tradizione etc. Punti di connessione tra i duegruppi di tematiche possono essere individuati nei nodi relativi all’origine ealla storia/tradizione, che nelle discussioni sono stati spesso associati al con-cetto di genuinità.

Una considerazione a parte deve essere fatta per il tema del gusto: pur es-sendo quello che ricorre più spesso nelle discussioni esso è stato affrontato inmaniera autonoma, mostrando una connessione soprattutto con il tema dell’o-rigine geografica.

Anche se la figura 1 permette di visualizzare la ‘struttura tematica’ dellediscussioni, solo la content analysis delle trascrizioni mette in condizione diapprezzare la ricchezza di significati che contraddistingue e differenzia leconcezioni dei diversi attori. Una differenziazione abbastanza chiara è emer-sa tra i produttori da una parte e le figure di intermediazione commerciale (inparticolare grossisti e grande distribuzione) dall’altra. Mentre per i primi il di-scorso sulla qualità appare maggiormente legato all’unicità dei prodotti ed alloro valore simbolico, per i secondi, soprattutto nel caso degli operatori dellagrande distribuzione, il tema della qualità viene inteso come presenza di un

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assenza conservanti residui

genuinità

salubrità

certificazione

controllo filier

cultura

territori o storia

origine gusto

natura ambiente produzione

processo produttivo

tradizione valori

relazione debole

relazione forte

Figura 1 – Relazioni tra nodi tematici relativi alla qualità

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attributo del prodotto necessario per soddisfare il consumatore, in grado dipromuovere allo stesso tempo il valore della propria insegna commerciale.

Un’altra differenziazione importante ha riguardato gli attributi che defini-scono la qualità: quelli rilevanti nel caso dei prodotti freschi (ciliegia e spina-cio) sono risultati sensibilmente diversi rispetto a quelli che caratterizzano iprodotti trasformati (pecorino e lardo). In particolare, per quanto concerne iprodotti freschi il territorio di origine (inteso come zona di produzione) e l’a-spetto sono i fattori determinanti che, secondo i partecipanti ai focus group,consentono a questi prodotti di raggiungere standard qualitativi elevati. Nelcaso dei prodotti trasformati, viceversa, gli aspetti che contribuiscono mag-giormente a definire la qualità sono il processo produttivo e la scelta dellamateria prima. In tutti i focus group è emerso comunque che il processo pro-duttivo influisce direttamente sulle altre dimensioni, come ad esempio il gu-sto e la salubrità.

I produttori dei quattro sistemi locali indagati hanno manifestato una certacoerenza nelle loro concezioni di qualità. Essi si sono dimostrati consapevoliche il riconoscimento della qualità è un elemento essenziale per l’amplia-mento del mercato delle produzioni tipiche. Nella loro visione il rispetto diuna tradizione e di un’esperienza produttiva maturata nel tempo (in determi-nati casi anche su periodi secolari) conferiscono al prodotto delle caratteristi-che organolettiche uniche. Inoltre, in virtù della loro conoscenza approfondi-ta dei metodi di produzione, i produttori rivendicano una sorta di autorità nel-l’educazione del gusto di consumatori ormai lontani dal mondo della produ-zione. Una delle strategie di promozione, che possiede anche una funzione dieducazione del gusto del consumatore, è quella legata alla creazioni di mo-menti di incontro tra produttori e consumatori (fiere, mercati, eventi in azien-da). Molti produttori hanno dichiarato di ricorrere volentieri a degustazioniguidate o sul luogo di produzione o nell’ambito di manifestazioni dedicate al-la conoscenza dei prodotti di nicchia con l’obiettivo aumentare la visibilitàdei loro prodotti e allo stesso tempo di diminuire la distanza tra il mondo del-la produzione e quello del consumo. I produttori hanno dichiarato che le de-gustazioni sono il modo migliore per comunicare la qualità dei prodotti aiconsumatori e di conseguenza influenzare le loro scelte di consumo.

I produttori hanno anche insistito sulle caratteristiche di unicità legate aduna tradizione, ad una storia che genera un saper fare artigianale, conferendoai loro prodotti anche un valore simbolico. Molti di loro, infatti, si ritengonoin un certo senso depositari della conoscenza necessaria per ‘tradurre’ il valo-re dell’ambiente d’origine (natura e storia/cultura) e della materia prima in unprodotto di qualità.

Nel corso dei focus group sono emersi alcuni temi di potenziale conflittotra produttori e operatori commerciali intorno alla negoziazione della qualità.I rappresentanti della distribuzione moderna, più orientati verso i bisogni deiconsumatori, hanno spesso sottolineato come per le loro aziende sia impor-

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tante che il prodotto tipico rimanga un prodotto stagionale, di nicchia. Questavisione tuttavia rischia di limitare la valorizzazione della tipicità delle produ-zioni adattandola agli interessi delle imprese di distribuzione. La grande di-stribuzione, in virtù del suo ruolo ormai predominante nella vendita dei pro-dotti alimentari verso consumo finale, sembra inoltre rivendicare a sè una fun-zione di tutela del livello di soddisfazione del consumatore. Anche i produt-tori affermano che il retail è un canale essenziale che svolge una duplicefunzione: da una parte contribuisce ad aumentare la crescita del volume com-mercializzato, dall’altro stabilisce degli standard che contribuiscono definirela qualità dei prodotti tipici.

Possiamo quindi affermare che, al tentativo dei produttori di conservare unruolo di codificatori (Dixon, 1999) della qualità alimentare anche nei con-fronti di un consumatore sempre più lontano geograficamente e culturalmen-te, si contrappone l’esigenza degli intermediari della filiera di inserire il pro-dotto tipico in un quadro di valutazione della qualità che sia compatibile conmodalità moderne di distribuzione e con i propri obiettivi aziendali.

Nei paragrafi che seguono il quadro generale delineato fin qui verrà ap-profondito, anche attraverso opportune citazioni tratte dalla trascrizione deifocus group, in relazione ad alcuni dei nodi tematici più ricorrenti.

4.2. Il gusto

L’analisi qualitativa delle trascrizioni ha evidenziato che la tematica delgusto, inteso come capacità del prodotto di soddisfare le aspettative nell’attodi consumo, assume un ruolo molto importante non solo come parametro del-la valutazione della qualità da parte del consumatore ma anche come risulta-to del processo produttivo. Tuttavia i passaggi codificati con questo nodo te-matico hanno un significato ambivalente: da un lato il gusto viene identifica-to come la caratteristica fondamentale ai fini della valutazione della qualitàdelle produzioni alimentari tipiche; dall’altro risulta essere influenzato dalpossesso di una serie di informazioni di cui il consumatore medio risultasprovvisto.

I produttori hanno dichiarato che al fine di poter assaporare in pieno i lo-ro prodotti è necessario avere delle conoscenze di base sia sulla corretta mo-dalità di conservazione e utilizzazione del prodotto, sia sul territorio di pro-venienza, sia sulle caratteristiche intrinseche del prodotto stesso. In altre pa-role, il giudizio finale del consumatore, deve avvenire all’interno di un conte-sto cognitivo nel quale l’origine, la tradizione e le modalità di consumo delprodotto sono conservate e trasmesse di generazione in generazione.

“Perché ti rendi conto che la gente effettivamente non sa come conservare i pro-dotti tipici. E mi dice: devo tenerli in frigorifero? invece no, vanno conservati a

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temperatura ambiente. Effettivamente sono cose basilari, che la gente che vivenelle grandi città non sa più perché si è interrotto questo contatto tra il produttoredel prodotto tipico ed il consumatore finale.” (Pecorino, produttore)

“… la gente mi dice “Ma è il periodo delle ciliegie ora?”, “Ma ora ci son le cilie-gie?”, magari siamo lì, alla fine di luglio. Questo qui è un messaggio che eviden-temente manca, sia da parte nostra, da parte delle pubblicità, da parte anche delpiccolo e grande rivenditore perché la ciliegia che si trova alla fine di luglio suibanchi magari non è della zona e a volte purtroppo si è visto anche il cartello ma-gari che era della zona. Questo era solamente per confermare che dal punto di vi-sta educativo si può ottenere tanto perché si può aiutare a riconoscere la ciliegianel momento in cui è disponibile; è inutile andare a cercare nei periodi sbagliati.”(Ciliegia, produttore)

Caratteristiche del territorio di origine e peculiarità di un processo produt-tivo tradizionale, conferiscono, nella visione dei produttori, un gusto superio-re, una unicità, spesso fatto anche di varietà, non standardizzazione, alle loroproduzioni tipiche.

“…il gusto, che è un gusto particolare, croccante e frizzantino” (Ciligia, produt-tore)“ Sicuramente ci sono tanti altri ottimi lardi, però il Colonnata si riconosce” (Lar-do, produttore)

Nel caso dei prodotti trasformati l’unicità del gusto è legata al processoproduttivo che conferisce al prodotto tipico una qualità superiore. Il saporedei prodotti offerti rappresenta una sua caratteristica distintiva non solo per-ché è superiore ma anche perché è unico nelle sue caratteristiche. Un altrofattore che deriva dalle caratteristiche artigianali del processo produttivo e checontribuisce a definire l’identità del prodotto è la variabilità del gusto, la suanon standardizzazione. I produttori hanno dichiarato che il gusto finale delprodotto dipende sia dalla ricetta utilizzata che dalle condizioni climatiche.Quindi sia il lardo che il pecorino hanno gusti diversi a seconda delle stagio-ni dell’anno nelle quali vengono prodotti. Questa caratteristica viene percepi-ta da tutti i partecipanti come un valore aggiunto, una risorsa che determina latipicità del loro prodotto.

“Il lardo di Colonnata deve sciogliersi in bocca, quindi quando uno assaggia il lar-do di Colonnata, l’unico conservante che ha, perché il discorso che il lardo non haconservanti, il sale è un conservante, non ha conservanti chimici, ecco, quindi, vo-glio dire, deve esser fatto con erbe aromatiche, non coi liofilizzati” (Lardo, pro-duttore)“Il gusto è diverso, perché se io apro cinquanta forme, sono cinquanta forme digusto diverso (…) il prodotto che è mantenuto nell’ambiente dove è nato continuaa conservare quelle che sono poi le sue caratteristiche anche di fermento iniziale,di gusto” (Pecorino, produttore)

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Il gusto sembra quindi essere il criterio principale, in base al quale deveessere valutata la qualità di un prodotto tipico. Tuttavia è interessante notareche i produttori sono convinti che quando un consumatore ‘incontra’ il loroprodotto quest’ultimo non può deludere le aspettative. Un produttore di Lariha dichiarato che la bontà delle sue ciliege rappresenta sostanzialmente “unfattore oggettivo”.

“…le nostre ciliegie si riconoscano da tutte le parti, il sapore della nostra ciliegia,la freschezza, va lasciata stare” (Ciliegia, produttore)“L’altro giorno è venuta una signora, dice “Io l’ho assaggiato, ma fa schifo.”. Di-co ‘No, questo non me lo deve dire signora, dico ‘perché lei offende’. Dico ‘Leiavrà assaggiato il lardo di Colonnata da qualche altra parte; ora assaggi il mio epoi, se fa schifo, non fa altro che sputarlo’. Gliel’ho detto proprio così ‘Guardi, lìc’è il cestino, lo sputa, però lo assaggi’. Sono riuscita a farglielo mangiare e dice‘No, signora, mi scusi, ha ragione.’ (Lardo, produttore)

I rappresentanti della grande distribuzione gli altri operatori commercialihanno dimostrato di condividere solo in parte le concezioni di qualità espres-se dai produttori. Se da un lato concordano sul fatto che il prodotto tipico peressere gradito dal consumatore deve possedere caratteristiche organolettichericonoscibili; dall’altro i rappresentanti della grande distribuzione sembranonon essere sempre convinti, che il consumatore, una volta riconosciuto il pro-dotto tipico lo scelga automaticamente. I buyer della grande distribuzionehanno sollevato il tema della le valutazione post-acquisto basate sull’espe-rienza di consumo manifestando la necessità di porre una maggior attenzioneverso la soddisfazione del cliente e delle sue aspettative nei confronti dei pro-dotti tipici.

“Perché oggi, di fatto, come si compra il vestito di moda, si mangia di moda, …se una persona veramente crede di comprare un prodotto e crede di voler compra-re un prodotto di qualità … o trova la garanzia, però non garanzia perché c’è lafirma [il marchio di origine], ma perché veramente è buono” (Lardo di Colonna-ta, grande distribuzione)

Anche i dettaglianti, attribuiscono un ruolo molto importante al gusto nel-la valutazione della qualità dei prodotti tipici. Essi, infatti, con una posizionesostanzialmente coerente con quella dei produttori, hanno dimostrato di esse-re molto attenti a come deve essere comunicata la qualità attraverso l’infor-mazione sulle modalità di utilizzo e di conservazione dei prodotti.

Bisogna riabituare il compratore, il consumatore, bisogna riabituarlo ai sapori piùsani, a dargli la roba quando è il suo periodo (Pecorino, dettagliante)

L’importanza attribuita al gusto dagli operatori della filiera sembra coe-rente con i risultati di molti studi sulle concezioni di qualità dei consumatori

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nel caso dei prodotti alimentari, nei quali è stato evidenziato come il gusto sial’elemento più importante che influenza il processo decisionale dell’indivi-duo. Dall’analisi delle concezioni di qualità degli operatori della filiera deiprodotti tipici, tuttavia, emerge che il gusto per loro è solo una delle compo-nenti della qualità. Un’altra importante dimensione che sembra emergere èquella legata alle caratteristiche del territorio di produzione, all’origine geo-grafica e storica dei prodotti.

4.3. Sistema locale di produzione e territorio di origine

La qualità dei prodotti alimentari tipici sembra consistere per i produttoriin un sostanziale equilibrio tra attributi del prodotto, natura dell’ambiente incui esso nasce e caratteristiche del processo produttivo. Il territorio d’origineè stato spesso associato alle tradizioni del luogo e quindi alla storia. In questocontesto i prodotti tipici sono percepiti come il retaggio di uno stile di produ-zione che sta scomparendo e che quindi deve essere tutelato. Sono il territo-rio di origine e le sue caratteristiche, insieme all’esperienza acquisita neglianni dai produttori, a determinare il successo dei loro prodotti.

Allora, io credo che il punto vincente è la valorizzazione del territorio (…) tuttociò che esce dal territorio deve avere, diciamo, questa identità di ciliegia di Lari.(…) è un prodotto che va riscoperto. (Ciliegia, produttore)[Lo Spinacio della Val di Cornia], secondo me, si differenzia in particolar mododalla lavorazione che noi facciamo, ormai è dovuta a tanti anni di esperienza equindi presentiamo un prodotto e sa chi compra un prodotto della Val di Cornia edi questa zona ha un prodotto con certe caratteristiche (Spinacio, produttore).

Il legame tra qualità del prodotto e caratteristiche del luogo di produzio-ne è molto evidente negli interventi dei produttori la cui filiera comprendeanche la fase agricola: la ciliegia, lo spinacio ed il pecorino a latte crudo che,pur essendo un prodotto trasformato, si basa su una tecnologia di produzio-ne che richiede uno stretto legame tra l’allevamento e la fase di trasforma-zione del latte. Così nel caso della ciliegia la conformazione collinare delterritorio di Lari, costringendo ad una coltivazione meno intensiva, conferi-sce al prodotto caratteristiche di genuinità; nel caso del pecorino le caratteri-stiche dell’ambiente concorrono, insieme all’abilità del casaro, a creare unprodotto di valore:

La stessa varietà coltivata nel nostro territorio, coltivata in altri bacini produttiviha un altro aspetto (Spinacio, produttore)Poi, sì, subentra quella che è la soggettività dell’ambiente, la qualità dell’alimen-tazione delle pecore, i pascoli, le capacità del casaro di lavorare, sono tutti valoriaggiunti in più (Pecorino, produttore)

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Il rispetto del metodo produttivo tradizionale viene percepito come una ga-ranzia per la tipicità del prodotto, che deriva essenzialmente dall’origine sto-rica e dalle peculiarità del territorio di produzione. Dagli interventi dei parte-cipanti di tutti i focus group emerge il legame tra la tradizione e la stagiona-lità del prodotto. Forse proprio per l’importanza attribuita al sapere locale iproduttori di Colonnata sottolineano ripetutamente la natura artigianale delprocesso produttivo utilizzato; una caratteristica che viene equiparata ad unagaranzia di assenza di prodotti chimici (genuinità), di cura particolare di scel-ta accurata della materia prima, di stagionatura prolungata:

Anche noi cerchiamo di fare poco lardo, non tanto e mantenendo sempre le qua-lità che abbiamo detto: una lavorazione artigianale, una stagionatura minimo dasei, sette mesi e usando le materie prime, prendendo materie prime dei suini pa-dano pesante, del lardo bello nazionale che non è stato in frigorifero. Ecco, questiqui sono requisiti (Lardo, produttore)

In conclusione possiamo affermare che per i produttori le caratteristichedel luogo di origine inteso come territorio nel quale convivono caratteristichenaturali e tradizioni culturali è la causa/caratteristica principale che garantiscela qualità dei prodotti tipici. Il ruolo del produttore è quello di tradurre le ca-ratteristiche del territorio di origine in caratteristiche di qualità del prodotto.

Molti dei temi sviluppati dai produttori, intorno al legame tra qualità deiprodotti tipici e caratteristiche del sistema produttivo di origine sono ripreseanche dagli operatori della grande distribuzione, la cui visione sembra, inquesto senso, coincidere. Tuttavia bisogna tenere presenti alcune differenzia-zioni significative. Innanzitutto i buyer della grande distribuzione pongonospesso l’accento sull’importanza dell’artigianalità e del processo produttivo. Iprodotti tipici non devono quindi essere semplicemente l’emanazione di unterritorio ma devono anche rimanere un prodotto di nicchia.

Quando poi si parla di una mortadella Bologna IGP è vero che è un prodotto co-munque di denominazione geografica protetta, però non è secondo me un prodot-to tra elencare o tra annoverare tra quelli che, come ho detto prima, fanno la sto-ria e la tipicità di un luogo perché s’è raggiunto livelli industriali che poi, insom-ma, scavalcano un po’ la tipicità del prodotto (Lardo, grande distribuzione)

Inoltre mentre i produttori vedono il territorio sostanzialmente come cau-sa della qualità del prodotto, gli operatori della grande distribuzione tendonoa vederlo piuttosto come un attributo del prodotto che, insieme ad altri (ad es.il gusto) contribuisce a definirne la qualità percepita dai consumatori.

“…probabilmente è la condizione psicologica del momento che ti fa sembrare, èl’ambiente, è l’atmosfera, è l’odore, è tutto quello che c’è, per cui, per cui è chia-ro che la vendita del prodotto tipico rappresenta anche questo, la vendita anche diun ambiente, di un territorio” (Lardo, grande distribuzione)

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Mentre nell’ottica dei grossisti l’origine sembra assumere più il significa-to di un quality cue, di una regola convenzionale utile per identificare sulmercato le produzioni di qualità, negli interventi dei dettaglianti la qualità deiprodotti è fortemente collegata alla natura dell’ambiente di produzione e delprocesso produttivo, che deve presentare precise garanzie.

“Secondo me è molto legato al territorio perché l’erba, secondo me, non è erba datutte le parti uguali, è erba, ma secondo me cambia l’altitudine e cambia, è logicoviene un latte sicuramente diverso, quindi prima di tutto è il luogo e la serietà, ilmodo in cui si lavora il prodotto” (Pecorino, dettagliante)

4.4. La salubrità

Il tema della salubrità delle produzioni si sviluppa trasversalmente al di-scorso sulla qualità. Possiamo affermare che nelle concezioni di qualità deiproduttori è molto forte la relazione tra rispetto della tradizione e salubritàdel prodotto. Questa relazione è garantita dall’artigianalità del processo pro-duttivo.

Un prodotto sano è soprattutto sinonimo di un prodotto genuino:

“Sanità, cioè garanzia di un prodotto sano, esente da, più possibile da residui diantiparassitari, queste cose qui insomma” (Spinacio, produttore)“La qualità si riferisce più alla salubrità, cioè il fatto che il prodotto sia privo diconservanti, che non faccia male, che insomma, mangiato in una quantità misura-ta, è salubre perché è inutile che magari il prodotto è buono e poi è pieno di con-servanti, di additivi, di sapori”(Lardo, produttore)

La salubrità/genuinità deriva in ultima analisi dalla tradizionalità del me-todo produttivo, nonostante l’attenzione che i produttori hanno comunque di-mostrato verso il controllo della loro filiera.

“È importante mantenere comunque l’artigianalità, la tradizione e la qualità delprodotto, a portata d’uomo, cioè il lardo si potrà fare con tutte le attrezzature per-ché dieci anni fa non c’erano macchine sotto vuoti, sicuramente non c’erano la-boratori attrezzati come ci sono adesso, sicuramente non si utilizzavano disinfet-tanti contro la listeria o la salmonella, cioè, adesso si utilizza la tecnologia, perònon, cioè con l’occhio comunque sulla tradizione, cioè, la tecnologia deve entraresul ciclo produttivo non per fare quantità industriali a discapito della qualità.”(Lardo, produttore)“Il pecorino ha quella sanità che è legata proprio alla tradizionalità dei processi diproduzione, dei processi locali di produzione, di quello che è maturato in anni, incentinaia d’anni di tradizionalità e di metodiche di produrre, di fare un certo pro-dotto”. (Pecorino, produttore)

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Le concezioni degli operatori della grande distribuzione riflettono ovvia-mente l’importanza capitale attribuita agli aspetti della salubrità delle produ-zioni commercializzate. La fiducia che i consumatori hanno nel punto vendi-ta deve essere assicurata attraverso la garanzia di stretti controlli igenico-sa-nitari. L’atteggiamento della grande distribuzione verso le modalità con cuideve essere perseguita la sicurezza si basa quindi sull’adozione di un approc-cio oggettivo che mira a diminuire eventuali rischi.

“Controlli, controlli intesi su tutta la filiera produttiva” (Ciliegia, grande distribu-zione)“…salubrità è anche qualche cosa di più chimico, cioè nel senso che sono anchedelle analisi che bisogna fare sui prodotti, c’hanno detto che un prodotto tradizio-nale va anche guardato con l’occhio moderno, cioè, nel senso, perché carica bat-terica e listeria e quant’altro deve essere comunque tenuta sotto controllo” (Lardo,grande distribuzione)

La posizione dei grossisti riguardo al controllo della filiera dal punto divista della salubrità è sostanzialmente coerente con quella espressa daglioperatori della grande distribuzione. I controlli sono quindi necessari per ot-tenere la fiducia del consumatore finale e, in ultima analisi, per invogliare al-l’acquisto.

“Controllo perché il concetto di qualità non può essere disgiunto da un concettoanche di certificazione, … controllo, a seconda dei casi, perché deve mettere incondizioni poi il soggetto finale della catena, che è il consumatore, di essere cer-to e garantito che il prodotto che va a consumare è quel prodotto perché ha quel-le caratteristiche certificate o comunque riconosciute come tali” (Ciliegia, gros-sista)

Il tema della certificazione del prodotto si interseca con quello della certi-ficazione della sua origine, rivelando prospettive spesso diverse tra produttorie operatori commerciali. Per i primi infatti la salubrità delle produzioni deri-va in ultima analisi anch’essa dalla natura del sistema di produzione. Una vol-ta garantita la difesa (o valorizzazione) della produzione locale, anche attra-verso la certificazione della sua origine, la salubrità è garantita dalla naturastessa del processo produttivo, che può essere codificato in disciplinari in gra-do di favorire il controllo della filiera:

“…il nostro latte è controllato: noi facciamo dei regolari prelievi di latte e il latteè sano” (Pecorino, produttore)“ privo di sostanze nocive, questo secondo me deve esse’ alla prima, al primo im-patto, insomma, deve esse’ presentato, esse’ garantito il consumatore sotto questiaspetti, per quanto riguarda lo spinacio” (Spinacio, produttore)

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5. Conclusioni

In questo lavoro la metodologia dei focus group, una tecnica di intervistacollettiva basata sulla realizzazione di gruppi di discussione intorno a partico-lari temi, è stata adottata per la sua capacità di riprodurre, almeno in una cer-ta misura, le dinamiche sociali connesse alla tematica affrontata. Obiettivoprincipale del lavoro, infatti, era la realizzazione di una prima ricognizionesulle concezioni in base alle quali gli attori operanti nelle filiere degli alimentitipici definiscono, comunicano, negoziano la qualità di tali produzioni. Pro-prio la molteplicità di figure coinvolte ha suggerito la rilevanza non solo del-le singole concezioni, ma anche del processo con cui esse si formano, sia nel-la condivisione di opinioni comuni che nella contrapposizione di posizioni di-verse, nel corso delle attività di produzione e commercializzazione che porta-no i prodotti tipici dai sistemi locali alla tavola dei consumatori finali.L’analisi approfondita delle discussioni ha permesso, in una certa misura, diosservare ‘dal vivo’ il lavoro continuamente svolto dalla filiera per definire laqualità delle sue produzioni. Un processo che, soprattutto nel caso dei pro-dotti tipici di successo, capaci di soddisfare con un sapere locale i bisognisempre più globali di consumatori lontani dal punto di vista non solo geogra-fico ma anche (e forse soprattutto) culturale, si struttura nel tempo in reti direlazioni sempre più complesse. Mentre all’analisi di queste ultime è stato de-dicato uno specifico working package del progetto di ricerca (cfr. il successi-vo capitolo 5), nella fase preliminare di ‘mappatura’ delle concezioni di qua-lità lungo la filiera l’attenzione è stata rivolta piuttosto alla struttura internadel quadro concettuale con cui viene definita la qualità ed all’individuazionedi possibili punti di conflitto. Infatti, nella misura in cui al crescere del mer-cato, la valutazione della qualità cessa di essere basata su un sapere conte-stuale che, in ogni sistema produttivo locale, è condiviso da domanda e offer-ta, è logico aspettarsi che proprio sulla qualità possano manifestarsi incoeren-ze nelle concezioni dei diversi operatori.

La qualità delle produzioni alimentari tipiche, nelle discussioni degli atto-ri di quattro sistemi produttivi locali toscani studiati, è stata definita intornoad alcune tematiche principali: tra le altre le più rilevanti sono risultate esse-re quelle del gusto, delle caratteristiche (in senso ampio) del territorio di ori-gine, della salubrità. Questi aspetti della qualità sono importanti per tutte le ti-pologie di attore di tutte le filiere considerate. Tuttavia il significato assegna-to a ciascuno di essi e l’importanza relativa attribuita sono differenziati sia trale diverse tipologie di attore che tra le diverse tipologie di prodotto. In questadifferenziazione, che nel paragrafo precedente si è cercato di mettere in evi-denza tramite la content analysis della trascrizione delle discussioni, emergel’evoluzione del processo di definizione della qualità alimentare che è inevi-tabilmente connesso con la crescita del mercato.

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Rimandando all’analisi svolta in questo capitolo e al rapporto di ricercacompleto per i dettagli sulle concezioni di qualità emerse, ci sembra utile ri-chiamare come conclusione di questo capitolo quello che sembra essere il piùrilevante tra i punti di potenziale conflitto intorno alla definizione della qua-lità. Esso non riguarda tanto un particolare aspetto/attributo dei prodotti quan-to piuttosto la relazione che si instaura con il consumatore finale in relazionealla qualità.

La crescita del mercato tende ad allontanare il consumatore finale dalmondo della produzione. I produttori sembrano percepire molto chiaramentei rischi connessi con questa inevitabile evoluzione quando manifestano la lo-ro attenzione verso le forme di comunicazione diretta con i consumatori in-trono alla qualità. L’interesse per sagre, fiere, degustazioni guidate in azienda,più che sottolineare l’importanza della filiera brevissima come politica com-merciale, segnala l’interesse per la trasmissione diretta, senza mediazioni, diquelle che sono ritenute le informazioni indispensabili per una corretta valu-tazione della qualità e del valore simbolico delle produzioni tipiche. La cre-scente consapevolezza del patrimonio di conoscenze tradizionali che si svi-luppa con la valorizzazione di un prodotto tipico porta naturalmente i produt-tori a rivendicare un’autorità di codificatori della qualità alimentare (Dixon,1999). Questa autorità dovrebbe essere riconosciuta affinchè l’intera filiera,anche raggiungendo i consumatori molto lontani, rimanga strettamente con-nessa con il sistema produttivo di origine.

Dall’altra parte le figure di intermediazione commerciale e, in particolare,gli operatori della grande distribuzione, con la crescita del mercato di unaproduzione tipica ricoprono un ruolo sempre più importante nel rapporto conil consumatore finale. In virtù di tale rapporto il modo del retail moderno ten-de a proporsi come tutore della soddisfazione del consumatore (di qui l’atten-zione all’aspetto della salubrità ed al connesso tema del controllo del proces-so produttivo). Non solo: in qualche modo rivendica un’esclusiva capacità diinserire correttamente i prodotti tipici nei moderni modelli di consumo ali-mentare, assegnando loro spesso un ruolo di prodotti di nicchia. Una posizio-ne che contende ai produttori il ruolo di codificatori della qualità.

Da questo punto di vista le diverse forme di tutela della denominazionegeografica delle produzioni tipiche sembrano emergere come potenziali stru-menti per la composizione dei conflitti. Se la valorizzazione delle produzionialimentari tipiche è spesso associata a percorsi di istituzionalizzazione (le cuiproblematiche verranno affrontante nel capitolo 6) dalla discussione appenaproposta sembra emergere una delle motivazioni fondamentali di questo fe-nomeno. La creazione di una denominazione geografica, infatti, restituisce al-la produzione un ruolo esplicito di autorità nella definizione delle dimensionifondamentali della qualità dei prodotti; offre alla filiera a valle maggiori ga-ranzie di controllo; consegna agli operatori commerciali che entrano in con-tatto con il consumatore finale un prodotto più ‘forte’ in termini di visibilità e

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valore. Il problema è quello di riuscire a trovare, al momento della ‘codifica’della qualità nei disciplinari di produzione, un giusto equilibrio tra tutela del-l’identità del prodotto, esigenze di controllo della filiera e sostenibilità eco-nomica delle forme di certificazione (temi che verranno approfonditi nel ca-pitolo 7). Quando queste diverse esigenze riescono ad essere contemperate al-l’interno di un sistema di denominazione geografica allora la riscoperta dellaqualità (il gusto, la tradizione, il territorio) può diventare il punto di partenzaper il rilancio delle produzioni alimentari tipiche.

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1. Introduzione

Dopo una breve riflessione sulle dinamiche che caratterizzano i sistemisocio-economici volti alla valorizzazione di produzioni agroalimentari tipi-che, il presente capitolo illustra l’approccio di network come un adeguatostrumento interpretativo per spiegare la complessità delle relazioni che sotto-stanno alla nascita, al funzionamento e all’evoluzione organizzativa di talirealtà.

Alla luce degli spunti teorici offerti e delle caratteristiche dell’approccioanalitico considerato, viene successivamente presentato un caso di studio ine-rente il percorso di valorizzazione di un prodotto tradizionale messo in atto inun’area montana toscana, esemplificativo di come il modello interprativo pos-sa far emergere le dinamiche organizzative che intervengono e gli effetti del-lo stesso processo di valorizzazione.

Seguono alcune considerazioni conclusive, nelle quali si prende in esameanche la possibilità di applicare l’approccio analitico illustrato alla valutazio-ne del successo dei processi organizzativi e alla rilevazione di eventuali pun-ti di criticità.

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5. L’ANALISI DELL’ORGANIZZAZIONEDEI SISTEMI SOCIO-ECONOMICI

DEI PRODOTTI TIPICIATTRAVERSO L’APPROCCIO DI NETWORK*

di Gianluca Brunori, Raffaella Cerruti, Adanella Rossi, Massimo Rovai

* Le considerazioni contenute nel capitolo sono il risultato delle attività di ricerca e delleriflessioni condotte nell’ambito dei WP4 della ricerca ARSIA “Prodotti tipici, percezioni diqualità lungo la filiera e possibilità di sviluppo del mercato (2003-2006), cui hanno contribui-to Gianluca Brunori, Adanella Rossi, Massimo Rovai e Raffaella Cerruti del Dipartimento diAgronomia e gestione dell’agroecosistema dell’Università di Pisa, e Giovanni Belletti, TuniaBurgassi, Andrea Marescotti e Silvia Scaramuzzi del Dipartimento di Scienze economiche del-l’Università di Firenze.

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2. La rilocalizzazione dei circuiti di produzione e consumo di benialimentari

Come noto, il processo di globalizzazione del sistema agroalimentare hastimolato grandi imprese delle fasi a monte e a valle della produzione agrico-la a creare “filiere lunghe”, spesso a carattere transnazionale, in grado di con-nettere produzione e consumo su scala anche molto ampia. A tale scopo, perpotere garantire flessibilità di approvvigionamento ed un aumento della va-rietà merceologica disponibile, queste imprese hanno perseguito strategiecommerciali la cui attuazione implica la de-territorializzazione delle produ-zioni agricole, ovvero la riduzione del legame dei processi produttivi/dei pro-dotti con i contesti territoriali.

Accanto a questi processi, e anche in relazione alle contraddizioni che nesono generate, si assiste al moltiplicarsi di iniziative volte a ricondurre il pro-dotto al suo luogo di origine e a ridare visibilità ai produttori. In gran partedei casi, queste iniziative assumono configurazioni organizzative “corte”, ra-dicate nel territorio e quindi legate alle sue risorse naturali, culturali e socia-li, e fondate su concezioni diverse del produrre e del consumare (Renting etal., 2003; Brunori, 2003). Tali iniziative sono spesso il risultato della conver-genza tra obiettivi e interessi appartenenti a soggetti sociali diversi.

Dal lato dei consumatori, i processi di rilocalizzazione rispondono ai cam-biamenti intervenuti nella percezione (della produzione e del consumo) del ci-bo e ai relativi nuovi bisogni che essi hanno sviluppato:

– la crescente domanda di alimenti sicuri e “naturali”, il cui processo pro-duttivo possa in qualche modo essere conosciuto e controllato;

– l’importanza assunta dai contenuti culturali del cibo, determinati dall’ap-partenenza a tradizioni locali di produzione e consumo1;

– la volontà di esprimere anche attraverso le scelte alimentari il senso di ap-partenenza ad un dato contesto socio-culturale (Cova, 1997).

Dal lato dei produttori e delle comunità rurali la rilocalizzazione è vistacome un’opportunità attraverso cui far fronte alla compressione dei redditiderivanti dal crescente potere dei grandi attori economici nelle filiere lunghe,che consenta loro di difendersi dagli effetti negativi dei processi di globaliz-zazione del sistema agroalimentare attraverso un migliore posizionamentostrategico sui mercati e nelle reti socio-istituzionali (Lucas 2003; Goodman,2003; Hines, 2001; Gilg e Battershill, 1998). I nuovi e vari percorsi intrapre-si dagli agricoltori, nella direzione della diversificazione delle attività e dellarealizzazione di un maggior valor aggiunto, sono una risposta attiva al cam-

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1. Il successo di organizzazioni come Slow Food e delle relative iniziative è emblematicoin tal senso (Petrini, 2001; Miele e Murdoch, 2002).

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biamento del contesto economico e politico della loro attività e al conseguen-te crearsi di condizioni di forte insostenibilità della stessa (Ploeg et al., 2000).

Dal lato delle politiche pubbliche la rilocalizzazione dei circuiti di produ-zione e consumo risponde a più obiettivi:

– rappresenta una via per raggiungere condizioni di sostenibilità (in più sen-si) delle produzioni agroalimentari,

– costituisce un importante strumento nei processi di sviluppo rurale all’in-terno di strategie di marketing territoriale (Marescotti, 2001; Pivot, 1998;Pecqueur, 2001),

– può essere posta alla base di una strategia per aumentare la competitivitàdell’industria alimentare dei Paesi del Mediterraneo sui mercati interna-zionali (Brunori, 2003).

Sotto il profilo teorico, questi percorsi sono spiegati come espressione del-la “transizione verso la qualità” dei processi economici di produzione e con-sumo (Murdoch et al., 2000; Marsden et al., 2000; Goodman, 2003) e del-l’affermazione di un “nuovo paradigma di sviluppo rurale”, basato sui princi-pi della sostenibilità e della multifunzionalità e rivolto a valorizzare le risorseendogene (Ploeg et al., 2000; Marsden et al., 1999). Altri autori inquadranoquesti processi nel contesto di transizione delle economie rurali da un regimeproduttivista ad un regime “post-produttivista” (Ilbery e Bowler, 1998).

Le forme organizzative alla base della rilocalizzazione, al di là della di-versità di definizioni – “nuove” / “alternative” / “brevi” / “sostenibili” (Mur-doch et al., 2000; Renting et al., 2003) -, sono accomunate dalla volontà dicostruire delle alternative rispetto ai circuiti convenzionali di produzione-con-sumo, aggregando e coinvolgendo soggetti diversi intorno a valori, principi,significati e obiettivi – quali quelli ambientali, culturali ed etici – altri rispet-to ai valori ed obiettivi puramente economici. (Marsden et al., 2000; Hinrichs,2000; Sotte, 1997; Brunori, 2003; Henke, 2004).

Caratteristica comune di tali circuiti è la volontà/capacità di assegnare alcibo un significato che va molto oltre quello di semplice bene di consumo. Inparticolare, al cibo viene assegnato un forte “valore relazionale” (Goodman eDuPuis, 2002), legato ad esempio all’appartenenza, alla solidarietà e alla con-vivialità, e tutti i processi che ruotano attorno ad esso, a partire dalla defini-zione dei criteri della sua qualità (Marsden, 1998), tornano ad essere forte-mente integrati e ricontestualizzati in reti sociali.

La rilocalizzazione implica un processo di innovazione organizzativa, ilcui tratto saliente è l’identificazione di una diversa concezione delle risorse sucui far leva per la competitività. Partendo dalla constatazione che competeresugli stessi terreni delle filiere convenzionali – innovazione tecnologica, volu-mi di produzione, costi di produzione – sarebbe illusorio, queste iniziativehanno spostato il centro dell’attenzione su quelle che vengono definite risor-se endogene (Ploeg e Long, 1994; Ploeg e Dijk, 1995; Ray, 1999; Bryden,

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1998; Iacoponi et al., 1995), e che rappresentano per il territorio un capitaleche assume diverse forme e funzioni: il capitale umano (conoscenze e com-petenze individuali), il capitale sociale (le relazioni e convenzioni sociali nel-le quali le attività economiche sono inserite) (Putnam, 1993), il capitale natu-rale (fonte di fattori produttivi come anche di beni fondamentali per la qualitàdella vita delle comunità) (Costanza e Daly, 1997), il capitale culturale (co-noscenze, abilità, valori e tecniche accumulatesi nel tempo nel territorio)(Ray, 1999; Throsby, 1999).

Per poter meglio sfruttare le occasioni offerte dalla globalizzazione, le ri-sorse endogene vengono mobilizzate e valorizzate attraverso il contatto consoggetti esterni, talvolta lontani. La consapevolezza dell’importanza di taleaspetto è alla base dello sviluppo dei più recenti approcci “neo-endogeni”(Ray, 2003), i quali appunto riconoscono lo specifico ruolo rivestito dai pro-cessi di interazione sul territorio (nella direzione della costruzione e del con-solidamento dell’identità locale) ma anche l’importanza dell’interazione conl’esterno.

Il processo di generazione, mobilizzazione e valorizzazione delle risorseendogene implica un’intensa attività volta allo stabilire relazioni ed alleanzecon soggetti tra loro diversi, quali, oltre ai soggetti direttamente coinvolti neiprocessi di produzione-distribuzione e ai consumatori, le istituzioni pubblichee le varie organizzazioni della società civile (Murdoch, 2000; Guthnam, 2002;Dixon, 1997; Goodman, 2002; Renting et al., 2003; Brunori et al., 2003; Bru-nori et al., 2004).

Per capire le dinamiche e gli effetti di questa attività gli schemi concet-tuali che concentrano l’attenzione sui flussi di prodotto, come ad esempio lafiliera, non sono sufficienti: è necessario infatti ricostruire i percorsi che por-tano alla costruzione di significati, e pertanto guardare, oltre che ai flussi fi-sici e monetari, soprattutto ai flussi di comunicazione. Questi processi sonoin misura crescente studiati attraverso la teoria del network (rete) che, per lasua capacità di focalizzare sulle relazioni e di cogliere la complessità deiprocessi, rifuggendo da un approccio deterministico, si è affermata oramaicome uno dei grandi modelli di riferimento per le scienze sociali (Castells,1998).

L’analisi di network (o di rete) può in particolare contribuire a spiegare inche modo attraverso l’interazione sociale si generi e si riproduca il capitaleendogeno di un territorio (nelle sue diverse componenti), come questo capita-le territoriale venga incorporato nei prodotti (dando vita a quello che la scuo-la francese ha definito “terroir” (Barjolle, 1998; Barham, 2003)), ed in chemodo tale capitale venga mobilizzato per creare valore in un contesto caratte-rizzato da meccanismi di mercato e da altre forze di origine esterna. In questaseconda fase, l’interazione tra le reti interne e le reti esterne crea il capitalesimbolico, che è il presupposto fondamentale per la creazione di capitale eco-nomico.

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3. L’approccio di network nell’analisi dei sistemi socio-economici

La metafora del network rappresenta dunque uno schema concettuale par-ticolarmente efficace per la rappresentazione e l’analisi delle interazioni tral’individuo e il contesto economico-sociale di appartenenza.

L’approccio di network ha avuto le sue prime applicazioni nell’ambito del-le discipline sociali (Barnes, 1954) per l’elaborazione di nuovi metodi di ana-lisi capaci di affrontare lo studio di realtà sociali fluide e instabili (Piselli,1995; Scott, 1997). In tale ambito il network è stato definito come un insiemespecifico di legami tra un gruppo definito di persone, le cui caratteristicheconsentono di interpretare il comportamento sociale delle persone coinvolte.

A partire dagli anni ’80, di pari passo con l’affermarsi di un approccio ter-ritoriale e sistemico all’analisi dei processi di sviluppo economico, l’applica-zione della teoria del network viene estesa alla comprensione delle dinamichedei sistemi socioeconomici2. In questo campo, la metafora del network si in-centra sulla molteplicità di relazioni in cui gli agenti economici sono inseritinei relativi contesti “spaziali”, interpretando attraverso di esse le dinamicheorganizzative in cui questi sono coinvolti.

A tale metafora possono essere ricondotti altri approcci analitici, anch’es-si incentrati sulla presenza e sullo sviluppo di reti di relazioni, a carattere pre-valentemente verticale, come nel già citato caso delle filiere produttive, o pre-valentemente orizzontale, come nel caso dei sistemi locali o dei distretti pro-duttivi (Murdoch, 2000). In questi ultimi3, in particolare, l’analisi pone note-vole enfasi sull’ispessimento di relazioni che si viene a creare tra gli agentisocio-economici ed istituzionali appartenenti a specifiche realtà produttive lo-cali, il quale appare determinante nel condizionare l’operato dei singoli agen-ti e, di conseguenza, i processi evolutivi dei relativi sistemi produttivi4.

L’approccio di network trova un’ulteriore evoluzione con la teoria dell’ac-tor network, che permette di rappresentare e analizzare il coinvolgimento inqualità di attori non solamente di essere umani ma anche di elementi nonumani (Law, 1992; Callon, 1996; Murdoch, 1994).

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2. La letteratura sulla teoria del network è oramai molto ampia così come le sue appli-cazioni estese a diversi ambiti di analisi. Per una rassegna bibliografica si veda Castells(1998).

3. Per la definizione di distretto industriale e di distretto agricolo o agroindustriale si puòfare riferimento a Cecchi (1992).

4. Nell’analisi dei distretti il concetto di “network” “sottolinea l’esistenza di sistemi orga-nizzativi intermedi tra mercato e organizzazione”, nei quali “le transazioni non avvengono néattraverso lo scambio di mercato né attraverso imposizioni amministrative, ma attraverso reti direlazioni tra individui e enti pubblici coinvolti in azioni preferenziali e cooperative di recipro-co sostegno” (Iacoponi, 2001).

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3.1. Network ed actor-network

Secondo la rappresentazione del network, gli attori, spinti dalla necessitàdi realizzare i propri obiettivi, interagiscono con l’ambiente con cui instaura-no specifiche relazioni attraverso le quali scambiano risorse di natura mate-riale e/o immateriale (beni, servizi, informazioni, valori, capitali finanziari,regole, ecc.). Ogni risorsa circola attraverso un’appropriata struttura relazio-nale, costituita da specifiche infrastrutture fisiche e da regole di comunicazio-ne e di scambio. Le merci fisiche viaggiano sulle strade, le informazioni viag-giano in forma verbale o in forma scritta, via cavo o via etere ecc.. Ogni ri-sorsa ha dunque canali di circolazione specifici, ed ogni agente che ne attin-ge è un nodo di queste strutture relazionali.

Tali strutture, i network, sono costituite per definizione da tre o più attori,ognuno dei quali interagisce con almeno un altro attore. Nel network gli atto-ri sono interdipendenti, in quanto ciascuno di essi è legato ad altri, i quali aloro volta hanno altri legami, e la struttura di relazioni in cui sono inseriti, daessi stessi creata, si configura come una fonte di opportunità e di vincoli al-l’azione individuale (Wasserman et al., 1994).

Ogni attore può fare parte contemporaneamente di più network e le risor-se che si procura attraverso un network vengono utilizzate per agire su altrinetwork (come ad esempio nel caso delle risorse immateriali trasformate inmarchio di produzione). Ogni attore può essere dunque visto come un com-mutatore, in grado di trasformare risorse in altre risorse.

In tempi più recenti, come si è detto, si è fatto strada il concetto di actor-network (Law, 1992; Callon, 1996; Murdoch, 1994), che vede la partecipa-zione nel network anche di elementi non umani, definiti intermediari, i qualicontribuiscono a loro volta alla costruzione delle reti di relazioni e, combina-ti insieme, stabiliscono i legami di nuove strutture organizzative o macro-at-tori (Callon, 1991; Foster and Kirwan, 2004).

Gli intermediari si possono interpretare come il risultato di processi diconsolidamento di significati condivisi, e una volta prodotti essi possono con-dizionare l’evoluzione dei network a cui appartengono. Tra questi assumonoparticolare significato elementi immateriali come i codici, le norme, le regoletecniche, le leggi, ed elementi materiali come gli edifici, le macchine, le in-frastrutture. Queste ultime, ad esempio, influenzano la possibilità di incontroed interazione; le tecnologie condizionano le modalità di organizzazione dellavoro; la disponibilità di specifici linguaggi dà alle persone la possibilità dicomunicare le proprie percezioni e visioni, dando vita a specifiche rappresen-tazioni sociali.

L’approccio dell’actor network consente di tenere conto anche della di-mensione politica delle relazioni, ovvero di considerare le dinamiche delle si-tuazioni conflittuali e delle asimmetrie di potere lungo le reti relazionali(Lowe et al., 1995). Sulla base di tali implicazioni è possibile evidenziare il

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ruolo che l’organizzazione interna ad un sistema locale dovrebbe assumereper garantire un’equa distribuzione dei benefici e delle risorse, nonché mette-re in luce i principali fattori in grado di condizionare i meccanismi di svilup-po locale (Murdoch, 2000). Pur non avendo l’ambizione di prevedere i com-portamenti e le motivazioni che spingono gli attori ad agire, il modello risul-ta quindi essere un efficace strumento fruibile dai decisori politici per crearele condizioni più favorevoli ai processi di interazione tra gli attori.

3.2. La formazione di un actor network

Il network rappresenta dunque il frutto di una continua “strutturazione”:l’interazione tra gli attori innesca un campo di forze che determina una conti-nua riarticolazione delle risorse e dei rapporti di potere all’interno della rete.

Particolare enfasi viene quindi posta sui processi attraverso cui le reti rela-zionali si costruiscono, si sviluppano, e si stabilizzano, e sugli effetti – in ter-mini, ad esempio, di potere, dimensione, scopo od organizzazione – che taliconfigurazioni e riconfigurazioni generano (Law, 1992; Murdoch, 1994).

La teoria dell’actor network consente di cogliere la genesi e l’evoluzionedei processi organizzativi attraverso il concetto di translazione, con il quale sifa riferimento al processo di progressiva trasformazione degli obiettivi indivi-duali in obiettivi condivisi. Secondo Callon (1986), il ciclo della translazioneè visto come un percorso in cui è possibile distinguere una successione di fa-si (Fig. 1):

Figura 1 – La rappresentazione del ciclo della translazione

– problematizzazione: rappresenta il momento in cui un primo attore o grup-po di più attori (definibile come promotore), dopo un’analisi dell’ambien-te esterno, identifica e definisce una situazione problematica o un eventocritico e propone una soluzione; fondamentale in questa fase è una pro-gressiva condivisione, all’interno del gruppo di attori promotori, di cono-scenza, valori e identità, al fine di sviluppare una comune rappresentazio-ne della realtà esterna;

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problematizzazione

mobilizzazione

assunzione dei ruoli

interessamento

problematizzazione

mobilizzazione

assunzione dei ruoli

interessamento

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– interessamento: questa fase prevede la sensibilizzazione e il coinvolgimen-to di altri soggetti attorno alla rappresentazione offerta dal promotore equindi alla definizione di obiettivi e strategie comuni per raggiungere lasoluzione proposta dal promotore stesso;

– assunzione dei ruoli o arruolamento: al termine di questo stadio, la solu-zione viene individuata e condivisa dalla nuova rete di relazioni che si ècreata; questa fase prevede dunque la fissazione di una serie di regole, rou-tine, significati condivisi che, consentendo l’’allineamento’ del comporta-mento degli attori, contribuiscono alla stabilità del network;

– mobilizzazione: in questa fase il nuovo network diventa stabile nello spa-zio e nel tempo ed inizia la sua interazione con l’esterno, dando quindi ori-gine alla formazione di relazioni con altri attori; esso si configura comeuna nuova struttura organizzativa che operando come attore unico (macro-attore), nasconde la complessità degli attori al suo interno (Callon 1986,1991; Law 1986).

Nel processo di sviluppo del network, le regole alla base dell’interazionetra attori e intermediari diventano delle “scatole nere” (black box), ovveroregole non più oggetto di negoziazione da parte degli attori bensì condivisee capitalizzate (Selman e Wragg, 1999). È anche vero, che un network, perquanto stabilizzatosi, rimane comunque sensibile a spinte competitive prove-nienti dall’ambiente esterno, così come a nuove idee, risorse e comporta-menti opportunistici da parte dei suoi componenti. Ad esempio, in campoagrario, le preoccupazioni ambientali, il cambiamento di sensibilità dei con-sumatori, gli scandali alimentari sono alla base di processi di riconfigurazio-ne dei network sulla spinta della necessità per gli attori di riconsiderare ipropri interessi ed obiettivi (Parker e Wragg, 1999). Generalmente, ad unmaggiore grado di complessità del processo di translazione corrisponde unamaggiore stabilità della struttura relazionale. Murdoch (1997) definisce unnetwork stabile (che tende ad essere il più possibile formalizzato) come“spazio di prescrizione”, mentre un network instabile come “spazio di nego-ziazione”.

4. L’approccio dell’actor network ai processi di valorizzazione del-le produzioni tipiche

Nel più ampio contesto di applicazione del concetto di rete nell’ambitodelle discipline economiche agrarie e rurali5, l’approccio dell’actor networkappare un valido strumento nell’analisi dei processi socio-economici legati al-

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5. Per approfondire il ruolo delle reti negli studi rurali si veda Murdoch (2000) e Brunori(2003).

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l’attivazione e allo sviluppo di iniziative di valorizzazione di produzioniagroalimentari tipiche (Rossi e Rovai, 1999; Brunori et al., 2005), in grado dimettere in evidenza i processi di interazione tra i soggetti coinvolti, sul terri-torio e al di fuori di esso.

Come è stato già sottolineato, nella metafora della rete, i singoli attori – leimprese, in forma singola e associata, ma anche tutti gli altri “portatori di in-teressi legittimi” come le Amministrazioni locali e sovralocali, le associazio-ni espressione della comunità locale nonché, più in generale e anche al di fuo-ri del territorio, della società civile, le organizzazioni espressione del mondoscientifico – appaiono come altrettanti “nodi”, e per i quali le relazioni dellarete rappresentano altrettante opportunità di scambio di risorse materiali edimmateriali.

È all’interno di tali reti di relazioni che avviene il processo organizzativoalla base della costruzione e valorizzazione della specifica qualità: la matura-zione del senso di identità e di una comune rappresentazione delle specificitàlocali, la condivisione di una stessa concezione di qualità, così come, succes-sivamente, la cooperazione per l’individuazione e l’attuazione di regole tecni-che per la produzione e di strumenti di tutela e di valorizzazione commercia-le dei prodotti.

L’adozione del ciclo della translazione (Callon, 1986) risulta particolar-mente efficace per rappresentare l’evoluzione dei percorsi di valorizzazionenel tempo. Esso bene interpreta le dinamiche che intervengono come proces-si di apprendimento e di costruzione di significati comuni, attraverso una suc-cessione (iterativa) di fasi che può essere descritta nei termini seguenti:

– la presa di coscienza da parte degli attori locali (generalmente alcuni ‘pro-motori’) del valore di specifici attributi qualitativi dei prodotti e delle po-tenzialità insite in un’azione comune di valorizzazione;

– la ricerca di nuove adesioni alla concezione di qualità in via di definizio-ne e quindi agli obiettivi dell’azione comune, attraverso un progressivocoinvolgimento di altri attori, non solamente appartenenti al mondo dellaproduzione; in genere questa fase termina quando vengono definiti obiet-tivi condivisi di azione (come la necessità di scrivere/adottare un disci-plinare o di formalizzare la cooperazione con la costituzione di un con-sorzio);

– il consolidamento del network attorno alla concezione di qualità condivisae il conseguente adattamento dei comportamenti dei singoli attori agliobiettivi comuni, con l’assunzione di ruoli specifici all’interno delnetwork;

– la comunicazione all’esterno della specifica qualità, nell’attuazione dell’a-zione comune, da parte del network che opera come un unico soggetto, sirappresenta simbolicamente attraverso specifici segni (nomi, marchi, im-magini), elabora valori, narrative ed eventualmente si collega ad altri sog-getti formando altri network.

105

Page 98: Tipicamente Buono

A ciascuna delle fasi di tale processo di costruzione e valorizzazione dellaspecifica qualità corrisponde una particolare configurazione del network equindi anche un cambiamento di prospettiva per l’operato dei singoli attori. Ilciclo di ogni iniziativa si inserisce in un quadro più complesso, la cui analisipuò essere schematizzata come in Fig. 2.

Di seguito si riporta un caso di studio analizzato applicando l’approcciodell’actor network e il ciclo della translazione.

Figura 2 – Dinamica evolutiva di un’iniziativa di valorizzazione

5. L’analisi del processo di valorizzazione del Pecorino a latte cru-do delle Montagne Pistoiesi6

5.1. Introduzione

Il caso di studio analizza l’iniziativa di valorizzazione di un prodotto tipi-co, il Pecorino a latte crudo delle Montagne Pistoiesi, messa in atto nel con-testo territoriale di produzione a partire dal 2000.

Promossa da due soggetti operanti sul territorio, aventi forti connessionicon il contesto esterno, l’iniziativa ha portato ad un progressivo allineamentodegli attori coinvolti nel processo di produzione intorno all’idea che il pecori-no a latte crudo sia un’importante risorsa locale. Tale consapevolezza è matu-rata attraverso la costruzione di una rete complessa di relazioni (network) cheha portato al consolidamento delle connessioni tra le unità produttive e traqueste e le istituzioni locali e i consumatori finali. Questo processo ha con-

106

Stato del settore

Iniziativa

significati standards,

tecnologie,

Cambiamenti organizzativi, marchi etc.,

problema

Pressioni interne

Pressioni esterne

impatto

contesto

6. Il caso di studio è stato sviluppato all’interno del WP 4 “Le reti di relazioni nella comu-nicazione della qualità: casi di studio relativi a produzioni agroalimentari tipiche della Tosca-na” nell’ambito della ricerca ARSIA citata in apertura del lavoro.

Page 99: Tipicamente Buono

sentito di modificare le convenzioni dominanti sulla qualità del prodotto (pri-ma sottoposto al pregiudizio che fosse un alimento poco sano dal punto di vi-sta igienico) attraverso la codifica delle pratiche produttive e l’adozione dinuove strategie di comunicazione. Si è giunti così, alla definizione e condivi-sione da parte di tutti gli attori coinvolti di una concezione di qualità del pro-dotto conforme agli standard igienico-sanitari, ma anche comprensiva degliattributi organolettici e simbolici percepiti e apprezzati dai consumatori; taleinsieme di attributi e la loro comunicazione all’esterno sono alla base delmantenimento e dello sviluppo del sistema produttivo locale.

5.2. Il contesto territoriale e il sistema produttivo

Il territorio delle Montagne Pistoiesi, esteso su una superficie di 475 km2,è situato all’estremità Nord della Toscana e ricade nel territorio amministrati-vo della provincia di Pistoia. Si tratta di un territorio che ha incontrato neltempo notevoli difficoltà di sviluppo per la sua posizione marginale. La suaeconomia è sempre stata infatti piuttosto fragile e ciò ha portato nei decennidel secondo dopoguerra ad intensi fenomeni di spopolamento e al conseguen-te impoverimento del tessuto sociale. L’agricoltura è peraltro un’attività anco-ra importante nell’area; in modo particolare l’allevamento, tradizionalmentepresente sul territorio e condotto da aziende familiari di piccole dimensioni,continua a rappresentare un fattore positivo per lo sviluppo locale. In tempipiù recenti, inoltre, l’intera area ha mostrato un notevole potenziale di svilup-po turistico, favorito dalla ricchezza di risorse ambientali, culturali e gastro-nomiche.

Gli allevamenti ovini della provincia, circa un centinaio, sono da semprecaratterizzati da: greggi numericamente modeste (100-200 capi), scarsa di-sponibilità di terreno, impiego di manodopera esclusivamente familiare, tra-sformazione e vendita diretta dei prodotti (pecorino, ricotta e raveggiolo) aprivati e ad esercizi commerciali. L’allevamento è condotto in forma estensi-va, con pascolamento primaverile ed estivo in montagna, il quale oltre a ri-durre i costi per l’alimentazione influisce positivamente sulla qualità del lat-te e, quindi, del formaggio. La tecnica di caseificazione del formaggio peco-rino prodotto nell’area conserva i principi della tecnologia tradizionale: dasempre prevede l’impiego di “latte crudo”, cioè trasformato senza subire al-cun trattamento termico superiore ai 40 °C; la coagulazione del latte avvieneper riscaldamento in paioli di rame stagnati internamente e con cagliatura ditipo presamico, cioè con aggiunta di caglio naturale. La produzione, pari acirca 3 q.li all’anno, comprende tre diversi tipi di formaggio: il pecorino fre-sco (7-20 giorni di stagionatura), l’“abbucciato” (almeno 35 giorni di stagio-natura) e il pecorino da “asserbo” (da 2-3 mesi ad un anno di stagionatura).Ogni forma ha caratteristiche organolettiche diverse dalle altre in conse-

107

Page 100: Tipicamente Buono

guenza dell’impiego del latte crudo che permette di mantenere la naturalecomposizione di fermenti e micro-organismi, responsabili di specifici pro-cessi fermentativi.

Rispetto agli altri sistemi di allevamento ovino presenti in Toscana, l’in-ternalizzazione del processo di trasformazione del latte e della commercializ-zazione del formaggio rappresenta il principale tratto distintivo di questo si-stema produttivo. Ciò ha, in molti casi, consentito di riposizionare il prodottosu livelli qualitativi elevati, in circuiti commerciali rivolti a consumatori ingrado di percepirne ed apprezzarne il particolare valore. Negli ultimi anni,tuttavia, questi allevatori hanno dovuto confrontarsi, oltre che con le normati-ve che regolano l’attività zootecnica, con quelle, ancora più complesse, cheregolano la trasformazione dei prodotti zootecnici e la loro commercializza-zione. Dall’altra parte, è progressivamente cresciuta tra i consumatori l’atten-zione verso la qualità dei prodotti alimentari e i suoi legami con i processiproduttivi artigianali, come il successo del movimento Slow Food ben testi-monia.

Questi elementi sono alla base dell’avvio di un’iniziativa che vede in unaprima fase la necessità di una legittimazione del processo produttivo tradizio-nale di fronte a una normativa igienica vincolante e, successivamente, di unavalorizzazione commerciale del prodotto.

5.3. La storia dell’iniziativa di valorizzazione del prodotto

L’iniziativa di valorizzazione del Pecorino a latte crudo delle MontagnePistoiesi è stata attivata principalmente da due soggetti chiave: il direttoredell’APA (Associazione Provinciale Allevatori) e il rappresentante locale diSlow Food. Tali soggetti hanno svolto un ruolo fondamentale nell’attivazio-ne del processo poiché hanno facilitato il collegamento tra i produttori, han-no mediato il rapporto con le autorità sanitarie locali, costituito il legame conaltre organizzazioni (Slow Food Italia, Università, istituzioni locali), facilita-to i processi di apprendimento, relativamente alle tecniche di allevamento eai processi di trasformazione, alle tecniche di commercializzazione e comu-nicazione, alle sinergie possibili tra questo prodotto e altri prodotti locali.Essi hanno dunque svolto un ruolo di facilitatori, sia nel processo di presa dicoscienza delle potenzialità della specifica risorsa e quindi di creazione delsuo valore, sia nell’interazione con le reti esterne in grado di apprezzare talevalore.

Problematizzazione

Prima dell’attivazione dell’iniziativa di valorizzazione si possono indivi-duare due differenti network (Fig. 3).

108

Page 101: Tipicamente Buono

Figura 3 – Fase iniziale

Il primo network ha come nodo centrale l’APA di Pistoia, e in particolareil suo direttore, che può vantare un rapporto consolidato con gli allevatori, in-seriti a loro volta in piccoli circuiti commerciali (rapporti con clienti abitualiche comprano regolarmente il formaggio in azienda e con alcuni negozi loca-li); in tale network la locale ASL agisce sui produttori attraverso i propri fun-zionari addetti al controllo. Nel secondo network il nodo centrale è rappre-sentato dall’unità locale di Slow Food (la Condotta), la quale agisce sul terri-torio ma fa parte della più ampia rete di Slow Food, ed è quindi connessa concircuiti di commercializzazione e promozione più ampi.

L’inizio del ciclo della valorizzazione può essere fatto risalire al momen-to in cui il sistema produttivo locale si è trovato di fronte ad un concreto ri-schio di sopravvivenza per effetto dei vincoli imposti dalle norme igienico-sanitarie. La genesi del problema risale alla fine degli anni ’90, in seguito al-l’entrata in vigore di nuove e più stringenti normative nazionali ed europeeche hanno imposto profondi cambiamenti strutturali e maggiori controlli sul-le condizioni igieniche delle aziende. In particolare, il decreto ministerialen.54/1997 imponeva severe condizioni per la produzione di formaggio a lat-te crudo, rendendo necessario l’adeguamento delle strutture produttive e il ri-spetto di una soglia massima di batteri nel latte (inferiore a 500.000 ger-mi/ml) per la produzione di formaggio a latte crudo. A fronte dell’inadegua-tezza dei caratteri strutturali delle aziende, le autorità sanitarie erano portatea non autorizzare, o ad ostacolare fortemente, l’uso del latte crudo nella pro-duzione del formaggio.

Interessamento

Alla fine della prima fase dunque, l’iniziativa si genera come risposta allapressione derivante dalla nuova normativa, e cioè alla necessità per il sistema

109

Produttori

ASL

APAConsumatori

locali

Dettagliantilocali

Slow food

locale

Slow food

ItaliaRistoranti

Consumatori

esterni

ASL

APAConsumatori

locali

Dettagliantilocali

Slow food

locale

Slow food

ItaliaRistoranti

Consumatori

esterni

Page 102: Tipicamente Buono

produttivo di trovare un accordo con le autorità sanitarie locali in cui da unaparte i produttori si impegnino ad un adeguamento delle strutture e delle pra-tiche di allevamento, e dall’altra l’autorità sanitaria locale accetti l’uso del lat-te crudo (di fatto non proibito dalla normativa). A tale scopo il direttore del-l’APA avvia intensi contatti con le autorità sanitarie locali, l’Università di Fi-renze e la Regione Toscana per individuare soluzioni tecniche e un’interpre-tazione delle norme tali da autorizzare l’uso del latte crudo.

Nel contempo, nell’ambito del progetto dell’Arca, finalizzato all’istituzio-ne dei Presidi, il fiduciario locale di Slow Food individua nel Pecorino a lattecrudo delle Montagne Pistoiesi un significativo prodotto tradizionale (e rela-tivo sistema produttivo) in difficoltà.

Figura 4 – Il network nella fase di interessamento

Nel 2000 il direttore dell’APA incontra il fiduciario di Slow Food durantela sua attività sulle Montagne Pistoiesi e da tale momento inizia tra i due lacondivisione dello stesso obiettivo: integrare l’adeguamento alle nuove nor-mative igienico-sanitarie in un più complesso progetto di valorizzazione delprodotto. Con tale obiettivo di fondo i due aderiscono a finalità comuni diazione, quali:

– supportare gli allevatori nel processo di adeguamento ai nuovi standardigienico-sanitari conservando le tecniche di produzione e di stagionaturatradizionali;

– sviluppare la valorizzazione commerciale del prodotto;– associare la valorizzazione del prodotto con lo sviluppo locale.

È evidente in questa fase il nuovo network (Fig. 4) che si viene a crearedall’integrazione tra la rete locale e la rete di Slow Food, alla cui base sta lacondivisione del significato attribuito alla specifica qualità del prodotto e de-

110

ASL UNIFI

APA

Comune

di

Cutigliano

Slow food Slow food

Italia

Consumatori

esterni

Ristoranti

Altre istituzioni locali

Produttori

Dettaglianti

Consumatori

locali

Camera di

Commercio

Regione

Toscana

ASL UNIFI

Comune

di

Cutigliano

Slow food Slow food

Italia

Consumatori

esterni

Ristoranti

Altre istituzioni locali

Produttori

Dettaglianti

Consumatori

locali

Camera di

Commercio

Regione

Toscana

Page 103: Tipicamente Buono

gli obiettivi della sua valorizzazione; sono anche evidenti i rapporti che l’A-PA comincia a rafforzare con le istituzioni locali.

Assunzione dei ruoli

Gli attori principali del nuovo network così costituitosi attivano le propriereti di relazioni per promuovere gli obiettivi dell’iniziativa e in particolare ri-solvere i problemi di relazione con le autorità sanitarie, dare visibilità al pro-dotto, finanziare le prime iniziative.

Nel 2001, un anno dopo l’inizio della collaborazione, i tecnici dell’APApredispongono un disciplinare che regolamenta la produzione del pecorino alatte crudo. L’esistenza di un disciplinare, a sua volta, agevola l’istituzione delPresidio Slow Food (il primo Presidio italiano), nel luglio dello stesso anno.All’operazione prendono parte anche le Istituzioni locali – la Provincia di Pi-stoia, la Camera di Commercio locale e la Comunità Montana -, le quali so-stengono interamente i costi per la partecipazione degli allevatori al Presidio.

La necessità di sensibilizzare i produttori intorno alle norme a cui attener-si per la produzione della specifica qualità implica un rafforzamento del ruo-lo dell’APA, la quale è tra l’altro sempre più impegnata nelle attività promo-zionali. Per affrontare tali aspetti l’APA convince gli allevatori a formare unConsorzio, chiamato “Montagne e Valli di Pistoia”, con l’obiettivo specificodi promuovere il pecorino a latte crudo. Il direttore dell’APA diventa anchepresidente del Consorzio. Anche la creazione del Consorzio è un momentoimportante di coinvolgimento delle istituzioni locali, quali il Comune di Cuti-gliano, la Comunità Montana e la Provincia di Pistoia, le quali forniscono ilsupporto finanziario per la costituzione del Consorzio e per la realizzazionedelle sue attività.

Figura 5 – Il network nella fase di assunzione dei ruoli

111

Regione

Toscana

Consorzio

ASLUNIFI

Comune

Cutigliano

Slow food

Slow food

Italia

Consumatori

esterni

Ristoranti

Altre istituzioni locali

Dettaglianti

Consumatori

locali

Comunit

Montana

APAAPA

Provincia

Camera di

Commercio

Regione

Toscana

Consorzio

ASLUNIFI

Comune

Cutigliano

Slow food

Slow food

Italia

Consumatori

esterni

Ristoranti

Altre istituzioni locali

Dettaglianti

Consumatori

locali

Comunità

Montana

APAAPA

Provincia

Camera di

Commercio

Page 104: Tipicamente Buono

Durante questa fase, dunque, il nuovo network porta alla formazione diuna nuova struttura organizzativa (macro-attore) – il Consorzio di Tutela – de-positaria del marchio collettivo e, come tale, in grado di comunicare e garan-tire la qualità del prodotto ai consumatori (Fig. 5). Il Consorzio fornisce cosìuna rappresentazione simbolica per il prodotto e per il suo sistema produttivo,contribuendo a rafforzarne il senso di identità e l’immagine.

Mobilizzazione

La seconda fase di questo processo è rappresentata dalla valorizzazionecommerciale del prodotto. In questo stadio, il network delineatosi preceden-temente opera come un unico soggetto, il cui nucleo è rappresentato dal Con-sorzio, e fa convergere gli interessi degli attori coinvolti verso l’obiettivo co-mune della promozione del prodotto sul mercato (Fig. 6). Il ruolo del Con-sorzio è quello di facilitare i processi di apprendimento fra i produttori (essorappresenta un canale per l’introduzione di innovazioni, lo scambio di infor-mazioni e di conoscenze tecniche, nonché per l’interazione dei produttoristessi con le istituzioni); inoltre, il Consorzio organizza le attività di promo-zione e la partecipazione ai principali eventi regionali e nazionali organizzatida Slow Food.

Slow Food, dal canto suo, offre agli attori locali i concetti necessari perrafforzare le rappresentazioni del prodotto e del suo sistema produttivo, dacondividere internamente e da comunicare all’esterno; esso inoltre fornisce ilcapitale simbolico per migliorare la visibilità e consentire la differenziazionedel prodotto. Ciò permette agli allevatori di ridisegnare le proprie reti com-merciali, mantenendo attivo il contatto diretto con i clienti abituali, ma allostesso tempo inserendosi in circuiti ben più ampi e diversificati.

Figura 6 – Il network nella fase di mobilizzazione

112

Consorzio

ASL

UNIFI

Comune Cutigliano

Slow food

Slow food Italia

Consumatori esterni

Ristoranti

Altre isti tuzioni locali

Dettaglianti

Consumatori locali

ComunitàMontana

RegioneToscana

APAAPA

Provincia

Camera di Commercio

Consorzio

ASL

UNIFI

Comune Cutigliano

Slow food

Slow food Italia

Consumatori esterni

Ristoranti

Altre isti tuzioni locali

Dettaglianti

Consumatori locali

ComunitàMontana

RegioneToscana

APAAPA

Provincia

Camera di Commercio

Page 105: Tipicamente Buono

Tutto ciò porta ad un consolidamento delle relazioni interne al network, avantaggio della sua stabilità, mentre il capitale simbolico creato in collabora-zione con Slow Food attutisce le minacce competitive provenienti dall’am-biente esterno.

Nuovi possibili cicli

In questo stadio del processo di valorizzazione vengono a delinearsi inmodo visibile nuove problematiche. Il successo del prodotto stimola diversisoggetti a ricercare possibilità di sviluppo dell’iniziativa sotto il profilo quan-titativo. È significativo, al riguardo, l’avvio della procedura per il riconosci-mento di una DOP, sotto forte sollecitazione da parte delle Istituzioni locali.Tale denominazione favorirebbe l’allargamento del sistema produttivo a pro-duttori che finora non hanno fatto parte del Consorzio (per mancata adesioneal disciplinare o non condivisione degli obiettivi o per volere degli stessimembri), ma che rappresentano una quota importante della produzione di pe-corino nell’area. In che modo la crescita quantitativa potrebbe influenzare laconcezione prevalente della qualità e modificare l’attuale assetto raggiuntodai network? È evidente che l’apertura del network imposta da una DOP po-trebbe limitare l’autonomia dei produttori e ridurre la capacità di mantenere ilcontrollo sui quantitativi prodotti e sulla qualità dei prodotti, con possibili ri-percussioni anche sui prezzi.

Su un altro piano, emerge una situazione di potenziale conflitto tra gli ope-ratori locali per il controllo delle iniziative di promozione, di fatto moltiplica-tesi a seguito della maturata consapevolezza da parte di tutti gli attori coin-volti della notorietà acquisita dal pecorino. Ciò sembra indicare l’avvio di unnuovo e necessario processo di translazione, rivolto, attraverso il coinvolgi-mento di tutti gli attori locali, alla gestione e promozione delle risorse endo-gene in una più ampia prospettiva di valorizzazione.

5.4. Alcuni elementi di riflessione

Il caso esposto mostra come un prodotto tradizionale a rischio di estinzio-ne per effetto della modernizzazione sia divenuto, attraverso una presa di co-scienza della comunità locale, la risorsa chiave attorno alla quale si è raffor-zato e sviluppato un reticolo sociale. All’interno di tale processo, attraversol’interazione tra soggetti diversi, l’identità locale, il significato e l’immaginedello specifico prodotto e delle altre risorse dell’area si sono rafforzate e han-no cominciato ad essere comunicate e valorizzate all’esterno.

Da un punto di vista teorico-metodologico, analizzare la storia secondo loschema concettuale dell’actor network e lo schema del ciclo della translazio-ne ha consentito di esaminare in profondità il processo di creazione dei lega-mi relazionali, individuare quali sono stati i percorsi che hanno portato gli at-

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Page 106: Tipicamente Buono

tori a migliorare la propria capacità di negoziazione e acquisizione di potereall’interno delle reti ed evidenziare il processo con cui una nuova struttura or-ganizzativa è stata creata e formalizzata e ha cominciato a relazionarsi con re-ti esterne al contesto locale.

6. Conclusioni

In un contesto caratterizzato da forti spinte alla globalizzazione del siste-ma agroalimentare che determina una crescente riduzione del legame dei pro-cessi produttivi agricoli con i contesti di consumo ed ha impatti rilevanti sot-to il profilo socio-economico ed ambientale, negli ultimi anni stanno emer-gendo nuove istanze provenienti sia dal mondo del consumo, sempre più cri-tico nei confronti delle suddette tendenze, che dalle realtà produttive chemaggiormente risentono degli effetti di tali processi, quali ad esempio i siste-mi produttivi legati alla presenza di prodotti tipici.

Dal punto di vista della ricerca, è sorta la necessità di individuare stru-menti interpretativi idonei a spiegare la complessità dei suddetti processi, fo-calizzando in particolare sulle relazioni che si instaurano all’interno dei siste-mi produttivi, a livello territoriale, e tra questi e la realtà esterna. Relazioniche, come è stato ampiamente illustrato, vanno oltre il momento di puroscambio economico ma si configurano come ambiti di comunicazione tra gliattori coinvolti, all’interno dei quali avvengono quei processi di costruzione econsolidamento di significati condivisi che sono fondamentali per il successodelle iniziative di valorizzazione.

A tale scopo, l’approccio analitico più adatto appare quello dell’actor-network e del “ciclo della translazione”, attraverso il quale è possibile ap-profondire ed interpretare le dinamiche organizzative tra i diversi attori. Conl’analisi di network è possibile in particolare spiegare in che modo attraversol’interazione sociale si generi e si riproduca il capitale endogeno di un terri-torio (nelle sue diverse componenti di capitale umano, sociale, culturale e na-turale), come questo capitale territoriale venga incorporato nei prodotti ed inche modo tale capitale, attraverso la creazione di capitale simbolico nell’inte-razione con le reti esterne, venga mobilizzato per creare valore.

La validità di tale metodologia analitica è stata esemplificata attraverso lasua applicazione ad uno dei casi di studio condotti nella ricerca a cui il lavo-ro fa riferimento. L’ottica di analisi è stata quella di leggere il processo orga-nizzativo finalizzato alla valorizzazione del prodotto locale come un percorsodi costruzione di un network e di sua evoluzione verso specifiche forme isti-tuzionali. In particolare, tale percorso è stato analizzato e descritto seguendole quattro fondamentali fasi del “ciclo della translazione”.

L’interpretazione delle dinamiche di un’iniziativa di valorizzazione attra-verso l’approccio del network, entrando dentro i meccanismi alla base dei

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Page 107: Tipicamente Buono

processi organizzativi attivati dalla necessità/volontà di realizzare una strate-gia collettiva, può anche rappresentare un valido strumento per valutare i ri-sultati conseguiti dall’iniziativa stessa e per individuarne gli eventuali motividi insuccesso. A conclusione di questo capitolo vogliamo tratteggiare alcunielementi utili per strumenti di valutazione e autovalutazione delle iniziative divalorizzazione.

Lo schema logico di una valutazione di questi processi è stato illustratonella figura 2, in cui la situazione di partenza dà luogo ad un problema cheviene affrontato attraverso iniziative collettive; queste si sviluppano attraver-so cicli di translazione, all’interno dei quali avviene il processo di integrazio-ne e allineamento tra i diversi interessi degli attori coinvolti, e producono de-gli output che generano un impatto sul contesto di riferimento.

Coerentemente a questo schema, gli elementi da considerare nella valuta-zione sono qui sinteticamente riportati:

– gli attori presenti e quindi la loro rappresentatività rispetto al sistema/co-munità: aspetto particolarmente importante nelle prime fasi del percorso,in cui il problema individuato dai promotori deve essere condiviso da tut-ti i soggetti coinvolti e stimolare la loro partecipazione alla definizionedella strategia comune;

– il ruolo degli attori, con particolare riferimento al grado di autonomia/di-pendenza che il rapporto con gli altri attori determina in relazione ai flus-si di risorse;

– l’influenza di interessi particolari nella messa a punto della strategia daperseguire collettivamente e il rapporto con gli interessi collettivi;

– le risorse scambiate, in relazione al ruolo rivestito dagli attori coinvolti:ciò considerando la diversità delle risorse scambiabili – informazione, co-noscenze, capitali – e la loro importanza nei processi di istituzionalizza-zione a carico delle forme organizzative e dei relativi strumenti operativi;

– i processi di istituzionalizzazione dei rapporti tra attori e con gli interme-diari (sono esempi di tali processi la creazione di un consorzio, la defini-zione di un disciplinare di produzione, l’istituzione di un marchio colletti-vo, ecc.);

– l’evoluzione delle regole di interazione e di apertura ad altri attori che gliattori iniziali si danno.

Per quello che riguarda i risultati dei processi di valorizzazione, questivanno analizzati attraverso un esame dei prodotti, che includono tanto ogget-ti materiali quanto immateriali (marchi, forme organizzative, acquisizione diconoscenze, stabilizzazione di relazioni, ecc.), dei processi (da misurare attra-verso miglioramenti nella capacità di mobilizzazione del capitale territoriale)e infine degli impatti (economici, sociali, ambientali), spesso valutabili solonel medio-lungo periodo.

115

Page 108: Tipicamente Buono

Una valutazione così impostata può stimolare quella riflessione critica in-terna al sistema necessaria a individuare i possibili aggiustamenti da apporta-re al percorso di valorizzazione, e può anche rappresentare una base per la se-lezione di progetti nell’ambito delle politiche di sostegno.

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1. Introduzione

Il tema della qualità ha assunto un ruolo centrale nel dibattito sulla com-petitività del sistema agroalimentare, soprattutto dopo la riforma di MedioTermine delle politiche agricole comunitarie del 2003, che lascia oggi alle im-prese agricole (quasi) la più ampia libertà di impostare le produzioni sulla ba-se delle richieste di mercato, ma d’altra parte riduce le protezioni su cui daanni il sistema agroalimentare aveva potuto contare.

La sfera della qualità come chiave per rafforzare la competitività delle im-prese e del sistema rispetto ad una concorrenza sempre più globale racchiudeun ampio e variegato spettro di dimensioni, tra cui particolare importanza ri-vestono quelle più strettamente legate alla qualità dei prodotti e dei processi.Allo stesso tempo i numerosi scandali alimentari e le recenti emergenze sani-tarie (BSE, influenza aviaria), aggravate proprio dalla internazionalizzazionedei sistemi di produzione e degli scambi commerciali, inasprisce la crisi di fi-ducia dei consumatori, da un lato rafforzando la domanda di informazioni af-fidabili sulla provenienza dei prodotti e sulle caratteristiche dei processi pro-duttivi adottati (sistemi di tracciabilità ed etichettatura, sistemi di certificazio-ne di prodotto e di processo), e dall’altro orientando i consumatori verso il re-cupero di canali corti e/o “alternativi”1 (Gilg e Battershill, 1998; Ilbery e

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6. I PERCORSI DI ISTITUZIONALIZZAZIONEDELLE PRODUZIONI AGROALIMENTARI TIPICHE*

di Giovanni Belletti, Andrea Marescotti

*. Il presente capitolo è stato concepito dagli Autori in maniera congiunta; sono comunqueda attribuirsi ad Andrea Marescotti i paragrafi 1, 2.1, 2.2, 3.1 e 3.3, e a Giovanni Belletti i pa-ragrafi 2.3, 2.4, 3.2 e 4. Le considerazioni contenute nel capitolo sono il risultato delle attivitàdi ricerca e delle riflessioni condotte nell’ambito dei WP.4 e WP5 della ricerca, cui hanno con-tribuito Gianluca Brunori, Adanella Rossi, Massimo Rovai e Raffaella Cerruti del Dipartimen-to di Agronomia e Gestione dell’Agroecosistema dellUniversità di Pisa, e Alessandro Pacciani,Giovanni Belletti, Tunia Burgassi, Andrea Marescotti e Silvia Scaramuzzi del Dipartimento diScienze Economiche dell’Università di Firenze.

1. La definizione di “alternativo” è ancora oggetto di discussione accademica. Si veda adesempio Goodman (2004) e Ilbery e Maye (2005).

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Kneafsey, 1999; Parrott, Wilson e Murdoch, 2002; Goodman, 2003; Sage,2003; Renting, Marsden e Banks, 2003) all’interno dei quali il prodotto scam-biato è più uno strumento di condivisione di valori (sociali, culturali, etici,ambientali, etc.) che un oggetto di consumo alimentare.

In questo ambito un ruolo particolare è rivestito dai prodotti agroalimenta-ri tipici, che infatti, per il peculiare legame esistente tra la qualità del prodot-to e il territorio di origine, sembrano in grado di fornire una risposta sia allerichieste di qualità di prodotto e di processo, sia alla necessità di recuperarela fiducia nel sistema produttivo tramite una riattivazione dei legami su scalalocale.

In sintesi, le giustificazioni richiamate a supporto della necessità di pro-teggere e valorizzare i prodotti tipici, frutto di un’evoluzione di più di un se-colo di storia delle indicazioni geografiche (Sylvander et al., 2005) si basanosui seguenti principi (Pacciani et al., 2006):

1) i prodotti tipici rappresentano uno strumento per sfuggire alla concorrenzasul lato dei costi di produzione, la cui pressione è percepita in misura cre-scente come una reale minaccia alla competitività dell’agricoltura nazio-nale e del sistema agroalimentare (la giustificazione di mercato);

2) per il legame multi-dimensionale al territorio, i prodotti tipici esercitanoeffetti positivi sullo sviluppo rurale, contribuendo a mantenere tradizioni eculture, sistemi sociali ed economici vitali soprattutto nelle aree svantag-giate e marginali, con effetti di spillover sull’economia locale (la giustifi-cazione dello sviluppo rurale);

3) i consumatori mostrano un crescente interesse verso i prodotti tipici permolte ragioni, essendo normalmente percepiti come più genuini e salubririspetto ai prodotti con identità sconosciuta, di livello qualitativo superio-re, e consentono ai consumatori di mostrare solidarietà e partecipazionenei confronti delle culture e identità locali (la giustificazione del consuma-tore);

4) i prodotti tipici costituiscono un’importante bandiera/simbolo della cultu-ra italiana in tutto il mondo, e dunque devono essere protetti dalle imita-zioni e usurpazioni di denominazione per fornire ai consumatori un’infor-mazione corretta e leale (la giustificazione della concorrenza leale).

Queste giustificazioni sono contenute anche nei consideranda del reg.CEE 2081/92, il regolamento comunitario che ha istituito un sistema di pro-tezione delle denominazioni dei prodotti agroalimentari tipici diversi dal vinointroducendo la Denominazione di Origine Protetta (DOP) e l’IndicazioneGeografica Protetta (IGP).

DOP e IGP sono sempre più visti da un diversificato set di attori del siste-ma agroalimentare come strumenti per la tutela e la valorizzazione dei pro-dotti tipici. Il recente primato raggiunto dall’Italia nel numero totale di pro-dotti agroalimentari che hanno ottenuto la protezione comunitaria testimonia

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come la promozione dei prodotti tipici sia al centro delle strategie di rilanciodel sistema agroalimentare nazionale, andando ad interessare sia prodotti dinicchia, realizzati su piccola scala in aree territoriali molto circoscritte, cheprodotti di rilevanza internazionale.

In particolare, a livello politico-istituzionale, si riscontra una convergenzasul principio che i prodotti DOP e IGP, e i prodotti tipici più in generale, eser-citano – comparativamente ai prodotti convenzionali – effetti positivi sul set-tore agricolo e sullo sviluppo rurale, e vanno incontro alle richieste dei con-sumatori verso prodotti di alta qualità. È sottinteso alle giustificazioni forniteil riferimento ad un idealtipo di prodotto tipico fortemente collegato alle ri-sorse specifiche locali e per questo in grado di attivare un “circolo virtuoso”(Boisseaux, 2002): l’ottenimento della DOP/IGP avrebbe effetti positivi tali –in termini economici, sociali, ambientali, etc. – da ottenere una sufficiente re-munerazione per riprodurre le risorse utilizzate nel processo produttivo, ga-rantendone così la sostenibilità (Belletti et al., 2004).

In realtà ancora poche ricerche sono state condotte sia sul contributo deiprodotti tipici, che sugli effetti dell’ottenimento delle DOP/IGP, e ancora me-no sulle fasi ex-ante rispetto all’ottenimento della protezione comunitaria, ov-vero sui percorsi che portano all’istituzionalizzazione di una risorsa specificalocale quale la “tipicità territoriale”.

Obiettivo di questo capitolo è dunque quello di analizzare le motivazioniche portano le diverse categorie di operatori coinvolti ad avviare il percorso diriconoscimento della DOP/IGP, cercando di metterne in risalto i principaliostacoli e motivi di attrito, anche attraverso la lettura di alcuni casi di studio.

Il lavoro è organizzato come segue. Nel prossimo paragrafo sarà fornitoun quadro di riferimento concettuale sui percorsi di istituzionalizzazione.Successivamente l’attenzione verrà dedicata all’analisi dei casi di studio, deiquali verrà presentato il percorso seguito per la costruzione del Disciplinaredi Produzione, gli attori coinvolti e gli ostacoli incontrati per il raggiungi-mento della richiesta di riconoscimento ai sensi del reg. CEE 2081/92. Il pa-ragrafo conclusivo raccoglie alcune considerazioni sulla base delle esperien-ze osservate.

2. Quadro di riferimento teorico

2.1. Il percorso di istituzionalizzazione, l’allineamento dei piani individua-li e la modifica delle condizioni di concorrenza

L’ottenimento della protezione comunitaria ai sensi del reg. CEE 2081/92,sia che si tratti di una DOP che di una IGP, procede da una richiesta, presen-tata da un’associazione rappresentativa della realtà produttiva locale, nellaquale, oltre ad essere fornite prove della tradizione storica del prodotto nel-

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l’area e del legame tra la qualità dello stesso e il territorio di origine (relazio-ne storica e relazione tecnica), viene allegato il Disciplinare di Produzione (daqui in avanti DP), che contiene la specificazione delle caratteristiche dellematerie prime, del processo produttivo e dei requisiti qualitativi del prodottofinale, nonché dell’area in cui è possibile svolgere le varie fasi del processoproduttivo (o soltanto alcune, come nel caso della IGP).

Una volta ottenuta la protezione comunitaria, i produttori che vogliano eti-chettare i propri prodotti con la DOP/IGP devono rispettare le prescrizionicontenute all’interno del DP, che diventa dunque il documento più importan-te per il funzionamento della DOP/IGP, assieme al Piano dei Controlli che daesso deriva e che viene redatto di concerto con l’Organismo di Controllo.

La richiesta della protezione comunitaria, ovvero l’istituzionalizzazionedella denominazione del prodotto, può dunque essere analizzata come un pro-cesso collettivo che conduce ad una codificazione delle regole di produzionedel prodotto tipico in vista di una validazione e legittimazione da parte diun’Autorità (in questo caso l’Unione Europea). In particolare la stesura delDP può essere vista come una procedura di costituzione di uno standard vo-lontario di qualità di prodotto (Henson e Reardon, 2005) nell’ambito di unacornice normativa di riferimento fornita dal reg.CEE 2081/92, ovvero, adot-tando l’approccio della teoria delle convenzioni (Boltanski e Thévenot, 1991;Thévenot, 1995; Favereau, 1995) alla qualità (Gomez, 1994; Eymard-Duver-nay, 1989; Barham, 2003), come la costituzione e formalizzazione di una con-venzione di qualità ad opera di un numero di attori che devono trovare uncompromesso a partire dalle rispettive concezioni di qualità, eventualmenteraggiungendo un effettivo allineamento dei rispettivi piani individuali (deSainte Marie e Casabianca, 1995).

Normalmente la necessità di pervenire ad una definizione comune di qua-lità, sia essa creata ex novo o frutto di una negoziazione tra concezioni esi-stenti ma eterogenee, viene sollecitata da situazioni di crisi (di fiducia dell’o-pinione pubblica o dei consumatori, di mercato, etc.) che spinge gli attori al-la ricerca di un accordo, che necessita a sua volta di essere convalidato daagenti esterni (riconosciuto dal mercato e/o legittimato da un’Autorità). Sequesto processo ha esito positivo, allora si viene a creare una (nuova) con-venzione di qualità, ovvero un meccanismo cognitivo collettivo (Favereau,1999) capace di agevolare il coordinamento tra gli operatori (Sylvander, Bel-letti, Marescotti e Thévenod-Mottet, 2003).

I tre principali aspetti che devono trovare mediazione all’interno del DP –definizione del processo produttivo, delle caratteristiche del prodotto finale,dell’area di produzione (Bérard et al., 2000; Lassaut e Le Meur-Baudry,1998) – rappresentano leve molto potenti in funzione della qualificazione delprodotto, e possono essere utilizzate da imprese o gruppi di imprese per mo-dificare le condizioni strutturali di concorrenza tra territori di produzione e trale diverse fasi della filiera, al fine di massimizzare i vantaggi ottenibili dalla

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reputazione della denominazione del prodotto, o anche a beneficiare del “ha-lo country effect” (Almonte et al., 1996) connesso al nome geografico (es. perle denominazioni “Toscana”, o “Montalcino”, o “Chianti”).

In sede di analisi empirica non sempre è agevole distinguere, nelle argo-mentazioni degli attori che prendono parte attiva nei processi di istituziona-lizzazione, le motivazioni di tipo “offensivo”, legate cioè alla volontà dirafforzare la qualità e l’immagine del prodotto tipico con finalità di migliora-re la penetrazione sui mercati e supportare le azioni di marketing, da quelle ditipo “difensivo” o di ricerca di rendite, che sono invece motivate dalla neces-sità di un determinato nucleo di attori di proteggere da soggetti esterni le ri-sorse che nel tempo sono state dedicate alla “costruzione” della reputazionedel prodotto stesso.

La specificità del caso dei prodotti tipici risiede nel fatto che la reputazio-ne acquisita dalla denominazione geografica del prodotto può essere conside-rata una risorsa collettiva immateriale a libero accesso e dunque soggetta aproblemi di sovrasfruttamento e opportunismo da parte delle imprese, e con-seguente possibile estinzione (Belletti, 2001). Il processo di istituzionalizza-zione mediante riconoscimento della DOP-IGP trasforma il nome geografico(e la reputazione che esso incorpora) in un bene di tipo “club” (Thiedig e Syl-vander, 2000), caratterizzato però dal fatto di essere locale e selettivo (di po-ter cioè essere fruito solo dalle imprese che operano in un determinato terri-torio e che si adeguano a determinate regole di produzione). Inoltre nei pro-dotti tipici la “costituzione” della convenzione di qualità, cioè il raggiungi-mento di una definizione comune e condivisa sulla qualità del prodotto tipicooggetto di domanda di protezione e che si traduce nei contenuti del DP, nonviene creata dal nulla, ma attivata da un gruppo di attori che elaborano e ne-goziano “varianti” della concezione di qualità del prodotto tipico stesso giàpresenti e attive sul territorio, e che derivano da una conoscenza condivisa se-dimentata nel tempo e reinterpretata dagli attori locali in relazione all’evolu-zione della società e dell’economia globale e locale e alla luce degli obiettiviche essi si pongono.

2.2. L’eterogeneità degli attori

I percorsi di istituzionalizzazione legati alla richiesta della DOP/IGP pos-sono essere più o meno complessi a seconda del grado di eterogeneità dellecaratteristiche degli attori coinvolti.

Attorno al prodotto tipico infatti si condensa una pluralità di interessi chetravalica l’ambito delle attività delle imprese per abbracciare, a seconda dei ca-si e in misura più o meno intensa, altre categorie di attori interessati diretta-mente o indirettamente alla protezione e alla valorizzazione del prodotto tipi-co, anche in virtù dei diversificati “valori” che il prodotto tipico stesso è in gra-

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do di generare, e che vanno oltre la sfera prettamente economica per abbrac-ciare la dimensione sociale, culturale, ambientale, così come già ricordato nel-l’introduzione (Allaire e Belletti, 2002; Belletti et al., 2003; Belletti, 2003).

Certamente la categoria più importante è costituita dalle imprese che rea-lizzano o possono realizzare il prodotto tipico stesso nell’area tradizionale diproduzione. Le difficoltà incontrate nel raggiungere una mediazione, ed ancorpiù una visione condivisa, circa la qualità del prodotto saranno normalmentetanto maggiori quanto più numerose sono le fasi della filiera locale di produ-zione del prodotto tipico, e quanto maggiore è l’eterogeneità delle caratteri-stiche delle imprese in ciascuna fase della filiera, dal punto di vista della lo-calizzazione produttiva, dei bacini di approvvigionamento, delle tecniche pro-duttive, dei mercati serviti, delle dimensioni economiche, del grado di specia-lizzazione delle attività e del livello di professionalità. L’eterogeneità dellecaratteristiche degli attori si riflette in costi di produzione diversi e in diffe-renze anche sensibili degli attributi di qualità del prodotto ottenuto, che por-tano alla elaborazione di concezioni di qualità differenti e talvolta alla possi-bile coesistenza di diverse “varianti” del prodotto.

Molto spesso, trattandosi di processi produttivi a carattere artigianale nelcui ambito l’intervento dell’uomo riveste un ruolo fondamentale e impedisceuna spinta industrializzazione dei processi, i sistemi produttivi dei prodotti ti-pici sono composti per lo più da piccole e medie imprese, spesso non specia-lizzate sulla produzione del prodotto tipico. A rafforzare la peculiarità dei si-stemi produttivi legati ai prodotti tipici concorre spesso la presenza di un in-sieme eterogeneo di produttori “non-impresa”, la cui attività è condotta inmaniera hobbistica, in modo part-time, saltuario, per “passione”, per integra-zione di reddito. La diversità di caratteristiche e di obiettivi può generare ten-sione all’interno del sistema, anche nella fase di istituzionalizzazione dellaqualità tramite la richiesta della DOP/IGP, dove i “passionari” sono solita-mente più legati al rispetto della storia e della tradizione per la salvaguardiadell’identità e dell’origine culturale del prodotto, mentre le imprese più pro-fessionali sono maggiormente propense ad adattare le caratteristiche del pro-cesso produttivo e del prodotto alle esigenze di mercato.

A fianco del sistema delle imprese partecipano solitamente alla costruzionedel DP altre categorie di attori, tra cui un ruolo particolare è rivestito dalle isti-tuzioni pubbliche locali e dalle “istituzioni intermedie” (associazioni di pro-duttori e consorzi, Camere di Commercio, associazioni di consumatori), porta-tori di concezioni di qualità e di interessi talvolta divergenti, essendo interessa-te anche ad altre componenti del “valore” del prodotto tipico stesso (Belletti,2003). Il ruolo delle istituzioni pubbliche locali è particolarmente importantenei percorsi di istituzionalizzazione delle produzioni agroalimentari tipiche:per esse infatti la promozione di una DOP/IGP è un modo relativamente pococostoso di acquistare visibilità e massimizzare il consenso politico a livello lo-cale. Questo modus operandi ha molte conseguenze sul processo di istituzio-

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nalizzazione: la ricerca del consenso politico può condurre infatti le istituzionipubbliche locali a cercare di includere il maggior numero possibile di produt-tori / aree territoriali, minacciando il livello qualitativo del prodotto oggetto diprotezione, e soprattutto la coesione tra produttori locali (Carbone, 2003).

2.3. Le strategie perseguibili dagli attori attraverso il processo di istituzio-nalizzazione

La valorizzazione dei prodotti tipici costituisce un grande potenziale disviluppo per le imprese e per le aree rurali, allorché riesca a utilizzare, remu-nerare e riprodurre le molte risorse specifiche locali su cui poggia la tipicità(Brunori e Rossi, 2000; Marsden et al., 2000; Belletti et al., 2005). Tuttavia ilmodo con cui queste risorse sono mobilizzate e valorizzate varia a secondadel tipo di attori coinvolti e delle strategie che intendono perseguire.

La diversità delle caratteristiche degli attori interessati direttamente e indi-rettamente all’avvio del percorso di istituzionalizzazione si riflette sulla com-plessità del raggiungimento di un accordo, e più in generale sulle strategiecollettive che con l’ottenimento della DOP/IGP si vogliono perseguire, e chesono legate alle aspettative di costi-benefici derivanti ai singoli attori dall’usodella denominazione geografica.

La valutazione se procedere o no alla richiesta di protezione è dunque unadecisione complessa, che dipende da una pluralità di fattori, non ultimo lareale necessità di disporre di un segno distintivo / di protezione a fronte dellecaratteristiche dei mercati potenziali e reali.

A livello collettivo alcuni studi hanno fornito una chiave di lettura degliorientamenti strategici presenti in sede di elaborazione di azioni di valorizza-zione dei prodotti tipici, identificando due principali strategie: la strategia difiliera e la strategia territoriale (Belletti, Marescotti e Scaramuzzi, 2002; Pac-ciani et al., 2003). Nella strategia di filiera l’attenzione principale degli atto-ri, in gran parte imprese e loro rappresentanze, è orientata al rafforzamentodella competitività del sistema produttivo sui mercati, e l’obiettivo principaleè quello di garantire la remunerazione delle risorse impiegate nel processoproduttivo, in particolare quelle locali specifiche. La strategia territoriale èinvece il riflesso della presenza di una maggiore diversificazione delle tipolo-gie di attori presenti e interessati al percorso di istituzionalizzazione, che siestende anche ad attori non di filiera (pubblica amministrazione, istituzioniintermedie rappresentative di interessi diffusi) che vedono nel prodotto tipicoun potenziale di sviluppo in virtù delle esternalità (ambientali, paesaggistiche,culturali, sociali, etc.) e degli effetti di spillover sull’economia e sullo svilup-po locale che può generare (Pecqueur, 2001).

Una seconda chiave di lettura interessa il carattere difensivo o piuttosto of-fensivo della strategia incentrata sull’ottenimento della DOP/IGP (Lassaut e

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Le Meur-Baudry, 1998). Nel primo caso la richiesta della protezione comuni-taria è motivata soprattutto dall’esigenza di ridurre i casi di appropriazionedel nome da parte di produttori “non aventi titolo”, ad esempio perché ritenu-ti realizzare il prodotto tipico al di fuori dell’area tradizionale di produzione,o con livelli qualitativi ritenuti insufficienti. Si tratta evidentemente di un’a-zione mirante ad escludere altri attori dall’uso di una denominazione la cuireputazione è già affermata sul mercato. Nel secondo caso invece la DOP/IGPè vista dagli attori come un modo di creare una reputazione ad un prodottoancora poco conosciuto se non sui mercati locali. L’ottenimento della prote-zione comunitaria si configura allora più come una leva di marketing per age-volare la penetrazione su nuovi mercati e il rafforzamento su quelli esistenti,che non come strumento giuridico di difesa da appropriazioni esterne.

Con questa doppia chiave di lettura delle strategie collettive degli attori èpossibile posizionare in una matrice alcuni percorsi analizzati nel corso dellaricerca, tenendo conto che si tratta delle strategie dominanti, e che dunque dinorma per uno stesso prodotto possono coesistere, pur con “pesi” diversi, di-versi atteggiamenti strategici:

Tipologie di atteggiamenti strategici dominanti presenti nei percorsi di istituzionaliz-zazione legati alla richiesta di una DOP/IGP

Difesa della reputazione Creazione di reputazione(strategia difensiva) (strategia offensiva)

Strategia Olio Toscano IGP Spinacio Val di Corniadi filiera Lardo di Colonnata IGP Prosciutto Toscano DOP

Pecorino Toscano DOP Vitellone Bianco dell’Appennino Marrone del Mugello IGP Centrale IGP

Strategia Fagiolo di Sorana IGP Pecorino Montagna PT territoriale Farina di Neccio della Ciliegia di Lari

Garfagnana IGP Agnello di Zeri

2.4. I possibili esiti dei percorsi di istituzionalizzazione

Eterogeneità degli attori e diversità delle strategie individuali e collettiveperseguite giocano evidentemente un ruolo determinante nel dirigere i percor-si di istituzionalizzazione che si basano sulla richiesta della protezione comu-nitaria tramite una DOP o una IGP2 (Barjolle, Chappuis e Sylvander, 1998;Belletti, Brunori, Marescotti e Rossi, 2003).

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2. In Italia l’attuazione del reg.CEE 2081/92, similmente a quanto accade in altri paesi del-l’UE ma contrariamente a quanto avviene ad esempio in Francia, non ha comportato sinora so-

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Le diverse finalità che gli attori perseguono possono portare a conflitti chesi traducono in un uso strategico delle tre leve “ processo, prodotto, area”, chetalvolta impediscono di giungere fino alla fine del percorso (ovvero fino allapresentazione della richiesta di protezione), o comunque a situazioni “ibride”all’interno delle quali il rischio di “snaturare” l’autenticità del prodotto appa-re elevato.

Rispetto alla definizione della qualità del prodotto, le concezioni indivi-duali di qualità devono trovare una mediazione all’interno del DP. Gran partedella flessibilità negoziale deriva dal grado di “radicamento” delle singole im-prese alle proprie concezioni di qualità, strettamente correlato alle rigiditàstrutturali (oltre che psicologiche) che le imprese presentano per adattarsi, eche derivano dall’entità e tipologia di risorse utilizzate all’interno dei singoliprocessi produttivi (investimenti materiali, capacità e competenze, organizza-zione, etc.).

La definizione dell’area di produzione, del processo produttivo e delle ca-ratteristiche del prodotto finito possono essere strumentali all’ottenimento diun livello desiderato di qualità del prodotto. In altri casi la fissazione di spe-cifiche di processo (ad es. l’obbligo di impiegare determinate tecniche ad ele-vata intensità di lavoro, o il fatto di vincolare la produzione a determinati fat-tori ad offerta scarsa), così come la delimitazione dell’area di produzione odella sola area di approvvigionamento della materia prima (ad es. ricorrendoa una IGP), possono essere perseguite indipendentemente dai loro effetti sul-la qualità del prodotto bensì per escludere, o includere, determinate tipologiedi impresa o per modificare le condizione di offerta o di domanda lungo la fi-liera di produzione3.

Nei percorsi di istituzionalizzazione un’elevata eterogeneità delle caratte-ristiche strutturali e gestionali delle imprese interessate alla protezione delladenominazione e delle loro concezioni di qualità può portare, a seconda dellaforza delle parti in gioco, alla definizione di disciplinari più o meno restritti-

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stanziali differenze nei contenuti dei Disciplinari di Produzione. Il regolamento comunitario ef-fettivamente richiede per l’ottenimento della DOP il rispetto di requisiti più rigidi che perl’IGP (nella DOP infatti tutte le fasi di produzione e trasformazione del prodotto devono insi-stere nella stessa area, e la qualità del prodotto deve derivare esclusivamente o essenzialmentedal legame col territorio di origine), ma la pratica attuazione, vuoi per la necessità di dare at-tuazione ai contenuti dell’art.17 del reg.CEE 2081/92 (procedura semplificata per i prodotti chegià in precedenza godevano di protezione della denominazione in base ad una normativa na-zionale), vuoi per un iniziale lungo periodo di scarsa chiarezza sulle norme presso gli operato-ri e le istituzioni preposte all’attuazione, hanno di fatto reso sino ad oggi molto simili le duedenominazioni.

3. In questo senso sono evidenti le differenze tra le IGP promosse dalle imprese della fa-se di trasformazione, che pur specificando in alcuni casi i requisiti qualitativi della materiaprima non ne ampliano l’approvvigionamento ad aree più estese, e le IGP promosse invecedalle imprese agricole, che ricercano una maggiore integrazione territoriale tra le varie fasidella filiera.

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vi. Le imprese che producono a livelli qualitativi superiori, e che si supponesostengano anche costi di produzione superiori, sono normalmente interessa-te a mantenere un elevato livello di qualità del prodotto, che porterebbe allaformazione di un DP particolarmente severo. Questo permetterebbe loro dicatturare interamente la rendita di reputazione associata alla Denominazionedel prodotto, evitando nel contempo una “diluizione” della reputazione deri-vante dall’eccessiva variabilità dei livelli qualitativi interni alla denominazio-ne che, come mostrato dal celebre saggio di Akerlof (1970), potrebbe portaread un fallimento di mercato.

D’altro lato le imprese che producono livelli qualitativi inferiori sono inte-ressate ad attivare la richiesta di protezione contando su un DP meno restrit-tivo, che permetterebbe loro di accedere alla denominazione con costi di pro-duzione e adattamento inferiori. I produttori di alta qualità saranno dunqueportati, in fase di costruzione del DP, a negoziare livelli qualitativi inferiori,pur di giungere ad un compromesso che almeno in parte tuteli i loro maggio-ri livelli qualitativi. Questo significa anche che il reg. CEE 2081/92 in alcunicasi può portare ad un compromesso che sminuisce la credibilità del prodottostesso (Anania e Nisticò, 2004).

L’introduzione di un sistema di diritti collettivi di proprietà, come quellodelle indicazioni geografiche, può condizionare anche la stessa evoluzionestrutturale del sistema produttivo locale e il grado di coesione tra imprese (Se-gre, 2003). Il nodo centrale è costituito dal difficile raggiungimento di unequilibrio tra i diritti individuali di proprietà, in quel caso condensati nel va-lore del marchio d‘impresa, e il diritto collettivo di proprietà che scaturiscedall’ottenimento di un‘indicazione geografica. Se il compromesso raggiuntosul DP individua un livello qualitativo del prodotto basso, vi sarà ampio spa-zio, man mano che si consolida la reputazione dell’indicazione geografica,per strategie individuali d’impresa volte ad innalzare e segnalare il livello in-dividuale di qualità, lasciando all’indicazione geografica il semplice ruolo disegnalare la presenza di una qualità minima, riducendo il potenziale “colletti-vo” dell’indicazione geografica.

Inoltre, in virtù della stretta interazione che sovente il sistema del prodot-to tipico ha col territorio di origine, alcune categorie di attori sono particolar-mente interessati alla codificazione di pratiche e comportamenti suscettibili diesercitare effetti positivi sull’agroecosistema e sul paesaggio locale, al limiteanche senza legami di tipo diretto con gli attributi intrinseci di qualità del pro-dotto finito. Anche su tale tematica si possono determinare conflitti tra attorimaggiormente ispirati ad una logica di filiera, particolarmente attenti al man-tenimento di una concorrenza di prezzo sul mercato, e attori ispirati ad unalogica di qualità territoriale, interessati agli effetti esterni del prodotto tipicosia sull’ambiente che su altre attività economiche e sociali locali.

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3. L’analisi dei casi di studio

3.1. La metodologia seguita

Il percorso di istituzionalizzazione viene dunque a configurarsi come unaccordo sulla qualità del prodotto tipico attivato da una pluralità di attori concaratteristiche e motivazioni spesso anche molto eterogenee. Da qui derival’importanza di analizzare il modo con cui si svolge il processo di allinea-mento attorno ad una definizione comune di qualità da codificarsi all’internodel DP, sulla base delle concezioni dei singoli attori che partecipano al pro-getto.

A questo scopo nel corso della ricerca sono stati analizzati i percorsi diistituzionalizzazione tramite DOP/IGP relativamente ad alcuni prodotti agro-alimentari tipici della Toscana. Per ciascun prodotto sono state ricostruite lecaratteristiche strutturali ed organizzative sia della filiera che del sistema so-cio-economico dell’area territoriale, al fine di evidenziare le tipologie dei sog-getti coinvolti nel “sistema” del prodotto tipico, le reti di relazioni tra gli at-tori e i nodi problematici, le diverse concezioni di qualità presenti, ricorrendoa interviste a testimoni privilegiati sia di tipo strutturato che di tipo aperto, ol-tre che ricorrendo ad un’analisi desk per la ricostruzione del contesto socio-economico di riferimento. Le indagini dirette hanno interessato imprese agri-cole, di intermediazione commerciale e di trasformazione. Altre interviste so-no state dirette alle istituzioni pubbliche e private (istituzioni intermedie)coinvolte nel processo di produzione, commercializzazione, promozione e va-lorizzazione dei prodotti oggetto d’analisi.

È stato poi analizzato il processo che porta alla decisione se presentare omeno la domanda di protezione ai sensi del reg. CEE 2081/92, quale punto diosservazione privilegiato per lo studio del processo di mediazione delle di-verse concezioni di qualità e delle aspettative degli attori (locali e non locali)circa la denominazione.

In questa sede presenteremo due casi di studio relativi a prodotti tipici del-la Toscana, il Lardo di Colonnata e la Ciliegia di Lari, mettendo in evidenzain particolare la diversità delle tipologie di operatori coinvolti nel processo diistituzionalizzazione, e le diverse concezioni di qualità del prodotto di cui so-no portatori.

3.2. Il Lardo di Colonnata IGP

3.2.1. Il quadro di riferimento e il sistema di produzione

La produzione del lardo è oggetto di lunga tradizione in numerose areedella Toscana nord-occidentale, ove è legata in particolare all’alimentazione

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dei cavatori di marmo e in generale delle popolazioni di montagna. A Colon-nata il lardo è stato per lungo tempo un prodotto per l’autoconsumo, che ognifamiglia del piccolo paese delle Apuane (oggi circa 300 abitanti) stagionavanella propria cantina in conche di marmo, materiale di facile reperibilità datal’ubicazione al centro di un importante bacino marmifero.

Dalla metà degli anni ’70 il lardo è divenuto oggetto di un processo di va-lorizzazione legato alla presenza di un flusso turistico di visitatori delle cavedi marmo, in virtù del quale alcuni produttori iniziarono a commercializzarlonei piccoli negozi di alimentari e negli esercizi di ristorazione del paese. Apartire dal 1980 la locale pro-loco organizza ogni anno la Sagra del lardo, cheha contribuito a rafforzare la tradizione della stagionatura del lardo e a darecoscienza agli abitanti della sua specificità.

Il numero dei produttori orientati alla vendita del prodotto è cresciuto so-prattutto negli anni più recenti, fino alle attuali circa 20 unità che presentanodimensioni e caratteristiche molto diverse (negozi di alimentari, ristoratori,appassionati); nessuno di essi era originariamente specializzato nella produ-zione di salumi. La materia prima non proviene dal paese e l’area di approv-vigionamento, con il venir meno dell’allevamento locale, si è progressiva-mente allargata e riguarda in particolare l’Emilia. I canali commerciali pertutti gli anni ‘90 erano rappresentati da negozi e alimentari locali, dalla ven-dita durante le manifestazioni in loco e limitrofe (feste e sagre), e dal collo-camento diretto a distanza verso utilizzatori finali privati o commerciali.

La contiguità territoriale e culturale e la sostanziale omogeneità tipologicadei produttori del piccolo paese ha favorito il persistere di una concezione diqualità del prodotto unitaria e in linea con tradizione locale.

3.2.2. Le motivazioni della richiesta della IGP

Il lardo prodotto a Colonnata è oggi “il lardo” per eccellenza, in conside-razione della notorietà che ha acquisito soprattutto a partire dal 1996, a causadella temporanea proibizione della sua produzione causata dalla presunta in-compatibilità con la normativa igienico-sanitaria della stagionatura effettuatain conche di marmo e nelle cantine. Il lardo di Colonnata è diventato uno de-gli emblemi del movimento culturale di difesa dei prodotti minacciati dallastandardizzazione indotta da normative calibrate sui prodotti industriali, adot-tato da Slow Food e oggetto di grande attenzione da parte dei mezzi di co-municazione di massa.

Il grande interesse di consumatori e distributori per il lardo di Colonnataha favorito la ripresa della produzione anche in aree limitrofe, ove già venivapraticata in passato con metodi simili; allo stesso tempo però si sono molti-plicate le imitazioni del prodotto originale, che nulla avevano a che fare conil metodo produttivo tradizionale. Nel frattempo il paese di Colonnata benefi-

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ciava di un incremento dell’attività turistica che favoriva la costituzione di“larderie”, locali in cui viene effettuata la produzione e la vendita e, in alcunicasi, il confezionamento.

L’esigenza di difendersi dagli attacchi sul fronte igienico-sanitario e la ne-cessità di tutelare il nome di Colonnata hanno determinato (con il supportodelle istituzioni locali, provincia, comune, ASL) l’avvio di una riflessionescientificamente fondata da parte dei produttori del paese, i quali hanno deci-so di riunirsi in una Associazione di tutela per la richiesta di IGP.

Tale richiesta si collocava in una strategia di filiera rivolta alla difesa del-la reputazione e alla regolazione dell’uso del nome del paese; parallelamenteanche alcuni produttori di aree limitrofe promuovevano la richiesta di una in-dicazione geografica riferita a un’area più ampia e caratterizzata da una pro-spettiva più offensiva e orientata al mercato. In tale situazione il conflitto sul-l’uso del nome è divenuto inevitabile, riflesso delle diverse concezioni di qua-lità e delle differenze strutturali e operative tra le imprese.

3.2.3. Concezioni di qualità ed eterogeneità delle imprese

Al fine di evidenziare le differenti concezioni di qualità sono stati intervi-stati i produttori del paese di Colonnata (tanto “storici” che “new comers”),nonché quelli di aree limitrofe ma posizionati su una fascia di mercato com-parabile a quella del prodotto “originale” di Colonnata.

Il metodo di lavorazione dominante a Colonnata è tramandato per genera-zioni nell’ambito delle famiglie locali, pur con progressivi perfezionamenti eadeguamenti. Il pezzo di lardo rifilato e lavorato da fresco viene massaggiatocon sale e adagiato in conche di una particolare tipologia di marmo locale,precedentemente strofinate con aglio, a strati alternati con una miscela di sa-le, aglio, rosmarino e spezie. Il sale favorisce la formazione naturale della sa-lamoia che permette al lardo di stagionare. La durata della stagionatura variada un minimo di sei mesi a due anni, ed è effettuata nelle piccole cantine sca-vate nella roccia sotto le abitazioni del paese.

Le tabelle 1 e 2 riportano le varie fasi del processo produttivo e gli attri-buti del prodotto, l’importanza ad esse attribuita dai produttori di Colonnata eil livello di eterogeneità riscontrato nelle risposte.

Le tabelle evidenziano come le concezioni di qualità dei produttori di Co-lonnata siano allineate soprattutto per quanto concerne i caratteri del proces-so produttivo che più differenziano il prodotto del paese rispetto a quello del-le aree limitrofe e soprattutto rispetto ai metodi più standardizzati, mentre sualtri aspetti (materia prima e prodotto) si riscontra una maggiore variabilitàche dipende anche dall’adattamento alle richieste di specifici segmenti dimercato (ad es. la maggiore presenza di aglio nella concia è più apprezzatadal consumatore locale che da quelli del nord Italia).

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Tabella 1 – Importanza attribuita dai produttori alle fasi del processo produttivo delLardo di Colonnata

Fonte: elaborazione su indagine diretta

Il prodotto viene percepito come “unico” dai produttori di Colonnata invirtù degli attributi intangibili (e in particolare la conformità alla tradizioneproduttiva) ancor più che di quelli tangibili, rispetto ai quali si rileva comun-que una certa omogeneità. Emerge una forte coesione e la rivendicazione diuna identità unitaria rispetto ai produttori esterni: in molti sottolineano chenon è rilevante il singolo elemento (vasca di marmo, microclima, concia ecc.)ma la congiunzione di questi elementi che si realizza solo nelle cantine di sta-gionatura del paese.

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Fase del processo

Importanza per la qualità

(da 0 a 3*)

Eterogeneità tra produttori

(da 0 a 3*) Note

MATERIA PRIMA

Razza, alimentazione e caratteristiche animale

*** * Prevalenza di suino pesante italiano, destinato a produzione di prosciutti. Importante per sapore, consistenza, oleosità.

Spessore materia prima

** *** Per alcuni rilevante solo per aspetto estetico, per altri anche dal punto di vista organolettico.

Conservazione materia 1° *** O Non refrigerare per conservare porosità e dunque

capacità di assorbire aromi e mantenersi morbido. Tempo tra macellazione e stagionatura

*** O Importante la messa in conca rapida: il prodotto tiepido o ancora caldo si sistema meglio e prende meglio gli aromi.

STAGIONATURA

Materiale conca: marmo dei Canaloni

*** O Importante, con argomentazioni diverse: tradizione ma anche effetti sul processo di stagionatura e sul prodotto. Il materiale è importante soprattutto se combinato con il microclima di Colonnata.

Clima (zona produzione)

*** O Importante per l’umidità della zona.

Microclima (locali stagion.)

*** O Rigorosamente naturale, in cantine locali, con pareti e pavimento di roccia, senza alcun condizionamento.

Preparazione materia prima

** O Importante di pressare bene il prodotto nelle conche, senza aria

Spezie e aromi (concia)

** ** Importanza spezie fresche di qualità, ma anche alla loro proporzione, anche in funzione del mercato (sapori meno forti, meno aglio).

Durata stagionaura

*** ** Concordanza su una durata minima di 6 mesi, ma gli effetti sulla qualità del prodotto sono valutati diversamente.

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Tabella 2 – Importanza attribuita dai produttori agli attributi del Lardo di Colonnata

Fonte: elaborazione su indagine diretta

Pur nella sostanziale assenza di contrasti rispetto al processo e al prodotto,è possibile identificare tre tipologie di produttori sulla base dell’elemento cheappare guidare le loro scelte produttive e di mercato:

1) nella prima tipologia domina la ricerca di specifiche caratteristiche diprodotto anche attraverso la sperimentazione di varianti al processo pro-duttivo;

2) nella seconda tipologia dominano gli attributi di processo in quanto tali,intesi come legame con la tradizione e l’identità locale; non si effettua al-cuno sforzo di comunicazione al consumatore o all’intermediario, il pro-dotto è “buono” perché originale e conforme alla tradizione;

3) nella terza tipologia dominano gli attributi di processo ma in quanto rile-vanti per il consumatore o l’intermediario, dunque è centrale lo sforzo dicomunicazione.

Avendo riferimento ad un’area più ampia ma comunque contigua al paesedi Colonnata, emerge la presenza di tipologie di imprese produttrici di lardodifferenti per modelli tecnologici, livelli di professionalità e specializzazione(spesso si tratta di piccoli salumifici industriali o artigianali), valenze attribui-te al “prodotto lardo” e modalità di approccio al mercato. Le concezioni diqualità che caratterizzano queste imprese sono molto articolate: in alcuni ca-si il processo produttivo è simile a quello tradizionale di Colonnata salvo lastagionatura che avviene in atmosfera condizionata (e dunque può essere ef-fettuata in stabilimenti fuori terra e ubicati in pianura, durante tutto l’anno), inaltri casi la stagionatura veniva effettuata in contenitori di acciaio o materie

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Attributo e descrizione

Importanza per la qualità

(da 0 a 3*)

Eterogeneità tra produttori

(da 0 a 3*)

Note

Colore ** ** Bianco, tendente al rosa. L’eventuale presenza della “striscia” di carne rossa è valutata diversamente

Sapore

** * Da delicato a più sapido se con presenza di magro. Esigenza di sapori più delicati rispetto alla tradizione familiare (meno aglio nella concia). Sperimentazioni con materie prime diverse (Cinta senese).

Morbidezza *** * Si deve sciogliere in bocca. E’ l’attributo tangibile ricordato più frequentemente.

Spessore * *** Non è importante di per sé, ma può avere effetti sulla consistenza del prodotto; il consumatore non esperto vi presta però attenzione.

Tradizionalità *** * La coerenza con la “tradizione locale” è da tutti citata come centrale della “qualità complessiva” del prodotto.

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plastiche, in altri casi ancora è la durata del processo di stagionatura ad esse-re inferiore. Altre differenze riguardano la qualità della materia prima, in par-ticolare la sua conformazione e la modalità di conservazione, il ricorso a spe-zie non fresche, e talvolta gli stessi attributi di qualità del prodotto finito so-no concepiti diversamente.

A tale eterogeneità corrispondono costi di produzione e prezzi di venditamolto differenziati4. L’elevato livello di prezzo del Lardo di Colonnata ha sti-molato anche veri e propri comportamenti scorretti, tanto che ovunque in Ita-lia si trovano lardi “di Colonnata” che nulla hanno a che fare con il prodottooriginale: uso di materie prime congelate di varia provenienza e qualità e ci-clo di stagionatura brevissimo favorito talvolta dall’adozione di processi mec-canici sono gli aspetti che determinano le maggiori differenze a livello di co-sti di produzione.

3.2.4. L’esito del processo di istituzionalizzazione

Il conflitto tra i produttori di Colonnata e quelli delle aree limitrofe nelcorso del processo di riconoscimento della IGP è stato molto acceso. Il DPproposto dai produttori di Colonnata di comune accordo e riconosciuto dallaUE (Reg. CE 1856/2004) è incentrato sulla definizione molto ristretta dell’a-reale di produzione (limitato al solo centro abitato del paese) e sulla identifi-cazione di alcune specificità del processo produttivo, tra cui in particolare:

– la materia prima deve avere spessore non inferiore ai 3 cm., con limitatis-sima presenza di infiltrazioni nello strato adiposo, lavorata fresca e messain conca entro 72 ore dalla macellazione; inoltre viene escluso l’impiegodi sostanze liofilizzate, aromi naturali e artificiali, conservanti, additivi estarters;

– tali requisiti hanno importanti riflessi sui costi di acquisto della materiaprima e di lavorazione;

– la lavorazione deve stagionale e si svolge da settembre a maggio compre-si, e la stagionatura deve avvenire in conche di marmo, in locali poco ae-rati e privi di condizionamento forzato in modo da non compromettere lanaturale umidità, e deve avere una durata di almeno sei mesi: queste pre-scrizioni sono scarsamente compatibili con logiche industriali e dipenden-te dalla proibizione di utilizzo di condizionamento forzato degli ambientidi stagionatura.

Il DP approvato è caratterizzato da prescrizioni che lasciano ai produttori“storici” di Colonnata la libertà di mantenere le pratiche produttive già in uso,

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4. Ad esempio a fine 2003 sui banchi della moderna distribuzione il prezzo praticato per ilprodotto affettato era di 23 euro circa per il prodotto di Colonnata, contro un prezzo di circa 13euro per i prodotti di fascia alta diretti concorrenti.

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ad esempio per il tipo di aromi da utilizzare (purché naturali), lo spessore del-la materia prima e del prodotto finito (sopra 3 cm.), la pezzatura (la forma de-ve essere indicativamente rettangolare), la presenza (seppur limitata) di unastriscia di magro. Allo stesso tempo il DP definisce caratteristiche di proces-so e di prodotto qualificanti e tali da evitare una eccessiva eterogeneità quali-tativa nonché fenomeni di concorrenza di prezzo dovuti a differenze nei costidi produzione, e allo stesso tempo tali da consentire parziali adattamenti del-le caratteristiche del prodotto alle esigenze dei diversi segmenti di mercato eall’evoluzione dei gusti.

Forti conflitti sono invece emersi rispetto ai produttori esterni, i quali han-no rivendicato una maggiore estensione dell’area ed elaborato un DP per unaIGP del Lardo di Colonnata alternativo a quello che è stato poi approvato. Ta-le DP evidenzia un allineamento dei produttori esterni su una diversa conce-zione di qualità, e maggiore libertà è prevista in quanto a tempo intercorrentetra macellazione e lavorazione, durata minima della stagionatura (4 mesi), ti-po di condizionamento dei locali di stagionatura.

La delimitazione dell’area geografica è stata uno dei punti più delicati nelprocesso di istituzionalizzazione. La rigidità del DP approvato dall’UE, spe-cie su alcuni aspetti, è comunque tale da escludere di fatto potenziali attoriche volessero iniziare a produrre nell’area delimitata ma secondo concezionidi qualità di processo e prodotto diverse e più industriali.

Con l’ottenimento della IGP alcuni produttori hanno rafforzato i rapporticon la moderna distribuzione e con il mercato nazionale. Allo stesso tempol’«economia del lardo» a Colonnata si è estesa al di là della «filiera del lar-do», con la nascita nel paese di numerose attività commerciali e di ospitalitàad opera sia dei produttori che di altri abitanti, che traggono la loro esistenzaproprio dalla reputazione del lardo e dalla presenza di cave di marmo. La stra-tegia di valorizzazione sta evolvendo dalla logica di filiera alla logica dellaqualità territoriale.

3.3. La ciliegia di Lari

3.3.1. Il quadro di riferimento e il sistema di produzione

La produzione di ciliegie nelle colline pisane, e nel territorio di Lari inparticolare, vanta una tradizione secolare, dimostrata anche dalla presenza dinumerose varietà autoctone5 che, assieme alle caratteristiche pedo-climatichelocali, sono alla base della specificità delle ciliegie di Lari.

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5. Tredici varietà autoctone della ciliegia di Lari sono inserite nella Banca del Germopla-sma della Regione Toscana come varietà a rischio di erosione genetica, e diciannove varietàautoctone sono presenti nell’elenco dei prodotti tradizionali della Regione Toscana (www.ar-sia.toscana.it).

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Nonostante ciò, la produzione cerasicola locale ha sofferto gli effetti dellaristrutturazione e del declino delle attività agricole che ha seguito il processodi rapida industrializzazione del Paese nel dopoguerra, e che ha fortemente ri-dotto le attività agricole nella zona, in particolare quelle a maggior intensitàdi lavoro (ortofrutticoltura, vitivinicoltura).

Negli anni più recenti il rinnovato interesse mostrato dai consumatori ver-so le produzioni di alta qualità e il recupero delle tradizioni sociali e cultura-li del territorio, sta offrendo tuttavia nuove opportunità per il rilancio produt-tivo e commerciale della ciliegia di Lari. Nonostante i ridottissimi volumiproduttivi – la produzione annua di ciliegie nella zona si aggira sui 500 quin-tali – la coltura del ciliegio è diffusa in quasi tutte le piccole e piccolissimeaziende agricole locali, solo in minima parte aziende professionali, nessunadelle quali specializzata sulla produzione cerasicola. Le tecniche di coltiva-zione sono tradizionali, e ci sono pochi impianti specializzati, mentre la mag-gior parte delle piante è sparsa nei campi o sui bordi degli appezzamenti, re-taggio degli ordinamenti produttivi mezzadrili.

Come conseguenza della struttura produttiva appena descritta, la maggiorparte della produzione di ciliegie è destinata ad autoconsumo o ad una cerchiaristretta di familiari e amici, o su canali commerciali brevi. Le (poche) azien-de professionali ricorrono invece solitamente ai vicini mercati all’ingrosso,mentre poco sviluppato è il canale della moderna distribuzione. Una partedella produzione viene venduta durante la tradizionale Sagra delle ciliegie nelpaese di Lari. Solitamente sui mercati locali la ciliegia di Lari spunta un pre-mio di prezzo del 20-30% legato alla maggior freschezza del prodotto, al fat-to che si tratta di un prodotto “locale” e alla reputazione acquisita negli anni.

3.3.2. Il percorso di istituzionalizzazione: la richiesta della DOP

In anni recenti il crescente interesse mostrato dai consumatori e dai citta-dini per i prodotti tipici e per la tutela della biodiversità, ha sollecitato alcuniIstituti di ricerca e le Amministrazioni pubbliche locali ad attivare iniziativedi ricerca e valorizzazione, con l’obiettivo da un lato di contribuire a preser-vare le numerose varietà autoctone locali di ciliegio, e dall’altro di promuo-vere l’immagine del prodotto nell’ottica di una valorizzazione turistica, oltreche di rilancio dell’agricoltura locale.

Questo ritorno di attenzione ha aumentato nei produttori locali la consape-volezza del valore economico e culturale del proprio prodotto, e stimolato al-tre iniziative di valorizzazione, tra cui l’avvio della procedura per la richiestadella DOP. L’idea di richiedere la DOP per la ciliegia di Lari è venuta so-prattutto da alcuni produttori locali non professionali, il cui principale obiet-tivo era quello di stimolare la produzione agricola nell’area e sostenere lacoltivazione del ciliegio, con particolare attenzione alle varietà autoctone arischio di erosione genetica. L’iniziativa è stata subito appoggiata da molti

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altri attori, e soprattutto dalla Pubblica Amministrazione (Regione Toscana,Provincia di Pisa, Comune di Lari), con l’obiettivo di utilizzare la reputazio-ne del prodotto anche a fini promozionali e turistici. Grazie al sostegno del-la locale Amministrazione comunale, è stato così costituito nel 2002 il Co-mitato promotore della DOP, che ha avviato una discussione interna sui prin-cipali contenuti del DP.

3.3.3. Concezioni di qualità ed eterogeneità delle imprese

Le interviste condotte presso i produttori locali aderenti al Comitato pro-motore hanno permesso di realizzare una mappatura delle diverse concezionidi qualità del prodotto “ciliegia di Lari”, evidenziandone gli aspetti più rile-vanti per la formazione del DP: caratteristiche delle diverse fasi del processoproduttivo (tabella 3) e attributi del prodotto (tabella 4).

Tabella 3 – Importanza attribuita dai produttori ai principali aspetti del processoproduttivo

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Fase del processo

Importanza per la qualità

(da 0 a 3*)

Eterogeneità produttori (da 0 a 3*)

Note

TERRENI E IMPIANTO

Terreni *** O Terreni ben drenati (evitano ristagno acqua) e sciolti. Terreni non esposti a ovest (il vento di mare può danneggiare la fioritura)

Portainnesti *** ** Necessità di portainnesti vigorosi, che portino la pianta ad altezze medio-alte come nella tradizione locale. Necessità di materiale sano e certificato

Varietà *** *** Eterogeneità dovuta ai diversi atteggiamenti nei confronti delle varietà autoctone

PROCESSO

Fertilizzazione ** * Necessità di dosare i nitrati per non rendere il frutto acquoso e meno conservabile

Irrigazione * ** Importanza per la qualità del prodotto: troppa acqua rende “sciapito” il frutto

Difesa ** O Trattamenti: Rispetto tempi di carenza, che incide su salubrità del prodotto Difesa da attacchi uccelli: necessità di protezioni, poco diffuse nell’area

Potatura ** *** Agisce sulla produttività della pianta, sulla maturazione e sul calibro dei frutti, sulle tecniche di raccolta

Raccolta *** *

Modalità di raccolta: Tradizionalmente a mano; sono necessarie competenze specifiche per non danneggiare frutto e pianta e pregiudicare i raccolti successivi Epoca di raccolta: maturazione del frutto

Condizionam. *** * Necessarie mantenere le modalità tradizionali di condizionamento.

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Tabella 4 – Importanza attribuita dai produttori agli attributi del prodotto

Dalla mappatura è possibile notare un elevato livello di omogeneità delleconcezioni individuali di qualità, tranne che su alcuni aspetti, e in particolarecirca la qualità delle varietà autoctone di ciliegia che, per l’evoluzione dellerichieste dei consumatori e dei clienti intermedi sui mercati sia tradizionaliche moderni, non presentano le necessarie caratteristiche in termini di con-servabilità e resistenza alle manipolazioni, fatta eccezione per la varietà au-toctona “Marchiana”6.

Le diverse concezioni di qualità, e in particolare la diversa enfasi postasulla presenza delle varietà locali, sull’importanza degli aspetti igienico-sani-tari e sulle modalità di condizionamento del prodotto, riflettono le diverse ti-pologie di produttori locali:

1) produttori tradizionali: impiegano canali commerciali tradizionali (merca-ti ortofrutticoli all’ingrosso). La concezione di qualità del prodotto è in-centrata soprattutto sulla provenienza dal territorio di Lari, sulla presenza

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Attributo

Importanza per la qualità

(da 0 a 3*)

Eterogeneità produttori (da 0 a 3*)

Note

Sapore *** * Dolcezza, asprezza. Il sapore varia comunque a seconda della varietà e del grado di maturazione

Consistenza della buccia e della polpa

*** *

Per il consumo fresco e i mercati odierni la polpa deve essere soda e ”croccante”; la buccia deve essere elastica e morbida. Alcune varietà locali da destinarsi soprattutto alla trasformazione, devono presentare caratteristiche diverse

Estetica *** * Importanza del colore, della lucentezza della buccia. Molta importanza alla pezzatura (calibro). Richieste le pezzature più alte. Uniformità dei frutti e assenza di difetti visibili

Confezionamento ** ** Importanza delle modalità tradizionali di sistemazione dei frutti nei contenitori

Sanità ** ** Assenza di residui. Importanza del rispetto dei tempi di carenza

6. Le varietà di ciliegio di più recente introduzione (le varietà “importate”) mostrano unamaggior efficacia sia da un punto di vista tecnico-agronomico (per esempio minor vigoria,maggiore resistenza agli attacchi parassitari o alle basse temperature) che produttivo, e miglio-ri caratteristiche commerciali (buccia più spessa e resistente, frutti più grandi). Soltanto una trale varietà autoctone locali (varietà Marchiana) mostra caratteristiche concorrenziali per il con-sumo fresco. Le altre varietà sono oggi presenti in pochi esemplari, oppure (in particolare levarietà Papalina, Gambolungo e Morella) mostrano ottime caratteristiche per la trasformazio-ne (buccia sottile, elevato tenore zuccherino, sapore) ma non sono adatte per essere commer-cializzate fresche sui mercati. Questo è il motivo per cui le varietà autoctone locali sono at-tualmente a rischio di estinzione.

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di una varietà locale (la Marchiana) che ben si adatta alle richieste deimercati;

2) produttori hobbisti/giovani: impiegano canali commerciali tradizionali masperimentano anche canali più innovativi. La concezione di qualità ruotaattorno al gusto del frutto, alla tradizione produttiva dell’area e alla tipi-cità, e alle modalità tradizionali di sistemazione e presentazione;

3) produttori giovani orientati ai canali più moderni (GDO): la concezione diqualità pone enfasi sulla grande pezzatura dei frutti, sull’omogeneità, sugliaspetti sanitari (assenza di residui), e sul confezionamento. Minor atten-zione alle varietà autoctone.

3.3.4. L’esito del processo di istituzionalizzazione

Il Comitato promotore ha convocato numerose riunioni per discutere i va-ri aspetti del DP, e i problemi e le opportunità che possono derivare dall’otte-nimento di una DOP.

Tutti i produttori sono stati concordi nel riconoscere le potenzialità dellaDOP per la ciliegia di Lari, sebbene all’inizio pochi di essi ne conoscessero afondo significato e implicazioni. I punti a favore della DOP sono stati così in-dividuati: maggiore differenziazione sul mercato; creazione di notorietà eapertura di nuovi canali commerciali; più elevati prezzi di vendita; esclusionedall’uso scorretto della denominazione sui locali mercati all’ingrosso e al det-taglio; sostegno al marketing dei prodotti trasformati derivati dalla trasforma-zione delle ciliegie; stimolo all’adozione di sistemi di assicurazione di qualitàe certificazione dei processi e del prodotto; effetto di traino sulle altre produ-zioni frutticole e agricole; promozione delle attività turistiche e agri-turisti-che; protezione delle varietà autoctone minacciate di estinzione; possibilità diaccedere a finanziamenti e contributi pubblici.

Tuttavia sono stati evidenziati anche alcuni punti critici, tanto di natura“interna” che “esterna” al sistema di produzione.

Sul fronte “interno” la discussione si è incentrata sul ruolo delle varietà lo-cali. La maggior parte dei produttori ha insistito nell’includere nel DP anchele varietà di più recente introduzione. Altri produttori più tradizionali e “ama-tori” hanno invece messo in evidenza l’importanza delle varietà locali non so-lo per la conservazione della biodiversità, ma anche per scopi di marketing(alta immagine di qualità, valori etici e culturali, mercati di nicchia, connais-seurs), e quindi per il potenziale effetto di traino che potrebbero esercitare an-che sulle varietà più recentemente introdotte. L’esito della discussione po-trebbe avere effetti anche sulla decisione se presentare una domanda di IGP odi DOP: infatti, l’enfasi eccessiva sulle varietà nuove potrebbe costituire unostacolo per ottenere una DOP, in quanto suscettibile di allentare il legame trail prodotto e la sua origine territoriale.

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L’accordo raggiunto dai produttori del Comitato prevede l’inserimento nelDP anche delle varietà non locali, anche se questo potrebbe portare ad una“diluizione” della reputazione del prodotto. Inoltre, paradossalmente l’even-tuale successo commerciale della DOP potrebbe innescare una “selezione av-versa” delle varietà autoctone locali a vantaggio di quelle più richieste dalmercato, producendo un effetto opposto a quello che aveva animato inizial-mente il Comitato promotore. D’altra parte la tutela delle varietà autoctoneviene oggi perseguita dal Comitato attraverso altre iniziative di concerto conIstituzioni pubbliche e Istituti di ricerca, permettendo in questo modo al DPdi ridurre i vincoli e includere un maggior numero di produttori.

Sul fronte “esterno” al gruppo promotore si è invece rilevato il problemadella delimitazione dell’area di produzione, oggetto di un delicato processo dinegoziazione in cui molti e diversificati portatori di interesse sono coinvolti.

Infatti, se è vero che oggi il maggior numero di produttori è presente al-l’interno del territorio del Comune di Lari, esistono produttori anche nelle zo-ne limitrofe che potrebbero rivendicare un’estensione dell’area ammissibile,in virtù del fatto che la coltivazione del ciliegio era presente storicamente an-che in questi luoghi. L’estensione della zona è inoltre proposta anche da altriattori locali, soprattutto di tipo istituzionale (Camera di Commercio, Provin-cia, Organizzazioni Professionali), con l’obiettivo di estendere i potenziali be-nefici della denominazione al maggior numero di produttori, e di far raggiun-gere ai quantitativi commercializzati una sufficiente “massa critica” per pro-porsi sul mercato.

Tuttavia l’estensione della zona è percepita come minaccia dai produttori“storici”, per l’aumento della concorrenza attuale e potenziale che generereb-be. Inoltre la delimitazione dell’area potrebbe avere anche riflessi “interni” al-l’attuale comunità dei produttori di ciliegie di Lari: infatti i produttori localiche non sono interessati o in grado di utilizzare la DOP non potrebbero piùimpiegare la denominazione commerciale “Ciliegia di Lari” sui prodotti ven-duti, mentre i “new-comers” anche al di fuori del territorio del Comune di La-ri potrebbero usare la denominazione (senza tra l’altro aver sopportato i costidi attivazione e di costruzione della reputazione) per accedere più facilmenteai mercati7.

Al momento in cui scriviamo è stato raggiunto un accordo sul DP da par-te dei produttori del Comune di Lari che non ha dato origine a conflitti inter-ni. I costi di adeguamento all’attuale stesura del DP sarebbero infatti moltocontenuti per i produttori locali, limitando potenziali effetti di esclusione do-vuti alle tecniche di coltivazione e varietà impiegate. Il raggiungimento del-l’accordo è stato senza dubbio facilitato dalla prossimità culturale e territoria-

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7. L’uso della denominazione protetta da parte dei produttori “non storici” sarebbe ancheun modo per farsi riconoscere la propria capacità professionale nella produzione del prodottotipico. Si veda Boutonnet et al. (2005).

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le dei produttori, dalla omogeneità delle tecniche produttive e dei canali com-merciali impiegati, e dall’assenza di grandi produttori “dominanti”. Tuttavial’accordo non è stato ancora “negoziato” con gli altri attori direttamente e in-direttamente interessati: le ridotte quantità prodotte nella zona e l’assenza diconcreti problemi di commercializzazione, unitamente alla notorietà del pro-dotto sui mercati serviti, hanno limitato l’interesse e il coinvolgimento deiproduttori e sospeso temporaneamente l’iter di presentazione della domandadi protezione.

4. Considerazioni conclusive

La stesura del DP per l’ottenimento della DOP e dell’IGP implica un pro-cesso di costruzione di una convenzione di qualità che, nel caso dei prodottitipici, deve dunque trovare il consenso, oltre che su aspetti relativi al proces-so produttivo e ai requisiti “intrinseci” di qualità del prodotto, anche su aspet-ti quali la tradizione, l’eredità storica, l’identità culturale locale, l’area geo-grafica, che per loro stessa natura sono aperti a diverse interpretazioni (Bérarde Marchenay, 1995; de Sainte Marie et al., 1995). La convergenza verso la de-finizione comune e condivisa di qualità può diventare dunque un percorsoparticolarmente difficile e dagli esiti incerti.

La costruzione del DP risente dell’eterogeneità delle imprese e degli altriattori che vi partecipano, delle loro strategie individuali e della strategia col-lettiva individuata dai proponenti, e della conseguente eterogeneità delle con-cezioni di qualità che devono essere mediate per arrivare alla presentazionedella domanda di protezione.

Le tipologie di soggetti coinvolte nei percorsi di istituzionalizzazione sonoestremamente differenziate, sia imprese delle filiera del prodotto nei suoi di-versi stadi, che altri attori appartenenti al sistema locale, o anche attori nonlocali (enti di ricerca, associazioni di consumatori, associazioni culturali e ga-stronomiche, catene distributive, intermediari, ecc.); parimenti importanti so-no le differenze tipologiche tra i soggetti della stessa categoria, ciascuno deiquali possiede visioni differenti delle potenzialità e limiti offerti dalla deno-minazione.

L’attivazione di processi di mediazione sulle caratteristiche del processoproduttivo, sugli specifici requisiti qualitativi del prodotto e sull’estensionedell’area di produzione, rappresenta un passaggio fondamentale per la suc-cessiva azione di qualificazione del prodotto stesso verso l’esterno. Questiprocessi sono tuttavia frequentemente caratterizzati da aspetti problematici, inquanto la codificazione per sua natura determina effetti di esclusione (Tregearet al., 2004), tanto più accentuati quando le motivazioni che animano i pro-ponenti sono orientati dalla ricerca di rendite piuttosto che dalla necessità diqualificare l’immagine del prodotto sui mercati. Possibili ambiti di contrasto

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sono quelli tra le esigenze esclusivamente rivolte al supporto della filiera pro-duttiva (strategia di filiera) e quelle orientate ad esaltare l’identità territorialedel prodotto tipico e a valorizzare le sue molteplici relazioni con il territorio(strategie territoriali). Spinte verso la presa in considerazione degli aspettimultifunzionali del prodotto tipico, caratteristica delle strategie territoriali,potrebbero ostacolare il raggiungimento di un accordo sia per l’imposizionealle imprese di maggiori costi di produzione e di controllo, non sempre re-munerabili dall’eventuale aumento dei redditi derivanti dalla vendita del pro-dotto, sia per l’ingresso sulla scena del processo di altre categorie di attori“lontane” dalla sfera prettamente produttiva.

Opportunità e limiti dei segni geografici devono dunque essere attenta-mente valutati in funzione degli obiettivi che gli attori della valorizzazione in-tendono perseguire.

Indubbiamente le denominazioni geografiche possono consentire non solola qualificazione verso l’esterno (ripulitura del mercato da prodotti con indi-cazioni scorrette, affermazione dell’identità del prodotto, creazione di un sup-porto per iniziative di marketing collettivo) ma anche quella verso l’interno(creazione di standard di riferimento per i produttori, con le conseguenti op-portunità e minacce). Inoltre l’attivazione del processo e il dibattito sui con-tenuti del DP possono stimolare i produttori a prendere consapevolezza delleproprie potenzialità e opportunità, così come dei problemi e delle minacce(Binh e Casabianca, 2002; Casabianca, 2003; Boutonnet et al., 2005).

Tuttavia lo strumento della DOP/IGP non sempre appare il più rispon-dente alle esigenze degli operatori locali: per molti prodotti tipici caratteriz-zati da canali commerciali brevi, piccole quantità prodotte, presenza di agri-coltori non professionali, forte tradizione produttiva, risorse altamente speci-fiche, carattere identitario del prodotto per la popolazione locale, la com-plessità delle procedure richieste dal reg.CEE 2081/92 fa sì che la DOP oIGP non rappresenti la soluzione ideale per sostenere le esternalità economi-che e culturali che questi sono in grado di generare. In altre situazioni l’atti-vazione della procedura per la richiesta della tutela comunitaria può alterarela coesione sociale e provocare conflitti tra i produttori nella costruzione delDP (ad esempio tra imprese artigianali e industriali, o tra produttori ubicatiin contesti ambientali diversi nell’ambito della stessa zona tradizionale diproduzione), o possono andare a beneficio di attori al di fuori della filiera lo-calizzata di produzione che usano la reputazione del prodotto senza soppor-tarne gli oneri.

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1. Problematica, obiettivi e metodologia

Origine delle produzioni e Denominazioni geografiche sono leve che mol-to spesso gli attori istituzionali e le imprese del sistema agroalimentare utiliz-zano nella elaborazione delle proprie strategie, in special modo nelle regionicomunitarie dell’area mediterranea, in virtù del rinnovato interesse dei consu-matori verso i prodotti tipici, derivante tanto dall’esigenza di rassicurazionecirca la provenienza del prodotto e le tecniche impiegate, che dal recuperodella dimensione edonistica e culturale del consumo alimentare.

Per questo motivo fin dalla sua emanazione il Reg. CEE 2081/92, relativoalla protezione delle Denominazioni geografiche dei prodotti agricoli ed ali-mentari mediante l’introduzione della DOP (Denominazione di origine pro-tetta) e della IGP (Indicazione geografica protetta), ha suscitato grande inte-resse in particolare nelle zone più svantaggiate e nelle componenti più arti-gianali dei sistemi agroalimentari, dove il perseguimento di strategie basatesulla modernizzazione delle tecniche e su una competitività di costo risultadifficile o incoerente con le logiche di impresa presenti.

In Italia, come in altre parti d’Europa, dopo oltre 10 anni dalla sua effetti-va applicazione molte delle aspettative riposte sul Reg. CEE 2081/92 sembra-no essere disattese dai fatti: l’iter per il riconoscimento comunitario è risulta-to lungo e complesso, e in taluni casi non è stato intrapreso oppure è stato ab-bandonato; in altri casi l’ottenimento della DOP/IGP non ha portato gli effet-ti sperati. In effetti, di fronte di un numero abbastanza elevato di prodotti chehanno ottenuto il riconoscimento di una Denominazione geografica (termine

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7. COSTI E MODELLI ORGANIZZATIVINELLE DENOMINAZIONI GEOGRAFICHE*

di Giovanni Belletti, Tunia Burgassi, Andrea Marescotti, Alessandro Pacciani, Silvia Scaramuzzi

* Il presente lavoro è stato concepito dagli Autori in maniera congiunta; sono comunque daattribuirsi a Giovanni Belletti i paragrafi 4.1 e 7, a Tunia Burgassi il paragrafo 5, ad AndreaMarescotti i paragrafi 2 e 6, ad Alessandro Pacciani il paragrafo 1 e a Silvia Scaramuzzi i pa-ragrafi 3 e 4.2.

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con cui di qui in avanti ci riferiremo a DOP e IGP), l’effettivo impiego dellaDenominazione da parte delle imprese rimane molto ridotto e comunque con-centrato su un numero ristretto di prodotti di grande tradizione (tra cui Par-migiano Reggiano, Grana Padano, Prosciutti di Parma e di San Daniele) (No-misma, 2005) nonché maggiormente diffuso in aree che non possono esserepropriamente considerate marginali né dal punto di vista agricolo né socio-economico.

Le motivazioni di questa scarsa incisività delle Denominazioni geografi-che rispetto alle attese sono certamente numerose, e devono tenere conto in-nanzitutto della specifica natura e delle finalità di questo strumento, che di persé attribuisce soltanto una speciale tutela giuridica nell’uso di un nome geo-grafico per la designazione commerciale di un prodotto agroalimentare. Lacreazione o il rafforzamento dell’organizzazione tra gli attori del sistema pro-duttivo e della reputazione del prodotto tipico presso i consumatori sonoaspetti fondamentali, ma non direttamente derivanti dal quadro giuridico delReg. CEE 2081/92, il quale non prevede né l’obbligatorietà di una organizza-zione tra i produttori (Associazione o Consorzio di tutela) successiva al rico-noscimento1, né destina risorse ad attività di tipo promozionale.

Molto spesso gli attori interessati indicano tra gli elementi che ostacolanola diffusione dell’uso delle Denominazioni geografiche gli elevati costi da so-stenere per poter impiegare la Denominazione, tanto che da più parti vieneportata avanti l’esigenza di una semplificazione del modello definito dal Reg.CEE 2081/92 e dalle disposizioni attuative nazionali. Come vedremo, le evi-denze empiriche presenti in letteratura sull’argomento dei costi d’uso delleDenominazioni geografiche, così come sui benefici ottenibili dal loro impie-go, sono però molto ridotte.

Obiettivo del presente lavoro è quello di sviluppare un quadro di riferi-mento per l’analisi dei costi d’uso delle Denominazioni geografiche sulla ba-se di alcuni casi di studio, con un successivo approfondimento sui costi dicontrollo e certificazione. Segue una discussione sugli aspetti distributivi deicosti d’uso diretto, in cui viene evidenziato il ruolo delle istituzioni interme-die rappresentative dei produttori. Nella parte conclusiva verranno sviluppatealcune considerazioni, anche alla luce del complesso dei costi e dei beneficiderivanti agli attori delle filiera dalla creazione e dall’impiego di una Deno-minazione geografica.

La metodologia si è basata sull’analisi in profondità di alcuni casi di stu-dio relativi a prodotti sia freschi che trasformati2. Una prima fase dell’indagi-

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1. L’art. 5 del Reg.CEE 2081/92 richiede che “solo le associazioni o, a determinate condi-zioni da stabilirsi secondo la procedura prevista all’art. 15, le persone fisiche o giuridiche sonoautorizzate ad inoltrare una domanda di registrazione”, mentre nulla è previsto circa la gestio-ne della Denominazione una volta riconosciuta.

2. L’indagine diretta ha riguardato in particolare Pecorino Toscano DOP, Marrone del Mu-

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ne è stata condotta mediante interviste di tipo aperto a testimoni privilegiati(imprese poste ai vari livelli della filiera del prodotto tipico, organismi asso-ciativi quali Consorzi di tutela o Associazioni, istituzioni locali), al fine di fa-re emergere le differenti categorie di costi e di benefici e la loro natura. La se-conda fase ha approfondito l’analisi sui costi diretti di certificazione, ed ha in-teressato non solo imprese ma anche Consorzi (termine con il quale di qui inavanti indicheremo tanto i Consorzi di tutela che le Associazioni tra produtto-ri) ma anchee organismi incaricati del controllo; essa è stata volta non solo al-la quantificazione dei costi ma soprattutto a individuare le forme di organiz-zazione e di gestione più efficaci e il ruolo dei Consorzi nella distribuzionedei costi stessi tra le varie componenti della filiera.

2. Gli effetti economici delle Denominazioni geografiche

La diffusione dei segni di qualità e degli standard è uno dei fenomeni cheha maggiormente interessato il sistema agroalimentare nell’ultimo decennio,in conseguenza dell’allungamento e della complessificazione dei circuiti pro-duzione-consumo e dei conseguenti maggiori bisogni informativi che ne deri-vano. Numerosi autori hanno sviluppato analisi circa gli effetti della diffusio-ne dei segni di qualità e soprattutto degli standard, evidenziandone le impli-cazioni sulle imprese singolarmente considerate, ma anche sui rapporti di for-za sia tra le differenti fasi delle filiere che all’interno delle fasi stesse. Inparticolare molti evidenziano come gli standard, principalmente quelli di tipo“volontario” (ovverosia non derivanti dall’applicazione di una norma di leg-ge) e anche quando vengono originati nell’ambito di tavoli tecnici cui parte-cipano le differenti componenti interessate (agricoltori, trasformatori, com-mercianti, distributori), siano spesso espressione solo di specifiche compo-nenti della filiera orientate da un uso strategico volto al perseguimento di pro-pri particolari obiettivi (Reardon et al, 1999; Henson e Reardon, 2005;Hatanaka et al, 2005); in alcuni casi viene sottolineato il problema dellaesclusione di alcune categorie di imprese dall’impiego degli schemi e di con-seguenza la loro marginalizzazione dal mercato (Vuylsteke et al., 2003).

Anche le Denominazioni geografiche così come sono regolate dall’UnioneEuropea con il Reg. CEE 2081/92 sono di fatto segni di qualità fondati su unostandard di tipo eterodiretto, i cui contenuti cioè sono definiti – all’internodello schema generale dettato dal Regolamento stesso e dalle procedure na-zionali di applicazione – dagli stessi produttori dell’area di origine. Il Disci-plinare di produzione su cui la Denominazione si fonda è uno standard vo-lontario sulla base del quale i produttori possono impiegare il nome geografi-

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gello IGP, Vitellone Bianco dell’Appennino centrale IGP, Olio toscano IGP; altre evidenze em-piriche sono state raccolte su altri prodotti DOP e IGP sia toscani che di altre regioni.

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co registrato, sotto il controllo di un apposito Organismo di controllo che de-ve garantire la rispondenza del prodotto ai requisiti del Disciplinare.

La valutazione degli effetti economici delle Denominazioni geografiche, ein generale dell’impiego di segni di qualità al caso dei prodotti tipici, è un ar-gomento scarsamente trattato in letteratura, nonostante le specificità derivantidai particolari caratteri posseduti dai prodotti tipici e dai loro sistemi di pro-duzione.

Alcuni Autori analizzano da un punto di vista teorico gli effetti dell’intro-duzione delle Denominazioni geografiche sul benessere (ad es. Zago e Pick,2002), sul mercato e sull’organizzazione economica dei sistemi di produzio-ne (ad es. Raynaud e Savée, 2000; Thiedig e Sylvander, 2000; Chappuis eSans, 2000; Canada e Vazquez, 2005), ma anche sulle dinamiche che si pos-sono determinare in sede di definizione del Disciplinare (Anania e Nisticò,2004), anche in relazione ai diversi ruoli che gli attori locali possono attribui-re al prodotto tipico (ad es. Pacciani et al, 2003).

Meno frequenti sono le analisi volte alla valutazione, anche su base empi-rica, dei costi d’uso e dei benefici dell’impiego degli standard e in particola-re delle Denominazioni geografiche. In particolare Verhaegen e Van Huylen-broeck (2001) analizzano le implicazioni derivanti alle imprese dalla parteci-pazione a canali commerciali di tipo innovativo, ma i lavori e le indagini em-piriche considerano normalmente la sola dimensione aziendale a livelloindividuale (Fucito, 2002; Nomisma-Indicod, 2003). La dimensione collettivae i connessi aspetti di distribuzione dei costi e dei benefici tra le imprese, difondamentale importanza nel caso delle produzioni tipiche e delle Denomina-zioni di origine, viene considerata in alcuni recenti lavori (ad es. Belletti,2000; Marescotti, 2003; Segre, 2003), mentre altre ricerche approfondisconola tematica dei costi di certificazione (Lazzarin e Gardini, 2005; Belletti et al,2006). Quasi assenti sono invece le analisi degli impatti territoriali delle De-nominazioni geografiche al di fuori della filiera di produzione (Belletti, Ma-rescotti, Hauwuy e Paus, 2006).

3. Il quadro di riferimento dell’indagine

La registrazione presso l’Unione europea di una Denominazione geogra-fica deve essere dal soggetto proponente (una organizzazione costituita daproduttori e/o trasformatori, ma anche da altre parti interessate al prodotto inoggetto) sulla base di un Disciplinare di produzione nel quale devono esseretra l’altro specificati (ai sensi dell’art. 4 del Reg.CEE 2081/92) la descrizio-ne del prodotto agricolo o alimentare mediante indicazione delle materie pri-me, se del caso, e delle principali caratteristiche fisiche, chimiche, microbio-logiche e/o organolettiche del prodotto, nonché la delimitazione della zonageografica.

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La costruzione del Disciplinare di produzione è una tappa fondamentaleper gli attori che intraprendono la richiesta di una Denominazione geografica,destinata a condizionare i comportamenti delle imprese che vorranno conti-nuare ad impiegare il nome geografico nella designazione commerciale delprodotto tipico.

Il Disciplinare di produzione è normalmente il risultato di una riflessionee di una negoziazione tra gli operatori della filiera del prodotto tipico, chespesso vede il coinvolgimento di altri attori del sistema locale (istituzioni, for-me associative della popolazione) e del sistema della conoscenza (università,centri di ricerca), e alla quale ciascun attore partecipa in funzione dei propriobiettivi e della propria idea della “qualità” del prodotto tipico3.

L’accordo raggiunto in sede di Disciplinare porta non solo alla delimita-zione dell’area geografica in cui sarà possibile effettuare le fasi di lavorazio-ne del prodotto, ma anche alla individuazione dei “nodi” del processo produt-tivo e dei requisiti qualitativi minimi che il prodotto tipico dovrà possedere alconsumo per utilizzare la DOP-IGP.

Il Disciplinare ha per obiettivo la tutela della qualità del prodotto dallamassificazione o da imitazioni, ma deve tenere anche conto dei costi che po-trebbero derivare dai vincoli imposti. Un Disciplinare poco restrittivo com-porterà meno vincoli e conseguentemente un minor numero di controlli daeffettuare, ma allo stesso tempo potrebbe generare effetti negativi, princi-palmente di due tipologie. Da una parte esso non contribuirebbe a definireuna identità forte del prodotto e dunque non ne favorirebbe un posiziona-mento distintivo sul mercato, né supporterebbe la qualificazione delle im-prese; dall’altra potrebbe consentire fenomeni di concorrenza di tipo “mer-cato dei bidoni” all’interno del prodotto protetto dalla Denominazione, ov-vero il prodotto DOP-IGP di bassa qualità (quello cioè rispondente al livel-lo minimo del Disciplinare) farebbe concorrenza al prodotto DOP-IGP dimaggiore qualità, spingendo i produttori di quest’ultimo a non utilizzare laDOP-IGP e dunque comportando nel tempo un abbassamento della qualitàmedia dei prodotti venduti con la DOP-IGP, con conseguenti effetti negativisulla reputazione collettiva del prodotto e su quella individuale delle impre-se che lo realizzano.

La fase di costruzione del Disciplinare rappresenta quindi un momentoestremamente delicato della richiesta di Denominazione, poiché esso condi-zionerà le tipologie di imprese (ad es. industriali vs artigianali) che potrannoeffettivamente impiegare la Denominazione, e da esso dipenderanno le carat-teristiche dei processi produttivi e le modalità di accesso di coloro che vor-ranno aderire ed utilizzare il nome geografico protetto, così come la strutturadel Piano dei controlli che individua a partire dal Disciplinare i punti critici

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3. Si veda il saggio “I percorsi di istituzionalizzazione delle produzioni agroalimentari ti-piche” in questo stesso volume.

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del processo e del prodotto da assoggettare a controllo e definisce le relativeprocedure4. È tale Piano che stabilisce le verifiche necessarie perché l’Orga-nismo di controllo (che funge da ente terzo certificatore) autorizzi l’uso dellaDOP-IGP su ciascuna partita di prodotto: da tali verifiche, assieme ad altrielementi, dipenderà l’entità dei costi di certificazione e la loro distribuzionelungo la filiera del prodotto protetto.

È importante rilevare come ogni Paese dell’UE si sia dato una propria re-golamentazione dei sistemi di controllo delle Denominazioni geografiche,nell’ambito dei principi generali posti dal Reg. CEE 2081/92, con conseguen-ti effetti sul funzionamento e quindi sui costi dei sistemi di controllo. L’Italiasi è dotata di un sistema molto prossimo a un vero e proprio sistema di certi-ficazione, a differenza di quanto accaduto in altri paesi (Sylvander, 2004), ilche può risultare potenzialmente penalizzante sotto il profilo dei costi d’uso.

4. I costi derivanti dall’uso delle Denominazioni geografiche

4.1. Le tipologie di costi d’uso

I costi di controllo e di certificazione rappresentano una componente im-portante ma non esclusiva e non sempre principale dei costi complessivi deri-vanti dall’impiego di una Denominazione da parte delle imprese. Per questomotivo l’analisi ha preso avvio da un inquadramento preliminare delle diffe-renti tipologie di costi che possono essere sostenuti dalle imprese nel corsodell’intero processo di elaborazione e utilizzo di una DOP-IGP, realizzata me-diante una indagine esplorativa presso testimoni privilegiati oltre che sulla ba-se della letteratura esistente.

L’implementazione di una Denominazione e il successivo ricorso ad essaimplicano il sostenimento di una serie di costi che possono ricadere sia sullesingole aziende che su un gruppo di attori più o meno ampio: tali costi pos-sono variare in funzione di numerosi parametri, ad esempio il volume produt-tivo delle aziende aderenti al circuito, oppure presentarsi sotto forma di tarif-fe o quote “fisse”; o ancora essere rappresentati da mancati ricavi o derivaredal funzionamento del processo di certificazione stesso.

In termini generali, i costi relativi all’uso di una Denominazione geografi-ca si possono suddividere in quattro principali categorie (tabella 1), che ven-gono di seguito brevemente discusse.

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4. Il Piano dei Controlli non è previsto dal Reg.CEE 2081/92 ma è richiesto dalle disposi-zioni attuative nazionali, ed è oggetto di specifiche Linee guida formulate dal Ministero dellePolitiche Agricole e Forestali emanate nel marzo 2002. Esso è redatto dall’Organismo di con-trollo e approvato dal Ministero delle politiche agricole.

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Tabella 1 – Costi d’uso delle Denominazioni geografiche

Tipologia Descrizione:

1) Costi preliminari Costi precedenti il riconoscimento e l’entrata in funzionedella Denominazione

2) Costi diretti Costi per lo svolgimento delle attività di controllo e certificazione Costi di supporto alla certificazione

3) Costi indiretti Costi di adattamento strutturale e di riorganizzazioneCosti di adattamento operativoCosti di non conformità

4) Costi complementari Costi promozionali Costi di sorveglianza e sanzione

Fonte: nostra elaborazione

I costi preliminari consistono nell’insieme dei costi sostenuti nella faseantecedente al riconoscimento della Denominazione e alla sua successiva en-trata in funzione, e sono relativi all’insieme degli adempimenti che i richie-denti devono sostenere per ottenere la Denominazione stessa. Si tratta di co-sti generalmente di natura fissa (indipendenti dal numero delle imprese e dalvolume di produzione del prodotto tipico), che assumono la forma di veri epropri pagamenti nel caso in cui siano remunerati dei tecnici esperti incarica-ti della realizzazione delle relazioni tecniche sul prodotto e di eventuali anali-si. Tali costi sono spesso sostenuti in parte dall’operatore pubblico, che siadopera per favorire le imprese locali ad entrare in un meccanismo che per-metta la valorizzazione del prodotto tipico, anche con un eventuale ritorno diimmagine per il territorio stesso. Tra i costi preliminari rientrano anche queicosti sostenuti dalle imprese per raggiungere gli accordi necessari alla richie-sta collettiva della Denominazione, i quali hanno natura di costi di transazio-ne e organizzazione; in talune situazioni le istituzioni locali, o altri soggettiquali i Gruppi di Azione Locale attivi nell’Iniziativa Leader, finanziano spe-cifiche attività di ricerca sul prodotto tipico e/o di animazione della colletti-vità locale. Non vi è dunque una necessaria coincidenza tra coloro che so-stengono i costi preliminari e le imprese che utilizzeranno successivamente laDenominazione.

I costi diretti sono legati alle attività inerenti il controllo e la certificazio-ne, e sono connessi in parte ad attività svolte dall’Organismo di controllo(d’ora in avanti OdC) e in parte ad attività svolte dai soggetti controllati.

I costi per lo svolgimento delle attività di controllo e certificazione sonorappresentati dalla remunerazione all’OdC per l’accertamento del rispetto delDisciplinare; tra essi rientrano anche tariffe o quote pagate ad altri organismi

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terzi, quali laboratori analisi o panel degustazione, cui spesso l’OdC si ap-poggia per svolgere la propria attività. Questi costi sono sostenuti dalle sin-gole aziende anche se, come vedremo nei prossimi paragrafi, queste possonoessere supportate dai Consorzi, il che può condizionare la loro distribuzionelungo la filiera ed entro le singole fasi di essa. Il livello dei costi dipende inprimo luogo dal tipo di prescrizioni del Disciplinare e da come queste sonotradotte nel Piano di controllo, tenendo conto della specifica situazione dellafiliera del prodotto tipico, della sua composizione e articolazione, delle tipo-logie di impresa che ne fanno parte.

Una seconda tipologia di costi diretti è quella dei costi di supporto allacertificazione, in cui rientrano gli oneri derivanti dal sostegno che il sistemaproduttivo, tanto a livello individuale che a livello collettivo, fornisce all’OdCnello svolgimento delle sue attività. Si tratta ad esempio della tenuta di Albi oregistri, dell’istruzione delle pratiche per la certificazione o della realizzazio-ne di sistemi informatici di interfaccia con i vari operatori di filiera. Ad esem-pio nel caso del Marrone del Mugello IGP l’Associazione di tutela svolge at-tività di gestione della documentazione funzionale alla certificazione, alle-viando ai singoli operatori il peso dei costi di tenuta dei registri, e agisce co-me interfaccia nei rapporti tra produttori, istituzioni locali e OdC.

Qualora i costi di supporto alla certificazione siano sostenuti a livello col-lettivo, essi sono coperti da quote di adesione corrisposte a Consorzi. Lo svol-gimento di attività di supporto può consentire di ridurre le tariffe corrisposteall’OdC: infatti la presenza di un ente che svolga la funzione di collettore diinformazioni relative ad un gran numero di piccoli e piccolissimi produttoripuò creare notevoli economie all’Ente certificatore, che possono riflettersi intariffe inferiori a quelle che altrimenti si vedrebbe costretto ad applicare sedovesse verificare tutta la documentazione tramite sopralluoghi produttore perproduttore.

I costi indiretti comprendono tre principali tipologie. Una prima tipologia è quella dei costi di adattamento strutturale e di rior-

ganizzazione necessari per il funzionamento del sistema: riguardano sia le im-prese (ad es. adattamenti agli impianti e revisione dell’organizzazione e delleprocedure) che il sistema nel suo complesso (ad es. creazione di sistemi col-lettivi di supporto), e sono pertanto sostenuti in parte da singoli e in parte dal-la collettività. Essi possono consistere in nuovi investimenti, ad esempio ilDisciplinare del Vitellone Bianco dell’Appennino Centrale IGP preclude l’u-tilizzo di container comuni a diversi allevamenti e conseguentemente nonpermette l’ottimizzazione dei costi di trasporto alle numerose piccole aziendedislocate sul territorio, obbligandole ad un acquisto di mezzi talvolta non so-stenibile date le loro limitate dimensioni. I costi di adattamento consistonoanche in costi non monetari, come nel caso di riorganizzazioni interne o diformazione del capitale umano, che sono spesso legati ai costi di supporto al-la certificazione e difficili da distinguere da questi.

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I costi indiretti di adattamento operativo sono i maggiori costi necessariper la gestione del processo produttivo così come codificato nel Disciplinare.Si tratta in primo luogo dei maggiori costi per utilizzare materie primeconformi alle prescrizioni del Disciplinare e solitamente di maggiore qualità,l’incremento dei quali spesso deriva dalla rigidità dell’offerta della materiaprima. Tale componente è ad esempio risultata particolarmente importante nelcaso del Pecorino Toscano DOP il cui Disciplinare prevede l’uso di latte pro-veniente da pecore allevate in Toscana (il cui prezzo è normalmente molto piùelevato di quello di altri importanti bacini produttivi) e non congelato (prati-ca comune nella produzione industriale di formaggio). Gli allevatori di Chia-nina nell’ambito del Vitellone bianco IGP devono invece escludere dall’ali-mentazione del bestiame i foraggi insilati e utilizzare alimenti più costosi.Nella tipologia dei maggiori costi di gestione del processo produttivo posso-no essere compresi anche costi opportunità, quali quelli connessi all’otteni-mento di minori economie di scala (ad es. sempre nel caso del Pecorino DOPil fatto di non poter ricorrere a latte congelato impone di ridurre il volumeproduttivo in determinati periodi dell’anno); nonché i costi derivanti dalla ne-cessità di meglio controllare i processi aziendali (ad esempio per la tracciabi-lità delle materie prime e dei prodotti, o per separazione del prodotto DOP-IGP dagli altri prodotti aziendali) e le relazioni con i soggetti posti a monte ea valle della filiera di produzione (ad es. controlli sulle materie prime). L’a-dattamento del produttore alla logica degli schemi di controllo, anche qualo-ra non comporti particolari costi di adattamento, può essere percepita dal pro-duttore stesso come un onere, e dunque considerata come un “costo psicolo-gico” di difficile quantificazione ma suscettibile di inficiare il funzionamentodel sistema di produzione.

La terza tipologia di costi indiretti è quella dei costi di non conformità, de-terminati dal mancato collocamento sul mercato, o dall’inferiore posiziona-mento sullo stesso, dei prodotti che non sono conformi allo standard qualita-tivo stabilito dal Disciplinare, e che dunque non possono (più) fregiarsi delnome geografico nella propria designazione commerciale: assumono la formadi mancati ricavi sostenuti direttamente dalle aziende, che devono attenta-mente considerare questa tipologia di costi nella fase antecedente la decisio-ne di certificare o meno il proprio prodotto. Nel caso del Marrone del Mugel-lo IGP i costi di non conformità assumono particolare rilevanza, in quanto ilprodotto deve rispettare una pezzatura minima che comporta, in special modonelle annate più difficili, di dover scartare una parte della produzione; in con-siderazione di tali costi il Disciplinare è stato recentemente modificato perpermettere la commercializzazione di marroni anche di minori dimensioni.

Nella categoria dei costi complementari una particolare rilevanza assu-mono i costi promozionali, senza i quali spesso la Denominazione non puòespletare appieno la propria efficacia, che derivano dallo svolgimento delleattività di supporto alla Denominazione svolte a livello collettivo dal Con-

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sorzio del prodotto protetto. In termini strettamente tecnici tali costi non so-no per loro natura legati alla certificazione, ma di fatto spesso sono pagati aiConsorzi dalle imprese certificate congiuntamente ai costi di supporto allacertificazione.

Tra i costi complementari rientrano anche i costi di sorveglianza e sanzio-ne, necessari per rendere effettiva l’esclusione dall’uso del nome da parte del-le imprese esterne all’area di produzione o non conformi al Disciplinare, ri-conducibili alle attività ispettive volte a rilevare gli usi scorretti e al funziona-mento del relativo sistema sanzionatorio. Si tratta di costi spesso molto eleva-ti, specie se sostenuti per un singolo prodotto, che in molti casi sonosopportati dalle istituzioni governative (Sylvander e Thiedig, 2000). Ad esem-pio in Italia tali costi sono generalmente sostenuti dagli Ispettorati repressio-ne frodi, sebbene i Consorzi di tutela delle Denominazioni con più ampiomercato svolgano una funzione di sorveglianza anche in autonomia soppor-tandone il relativo onere.

4.2. L’analisi dei costi d’uso

Le categorie e le tipologie di costo possono essere osservate secondo dif-ferenti punti di vista, in particolare ai fini dell’analisi degli effetti sulle im-prese e sui sistemi di produzione del prodotto tipico è importante considerarei seguenti aspetti:– la relazione con il volume produttivo certificato, in base alla quale si indi-

viduano costi fissi, costi variabili e costi “a scatti” (vale a dire costanti en-tro un certo intervallo di variazione del volume stesso, ovvero semivaria-bili);

– la fase del processo di realizzazione della Denominazione cui si riferisco-no: costi ante riconoscimento della Denominazione e costi successivi al ri-conoscimento, così come costi di accesso al sistema di controllo e costi difunzionamento;

– la tipologia di manifestazione finanziaria: costi pagati e costi non pagati(cui non è immediatamente associabile un flusso finanziario);

– la tipologia del soggetto su cui ricadono: aziende agricole, trasformatori,intermediari, operatore pubblico, ecc.; ma anche costi individuali (azien-dali), costi collettivi e costi “sociali” (tab. 2).

È evidente la complessità della rilevazione di numerose delle tipologie dicosto, tanto che non sono disponibili stime del costo totale dell’uso di unaDenominazione geografica, mentre vi sono alcune indagini sui costi ricadentisulle singole imprese5.

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5. Ad esempio Nomisma (2003) stima nell’8,9% l’incremento percentuale dei costi perl’implementazione delle Denominazioni di origine nelle imprese industriali.

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Tuttavia una parte significativa dei costi d’uso delle Denominazioni si ri-ferisce sia alla collettività delle imprese che beneficiano della Denominazio-ne, sia alle imprese che ne potranno beneficiare in futuro adeguandosi al Di-sciplinare. Soprattutto per queste ultime sono evidenti i problemi di free-ri-ding legati al sostenimento dei costi per gli “investimenti” iniziali nella fasedi predisposizione e richiesta della Denominazione, il che può rendere oppor-tuno l’intervento dell’operatore pubblico volto a sostenere tali costi per evita-re comportamenti opportunistici successivi.

L’intervento dell’operatore pubblico è legittimato anche per la copertura dicosti congiunti tra più Denominazioni (quali quelli di controllo e sanzione),senza la quale si potrebbe determinare una sottoutilizzazione dello strumentodelle Denominazioni.

Il problema distributivo assume una grande rilevanza sia in termini verti-cali, ovvero tra le imprese poste ai differenti stadi del processo produttivo delprodotto tipico, che in termini orizzontali, ovvero tra imprese operanti nellostesso stadio del processo ma con volumi produttivi e/o caratteristiche orga-nizzative e gestionali diverse.

Dalle caratteristiche delle differenti tipologie di costi derivano importantiimplicazioni per le imprese considerate tanto individualmente quanto comecollettività, e in particolare potenziali effetti di esclusione dall’impiego dellaDenominazione per imprese di piccole dimensioni o che comunque realizza-no un limitato volume produttivo.

Alle tipologie di costi sopra elencate possono essere aggiunti i costi diesclusione, derivanti dal fatto che alcune imprese che già producevano il pro-dotto tipico non hanno la possibilità di adattarsi al Disciplinare. A livello del-l’impresa ciò può comportare mancati redditi ma anche una possibile riduzio-ne del valore degli investimenti legati al processo produttivo del prodotto ti-pico. Qualora gli effetti di esclusione interessino intere tipologie di imprese,e in particolare quelle più artigianali, si possono determinare effetti destabi-lizzanti sul sistema produttivo e sulla qualità stessa del prodotto tipico: questeimprese sono infatti spesso tra le più attente nel preservare la tradizionalitàdel prodotto e del processo, e a loro spesso si lega la stessa immagine del pro-dotto tipico.

Le conseguenti ricadute a livello territoriale dovranno essere considerateanche dall’operatore pubblico in sede di valutazione circa l’opportunità di so-stenere il processo di riconoscimento della DOP-IGP e di orientare i contenu-ti del Disciplinare. Evidentemente è spesso necessario ampliare il punto di os-servazione da quello dell’impresa e del sistema produttivo a quello della col-lettività.

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Tabella 2 – Classificazione dei costi d’usoFase del Relazione con Tipologia di Tipologia del processo di il volume manifestazione soggetto su realizzazione produttivo finanziaria cui ricadonodella Denominazione

Costi Anteriori al Hanno natura In parte costi In parte hanno preliminari riconoscimento fissa pagati (es. natura

relazioni collettiva; tecniche, analisi), sono spesso in parte non sostenuti in pagati (es. costi parte di transazione e dall’operatore organizzazione pubblico sostenuti dalle (assistenza imprese per tecnico-accordarsi) scientifica)

Costi diretti Legati al In parte fissi Di norma sono Singole di controllo funzionamento (legati al controllo costi pagati impresee certificazione della della struttura

Denominazione produttiva delle imprese) e in parte variabili o “a scatti” (legati al controllo del prodotto)

Costi diretti Legati al In parte fissi Pagati e non In parte di supporto alla funzionamento (es. sistemi pagati, collettivi certificazione della informatici di difficilmente (possibili

Denominazione tracciabilità) e imputabili guadagni di in parte variabili direttamente e efficienza)o a scatti (istrut- interamente al toria pratiche di prodotto certificazione) marchiato

Costi indiretti di Legati Fissi, In parte pagati; Riguardano sia le adattamento all’accesso eventualmente alcuni non hanno imprese (es. strutturale e di al sistema a scatti diretta adattamenti agli riorganizzazione manifestazione impianti) che il

finanziaria (es. sistema (ad es. riorganizzazioni sistemi collettivi interne) di gestione)

Costi indiretti Legati Variabili (es. Di norma Di norma di adattamento all’accesso maggiori costi pagati individualioperativo al sistema per materia prima)

Costi indiretti Legati al Variabili Costi non pagati Individualidi non conformitàfunzionamento (mancato

aziendale della guadagno)Denominazione

Costi Legati al Fissi o a scatti Costi pagati, Collettivicomplementari funzionamento spesso pagati promozionali della congiuntamente

Denominazione ai costi diretti

Costi Legati al Fissi Costi pagati Collettivi, spesso complementari funzionamento sostenuti in parte di sorveglianza della dall’operatore e sanzione Denominazione pubblico

Fonte: nostra elaborazione

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5. I costi diretti dell’uso delle Denominazioni geografiche: casi distudio

I costi per l’attività di controllo e di certificazione sono sostenuti dalle im-prese a fronte del servizio reso dagli OdC, cui spetta di verificare la rispon-denza del prodotto e del processo ai contenuti del Disciplinare.

In considerazione della rilevanza di tale componente di costo per il fun-zionamento delle Denominazioni, anche quale elemento di valutazione circala presentazione o meno della richiesta di protezione all’Unione Europea, èstata svolta una specifica analisi empirica relativamente ad alcuni prodottiagroalimentari toscani che già hanno ottenuto la protezione comunitaria (OlioToscano IGP, Vitellone Bianco dell’Appennino Centrale IGP e Pecorino To-scano DOP), con l’obiettivo di mettere in risalto l’entità relativa di tale com-ponente di costo e il modo con cui i costi di controllo e di certificazione sonoripartiti tra le diverse categorie di imprese (sia a livello orizzontale che verti-cale) interessate alla Denominazione, anche a seguito dell’azione dei Consor-zi e delle istituzioni pubbliche locali.

5.1. Pecorino Toscano DOP

Il Pecorino Toscano DOP è regolato da un Disciplinare che lascia alle im-prese un certo margine di libertà su taluni aspetti del processo e del prodotto,al fine di includere nella Denominazione le diverse varietà di Pecorino tradi-zionalmente presenti sul territorio regionale.

Il Piano dei Controlli identifica quattro fasi principali nella filiera del Pe-corino Toscano DOP: l’allevamento ovino e la relativa produzione di latte, laraccolta del latte stesso, la caseificazione e la stagionatura del formaggio.Ogni fase del processo produttivo è controllata annualmente dall’Organismodi Controllo, e il costo totale che deriva dalle operazioni di verifica e certifi-cazione è distribuito lungo tutta la filiera.

Numerosi operatori della filiera sono riuniti nel Consorzio di Tutela delPecorino Toscano, che svolge attività di assistenza tecnica ai propri associati,organizza la tenuta dei registri relativi al latte prodotto e a quello caseificato,e supporta le operazioni di marketing delle singole imprese realizzando ini-ziative promozionali. Il Consorzio agisce da struttura associativa intermedia,predisponendo per le imprese (anche quelle non associate) la documentazio-ne amministrativa necessaria per lo svolgimento delle attività di verifica e cer-tificazione da parte dell’OdC, consentendone così una semplificazione note-vole dell’attività e risparmi nelle tariffe. Parte della quota associativa al Con-sorzio erogata dagli associati è destinata a coprire i costi che il Consorzio so-stiene per i servizi di tenuta della documentazione, supporto amministrativo epromozione del prodotto, e che in assenza di questa istituzione intermedia sa-

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rebbero stati erogati direttamente dai produttori all’OdC e/o sostenuti interna-mente all’azienda.

La determinazione dei costi di controllo e certificazione è complessa poi-ché alcuni operatori (allevatori) pagano una tariffa per la certificazione ed unaper i servizi consortili (tab. 3, II e III colonna), mentre altri (caseifici e sta-gionatori) pagano al Consorzio un’unica tariffa che comprende entrambe levoci (tab. 3, III colonna). Inoltre i produttori non associati al Consorzio in-staurano rapporti diretti con l’OdC, e non è stato possibile quantificare l’am-montare dei costi sostenuti per la predisposizione della documentazione, e ilmodo con cui questi si ripartiscono tra OdC e azienda controllata.

Tabella 3 – Pecorino Toscano DOP: costi di controllo e di certificazione, e costi diadesione al Consorzio di Tutela (valori in euro, riferiti ad anno)

Costi certificazione DOP Costi di adesione alConsorzio di Tutela

AllevatoriQuota proporzionale – 0,001/lt.Quota fissa 21,00 100,00

RaccoglitoriQuota proporzionale – –Quota fissa 620,00 –

Caseifici (solo se non consorziati) (compresi costi di certificaz.) Quota proporzionale 0,0085/forma 0,10/kg Quota fissa 300,00 2.000,00

Stagionatori (solo se non consorziati) (compresi costi di certificaz.) Quota proporzionale 0,0085/forma 0,10/kg Quota fissa 300,00 1.000,00

Fonte: indagine diretta

Gli allevatori e i raccoglitori del latte pagano all’OdC una tariffa annualeindipendente dalla quantità prodotta o raccolta, mentre i caseifici e gli stagio-natori pagano una tariffa annuale più una tariffa proporzionale al numero diforme di Pecorino Toscano certificate (tab. 3, II colonna).

Inoltre gli allevatori devono pagare al Consorzio di Tutela sia una quotafissa che una proporzionale ai litri di latte prodotti e destinati alla produzionedi Pecorino Toscano DOP, così come i caseifici e gli stagionatori devono pa-gare una quota fissa annua più una quota proporzionale al quantitativo di Pe-corino Toscano prodotto: questi pagamenti includono anche la tariffa destina-ta all’OdC, mentre i raccoglitori non pagano alcuna quota al Consorzio, nonessendo associati ad esso (tab. 3, III colonna).

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Per una valutazione dei costi di controllo e certificazione è opportuno con-siderare che il prezzo medio all’ingrosso del Pecorino Toscano DOP è pari acirca 7,50 euro/Kg per il pecorino “fresco” e 9,00 euro/Kg per quello “sta-gionato” (le uniche tipologie previste dal Disciplinare di produzione), anchese il prezzo varia molto secondo il canale commerciale, la sua collocazionegeografica e la strategia di marketing delle singole aziende.

5.2. Olio Toscano IGP

Il Disciplinare di Produzione dell’Olio Toscano IGP interessa l’intero pro-cesso produttivo dell’olio, imponendo la tracciabilità completa del prodotto,dall’origine delle olive fino al momento dell’imbottigliamento. Le aziendeche utilizzano la Denominazione vengono sottoposte dall’OdC a verifiche inazienda: una parte di esse avvengono una tantum, come il controllo delle va-rietà di olivo, altre invece hanno carattere periodico, altre ancora sono basatesu prove documentali su un campione di aziende. Le caratteristiche del pro-dotto finale sono invece verificate direttamente per ogni lotto di imbottiglia-mento da panel di assaggio e laboratori chimici.

La polverizzazione delle aziende olivicole e della filiera6 e le specificitàdei canali commerciali dell’olio hanno richiesto la presenza di una strutturaintermedia – il Consorzio di tutela dell’Olio di Oliva Toscano – in grado, ol-tre che di svolgere le attività di promozione su scala internazionale, di sup-portare l’OdC agevolando la predisposizione della documentazione ammini-strativa da parte delle imprese. Per implementare al meglio questo sistema ditracciabilità il Consorzio ha attivato un sito web all’interno del quale ogniazienda della filiera IGP può inserire la propria documentazione, che in talmodo può essere più agevolmente (e dunque con costi molto inferiori) verifi-cata dall’OdC.

Le attività dell’OdC e quelle di supporto svolte dal Consorzio sono quindistrettamente legate, tanto che è molto difficile separare i costi relativi all’unae all’altra attività.

La struttura dei costi di controllo e di certificazione dell’Olio Toscano IGP(tabella 4) è fortemente influenzata anche dalla natura dei controlli, e in par-ticolare dalle analisi chimico-fisiche e organolettiche, che hanno carattere fis-so per ogni lotto di confezionamento. Questi costi sono sostenuti solo dalleaziende che effettuano l’imbottigliamento, che devono pagare una tariffa mi-nima di 309,87 euro (IVA esclusa) per ogni lotto: questo importo però inclu-

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6. A titolo di esempio si consideri che durante la campagna 2002/2003 la quantità di oliocertificato Toscano IGP ammontava a 2.500 tonnellate, prodotte da 9.900 aziende olivicole e244 molitori, confezionate poi da 258 imbottigliatori; i lotti di imbottigliamento sono stati pa-ri a 358 con una media di 70 quintali di olio di oliva per lotto, sebbene questi fossero costitui-ti da pochissimi lotti di grandi dimensioni e molti di medie e piccole dimensioni.

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de il costo di tutte le analisi, dei controlli e quello relativo alle pratiche buro-cratiche, oltre alla quota di costo “vivo” dovuta all’OdC.

Per i lotti oltre gli 800 Kg le aziende di confezionamento pagano un costoper bottiglia (variabile sulla base della capacità delle bottiglie utilizzate, adesempio euro 0,34 per ogni bottiglia da 1 lt. e euro 0,26 per quelle da 0,75lt.); questo pagamento è diviso tra l’OdC (a titolo di attività ispettiva) e ilConsorzio (per fornitura di etichette e attività di marketing). Tutti i costi sonosostenuti direttamente dalle aziende che imbottigliano Olio Toscano IGP, chepossono essere olivicoltori o molitori che effettuano vendita diretta oppureaziende specializzate in imbottigliamento, in alcuni casi di grandi dimensioni.

Dato che questa distribuzione dei costi penalizzava le aziende di piccoledimensioni che effettuavano imbottigliamento, durante la campagna 2002-03il Consorzio ha deciso di ridurre la quota fissa per lotto pagata dagli imbotti-gliatori (da 309 euro a 100 euro) e la dimensione del lotto oltre la quale ini-zia ad essere applicata la quota proporzionale (da lotti di 800 Kg a lotti di 265Kg circa): questa iniziativa ha permesso anche ai piccoli imbottigliatori dipartecipare al circuito IGP.

Tabella 4 – Olio Toscano IGP: costi diretti di certificazione e costi di adesione alConsorzio di Tutela

Costi certificazione IGP Costi Consorzio di Tutela

Coltivazione e raccolta oliveQuota Fissa (per azienda) euro 15,00 euro 15,00/anno +

(una tantum (euro 11,00 una tantumI anno) I anno)

Quota proporzionale – –

MolituraQuota Fissa (per azienda) euro 15,00 euro 15,00/anno +

(una tantum (euro 11,00 una tantumI anno) I anno)

Quota proporzionale – –

ImbottigliamentoQuota fissa (per lotto conf.) euro 309,87 – Quota proporzionale (lotti ≥ 800 Kg) 0,38 euro/Kg

(costi certificazione + costi consorzio)

Fonte: Consorzio di tutela dell’Olio di Oliva Toscano.

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La tabella 5 illustra gli effetti delle tariffe “scontate” per alcune quantità diOlio Toscano IGP imbottigliato; come si può notare l’ammontare del costoper ogni Kg di olio con o senza “sconto” è inversamente proporzionale alquantitativo prodotto; la restante parte della tariffa minima dovuta all’ente dicontrollo è coperta dal Consorzio stesso grazie alla parte proporzionale dellatariffa. La politica a favore dei piccoli produttori/imbottigliatori è molto im-portante anche in considerazione dell’incidenza dei costi di controllo e di cer-tificazione sul prezzo di vendita dell’Olio Toscano IGP che, sul mercato fina-le, varia tra i 5 e i 10 euro per confezione da 0,75 lt.

Tabella 5 – Andamento dei costi di controllo e di certificazione dell’Olio ToscanoIGP per una bottiglia da 0,75 lt. (Fase di imbottigliamento, importi in euro)

Lotto di confezionamento Kg 200 Kg 300 Kg 400 Kg 800 Kg 1.000

Per Lotto Senza “sconto” 309 309 309 309 378 Con “sconto” 100 113 151 309 378

Differenza 209 196 158 0 0

Per Kg

Senza “sconto” 1,55 1,03 0,77 0,38 0,38 Con “sconto” 0,50 0,38 0,38 0,38 0,38

Differenza 1,05 0,65 0,39 0,00 0,00

Fonte: nostra elaborazione su dati Consorzio Olio Toscano.

5.3. Vitellone Bianco dell’Appennino Centrale IGP - Chianina

Secondo il Disciplinare di Produzione del Vitellone Bianco dell’Appenni-no Centrale IGP – Chianina, e il Piano dei controlli che ne deriva, il processoproduttivo è suddiviso nelle fasi di allevamento, di macellazione e seziona-mento delle carcasse, e di commercializzazione.

I costi di controllo e di certificazione, secondo il tariffario dell’OdC, nonsono proporzionali al peso dei vitelli ma al numero degli animali controllati odi carcasse marchiate, con tariffe diverse per allevatori, macellatori e labora-tori di sezionamento a seconda della tipologia di servizio richiesta all’OdC.

La distribuzione dei costi di certificazione lungo la filiera dipende dai ser-vizi richiesti all’OdC: in particolare l’intervento diretto dell’OdC è richiestonella fase di allevamento, che rappresenta un punto critico per garantire la qua-lità delle carni e pertanto è sottoposta a verifiche sulla purezza della razza deivitelli e sulla loro alimentazione, nonché nella fase di sezionamento, quandoviene apposto il marchio IGP sui 18 tagli di ogni carcassa previsti dal Disci-plinare di Produzione, momento importante per garantire l’origine delle carni.

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Il controllo delle carni di Chianina IGP è attuato anche a livello documen-tale per verificare la tracciabilità del prodotto, e a livello ispettivo – analiticoper dimostrare che questo risponda ai parametri chimico – fisici stabiliti nelDisciplinare di produzione.

La maggior parte degli allevatori di Chianina IGP portano i propri vitello-ni ai mattatoi di zona, che dopo averli macellati e sezionati li rendono agli al-levatori stessi, e anche in questo caso i costi di certificazione relativi al con-trollo e alla marchiatura delle carcasse sono interamente sostenuti dagli alle-vatori (in quanto sono loro a richiedere l’intervento dell’OdC).

Il Consorzio di Tutela assolve a molteplici funzioni: oltre a gestire la regi-strazione dei vitelli al Libro Genealogico Nazionale, svolge il ruolo di inter-mediario tra i propri associati (che sono soltanto allevatori) e tutti gli altrioperatori di filiera, oltre che con Enti locali e Istituzioni nazionali e comuni-tarie; esso inoltre fornisce ai suoi membri molti servizi quali ad esempio atti-vità promozionali, gestione delle pratiche burocratiche e assistenza tecnica,che sono inclusi, in termini di costo, nelle quote pagate al Consorzio daglioperatori della filiera della carne di Chianina IGP. Il Consorzio ha un maggiorpotere contrattuale di ogni singolo allevatore nella negoziazione delle tariffecon l’OdC; inoltre facilita l’attività dell’OdC stesso fungendo da “collettore”di informazioni e di documentazione.

Grazie anche all’intervento del Consorzio i costi diretti di certificazione siattestano in circa 20,66 € a carcassa che, considerando un prezzo medio del-la carcassa marchiata IGP di 2000 €, incidono sul prezzo finale per solol’1%. Evidentemente i costi diretti in sé non costituiscono un deterrente allacertificazione del prodotto, tuttavia come abbiamo sottolineato vi sono un in-sieme di altri oneri di adattamento e non conformità per l’azienda che posso-no effettivamente condizionare le scelte imprenditoriali.

Tabella 6 – “Vitellone Bianco dell’Appennino Centrale” – Chianina IGP: costi diret-ti di certificazione e costi di adesione al Consorzio di Tutela

Costi certificazione IGP Costi Consorzio di Tutela

AllevamentoQuota proporzionale euro 1,30/capo euro 19,36/carcassa Quota fissa – euro 25,00/anno (+ euro 25,00

una tantum I anno)

SezionamentoQuota proporzionale euro 19,36 /carcassa euro 1,30/carcassa Quota fissa – –

CommercializzazioneQuota proporzionale – –Quota fissa – euro 256,00 una tantum

(materiale pubblicitario con logo IGP)

Fonte: interviste dirette

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6. Entità e distribuzione dei costi diretti di certificazione

L’analisi dei casi analizzati conferma come l’entità dei costi diretti di cer-tificazione sia una variabile importante nella valutazione di convenienza daparte delle imprese dell’utilizzo della Denominazione quale strumento di va-lorizzazione del prodotto tipico.

L’entità dei costi dipende ampiamente dalle norme contenute nel Discipli-nare (e dunque dalla strategia che ha ispirato le imprese nella sua definizione)e dalla tipologia di controlli necessari a verificare la rispondenza del prodotto(o processo produttivo) a tali norme; di grande rilievo è anche il modo con cuiil Piano dei controlli traduce in prescrizioni operative le norme previste dalDisciplinare.

Particolarmente critiche sono le prescrizioni riguardanti le caratteristichefisico-chimiche o organolettiche che il prodotto finito deve avere per esserecertificabile come DOP o IGP. In questi casi potrà infatti essere necessariaun’analisi di laboratorio o una valutazione di tipo panel test, che spesso deveessere affidata a soggetti diversi dall’OdC, con un conseguente forte innalza-mento dei costi. L’opportunità di prevedere tali prescrizioni dovrà essere valu-tata quindi in sede di costituzione del Disciplinare alla luce della effettiva fun-zionalità rispetto alla garanzie del livello qualitativo desiderato del prodotto.

La quantificazione del costo diretto di certificazione per unità di prodottoe quindi della sua incidenza sul prezzo finale risulta estremamente difficolto-sa nei casi analizzati, in quanto la componente fissa dei costi di certificazionecomporta una variabilità del costo medio in funzione del volume effettiva-mente certificato; un ulteriore fattore di complessificazione del calcolo delcosto diretto deriva dal fatto che il Consorzio spesso riscuote gli importi del-la certificazione per conto dell’OdC congiuntamente alle quote associativeper il finanziamento delle proprie attività (promozione ecc.).

Grande rilevanza assume inoltre la modalità in base alla quale i costi ven-gono distribuiti verticalmente, vale a dire tra le varie fasi della filiera, e oriz-zontalmente, cioè tra gli operatori della medesima fase.

La distribuzione verticale dei costi diretti di certificazione nei casi esa-minati appare molto diversa, e dipende in primo luogo da quali fasi della fi-liera sono interessate dalle norme del Disciplinare: ad esempio le prescrizio-ni inerenti il metodo di confezionamento influenzeranno fortemente gli ope-ratori che svolgeranno quella fase e che dovranno essere soggetti al controllodell’OdC, mentre prescrizioni riguardanti la modalità di ottenimento dellamateria prima influenzeranno direttamente i produttori di quest’ultima.

Ad esempio nella filiera del Vitellone Bianco IGP i costi di certificazionesono sostenuti soltanto dagli allevatori e dai sezionatori: le fasi di allevamen-to e marchiatura delle carcasse sono state infatti considerate in sede di reda-zione del Disciplinare come punti particolarmente importanti per garantire laqualità del prodotto.

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La distribuzione verticale dei costi dipende anche da motivi di razionaliz-zazione e contenimento degli oneri complessivi della filiera. Nel caso dell’O-lio toscano IGP la gran parte del costo di certificazione è sostenuto dagli ope-ratori che praticano l’imbottigliamento (prescindendo dal fatto che si tratti diaziende agricole o di grandi imprese di confezionamento): in questa fase de-vono svolgersi analisi fisico-chimiche e panel test sull’olio di oliva, ma defacto gli imbottigliatori contribuiscono anche alla copertura di tutti gli altricosti di controllo che sono stati svolti nelle precedenti fasi del processo. In ef-fetti l’imbottigliamento rappresenta la fase in cui si crea il maggiore valoreaggiunto del prodotto, ed è svolta da un ridotto numero di aziende, di dimen-sioni grandi relativamente a quelle che operano solo nella fase di coltivazio-ne: ciò permette di mantenere bassi i costi di funzionamento e di transazionerelativi alle verifiche da effettuare, grazie al raggruppamento dei controlli piùimportanti e alla concentrazione dei prelievi (e dei relativi costi). Imprese oli-vicole e frantoi non imbottigliatori sostengono comunque altre tipologie dicosto, in particolare i costi di adattamento.

Non è comunque sufficiente esaminare il soggetto che sostiene diretta-mente il costo di certificazione, ma anche la sua capacità di trasferirlo ad al-tre componenti della filiera poste a monte o a valle sotto forma rispettiva-mente di minori o maggiori prezzi, in virtù delle condizioni strutturali e ope-rative vigenti sul mercato.

La distribuzione orizzontale dei costi di certificazione, tra le impreseoperanti all’interno delle singole fasi della filiera, ha importanti effetti sul-l’accesso delle differenti tipologie di impresa all’uso della DOP-IGP. I tarif-fari dei prodotti esaminati evidenziano infatti la presenza di costi proporzio-nali al volume di prodotto certificato e di quote fisse, pagate di solito annual-mente: questa divisione influenza direttamente la distribuzione orizzontale deicosti di certificazione tra operatori di grandi e piccole dimensioni.

L’entità dei costi di certificazione e la loro distribuzione orizzontale e ver-ticale può essere fortemente influenzata dalla presenza e dalla strategia deiConsorzi che riuniscono gli operatori della filiera e assumono il ruolo di in-terfaccia tra l’OdC e gli operatori stessi; essi possono aumentare il poterecontrattuale dei propri associati al momento della definizione delle tariffe dicertificazione, e in molti casi supportano la predisposizione della documenta-zione necessaria agli adempimenti burocratici per i propri aderenti arrivandodi fatto a svolgere un ruolo attivo nel processo di controllo.

Il Consorzio può negoziare con l’OdC tariffe più basse per le analisi e leispezioni, non solo operando un bilanciamento di potere contrattuale (partico-larmente utile per i produttori di piccole dimensioni) ma anche contribuendoad un contenimento effettivo dei costi dell’OdC stesso. In molti casi ad esem-pio il Consorzio contribuisce alla predisposizione della documentazione daverificare riguardante ogni singolo produttore e in alcuni casi anche all’atti-vità di autocontrollo dei produttori: la frammentazione produttiva della mag-

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gior parte dei prodotti esaminati comporterebbe numerose visite ispettive di-sperse sul territorio, con conseguenti incrementi delle tariffe di controllo so-prattutto nella loro componente fissa, e dunque penalizzando soprattutto l’a-desione dei piccoli produttori.

Per quanto concerne la distribuzione orizzontale, ad esempio nel caso del-l’Olio Toscano IGP il Consorzio opera una politica redistributiva volta a tra-sferire parte degli oneri fissi dalle piccole alle grandi imprese, rendendo piùsostenibile l’utilizzo della IGP alle imprese di imbottigliamento che avrebbe-ro potuto esserne escluse.

Altrettanto importante e frequente è la politica di distribuzione verticaledei costi attuata dai Consorzi, effettuata anche mediante la modulazione dellaquota associativa annuale richiesta, come evidenziato nei paragrafi preceden-ti. Ad esempio nel caso dell’olio Toscano IGP il fatto di avere ridotto note-volmente gli oneri finanziari per le imprese olivicole non imbottigliatrici for-nisce agli olivicoltori un fondamentale incentivo alla produzione di un olioconforme al Disciplinare, favorendo la nascita di un mercato locale “atto a di-venire IGP” e dunque facilitando l’attività degli imbottigliatori. Nel caso delVitellone Bianco IGP il totale dei costi effettivi (inclusi quelli relativi al Con-sorzio) sostenuti dagli allevatori di Chianina IGP e dai sezionatori per ognianimale controllato e carcassa marchiata sono uguali, sia pure a fronte diadempimenti effettivi molto diversi.

L’attività dei Consorzi si rivela dunque essenziale, nei casi esaminati l’a-desione delle imprese a tali organismi è molto elevata e questi nella quasi to-talità dei casi svolgono la funzione di interfaccia tra le imprese e gli OdC, ol-tre che attività di assistenza tecnica ed azioni di valorizzazione e promozionedel prodotto.

7. Considerazioni conclusive

L’analisi svolta ha evidenziato la pluralità delle componenti di costo deri-vanti dalla istituzione e dall’impiego di una Denominazione geografica – lequali interessano la singola impresa ma anche la collettività degli attori coin-volti – e la necessità dell’adozione di una prospettiva intertemporale per unacorretta valutazione.

Numerosi costi, pur se percepiti dalle imprese nella loro importanza, sonodifficilmente quantificabili anche a causa dell’assenza di specifiche rilevazio-ni contabili da parte dei produttori interessati alla produzione dei prodotti pro-tetti, derivante dalla loro tipologia (piccole imprese, spesso artigianali, talvol-ta produttori non professionali) ma anche dal fatto che spesso il prodottoDOP-IGP rappresenta una parte non centrale dell’attività aziendale.

Nelle imprese coinvolte nella produzione del prodotto tipico fin da primadel riconoscimento della Denominazione geografica i costi diretti di certifica-

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zione sono spesso l’elemento cui si guarda con maggiore attenzione ai finidella decisione se utilizzare o meno la DOP-IGP, mentre si tende a trascurarealtre componenti di costo altrettanto rilevanti, o addirittura più rilevanti.

L’entità dei costi diretti di certificazione dipende in maniera molto impor-tante dalla struttura e dalle prescrizioni del Disciplinare, che talvolta dettaglia-no aspetti di scarsa rilevanza per la qualità complessiva del prodotto, generan-do costi di controllo non giustificabili dal punto di vista della valorizzazionesul mercato finale. Tali prescrizioni possono però trovare giustificazione in al-tri aspetti, quali la volontà di creare barriere all’entrata per nuovi produttori, ol’interesse a garantire la presenza di certi caratteri del processo produttivo invirtù dei loro effetti positivi sull’ambiente locale; in questo ultimo caso la pro-spettiva è quella della strategia di qualità territoriale di cui la valorizzazionedel prodotto può divenire parte essenziale (Pacciani et al., 2003).

Le prescrizioni del Disciplinare devono essere tradotte in punti critici e at-tività di controllo nell’ambito del Piano dei controlli. L’analisi ha evidenziatocome in sede di redazione del Piano vi siano margini di manovra significativiper contemperare le esigenze di garanzia e qualità dei controlli e quelle delcontenimento dei costi. Il mantenimento di un regime di reale e fattiva con-correnza tra gli organismi di controllo è fondamentale, ma essa deve realiz-zarsi nell’ambito di una attenta supervisione da parte di organismi superiorisia privati che pubblici.

Tanto la struttura del Piano dei controlli che le scelte in materia di forma-zione del tariffario influenzano fortemente la ripartizione verticale dei costidiretti di certificazione tra gli operatori delle varie fasi della filiera. Nei casiove la produzione della materia prima è diffusa tra un grande numero di im-prese appare più razionale che la riscossione delle tariffe di certificazione av-venga presso le imprese dove avviene la concentrazione della materia prima,e ciò per motivazioni di tipo sia economico (riduzione dei costi di transazio-ne, presenza di effetti di traslazione del prelievo della tariffa) che di efficaciadel sistema (possibilità di valutare nella fase terminale l’opportunità o menodi richiedere la certificazione all’Organismo di controllo, laddove si debbanosostenere costi significativi per le verifiche di conformità sul prodotto finito,quali test di assaggio o analisi chimico-fisiche).

In generale la determinazione di tariffe di certificazione con componentifisse semplifica le operazioni di quantificazione e riscossione, ma comportapossibili effetti di discriminazione per i produttori di più modeste dimensioni.I costi diretti di certificazione vengono sovente riscossi attraverso i Consorzi,i quali hanno quindi possibilità di rimodularne la distribuzione tra le fasi del-la filiera e/o tra soggetti della stessa fase dotati di differenti caratteristichestrutturali e/o operative. Tale fatto può rivestire grande importanza nel favori-re l’accesso delle piccole imprese all’impiego della DOP-IGP, che si rivelauno dei punti più critici del parziale insuccesso delle Denominazioni dal latodell’offerta.

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Pur non avendo provveduto nel corso dell’indagine diretta a una loro si-stematica quantificazione, in base alle evidenze raccolte i costi di adattamen-to strutturale e operativo sono risultati importanti, ma di entità molto variabi-le tra aziende diverse per caratteristiche strutturali e operative. Anche per que-ste tipologie di costo gli organismi associativi possono agevolare le impresedi minori dimensioni e/o meno strutturate nell’utilizzo della Denominazione,fornendo assistenza tecnica e servizi amministrativi; di grande importanza è,più in generale, il ruolo di interfaccia che essi possono svolgere rispetto agliOrganismi di controllo.

L’entità assoluta dei costi totali d’uso delle Denominazioni, tanto direttiche di altra natura, rappresenta comunque solo una delle componenti su cui leimprese valutano la convenienza all’impiego della DOP-IGP nelle propriestrategie operative, che deve essere attentamente bilanciata con i benefici ot-tenibili. Ciò in un ottica non di breve periodo, tanto dal punto di vista dei co-sti (costi più alti derivanti da prescrizioni più rigide o controlli più accuratipossono nel medio periodo innalzare la qualità media del prodotto percepitadal consumatore e innescare positivi fenomeni di reputazione collettiva) cheda quello dei ricavi (oltre al maggior prezzo si tratta di valutare numerosi al-tri aspetti, quali l’accesso a nuovi canali, il consolidamento dei rapporti com-merciali, ecc.).

Tanto per i costi che per i benefici la dimensione individuale deve essereintegrata dagli aspetti collettivi che riguardano tanto la filiera del prodotto ti-pico che il territorio di produzione nel suo complesso, tenendo conto delle di-verse valenze del prodotto tipico sia per la collettività delle imprese della fi-liera (ivi compresi gli aspetti distributivi) che per la società locale nel suocomplesso.

La identificazione e valutazione di tali aspetti è molto difficile in quantodipende strettamente dal punto di vista del soggetto considerato. Sul territoriola Denominazione geografica può avere effetti positivi anche su attori non di-rettamente coinvolti nella filiera, ad esempio favorendo lo sviluppo di attivitàturistiche o artigianali, ma anche implicazioni a livello sociale e ambientale, ein particolare consentire la sopravvivenza di metodi produttivi e di agroecosi-stemi tradizionali e incoraggiare le interazioni sociali. Si tratta di implicazio-ni che devono essere attentamente valutate non solo dagli agenti della filiera,ma soprattutto dagli operatori pubblici locali. Proprio in virtù delle esternalitàpositive che l’ottenimento della protezione comunitaria può generare sulla so-cietà locale e sui consumatori in generale dovrebbe essere valutata la possibi-lità di studiare delle forme di supporto alla gestione della Denominazione e alsostenimento dei costi di certificazione anche da parte di soggetti diversi da-gli effettivi utilizzatori della Denominazione stessa.

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1. Introduzione

La valorizzazione dei prodotti agroalimentari tipici è un processo com-plesso che coinvolge una pluralità di attori, i quali sono portatori di specificiinteressi e quindi, potenzialmente, perseguono obiettivi e strategie individualidiversi e talvolta contrastanti. A monte di ciò sta lo stretto e profondo rappor-to che il prodotto tipico e il suo sistema di produzione hanno con il territorio,un rapporto che coinvolge una molteplicità di “capitali” (naturale, culturale,umano e sociale) sui quali il funzionamento del sistema di produzione e con-sumo esercita effetti positivi e negativi.

Tale complessità fa sì che la valorizzazione dei prodotti tipici assuma unsignificato e quindi una valenza che va oltre la semplice commercializzazio-ne, configurandosi come un processo in grado di creare un valore più com-plesso, comprensivo anche di componenti extra-economiche. La valorizzazio-ne del prodotto tipico determina un insieme di effetti indiretti che devono es-sere valutati in una prospettiva di equità e di sostenibilità. Tutto ciò ha profon-di effetti sulle metodologie e sugli strumenti di analisi da impiegare perdisegnare e per valutare le attività di valorizzazione di tali prodotti.

L’obiettivo di questo lavoro è quello di fornire alcuni elementi di ordinemetodologico sui passaggi fondamentali da affrontare in sede di impostazio-ne di una strategia di valorizzazione e sulle principali aree in cui questa stra-tegia deve essere articolata. Ciò consentirà di trarre indicazioni sui principi daadottare per la valutazione di una strategia di valorizzazione.

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8. IL PROCESSO DI VALORIZZAZIONEDELLE PRODUZIONI AGROALIMENTARI TIPICHE*

di Giovanni Belletti, Gianluca Brunori, Andrea Marescotti,Alessandro Pacciani, Adanella Rossi

*. Il presente saggio è stato concepito dagli Autori in maniera congiunta; sono comunqueda attribuirsi a Gianluca Brunori i paragrafi 1 e 4.1, a Giovanni Belletti i paragrafi 3 e 4.2, adAndrea Marescotti i paragrafi 2 e 4.3, ad Alessandro Pacciani il paragrafo 5 e ad Adanella Ros-si il paragrafo 4.4.

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La trattazione prenderà avvio con una discussione sulle molteplici di-mensioni della tipicità dei prodotti agroalimentari, per poi analizzare il con-cetto di valorizzazione riferito ai prodotti tipici individuandone principi,obiettivi e problematiche. Verrà poi proposta una scomposizione dell’atti-vità di valorizzazione in alcune fasi strategiche che tengano conto della spe-cificità dei prodotti tipici e dei loro sistemi produttivi, discutendo per cia-scuna area strategica obiettivi, azioni e problematiche. In conclusione ver-ranno proposte alcune considerazioni sulla valutazione della valorizzazionedei prodotti tipici.

2. Tipicità, innovazione e dimensione collettiva

Il prodotto agroalimentare tipico può essere definito come un prodotto chepresenta alcuni attributi di qualità unici che sono espressione delle specificitàdi un particolare contesto territoriale in cui il processo produttivo si realizza.Le qualità del prodotto, tanto materiali che immateriali, sono irriproducibili aldi fuori di quel particolare contesto economico, ambientale, sociale e cultura-le, e pertanto uniche. Il prodotto tipico deriva la propria specificità dall’esse-re intimamente legato al territorio, o meglio, secondo la terminologia france-se, al terroir (Delfosse, 1996; Casabianca et al., 2005).

Tre sono le dimensioni rilevanti nel determinare la tipicità del prodottoagroalimentare: la specificità delle risorse locali impiegate nel processo pro-duttivo; la storia e la tradizione produttiva; la dimensione collettiva e la pre-senza di conoscenza condivisa a livello locale (Barjolle, Boisseaux e Dufour,1998; Bérard e Marchenay, 1995; Casabianca et al., 2005).

Le risorse specifiche locali determinano le peculiarità degli attributi diqualità del prodotto tipico derivanti dall’ambiente “fisico” in cui il prodotto èrealizzato, e in particolare dall’ambiente pedo-climatico e dalle risorse gene-tiche. Tuttavia ricondurre la tipicità di un prodotto agroalimentare al solo le-game con le risorse naturali appare riduttivo, dal momento che è sempre l’a-zione dell’uomo che permette alle risorse naturali di esprimere le loro poten-zialità, come appare con particolare evidenza per i prodotti trasformati (qualiformaggi e salumi), per i quali si fa riferimento alle particolarità assunte dal-le pratiche e tecniche di condizionamento e trasformazione della materia pri-ma, pratiche altamente specifiche tramandatesi nel tempo, e originate dall’e-voluzione della conoscenza e dagli adattamenti delle tecniche di lavorazioneal particolare contesto ambientale e sociale del luogo.

Nei prodotti agroalimentari tipici è però la componente della tradizionestorica ad assumere un carattere centrale, almeno nell’accezione di tipicitàprevalente all’interno dei paesi mediterranei, Italia e Francia in testa. È infat-ti attraverso un processo evolutivo che nel tempo si formano, si diffondono, si

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modificano, si perfezionano e si adattano le tecniche e i saper-fare degli atto-ri locali al contesto socio-economico, ambientale e culturale del luogo.

Il legame del prodotto tipico col territorio va riferito però anche agli aspet-ti di cultura e di identità locale, quando il prodotto tipico caratterizza la “me-moria storica” della popolazione locale e rappresenta per essa un elementoidentitario. L’elemento culturale e identitario assume allora una importantissi-ma valenza catalizzatrice della volontà della collettività locale di preservare ilprodotto, e rafforza i percorsi di valorizzazione che vengono attivati local-mente (Bérard, Marchenay e Casabianca, 2005).

Il riferimento al legame col tempo e con la memoria, con le tradizioni lo-cali e con la cultura, introduce una importantissima questione attorno ai pro-dotti agroalimentari tipici, quella dell’innovazione: tema centrale in quantomolto spesso la valorizzazione del prodotto tipico richiede l’introduzione dimodifiche rispetto alla tradizione, anche se talvolta solo a livello di procedu-re e routines organizzative. Il legame tra prodotto e territorio viene continua-mente re-interpretato alla luce dei cambiamenti del contesto locale e globale,ed è proprio la collettività locale che si deve fare garante del mantenimentodell’autenticità del prodotto e della permanenza dell’uso delle risorse specifi-che locali che conferiscono il carattere unico e irripetibile al prodotto (DeSainte Marie e Casabianca, 1995).

Ma fino a che punto un’innovazione, sia essa di natura tecnologica, orga-nizzativa, o più semplicemente nelle modalità di confezionamento e presenta-zione del prodotto, può essere “autorizzata” senza far perdere al prodotto lesue peculiarità e i suoi tratti di irriproducibilità al di fuori di quel contesto lo-cale? Fino a che punto è possibile modificare i fattori fondanti della tipicità,ossia i vari tipi di legame che sussistono tra prodotto e territorio? Si tratta diquestioni di grande spessore1, che hanno importanti riflessi operativi nel mo-mento in cui si proceda a una codifica dei metodi di produzione.

L’innovazione in effetti sembra a prima vista incompatibile con il rispettodella tradizione; d’altra parte nel corso della sua storia il prodotto non è ri-masto immutato, ma è stato adattato alle esigenze di carattere produttivo,commerciale, normativo, ambientale, sociale e culturale. La tradizione devedunque essere reinterpretata e negoziata all’interno della comunità dei pro-duttori e della società locale, dopo aver identificato un “nocciolo duro” dellatipicità che non può essere che il frutto della riflessione, e talvolta anche delconflitto, tra gli attori locali (De Sainte Marie et al, 1995).

Storia e tradizioni culturali rimandano a una seconda particolarità dei pro-dotti agroalimentari tipici, la dimensione collettiva (Berriet, 1995; Barjolle,

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1. Per una discussione su questi aspetti con riferimento al caso del Prisuttu (prosciutto cru-do) in Corsica, e in particolare sugli adattamenti nelle tecniche di salagione e stagionatura in-trodotti anche per tenere conto delle esigenze dei consumatori odierni, si vedano Casabianca ede Sainte Marie (1998), De Sainte Marie e Casabianca F. (1995).

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Chappuis e Sylvander, 1998; Belletti, Brunori, Marescotti e Rossi, 2002). Ciòche infatti distingue il prodotto tipico da un qualsiasi prodotto di qualità spe-cifica è che, proprio dal legame con un dato territorio che si è affermato, affi-nato, consolidato e modificato nel corso del tempo all’interno di una comu-nità di persone, esso è strettamente legato ad una collettività e non ad un sin-golo individuo o impresa.

Le particolarità assunte dal legame del prodotto col territorio di origine so-no l’esito di un articolato processo evolutivo di contrattazione tra i produttorilocali, e tra di essi e la popolazione locale nonché, nel tempo, quando il si-stema si apre ai mercati più distanti, con i consumatori e i cittadini non loca-li. Il prodotto tipico è la risultante di questa interazione, e incorpora un sape-re costruito nel tempo e condiviso all’interno di una collettività territorializ-zata.

Il processo di accumulazione e sedimentazione di conoscenza (spesso con-testuale e non codificata) rende il prodotto l’espressione della società localenella sua organizzazione, nei suoi valori, nelle sue tradizioni e nei suoi gustiadattati al contesto ambientale, economico, sociale e culturale del luogo. Aquesto proposito si parla spesso di dimensione patrimoniale del prodotto tipi-co (Bérard e Marchenay, 2004): il prodotto, e le modalità per produrlo, con-servarlo, distribuirlo, consumarlo ed apprezzarlo entrano a far parte del patri-monio della collettività locale che, sola, è legittimata ad appropriarsene per fi-nalità economiche, sociali, culturali. La tipicità quindi non si costruisce solosulle caratteristiche del processo produttivo e del prodotto, ma soprattutto sul-le relazioni tra attori del sistema.

Proprio per la sua natura identitaria e collettiva attorno al processo di va-lorizzazione del prodotto tipico sono solitamente coinvolte numerose tipolo-gie di attori. Ad esempio gli attori possono o meno essere coinvolti diretta-mente nella produzione e distribuzione del prodotto (nella “filiera”), possonoavere natura individuale o collettiva, e se collettivi si può trattare di Ammini-strazioni locali o di istituzioni intermedie (organizzazioni di imprese, pro-lo-co, associazioni di consumatori, ecc.). Non tutti gli attori sono necessaria-mente inseriti nella collettività locale (ad es. operatori della filiera non locali,istituzioni scientifiche, istituzioni pubbliche e associazioni di consumatori na-zionali), e ciascun attore ha una “visione” del prodotto tipico che dipende daipropri interessi (economici, sociali, politici, scientifici, ecc.). Dalla diversitàdegli attori deriva una diversità degli obiettivi che si intendono conseguiremediante la valorizzazione.

Una definizione più completa di prodotto tipico, che tenga conto degliaspetti sopra ricordati, è la seguente: Un prodotto agroalimentare tipico è l’e-sito di un processo storico collettivo e localizzato di accumulazione di cono-scenza contestuale che si fonda su di una combinazione di risorse territoria-li specifiche sia di natura fisica che antropica che dà luogo ad un legame for-te, unico e irriproducibile col territorio di origine.

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3. Qualità, valore e valorizzazione dei prodotti tipici

Il concetto di valorizzazione – intesa come attività volta ad aumentare ilvalore del bene – è di per sé molto articolato e nel caso del prodotto tipico as-sume ulteriori elementi di complessità derivanti dai legami con le risorse lo-cali, dalla dimensione collettiva e dalle relazioni con la comunità locale, im-plicando quindi aspetti che oltrepassano la dimensione aziendale. La creazio-ne del valore si basa su una dialettica tra mondo della produzione, che incor-pora nel prodotto delle risorse e dunque dei valori-costo, e i bisogni espressidalla società, che riconosce nel prodotto dei valori d’uso ma anche altre com-ponenti non necessariamente legate all’uso diretto e immediato del prodotto(Endrighi, 1999).

Dal legame con il territorio il prodotto tipico deriva infatti specifici attri-buti non solo di tipo materiale (aspetto, parametri chimico-fisici e organolet-tici) e immateriale (legame con cultura locale, ambiente, artigianalità e tradi-zionalità del processo produttivo), ma anche “esterni”, vale a dire derivantidalle relazioni tra prodotto e territorio e fruibili appieno dal consumatore so-lo in maniera fortemente contestualizzata. Il consumatore che riconosce il va-lore di questi attributi sarà disposto a pagare un “sovrapprezzo” per il prodot-to tipico, non solo rispetto a un prodotto di base della stessa categoria mer-ceologica ma anche rispetto a prodotti dotati di simili caratteri chimico-fisico-organolettici ma di origine diversa (Belletti, 2003); è però riduttivo appiattireil concetto di “valore” di un prodotto sul concetto di “prezzo” del prodottostesso.

La valorizzazione mira ad armonizzare le caratteristiche della produzionecon le attese del consumo e della società nel suo complesso, rendendo evi-denti la pluralità degli attributi del prodotto e facendo maturare una disponi-bilità sulla base delle specificità del prodotto legate al territorio. Il prezzo cheil prodotto tipico spunta sul mercato deriva però principalmente dal valored’uso diretto attribuito dal consumatore attuale ma non sempre esprime altrecomponenti, quali il valore d’uso indiretto (del prodotto o di risorse legate alsuo sistema produttivo), il valore ereditario (legato alla trasmissione alle ge-nerazioni future del prodotto o di aspetti ad esso collegati), il valore di esi-stenza (legato al mantenimento di risorse specifiche di tipo fisico, quali va-rietà vegetali o razze a rischio di erosione genetica, e/o di tipo antropico, qua-li cultura e tradizioni locali) (De Groot et al. 2002).

La valorizzazione consente il mantenimento del sistema tradizionale dicoltivazione del prodotto tipico e dunque la riproduzione delle risorse che inesso sono coinvolte (si pensi ad esempio alle risorse genetiche specifiche, al-le sistemazioni fondiarie, ai saper-fare e alle competenze dei produttori maanche degli abitanti-utilizzatori, alle tradizioni locali, alle reti di relazioni trai soggetti del sistema produttivo locale). Tali risorse entrano nel funziona-mento di altri sistemi produttivi e ambientali, locali e non locali, generando

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una utilità di ordine superiore che interessa anche soggetti diversi dai pro-duttori e dai consumatori del prodotto tipico, con ricadute sulle generazionifuture.

Di norma il consumatore attuale non potrà farsi interamente carico, me-diante il pagamento del prezzo, della remunerazione del complesso dei valoridel prodotto tipico. Da qui un possibile supporto dell’operatore pubblico, edeventualmente di altri soggetti potatori di interesse collettivo (quali fondazio-ni o associazioni), mediante meccanismi non di mercato, quali incentivi mo-netari o aiuti agli investimenti2, o misure per favorire la creazione di mercati(ad esempio migliorando l’informazioni ai consumatori o supportando l’ado-zione di sistemi di qualificazione del prodotto, vedi infra).

La capacità del sistema del prodotto tipico di remunerare le risorse endo-gene e dunque di riprodurre se stesso e i suoi effetti sull’ambiente esterno di-pende da due aspetti: il modo in cui gli agenti (imprese e altri soggetti) in-corporano nel prodotto tipico le risorse locali, e in particolare le risorse spe-cifiche; e il fatto che i consumatori, o altri soggetti esterni al sistema, attri-buiscano valore alle caratteristiche del prodotto tipico che derivano da questerisorse. Compito delle iniziative di valorizzazione del prodotto tipico è pro-prio quello di articolare tra loro questi due aspetti.

Dalla pluralità e dalla eterogeneità dei soggetti coinvolti nel prodotto tipi-co, discusse nel paragrafo precedente, deriva che mediante la valorizzazionepossono essere perseguiti obiettivi di natura diversa3. Si vengono a determi-nare così problemi di tipo collettivo che interagiscono in maniera complessacon gli aspetti individuali d’impresa. Il coordinamento tra le diverse categoriedi attori (imprese ma anche altri soggetti) diviene dunque un fattore centraleper la valorizzazione del prodotto tipico. Si possono allora generare conflittitali da compromettere il successo dell’iniziativa di valorizzazione e l’evolu-zione nel tempo dello stesso sistema produttivo.

Sostenibilità ed equità sono due aspetti della valorizzazione che vengonospesso trascurati, in special modo quando si guardi ad essa dal punto di vistadella singola impresa.

La remunerazione delle risorse impiegate nel processo di produzione nonè sufficiente per la sostenibilità della valorizzazione del prodotto tipico, la

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2. Ad esempio la Regione Toscana prevede, attraverso risorse proprie (Legge n.64/2004“Tutela e valorizzazione del patrimonio di razze e varietà locali di interesse agrario, zootecni-co e forestale) e risorse di provenienza comunitaria (Piano regionale di sviluppo rurale), l’ero-gazione di sussidi per il mantenimento di specie vegetali e razze animali a rischio di erosione,che possono essere accompagnati da iniziative di supporto alla creazione di mercati.

3. Ad esempio rivitalizzazione di settori produttivi e di filiere di prodotto, creazione di nuo-ve opportunità di impresa, mantenimento e sviluppo dell’occupazione e del reddito, potenzia-mento dell’area rurale nel suo complesso, tutela di risorse genetiche o di agro-ecosistemi tra-dizionali.

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quale dipende da numerosi altri aspetti. Tra questi vanno ricordati la possibi-le espropriazione di alcuni soggetti dalla possibilità di valorizzazione del pro-dotto (effetti di esclusione), l’emergere di possibili conflitti all’interno del ter-ritorio di produzione, l’ingresso di soggetti esterni dotati di una visione con-flittuale rispetto a quella dei locali, l’allentamento dei legami con le risorselocali specifiche e la possibile de-tipicizzazione e perdita di identità del pro-dotto, le possibili modifiche nell’equilibrio tra il sistema di produzione delprodotto tipico e l’agro-ambiente. La sostenibilità del processo di valorizza-zione, e delle singole iniziative che in esso vengono attivate, va consideratanei suoi profili economici, sociali, culturali e ambientali.

L’equità della valorizzazione è un altro aspetto particolarmente sensibile.L’attivazione di iniziative di valorizzazione comporta spesso una ri-assegna-zione di diritti di proprietà sul prodotto stesso, sul suo nome geografico, sul-le risorse che ad esso sono collegate, e conseguentemente una modifica nellaripartizione dei benefici di tipo economico e non economico. È dunque ne-cessario considerare in particolare la ripartizione dei benefici tra le imprese ela popolazione rurale, la distribuzione verticale del valore creato sul mercato(prezzo del prodotto) tra gli agenti posti ai diversi stadi della filiera, gli effet-ti sulla qualità della vita della collettività locale.

Tenuto conto delle considerazioni svolte, pur senza voler dare una defini-zione esaustiva, la valorizzazione del prodotto tipico può essere definita comea un processo attivato dagli attori locali e teso all’aumento di valore del pro-dotto, inteso nella sua accezione più ampia di valore totale, in una prospetti-va di equità e di sostenibilità dell’uso delle risorse.

4. Il processo di valorizzazione e le aree strategiche

La valorizzazione deve essere concepita come un processo, costituito dauna pluralità di azioni e attività, risultante da una strategia degli attori inte-ressati al prodotto tipico, e che mira a connettere il sistema produttivo e le al-tre risorse del territorio ad esso collegate con le più generali dinamiche deiconsumi e, in generale, con le attese della società.

A fini analitici è possibile identificare alcune aree strategiche all’internodel processo di valorizzazione, ciascuna delle quali – pur essendo strettamen-te collegata alle altre – si riferisce a un aspetto specifico della costruzione direlazioni tra attori del sistema produttivo, e tra questi e l’esterno.

Tali aree strategiche dovranno essere attentamente correlate nell’ambitodel piano strategico di valorizzazione del prodotto tipico, il quale identifi-cherà la scelta delle iniziative e degli strumenti più opportuni per valorizzareil prodotto.

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4.1. La mobilizzazione delle risorse

Il fatto di essere riconosciuto dai consumatori come diverso dagli altriprodotti, se non addirittura come unico, è la fonte principale del vantaggiocompetitivo del prodotto tipico. La diversità rende infatti riconoscibile ilprodotto, induce il desiderio di conoscerlo, sperimentarlo e apprezzarlo, e neaumenta il valore in quanto rende più difficile la sua sostituzione con altriprodotti.

La diversità del prodotto tipico dipende in gran parte dal modo in cui ri-sorse originali del territorio vengono impiegate nel processo produttivo. Le ri-sorse locali possono essere raggruppate in quattro categorie: il capitale natu-rale, il capitale culturale, il capitale umano e il capitale sociale (DFID 2005;Brunori, 2003).

Rientrano nel capitale naturale le razze e le varietà autoctone, il paesaggio,la qualità dell’aria e dell’acqua, la fertilità dei suoli, particolari microclimi (adesempio, quelli che consentono una stagionatura ottimale dei salumi o deiformaggi). Fanno parte del capitale culturale non solo monumenti e repertistorici, ma anche ricette tradizionali, storie locali, stili di vita, abbigliamento,prodotti di artigianato, musica e strumenti musicali, tecniche di produzione. Ilcapitale umano è l’insieme delle capacità presenti negli individui: arti e me-stieri specifici, conoscenza di fenomeni naturali e dei meccanismi ecologicilocali, capacità di organizzazione e comunicazione. Infine, il capitale socialeè il potenziale di azione collettiva legato a reti locali (famiglia, vicinato, as-sociazionismo).

Ciascuna delle risorse ora considerate deriva da una complessa interazionenel tempo tra il territorio e la comunità locale, così come la loro salvaguardiadipende dalla capacità di mantenere un equilibrio tra innovazione e conserva-zione. Il prodotto tipico, come espressione delle risorse originali di un territo-rio, è il frutto di una “costruzione” sociale avvenuta attraverso processi di lun-ga durata. Attraverso la valorizzazione, la costruzione del prodotto tipico di-venta un processo consapevole, attuato da un insieme di soggetti che reinter-preta la tradizione e la storia produttiva del prodotto alla luce della propriasituazione attuale e in funzione di una propria strategia.

Prima tappa del processo di valorizzazione è quella che può essere defini-ta la mobilizzazione delle risorse del territorio, che è poi la fase che maggior-mente lega le dinamiche di mercato con le strategie di sviluppo rurale. La mo-bilizzazione delle risorse è in gran parte legata ad aspetti immateriali: allacreazione di nuovi legami socio-economici, a processi di apprendimento, aprocessi di comunicazione interni ed esterni all’area, che però a loro voltahanno importanti effetti sugli aspetti materiali, in particolare sull’ambiente ru-rale e sulle tecniche produttive (Brunori et al., 2003). La mobilizzazione è an-che costituita da processi informali, a fronte dei processi di formalizzazioneche hanno luogo con la definizione dei disciplinari, con l’istituzione di orga-

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nizzazioni ad hoc, con la registrazione di marchi, con la messa a punto distrumenti di controllo.

A sua volta la mobilizzazione delle risorse può essere scomposta in quat-tro fasi: l’acquisizione di consapevolezza, la comunicazione verso l’esterno,l’allineamento dell’azione, la riflessione critica.

Nella fase dell’acquisizione di consapevolezza la comunità locale, o alme-no gruppi rilevanti al suo interno, identifica gli elementi del territorio che pos-sono rappresentare risorse per l’economia locale. Una risorsa è tale in quantoserve a uno scopo: l’acquisizione di consapevolezza rende trasparente il pos-sibile legame tra elementi del territorio prima trascurati e concreti obiettivi dimiglioramento delle condizioni individuali e della comunità.

Poiché lo sviluppo è stato visto per lungo tempo come modernizzazione edunque come abbandono della tradizione a favore di modelli nuovi, l’acquisi-zione di consapevolezza si configura spesso come il risultato di una riflessio-ne critica rispetto ai modelli proposti dalla modernizzazione e di un diversoposizionamento rispetto alla coppia tradizione/modernità. Il risultato di questafase è un rafforzamento dell’autostima e del senso di identità da parte dellacomunità locale, che a sua volta è alla base di un rafforzamento della capacitàdi auto-organizzazione da parte della comunità locale.

Il percorso di valorizzazione attualmente in atto per lo spinacio della Val di Cor-nia contribuisce a chiarire alcuni aspetti relativi al processo di riflessione e ne-goziazione tra gli attori locali, finalizzato all’individuazione delle risorse del ter-ritorio e dei caratteri del processo produttivo che dovrebbero consentire la diffe-renziazione del prodotto ed un suo migliore posizionamento sul mercato. Un pri-mo tentativo di valorizzazione su base territoriale risale alla prima metà deglianni ‘90, quando alcuni produttori locali avevano costituito un marchio colletti-vo, il quale però non era riuscito a garantire un’adeguata differenziazione delprodotto per l’insufficiente coinvolgimento dei produttori locali e la mancata de-finizione di una strategia sul piano della commercializzazione e della comunica-zione. In tempi più recenti, a seguito dell’acuirsi della competizione da parte dialtri bacini di produzione, l’interesse per la valorizzazione territoriale del pro-dotto è emerso nuovamente e si è tradotto nell’obiettivo comune di ottenere unaDOP. La necessità di elaborare un disciplinare ha favorito lo sviluppo di una ri-flessione collettiva sugli elementi che definiscono la specifica qualità del prodot-to. A questo riguardo tra i produttori si distinguono coloro, più tradizionali, cheritengono che la qualità dipenda dal processo di produzione e dalle specificità delterritorio (terreni, clima, ecc.) e che tali caratteristiche siano di per sé sufficientia valorizzare lo spinacio, ed altri che, maggiormente integrati nei circuiti distri-butivi (mercati all’ingrosso e piattaforme per l’esportazione), ritengono molto piùimportanti altri aspetti (come l’affidabilità, il servizio, la capacità di garantire gliapprovvigionamenti, ecc.). Accanto ai produttori, si sta rivelando importante ilruolo delle istituzioni locali, le quali, interessate ad aumentare la visibilità delterritorio, stanno contribuendo a spostare l’attenzione sull’importanza rivestita,nella definizione e comunicazione della specifica qualità del prodotto, dal legame

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del prodotto con il territorio, inteso nella molteplicità delle sue risorse (naturalima anche culturali e umane, con riferimento alla vocazionalità dell’area per laproduzione di spinacio e al relativo patrimonio di conoscenze e abilità custoditodal sistema produttivo locale).

Strettamente collegata alla fase precedente è la comunicazione nei con-fronti dell’esterno delle caratteristiche di tipicità. Il confronto con l’esternoconsente ad una comunità di capire meglio quali sono gli aspetti differenzialidel territorio rispetto ad altri territori, e contemporaneamente facilita la crea-zione di quello che viene chiamato capitale simbolico, ovvero la notorietà, lareputazione, la fiducia che osservatori esterni assegnano ad un prodotto o adun nome.

Molti casi di successo della valorizzazione dei prodotti tipici fanno perno su even-ti come le sagre o altre manifestazioni promozionali. Una sagra, infatti, si tra-sforma in un momento di riflessione collettiva sulle risorse locali. Grazie a que-sto, la sagra assume un nuovo significato e acquisisce essa stessa delle caratteri-stiche che la rendono, agli occhi degli osservatori esterni, unica. L’interesse daparte dei consumatori per la sagra stimola la crescita del prodotto e rende ne-cessario un progressivo adeguamento organizzativo.Sono emblematiche, al riguardo, le iniziative sviluppatesi per la valorizzazionedell’Agnello di Zeri. Dopo l’esperienza del Salone del Gusto e il successo ottenu-to, i produttori, spinti dalla necessità di dotarsi di un sistema di regole comuni,tale da di fornire visibilità e affidabilità sul mercato, decidono di associarsi in unConsorzio. Nasce così il “Consorzio per la valorizzazione e la tutela della peco-ra e dell’’Agnello di Zeri”, inteso come strumento legale di tutela e promozionedell’agnello. Attraverso la rappresentazione simbolica offerta da Slow Food ven-gono rafforzati e comunicati gli attributi immateriali della qualità del prodotto,legati in modo particolare alla cultura della comunità locale. Nel caso in que-stione, però, rimangono ancora irrisolti i problemi relativi alla necessità di met-tere a punto adeguate condizioni igieniche di produzione (la macellazione avvie-ne ancora secondo modalità tradizionali che non sono conformi alla normativa disettore), particolarmente urgenti di fronte alla crescente domanda del prodottostimolata dalle iniziative di promozione.

A queste fasi segue quella dell’allineamento dell’azione tra i soggetti delterritorio: la comune identificazione degli elementi del territorio come risorseoriginali si traduce in una progressiva omogeneizzazione dei processi produt-tivi intorno ad alcuni criteri comuni. Attraverso processi di comunicazionemediati socialmente le caratteristiche della tipicità diventano un significatocondiviso all’interno della comunità, alimentando circuiti di produzione-con-sumo che si consolidano attraverso la continua interazione tra consumatori eproduttori, e che creano delle norme, morali prima ancora che legali, che pre-miano coloro che le rispettano e sanzionano coloro che non le rispettano(OECD, 1988).

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La riflessione critica è probabilmente quella meno spontanea tra le iniziati-ve di mobilizzazione. Essa presuppone infatti una comunità che non solo è ingrado di riconoscere il valore degli elementi del proprio territorio come risor-sa e di comunicarlo all’esterno, ma anche di valutare i cambiamenti che questiprocessi possono generare sulle risorse stesse. Un’iniziativa di successo subi-sce infatti un processo di crescita, che a sua volta avvia un cambiamento orga-nizzativo. Il rischio di banalizzazione, di sovrasfruttamento, di erosione dellaqualità, di appropriazione di alcuni valori da parte di agenti esterni sono sem-pre in agguato nei percorsi di sviluppo dei prodotti tipici4. È dunque impor-tante che una comunità si chieda: che impatto possono avere sulla motivazio-ne dei produttori? E sulla qualità del prodotto? come sono distribuiti tra pro-duttori, intermediari e dettaglianti i benefici dell’aumento di prezzo del pro-dotto derivante dal miglioramento della sua immagine? in che modo la crescitaeconomica del settore ha giovato anche sul resto dell’economia locale?

4.2. La qualificazione

La qualificazione5 del prodotto tipico consiste nella progettazione, specifi-cazione e modulazione degli attributi di qualità del prodotto al fine di preci-sarne l’identità, prima di tutto per gli stessi attori del territorio di origine e poiverso i consumatori e/o la società.

Il prodotto tipico è allo stesso tempo il risultato dell’impegno e il patrimo-nio di una collettività di imprese, e più in generale di una società locale. Per-tanto la qualificazione non si esaurisce con il livello aziendale ma presentauna forte connotazione intersoggettiva e collettiva, che si fonda sulla mobiliz-zazione degli attori e delle risorse del territorio di origine.

Cosa rende tipico il lardo di Colonnata? La qualità della materia prima sceltaper la lavorazione? Il tipo e la qualità degli aromi utilizzati per la stagionatura?Il particolare materiale dei contenitori per la stagionatura? Il microclima natu-rale degli ambienti di stagionatura? La lunghezza della stagionatura? Il legamecon la tradizione? Uno di questi fattori in particolare, o tutti insieme? E che ca-ratteristiche deve presentare il lardo prodotto a Colonnata? Che spessore deveavere? Di quale colore? Devono essere presenti infiltrazioni di carne magra?Queste sono alcune delle domande che i produttori del paese di Colonnata, fra-zione del comune di Carrara, hanno dovuto porsi per rendere possibile la valo-rizzazione del lardo da essi prodotto. Pur coscienti dell’importanza della tradi-zione, gli stessi produttori del paese di Colonnata erano consapevoli del fatto che

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4. Si veda ad esempio il dibattito sulla convenzionalizzazione del biologico (Guthman2004).

5. Per una introduzione alla problematica della qualificazione si veda Eymard-Duvernay F.(1986), mentre per una applicazione al caso delle produzioni eco-compatibili Sylvander B.(2003).

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dal punto di vista della qualità intrinseca il prodotto richiedeva alcuni migliora-menti, e anche alcuni adattamenti all’evoluzione del consumatore (ad esempio unminore quantitativo di aglio nella concia rispetto alla ricetta tradizionale, in mo-do da ottenere un aroma più delicato). I produttori hanno così identificato alcunielementi ritenuti imprescindibili per l’identità del prodotto tipico, trovando un ac-cordo che è stato successivamente codificato nel Disciplinare di produzione in ba-se al quale è stata richiesta e ottenuta la Indicazione geografica protetta.La riflessione e l’inevitabile discussione sugli elementi costitutivi della qualità delprodotto tipico e del suo legame al territorio consente ai produttori di crescerenella comprensione delle specificità del proprio prodotto, ponendo le basi per ladefinizione di una strategia di qualificazione collettiva verso l’esterno.

Due sono i livelli rilevanti della qualificazione: quello individuale, relativoalla singola impresa, e quello collettivo, che interessa il sistema delle impre-se e degli altri soggetti del territorio. Da qui la necessità di una qualche for-ma di accordo tra le imprese circa la definizione della qualità del prodotto ti-pico, alla quale possono concorrere anche altri attori sia locali che non locali.Mediante la qualificazione gli attori definiscono l’identità del prodotto e ne“costruiscono” la qualità attraverso due fasi logicamente collegate: una fase“interna” di negoziazione, definizione e gestione della qualità (Ilbery eKneafsey, 2000), e una fase “esterna” volta a creare le più appropriate condi-zioni di relazione tra il prodotto (e il sistema dei produttori) e il mercato (e ilgenerale contesto esterno), anche mediante le attività di promozione e com-mercializzazione (Callon et al, 2002). La fase interna della qualificazione, ri-volta a raggiungere un accordo tra i produttori, è condizione perché possa es-sere attivata una relazione con l’esterno; e la fase esterna non avrà effetti senon fondata su una qualificazione “interna” del prodotto.

La qualificazione richiede alcune scelte strategiche di base, che coinvolgo-no tutti i soggetti del processo di valorizzazione (imprese delle varie fasi del-la filiera, loro organizzazioni, amministrazioni locali, altri portatori di interes-se) e sono suscettibili di modificare le posizioni individuali rispetto al prodot-to, fino alla possibile esclusione dai benefici legati ad esso.

Ferma restando l’esigenza di conseguire una qualità di conformità delprodotto tipico (compatibilità con i requisiti di prodotto, di processo e di ser-vizio richiesti per l’accesso a specifici canali commerciali), la qualificazionedovrà esaltare la specificità derivante dal legame con il territorio. Ciò richie-de l’uso di strumenti di qualificazione di tipo autodiretto o eterodiretto, i cuicontenuti siano cioè in tutto o in parte definibili dalla comunità degli attori lo-cali in funzione delle proprie specificità, in modo da consentire l’identifica-zione territoriale del prodotto e da tutelarne la specificità nelle relazioni dimercato. Un esempio di strumento di qualificazione di tipo autodiretto è ilmarchio collettivo geografico, il cui promotore (una volta rispettati i principigenerali richiesti dalla legge) ha ampi margini in merito alla definizione dinumerosi aspetti di funzionamento. Gli strumenti eterodiretti si basano invece

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su uno schema di riferimento nel cui ambito l’utilizzatore può definire alcunielementi che consentano di esaltare le specificità del prodotto; esempio sonola Denominazione di origine protetta, così come codificata dall’Unione Euro-pea, o i Presidi promossi da Slow Food.

Il prodotto tipico è spesso identificato dal nome geografico dell’area diproduzione, dunque l’impiego dei segni geografici (DOP e IGP, marchi col-lettivi territoriali) quali strumenti di qualificazione è importante anche se nondeve essere considerata una scelta obbligata. Opportunità e limiti dei segnigeografici devono essere valutati in funzione degli obiettivi degli attori, sche-matizzabili nella tabella seguente:

OBIETTIVI PERSEGUIBILI STRUMENTIPREFERENZIALI

QUALIFICA- Proteggere il nome geografico da impieghi DOP/IGPZIONE scorretti e ripulire il mercato da imitazioni ESTERNA del prodotto originale, restringendo l’uso

del nome geografico ai soli utilizzatori del segno geografico

Conformarsi a un sistema di qualificazione che DOP/IGPgode di una propria reputazione, in virtù della presenza di un sistema comunitario codificato di garanzia (controlli di organismi accreditati)

Creare un supporto collettivo mediante DOP/IGPcui attivare azioni di comunicazione verso Marchio collettivol’esterno e iniziative di commercializzazione

QUALIFICA- Innalzare il livello medio di qualità del prodotto DOP/IGPZIONE tipico e scoraggiare comportamenti scorretti INTERNA all’interno dell’area, favorendo l’affermazione

di una immagine unitaria del prodotto

Fornire alle imprese uno standard di riferimento DOP/IGPcui conformare i propri comportamenti Marchio collettivo

Favorire il processo di riflessione degli attori DOP/IGPsul prodotto, sul processo, sulla qualità Marchio collettivo

DOP, IGP e marchio collettivo geografico vanno valutati per i loro effettigiuridici, i presupposti di funzionamento e gli aspetti operativi. Rispetto almarchio collettivo, DOP e IGP garantiscono maggiore tutela al nome geogra-fico (sono concessi dalla Pubblica amministrazione al termine di uno specifi-co procedimento di verifica) ma richiedono di norma tempi di approvazione ecosti di funzionamento più elevati6 connessi al maggior livello di garanzia of-

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6. All’argomento dei costi d’uso delle denominazioni geografiche è dedicato il capitolo 7di questo volume.

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ferto al consumatore (controlli realizzati da un ente terzo accreditato ed effet-tuati secondo procedure codificate). Il marchio collettivo è più flessibile in se-de di definizione delle regole di concessione in uso alle imprese (Albisinni eCarretta, 2003), e per questo può favorire l’inclusione di imprese di modestedimensioni.

L’analisi costi-benefici deve essere considerata anche nell’ottica della col-lettività delle imprese e degli altri attori interessati al prodotto. Saperi, prati-che e significati attribuiti al prodotto da parte delle singole imprese sono or-dinariamente distanti e talvolta in conflitto tra loro. Un possibile ambito dicontrasto è tra il mero supporto della filiera produttiva (logica commerciale)e l’esaltazione dell’identità territoriale del prodotto tipico (logica identitaria),o ancora l’esigenza di valorizzare le molteplici relazioni del prodotto con ilterritorio (logiche di diversificazione).

Altri contrasti possono verificarsi all’interno della filiera: la qualificazionepuò infatti rispondere ad obiettivi di una qualche sua specifica componente(ad esempio la fase di trasformazione) a scapito di altre (ad esempio quellaagricola). In altri casi i contrasti possono interessare imprese della stessa fasedel processo produttivo ma improntate a logiche differenti, ad esempio tra im-prese che usano metodi artigianali oppure metodi più “industriali”; essi pos-sono riguardare il tipo di strumenti di qualificazione da utilizzare o i loro con-tenuti operativi, in particolare la codificazione delle tecniche o la delimitazio-ne dell’area di produzione.

Il processo di riconoscimento della IGP del lardo di Colonnata è stato contrasse-gnato da un lungo contenzioso tra i produttori del paese di Colonnata, per cui illardo rappresentava attività secondaria o comunque accessoria rispetto ad altre,e i produttori di zone limitrofe della provincia di Massa Carrara, in gran partesalumifici di differenti dimensioni ma comunque produttori di tipo professionale.I più forti conflitti hanno riguardato la delimitazione della zona di produzione,che alla fine è stata ristretta al solo centro abitato di Colonnata; il nome di Co-lonnata era andato infatti incorporando una forte reputazione sul mercato nazio-nale e anche all’estero, in virtù delle vicende igienico-sanitarie che avevano por-tato ala ribalta dei mass-media questo prodotto. In realtà anche la concezione delprodotto e del processo produttivo era fortemente differenziata tra le due tipolo-gie di produttori: l’obbligo di stagionatura in cantine con microclima naturale ri-chiesto dai produttori di Colonnata contrastava con la logica dei produttori pro-fessionali, per i quali la stagionatura in atmosfera condizionata era la solaconforme al proprio modello produttivo e di organizzazione aziendale7.

Il raggiungimento di un accordo sulla qualificazione del prodotto è fonda-mentale e può essere supportato dalle istituzioni locali. Qualora questo com-porti un eccessivo abbassamento degli standard sugli attributi del prodotto si

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7. Si veda il capitolo 6.

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potranno però determinare effetti negativi per i produttori più fedeli alla tra-dizione (Anania e Nisticò, 2003). Va dunque considerata in questi casi l’op-portunità di sviluppare diverse iniziative di qualificazione, anche in contrastotra loro.

4.3. La commercializzazione

L’area strategica della commercializzazione comprende tutte le attività di-rettamente funzionali a promuovere e collocare il prodotto tipico presso ilconsumatore intermedio e finale e a rivelare le varie tipologie di valori incor-porati nel prodotto stesso. Tali attività vanno quindi dalla scelta dei canalicommerciali più adeguati alla gestione delle azioni pubblicitarie e alla sceltadel prezzo.

La commercializzazione dei prodotti tipici presenta alcune particolarità le-gate alle caratteristiche dei loro sistemi produttivi: elevata presenza di picco-le e medie imprese spesso non specializzate sulla produzione del prodotto ti-pico, scarsità delle competenze di marketing, bassa propensione a confrontar-si con nuove tipologie di consumatori e quindi con nuove richieste e pre-re-quisiti di accesso ai mercati, interessamento di istituzioni e di attori collettivi(associazioni sia di produttori che di altri soggetti).

Il carattere collettivo proprio del prodotto tipico è l’aspetto che più diffe-renzia i prodotti tipici dalla generalità degli altri prodotti: la condivisione del“nome geografico” del prodotto implica che prodotti anche diversi pervengo-no al consumatore sotto un’unica immagine. Si vengono dunque a determina-re problemi di interdipendenza e di interazione che possono avere notevoli ri-percussioni sulle strategie delle singole imprese (Belletti, 2000). Il coordina-mento tra i vari attori è dunque essenziale e si deve basare sulla condivisionedi una concezione di qualità rispetto alla qualificazione del prodotto (Mare-scotti, 2003); esso può riguardare la selezione e ricerca di nuovi canali o mer-cati, la promozione o la fornitura di servizi, mentre più raramente concerne losvolgimento di attività di vendita collettiva in senso stretto.

Un secondo aspetto di specificità è la presenza, accanto al sistema di pic-cole e medie imprese, di un insieme eterogeneo di produttori “non-impresa”,ovvero produttori la cui attività è spesso condotta in maniera hobbistica, inmodo part-time, saltuario, per “passione”, per integrazione di reddito. L’ete-rogeneità delle tipologie di impresa e di organizzazione della produzione ren-de più difficoltosa l’organizzazione di iniziative comuni e può generare ten-sioni tra coloro che sono più legati al rispetto della storia e della tradizioneper la salvaguardia dell’identità e dell’origine culturale del prodotto, e le im-prese più professionali in genere propense ad adattare le caratteristiche delprocesso produttivo e del prodotto alle esigenze di mercato.

Il profondo legame al territorio del prodotto tipico e il fatto che esso in-corpori una pluralità di valori al di là della soddisfazione nutrizionale o gu-

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stativa (tutela dell’ambiente, del paesaggio, del territorio, della cultura e del-le tradizioni, resistenza alla globalizzazione e all’omologazione) ha evidentiriflessi sulla natura delle attività di commercializzazione: non è il prodotto adoversi adattare e modificare per assecondare le esigenze del consumatore edei mercati, ma è piuttosto il consumatore a dover essere informato delle spe-cificità del prodotto e convinto dei valori ad esso associati.

Si tratta in altri termini di adottare un approccio di marketing alternativo alconvenzionale. Tra le proposte alternative al marketing convenzionale si pos-sono considerare il marketing cognitivo e il marketing radicale (Brunori eMarescotti, 2004; Goodman, 2003; Goodman e Dupuis, 2002). Rispetto almarketing convenzionale, il marketing cognitivo mira a cambiare le preferen-ze del consumatore, e quindi a non assumerle come un dato immodificabile. Iconsumatori devono essere dunque portati alla conoscenza del prodotto e deivalori sui quali il processo produttivo si basa. Non si tratta più dunque di ven-dere al consumatore un prodotto che è stato concepito per soddisfare i suoi bi-sogni, ma piuttosto di far comprendere al consumatore i valori del prodotto,favorendo l’acquisizione di nuova informazione e di conoscenza. Il marketingradicale va ancora oltre e fonda la propria particolarità sulla volontà di pro-duttori e di consumatori, e più in generale di gruppi di attori della società ci-vile, di opporsi ai modelli (di produzione, di consumo, di scambio, di vita)dominanti. Lo scambio del prodotto sul mercato diventa dunque un’azioneche veicola nuovi valori alternativi a quelli dei modelli dominanti.

Le scelte relative all’area strategica della commercializzazione devonoprocedere da un’analisi della tipologia di prodotto tipico e in particolare daun’analisi dei punti di forza su cui far leva e dei valori incorporati nel pro-dotto.

Nel caso del Lardo di Colonnata, ad esempio, gli elementi di maggiore specificitàsono stati identificati nella particolarità della storia del prodotto (alimentazionedei cavatori), dei contenitori utilizzati per stagionare il lardo (le “vasche” dimarmo dei Canaloni) e delle specificità gustative del prodotto finito (qualità del-la materia prima ed erbe impiegate nella stagionatura). Il valore simbolico delprodotto è inoltre legato alla battaglia condotta contro gli effetti dell’applicazio-ne delle normative igienico-sanitarie, la cui rigida applicazione avrebbe minac-ciato le particolarità del prodotto. Storia e battaglia contro l’omologazione delgusto a favore della rivalutazione dei sapori “di una volta” legati alla conoscen-za e alle tradizioni locali sono i punti di forza su cui le iniziative di valorizzazio-ne hanno fatto leva.

La prima decisione strategica che riguarda le azioni di commercializzazio-ne consiste in una chiara identificazione dei segmenti di consumatori sensibi-li o sensibilizzabili ai valori incorporati nel prodotto; si potranno distingueread esempio consumatori già sensibili al valore della tipicità, quali i consuma-tori “locali”, per i quali il consumo può rappresentare un fattore di identità, i

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consumatori “intenditori”, capaci di riconoscere le differenze e attenti agliaspetti del gusto, i consumatori “solidali”, per i quali il consumo dei prodottitipici è un segno di sensibilità ecologica e sociale, i consumatori “turisti”, at-tenti alla storia e alla tradizione produttiva, nonché ai legami tra il prodotto ele risorse culturali e artistiche del luogo, e così via.

Nel caso della ciliegia di Lari è stato sostenuto da alcune istituzioni pubbliche(ARSIA, Provincia di Pisa, Comune di Lari) un progetto sperimentale per la tra-sformazione delle ciliegie locali in confettura extra. In collaborazione con il Co-mitato per la Tutela e la Valorizzazione della Ciliegia di Lari, la Facoltà di Eco-nomia dell’Università di Pisa ha realizzato un’indagine di marketing sulla con-fettura extra della ciliegia di Lari procedendo da un’analisi delle caratteristichedel mercato delle confetture e dei prodotti di prima colazione, per poi passare adanalizzare varie tipologie di canale commerciale (agriturismi, wine bar ed enote-che, ristoranti, moderna distribuzione, gastronomie, dettaglianti tradizionali,ecc.), attraverso interviste e focus group ad intermediari e consumator,. Ne èemersa una segmentazione del mercato basata sulle diverse tipologie di valori in-corporati nel prodotto, e l’identificazione di una rosa di possibili target su cui mi-rare le future iniziative di promozione e commercializzazione8.

L’identificazione del target e gli approfondimenti conoscitivi consentonoalle imprese (singole o associate) e agli altri attori locali e non locali di chia-rire e specificare gli obiettivi delle iniziative di commercializzazione e le re-lative azioni da intraprendere per raggiungerli, facendo leva sulle variabili delmarketing mix: prodotto, prezzo, promozione e distribuzione.

La politica di prodotto deve essere particolarmente attenta al rischio di al-terare la specificità e la reputazione del prodotto tipico stesso: piegarsi alleesigenze del distributore o del consumatore può comportare il raggiungimen-to di compromessi tra tradizione e innovazione che, superate alcune soglie, al-terano la percezione di qualità stessa del prodotto e ne banalizzano il signifi-cato attraverso azioni di qualificazione miranti a standardizzare e omogeneiz-zare processo produttivo e prodotto (Boutonnet et al., 2005).

Le imprese produttrici tendono spesso ad associare il prodotto tipico aduna qualità superiore, mentre spesso esso presenta caratteristiche specifiche(relativamente sia a caratteri materiali che immateriali) ma non necessaria-mente “superiori” rispetto ad una scala gerarchica qualitativa accettata social-mente. Da qui la fissazione di prezzi particolarmente alti rispetto alle poten-zialità di assorbimento del mercato, con successivi aggiustamenti verso il bas-so che ingenerano confusione nel consumatore e possono scatenare guerre diprezzo tra le imprese del sistema ed effetti negativi sugli esiti dell’azione col-lettiva di valorizzazione.

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8. Per ulteriori approfondimenti sul percorso di istituzionalizzazione della Ciliegia di Larisi veda il capitolo 6.

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Nel caso del Pecorino a latte crudo delle Montagne Pistoiesi numerosi produttorihanno dichiarato che nonostante l’incremento della richiesta dovuto alle numero-se iniziative di valorizzazione intraprese dal Consorzio dei produttori assieme al-le istituzioni pubbliche locali (Comunità Montana, Camera di Commercio) e adaltre associazioni (Associazione Provinciale Allevatori, Slow Food), non hanno ri-tenuto opportuno aumentare il prezzo di vendita praticato, per non scoraggiare eallontanare i consumatori locali tradizionali acquirenti del prodotto e non pri-varli del consumo del loro tradizionale formaggio.

Alcuni strumenti di comunicazione consentono di stabilire un rapporto piùdiretto tra produttori e consumatori, in grado di generare una condivisione diconoscenze e di valori attribuiti al prodotto, ma anche le modalità fruitive(preparazione e ricette, abbinamenti, modalità di degustazione) che fanno par-te anch’essi della tradizione. Gli attori della comunicazione non sono solo leimprese ma anche altri attori locali (organizzazioni collettive dei produttori,associazioni turistiche e pro-loco, istituzioni pubbliche, ristoratori, agenzie tu-ristiche, critici ed esperti), che – in quanto nodi di relazioni nell’ambito delnetwork – possono moltiplicare la diffusione del messaggio.

Le modalità distributive influiscono considerevolmente sulla percezionedella soddisfazione da parte del consumatore e dunque sull’attribuzione delvalore. La dicotomia distribuzione tradizionale – distribuzione moderna (Lea-der, 2001) è oggi in parte superata dallo sviluppo di una pluralità di altre for-me innovative che consentono una maggiore partecipazione e condivisione divalori all’interno del canale distributivo tra produttori, distributori e consuma-tori: vendita diretta, sagre e fiere, enoteche, negozi specializzati ed enogastro-nomie nel territorio, e-commerce, ma anche Gruppi di acquisto e i Gruppi diacquisto solidale, commercio equo e solidale, e Community Supported Agri-colture.

Politiche di prodotto, prezzo, promozione e distribuzione devono dunqueessere chiaramente delineate e perseguite coerentemente con le caratteristichedel prodotto tipico e con gli elementi di tipicità maggiormente rilevanti per levarie tipologie di mercato da servire.

4.4. L’integrazione con altre componenti del territorio

Il legame tra prodotto tipico e territorio è ambivalente. Da una parte il pro-dotto tipico può essere costruito e qualificato in base ai suoi legami con le ri-sorse specifiche inerenti il processo produttivo nonché con altre attività ecomponenti del territorio; dall’altra il territorio (e le attività in esso presenti)risulta arricchito dal prodotto tipico. La relazione tra sistema produttivo delprodotto tipico e altre risorse e attività proprie del territorio può generare ef-fetti positivi per entrambe le componenti.

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L’area strategica dell’integrazione nel territorio fa riferimento alle azionifinalizzate a tessere relazioni tra il prodotto tipico e altre componenti del ter-ritorio – siano esse beni o servizi di vario tipo – e a rendere visibili tali rela-zioni all’esterno, innescando dei circoli virtuosi in grado di apportare benefi-ci, non solo economici, alle diverse componenti coinvolte. Tale processo diintegrazione coinvolge prima di tutto gli operatori del sistema produttivo equindi da questi si estende agli operatori di altri settori (ad esempio sistemaricettivo e ristorazione) nonché agli agenti istituzionali locali coinvolti nelleiniziative di promozione (associazioni e agenzie, enti pubblici).

Sono espressioni di questa integrazione le iniziative di promozione collet-tiva, generalmente coordinate da un soggetto istituzionale (Regioni o Agenzieregionali, Province, Comunità Montane, Gruppi di Azione Locale, ecc.), ri-volte alla valorizzazione di panieri di prodotti locali di qualità o, in forma an-cor più completa, di tutte le risorse del territorio (produzioni eno-gastronomi-che, ma anche artigianato, patrimonio ambientale, cultura e tradizioni locali).Innumerevoli sono gli esempi di territori che hanno in questo modo promos-so le proprie produzioni di qualità o più in generale le risorse del territorio, adesempio attraverso l’istituzione di marchi collettivi o l’attuazione di iniziativedi comunicazione.

Altre iniziative che fanno leva sull’integrazione territoriale e che stannoassumendo una crescente importanza ai fini della valorizzazione delle produ-zioni locali sono gli itinerari eno-gastronomici (le “strade del vino” o gli al-tri itinerari tematici legati a prodotti agroalimentari locali di qualità). L’es-senza di tali iniziative è la costruzione di una rete di alleanze tra vari attorilocali: produttori (aziende agricole ed agrituristiche, imprese di trasformazio-ne), i vari tipi di “distributori” dei prodotti (negozi al dettaglio, enoteche, ri-storanti, ecc.), gli operatori legati al sistema della ricezione turistica, gli am-ministratori pubblici e le organizzazioni impegnate nella promozione delle ri-sorse locali.

Ancor più significative per la frequenza con cui vengono attivate, perquanto a carattere meno strutturato, sono le iniziative collettive di qualifica-zione e promozione dei prodotti tipici o tradizionali; in esse, la volontà di pro-muovere il legame tra prodotto e territorio stimola l’integrazione tra i produt-tori e tra questi e gli altri operatori economici ed istituzionali locali, dando vi-ta in molti casi a processi di sviluppo organizzativo importanti per l’acquisi-zione di una migliore capacità di valorizzazione delle risorse locali.

L’iniziativa di valorizzazione del Pecorino a latte crudo delle Montagne Pistoiesiha portato ad un progressivo allineamento degli attori coinvolti intorno all’ideache il prodotto sia un’importante risorsa locale. Tale consapevolezza è maturataattraverso la costruzione di una rete complessa di relazioni che ha portato al con-solidamento delle connessioni tra i produttori e tra questi e le istituzioni locali ei consumatori finali. Nel corso di questo processo, si è giunti alla definizione econdivisione da parte di tutti gli attori coinvolti di una concezione di qualità del

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prodotto conforme agli standard igienico-sanitari, ma anche comprensiva degliattributi organolettici e simbolici percepiti e apprezzati dai consumatori. Taleconcezione è stata formalizzata attraverso la codifica delle pratiche produttive inun disciplinare di produzione e l’istituzione di un consorzio tra i produttori per lasua gestione. A ciò è seguita l’adozione in forma associata di nuove strategie dicomunicazione e di promozione – l’utilizzo del marchio collettivo e la produzionedi materiali pubblicitari, la partecipazione ad iniziative promozionali sul territo-rio e l’inserimento in importanti circuiti di commercializzazione/comunicazioneesterni (fondamentale in tal senso la collaborazione con Slow Food e l’istituzioneper il prodotto di un Presidio) –, le quali hanno consentito di aumentare forte-mente la visibilità e la notorietà del prodotto (e con esso del territorio) sul mer-cato. Tutto ciò ha rafforzato nelle istituzioni pubbliche e nelle altre organizzazio-ni attive sul territorio la consapevolezza del valore delle risorse locali ed ha ac-cresciuto l’interesse a cooperare per la loro promozione9.

Il processo di integrazione tra i soggetti locali è complesso e si sviluppacon forme diverse. In ogni caso, l’elemento accomunante di tali diverse for-me di integrazione è quello di rafforzare l’azione individuale, dando vita a ve-re e proprie “sinergie” (Brunori e Rossi, 2000).

Il processo di integrazione con le altre componenti del territorio si basa sulfatto che ogni azienda è un punto di connessione tra il sistema produttivo lo-cale e i consumatori, e al tempo stesso che ciascuna azienda ha bisogno delsistema di cui fa parte per gestire al meglio il proprio rapporto con il consu-matore. Raramente infatti una singola azienda può offrire da sola tutti i benie servizi che sono richiesti, senza considerare, inoltre, che ci sono “beni pub-blici”, come il paesaggio, la cultura, le tradizioni gastronomiche, l’immaginedell’area, ecc., che essa stessa non può produrre ma che rivestono un ruolo es-senziale nella differenziazione dell’offerta locale agli occhi del consumatore.Tale dimensione integrata emerge in tutta la sua forza nell’esperienza degliitinerari eno-gastronomici i cui la creazione di valore attorno ad una strada te-matica è frutto di un’azione assolutamente collettiva: la costruzione/conserva-zione delle risorse locali incorporate nel prodotto, costituenti il suo valore ericercate dal consumatore, è il frutto dell’operato di tutti gli operatori e a vol-te di tutta la collettività.

Come nella creazione di un itinerario tematico attorno ad un prodotto un’i-niziativa collettiva di valorizzazione delle risorse territoriali, non può tuttaviaessere spiegata in termini di semplice somma dell’operato dei singoli agenti.È in realtà qualcosa di più complesso. Essa si basa, attraverso un’azione inte-grata, sulla costruzione e quindi la presenza di un sistema coerente di ele-menti, materiali e simbolici, che riflette l’identità locale.

Gli elementi materiali sono rappresentati in primo luogo dai caratteri del-l’offerta di prodotti e di servizi, ma anche dai caratteri strutturali delle azien-

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9. Per maggiori approfondimenti si veda il capitolo 5 di questo volume.

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de produttrici coinvolte e in generale dei contesti in cui i prodotti/servizi ven-gono offerti, nonché dai caratteri dell’ambiente naturale e costruito. Ci deveessere coerenza all’interno di questo insieme di elementi, perché esso possaessere espressione dell’identità dell’area e possa contribuire a costruirne l’im-magine. Così come ci deve essere coerenza tra questi ed un altro insieme dielementi di carattere più immateriale, che fanno riferimento a tutti quegli ele-menti che entrano in gioco per comunicare il valore specifico dei prodotti/ser-vizi offerti: i caratteri della segnaletica, delle guide turistiche, delle etichettedei prodotti, i valori simbolici incorporati nella narrativa (nel modo cioè incui questo territorio si racconta a coloro che vi si avvicinano, nei rapporti in-dividuali come nelle occasioni di tipo pubblico).

Si tratta di elementi che, come si è detto, coinvolgono diversi tipi di sog-getti e che quindi prevedono anche un progressivo ampliamento delle sfere diintervento coinvolte: dall’azione privata (il singolo agricoltore o il gestore diagriturismo o di altra struttura ricettiva), a quella pubblica (gli amministrato-ri locali responsabili delle attività economiche, delle attività culturali, del tu-rismo, della pianificazione territoriale, ecc.), passando per quella promossadalle varie organizzazioni presenti sul territorio (le varie pro-loco e associa-zioni, i Gruppi di Azione Locale, i comitati e i consorzi).

È proprio questa coerenza tra elementi materiali e immateriali perseguita atutti i livelli che aggiunge valore all’offerta di prodotti e servizi realizzata daisingoli individui e che consente di incorporare nei prodotti tutte le risorse del-l’area: essa valorizza l’intera produzione dell’area (crea la varietà dei prodot-ti e la sua rappresentazione simbolica, nonché quell’“effetto reputazione” tan-to importante nel caratterizzare i prodotti di certi contesti territoriali) e con-sente di legare ad essa gli altri “beni pubblici” fruibili dai turisti, beni che inquesto modo diventano accessibili anche al singolo operatore laddove nor-malmente non lo sarebbero. Tale sistema coerente è alla base della creazionedelle sinergie di cui si è parlato in precedenza.

L’inserimento della valorizzazione dei singoli prodotti del territorio in unpiù ampio progetto di valorizzazione delle risorse locali, di cui i singoli ope-ratori siano consapevoli e co-attori, ha importanti implicazioni sul piano ope-rativo. Essa si basa infatti sull’assunzione di scelte e comportamenti coeren-ti nella gestione delle risorse coinvolte, dei processi produttivi e dell’offertacommerciale dei prodotti, ma ancor prima sull’assunzione di un atteggia-mento volto a interagire e cooperare con gli altri operatori e sulla condivi-sione del senso di appartenenza e dell’identità territoriale. Tutto ciò deve av-venire in un processo di progressiva costruzione di relazioni tra i diversisoggetti coinvolti nella valorizzazione dello specifico prodotto e delle altrerisorse del territorio.

Nel caso degli itinerari eno-gastronomici, per gestire in modo efficace l’i-niziativa collettiva di valorizzazione è necessario che gli operatori e tutti glialtri soggetti coinvolti aderiscano ad una serie comune di regole e norme, for-

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malizzate e non formalizzate. Tra le prime rientrano i vari aspetti concreti del-la partecipazione alla “strada” da parte degli operatori, relativamente sia allacommercializzazione dei prodotti che alla comunicazione con i consumatori.Tra le seconde alcuni atteggiamenti non codificabili, come la presenza di unacomune sensibilità verso la qualità del prodotto, la consapevolezza dell’im-portanza rivestita dal contesto aziendale e dagli elementi del paesaggio, losviluppo di senso di appartenenza a questa organizzazione collettiva e quindila reciprocità con gli altri suoi componenti, l’essere disposti e capaci di co-municare realmente con i fruitori della “strada”, nel senso più profondo deltermine, di creazione cioè di significati comuni.

Altrettanto importante è lo sforzo richiesto agli altri attori locali (ammini-stratori pubblici, istituzioni e organizzazioni varie), nella direzione della crea-zione di condizioni favorevoli alla conservazione e al rafforzamento della spe-cifica identità locale, allo sviluppo di adeguate capacità organizzative tra glioperatori economici, all’integrazione in un progetto complessivo delle diver-se strategie di valorizzazione, alla comunicazione verso l’esterno del valorecosì creato.

5. Considerazioni conclusive

La valorizzazione non riguarda esclusivamente la remunerazione sul mer-cato del prodotto tipico, tenuto conto delle risorse specifiche e dei molteplicivalori del prodotto. L’elaborazione di una strategia di valorizzazione è quindiattività tutt’altro che semplice: l’avvio della valorizzazione determina l’attiva-zione di complesse dinamiche all’interno dei sistemi locali di produzione,commercializzazione e promozione, che interessano tanto gli operatori eco-nomici che altri soggetti locali. Queste dinamiche, nel normale processo disviluppo delle iniziative di valorizzazione (crescita delle dimensioni econo-miche, del potere di mercato, della complessità di gestione, della visibilità suimedia, ecc.), portano ad un’alterazione sul piano organizzativo e ad una mo-difica della base di valori, interessi, obiettivi perseguiti, con conseguenti cam-biamenti degli equilibri che stanno alla base della sostenibilità economica, so-ciale ed ambientale delle iniziative di valorizzazione. In tale contesto si vienea modificare anche la posizione dei soggetti che sono rimasti estranei alla de-finizione della strategia di valorizzazione del prodotto tipico, ma che può es-sere necessario considerare nell’ambito della valutazione qualora si assumaun punto di vista collettivo.

È dunque importante valutare la strategia di valorizzazione tenendo contodi molteplici punti di vista: quello del gruppo di soggetti che ha elaborato lastrategia, secondo il criterio dell’efficacia nel raggiungimento degli obiettiviprevisti, articolandolo però a livello di effetti sui singoli individui (un risulta-to generale positivo può derivare dal bilanciamento di situazioni opposte: al-

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cune imprese possono migliorare la propria posizione, ma a scapito di altre)(Barjolle e Sylvander, 2000); e quello più generale che considera anche gli ef-fetti non previsti o non attesi della realizzazione della strategia e che possonoriguardare anche i soggetti estranei alla sua definizione (ad es. sull’ambienteo sul livello di coesione sociale nel territorio). La valutazione deve dunqueconsiderare, accanto agli effetti economici diretti e indiretti, anche gli effettinon economici sui diversi capitali coinvolti in tali azioni (naturale, sociale,umano e culturale).

È dunque essenziale considerare la sostenibilità e l’equità della strategia divalorizzazione, tenuto conto del suo carattere dinamico e della sua comples-sità e non-linearità e quindi la possibilità che essa generi non solo coesione econdivisione ma anche conflitti e spaccature, così come possibili disugua-glianze e squilibri sul territorio.

Ai fini del successo e della sostenibilità delle strategie di valorizzazione ri-vestono importanza, anche se in forma più indiretta, altri aspetti. Tra questi ilruolo rivestito dal soggetto pubblico, in relazione al tipo di supporto dato al-l’iniziativa, ma soprattutto la capacità del sistema locale di sviluppare al pro-prio interno processi di apprendimento tali da consentire la crescita sul pianomanageriale di tutti gli operatori (pur in presenza di figure leader, che spessosvolgono un ruolo fondamentale nei processi di avvio delle iniziative), e diacquisire autonomia sul piano dell’immagine e della capacità di relazione conl’esterno rispetto al sostegno proveniente da soggetti esterni al territorio.

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1. Introduzione

La regolamentazione europea sulle denominazioni geografiche dei pro-dotti alimentari ha probabilmente costituito un punto di svolta nella riscoper-ta della “tipicità” come dimensione fondamentale della qualità alimentare. Laregolamentazione, infatti, dando visibilità giuridica ad un fenomeno che puregià esisteva in molteplici forme, ne ha favorito l’ulteriore diffusione ed evo-luzione, creando un modello concettuale generale, suscettibile di essere tra-sferito in nuovi contesti. Da allora l’attenzione verso la tipicità alimentare e lasua valorizzazione è cresciuta rapidamente sia sul lato dell’offerta, con un nu-mero crescente di produttori e comunità locali impegnati nella valorizzazionedelle proprie tradizioni alimentari, sia sul lato della domanda, con un cre-scente interesse dei consumatori all’inserimento delle produzioni tipiche nel-le loro abitudini alimentari. Anche i mezzi di informazione hanno dedicato al-la riscoperta della tipicità alimentare uno spazio che sorprende per dimensio-ni e rilevanza attribuita. La tipicità, dunque, costituisce oggi la chiave per ilcoordinamento tra domanda e offerta di un volume crescente di scambi ali-mentari.

Alla qualità delle produzioni alimentari tipiche è stata dedicata la ricercadi cui questo volume rappresenta il punto d’arrivo. L’attributo “tipico” riman-da ad un’intera gamma di significati che si differenziano non solo tra le di-verse tipologie di attori operanti lungo la filiera (produttori, operatori delcommercio, consumatori) ma anche all’interno di esse. L’esplorazione di que-sti diversi significati e della loro compatibilità è stata oggetto, da molteplicipunti di vista, dell’intero progetto di ricerca. È tuttavia possibile riconoscereun contenuto semantico minimo comune a tutte le diverse concezioni ed è

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9. GEOGRAFIE DEL TIPICO:LE CONCEZIONI DI QUALITÀ

DI FRONTE ALLA CRESCITA DEL MERCATO*

di Benedetto Rocchi e Donato Romano

* Il capitolo è frutto di una riflessione comune, tuttavia il testo è stato scritto da Benedet-to Rocchi.

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quello che individua la tipicità di una produzione alimentare nel suo collega-mento con una determinata località. Riprendendo una definizione sinteticaproposta in uno dei contributi a questo volume è possibile definire come tipi-co un prodotto alimentare che presenta alcuni attributi di qualità unici chesono espressione delle specificità di un particolare contesto territoriale in cuiil processo produttivo si realizza1. Secondo questo approccio è il legame (insenso ampio: fisico e culturale) che viene percepito tra un prodotto e la loca-lità nella quale esso è stato prodotto che misura la tipicità un alimento. Quan-to più forte è questo legame, quanto più è persistente nel suo percorso lungola filiera verso il consumo finale, anche in presenza di una serie anche lungae complessa di transazioni commerciali, tanto più un prodotto alimentare siconnota come tipico e vede valutata la sua qualità all’interno del sistema disimboli, codici, significati che alla tipicità vengono oggi associati.

La crescita di interesse da parte di fasce sempre più ampie di consumato-ri fa tuttavia sorgere un problema di negoziazione della qualità delle produ-zioni tipiche connesso alla valutazione del legame con il territorio di origine.Ad un estremo della filiera i consumatori, che manifestano una sempre piùevidente disponibilità a pagare per le caratteristiche di tipicità, devono affron-tare un chiaro problema informativo, dal momento che l’origine tende a tra-sformarsi in una caratteristica credence (Anderson, 1994) al crescere del nu-mero e della complessità delle transazioni necessarie a portare i prodotti al-l’utilizzatore finale. All’altro estremo i produttori, impegnati in una strategiadi creazione di valore che cerca di attirare una domanda potenzialmente glo-bale verso un sistema produttivo che deve essere per definizione locale (Be-cattini, 2000), devono innanzitutto procedere ad una progressiva codifica, an-che formale, delle caratteristiche che rendono ‘tipici’ i loro prodotti. Non so-lo: è proprio attraverso il processo di riconoscimento del legame tra qualità eorigine che i sistemi locali di produzione perseguono l’obiettivo di contende-re agli altri attori della filiera una quota di valore aggiunto sufficiente a ren-dere sostenibile nel tempo il processo di valorizzazione.

La definizione della qualità sta dunque al centro del processo di valoriz-zazione delle produzioni tipiche e per tale motivo, in questa ricerca è statoscelto come categoria interpretativa fondamentale della crescita delle filierealimentari ad esse connesse. I diversi contributi presentati nel volume hannoaffrontato il problema delle concezioni di qualità dai punti di vista corrispon-denti al ruolo dei diversi attori (produttori, consumatori, operatori della filie-ra di commercializzazione) e in un’ottica di interazione sistemica tra di essi(processi di negoziazione della qualità ed evoluzione delle reti di relazioni alcrescere del mercato). Nel capitolo 8 molti dei risultati raggiunti nella fase diindagine sono stati utilizzati su un piano normativo per delineare gli assi stra-

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1. Cfr. il capitolo 8. Nello stesso capitolo gli autori propongono una definizione più com-pleta anche se sostanzialmente coerente con quella appena proposta.

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tegici fondamentali su cui può essere avviato il processo di valorizzazione diuna produzione tipica.

Nel resto di questo capitolo la discussione verrà sviluppata ipotizzandoche in un determinato ambito regionale, a seguito del successo nel processo dirilancio e valorizzazione di alcune specialità agroalimentari provenienti daspecifici sistemi locali, si sviluppi nel tempo un’offerta di produzioni tipichesufficientemente ampio da strutturarsi in un sistema regionale. La crescita delmercato, infatti, avvia un processo di continua ridefinizione delle ‘geografiedel tipico’2 di una regione. Così mentre le reti agroalimentari locali estendo-no i loro confini, proiettandosi su un mercato potenzialmente globale, la lorocrescita congiunta dà luogo a nuove potenziali interazioni all’interno dell’areageografica di ordine immediatamente superiore. Nel resto del capitolo, ten-tando una sintesi dei risultati fondamentali acquisiti dal progetto di ricerca,verrà anche proposta una prima riflessione sulle principali esigenze di policyche la formazione di un sistema regionale di produzioni tipiche pone.

2. Il sistema delle produzioni alimentari tipiche toscane: opportu-nità e risorse

La valorizzazione della tipicità costituisce sicuramente un’opportunità peril sistema agroalimentare della Toscana. Anche se negli ultimi anni il merca-to delle produzioni alimentari tipiche toscane è rapidamente cresciuto, l’ana-lisi delle motivazioni che stanno dietro a tale crescita fa prevedere un prose-guimento della tendenza positiva ed un definitivo consolidamento del sistemadel tipico toscano.

Gli studi di sociologia dei consumi hanno interpretato la riscoperta delleproduzioni tipiche come espressione di un recupero del significato simbolicoattribuito al cibo. Il crescente interesse per le tradizioni culinarie, la riscoper-ta della cucina casalinga, l’attenzione per l’autenticità come categoria di va-lutazione del cibo fanno emergere un’esigenza diffusa di appartenenza ad unacomunità o di recupero di particolari identità storiche e culturali (Warde,1997). Non solo: il ritorno ai cibi tradizionali può essere letto anche come unarisposta allo sradicamento dei modelli di consumo alimentare che si è mani-festato a seguito del processo di industrializzazione della filiera alimentare(Murdoch e Miele, 1999): i prodotti tipici vengono inseriti in modelli di con-sumo alimentare alternativi come vettori di un processo di ri-tradizionalizza-zione del cibo (Gabbai et al., 2003). A queste motivazioni profonde del pro-cesso di riscoperta dei prodotti tipici si affianca anche la diffusione di com-portamenti di consumo volti ad esprimere l’adesione a particolari norme idea-

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2. L’espressione ci è stata suggerita da Gianluca Stefani.

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li. In questo senso la crescita delle produzioni tipiche è stata interpretata co-me la creazione di reti alimentari alternative, capaci di aggregare i soggetticoinvolti al di fuori dei canali convenzionali del modello industriale per espri-mere attraverso la produzione e il consumo particolari valori (sociali, am-bientali, etici; cfr. Marsden et al., 2000)3.

Se queste analisi riguardano una tendenza generale che si manifesta neiconsumi alimentari e che prospetta un contesto favorevole ad un consolida-mento del mercato delle produzioni tipiche, nel caso della Toscana non deveessere dimenticata la forte valenza dell’immagine regionale nei consumatori.Le indagini presentate da Balestrieri nel capitolo 2 confermano ancora unavolta l’esistenza di una domanda di Toscana in quanto tale. Le produzioni ali-mentari tipiche regionali, pur attraverso una molteplicità di localizzazionispecifiche, si innestano su un’appartenenza geografica più generale, che ap-pare come un fattore capace di facilitare l’avvio di quel processo di ricono-scimento-identificazione in una appartenenza locale che sta alla base dellapreferenza dei consumatori verso le produzioni tradizionali e tipiche.

Se dal lato della domanda le opportunità per una crescita sono evidenti,sul lato dell’offerta la Toscana si presenta come una regione sicuramente ric-ca di risorse. Le 19 produzioni che hanno già ottenuto il riconoscimento diuna denominazione di origine, insieme alle 20 con il processo di riconosci-mento avviato, pongono la regione tra quelle leader in questo comparto pro-duttivo. A queste punte di eccellenza si affiancano gli oltre 400 prodotti tra-dizionali censiti ai sensi del DL 173/1998, che rappresentano un patrimoniodi conoscenze potenzialmente disponibili ai fini di una valorizzazione (Irpet,2006)4. A favore delle produzioni alimentari tipiche della Toscana giocanoforti sinergie con il turismo, che costituisce una vetrina globale a disposi-zione anche di produzioni alimentari piccole e poco note, e la presenza diun settore vitivinicolo con punte di eccellenza e un forte orientamento al-l’export.

La considerazione di tutti questi fattori sembra dunque indicare la pre-senza di spazi per un’ulteriore crescita di quello che potremmo chiamare “si-stema del tipico toscano”: sia nel senso dell’avvio della valorizzazione di al-tre produzioni, sia nel senso di un allargamento del mercato di quelle già esi-stenti. Queste prospettive di crescita, tuttavia, sono inestricabilmente legatead una progressiva e continua ridefinizione del problema della qualità ali-mentare.

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3. Su questo punto si veda anche la discussione sviluppata nel capitolo 5 di questo volume.4. Un’ampia documentazione sulle produzioni tipiche toscane è consultabile nel sito del-

l’Agenzia Regionale per lo Sviluppo e l’Innovazione nel Settore Agricolo-forestale della To-scana: www. arsia.toscana.it.

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3. La definizione della qualità di fronte alla crescita del mercato

Si consideri il caso ipotetico della riscoperta di una specialità alimentaretradizionale, la cui produzione e consumo siano stati per lungo tempo confi-nati in un determinato contesto locale come eredità storica e culturale del pas-sato. Prima dell’avvio della valorizzazione su un mercato più vasto, la valuta-zione della qualità dei prodotti necessaria al coordinamento tra la domanda eun’offerta (Eymard Duvernay, 1989) avveniva all’interno di un sistema di co-noscenze contestuali e condivise, capaci di ridurre al minimo le asimmetrieinformative e di rendere inutile una codifica esplicita degli attributi di qualità.Nell’ambito di un mercato locale la condivisione di comuni tradizioni, la pre-senza di reti di conoscenze personali, la conoscenza legata all’esperienza diconsumo che viene trasmessa nell’ambito famigliare, mette il consumatore incondizione di valutare la qualità delle produzioni utilizzando un set di infor-mazioni non troppo dissimile da quello del produttore. Potremmo dire che il‘codice’ di valutazione della qualità dei prodotti è in questo caso un patrimo-nio comune di entrambi i lati del mercato.

L’allargamento del mercato connesso alla riscoperta e alla valorizzazionedella specialità cambia profondamente la natura informativa del problemadella qualità. Al consumo si rivolgono soggetti esterni al sistema locale di ori-gine; nuovi attori entrano in gioco nelle transazioni commerciali; il ‘discorso’sulla qualità viene arricchito dagli interventi di nuove voci, come quelle degliesperti gastronomi o delle associazioni impegnate nella riscoperta delle tradi-zioni o nell’educazione alimentare. È intuitivo immaginare come, al progres-sivo ampliarsi (in senso non solo geografico, ma anche culturale) del mercatodella specialità considerata, il sistema dei codici originariamente utilizzatoper la valutazione del prodotto, cessi di essere un patrimonio condiviso, effi-cace per risolvere il problema informativo della qualità.

Si verifica innanzitutto un trade off informativo che si manifesta in un au-mento delle caratteristiche credence del prodotto, quelle cioè che il consuma-tore o il cliente non possono valutare autonomamente neanche dopo l’acqui-sto: l’origine in primo luogo, ma anche l’effettiva applicazione di quei meto-di di produzione che la tradizione ha modellato nel corso del tempo. Non so-lo: è lo stesso codice convenzionale attraverso cui la qualità del prodottotipico viene valutata a diventare oggetto di negoziazione e di contesa. Le in-dagini condotte per arrivare ad una mappatura delle concezioni di qualità deidiversi operatori per valutarne la coerenza, hanno mostrato con evidenza que-sto fenomeno. La discussione intorno alla qualità tra gli operatori delle filiereconsiderate nei casi di studio (cfr. capitolo 4) riflette una contesa tra i produt-tori da una parte e gli altri attori dall’altra (in particolar modo i rappresentan-ti del retail moderno) per l’assunzione del ruolo di codificatori della qualità(Dixon, 1999). Da un lato i produttori rivendicano tale autorità in quanto cu-stodi della conservazione del legame tra prodotto e territorio di origine; dal-

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l’altro gli operatori del commercio che entrano in contatto con i consumatori,si propongono come garanti della soddisfazione di questi ultimi e del corret-to inserimento delle produzioni tipiche nei nuovi modelli di consumo alimen-tare.

Il successo di una produzione tipica sembra così connesso al raggiungi-mento di un equilibrio tra il ruolo giocato dai diversi, potenziali codificatorifinalizzato alla conservazione di alcune delle caratteristiche di una filiera ali-mentare breve anche in presenza di un mercato esteso spazialmente. (Mardsenet al., 2000). In tal caso il prodotto riesce ad arrivare ad un consumatore po-tenzialmente anche molto lontano unito ad un’informazione capace di creareun rapporto di fiducia con un luogo/spazio di produzione e potenzialmentecon il valore della gente coinvolta e dei metodi di produzione impiegati.

Lo studio dei sistemi locali ai quali si è rivolta la ricerca ha mostrato co-me le forme di istituzionalizzazione delle produzioni connesse alla certifica-zione dell’origine costituiscano molto spesso un luogo di composizione diquesti conflitti intorno al problema della qualità. I capitoli 6 e 7 sono statiespressamente dedicati all’analisi di questi strumenti di valorizzazione. Il ri-conoscimento di una denominazione geografica, se da un lato contribuisce acolmare il divario informativo tra domanda e offerta, allo stesso tempo rap-presenta una strategia di appropriazione della rendita di qualità che apparesempre più interessante in caso di successo di un prodotto tipico su un mer-cato molto ampio. Non bisogna tuttavia attribuire a questi strumenti un’effi-cacia automatica o senza costi. Il successo di una denominazione di originerichiede la realizzazione di un processo di allineamento dei piani individualidi soggetti promotori, talvolta molto eterogenei tra loro, che viene spessoconnotato dalla presenza di coalizioni contrapposte e che si può realizzare so-lo all’interno di un sistema di vincoli tecnologici ed istituzionali. La codificain un disciplinare delle dimensioni fondamentali della qualità di una produ-zione tipica, a partire dalla semplice delimitazione dell’area di origine fino al-la specificazione delle caratteristiche tecniche del processo produttivo, na-sconde così una negoziazione non facile perchè connessa alla spartizione del-la rendita di qualità creata dal processo di valorizzazione.

Nella lettura fin qui proposta del processo di sviluppo del mercato di unprodotto tipico, la ridefinizione del problema della qualità alimentare apparestrettamente connessa ad una evoluzione delle relazioni tra i diversi soggetti.L’allargamento del mercato oltre i confini del sistema locale di origine incideprofondamente sulla natura delle relazioni di mercato che si instaurano traproduzione e consumo, che devono essere mediate sempre più spesso da fi-gure intermedie; l’allungamento della filiera comporta una revisione dei rap-porti di forza e dei ruoli. Il processo di commoditisation dell’origine (Ray,1998) attraverso la valorizzazione di una produzione tipica, inoltre, attribuisceun ruolo attivo all’interno del sistema locale anche ai consumatori più lonta-ni, attraverso l’azione di figure e associazioni che si fanno carico di rappre-

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sentare la domanda di quelle caratteristiche immateriali che rendono tipico unprodotto alimentare e permettono di inserirlo con un preciso ruolo all’internodei diversi modelli di consumo alimentare. A ciò si aggiunga infine l’azionedelle istituzioni che a diversi livelli (locale per la promozione del processo divaorizzazione, nazionale e comunitario nel caso dell’avvio di percorsi di isti-tuzionalizzazione) intervengono nel processo di valorizzazione. Se la nego-ziazione della qualità è un processo sociale che continuamente evolve al mu-tare della natura del mercato, tale evoluzione si riflette nella progressiva ride-finizione delle reti di relazioni tra i soggetti coinvolti. I risultati delle indagi-ni sul campo intorno al caso del Pecorino delle Montagne Pistoiesi presentatinel capitolo 5, sembrano indicare come il successo di una iniziativa di valo-rizzazione di una specialità alimentare, implichi il progressivo infittimentodelle reti di relazioni tra i diversi attori, l’assunzione di ruoli differenziati invista di un migliore coordinamento tra obiettivi e azioni ed una strutturazionedel network intorno a nuovi macro-attori, maggiormente capaci di dare stabi-lità al processo di sviluppo, rendendolo sostenibile nel tempo.

Utilizzando il problema della valutazione della qualità come chiave di let-tura, la discussione proposta fino a questo punto ha permesso di delineare consufficiente chiarezza la natura del processo che, in un determinato sistema lo-cale, si avvia con il successo di una iniziativa di valorizzazione di una produ-zione tipica. La crescita delle produzioni tipiche negli ultimi anni mostra d’al-tra parte come in molti sistemi locali della Toscana esistano le condizioni perl’avvio di tali iniziative. Veniamo ora ad alcune considerazioni sui principaliproblemi di policy che si pongono a livello regionale in vista di un possibilegoverno del sistema del tipico.

4. Esigenze di governo del sistema del tipico: alcune indicazioni dipolicy

Al cuore della tipicità di una produzione alimentare sta il riconoscimentodell’esistenza di un legame tra i suoi attributi di qualità ed il territorio nelquale esso prende forma. Per questo la riscoperta di una produzione tipica,l’allargamento del suo mercato oltre i confini del sistema locale di provenien-za, richiederà prima o poi l’avvio di un processo di istituzionalizzazione checertifichi in una qualche misura tale legame. I risultati presentati in questo vo-lume hanno evidenziato un’intera gamma di motivazioni di questa esigenza.Soprattutto sembra emergere con chiarezza che il riconoscimento di una qual-che forma di denominazione dell’origine, non dovrebbe essere interpretatodai promotori semplicemente come la realizzazione di una barriera alla con-correnza capace, attraverso la creazione di una rendita economica di portareal successo ogni ipotetica iniziativa di valorizzazione. La certificazione del-l’origine ha innanzitutto una valenza di segnale di qualità rivolto al consuma-

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tore ed il suo successo richiede, di conseguenza, la conoscenza di ciò che inuna particolare origine geografica degli alimenti il consumatore pensa di tro-vare per soddisfare i suoi bisogni. Una denominazione geografica, inoltre, de-ve diventare luogo di composizione dei conflitti tra i diversi attori nel proces-so di negoziazione della qualità. Il suo consolidamento non è solo un atto for-male che si esaurisce con il riconoscimento del marchio, ma richiede la strut-turazione di un nuovo network di attori, in grado di governare il problemadella qualità in un mercato che si va facendo sempre più ampio.

La crescita delle produzioni alimentari tipiche pone, inoltre, alcuni pro-blemi di governo che vanno al di là dei singoli sistemi locali impegnati neivari progetti di valorizzazione, investendo i livelli istituzionali sovrastanti.Un primo aspetto riguarda la progressiva generalizzazione dell’origine comesegnale di qualità delle produzioni alimentari provenienti da una determina-ta area. È stato rilevato (Lambert, 1995) come la diffusione stessa delle di-verse forme di denominazione di origine ponga un problema di visibilità edefficacia di questi strumenti nella segnalazione della qualità alimentare. Sein una fase iniziale il riconoscimento di un marchio IGP o DOP può costi-tuire un elemento di vantaggio competitivo rispetto a produzioni simili (ilcaso di alcuni marchi di origine esistenti in Toscana come il Farro della Gar-fagnana o l’Olio Extravergine di Oliva Toscano sembra dimostrarlo), l’am-pliamento del paniere offerto ai consumatori di prodotti a denominazionecertificata provenienti da uno stesso ambito regionale potrebbe lentamentediluire agli occhi del consumatore quella differenziazione che genera la ren-dita di qualità.

Si pone pertanto un potenziale problema di governo e coordinamentodell’utilizzazione delle diverse forme di istituzionalizzazione. Le forme dicertificazione possono avere un diverso contenuto in termini di legame con ilterritorio e vincoli al processo produttivo. Allo stesso tempo la natura dellediverse produzioni può differenziare profondamente i costi di adozione. Ilcaso del vino, il prodotto alimentare che per primo ha qualificato le sue pro-duzioni attraverso l’origine, testimonia con evidenza l’esistenza di un pro-blema di coerenza nell’uso delle denominazioni geografiche e l’esigenza dicreare un ‘sistema delle denominazioni’ capace di mantenere nel tempo l’ef-ficacia di questo tipo di strumento (Rocchi, 2000). La promozione, attraver-so un uso appropriato delle diverse tipologie di marchio di origine, di un’ap-propriata gerarchizzazione qualitativa delle produzioni di uno stesso com-parto, ma con differenziate caratteristiche di specificità e di ampiezza dell’a-rea di produzione, appare come un primo campo dell’azione di governance alivello regionale.

Nel caso delle produzioni tipiche, tra l’altro, sembra aprirsi uno spazio in-teressante all’uso di forme libere di certificazione volontaria, sia come stru-mento di differenziazione delle produzioni aziendali che come strumento piùflessibile (e quindi meno costoso) di avvio del processo di valorizzazione per

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un intero sistema locale di produzione. Come dimostra anche l’esperienza delmarchio toscano Agriqualità è possibile immaginare forme di certificazioneche, sia pure senza un rimando esplicito all’origine geografica, costituisconoun segnale di qualità coerente con la domanda di tipicità del consumatore: adesempio relativo all’adozione di particolari tecniche di produzione che sonoespressione di un sapere fare artigianale. Anche in questo caso sembra evi-denziarsi una potenziale esigenza per un’azione coordinamento, in questo ca-so tra le finalità delle diverse forme di certificazione utilizzate in un sistemaregionale dei prodotti tipici, volta a garantire una coerenza minima tra i di-versi segnali di qualità.

Un ulteriore ordine di problemi che potrebbe porsi nel caso di una pro-gressiva affermazione di una vero e proprio sistema regionale di produzionitipiche riguarda le sue dimensioni complessive. Potrebbe porsi innanzituttoun problema di dimensioni nel senso del volume complessivo dell’offerta che,soprattutto nel caso dell’esistenza di numerose produzioni con ampia basegeografica (come nel caso delle indicazioni geografiche riferite al complessodel territorio regionale) potrebbe diluire il valore della stessa provenienza re-gionale. Accanto a questo potrebbe inoltre affiancarsi un problema di esten-sione della gamma di produzioni tipiche offerte da un determinato ambito re-gionale. Da un lato la presenza di un paniere sufficientemente ampio di pro-dotti tipici provenienti da un ambito regionale, maggiormente ‘riconoscibile’anche da consumatori più lontani, potrebbe riflettersi positivamente sulle pro-duzioni più piccole e per questo meno capaci di raggiungere una massa criti-ca, una ‘visibilità’ sufficiente. La creazione di un sistema regionale di produ-zioni agroalimentari tipiche può, in altre parole, trasformarsi in un vettore perl’ampliamento del mercato anche per sistemi locali di produzione altrimentiincapaci di affermarsi autonomamente. A fronte di ciò, nel caso di una cre-scita consistente dell’ipotetico sistema regionale del tipico, la presenza di ungrande numero di produzioni alimentari molto diverse, sia per comparto diprovenienza (formaggi, salumi, ortaggi lavorati etc.), che per natura della pro-duzione (prodotti freschi vs. prodotti lavorati), potrebbe tradursi in un mes-saggio non univoco sul legame tra qualità e territorio, un problema che po-trebbe riflettersi negativamente sul successo di prodotti con minore riconosci-bilità.

Il problema dell’estensione della gamma di produzioni tipiche rimandaanche alle esigenze di coerenza tra il segnale di qualità evocato da un deter-minato territorio di origine e la natura delle produzioni che da esso proven-gono. Gli studi sul comportamento del consumatore (Van Ittersum et al.,2003) hanno mostrato come l’origine venga utilizzata come suggerimento(cue) nella valutazione pre-acquisto di un prodotto; tuttavia la fiducia nell’o-rigine come indicatore della qualità tende a crescere se tipologia di prodotto eregione di origine sono percepiti come coerenti tra loro. Così, mentre per iprodotti freschi è la qualità dell’ambiente naturale che qualifica una determi-

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nata origine come ‘promessa’ di una qualità superiore, nel caso dei prodottitrasformati cresce l’importanza attribuita al capitale umano e sociale presentenell’area di provenienza. Un’eccessiva differenziazione tra produzioni offertecome tipiche da uno stesso territorio (regionale o sub-regionale che sia) po-trebbe portare a potenziali conflitti nella valorizzazione. Un’azione di gover-no a livello regionale potrebbe essere necessaria per favorire una migliorecoerenza complessiva.

Strettamente collegato a questo punto è l’ultimo ambito di possibile in-tervento ai fini del consolidamento dell’offerta di produzioni tipiche a livelloregionale, quello relativo alla comunicazione collettiva. Le indagini presenta-te nel capitolo 3 hanno confermato l’esistenza di una reale disponibilità a pa-gare per le caratteristiche di tipicità. Sembra esistere in altri termini una po-tenziale ‘domanda di origine’ in quanto tale, che i consumatori sono disponi-bili a soddisfare mediante l’acquisto di prodotti alimentari tipici. Le forme dicomunicazione collettiva possono contribuire all’instaurarsi di un circolo vir-tuoso tra aspettative create da una determinata origine geografica e soddisfa-zione derivante dal consumo del prodotto. Si tratta soprattutto di dirigere ver-so i consumatori informazioni sui luoghi nei quali i prodotti nascono più chesui prodotti stessi, per mettere in evidenza quegli elementi del tessuto territo-riale che i consumatori ritengono connessi alla creazione della tipicità. Un’ap-propriata comunicazione collettiva su una determinata regione come ‘luogodella tipicità alimentare’ potrebbe costituire un’importante base su cui il pro-cesso di costruzione/ricostruzione dell’immagine dei singoli territori e dellapromessa di qualità alimentare che essi portano alle persone.

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Warde, A. (1997). Consumption, Food and Taste. London, Sage.

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Giovanni Balestrieri, docente presso la facoltà di Economia dell’Universitàdi Pisa, insegna Economia agraria, Economia del turismo e Sviluppo ruralesostenibile nel corso di laurea triennale in Economia del territorio e dell’am-biente e nel corso di laurea specialistica in Sviluppo e gestione sostenibile delterritorio. Negli anni più recenti ha rivolto i suoi interessi di ricerca al turismorurale e alle produzioni agricole tipiche e tradizionali, con particolare riferi-mento alla Toscana.

Giovanni Belletti è professore associato nel Dipartimento di Scienze Econo-miche dell’Università di Firenze, dove insegna Economia dell’azienda agrariae agroindustriale e Politiche agroambientali nella Facoltà di Economia. I prin-cipali interessi di ricerca riguardano l’economia della qualità dei prodottiagroalimentari e le politiche agroambientali.

Gianluca Brunori è attualmente è professore ordinario presso il Dipartimen-to di Agronomia e gestione dell’Agroecosistema dell’Università di Pisa. Il suosettore di ricerca è l’economia agraria e lo sviluppo rurale con particolare at-tenzione allo studio delle strategie di sviluppo individuali e collettive dellepiccole imprese agricole e delle relative politiche di supporto. È coautore dicirca 70 pubblicazioni, di cui 30 in lingua inglese e su libri o riviste interna-zionali. Ha collaborato con ricercatori di Università straniere in numerosi pro-getti europei. Dirige la rivista ‘Agricoltura Mediterranea’, ed è stato elettoPresidente del consiglio tecnico scientifico dell’ARSIA (Agenzia regionaleper lo sviluppo e l’innovazione in agricoltura) – Regione Toscana.

Tunia Burgassi è dottoranda di ricerca nel Dipartimento di Scienze Econo-miche dell’Università di Firenze. I principali interessi di ricerca riguardanol’economia della qualità dei prodotti agroalimentari e in particolare dei pro-dotti tipici.

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GLI AUTORI

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Alessio Cavicchi è ricercatore di Economia Agraria presso l’Università degliStudi di Macerata. Ha conseguito il titolo di dottore di ricerca all’Universitàdegli Studi di Napoli “Parthenope” e un MSc in FoodEconomics and Marke-ting all’Università di Reading (UK). Ha pubblicato su riviste nazionali e in-ternazionali e svolge attività di ricerca sul comportamento del consumatore esulla qualità e sicurezza alimentare.

Raffaella Cerruti svolge il Dottorato di Ricerca in Economia e PoliticaAgraria presso la Facoltà di Economia dell’Università di Parma e collaboraall’attività di ricerca presso il Dipartimento di Agronomia e gestione dell’a-groecosistema dell’Università di Pisa. Nella sua attività di ricerca attualmen-te si occupa di sviluppo rurale e di multifunzionalità dell’agricoltura, e suquesto tema partecipa a progetti di ricerca a livello nazionale ed europeo, le-gati all’ analisi delle politiche agricole e di sviluppo rurale, e degli aspetti dimarketing relativi alla tutela e valorizzazione dei prodotti alimentari di qualitàe tipici.

Manuela Gabbai ha conseguito un Master of Science in Culture and Societyalla London School of Economics and Political Science. E’ specializzata nel-l’analisi dei comportamenti di consumo e nello studio delle percezioni e va-lutazioni del consumatore su specifici settori o prodotti e svolge ricerche qua-litative sul settore agroalimentare.

Massimo Gioia ha conseguito il dottorato di ricerca in Politica Agraria pres-so il Dipartimento di Economia Agroforestale e dell’Ambiente Rurale, Uni-versità degli Studi della Tuscia. Attualmente è assegnista di ricerca al Dipar-timento di Economia Agraria e delle Risorse Territoriali, Università di Firen-ze. I suoi principali campi di ricerca riguardano analisi economica dell’usodelle risorse idriche in agricoltura e le politiche fiscali in agricoltura.

Andrea Marescotti è professore associato nel Dipartimento di Scienze Eco-nomiche dell’Università di Firenze, dove insegna Economia agroalimentareed Economia rurale nella Facoltà di Economia. I principali interessi di ricer-ca riguardano l’analisi del sistema agroalimentare e delle filiere e la qualitànel sistema agroalimentare.

Alessandro Pacciani è professore ordinario nel Dipartimento di Scienze Eco-nomiche dell’Università di Firenze, dove insegna Economia e politica agrariaed Economia della cooperazione in agricoltura nella Facoltà di Economia. Iprincipali interessi di ricerca riguardano le politiche agricole, lo sviluppo del-le aree rurali e i distretti rurali, l’organizzazione economica dei produttoriagricoli.

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Benedetto Rocchi è ricercatore presso il Dipartimento di Economia Agrariae delle Risorse Territoriali dell’Università di Firenze, dove insegna EconomiaAgroalimentare. I suoi principali campi di ricerca riguardano l’economia del-le filiere agroalimentari e l’analisi delle politiche per il settore agricolo attra-verso modelli macroeconomici.

Donato Romano è professore ordinario presso il Dipartimento di EconomiaAgraria e delle Risorse Territoriali dell’Università degli Studi di Firenze.Coordinatore del gruppo di ricerca. I suoi studi più recenti nel settore dell’e-conomia agroalimentare hanno riguardato la stima dei costi di applicazionedell’HACCP nell’industria alimentare e l’analisi della fiducia del consumato-re nella comunicazione del rischio alimentare, in due studi europei di cui èstato coordinatore.

Adanella Rossi svolge attività di ricerca e collaborazione all’attività didatticain qualità di ricercatore in formazione presso il Dipartimento di Agronomia egestione dell’agroecosistema dell’Università di Pisa. Gli ambiti di interessedell’attività formativa e professionale riguardano vari aspetti legati allo svilup-po socio-economico delle aree rurali, in particolare le recenti dinamiche e stra-tegie alternative nel sistema agroalimentare, la gestione sostenibile delle risor-se ambientali e la programmazione economica e pianificazione territoriale.

Massimo Rovai in qualità di Professore associato presso la Facoltà di Inge-gneria è attualmente titolare del corso di Economia ed estimo rurale e territo-riale. L’attività di ricerca riguarda: l’economia agroalimentare in particolare,lo studio dei sistema agroalimentari, l’evoluzione del sistema agro-analisi de-gli aspetti organizzativi e commerciali relativi alla valorizzazione dei prodot-ti alimentari tradizionali e tipici; e nell’ambito dell’economia ambientale,l’impatto delle attività agricole e delle politiche sull’ambiente.

Silvia Scaramuzzi è ricercatore nel Dipartimento di Scienze Economichedell’Università di Firenze, dove insegna Economia e gestione delle impreseagrituristiche ed Economia rurale nella Facoltà di Economia. I principali inte-ressi di ricerca riguardano l’analisi delle filiere agroalimentari e il creditoagrario.

Gianluca Stefani, MSc in Agricultural Economics (Reading UK), PhD inEconomia e Politica Agraria (Bologna), PhD candidate in EnvironmentalEconomics (York UK). Attualmente è professore associato di Politica Agroa-limentare presso il Dipartimento di Economia Agraria e delle Risorse Territo-riali dell’Università di Firenze. I suoi principali interessi di ricerca sono: ana-lisi di impatto della regolamentazione per le politiche agroalimentari, econo-mia del consumi alimentari, metodi di marketing research per i prodottiagroalimentari.

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