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1 INDICE Introduzione 06 1 Introduzione al tema della corporate governance 1.1 Governance e corporate governance 11 1.2 Corporate governance e valore d’impresa 16 1.3 Corporate governance e responsabilità d’impresa 18 1.4 I criteri di classificazione dei sistemi di corporate governance 19 1.4.1 Sistemi insider e outsider 21 1.4.2 Sistemi monistici e dualistici 23 1.5 La comunicazione sulla corporate governance 28 2 La corporate governance in Italia 2.1 Le principali tappe della corporate governance in Italia: 33 la disciplina giuridica vigente 2.2 L’applicazione attuale della corporate governance in Italia 40 2.2.1 I contenuti del Codice di Autodisciplina 41 promosso da Borsa Italiana 2.2.2 I criteri di redazione della relazione sull’adesione 43 al Codice di Autodisciplina 2.3 La comunicazione sulla corporate governance in Italia 45 3 Una rassegna della letteratura 3.1 La proprietà societaria 49 3.1.1 Struttura proprietaria e valore societario 3.1.2 Struttura proprietaria e performance societaria 52 3.1.3 Struttura proprietaria ed efficienza tecnica 56 3.2 I sistemi di controllo interno ed esterno 58 della governance societaria 3.3 Le determinanti di dimensione, struttura e composizione del CdA 60 3.3.1 Le determinanti della dimensione e della struttura dei CdA 3.3.2 Le determinanti della composizione dei CdA 72 3.4 Il ruolo degli amministratori indipendenti 77

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INDICE

Introduzione 06 1 Introduzione al tema della corporate governance

1.1 Governance e corporate governance 11 1.2 Corporate governance e valore d’impresa 16 1.3 Corporate governance e responsabilità d’impresa 18 1.4 I criteri di classificazione dei sistemi di corporate governance 19 1.4.1 Sistemi insider e outsider 21 1.4.2 Sistemi monistici e dualistici 23 1.5 La comunicazione sulla corporate governance 28 2 La corporate governance in Italia

2.1 Le principali tappe della corporate governance in Italia: 33

la disciplina giuridica vigente 2.2 L’applicazione attuale della corporate governance in Italia 40

2.2.1 I contenuti del Codice di Autodisciplina 41 promosso da Borsa Italiana 2.2.2 I criteri di redazione della relazione sull’adesione 43 al Codice di Autodisciplina

2.3 La comunicazione sulla corporate governance in Italia 45 3 Una rassegna della letteratura

3.1 La proprietà societaria 49

3.1.1 Struttura proprietaria e valore societario 3.1.2 Struttura proprietaria e performance societaria 52 3.1.3 Struttura proprietaria ed efficienza tecnica 56

3.2 I sistemi di controllo interno ed esterno 58 della governance societaria

3.3 Le determinanti di dimensione, struttura e composizione del CdA 60 3.3.1 Le determinanti della dimensione e della struttura dei CdA 3.3.2 Le determinanti della composizione dei CdA 72

3.4 Il ruolo degli amministratori indipendenti 77

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4 L’analisi empirica: il database

4.1 Il database 82 4.1.1 La classificazione per settori 83 4.1.2 La concentrazione industriale 85 4.1.3 La quotazione di borsa 88

4.2 Le variabili che compongono il dataset 89 4.2.1 La concentrazione proprietaria aziendale 90

4.2.2 Le variabili economico-finanziarie 91 4.2.3 Le variabili di corporate governance 95

4.3 Un’analisi qualitativa delle variabili considerate 99 4.3.1 La concentrazione proprietaria aziendale 4.3.2 Le variabili di corporate governance 104

Appendice 4.1 Le statistiche descrittive delle variabili 110

economiche e finanziarie Appendice 4.2 Il caso Mediobanca 112

5 La teoria econometrica

5.1 Le analisi di regressione con dati cross-section 117

5.1.1 Le ipotesi alla base del modello OLS 5.1.2 La goodness of fit 119 5.1.3 L’inferenza statistica 120 5.1.4 Il problema dell’eteroschedasticità 123

5.1.5 Le proprietà asintotiche degli stimatori OLS 126 5.1.6 Le variabili qualitative (variabili dummy) 128 5.1.7 Le forme funzionali 129

5.2 Il Linear Probability Model (LPM) 131 5.3 I modelli probit 132 5.4 Le analisi di regressione con dati pooled cross-section 134 5.5 Le analisi di regressione con dati panel 135

5.5.1 Il metodo first-differencing 136 5.5.2 Il metodo fixed-effect 138 5.5.3 Il metodo random-effect 140 5.5.4 Il metodo between-effect 142 5.5.5 Un confronto tra i metodi di stima per le analisi panel

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6 Le caratteristiche del CdA, struttura proprietar ia e performance: un'analisi

empirica 6.1 Le caratteristiche del CdA in funzione della struttura 146

proprietaria 6.2 Le caratteristiche del CdA in funzione delle 152

caratteristiche dell’impresa 6.2.1 La dimensione del CdA 6.2.2 La composizione del CdA 155

6.3 La performance dell’impresa in funzione 159 delle caratteristiche del CdA

6.4 Checks and balances 166 6.5 Le analisi panel 170 Appendice 6.1 Le analisi panel 172 Appendice 6.2 Le statistiche descrittive delle variabili utilizzate 183

nelle analisi econometriche

Conclusioni 185 Bibliografia 190

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Indice delle figure e delle tavole

Figura 1.1 La governance d’impresa 16 Figura 1.2 Il sistema monistico 25 Figura 1.3 Il sistema tradizionale 27 Figura 1.4 Il sistema dualistico verticale 28

Tabella 1.1 I modelli di corporate governance 24 Tabella 4.1 Classificazione delle imprese che costituiscono il dataset 84

per l’analisi econometrica in funzione del settore industriale Tabella 4.2 I settori meno concentrati 86 Tabella 4.3 I settori maggiormente concentrati 87 Tabella 4.4 Il controllo delle società quotate 100 Tabella 4.5 La capitalizzazione di borsa delle società quotate 100 Tabella 4.6 Il controllo delle società quotate finanziarie 101 Tabella 4.7 La tipologia del primo azionista rilevante 102 Tabella 4.8 La tipologia del primo azionista rilevante nelle 102

società finanziarie Tabella 4.9 Le società a controllo familiare e i settori industriali 103

di appartenenza Tabella 4.10 I sistemi di corporate governance adottati dalle società 104 del campione per gli anni 2004-2007 Tabella 4.11 La dimensione media dei CdA delle società 105

del campione Tabella 4.12 La composizione media dei CdA delle società 106

del campione Tabella 4.13 Andamento della presenza di amministratori indipendenti 106

nei CdA Tabella 4.14 La dimensione e composizione media dei CdA delle società 107

suddivise in funzione della capitalizzazione di borsa Tabella 4.15 L’adozione del meccanismo del voto di lista e la presenza 108

di almeno un consigliere eletto tra le liste di minoranza nelle società del campione (valori percentuali)

Tabella 4.16 Il numero di riunioni dei CdA nei quattro anni (valori medi) 109

Tabella 6.1 Le caratteristiche del CdA in funzione della struttura 149 proprietaria: dimensione del CdA

Tabella 6.2 Le caratteristiche del CdA in funzione della struttura 150 proprietaria: percentuale di amministratori indipendenti ed esecutivi nel CdA

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Tabella 6.3 Le caratteristiche del CdA in funzione delle caratteristiche 153

dell’impresa: dimensione del CdA Tabella 6.4 Le caratteristiche del CdA in funzione delle caratteristiche 154

dell’impresa: percentuale di amministratori indipendenti ed esecutivi nel CdA

Tabella 6.5 Le caratteristiche del CdA in funzione delle caratteristiche 159 dell’impresa: comitati interni al CdA

Tabella 6.6 La performance dell’impresa in funzione delle caratteristiche 162 del CdA: Roa

Tabella 6.7 La performance dell’impresa in funzione delle caratteristiche 164 del CdA: Log ebit

Tabella 6.8 La performance dell’impresa in funzione delle caratteristiche 165 del CdA: Mtb, deviazione standard dei prezzi azionari

Tabella 6.9 Checks and balances: consiglieri indipendenti 168 Tabella 6.10 Checks and balances: comitati interni al CdA 170

Tabella 6.1A Le caratteristiche del CdA in funzione della struttura proprietaria: 172 dimensione del CdA

Tabella 6.1B Le caratteristiche del CdA in funzione della struttura proprietaria: 173 dimensione del CdA

Tabella 6.2A Le caratteristiche del CdA in funzione della struttura proprietaria: 174 consiglieri indipendenti

Tabella 6.2B Le caratteristiche del CdA in funzione della struttura proprietaria: 174 consiglieri esecutivi

Tabella 6.3A Le caratteristiche del CdA in funzione delle caratteristiche 175 dell’impresa: dimensione del CdA

Tabella 6.4A Le caratteristiche del CdA in funzione delle caratteristiche 176 dell’impresa: percentuale di amministratori esecutivi e indipendenti nel board

Tabella 6.5A Le caratteristiche del CdA in funzione delle caratteristiche 177 dell’impresa: comitati interni al CdA

Tabella 6.6A La performance dell’impresa in funzione delle caratteristiche 178 del CdA: Roa

Tabella 6.6B La performance dell’impresa in funzione delle caratteristiche 178 del CdA: Roat+1

Tabella 6.6C La performance dell’impresa in funzione della tipologia 179 di consiglieri e di comitati interni al CdA: Roa

Tabella 6.7A La performance dell’impresa in funzione delle caratteristiche 180 del CdA: Log ebit

Tabella 6.8A Checks and balances: consiglieri indipendenti 181 Tabella 6.9A Checks and balances: comitati interni al CdA 182

Tavola 6.2.1 Variabili dummy: descrizione 183 Tavola 6.2.2 Variabili di corporate governance, performance societaria 184

e struttura proprietaria: descrizione e statistiche descrittive

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INTRODUZIONE

Il dibattito sul sistema di governo delle imprese –la corporate governance– ha origini

lontane. Berle e Means (1932) sono stati i primi a teorizzare la separazione tra proprietà e

controllo tipica dell’impresa capitalistica. Alcuni decenni più tardi, agli inizi degli anni

settanta tali contributi pioneristici sono stati ripresi da Alchian e Demsetz (1972) e Jensen e

Meckling (1976) che hanno fornito una rappresentazione dinamica dell’impresa1. Questa

visione contrattualistica dell’impresa ha posto nuove problematiche e sfide da risolvere in

termini negoziali. È con l’adozione di questa visione che ha preso vigore il dibattito sul

tema della corporate governance, ovvero sui meccanismi volti alla risoluzione dei

problemi di governo dell’impresa al fine di perseguire la massimizzazione del valore

societario.

Nel corso degli ultimi anni, i processi di privatizzazione, deregolamentazione e

integrazione dei mercati finanziari, ma anche e soprattutto il verificarsi di eclatanti casi di

dissesto finanziario di grandi società quotate in borsa, hanno evidenziato l’inadeguatezza di

molte discipline nazionali sul fronte dei controlli interni ed esterni alle società e degli

obblighi di informazione degli amministratori. Si è quindi intensificato il dibattito in

materia di organizzazione, gestione e controllo delle società, riguardante la natura, la

struttura e la composizione degli organi di gestione. In anni recenti, le società quotate

italiane hanno iniziato il cammino per adeguare la propria governance ai cambiamenti

apportati dal complesso della disciplina giuridica in materia di assetto di governo

societario2.

La corporate governance è quindi materia attuale e strategica. Da un lato costituisce una

leva fondamentale della competitività delle società, rappresentando una chiave attraverso

cui massimizzare l’efficienza della gestione e più in generale ottimizzare la performance.

Dall’altro lato, dal modello di corporate governance dipende il livello di accountability

delle società, ovvero l’ampiezza della responsabilità attribuita ai gestori societari e

1 Secondo Alchian e Demsetz (1972) e Jensen e Meckling (1976) l’impresa è definibile come l’insieme di negoziazioni tra soggetti portatori di interessi diversi e a volte divergenti, e non più finalizzata al raggiungimento dell’obiettivo di massimizzazione della funzione produttiva. 2 Si fa riferimento alla nuova normativa del diritto societario italiano, alla Legge sul Risparmio e i relativi Regolamenti attuativi, alla revisione del Codice di Autodisciplina delle società quotate e alle Linee guida fornite dalle diverse Associazioni di categoria coinvolte nei temi di governo delle varie tipologie di imprese e figure professionali.

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l’efficacia del controllo cui essi sono sottoposti. I meccanismi di corporate governance

assumono un ruolo sempre più rilevante, in quanto presuppongono sia la definizione di

regole chiare nelle relazioni tra imprese e investitori sia l’individuazione di specifiche

responsabilità delle autorità di controllo, che costituiscono elementi determinanti ai fini

della promozione di mercati dei capitali efficienti e trasparenti. All’interno di tali

meccanismi riveste un ruolo fondamentale il corretto funzionamento del Consiglio di

Amministrazione (CdA).

La letteratura teorica ed empirica che si è concentrata sulla corporate governance in

generale e sul ruolo e le caratteristiche del CdA, organo chiave della gestione societaria,

più in particolare è ampia e diversificata. Molti contributi, sia teorici, sia empirici hanno

analizzato le relazioni tra struttura proprietaria, assetto di governo societario, performance

aziendale e caratteristiche del CdA3. Un capitolo della tesi è dedicato all’analisi delle

molteplici relazioni evidenziate nella letteratura sulla corporate governance a indicare la

complessità del fenomeno e il suo carattere dinamico e in divenire.

Una volta individuati gli ambiti più dibattuti in letteratura e analizzate le peculiarità delle

società quotate italiane in termini di disciplina legislativa e struttura proprietaria, la tesi

sviluppa un’analisi empirica tesa a illustrare le determinanti della struttura dei CdA e le

relazioni esistenti tra organo di gestione e risultati aziendali, sulla base di un dataset

comprendente tutte le società quotate italiane sulla Borsa Valori di Milano nel periodo

2004-2007. Il dataset contiene informazioni appositamente raccolte e classificate ai fini

della tesi circa la struttura proprietaria delle società, le caratteristiche degli assetti di

governo societario e variabili relative a dimensione, redditività e struttura finanziaria. Più

precisamente le analisi econometriche presentate nella tesi considerano un campione panel

bilanciato costituito da tutte le società per le quali si dispone di un insieme completo di

informazioni per tutti gli anni oggetto di indagine. Si sono inoltre condotte analisi

utilizzando il panel sbilanciato di tutte le imprese ricomprese nel dataset, ottenendo

risultati qualitativamente in linea con quelli ottenuti considerando il panel bilanciato.

Anticipando sinteticamente i principali risultati ottenuti, l’analisi econometrica rivela che

una struttura proprietaria particolarmente concentrata costituisce una determinante di

3 L’apprezzamento della qualità del modello di corporate governance transita necessariamente da un giudizio sulla qualità del CdA ed, in particolare, da una valutazione dell’impatto della configurazione di tale organo sulla performance aziendale.

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rilievo della configurazione del CdA. All’aumentare della concentrazione proprietaria le

dimensioni del board tendono a ridursi e a favorire la componente esecutiva, a scapito di

quella indipendente. Le società a proprietà familiare tendono inoltre ad avere Consigli di

Amministrazione di dimensioni inferiori e con una maggiore percentuale di amministratori

esecutivi rispetto alle società non familiari.

Le variabili che meglio riescono a spiegare la dimensione e composizione del CdA sono

quelle dimensionali; lo stesso risultato vale poi per le determinanti della probabilità di

istituzione dei comitati interni al Consiglio di Amministrazione. Con riferimento alla

relazione tra performance societaria e caratteristiche dell’organo amministrativo, si è

evidenziata una relazione positiva tra risultati aziendali e dimensione del board e la

presenza di amministratori esecutivi, mentre non si è trovata alcuna evidenza robusta di

una relazione tra redditività aziendale e amministratori indipendenti. Allo stesso modo, nel

complesso la presenza di comitati interni al CdA, a eccezione del Comitato esecutivo, non

sembra determinare effetti specifici sulla performance societaria. L’analisi empirica

suggerisce inoltre l’esistenza di un effetto di controllo e bilanciamento al netto di un puro e

semplice effetto di composizione nella definizione dei compiti attribuiti al Consiglio di

Amministrazione nell’insieme delle sue componenti, che può contribuire a spiegare la

relazione tra componente indipendente nel board e probabilità di istituzione dei comitati,

in particolare quello esecutivo.

Dal complesso delle relazioni analizzate tra struttura proprietaria, configurazione del CdA

e performance societaria emerge infine la tendenza all’allineamento di proprietà e controllo

societari (ad opera del soggetto controllante), a scapito degli azionisti di minoranza, che

apportano mezzi finanziari alla società, ma non partecipano alle decisioni aziendali.

La tesi è articolata come segue. Nel primo capitolo si introduce il tema della corporate

governance, illustrando i diversi modelli di governo societario, con particolare attenzione a

quelli adottati nelle aree economiche più avanzate (mercati europei e statunitense - i

cosiddetti sistemi occidentali - e giapponese). Il secondo capitolo si concentra sulla

evoluzione della corporate governance in Italia, illustrando le principali tappe nella

definizione della governance delle società quotate italiane ed evidenziando i caratteri

distintivi dell’attuale sistema di corporate governance italiano. Segue nel terzo capitolo

una rassegna della letteratura teorica ed empirica in materia di corporate governance, sia di

matrice anglosassone, sia specifica al caso italiano. Nel quarto capitolo si illustra il

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processo alla base della definizione del dataset costruito per l’analisi empirica di questo

lavoro. Si discutono le variabili rilevate, evidenziandone le caratteristiche qualitative

(mediante statistiche descrittive) e motivandone l’introduzione nel dataset. Il quinto

capitolo è di natura essenzialmente metodologica ed è dedicato alla teoria econometrica e

al confronto tra i metodi di stima adottati nelle analisi di regressione.

Infine, nel sesto capitolo sono discussi nel dettaglio i risultati delle analisi econometriche.

Alcune considerazioni conclusive e osservazioni circa possibili estensioni chiudono la tesi.

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CAPITOLO 1

LA RILEVANZA DELLA CORPORATE GOVERNANCE

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1.1 Governance e corporate governance Con il termine governance si individua l’insieme delle attività di governo dell’impresa,

sviluppate dal management e dall’organizzazione aziendale per l’ottimizzazione delle

performance economiche, competitive e socio-ambientali.

La governance aziendale monitora il corretto orientamento di tutte le decisioni e le azioni

connesse all’acquisizione e all’investimento delle risorse, al relativo impiego nello

sviluppo della gestione, al conseguimento dei risultati.

La governance riguarda quindi sia la selezione degli indirizzi di sviluppo e la definizione

degli obiettivi di medio-lungo termine dell’impresa, sia lo sviluppo degli obiettivi e la

realizzazione dell’attività operativa da cui derivano i risultati effettivi. La governance che

rappresenta in effetti il sistema attraverso cui le imprese si relazionano con i propri

interlocutori, deriva dalle scelte effettuate dagli organi di corporate governance e si fonda

su un insieme di meccanismi e di strumenti di controllo interno diretti a garantirne

l’attuazione nell’ambito della gestione.

Con il termine corporate governance (governo d’impresa) si fa riferimento invece

all’insieme di norme, metodologie, modelli e sistemi di pianificazione, gestione e controllo

necessari al funzionamento degli organi di una società; più precisamente si intende

l’insieme dei rapporti tra i manager di una società, il suo Consiglio d’Amministrazione e i

suoi azionisti. La corporate governance individua infatti il governo d’impresa quale

attività di vertice sviluppata da specifici organi con funzioni in primo luogo amministrative

e di controllo (Consiglio di Amministrazione, Consiglio di gestione, Amministratore unico,

Collegio sindacale, Consiglio di sorveglianza, Comitato per il controllo…). I rapporti tra

questi organi conducono alla definizione delle modalità e della struttura utilizzata per il

conseguimento dell’attività d’impresa e quindi ai problemi derivanti dalla separazione

della proprietà e del controllo con particolare riferimento alle relazioni che si stabiliscono

fra azionisti e amministratori.

L’origine anglosassone del termine evidenzia come la corporate governance abbia trovato

specifico approfondimento innanzi tutto con riguardo alle grandi imprese o comunque alle

società quotate: il fabbisogno di regolamentazione e di verifica dei comportamenti risulta

in effetti maggiore all’aumentare del numero e della dispersione degli interessi coinvolti e

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dei rischi; per contro, l’attività amministrativa e di controllo qualifica l’evoluzione di tutte

le imprese. Il modello di governo di un’impresa configura la tipologia di gestione

dell’impresa stessa: la governance di un’impresa determina, da un lato, l’attribuzione dei

poteri decisionali nelle diverse circostanze e, dall’altro, i rapporti tra l’impresa e i soggetti

ad essa legati da rapporti economici (creditori, debitori, azionisti, dipendenti).

Il sistema di governance è inoltre definibile come un complesso insieme di vincoli che

definisce e pertanto limita le modalità con cui le rendite che si generano in un’impresa

possono essere successivamente distribuite tra i vari soggetti coinvolti.

Poiché la distribuzione delle rendite ex post avrà importanti effetti su come esse sono

prodotte ex ante, per questa via la corporate governance influenza significativamente il

livello di efficienza delle imprese: da un lato, chi non riceve un adeguato compenso

potrebbe non investire abbastanza in attività che accrescono il valore dell’impresa,

dall’altro, i soggetti coinvolti potrebbero investire in attività inefficienti, il cui unico scopo

è quello di modificare a proprio favore la divisione delle rendite ex post. Il sistema di

governance influisce anche sul modo in cui si svolge la contrattazione tra i soggetti dopo

che le rendite sono state prodotte, attraverso gli effetti che può avere sul grado di

asimmetria informativa tra le parti, sul livello dei costi di coordinamento, sui vincoli

finanziari dei diversi soggetti. Infine, il sistema di governance influenza il modo in cui il

rischio è allocato tra i vari soggetti e di conseguenza il livello complessivo di rischio

generato nel sistema.

La responsabilità degli organi amministrativi è un punto centrale del dibattito sulla

corporate governance soprattutto con riguardo alle società con azionariato diffuso, per le

quali il controllo diretto dei soci di minoranza è minore. Infatti in tale situazione i soci,

spesso disinteressati all’esercizio dei propri poteri di azionisti (c.d. voice) per l’esiguo peso

che hanno sono indotti a esternare il proprio dissenso con l’alienazione delle proprie

azioni, recedendo quindi dalla società (c.d. exit).

In tale contesto, la corporate governance tende a evolvere da una situazione di preminente

attenzione per gli azionisti e per la connessa responsabilità economica, a una opportuna

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valorizzazione di tutti gli stakeholder4 e dell’insieme di responsabilità (amministrative,

economiche e sociali d’impresa). Il soddisfacimento delle attese e in primo luogo degli

interessi di coloro che conferiscono le risorse primarie (conferenti di capitale di rischio e

prestatori di manodopera), rappresenta l’elemento promotore di tutta l’attività di impresa.

A tale elemento si associa il mandato conferito agli organi di corporate governance.

La corporate governance è quindi un’attività diretta allo sviluppo di decisioni e azioni

orientate alla soddisfazione degli interessi, spesso anche contrapposti, delle differenti

categorie di stakeholder. La relativa attuazione definisce le modalità di istituzione di

durevoli relazioni positive tra i diversi portatori di interesse dell’impresa, le potenzialità di

successo, di crescita e di affermazione nell’ambiente competitivo, la capacità di

ottenimento di consenso e risorse. Gli stakeholder si attendono dall’impresa un’efficace

Amministrazione, opportunamente strutturata e costantemente monitorata, trasparente e in

grado di trasferire tutte le informazioni necessarie per consentire l’espletamento dei

necessari processi valutativi.

Di conseguenza, la corporate governance implica l’opportuna realizzazione di processi di:

-amministrazione, cioè di perfezionamento delle scelte e di definizione degli indirizzi di

corretta attuazione della gestione;

-di controllo, ovvero di verifica della correttezza e dell’efficacia dei comportamenti

amministrativi;

-di comunicazione, cioè di trasferimento interno ed esterno di tutte le informazioni volte a

realizzare la trasparenza e il conveniente orientamento comportamentale.

In ottica economico-aziendale, la corporate governance si connette all’assetto istituzionale

dell’impresa e presidia la definizione degli indirizzi volti a determinare gli assetti

strutturali (assetto organizzativo, tecnico e patrimoniale) e le dinamiche gestionali. Si

tratta, ancora una volta, di un’attività di vertice, svolta da specifici organismi, su mandato

della proprietà e nell’interesse dell’impresa. Le attese sono di carattere economico, ma

anche di carattere sociale e possono trovare realizzazione durevole solo a fronte di

4 In ambito internazionale, i diversi contributi scientifici tendono spesso a considerare tre differenti categorie di “stakeholder” (i cosiddetti portatori di interesse): gli “equity stakeholder”, ossia i conferenti di capitale di rischio con potere di nomina degli organi di governo societario, gli “economic stakeholder”, cioè gli interlocutori aziendali con potere di intervento collegato essenzialmente a relazioni di prestazione di lavoro e di mercato e gli “environmental stakeholder”, ossia tutti gli interlocutori sociali che influenzano solo indirettamente la dinamica aziendale, esercitando su di essa pressioni di natura socio-politica.

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comportamenti rispettosi della disciplina legale. Di conseguenza, la corporate governance,

in quanto attività amministrativa, di controllo e di comunicazione deve essere orientata al

rispetto delle norme (responsabilità amministrativa), alla creazione di valore per garantire

la realizzazione di processi di autofinanziamento e la soddisfacente remunerazione dei

conferenti di capitale di rischio (responsabilità economica), la corretta soddisfazione dei

bisogni della clientela per la formazione di valore aggiunto attraverso i cicli della gestione

caratteristica aziendale, la soddisfazione del personale per una gestione improntata

all’efficacia e all’efficienza e infine la conveniente remunerazione di tutti gli altri fattori

acquisiti in modo da ottenere le migliori potenzialità di fornitura nel tempo (responsabilità

sociale ed economica). Con riguardo dunque al ruolo della corporate governance per la

realizzazione dei fini dell’impresa, le decisioni di governo devono essere animate dall’equo

contemperamento delle responsabilità economiche (nei confronti della proprietà, dei

prestatori di lavoro, ma anche di coloro che hanno concesso crediti di finanziamento, di

regolamento o che intrattengono relazioni con implicazioni economiche di vario tipo),

responsabilità amministrativa (riconducibile al rispetto delle norme civili e fiscali) e

responsabilità sociale (nei confronti di tutti coloro con cui si intrattengono relazioni

strumentali per lo sviluppo dell’attività).

L’aspetto strutturale della corporate governance

Da un punto di vista strutturale, la corporate governance si correla in primo luogo agli

organi preposti alla definizione del sistema degli scopi, degli indirizzi, delle linee evolutive

fondamentali e al controllo del corretto sviluppo dell’attività amministrativa e di

comunicazione. Gli organi di governance ricevono mandato dalla proprietà (direttamente o

indirettamente) a esercitare le funzioni amministrative (si ha quindi un organo

amministrativo di governance) o di controllo (si configura così l’organo di controllo di

governance). Il mandato può essere formalizzato o derivante da norme e consuetudini ma,

per essere espletato correttamente, presuppone il mantenimento delle condizioni di

efficacia in tutte le relazioni che l’impresa intrattiene con l’ambiente.

Secondo la teoria dei contratti, la relazione che unisce gli organi di governance alla

proprietà è riconducibile ad un rapporto d’agenzia (principale-agente), fondato sulla delega

e sulla responsabilità per i risultati. Le norme e i principi generalmente accettati nel paese

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in cui ha sede l’impresa tendono a definire le caratteristiche del rapporto di agenzia: la

numerosità degli organi, la connessa composizione minima, i compiti correlati, le

responsabilità e le modalità interattive. Ciascuna impresa definisce poi, mediante propria

regolamentazione interna (ad esempio, per mezzo dello statuto aziendale), le modalità

specifiche di applicazione nell’ambito della discrezionalità consentita da norme e

raccomandazioni.

L’aspetto processuale della corporate governance

Dal punto di vista dei processi aziendali che vengono posti in essere l’attività di corporate

governance riguarda l’insieme coordinato delle decisioni e delle azioni volte a definire le

condizioni generali di efficacia rispetto alle attese confluenti in impresa e al corretto

sviluppo del rapporto risorse, attività, risultati.

In questo caso il riferimento essenziale riguarda i processi volti a indirizzare e gestire l’attività, nell’intenzione di ottenere risultati ottimali e coerenti con le attese dei conferenti capitale di rischio e di

tutti gli altri stakeholder, i processi finalizzati a eseguire i necessari controlli di affidabilità delle informazioni e di correttezza formale e sostanziale degli assetti e delle procedure e infine le modalità di interazione e le comunicazioni attivate con i diversi attori sociali. La corporate governance implica perciò lo sviluppo integrato di funzioni di amministrazione e controllo, a salvaguardia dei requisiti di efficacia, trasparenza comportamentale e di corretta gestione dei rischi di impresa. A tali attività si

affianca un coerente sviluppo delle comunicazioni dirette a regolamentare la trasparenza dell’interazione con gli stakeholder come si vede nella

Figura 1.1.

Si ribadisce quindi che il processo di corporate governance presuppone la realizzazione di

tre diverse tipologie di attività di vertice: le attività di amministrazione, le attività di

controllo e quelle di comunicazione, le prime due demandate a specifici organi, la terza

attuata da entrambi gli organi, nell’ambito ciascuno delle proprie competenze.

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Corporate Governance Organi di governo

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16

Figura 1.1. La governance d'impresa (Fonte: Salvioni (2007) p 30)

Strettamente legata all’aspetto dei processi aziendali, l’analisi sui risultati considera la

capacità di effettiva soddisfazione delle diverse attese, con riguardo ai fenomeni di

creazione di ricchezza e alle relative determinanti significative di carattere economico,

competitivo e sociale: assumono in questo caso rilievo le modalità di contemperamento dei

diversi interessi per l’ottenimento di consenso nel tempo e l’adozione di adeguate

procedure di rendicontazione e di controllo.

1.2 Corporate governance e valore d’impresa

La centralità della creazione di valore è una condizione essenziale di successo delle

imprese: tale condizione non deve però essere ritenuta una finalità dominante o addirittura

esclusiva, bensì un elemento indispensabile per produrre le risorse da reinvestire e per

garantire la disponibilità dei mezzi da destinare alla soddisfazione degli stakeholder. In

effetti, tra acquisizione, produzione e destinazione di risorse si instaura un meccanismo

continuo, di carattere circolare, la cui virtuosità tende a connettersi in primo luogo alla

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qualità della governance5. E gli indirizzi di governance selezionati si riflettono sulle

modalità di ottenimento del valore stesso e sulla relativa possibilità di crescita potenziale.

In passato, specie in Italia dove vi è sempre stata un’attenzione particolare degli studiosi

per la stakeholder view6, le scelte realmente operate dalle imprese hanno non di rado

evidenziato significative difformità tra posizioni teoriche e prassi comportamentale. Per

lungo tempo infatti, la corporate governance ha spesso riportato un’interpretazione

restrittiva del mandato ricevuto, con un eccessivo privilegio degli interessi della proprietà,

con una frequente predominanza di un orientamento al profitto, talora anche con

comportamenti diretti a creare disparità di trattamento tra sottogruppi di conferenti di

capitale di rischio (tra soci di maggioranza e minoranza). Solamente negli ultimi anni, a

seguito anche del susseguirsi di situazioni di conclamata fraudolenza e iniquità

comportamentale, a livello mondiale si è andata diffondendo una nuova concezione del

ruolo dell’impresa nella società, con una significativa rivalutazione degli interessi degli

stakeholder e delle interdipendenze tra rispetto delle norme, comportamento economico,

sociale, ambientale e potenzialità di acquisizione di risorse e consenso. L’esigenza di

assunzione di modelli di governance più efficaci e corretti risulta inoltre acuita dai recenti

fenomeni di globalizzazione dei mercati e delle informazioni, di crescita della complessità

delle relazioni intra e interaziendali, di rilevanza della capacità di innovazione di prodotti e

processi, di necessità di recupero di fiducia e di consenso sull’operato aziendale.

Nell’attuale situazione di contesto competitivo, al governo aziendale è richiesto un

approccio fondato su obiettivi ampi, rivolti all’opportuna valorizzazione dell’intera rete

delle relazioni interne ed esterne, secondo un approccio basato sull’ottimizzazione dei

comportamenti rispetto alle attese e sullo scambio informativo. L’interpretazione restrittiva

della shareholder supremacy7 evidenzia quindi significativi limiti, soprattutto a fronte

dell’attuale capacità e tempestività di diffusione delle informazioni e delle possibilità di

5 Qui, la governance è intesa in senso ampio, cioè come attività amministrativo-gestionale, di comunicazione e controllo, sviluppata dai vertici e, attraverso opportuni meccanismi di orientamento comportamentale, da tutta l’organizzazione. 6 Orientamento di pensiero che valorizza tutte le relazioni aziendali e le connesse attese economiche e non, in quanto associabili all’ottenimento dei fattori strumentali per la formazione dei presupposti di successo duraturo, con una visione più ampia degli attori sociali primari 7 La shareholder supremacy sostiene la supremazia dei conferenti di capitale di rischio e delle connesse attese economiche e non economiche, in quanto attori primari che sopportano il rischio d’impresa e a cui spetta un ruolo dominante nella definizione delle norme interne e nella nomina degli organi di corporate governance.

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confronto tra differenti interlocutori dell’impresa. La chiara valorizzazione di tutti gli

stakeholder e l’assunzione di una responsabilità globale si configurano sempre più quali

condizioni essenziali a garanzia del mantenimento della capacità di creazione di valore

dell’impresa. Concretamente, una buona governance societaria dovrebbe quindi garantire

rappresentanza nelle strutture di governo e sufficienti garanzie anche ai soci di minoranza e

a tutti gli altri interlocutori dell’impresa, e ancora offrire comunicazioni sempre più

intelligibili e trasparenti sulla governance e sui suoi risultati.

1.3 Corporate governance e responsabilità d’impresa

Il comportamento degli organi di corporate governance e l’intera attività di governo

manageriale presuppongono l’assunzione di una responsabilità globale, volta a combinare

efficacemente gli aspetti economici, amministrativi, sociali e la considerazione di tutte le

classi di portatori di interesse con cui l’impresa intrattiene relazioni.

In passato, la frequente assunzione di un concetto restrittivo di responsabilità, prettamente

incentrato sul profitto, e la forte dipendenza degli organi di governance dalla proprietà

hanno non di rado determinato:

� Consigli di Amministrazione composti da membri scelti esclusivamente da

azionisti, in prevalenza di maggioranza;

� l’attribuzione di deleghe formali ma non sostanziali agli organi di governance,

spesso indotti a ratificare decisioni già perfezionate in altra sede e a sottoscrivere

verbali già predisposti;

� remunerazioni di membri esecutivi dei Consigli di Amministrazione e manager (in

genere soci di maggioranza e persone di loro fiducia) talora eccessive e tali da

consumare vasta parte delle risorse economiche prodotte;

� situazioni di significativa asimmetria informativa/comunicazionale, con messaggi

veicolati all’esterno poco chiari o eventualmente rielaborati;

� rapporti collusivi tra vertici di governo e istituti di credito, diretti a trasferire stati

di rischiosità conclamata su operatori meno formati;

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� situazioni in cui i risultati dichiarati non sono corrispondenti al reale e tali da

garantire l’assegnazione ai membri degli organi di governance in scadenza di

eventuali remunerazioni integrative legate al raggiungimento di obiettivi di

carattere economico.

Tali comportamenti si scontrano oggi con il concetto ampio di responsabilità che si sta

affermando, con il proliferare di forme di associazionismo a tutela degli stakeholder esterni

e con l’ampliamento dei processi di controllo interno ed esterno. Di notevole rilievo sono

anche la diffusione di codici etici diretti a regolamentare i comportamenti degli organi di

governance, degli attori interni, ma anche di significativi gruppi di attori esterni con cui si

intrattengono relazioni di scambio, lo sviluppo dei codici di autodisciplina e ancora, di una

sempre più precisa normativa internazionale (europea e statunitense) e nazionale.

1.4 I criteri di classificazione dei sistemi di corporate

governance

I sistemi di corporate governance sono volti a promuovere l’integrità della gestione e la

generazione di valore per gli stakeholder, secondo il vario combinarsi degli assetti di

direzione e controllo. Numerosi fattori economici, storici e legati alla tradizione giuridica

concorrono tuttavia a determinare la concreta struttura dei sistemi nei diversi paesi,

originandone le peculiarità.

Gli assetti e le regole di governo aziendale possono essere introdotte dal legislatore, oppure

derivare dall’iniziativa privata o dalla prassi, nel tentativo di rispondere alle esigenze di

protezione degli investitori e di positiva interazione delle imprese con il contesto

competitivo. Solitamente nei paesi common law (ovvero nel mondo anglosassone, dove la

legge non è scritta e la giurisprudenza è fonte di diritto) si assiste ad una forte presa di

posizione degli organismi che vigilano sulle borse valori, i quali cercano di preservarne

l’affidabilità stabilendo rigide condizioni (di amministrazione e controllo, nonché di

comunicazione esterna), che le imprese devono rispettare per essere ammesse alla

quotazione. Nei paesi civil law, molti dei quali sono stati influenzati dal Codice

napoleonico, è invece prevalentemente la legge scritta che orienta e vincola le strutture e i

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processi di governo, concentrandosi sovente sulle grandi imprese. La regolamentazione

pubblica si inserisce in un contesto assai ‘più chiuso’, dove la proprietà del capitale di

rischio si trasferisce essenzialmente per mezzo di accordi tra le parti, con un ruolo meno

rilevante del mercato finanziario. La legge definisce, allora, specifiche operazioni e

procedure che costituiscono il framework all’interno del quale devono svolgersi le

operazioni di trasferimento delle quote di capitale, affinché non siano violati gli interessi

degli azionisti di minoranza e degli altri stakeholder.

Un primo fattore che contribuisce a spiegare le differenze tra i sistemi di direzione e

controllo delle imprese è proprio il differente ruolo esercitato dai mercati finanziari: nei

mercati anglosassoni le risorse transitano rapidamente da un’impresa all’altra, seguendo

l’andamento dei prezzi di borsa e rendendo meno frequente la formazione di maggioranze

stabili e realmente interessate a gestire la società. In tale situazione, i manager assumono

una sostanziale posizione di comando, da cui si origina uno tra i più discussi problemi di

governo aziendale, ossia come allineare gli obiettivi degli azionisti e del management,

assicurando al contempo la crescita equilibrata dell’impresa nel lungo periodo e la tutela

delle attese economiche e sociali.

Un secondo fattore di rilievo è rappresentato dal differente ruolo svolto dalle banche nel

sistema economico: in alcuni paesi (come Germania e Giappone), le banche hanno svolto

una funzione decisiva per superare le gravi crisi industriali connesse alle guerre del secolo

scorso, sostenendo la ripresa dell’economia e lo sviluppo delle imprese non finanziarie. Da

allora, gli istituti di credito partecipano o hanno partecipato, con varia intensità, alla

formulazione delle strategie d’impresa, operando in qualità di azionisti permanenti,

detentori di una parte considerevole del capitale di rischio, e provvedendo quindi alla

nomina di un numero ragguardevole di consiglieri. Allo stesso tempo però, gli istituti

bancari hanno tradizionalmente prestato ingenti somme alle aziende, ricoprendo la duplice

posizione di soci e creditori.

Un terzo fattore che determina le tipicità nazionali dei sistemi di corporate governance è

costituito dal rapporto tra i prestatori di lavoro e l’impresa, per quanto riguarda l’apertura

degli organi istituzionali nei confronti di soggetti che non rappresentano la proprietà. A tale

proposito, l’elemento più significativo è fornito dalla realtà tedesca, nella quale i

rappresentanti dei dipendenti sono presenti nel consiglio di sorveglianza, ossia l’organo

che nomina e controlla l’operato degli amministratori. Il diritto societario tedesco

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riconosce cioè il ruolo chiave della co-gestione aziendale e lo istituzionalizza, prevedendo

la partecipazione dei lavoratori all’organo di vigilanza.

Infine, le differenze tra i sistemi di governance discendono dalle modalità di interazione tra

gli organi di gestione e controllo e dalla distanza tra la proprietà e il management. Se

quest’ultimo infatti non è posto sotto l’influenza diretta degli azionisti di maggioranza,

bensì è indirizzato e controllato dal Consiglio di Amministrazione o da un organo di

vigilanza in grado di mediare tra tutti gli interessi confluenti in azienda, è assai più

probabile che si possa arrivare a un’equa composizione delle attese.

La classificazione dei sistemi di corporate governance è effettuata in letteratura attraverso

l’utilizzo di due principali criteri:

1. il tipo di monitoring al quale sono sottoposti i dirigenti: monitoraggio “esterno”,

realizzato dal mercato o monitoraggio “interno”, ad opera dei principali portatori di

interesse; in questo caso si distingue tra l’outsider system e l’insider system;

2. la distribuzione dei poteri di amministrazione e di controllo, che può configurare

sistemi dove le correlate funzioni sono attribuite tutte ad un solo organo, oppure

sistemi che stabiliscono e realizzano la separazione di tali poteri tra due organi

distinti; si parla rispettivamente di sistemi monistici e dualistici.

1.4.1 Sistemi insider e outsider Il controllo della gestione aziendale e del raggiungimento degli obiettivi può essere

realizzato dall’esterno, per effetto dell’efficiente funzionamento del mercato dei capitali,

oppure dall’interno, ad opera dei soggetti interessati a tessere e mantenere relazioni

durevoli con l’impresa.

Gli insider system sono contraddistinti da mercati finanziari poco sviluppati, proprietà

concentrata e stabile ed importanti legami tra le imprese e le istituzioni bancarie. In tali

realtà, a causa della vischiosità dei mercati finanziari, un controllo dall’interno è

essenziale: poiché la proprietà è detenuta da un solo o pochi azionisti che costituiscono il

cosiddetto “zoccolo duro”, in borsa è scambiata solo una parte marginale del capitale, che

non consentirebbe la sostituzione del management per mezzo di scalate esterne nemmeno

se fosse acquistata per intero da un unico soggetto. Il controllo sull’attività dei manager è

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quindi affidato a un organo composto dai rappresentanti dei principali stakeholder,

selezionati sulla base della loro esposizione al rischio e alla criticità della risorsa conferita.

Vicende storiche ed economiche in cui si è affermato l’insider system hanno contribuito a

delinearne due modelli parzialmente divergenti:

-un insider system di tipo renano (detto anche relationship-based system o network

oriented system), originario della Germania, ma diffuso anche nell’Europa centrale e nei

Paesi scandinavi, connotato da un forte grado di partecipazione al controllo da parte di

banche e dipendenti, che mirano a instaurare e mantenere proficue e durature relazioni con

l’impresa. Si tratta di una visione partecipativa della gestione aziendale, per cui i vertici

coordinano di fatto il tessuto di relazioni che coinvolgono la società, banche e lavoratori

indirizzano le scelte di governo e vigilano sull’amministrazione, in qualità di componenti

dell’organo di supervisione, riuscendo così a controbilanciare il potere esercitabile da altri

azionisti rilevanti: il sistema tedesco è dunque strutturato in modo da sottrarre il

management dall’influenza diretta della proprietà e da stimolarlo a comportarsi con

imparzialità e professionalità;

-un insider system di tipo latino, diffuso in Italia, Francia, Belgio, Spagna, Portogallo e

Grecia. Come per il modello sopra descritto, il controllo non è lasciato al mercato

borsistico, tuttavia nel modello latino, manca la visione di una partnership con banche e

lavoratori: essi sono considerati stakeholder esterni alle funzioni di governo economico e

controllo, importanti ma non decisivi per il successo dell’impresa. L’aspetto più originale

di questo sistema consiste nella notevole influenza che la proprietà (spesso altamente

concentrata all’interno di una famiglia o di un gruppo, nonché protetta mediante accordi di

voto e incroci azionari) è in grado di fare valere sul management.

L’ outsider system, detto anche market-oriented system, è diffuso presso un elevato numero

di grandi società quotate, a proprietà altamente frazionata e diffusa: è il caso delle grandi

imprese anglosassoni, nelle quali la common law offre un buon grado di protezione agli

azionisti di minoranza e ai creditori sociali, mentre la soddisfazione degli altri stakeholder

tende spesso a passare in secondo piano e dove si verificano sovente conflitti di interesse

tra gli azionisti e il management: questi presentano differenti attese e un grado diverso di

partecipazione alla vita societaria. Molti investitori non sono infatti interessati all’azienda

se non per quanto attiene alla sua redditività e alla conseguente capacità di distribuire

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dividendi. Inoltre essi sono portati a trascurare l’esercizio dei controlli per non sostenerne i

costi, spesso eccessivi rispetto ai benefici, condivisi invece da tutti gli azionisti. Questo

fenomeno è definito con l’espressione “comportamento da free rider”. Di contro, per i

manager la gestione aziendale e i relativi risultati costituiscono un fattore essenziale per la

loro riconferma ai vertici e per il mantenimento dei poteri esecutivi. L’inerzia degli

azionisti assicura al management un’ampia discrezionalità, accentuata dall’accesso diretto

alle informazioni interne, precluse invece agli investitori.

L’efficacia dell’outsider system dipende dalla possibilità che, acquistando una certa

quantità di azioni sul mercato, un soggetto possa contendere il controllo a chi lo detiene in

quel momento e assicurarsi il diritto a sostituire il management. La tutela degli azionisti è

comunque garantita dall’immediatezza con cui questi possono uscire dalla compagine

azionaria, cedendo i propri titoli8, grazie alla liquidità del mercato.

1.4.2 Sistemi monistici e dualistici

Gli ordinamenti giuridici nazionali, le prassi e i codici di best practice rispondono con

modalità differenti all’esigenza di un equilibrato soddisfacimento delle attese dei vari

interlocutori aziendali. Il diverso grado di separazione tra gli organi istituzionali e le loro

conseguenti differenti modalità di interazione consentono di individuare due distinti

modelli: il modello monistico, in cui i poteri sono conferiti a persone diverse ma

appartenenti a uno stesso organo eletto dall’assemblea e quello dualistico, nel quale due

organi distinti (eletti entrambi dall’assemblea dei soci), formalmente separati in quanto

composti da soggetti fisicamente diversi, esercitano l’uno le prerogative di governo e

l’altro quelle di controllo.

8 Come osservato in dottrina, “l’outsider system è caratterizzato dall’exit, piuttosto che dalla voice”.

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La Tabella 1.1 indica, per ciascun paese riportato, quali modelli di corporate governance

sono implementati.

Modello monistico Modello dualistico verticale

Modello dualistico orizzontale (o tradizionale)

Austria X

Belgio X X

Canada X

Danimarca X

Finlandia X X

Francia X X

Germania X

Giappone X X

Gran Bretagna X

Grecia X

Irlanda X

Italia X X X

Lussemburgo X X

Norvegia X X

Portogallo X X X

Russia X X X

Spagna X

Stati Uniti X

Svezia X

Tabella 1.1. I modelli di corporate governance (Fonte: Salvioni (2007) p 60)

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Il sistema monistico

Il sistema monistico o unitario è definito in inglese “one tier system”, per l’esistenza di un

solo livello di nomina: questa è effettuata dall’assemblea dei soci nei confronti del

Consiglio di Amministrazione. Esso è l’organo fondamentale costituito da amministratori

esecutivi e non esecutivi.

Figura 1. 2. Il sistema monistico (Fonte: Salvioni (2007) p 61)

L’aspetto peculiare del sistema monistico è che ai componenti non esecutivi del Consiglio

di Amministrazione (una parte dei quali deve possedere i requisiti di indipendenza) è

attribuito anche il potere di controllo sull’amministrazione. L’estraneità degli

amministratori non esecutivi dall’esercizio diretto della gestione consente loro

giuridicamente di operare nell’interesse degli stakeholder esterni; essi vigilano sul corretto

svolgimento delle operazioni, sulla gestione dei rischi e sull’equità di trattamento dei

differenti portatori di interessi.

Gli amministratori esecutivi svolgono le funzioni manageriali, affiancati dai dirigenti

aziendali, predispongono i progetti strategici e provvedono alla loro attuazione dopo che

sono stati discussi e approvati dall’intero Consiglio di Amministrazione, talvolta

detengono una quota importante del capitale sociale o sono di fatto nominati dalla

proprietà. Tra di essi può essere nominato il direttore generale o Chief executive officer

ASSEMBLEA DEGLI AZIONISTI ( ed eventuali altri stakeholder )

CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE

CEO

AMMINISTRATORI

NON ESECUTIVI

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26

(Ceo): in tal caso il soggetto prescelto opera come elemento di collegamento tra i vertici

istituzionali e l’organizzazione, garantendo il necessario scambio di informazioni.

Non mancano però critiche al sistema monistico, innanzitutto per il fatto che i soggetti

preposti al controllo sono membri dell’organo amministrativo, rispetto al quale si deve

realizzare l’attività di indirizzo e monitoraggio: al riguardo, è opportuno sottolineare che

gli amministratori i quali svolgono funzioni di vigilanza non possono esercitare le funzioni

manageriali e almeno alcuni amministratori non esecutivi devono rispettare, come detto

sopra, specifici requisiti di indipendenza. Sembrano perciò esistere sufficienti garanzie di

imparzialità nelle valutazioni formulate dai consiglieri non esecutivi, nonostante la loro

appartenenza al Consiglio di Amministrazione. Un secondo possibile aspetto problematico

riguarda il grado di approfondimento e la qualità delle informazioni a disposizione degli

amministratori non esecutivi; tuttavia la comunicazione dei fatti gestionali a tutto il

Consiglio di Amministrazione e in particolare ai membri che non hanno preso parte alla

gestione è una responsabilità imposta ad ogni amministratore, con una frequenza

prestabilita. Infine si potrebbero verificare situazioni nelle quali i consiglieri non esecutivi

adottano comportamenti volti a contrastare le strategie proposte da quelli esecutivi e a

monitorarne l’operato. Tale rischio può essere evitato dall’intervento di un presidente del

CdA autorevole, che ribadisca le competenze specifiche di ciascuna tipologia di

amministratori e promuova una proficua discussione nelle riunioni del Consiglio di

Amministrazione stesso.

Il sistema dualistico

Il sistema dualistico si caratterizza invece per l’esistenza di due organi separati di direzione

e sorveglianza. È possibile però, in questo caso, effettuare un’ulteriore distinzione sulla

base dei soggetti investiti del potere di nominare gli organi di amministrazione e controllo,

configurando sistemi dualistici verticali e orizzontali (in quest’ultimo caso si parla anche di

sistemi tradizionali).

Il sistema tradizionale o dualistico orizzontale è un modello di governance che prevede che

l’assemblea dei soci elegga sia il Consiglio di Amministrazione, sia il collegio sindacale e,

per l’incompatibilità delle due cariche, nessun soggetto possa far contemporaneamente

parte di entrambi gli organi. Particolarmente diffuso in Italia, questo modello trova invece

scarsa applicazione all’estero.

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Figura 1. 3. Il sistema tradizionale (Fonte: Salvioni (2007) p 63)

Nel sistema dualistico verticale, il modello di corporate governance si sviluppa su due

livelli: il primo livello è rappresentato dalla nomina, da parte dell’assemblea dei soci o

degli altri soggetti autorizzati dalla legge, del Consiglio di sorveglianza (supervisory

board); il secondo livello si individua in fase di nomina del Consiglio di gestione

(management board) da parte del Consiglio di sorveglianza.

In questo modello, l’organo di controllo, ossia il Consiglio di sorveglianza (di emanazione

assembleare) è investito di funzioni di notevole rilevanza, che negli altri modelli sono

attribuite all’assemblea degli azionisti: la nomina e la revoca del Consiglio di gestione, la

definizione dei compensi riconosciuti ai consiglieri, l’approvazione del progetto di

bilancio.

L’organo di sorveglianza, quindi, assume decisioni in relazione alle quali gli azionisti

potrebbero incontrare difficoltà ad esprimersi, soprattutto quando non intervengono

direttamente nella gestione aziendale, non sono interessati a partecipare alle assemblee

periodiche o non dispongono delle competenze necessarie per portare a termine processi

decisionali ponderati.

Anche il sistema dualistico suscita tuttavia alcune perplessità, derivanti dal fatto che il

Consiglio di sorveglianza possa esercitare un controllo non sufficientemente tempestivo

sulla gestione aziendale e sul funzionamento della struttura organizzativa, informativa e dei

sistemi di controllo interno; ciò potrebbe rallentare anche l’effettivo svolgimento delle

attività operative, nel caso in cui il Consiglio di gestione dovesse ottenere l’autorizzazione

a procedere da parte del Consiglio di sorveglianza, come frequentemente avviene nei

sistemi dualistici verticali.

ASSEMBLEA DEGLI AZIONISTI

CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE COLLEGIO SINDACALE

nomina nomina

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Figura 1. 4. Il sistema dualistico verticale

(Fonte: Salvioni (2007) p 63)

1.5 La comunicazione sulla corporate governance

Negli ultimi anni si registra una crescente sensibilità nei confronti della comunicazione

sulla corporate governance, definibile come una sintetica informazione sulle strutture e

sulle procedure di governo aziendale e considerata uno dei presupposti per l’istituzione di

efficaci rapporti con gli interlocutori aziendali, a condizione che la stessa sia sviluppata

secondo logiche di trasparenza, veridicità e chiarezza. Da una parte gli interlocutori

aziendali sono infatti, sempre più interessati non solo a conoscere e valutare la capacità

dell’impresa di generare valore, ma anche quali siano le regole di governo adottate per

garantire un’equa diffusione del valore generato, secondo logiche di contemperamento

degli interessi. Dall’altra, le aziende sono sempre più frequentemente osservate e valutate,

anche per quanto riguarda la loro capacità di implementazione di meccanismi strutturali e

procedurali in grado di contrastare logiche di governo eventualmente miranti a privilegiare

alcune classi di stakeholder, a discapito di quelle meno rappresentate e tutelate. A livello

nazionale e internazionale, le forme di comunicazione sulla corporate governance

rientrano tuttora nella sfera della comunicazione volontaria, sebbene si vada consolidando

l’impostazione secondo la quale le informazioni sulla corporate governance rappresentino

ASSEMBLEA DEGLI AZIONISTI ( ed eventuali altri stakeholder )

CONSIGLIO DI SORVEGLIANZA

CONSIGLIO DI GESTIONE

nomina

nomina

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29

un elemento fondamentale per l’efficacia aziendale. A livello internazionale, nel 2006,

l’Onu ha pubblicato la “Guidance on Good Practices in Corporate Governance

Disclosure”, nella quale sono evidenziati gli aspetti ritenuti essenziali per la realizzazione

di una comunicazione sulla corporate governance efficace, con l’intento di proporre alle

aziende una guida cui le stesse possano, su base volontaristica, ispirarsi. In questo

documento si sottolinea che la comunicazione in esame debba essere tempestiva, chiara,

concisa e precisa, adottando il principio della prevalenza della sostanza sulla forma,

focalizzata infine sulla “comunicazione non finanziaria” e più precisamente: sulla

descrizione degli obiettivi di governo e gestionali, sulla responsabilità d’impresa, sulle

strutture organizzative e di controllo, sui principali profili di rischio e sui diritti degli

azionisti. Sempre nel 2006, anche l’Unione Europea ha prodotto una serie di

raccomandazioni in materia di corporate governance, tra cui alcuni interventi rivolti alla

comunicazione: la direttiva comunitaria 2006/46/CE9, emanata nell’agosto del 2006 è

finalizzata a favorire la creazione di un contesto omogeneo a livello europeo in materia di

comunicazione sulla corporate governance, prevedendo un insieme di regole minimali cui

tutte le società sono tenute a conformarsi, anche a seguito dell’intervento dei singoli

legislatori nazionali, entro un dato intervallo temporale, corrispondente alla fine del 2008.

Con riguardo ai singoli paesi, intensa è stata, negli ultimi anni, la produzione di norme,

regolamentazioni e raccomandazioni, volte a promuovere la comunicazione sulla corporate

governance: si tratta di interventi influenzati dalle specificità strutturali, storiche e sociali

dei paesi stessi, destinati prevalentemente alle società che si rivolgono ai mercati dei

capitali, sebbene rappresentino per tutte le società validi spunti di riflessione per le realtà

che intendono confrontarsi positivamente con i propri stakeholder rilevanti. Nell’ambito

degli interventi realizzati dai singoli organismi nazionali per indirizzare la comunicazione

sulla corporate governance è possibile individuare tre distinti approcci:

� Paesi che hanno elaborato specifiche e complete raccomandazioni finalizzate a

fornire adeguati orientamenti per la predisposizione di un documento, sovente

9 Tale Direttiva non rappresenta il primo intervento da parte del Consiglio europeo in materia di comunicazione d’impresa e, nello specifico, di comunicazione sulla corporate governance. La direttiva 2003/6/CE ha per oggetto “L’abuso di informazioni privilegiate e la manipolazione del mercato”, mentre la Direttiva 2006/43/CE ha per oggetto “Revisioni legali dei conti annuali e dei conti consolidati, modifica delle direttive 78/660/CEE e 83/349/CEE e abrogazione della direttiva 84/253/CEE”.

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chiamato “Relazione sulla corporate governance” (tra questi vi sono: Italia,

Spagna, Canada);

� Paesi (come Francia, Regno Unito, Belgio, Lussemburgo, Svezia, Danimarca,

Russia e Stati Uniti) che si sono limitati a elencare le principali tematiche in

materia di corporate governance sulle quali le società dovrebbero informare gli

stakeholder, suggerendo di inserire tale informativa all’interno di documenti

economici-finanziari, tipicamente il documento annuale di bilancio, la cui

predisposizione e diffusione è regolata per legge;

� Paesi, come il Giappone, che non hanno raccomandato né la predisposizione di una

relazione indipendente sulla corporate governance, né l’inserimento di determinate

informazioni nei documenti economico-finanziari obbligatori.

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CAPITOLO 2

LA CORPORATE GOVERNANCE IN ITALIA

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Nei primi anni del nuovo millennio, il dibattito sulla corporate governance è stato

alimentato dal verificarsi di alcuni episodi che hanno spinto, ancora una volta, gli studiosi

e i rappresentanti del mondo politico ed economico a interrogarsi su quale sia il modello

migliore di governo delle società industriali e degli intermediari finanziari.

In particolare, tali episodi hanno avuto per oggetto l’ascesa e il declino del valore dei titoli

della new economy e un’ondata di scandali societari che ha coinvolto alcune grandi

imprese in numerosi paesi industrializzati, tra cui l’Italia.

Il primo avvenimento che ha colpito emotivamente ed economicamente il pubblico dei

risparmiatori è rappresentato dalla bolla speculativa legata all’ascesa e al rapido declino

delle quotazioni delle imprese della new economy. Numerosi imprenditori e venture

capitalist hanno manifestato un eccessivo ottimismo nei confronti delle potenzialità insite

nelle nuove tecnologie legate a Internet, ma non solo: gli azionisti delle società hanno

sostenuto i corsi azionari per lucrare ingenti capital gain, gli intermediari finanziari hanno

collocato sul mercato le azioni delle società a valori molto elevati, nonostante le

prospettive reddituali e finanziarie fossero in alcuni casi incerte, pur di percepire le ingenti

commissioni di collocamento, le società finanziarie hanno continuato ad attribuire prezzi di

riferimento in costante crescita ai titoli azionari di società che spesso non avevano un utile

netto. Più recentemente, l’opinione pubblica è stata scossa dal fallimento improvviso e

dagli scandali finanziari che hanno colpito alcune grandi società di vari paesi. Questi

episodi hanno contribuito a mettere in luce come il sistema dei controlli in atto non sia

stato in grado di evidenziare per tempo le pratiche illegali intraprese dal top management

di tali aziende. I reati di cui sono stati accusati gli amministratori e i manager di queste

imprese sono numerosi e comprendono, tra gli altri, il falso in bilancio, l’espropriazione

illecita di fondi aziendali, la realizzazione di operazioni con parti correlate a condizioni

diverse da quelle di mercato, l’insider trading.

Tali episodi hanno colpito l’opinione pubblica perché hanno riguardato imprese di primo

piano, alcune delle quali considerate addirittura eccellenti, e hanno causato un ingente

danno patrimoniale a numerose categorie di stakeholder (azionisti, obbligazionisti, altri

finanziatori, dipendenti…). In Italia hanno fatto scalpore soprattutto i casi Cirio e Parmalat:

nel primo caso la società Cirio non ha divulgato al pubblico le informazioni in materia di

governo societario (l’assenza di informazione pubblica e quindi “il silenzio” è di per sé un

cattivo segnale!), nel secondo caso la Parmalat ha adempiuto all’obbligo di divulgazione

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delle informazioni sulla corporate governance, ma le informazioni pubblicate si sono

rivelate in seguito false.

La conseguenza più grave di questi episodi di cattiva gestione è, oltre all’ingente danno

patrimoniale inferto ai risparmiatori che avevano comprato azioni e obbligazioni delle

società che sono fallite, la perdita di fiducia dei risparmiatori e della collettività verso gli

esponenti del mondo industriale e finanziario e verso tutti i soggetti e le autorità preposte a

vigilare sulla correttezza del comportamento delle imprese.

Per evitare che la sfiducia dei risparmiatori possa sfociare in una drastica riduzione delle

risorse finanziarie investite a vario titolo nelle imprese, le autorità nazionali e

internazionali hanno introdotto nuove norme volte ad attribuire maggiori responsabilità

civili e penali alle persone che si macchiano di reati societari.

2.1 Le principali tappe della corporate governance in Italia: la disciplina giuridica vigente

In Italia, il sistema di corporate governance è regolato oltre che dalle norme del Codice

Civile, dalla Legge 216/7410, dal D.Lgs. 58/98 (Legge Draghi o Testo Unico della

Finanza), dalla riforma del diritto societario11 e dalla Legge sul Risparmio e i relativi

Regolamenti attuativi. Accanto a queste norme legislative, esistono regole di varia natura

di tipo secondario dettate da organi di autoregolamentazione: si tratta di principi di

revisione e di comportamento degli organi interni di controllo e di codici di autodisciplina

delle società quotate. L’esistenza di tale normativa secondaria è giustificata

dall’impossibilità di regolamentare completamente i modelli di corporate governance

attraverso norme cogenti data la necessità di mantenere flessibili questi modelli.

Nell’ultimo decennio del secolo scorso si è assistito a un crescente ricorso

all’autoregolamentazione attuata attraverso i codici di comportamento elaborati da

commissioni costituite nell’ambito della borsa, dalle principali società quotate, dagli

investitori istituzionali o dalle associazioni degli industriali. L’obiettivo di questi codici è

quello di delineare le linee guida di un modello di organizzazione societario che sia in

10 La Legge 216/74 integra il disposto del Codice Civile in materia di bilancio. 11 Il riferimento è al D.Lgs. 17 gennaio 2003 n° 6, con il quale è stata attuata una profonda riforma del diritto delle società.

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grado di gestire adeguatamente il controllo dei rischi d’impresa e i potenziali conflitti di

interesse tra management e proprietà.

In diversi paesi, oltre all’Italia, sono stati emanati codici di comportamento che sono

espressamente indirizzati a disciplinare la corporate governance delle società quotate in

borsa. Tutti i codici di comportamento e le raccomandazioni fanno riferimento agli stessi

principi fondamentali di corporate governance, indipendentemente dalle caratteristiche dei

diversi sistemi e dalla loro evoluzione. I temi trattati dai codici sono:

1. Struttura e responsabilità del board

2. Remunerazione degli amministratori

3. Diritti degli azionisti e uguale trattamento degli stessi

4. Disclosure e trasparenza

5. Sistemi di controllo interno e gestione dei rischi.

Per quanto riguarda la regolamentazione della corporate governance italiana, già nel 1996

si è elaborato un progetto in materia per definire ruoli e responsabilità dei soggetti

interessati a vario titolo al governo societario e in particolare adeguare i controlli interni

allo schema indicato dal rapporto COSO12, che definisce per l’appunto cosa si intenda per

sistema di controllo interno.

Sono seguiti poi nel 1997 le disposizioni della Consob che contengono raccomandazioni

agli organi di controllo, in particolare al Consiglio di Amministrazione e al Collegio

sindacale. Al Consiglio di Amministrazione sono affidati compiti di vigilanza

sull’andamento generale della gestione, dando rilievo all’esercizio delle deleghe assegnate.

Il sistema di corporate governance italiano è stato successivamente riformato con l’entrata

in vigore del D.Lgs. 58/199813 ( TUF ) e dei regolamenti Consob di attuazione con i quali

per la prima volta il sistema di controllo interno assume uno specifico ruolo nell’ambito

della struttura organizzativa della società. Il TUF focalizza l’attività di sorveglianza del

Collegio sindacale sulla gestione della società, attraverso anche l’attribuzione in via

esclusiva a revisori esterni dei compiti di verifica in materia contabile: le modifiche

12 Il rapporto COSO (Committee of Sponsoring Organizations of the Treadway Commission, USA, 1992) definisce per la prima volta che cosa si intenda per sistema di controllo interno. Esso è identificato come un processo, svolto dal Consiglio di Amministrazione, dai dirigenti e da altri membri della struttura aziendale, che si prefigge di fornire una ragionevole certezza in merito al raggiungimento dei seguenti obiettivi: efficacia ed efficienza delle attività operative; affidabilità delle informazioni e del reporting economico e finanziario; conformità a leggi e regolamenti in vigore. 13 D. lgs. 58/1998 è la c.d. “Legge Draghi”.

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apportate consentono dunque, al Collegio sindacale di far uso di poteri particolarmente

penetranti su un ambito di intervento ben identificato.

Nel 1999 è stato emanato il primo codice di comportamento italiano in materia di

corporate governance: il “Rapporto sulla corporate governance delle società quotate e

codice di autodisciplina”, meglio conosciuto come “Codice Preda”14, in quanto predisposto

da un comitato coordinato da Stefano Preda (allora Presidente di Borsa Italiana S.p.A.) e

da rappresentanti di industrie, banche, assicurazioni e associazioni degli emittenti e degli

investitori. I destinatari sono le società quotate nei mercati regolamentati e le finalità

dichiarate sono:

-rassicurare gli investitori internazionali sull’esistenza, nelle società quotate, di un modello

organizzativo che preveda adeguate ripartizioni di responsabilità e poteri e un corretto

equilibrio fra gestione e controllo;

-fornire uno strumento in grado di rendere più conveniente alle società quotate italiane

l’accesso al mercato dei capitali, nonché un modello di organizzazione societaria adeguato

a gestire in modo corretto i rischi d’impresa e i potenziali conflitti di interesse.

Oggetto del Codice di Autodisciplina sono sia elementi connessi all’organizzazione, sia

elementi connessi all’ambito del controllo. Tra i primi vi sono:

-la composizione del CdA (amministratori esecutivi, non esecutivi e indipendenti);

-la nomina, la responsabilità e la remunerazione degli Amministratori;

-i diritti degli azionisti e i rapporti con i soci;

-l’istituzione, da parte del CdA, di comitati di varia natura (comitato esecutivo, comitato

per il controllo interno, comitato per la remunerazione, comitato per le proposte di

nomina);

-i rapporti con gli investitori istituzionali e con gli altri soci.

Tra i secondi, relativamente alla sfera del controllo, assumono rilevanza:

-il sistema di controllo interno;

-la gestione dei rischi (Risk Management).

14 Il Codice Preda si inserisce nell’ambito del processo europeo di autoregolamentazione societaria che ha avuto inizio nel 1992 con la pubblicazione nel Regno Unito del Cadbury Report, seguito dal Rapporto Viénot in Francia nel 1995, dal Rapporto Peters in Olanda nel 1997, dal Rapporto Cardon in Belgio e dal Rapporto Olivencia in Spagna nel 1998.

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E’ il Codice di Autodisciplina che introduce la definizione di controllo interno15 e ne

attribuisce la responsabilità al CdA, introducendo il concetto di individuazione e gestione

dei rischi aziendali16.

Nel 2001, il D.Lgs. n 231/2001 ha introdotto nel nostro ordinamento una forma di

responsabilità a carico di società e altri enti associativi con riferimento ad alcuni reati

contro la Pubblica Amministrazione (per esempio, corruzione e truffa ai danni dello Stato)

e ai reati societari (ad esempio falso in bilancio e false comunicazioni sociali).

Le linee guida elaborate da Confindustria, come previsto dal suddetto decreto, nell’indicare

le caratteristiche essenziali del modello di organizzazione e gestione, fanno riferimento al

sistema di gestione dei rischi e alla progettazione di un sistema di controllo (c.d.

protocolli). I modelli organizzativi devono essere fondati su:

o la preventiva identificazione dei processi a rischio,

o l’individuazione dei rischi potenziali per processo,

o l’analisi del sistema di controllo preventivo esistente,

o la valutazione se i rischi residui siano o meno accettabili,

o l’adeguamento del controllo qualora i rischi residui non siano accettabili.

In data 8 ottobre 2001 è stato approvato il Regolamento Europeo (CE n. 2157/2001) sullo

statuto della Società Europea, entrato in vigore tre anni dopo (8 ottobre 2004), che prevede

per le società europee la scelta tra l’adozione di un sistema amministrativo dualistico di

derivazione tedesca o monistico di tradizione angloamericana.

Nel corso del 2002, il Comitato per la corporate governance ha provveduto a rivisitare il

Codice di autodisciplina, tenuto conto dell’esperienza maturata dalle società quotate nel

corso dei due anni di applicazione del Codice medesimo e degli sviluppi internazionali in

tema di best practice aziendale. Nel febbraio del 2003 sono state aggiornate le “Linee

guida per la redazione della Relazione in materia di corporate governance”.

Un ulteriore intervento significativo nel nostro ordinamento è rappresentato dalla riforma

del diritto societario delineata dalla Commissione Vietti che ha innovato con il D. Lgs. n.

6/03 il modello di governance delle Società per azioni, anche quelle non quotate,

15 “Il sistema di controllo interno è l’insieme dei processi diretti a monitorare l’efficienza delle operazioni aziendali, l’affidabilità dell’informazione finanziaria, il rispetto di leggi e regolamenti, la salvaguardia dei beni aziendali”. 16 “Il CdA ha la responsabilità del sistema di controllo interno, del quale fissa le linee di indirizzo e verifica periodicamente l’adeguatezza e l’effettivo funzionamento, assicurandosi che i principali rischi aziendali siano identificati e gestiti in modo adeguato”.

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prevedendo che le imprese possano scegliere fra tre modelli alternativi di organizzazione

dei processi di amministrazione e controllo in concorrenza tra loro:

1. Sistema tradizionale

2. Sistema dualistico

3. Sistema monistico

La struttura del sistema tradizionale è quella già prevista dal Codice Civile, con

l’Assemblea che affida la responsabilità della gestione a un CdA o a un amministratore

unico. Nel primo caso l’organo può delegare alcune attribuzioni a un comitato esecutivo.

Il controllo sull’amministrazione è distinto da quello contabile: il primo è attribuito al

Collegio sindacale, mentre il secondo è esercitato da una società di revisione (o da un

revisore, nel caso si tratti di una SpA che non ricorre al mercato dei capitali).

Nel sistema dualistico, di derivazione tedesca, l’Assemblea nomina il Consiglio di

Sorveglianza che approva i bilanci ed esercita le funzioni del Collegio sindacale; a questo

organo spetta poi la nomina del Consiglio di Gestione che ha la responsabilità della

gestione. Il controllo contabile, come nel sistema tradizionale, è attribuito a un revisore o

società di revisione a seconda del caso. Il sistema dualistico rappresenta quindi un modello

di amministrazione e controllo più evoluto di quello tradizionale, nel quale il controllo

sulla gestione è potenziato dalle attribuzioni che sono conferite al Consiglio di

Sorveglianza.

Il sistema monistico, di derivazione anglosassone, prevede che l’Assemblea nomini il CdA,

il quale designerà al suo interno un Comitato per il controllo sulla Gestione i cui membri

non devono far parte del comitato esecutivo, né essere titolari di deleghe. A questo

comitato di amministratori è affidato il compito di controllare l’attività di gestione, mentre

il controllo contabile è, come negli altri sistemi, affidato a un revisore o società di

revisione.

Il 2004 è stato caratterizzato, a livello societario, dall’entrata in vigore della riforma

organica della disciplina delle società di capitali e società cooperative, avviata in forza

della Legge delega del 3 ottobre 2001, n. 366 e realizzata con i D.Lgs. 6/2003 e 37/2004.

La suddetta riforma, se da un lato amplia l’autonomia statutaria nella scelta del modello di

governo e consente una maggiore flessibilità nell’esecuzione degli adempimenti societari,

dall’altro puntualizza con rigore e sviluppa a livello codicistico tematiche “sensibili” –

quali, ad esempio, la tutela delle minoranze azionarie, la trasparenza delle deliberazioni

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consiliari, la disclosure degli interessi degli Amministratori, le operazioni con parti

correlate, i requisiti di indipendenza dei consiglieri, le cause di ineleggibilità e decadenza

dei sindaci.

Alla fine del 2005, è stata approvata la Legge 28 dicembre 2005, n.262 (cosiddetta “Legge

sul risparmio”), recante disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati

finanziari. Più precisamente, la Legge sul risparmio, nell’apportare modifiche di rilievo al

Codice Civile, al Testo Unico della Finanza e al Testo Unico Bancario, ha inciso

profondamente sulla struttura della corporate governance delle società quotate italiane e ha

altresì attribuito dignità di fonte normativa primaria ai codici di autodisciplina. Tale legge

ha previsto l’obbligo annuale per le società quotate di divulgare informazioni sull’adesione

ai codici e sull’osservanza degli impegni a ciò conseguenti, con la necessità di motivare un

loro eventuale inadempimento (in base al principio del comply or explain), secondo termini

e modalità da definire in base ad un Regolamento rimesso alle competenze della Consob, è

intervenuta sulle modalità di elezione e composizione degli organi di governo aziendale,

sull’istituzione di un dirigente aziendale preposto alla redazione dei documenti contabili

societari, sulla disciplina in materia di revisione dei conti e sull’informativa societaria e le

sanzioni penali e amministrative connesse alle false comunicazioni sociali17.

Il 2006 è stato segnato, a livello societario, da significative novità in campo normativo e

regolamentare, collegate in gran parte all’entrata in vigore della suddetta Legge 28

dicembre 2005 n. 262. Il 15 marzo 2006 è stato pubblicato il nuovo Codice di

autodisciplina delle società quotate che sostituisce il Codice redatto nel 1999 e rivisitato

nel luglio 2002. Il Comitato per la corporate governance istituito presso la Borsa Italiana

ha infatti sottoposto a una profonda revisione i principi di governo societario applicabili

alle società quotate italiane, alla luce dell’evoluzione della best practice e tenuto conto del

mutato quadro normativo a livello nazionale, comunitario e internazionale: la capacità di

darsi regole di funzionamento efficienti ed efficaci rappresenta un elemento indispensabile

per rafforzare la percezione di affidabilità delle imprese e ciò non solo nel contesto

nazionale, ma ancor di più in quello internazionale, nel quale la concorrenza si gioca fra

17 Il reato di “false comunicazioni sociali” consiste nella diffusione di bilanci, relazioni e altri documenti previsti dalla legge i cui contenuti siano stati manipolati al fine di ingannare l’azionariato e gli altri stakeholder; oltre a questo, sono stati introdotti anche il “reato di attentato al risparmio collettivo” nei casi in cui le società quotate dovessero essere responsabili di ingenti riduzionidel valore del titolo azionario e il “reato di mancata comunicazione dei conflitti di interesse” da parte dei componenti degli organi di Amministrazione a danno della società o di terzi.

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sistemi di regole vigenti a livello domestico, alla luce di benchmark costituiti da norme e

best practice diffuse nei Paesi più sviluppati sotto il profilo economico e finanziario.

Gli emittenti sono stati invitati ad applicare il Codice entro la fine dell’esercizio 2006,

informandone il mercato con la relazione sul governo societario da pubblicarsi nel corso

del 2007.

Sempre nel corso del 2006, è stato poi emanato il D.Lgs. 29 dicembre 2006 n. 303 che ha

introdotto l’obbligo per le società quotate di diffondere annualmente, nei termini e con le

modalità stabilite dalla Consob, informazioni sull’adesione a codici di comportamento

promossi da società di gestione di mercati regolamentati o da associazioni di categoria

degli operatori e sull’osservanza degli impegni a ciò conseguenti, motivando le ragioni

dell’eventuale inadempimento.

Si tratta in entrambi i casi di interventi legislativi (alle cui disposizioni occorreva

conformare gli statuti societari entro il 30 giugno 2007) che hanno modificato in misura

significativa le norme riguardanti la corporate governance delle società quotate.

In tale ambito si inseriscono altresì i numerosi regolamenti attuativi emessi dalla Consob -

in attuazione dei suddetti provvedimenti legislativi – su tematiche societarie rilevanti, quali

ad es. la nomina dei componenti degli organi di amministrazione e controllo, i limiti al

cumulo degli incarichi dei sindaci, la disciplina della revisione contabile, la figura del

dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili societari e le modalità di

informazione sull’adesione a codici di comportamento.

Nel corso del 2006 è altresì proseguito il processo di recepimento nel nostro ordinamento

delle disposizioni contenute nella Direttiva 2003/6/CE in materia di abusi di mercato, in

particolare con l’entrata in vigore, dal 1° aprile 2006, delle disposizioni regolamentari

afferenti l’istituzione e la tenuta dei registri delle persone che hanno accesso a

informazioni privilegiate (cd. “Registro degli Insiders”, cfr. artt. 152-bis e seguenti,

delibera Consob 11971/99 e successive modifiche, cd. “Regolamento Emittenti”) e delle

nuove previsioni in materia di operazioni su titoli dell’emittente effettuate da soggetti

rilevanti e da persone strettamente legate ad esse (cd. “Internal dealing”, cfr. artt. 152-

sexies e seguenti del “Regolamento Emittenti”).

Il 2 febbraio 2007 la Consob ha messo a disposizione del pubblico un documento di

consultazione avente ad oggetto le “Informazioni sull’adesione a codici di comportamento”

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cui fa seguito l’adozione della disciplina attuativa del disposto degli artt. 124bis e 124ter

del Testo Unico della Finanza relativa all’informativa da diffondere al mercato.

2.2 L’applicazione attuale della corporate governance in Italia

Il Codice di autodisciplina rappresenta per il nostro Paese un passo importante

nell’avvicinamento delle regole di corporate governance italiane alle best practice

internazionali; esso costituisce un modello a cui ispirarsi nella definizione dell’assetto di

governance delle società e offre uno schema di riferimento per valutare il rispetto delle

società di quanto in esso raccomandato.

Nella “Guida alla compilazione della relazione sulla corporate governance”, l’Assonime

ha evidenziato infatti che “la comparabilità delle strutture di governo societario è un

elemento necessario per valorizzare i comportamenti virtuosi delle società. Gli investitori,

anche internazionali, devono poter facilmente identificare le principali caratteristiche delle

società e anche le legittime motivazioni di eventuali non allineamenti alla best practice”.

Pur con l’obiettivo di allineare, in tema di governance, l’Italia ai Paesi più evoluti, nella

stesura del Codice sono state considerate le peculiarità della disciplina societaria e del

sistema economico italiani, affinché la competitività e l’immagine delle società italiane

possano essere apprezzate in un contesto finanziario globale.

Nel marzo del 2005 Borsa Italiana – società di gestione di mercati regolamentati – ha

promosso la costituzione di un Comitato per la corporate governance, fortemente

rappresentativo dell’imprenditoria italiana e dei partecipanti ai mercati, al fine di

rielaborare i principi di buona governance, già codificati nel precedente “Codice di

Autodisciplina delle Società Quotate” pubblicato nel 1999 e rivisitato nel 2002, alla luce

delle linee evolutive della best practice e tenendo conto del mutato quadro normativo a

livello nazionale, comunitario e internazionale.

L’attività si è conclusa nel marzo del 2006 con la pubblicazione sul sito internet di Borsa

Italiana del nuovo Codice di autodisciplina (detto, il “Codice”). Borsa Italiana promuove

l’adesione a tale Codice da parte delle società quotate nei mercati di strumenti finanziari da

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essa organizzati e gestiti, prevedendo nelle Istruzioni al Regolamento dei mercati stessi

specifici obblighi di reporting basati sul principio c.d. “comply or explain”.

2.2.1 I contenuti del Codice di Autodisciplina promosso da Borsa Italiana

Ogni articolo del Codice è suddiviso in tre distinte sezioni: “principi”, di carattere

generale; “criteri applicativi”, contenenti indicazioni di dettaglio sull’attuazione dei

principi; “commenti”, diretti a chiarire la portata di principi e criteri, anche con riferimento

a opportuni esempi. L’articolo è preceduto da un “principio introduttivo” che contiene

alcuni chiarimenti preliminari in materia di redazione della relazione annuale sulla

corporate governance.

Di seguito si descrivono sinteticamente e senza pretesa di esaustività le tematiche

affrontate dalle singole disposizioni del Codice di autodisciplina.

L’ articolo 1, dopo avere identificato nello shareholders’ value l’obiettivo prioritario

dell’azione degli amministratori delle società quotate e riaffermata la centralità del

Consiglio di Amministrazione nel sistema di governo societario degli emittenti, detta

alcune raccomandazioni sul ruolo di tale organo, in particolare identificando quegli ambiti

valutativi/decisionali che dovrebbero restare di sua competenza e non essere delegati a

singoli consiglieri o a comitati interni. In proposito, si segnala, oltre ad alcune materie già

riservate dalla legge alla competenza del Consiglio, l’opportunità che le operazioni di

particolare rilievo strategico, economico o finanziario, nonché quelle con parti correlate,

poste in essere dall’emittente e dalle sue controllate siano preventivamente approvate dal

Consiglio di Amministrazione dell’emittente stesso. Sono inoltre previste raccomandazioni

in tema di cumulo degli incarichi degli amministratori e di auto-valutazione periodica della

composizione e del funzionamento dell’organo di amministrazione.

Gli articoli 2 e 3 affrontano il tema della composizione dei Consigli di Amministrazione

degli emittenti, individuando definizione e ruoli delle 3 differenti tipologie di

amministratori: esecutivi, non esecutivi e indipendenti. In particolare, si segnala che

l’articolo 3 contiene un’articolata enunciazione dei criteri e delle modalità per la corretta

identificazione degli amministratori indipendenti; l’articolo 2, dopo aver enunciato il

principio per il quale “è opportuno evitare la concentrazione di cariche sociali in una sola

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persona”, detta specifiche raccomandazioni in relazione all’ipotesi di concentrazione della

carica di Presidente del Consiglio di Amministrazione e di Amministratore delegato (Chief

executive officer, Ceo). In tal caso -come pure nell’ipotesi in cui la carica di presidente sia

ricoperta dalla persona che controlla l’emittente- è suggerita la nomina, tra gli

amministratori indipendenti, di un Lead independent director. L’articolo 3 prevede, infine,

che gli amministratori indipendenti si riuniscano almeno una volta all’anno in assenza

degli altri amministratori.

L’ articolo 4 sviluppa la materia del trattamento delle informazioni societarie, richiedendo

agli amministratori della società emittente di adottare e rispettare una specifica procedura

per la gestione interna e la comunicazione all’esterno di documenti e informazioni.

L’ articolo 5 contiene indicazioni di ordine generale in merito all’istituzione e al

funzionamento (composizione, poteri, modalità di svolgimento dell’incarico) dei comitati

consultivi costituiti in seno ai Consigli di Amministrazione degli emittenti.

L’ articolo 6, affermato il principio della necessaria trasparenza della procedura di nomina

degli amministratori, raccomanda che le liste dei candidati, complete delle necessarie

informazioni, siano messe tempestivamente a disposizione del mercato. E’ inoltre

auspicata l’istituzione di un comitato per le nomine, composto, in maggioranza, da

amministratori indipendenti, del quale vengono indicati i possibili compiti.

L’ articolo 7 definisce la struttura e le finalità della remunerazione degli amministratori,

distinguendo tra quelli esecutivi e non esecutivi, e specifica le funzioni del comitato per la

remunerazione.

L’ articolo 8, dopo avere enunciato la nozione di “sistema di controllo interno”, in linea

con gli sviluppi della best practice internazionale, definisce analiticamente e

organicamente ruoli e rapporti tra i diversi soggetti/organi coinvolti nella definizione,

monitoraggio e aggiornamento del sistema stesso. In particolare, al Consiglio di

Amministrazione è attribuito un ruolo di indirizzo e di valutazione periodica circa

l’adeguatezza del sistema di controllo interno; all’Amministratore delegato un ruolo di

progettazione e di predisposizione di tale sistema; al comitato per il controllo interno –

composto da amministratori non esecutivi, in maggioranza indipendenti, di cui almeno uno

esperto in materia contabile e finanziaria – viene riconosciuta una funzione di

monitoraggio e di generale supporto alle valutazioni del Consiglio. Al preposto al controllo

interno – di norma coincidente con il responsabile dell’internal audit – e al Collegio

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sindacale, in stretto coordinamento tra di loro e con il comitato per il controllo interno, è

demandato il compito di verificare che il sistema di controllo interno sia sempre adeguato,

operativo e funzionante.

L’ articolo 9 detta raccomandazioni in ordine alle operazioni nelle quali un amministratore

sia portatore di un interesse, nonché a quelle con parti correlate, esemplificando le cautele

che il Consiglio di Amministrazione dovrebbe predisporre al fine di garantire che tali

operazioni siano approvate ed eseguite secondo criteri di correttezza sostanziale e

procedurale.

L’ articolo 10 riguarda le garanzie di indipendenza dei sindaci e definisce alcune misure

volte a garantire un efficiente ed efficace svolgimento del loro ruolo.

L’ articolo 11, dedicato ai rapporti tra organo gestionale e azionisti, promuove iniziative

volte ad agevolare la conoscenza da parte di questi ultimi delle informazioni societarie e

favorirne la partecipazione alle assemblee e l’esercizio dei diritti sociali. A tali fini, sono

tra l’altro raccomandate agli emittenti l’istituzione di un’apposita sezione nell’ambito del

proprio sito internet, la nomina di un investor relator e l’approvazione di un regolamento

assembleare.

Infine, l’articolo 12 invita le società che adottano il sistema “monistico” o quello

“dualistico” ad applicare le raccomandazioni del Codice adattandole al sistema prescelto e

fornendo ampia disclosure sugli adattamenti operati e sulle motivazioni della scelta.

2.2.2 I criteri di redazione della relazione sull’adesione al Codice

L’articolo 89-bis, comma primo, del Regolamento Emittenti –entrato in vigore il 1°

gennaio 2008 – stabilisce che “Le società con azioni quotate pubblicano annualmente una

relazione sull’adesione ai codici di comportamento e sull’osservanza degli impegni a ciò

conseguenti. La relazione è redatta secondo i criteri stabiliti dal promotore del codice di

comportamento e contiene informazioni specifiche:

a) sull’adesione a ciascuna prescrizione del codice di comportamento;

b) sulle motivazioni dell’eventuale inosservanza delle prescrizioni del codice di

comportamento;

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c) sulle eventuali condotte tenute in luogo di quelle prescritte nel codice di

comportamento”.

Borsa Italiana evidenzia, in proposito, che lo stesso Codice da essa promosso contiene

indicazioni sulle modalità di redazione della relazione prevista dalla citata disposizione

regolamentare. In particolare, il “principio introduttivo” del Codice ribadisce che

l’adesione al Codice di Autodisciplina stesso da parte delle società quotate è volontaria: si

basa sul principio del “comply or explain”, per cui le società che non abbiano applicato le

raccomandazioni o le abbiano adottate solo in parte sono tenute a giustificare tale

decisione. Il motivo dell’adozione di questo principio consiste nel fatto che la

comunicazione delle regole di corporate governance è necessaria al fine di aumentare la

trasparenza sui meccanismi di governo e controllo aziendali e l’accountability degli

amministratori e degli organi di controllo all’interno della società nei confronti degli

stakeholder.

Lo stesso “principio introduttivo” in seguito prevede che le società che aderiscono al

Codice, in tutto o in parte, ne danno annualmente informazione al mercato, nei termini e

con le modalità stabilite dalle disposizioni di legge e di regolamento applicabili, precisando

quali raccomandazioni del Codice siano state effettivamente applicate dall’emittente e con

quali modalità. Infine chiarisce che:

a) l’obbligo informativo è riferito ai principi e ai criteri applicativi contenuti in ciascun

articolo del Codice e non ai relativi commenti;

b) con riferimento ai principi e ai criteri applicativi che contengono raccomandazioni

rivolte agli emittenti o ai loro amministratori o sindaci o azionisti ovvero ad altri organi o

funzioni aziendali, ogni società fornisce informazioni accurate e di agevole comprensione,

se pur concise, sui comportamenti attraverso i quali le raccomandazioni sono state

concretamente applicate nel periodo cui si riferisce la relazione annuale;

c) qualora l’emittente non abbia fatto proprie, in tutto o in parte, una o più

raccomandazioni, fornisce adeguate informazioni in merito ai motivi della mancata o

parziale applicazione;

d) nel caso in cui i principi e i criteri applicativi contemplino comportamenti opzionali, è

richiesta una descrizione dei comportamenti osservati, non essendo necessario fornire

motivazioni in merito alle scelte adottate;

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e) per quanto riguarda i principi e i criteri applicativi aventi contenuto definitorio, in

mancanza di diverse indicazioni dell’emittente, si presume che lo stesso vi si sia attenuto.

Tali criteri di redazione sono altresì richiamati dalla Sezione IA.2.6 delle Istruzioni che

disciplina gli obblighi di informativa sulla struttura di corporate governance applicabili

agli emittenti quotati su mercati MTA e MTAX.

2.3 La comunicazione sulla corporate governance in Italia

Fino alla metà degli anni ’90, il sistema italiano non si è particolarmente interessato al

tema della corporate governance in generale e alla comunicazione sulla corporate

governance in particolare: la presenza dominante di aziende familiari, l’ingente peso

statale nel capitale delle principali realtà industriali, il rilevante ruolo del sistema bancario

sono fattori che non hanno stimolato, anzi talvolta frenato, lo sviluppo di un’adeguata

attenzione ai sistemi di corporate governance e alla connessa comunicazione.

Sul finire degli anni novanta si è assistito all’avvio di un consistente processo, tuttora in

corso, di ridefinizione del sistema italiano di corporate governance, volto a consentire una

maggiore flessibilità strutturale e a migliorare le attività di amministrazione, controllo e

comunicazione di pertinenza dei vertici aziendali.

Attualmente l’Italia si colloca, nello scenario internazionale, tra i paesi più attivi nella

diffusione di specifiche raccomandazioni in materia di comunicazione sulla corporate

governance, che costituiscono standard ed esempi di best practice dai quali le imprese che

intendono diffondere una comunicazione efficace e trasparente possono ottenere validi

elementi di riferimento. Un’adeguata informazione sulla corporate governance in un

mercato finanziario ormai globalizzato e sempre più competitivo è valutata positivamente

dagli investitori. L’adesione al codice, pur non costituendo un obbligo18, impone di fatto

alle aziende di rispettare gli impegni assunti per non incorrere in sanzioni di immagine e a

seguito della “Legge sul Risparmio” anche sanzioni previste dal TUF e applicate

dall’Autorità di Vigilanza19.

18 L’obbligo di rispettare alcune raccomandazioni del Codice è stato però introdotto da Borsa Italiana per le aziende del segmento Star e del Nuovo Mercato. 19 L’articolo 192-bis del TUF afferma che “Salvo che il fatto costituisca reato, gli amministratori, i componenti degli organi di controllo e i direttori generali di società quotate nei mercati regolamentati i quali

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L’adottata impostazione volontaristica è determinata dall’ormai consolidata convinzione

che debba essere il mercato a premiare o sanzionare le società, anche sulla base dell’assetto

di governo societario da queste sviluppato. Tale approccio fortemente orientato al mercato

può efficacemente funzionare solo a condizione che gli operatori del mercato siano in

possesso di strumenti valutativi e abbiano a disposizione le informazioni necessarie per

potere effettivamente esprimere un giudizio sui sistemi di corporate governance delle

singole aziende. In tal senso, il Codice di autodisciplina non si rivolge esclusivamente alle

aziende20 quale “linea guida” per lo sviluppo di un sistema di corporate governance, ma è

destinato anche agli operatori del mercato per la migliore focalizzazione degli elementi

conoscitivi rilevanti e l’apprezzamento del grado di trasparenza effettiva sui sistemi di

corporate governance. Una reticenza nella disclosure può essere interpretata dagli

investitori e dalle autorità di vigilanza in modo negativo, come sintomatica di ulteriori

comportamenti scorretti da parte dell’azienda.

Le Istruzioni al regolamento di Borsa Italiana S.p.a. prevedono che la relazione di

corporate governance debba essere redatta e diffusa secondo le indicazioni contenute nel

Codice di autodisciplina e in conformità alle disposizioni di legge e regolamentative.

L’importanza della Relazione sulla corporate governance trova riscontro in altri interventi,

attuati da associazioni e unità di ricerca che si sono affiancate a Borsa Italiana rimarcando

e ampliando le linee guida di comunicazione da questa previste.

Nel marzo 2002 Borsa Italiana S.p.a. ha predisposto le “Linee guida per la redazione della

relazione annuale in materia di corporate governance”, successivamente rivisitate nel

2003; nel febbraio 2004 Assonime ed Emittenti Titoli S.p.a. hanno redatto la “Guida alla

compilazione della Relazione sulla corporate governance”, che si basa sulle Linee guida di

Borsa Italiana S.p.a. e sviluppa ulteriori e dettagliati suggerimenti sulla struttura, sui

contenuti e sulle modalità di veicolazione della relazione.

Proprio dall’analisi delle Relazioni sulla corporate governance delle società quotate

italiane relativamente agli anni dal 2004 fino al 2007 è stato elaborato il dataset di questo omettono le comunicazioni prescritte dall’art 124-bis ovvero, nelle stesse o in altre comunicazioni rivolte al pubblico, divulgano o lasciano divulgare false informazioni relativamente all’adesione delle stesse società a codici di comportamento redatti da società di gestione di mercati regolamentati o da associazioni di categoria degli operatori, ovvero dall’applicazione dei medesimi, sono puniti con la sanzione amministrativa pecuniaria. Il provvedimento sanzionatorio è pubblicato, a spese degli stessi, su almeno due quotidiani, di cui uno economico, aventi diffusione nazionale ”. 20 Dalle indicazioni del Codice di autodisciplina e dalle Istruzioni al regolamento di Borsa Italiana S.p.a., la comunicazione sulla corporate governance si configura quale informativa volontaria per tutte le aziende che non si rivolgono al mercato dei capitali e raccomandata per tutte le società quotate.

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lavoro di tesi, per quanto riguarda il rispetto dei principi del Codice stesso e in particolare

la configurazione del CdA. Dall’analisi delle “Relazioni sulla corporate governance”

emerge che il grado di adesione al Codice di Autodisciplina da parte delle società suddette

risulta progressivamente più elevato.

Tuttavia è necessario considerare che un’adesione “formale” di per sé non garantisce

comportamenti virtuosi di governance. I principi di “buona governance” devono infatti

essere radicati nel sistema dei valori dell’azienda in quanto fatti propri dal soggetto

economico e adeguatamente tradotti in decisioni e azioni.

Dai dati aggregati delle Relazioni non è possibile risalire alla “adesione sostanziale” ai

principi del codice delle singole società; è però possibile verificare se vi sia un’adesione

effettiva ad alcune delle singole raccomandazioni, con riferimento, ad esempio, alla

presenza di amministratori indipendenti, all’istituzione di comitati in seno al Consiglio di

Amministrazione, alla presenza di preposti al controllo interno e così via.

I risultati della ricerca empirica relativamente agli aspetti sopra evidenziati sono presentati

nei capitoli seguenti. E’ fin d’ora importante precisare però che, a prescindere

dall’esistenza di eventuali sanzioni previste dalla legge, la scelta di comunicare l’avvenuta

adesione al Codice di autodisciplina senza dare concretamente seguito alle singole

raccomandazioni non contribuisce ad aumentare la trasparenza e l’accountability. Tale tipo

di comunicazione, al contrario, può risultare addirittura controproducente21.

21 L’Assonime suggerisce alle società quotate di comunicare “esplicitamente che non hanno ritenuto possibile o conveniente attuare talune disposizioni del Codice, perché destinate a trovare applicazione nel tempo.In questo caso è opportuno indicare entro quando gli emittenti intendono dare attuazione a tali disposizioni”.

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CAPITOLO 3

UNA RASSEGNA DELLA LETTERATURA

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Esiste una vasta ed eterogenea letteratura che studia la corporate governance, sia nella

prospettiva giuridica, sia in quella economica.

Questo capitolo propone una rassegna di tale letteratura organizzata intorno

all’individuazione di quattro ambiti di ricerca ricorrenti in letteratura, che focalizzano

altrettanti aspetti chiave in materia di corporate governance.

3.1 La proprietà societaria

Numerosi contributi affrontano il tema dell’assetto proprietario delle società

concentrandosi (sia dal puto di vista teorico sia da quello empirico) sulle relazioni tra

proprietà societaria (uno degli elementi di governo societario) e l’efficienza tecnica, i

risultati aziendali e il valore d’impresa.

3.1.1 Struttura proprietaria e valore societario

Laeven e Levine (2006) analizzano la relazione tra struttura proprietaria (ownership) e

valore societario. Raccolgono in particolare dati riguardanti i diritti ai flussi di cassa

societari e i diritti di voto22 di 1657 imprese di 13 Stati dell’Europa Continentale e

Settentrionale23, nel periodo 1996-1999.

Il 34% delle imprese del campione presenta più di un azionista che detiene più del 10% dei

diritti di voto24, confermando l’esistenza di strutture proprietarie complesse, ossia imprese

che presentano blockholders multipli (strutture proprietarie che coinvolgono due o più

grandi azionisti, nessuno dei quali detiene più del 50% dei diritti di voto), che non possono

quindi essere classificate come strutture proprietarie diffuse o come un unico controllante.

22 I “diritti ai flussi di cassa” dell’impresa (cash flow rights) rappresentano la proprietà societaria, il controllo azionario è misurato invece dalla percentuale di diritti di voto controllati (voting rights). 23 I 13 Stati considerati sono: Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Norvegia, Portogallo, Regno Unito, Spagna, Svezia, Svizzera. 24 Si tratta di un risultato non isolato: Faccio e Lang (2002), che non restringono la loro analisi alle sole società quotate, trovano che il 39% del loro campione costituito da 5232 società presenta almeno 2 grandi azionisti; La Porta et Al. (1999), esaminando 600 delle maggiori imprese quotate di 27 Paesi, trovano che un quarto delle società del campione hanno più di un grande azionista.

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Tale evidenza mette in discussone la validità del modello dicotomico che generalmente gli

studiosi prendono in considerazione trattando di concentrazione proprietaria, distinguendo

cioè esclusivamente tra strutture proprietarie in cui il capitale azionario è detenuto al 100%

da piccoli azionisti e strutture in cui vi è un unico grande azionista di controllo25 e molti

piccoli azionisti.

Per ogni società considerata è indicata la tipologia d’appartenenza dei due maggiori

azionisti per quota di capitale azionario detenuta (famiglia, Stato, società ad azionariato

diffuso, finanziaria ad azionariato diffuso, o altro tipo) riscontrando che le famiglie

rappresentano il tipo più diffuso26, la tipologia del primo azionista non consente di definire

a priori il tipo d’appartenenza del secondo azionista, la dispersione dei diritti ai flussi di

cassa (CF) è maggiore nelle imprese in cui il primo azionista appartiene alla tipologia

“famiglia” (tuttavia rileva anche il tipo del secondo maggior azionista nel definire la

dispersione dei diritti ai flussi di cassa delle imprese).

Gli autori analizzano inoltre la relazione tra struttura proprietaria e dimensione d’impresa.

Bennedsen and Wolfenzon (2000) affermano che le imprese tendono ad avere o un singolo

azionista che detiene la maggioranza dei diritti di voto, o molteplici azionisti con una limitata

dispersione del capitale azionario. Se è più semplice, per imprese di piccole dimensioni, avere

un azionista di maggioranza rispetto ad imprese di dimensioni più ampie, allora imprese di

piccole dimensioni dovrebbero presentare una più alta probabilità di avere un azionista di

maggioranza rispetto ad imprese di grandi dimensioni e imprese di grandi dimensioni

dovrebbero presentare una più alta probabilità di avere una struttura proprietaria complessa con

bassa dispersione dei flussi di cassa.

Tale risultato è confermato empiricamente dagli autori: le imprese di dimensione minore

hanno con maggiore probabilità un azionista di maggioranza, mentre le imprese di

maggiori dimensioni hanno con probabilità più alta una bassa dispersione dei flussi di

cassa.

L’analisi empirica della relazione tra struttura proprietaria e valore societario (che si fonda

sui risultati teorici di Jensen e Meckling (1976), Bennedsen and Wolfenzon (2000) e Shleifer e

25 Un azionista è definito di controllo (large shareholder) se la somma dei diritti di voto diretti e indiretti è pari o superiore al 10%; se al contrario nessun azionista detiene almeno il 10% dei diritti di voto, allora si parla di società a proprietà diffusa. 26 Delle 553 imprese considerate che presentano strutture proprietarie complesse, che comportano la presenza di due o più grandi azionisti, nessuno dei quali detiene la maggioranza dei diritti di voto, ben 405 società hanno come maggior azionista una famiglia (percentuale pari al 73.24%); il 12% delle imprese hanno come maggior azionista un’istituzione finanziaria ad azionariato diffuso.

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Wolfenzon (2002) ) è basata sull’ipotesi che i diritti ai flussi di cassa societari sono centrali

nel determinare gli incentivi degli azionisti nell’espropriazione delle risorse societarie e

che la dispersione dei diritti ai flussi di cassa influenza la composizione e l’operatività

delle coalizioni di azionisti dominanti.

La letteratura teorica ipotizza una relazione negativa tra i diritti ai flussi di cassa dell’azionista

di controllo e i suoi incentivi a espropriare le risorse societarie. L’analisi empirica conferma

tale ipotesi, mostrando l’esistenza di una relazione positiva tra i diritti ai flussi di cassa dei

maggiori azionisti e il valore societario.

Più precisamente gli autori studiano il modello:

Tobin’s q = α*X1 + β*[Cash-flow-1] + γ*[Control-1 minus Cash-flow-1] + δ*[Growth] + + θ*[Cash-flow-1 minus Cash-flow-2] + u,

dove la variabile dipendente q di Tobin è una misura del valore societario e i regressori

utilizzati sintetizzano specifiche caratteristiche societarie (X1), i diritti di CF del maggiore

azionista che controlla almeno il 10% dei diritti di voto [Cash-flow-1] (una variabile che

assume valore zero se la proprietà azionaria è diffusa), la differenza tra i diritti di controllo

del maggiore azionista (diritti derivanti dal possedere almeno il 10% del capitale azionario)

e i suoi diritti di CF [Control-1 minus Cash-flow-1] (una variabile che assume valore pari a

zero quando non vi è alcun azionista che detiene almeno il 10% del capitale), una variabile

[Growth] che rappresenta il tasso di crescita medio delle vendite delle società nel triennio

1997-2000 nonché la differenza tra i diritti di CF dei due maggiori azionisti ( [Cash-flow-

1 minus Cash-flow-2] ), una variabile che assume valore zero se la società non ha due

azionisti che detengono almeno il 10% del capitale azionario.

Gli autori si concentrano inizialmente sulla dispersione dei diritti di CF tra i due maggiori

azionisti (in quanto la maggior parte delle società con più di un azionista che detiene più

del 10% del capitale sociale presenta solo un altro azionista con quota azionaria maggiore

del 10%) testando se la dispersione dei diritti di CF sia negativamente associata con i

valori futuri della Tobin’s q. I risultati ottenuti confermano una forte relazione negativa tra

le due variabili considerate27. Quando i diritti sui flussi di cassa sono distribuiti in modo

irregolare, cresce la probabilità che vi sia una coalizione dominante con bassi diritti ai

27 Allo stesso risultato pervengono Bloch e Hege (2001), per i quali la dispersione dei diritti di CF determina una riduzione del livello di performance societaria, poiché altri azionisti che possiedono elevate quote di capitale sociale tendono a esercitare una più intensa attività di monitoring quando la dispersione dei flussi di cassa è bassa.

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flussi di cassa. I risultati sopra illustrati rimangono validi controllando per variabili relative

sia alla performance societaria, sia alla struttura proprietaria e considerando sottocampioni

di imprese.

Gli autori verificano inoltre che la relazione negativa tra valore societario e dispersione dei

diritti di CF si indebolisce per le società che si trovano in Paesi dove vi è una severa

disciplina di protezione degli azionisti, come è naturale attendersi tenendo conto del fatto

che tale disciplina limita la capacità di espropriare risorse societarie. Distinguendo infine

tra cinque categorie di azionisti (famiglie, Stato, istituzioni finanziarie a proprietà diffusa,

grandi società a proprietà diffusa e altri, tra cui fondazioni e cross-holdings), gli autori

mostrano che le differenti tipologie di azionisti influenzano la relazione tra valore

societario e dispersione dei diritti di CF. Tale relazione si intensifica quando gli azionisti di

controllo appartengono a categorie differenti, poiché in questo caso più difficili sono la

cooperazione e la formazione di coalizioni dominanti.

3.1.2. Struttura proprietaria e performance societaria

Perrini, Rossi e Rovetta (2007) studiano la relazione tra la struttura proprietaria e la

performance aziendale considerando tutte le società quotate italiane, dal 1996 al 200328.

Poiché la realtà italiana presenta una struttura proprietaria storicamente caratterizzata da

elevata concentrazione e diffusione della proprietà di tipo familiare, gli autori sostengono

che il tema della relazione tra proprietà e performance nel contesto italiano debba essere

esplorato con un approccio differente rispetto a quello tradizionalmente utilizzato per

campioni anglosassoni. I mercati statunitensi e inglesi presentano infatti un alto grado di

sviluppo del mercato dei capitali e della diffusione della proprietà, mentre il sistema

italiano rientra nella tipologia definita “insider o bank-based”, caratterizzata da un’elevata

concentrazione della proprietà e dalla possibilità che i detentori di significative quote

azionarie ricoprano anche incarichi manageriali. Si verifica allora un maggior allineamento

tra gli interessi del soggetto controllante e la massimizzazione del valore dell’impresa, dato

che le decisioni che non creano valore hanno effetti negativi anche per il gruppo di

28 Il campione bilanciato e definitivo é costituito da 107 società e 848 osservazioni.

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comando: poiché proprietà e controllo tendono a coincidere nelle mani del soggetto

controllante, i conflitti di interesse si qualificano spesso come contrapposizione tra

soggetto controllante e azionisti di minoranza i quali apportano mezzi finanziari, ma non

partecipano alle decisioni aziendali.

Suddividendo il campione in 2 periodi, il primo precedente l’introduzione del Codice

Preda (1996-1999) e il secondo dal 2000 al 2003, esplorano eventuali mutamenti negli

assetti di governo riconducibili all’accresciuta rilevanza della corporate governance in

Italia.

Dall’analisi emerge una lieve riduzione della concentrazione proprietaria media (ancorché

non statisticamente significativa), una diminuzione della quota del primo azionista che non

si accompagna ad un aumento consistente delle quote degli azionisti di minoranza che

detengono partecipazioni rilevanti, (che indicherebbe un lieve aumento della proprietà

diffusa), una lieve (e non statisticamente significativa) diminuzione della quota di proprietà

del management, a conferma della non accresciuta rilevanza del management, nonché una

diminuzione significativa della dimensione del Consiglio di Amministrazione, con una

dimensione media che passa da 15.29 a 14.36 membri.

Il campione è stato anche suddiviso in funzione del livello di concentrazione della

proprietà in imprese in cui il maggiore azionista possiede una quota superiore al 50% del

capitale azionario e imprese in cui tale quota è inferiore al 50%, evidenziando una

sostanziale differenza nella struttura proprietaria per i due diversi campioni. Suddividendo

il campione in funzione della tipologia di azionista di riferimento, gli autori hanno

osservato che il numero di imprese a proprietà familiare rappresenta poco più del 50% del

totale (427 osservazioni, su un totale di 848, si riferiscono a imprese familiari).

La scomposizione del campione per settori ha consentito inoltre di verificare che -rispetto

alle imprese a proprietà non familiare- le imprese familiari sono fortemente presenti nei

settori industriali e tendono invece a essere meno rappresentate nel settore finanziario e dei

pubblici servizi. La quota di concentrazione proprietaria media del primo azionista è pari a

46,83% e a 45,31% rispettivamente nel campione di aziende familiari e non familiari e non

è dunque possibile osservare alcuna differenza sistematica in termini di concentrazione. La

proprietà manageriale risulta essere superiore nel campione di imprese a controllo

familiare (28,44% contro 1,00%), a testimonianza del fatto che dove il controllo é

esercitato da una famiglia, l’azionista tende a essere coinvolto nell’attività manageriale.

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Tale evidenza conferma un coinvolgimento attivo nella gestione da parte della famiglia

proprietaria. Sulla base di tale risultato non è quindi possibile affermare che nel caso

italiano la partecipazione azionaria del management sia interpretabile come un

meccanismo per ridurre i conflitti di interesse, in quanto gli stessi manager tendono ad

essere membri della famiglia e quindi espressione dell’azionista di maggioranza. Le

dimensioni del CdA sono maggiori per il campione di imprese non familiari e anche il

rapporto di connessione29 è significativamente superiore per il campione di imprese

familiari. Questo risultato può trovare interpretazione nella tipica articolazione delle

aziende familiari sotto forma di gruppi di diverse società: in questi casi è infatti molto

frequente che un singolo rappresentante della famiglia sieda nel CdA delle altre società del

gruppo. Non si riscontra invece nessuna differenza significativa nelle misure di mercato

(Tobin’s q e rendimento azionario mensile). Per quanto riguarda le misure di redditività

contabile, le imprese familiari sono contraddistinte da una maggiore redditività per

l’azionista e da una minore redditività operativa.

Dal punto di vista formale, gli autori stimano il modello:

Monthly Return = Intercept + α Ownership 1 azionista + βOwnership² 1 azionista + γ Dummy (1996-1999) + δ Board Size + ε Rapporto connessione + ζ Proprietà manageriale + η ROE + θ Stdev Price + ι EBITDA/Fatturato + κ Liquidity Ratio + λ Log Total Asset + µ Family Dummy + ν Financial Dummy + e

La dimensione del Consiglio di Amministrazione non risulta essere significativa e non

sono significativi né il rapporto di connessione, né il livello di proprietà manageriale.

La relazione tra proprietà e performance risulta essere non lineare, con una relazione

inversa non-monotona tra performance e concentrazione. L’effetto negativo della

concentrazione proprietaria sulla performance tende tuttavia a decrescere per livelli di

proprietà superiori al 40%30.

Per verificare la presenza di un problema di endogeneità, gli autori hanno utilizzato

un’analisi per variabili strumentali e un’analisi di tipo panel. Inizialmente è stata utilizzata

29 Per rapporto di connessione gli autori intendono il rapporto tra il numero di cariche complessivamente ricoperte da tutti gli amministratori e la dimensione del CdA (calcolata come numero di membri che lo costituiscono). 30 Per verificare la persistenza della relazione non-monotona anche a seguito dell’introduzione delle variabili di controllo considerate, il campione è stato suddiviso in imprese con concentrazione inferiore e superiore al 40%, punto nell’intorno del quale si inizia a manifestare un effetto decrescente di peggioramento della performance al crescere della proprietà. I risultati confermano sostanzialmente l’esistenza di una relazione inversa tra performance e concentrazione proprietaria.

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come variabile strumentale la performance passata, che è tuttavia risultata essere non

correlata con la struttura proprietaria. Sono state quindi considerate alcune variabili di

governance (dimensione del CdA, rapporto di connessione e proprietà manageriale)

ritenute potenzialmente rilevanti nel determinare la struttura proprietaria aziendale, in

particolar modo se il management è fortemente legato all’azionista di maggioranza.

L’analisi ha mostrato che le variabili di governance come la dimensione e il rapporto di

connessione del CdA costituiscono buoni strumenti per spiegare la concentrazione

proprietaria aziendale.

Si è inoltre testata l’ipotesi che l’endogeneità derivi dal legame tra struttura proprietaria e

altre variabili capaci di influenzare la performance quali la redditività per l’azionista (che

potrebbe economicamente spingere l’azionista a detenere quote maggiori di capitale), il

rischio specifico (che può condurre a una maggiore concentrazione come forma di tutela

dei diritti dell’azionista), la redditività operativa (con effetti attesi simili alla variabile

redditività per l’azionista), la liquidità (che ci si attende essere negativamente correlata alla

concentrazione per il suo effetto di segnalazione di scarse opportunità di investimento), la

dimensione delle società (che ci si attende essere associata a bassi livelli di concentrazione,

per ragioni di onerosità della raccolta di significative quote di capitale), l’indebitamento

(che si prevede poco elevato quando l’azionista di controllo è poco diversificato), la

produttività (con effetti attesi simili alla redditività per l’azionariato), il tasso di crescita

(che, se elevato e associato ad aspettative di creazione di valore, potrebbe determinare una

maggiore concentrazione) e la tipologia di azienda in esame (impresa a proprietà familiare

o istituzione finanziaria).

Si sono infine considerate quali ulteriori variabili di controllo il Roe (Return on equity), il

rischio specifico di impresa (deviazione standard del prezzo delle azioni), il rapporto

Ebitda su fatturato, il rapporto di liquidità, le dimensioni aziendali (il logaritmo della

somma degli asset), il rapporto di indebitamento, la produttività passata, il tasso di crescita

e variabili dummy per le società a proprietà familiare e le istituzioni finanziarie.

I risultati ottenuti hanno confermato che la dimensione (log della somma degli asset),

l’indebitamento (rapporto tra debito e valore dell’attivo), e la liquidità (liquidity ratio)

hanno un effetto negativo sulla concentrazione e suggeriscono che tale effetto sia associato

anche alla crescita e alla redditività operativa (Ebitda/Fatturato). L’analisi econometrica ha

permesso da un lato di verificare l’esistenza di fattori non osservabili rilevanti ai fini della

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completa spiegazione della relazione struttura proprietaria-performance, dall’altro ha

ribadito la rilevanza delle variabili di corporate governance nello spiegare la relazione tra

performance e concentrazione proprietaria.

L’analisi ha inoltre confermato l’esistenza nel mercato italiano dei sistemi di governance

tipici delle imprese europee continentali, in cui il gruppo di comando ha influenza sul

management o si identifica con esso: il management è, infatti, raramente parte del gruppo

di azionisti di controllo, fatta eccezione per le società familiari. E’ da sottolineare che

imprese familiari e non familiari tendono ad avere concentrazione proprietaria simile,

indipendentemente dalle caratteristiche dell’azionista di maggioranza. E’ inoltre

interessante osservare che la proprietà di tipo familiare non assume un ruolo di primo piano

nella determinazione della performance aziendale. L’evidenza empirica suggerisce che a

una maggiore concentrazione proprietaria si associa la possibilità di un migliore e più

efficace controllo sulla gestione aziendale, capace di tradursi in più soddisfacenti

rendimenti azionari sul mercato dei capitali. Il mercato sembra guardare con maggiore

favore alle imprese ad azionariato non diffuso e credere negli assetti proprietari concentrati

come leva per un’efficace ed efficiente gestione. La pressoché totale assenza di public

company nel mercato italiano rende però impossibile testare in modo completo la

differenza di performance tra imprese con assetti proprietari diversi. In questo studio si

considera comunque l’elevata e strutturale concentrazione proprietaria del mercato italiano

una leva capace di innescare un processo virtuoso di miglioramento della gestione

aziendale.

3.1.3. Struttura proprietaria ed efficienza tecnica

Sena (2007) analizza la relazione tra concentrazione proprietaria ed efficienza tecnica31 come

misura di performance societaria, utilizzando un campione costituito da imprese italiane

appartenenti al settore manifatturiero (suddivise in cinque comparti: tessile; abbigliamento;

apparecchiature elettriche; costruzioni meccaniche; alimentari, bevande e tabacco) che si

riferisce agli anni dal 1994 al 1997.

31 Per efficienza tecnica si intende la capacità di massimizzare gli output per dati input o di minimizzare l’impiego degli input per dati output.

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57

Il focus dell’analisi sull’efficienza tecnica colloca questo lavoro nell’ampia letteratura che si

occupa dell’analisi della frontiera di produzione. La misura di output considerata è il valore

aggiunto e gli input, oltre a quelli convenzionali (manodopera: operai e impiegati, stock di

capitale fisso) includono variabili quali la sede e la dimensione societaria, il livello di

istruzione della forza lavoro, la presenza di attività di ricerca e sviluppo all’interno della

società, l’appartenenza a gruppi piramidali, la percentuale di azioni detenute dal maggiore

azionista e la sua identità (distinguendo tra persona fisica residente in Italia o straniero

residente all’estero).

Per tre dei cinque settori si è riscontrata una relazione inversa tra efficienza tecnica e

concentrazione proprietaria. In particolare, per il comparto tessile, l’impatto negativo della

concentrazione proprietaria sull’efficienza tecnica inizia a manifestarsi quando la

concentrazione della proprietà è compresa tra il 50% e il 99% e tra il 66% e il 99%. Il

comparto delle apparecchiature elettriche non presenta alcuna relazione inversa, mentre per

il comparto d’abbigliamento, un aumento del controllo della proprietà azionaria è associato

a un miglioramento dell’efficienza tecnica. La variabile relativa a livelli di concentrazione

proprietaria tra il 50% e il 66% del capitale azionario non è statisticamente significativa,

mentre i livelli di concentrazione proprietaria compresi tra il 55% e il 99% del capitale

azionario sono significativi. Ciò suggerisce che il maggiore azionista può esercitare un

effettivo controllo sulla società solo quando la sua partecipazione azionaria è

particolarmente elevata. La nazionalità del maggiore azionista non sembra essere

particolarmente rilevante. Tuttavia, se per tutti i comparti considerati il fatto che l’azionista

di controllo sia straniero sembra avere un impatto positivo sull’efficienza tecnica, ciò non

vale per il comparto alimentare. Un azionista di controllo italiano sembra invece avere un

impatto negativo sull’efficienza tecnica nei comparti tessile e delle costruzioni

meccaniche.

I risultati empirici ottenuti mostrano che la relazione tra la percentuale delle azioni

detenute dal maggiore azionista e l’efficienza tecnica è prevalentemente inversa e che nel

settore manifatturiero italiano elevati livelli di concentrazione proprietaria riducono

l’efficienza tecnica.

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3.2 I sistemi di controllo interno ed esterno della governance societaria

Il dibattito in merito all’efficacia dei sistemi di controllo interno ed esterno della

governance societaria è particolarmente acceso. Una corrente di pensiero ritiene che il

principale meccanismo di controllo interno, l’attività di monitoring esercitata dal Consiglio

di Amministrazione sul management sia inefficace e i consiglieri siano condizionati

dall’amministratore delegato che dovrebbero invece controllare. Un altro filone di

letteratura sostiene invece che il principale meccanismo di controllo esterno, l’acquisizione

(takeover), sia costoso e possa correggere solo i casi estremi di cattiva guida societaria.

Hirshleifer e Thakor (1994 e 1998) studiano il trade off tra meccanismo di controllo

interno ed esterno quando il CdA e un acquirente esterno osservano differenti segnali circa

la qualità del CEO. Dopo aver osservato il segnale, il CdA aggiorna il suo giudizio

qualitativo sul CEO e decide se confermarlo nella sua posizione o licenziarlo. Hirshleifer e

Thakor (1998) si concentrano in particolare sull’effetto della minaccia di takeover da parte

dell’acquirente esterno sulla decisione del board di confermare o licenziare il CEO,

sottolineando due effetti: “substitution effect” e “ kick-in-the-pants effect”.

Il primo effetto si riferisce al fatto che un’acquisizione o takeover attivo da parte del

mercato rende disponibile sul mercato un’informazione migliore in quanto l’informazione

posseduta dal CdA si somma a quella dell’acquirente, consentendo a quest’ultimo di

sostituire manager inefficienti se precedentemente non vi hanno provveduto gli

amministratori della società. Il secondo effetto riguarda invece il caso in cui il CdA può

allontanare il CEO dalla società più facilmente in seguito alla minaccia di un takeover, in

quanto questo potrebbe comportare anche lo scioglimento del CdA stesso da parte

dell’acquirente esterno (l’acquisizione per ipotesi del modello può aver luogo solamente se

l’acquirente esterno osserva che il manager è riconfermato dal CdA).

Graziano e Luporini (2003) affrontano lo stessa problema, occupandosi delle interazioni tra

meccanismi di controllo interno ed esterno, in un contesto in cui (I) il Consiglio di

Amministrazione (CdA) seleziona l’amministratore delegato (Ceo) e in un secondo stadio,

dopo aver osservato i segnali riguardanti la sua abilità, decide se riconfermarlo o

congedarlo e (II) il CdA agisce sotto la minaccia di un takeover da parte di un potenziale

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acquirente che dispone di informazioni private sulle prospettive di profitto dell’impresa e

osserva la decisione di conferma o licenziamento del Ceo.

Il tipo del CdA è definito sulla base della sua capacità nel selezionare un Ceo di buona

qualità (contrapposto al Ceo di cattiva qualità) e la qualità del Ceo dipende , a sua volta,

dal tipo del CdA.

La decisione di confermare o licenziare il Ceo fornisce perciò una duplice informazione:

innanzitutto relativa alla qualità del Ceo e in seconda battuta sul tipo del CdA.

Il CdA e un acquirente esterno osservano differenti segnali riguardanti la qualità del

management, che deve scegliere un progetto di investimento il cui rendimento dipende

dalle sue qualità (buone o cattive).

A differenza di quanto accade in Hirshleifer e Thakor (1998), il takeover può avere luogo

anche dopo la decisione da parte del CdA di licenziare il management se l’acquirente

esterno ritiene di essere più efficiente rispetto al board in carica nel selezionare un nuovo

management.

Graziano e Luporini (2003) giungono a conclusioni opposte rispetto a quelle di Hirshleifer

e Thakor (1998). Questi ultimi ritengono che quando il CdA è preoccupato della possibilità

di essere rimosso e la probabilità che ciò accada è alta, la minaccia di takeover ne rende

l’operato più rigoroso. Graziano e Luporini (2003) sostengono invece che quando la

probabilità che il CdA sia sostituito è alta, esso diviene “manager-friendly”, ignorando il

segnale ricevuto. Il comportamento collusivo tra il board e il management sarebbe spiegato

dal fatto che il CEO domina il CdA e nomina i membri che invece dovrebbero monitorarlo

e che il CdA vuole minimizzare la probabilità di takeover.

Hermalin e Weisbach (1998) analizzano un modello in cui il livello di indipendenza del

Consiglio di Amministrazione è endogeno. L’amministratore delegato (CEO) e il

Consiglio di Amministrazione (CdA) negoziano la retribuzione del CEO e l’identità dei

nuovi amministratori che comporranno il CdA di nuova nomina. Il potere contrattuale del

CEO deriva dal livello della sua abilità percepita da parte del CdA: un buon CEO rimarrà

presso l’impresa con una probabilità più alta e riuscirà a negoziare un grado di

indipendenza del CdA inferiore.

I risultati degli autori indicano che la probabilità di aggiungere amministratori indipendenti

nel CdA è più alta quando la performance della società non è soddisfacente. Il turnover del

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CEO è negativamente correlato alla performance dell’impresa (e tale relazione è più

intensa, più elevato è il livello di indipendenza del board). Infine, i Consigli di

Amministrazione con una forte presenza di amministratori indipendenti hanno una

probabilità più elevata di scegliere un amministratore delegato esterno all’impresa.

Differenze nel comportamento dei Consigli di Amministrazione possono quindi essere

motivate da differenze nella proporzione di amministratori indipendenti presenti: un CdA

efficiente potrebbe presentare una proporzione più alta di amministratori indipendenti.

Warther (1998) considera infine la procedura di voto per mezzo della quale il Consiglio di

Amministrazione decide se confermare o licenziare l’amministratore delegato e sottolinea

l’importanza dei Consigli di Amministrazione come strumento di disciplina del

management.

3.3 Le determinanti di dimensione, struttura e composizione del Consiglio di Amministrazione

Si analizzano alcuni studi statunitensi e italiani che sotto diverse prospettive e mediante

l’utilizzo di campioni differenti di società hanno analizzato e testato empiricamente i fattori

che spiegano la dimensione, la struttura e la composizione dei CdA.

3.3.1 Le determinanti della dimensione e della struttura dei CdA

Linck, Netter e Joung (2007) si propongono di esaminare la struttura dei Consigli di

Amministrazione, di confrontare i CdA di imprese di piccole e grandi dimensioni e

analizzare l’evoluzione della struttura dei CdA e delle loro determinanti.

Gli autori considerano un dataset composto da 7000 società statunitensi di tutte le

dimensioni, età e attività industriali per il periodo 1990-2004, selezionando tutte le società

per le quali erano disponibili informazioni sulla dimensione e composizione dei CdA per

più di due anni ed escludendo le società con meno di tre amministratori e non

regolamentate. Il campione risultante include più di 53000 rilevazioni riguardanti circa

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7000 società. Il campione è stato quindi suddiviso sulla base della dimensione delle società

utilizzando come variabile di riferimento il valore di mercato del capitale azionario, in

modo da catturare le differenze tra imprese di piccole e grandi dimensioni.

Nella costruzione del modello gli autori hanno ipotizzato che le società adottano

comportamenti tesi a massimizzare il valore degli azionisti (ovvero i CdA sono strutturati

al fine di massimizzare la ricchezza degli azionisti) e decidono la struttura e l’evoluzione

della struttura dei CdA in funzione delle specifiche esigenze di monitoring e advising e del

settore industriale nel quale operano;

Gli autori effettuano un’analisi in serie storiche studiando le relazioni esistenti tra le

caratteristiche societarie e tre variabili relative ai Consigli di Amministrazione: dimensione

(board size32), grado di indipendenza (board independence33) e coincidenza tra carica di

Amministratore delegato e quella di Presidente del Consiglio di Amministrazione (board

leadership34).

In particolare, (utilizzando dati relativi agli anni 1992, 1995, 1998, 2001 e 2004) sono

considerati tre modelli econometrici che si concentrano su ciascuna delle tre caratteristiche

del CdA considerate.

Il primo modello è formalmente espresso dall’equazione seguente:

Board size = α + β1 log MVE + β2 debt + β3 log segments + β4 firm age + β5 firm age2 + β6 MTB + β7 R&D + β8 RETSTD + β9 CEO_Own + β10 Director_Own + Industry Dummies + Year Dummies + ε In primo luogo ci si pone il problema di verificare se la dimensione del Consiglio di

Amministrazione di una società è crescente nella complessità dell’azienda. Fama e Jensen

(1983) suggeriscono che i Consigli di Amministrazione sono formati da “esperti” e che gli

amministratori non esecutivi svolgono un’importante funzione apportando differenti

competenze professionali. Imprese diversificate, operanti in differenti business e aree

geografiche o con strutture operative o finanziarie complesse, possono infatti ampiamente

beneficiare dell’ampio know how degli amministratori non esecutivi. Ciò porta alla

costituzione di CdA più numerosi e indipendenti. Gli autori ottengono che la variabilie

dimensione d’impresa (rappresentata dalla variabile log MVE), il debito, il numero di

segmenti di business e l’età dell’impresa presentano coefficienti positivi e significativi, a

32 Per “board size” si intende il numero di amministratori nel board. 33 Per “board independence” si intende la proporzione di amministratori non esecutivi, detti outsider. 34 Per “board leadership” si utilizza un indicatore che esprime la coincidenza di Amministratore delegato (ossia Ceo) e Presidente del CdA (ovvero Cob).

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testimonianza del fatto che la dimensione del Consiglio di Amministrazione è

effettivamente crescente nella complessità dell’azienda.

Il coefficiente negativo associato al quadrato dell’età dell’impresa indica invece che

l’impatto dell’età sulla dimensione del CdA è crescente ma ad un tasso decrescente, a

suggerire il fatto che la complessità aziendale non segue uno stesso percorso evolutivo sia

per le imprese “giovani” o di recente formazione, sia per quelle mature.

Un secondo problema analizzato consiste nel verificare se la dimensione del Consiglio di

Amministrazione è decrescente nei costi di monitoring e advising. Come proxy per i costi

di monitoring e advising, gli autori utilizzano il rapporto tra il valore di mercato e il valore

contabile del capitale azionario (MTB), gli investimenti per ricerca e sviluppo (R&D35) e la

deviazione standard dei tassi di interesse azionari mensili (RETSTD). I coefficienti di MTB

e RETSTD sono entrambi negativi e significativi. Il coefficiente associato agli investimenti

in R&D è anch’esso negativo, ma non statisticamente significativo ai livelli convenzionali.

Sebbene non in modo esauriente, i risultati confermano l’ipotesi che la dimensione del

CdA sia decrescente nei costi di monitoring e advising.

Un secondo modello econometrico spiega il rapporto tra amministratori non esecutivi

(definiti anche outsider) e il totale degli amministratori che compongono il CdA, utilizzato

come indicatore del grado di indipendenza del Consiglio di Amministrazione sulla base

dell’equazione seguente

Board independence = α + β1 log MVE + β2 debt + β3 log segments + β4 firm age + β5 firm age2 + β6 MTB + β7 R&D + β8 RETSTD + β9 CEO_Own + β10 Director_Own + β11

FCF + β12 performance + β13 CEO_age + β14 lag (CEO_ chair) + Industry Dummies + Year Dummies + ε Il primo problema che gli autori si pongono è quello di valutare se il grado di indipendenza

del CdA è crescente nella complessità dell’azienda. Poiché le variabili dimensione

d‘impresa (firm size), debito (debt), numero di segmenti di business (number of business

segments), ed età delle imprese (firm age) risultano essere positive e significative (tutte

all’1%) l’ipotesi è confermata.

Verificano poi se il grado di indipendenza del CdA è decrescente nei costi di monitoring e

advising. Come proxy per i costi di monitoring e advising sono state impiegate, come

nell’analisi precedente, le variabili MTB ratio, gli investimenti per R&D e RETSTD. Il

35 MTB e gli investimenti in R&D sono le variabili standard utilizzate in letteratura come proxies per le opportunità di crescita.

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MTB presenta segno negativo ed è l’unica variabile significativa delle tre considerate: non

esiste evidenza robusta a sostegno dell’ipotesi.

Analizzano inoltre se il grado di indipendenza del CdA cresce al crescere della

disponibilità di benefici privati (private benefit). Adams e Ferreira (2006) e Raheja (2005)

sostengono infatti che l’attività di monitoring si intensifica al crescere del livello di private

benefit a disposizione dei manager, determinando così una più alta proporzione di membri

indipendenti nel consiglio di Amministrazione. Per testare l’ipotesi, gli autori Linck, Netter

e Yang (2007) utilizzano come proxy per i private benefit i flussi di cassa (free cash flow,

indicato FCF), ottenendo che il grado di indipendenza è crescente nel FCF e confermando

quindi l’ipotesi teorica.

Un’altra ipotesi è che i CdA siano costituiti da un numero contenuto di amministratori

quando gli incentivi degli amministratori esecutivi (insider) sono allineati agli interessi

degli azionisti. Raheja (2005) afferma infatti che quando gli incentivi degli amministratori

esecutivi sono allineati con quelli degli azionisti, i Consigli di Amministrazione hanno una

dimensione ridotta: in questa situazione, infatti, è bassa la probabilità che gli

amministratori decidano di attuare progetti di scarso valore per l’impresa e ciò determina

la necessità di un minor monitoraggio dall’esterno: si hanno così CdA formati da pochi

membri, con una bassa proporzione di amministratori indipendenti.

Come proxy per l’allineamento degli incentivi degli insider agli interessi degli azionisti

Linck, Netter e Yang (2007) hanno utilizzato la percentuale di azioni detenute dal CEO e

per l’allineamento degli incentivi degli outsider agli interessi degli azionisti la percentuale

media di azioni detenuta da ogni amministratore outsider. Dall’analisi di regressione

emerge che la proprietà dell’amministratore delegato (Ceo_Own) è negativo e

significativo, il che conferma l’ipotesi che esiste una relazione negativa tra la dimensione

del CdA (board size) e il suo livello di indipendenza (board independence) rispetto

all’allineamento degli incentivi degli insider. Anche il coefficiente della proprietà del

presidente del CdA (Director_Own) è negativo, un risultato che non è consistente con

l’ipotesi per cui esiste relazione positiva tra board size e board independence rispetto

all’allineamento degli incentivi degli amministratori non esecutivi. I risultati ottenuti dagli

autori confermano quindi l’ipotesi secondo la quale vi siano meno amministratori non

esecutivi quando ciascun amministratore esecutivo ha forti incentivi ed interessi

nell’impresa, allineati con quelli degli azionisti.

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Un’ulteriore ipotesi sottoposta a test è relativa all’esistenza di una relazione negativa tra

board independence e performance societaria, suggerita da Hermalin e Weisbach (1998),

secondo i quali le imprese inseriscono nuovi amministratori indipendenti nei Consigli di

Amministrazione quando la loro performance è mediocre.

Tale ipotesi è confermata dall’analisi empirica di Linck, Netter e Yang (2007). Il

coefficiente relativo alla variabile performance é negativo e significativo.

Si è infine verificato che il grado di indipendenza del CdA è più elevato quando

l’Amministratore delegato (Ceo) ha ricoperto anche la carica di Presidente del CdA (Cob)

in un precedente periodo, in linea con l’assunto per il quale la proporzione di

amministratori indipendenti nel CdA aumenta al crescere dell’influenza esercitata dall’

amministratore delegato sul CdA stesso.

Le determinanti della board leadership (ovvero che la carica di Amministratore delegato

(Ceo) coincida con quella di Presidente del Consiglio di Amministrazione) sono state

investigate mediante il modello

Board leadership = α + β1 log MVE + β2 MTB + β3 R&D + β4 RETSTD + β5 Performance + β6 CEO_age + β7 CEO_tenure + Industry Dummies + Year Dummies + ε Si è innanzitutto verificato che la probabilità che le cariche di Ceo e Cob coincidano è

crescente nell’abilità e competenza del Ceo nonchè all’avvicinarsi del momento di

pensionamento del Ceo.

Esiste infatti una relazione positiva tra la variabile dummy “board leadership” e i tre

regressori dimensione d’impresa (firm size), età dell’amministratore delegato (Ceo age) ed

esperienza (Ceo tenure), tutte e tre significative all’1%.

E’ inoltre interessante notare che l’ipotesi per cui la probabilità che le cariche di Ceo e Cob

coincidano cresce al crescere dell’asimmetria informativa non è supportata dall’analisi

empirica. Non emerge infatti alcuna relazione significativa tra la “board leadership” e la

la deviazione standard dei ritorni azionari, una proxy dell’asimmetria informativa36.

36 Come proxy dell’asimmetria informativa gli autori utilizzano la deviazione standard dei prezzi delle azioni in seguito alla verifica empirica di Fama e Jensen (1983) per cui le imprese con un’elevata volatilità dei rendimenti azionari hanno con maggiore probabilità informazioni specifiche sconosciute agli investitori esterni.

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Dall’analisi delle determinanti della struttura dei CdA, suddividendo il campione di società

in funzione della loro dimensione, emergono risultati nel complesso simili tra i differenti

gruppi, pur con alcune differenze. In particolare, un numero inferiore di variabili sembra

rilevare nello spiegare la struttura dei CdA per le imprese di piccola dimensione rispetto

alle medie e grandi imprese. Inoltre il grado di indipendenza del CdA e i costi di

monitoring non sono significativamente correlati nel caso di società di piccole e grandi

dimensioni, a indicare che non per tutte le tipologie di società vi è una forte relazione

positiva tra board independence e monitoring cost.

Infine si rileva che con maggior probabilità gli amministratori detengono quote azionarie

più elevate in imprese di medie e grandi dimensioni che hanno Consigli di

Amministrazione di dimensione ridotta (e con basse percentuali di amministratori

indipendenti), mentre per le società di piccole dimensioni le quote azionarie possedute dai

consiglieri non presentano una relazione significativa con la struttura dei CdA.

Attraverso un’analisi su una pooled cross section, Linck, Netter e Yang (2007) hanno poi

verificato se l’introduzione del Sarbanes - Oxley Act37 (SOX) nel 2002 abbia avuto un

impatto sulle determinanti della struttura dei CdA. L’evidenza empirica ha mostrato che,

tra il 2001 e il 2004, la proporzione degli amministratori esecutivi è diminuita in modo

significativo (per effetto delle norme introdotte sugli amministratori indipendenti dal SOX)

e tale impatto è più forte per le piccole imprese che presentavano percentuali più alte di

questa categoria di amministratori. Inoltre, in questo periodo, la dimensione dei CdA è

cresciuta soprattutto per le medie e grandi imprese, sia perchè i compiti che il CdA è

chiamato ad assolvere sono divenuti più complessi, sia perché le imprese di più piccole

dimensioni hanno tempi di aggiustamento e quindi di implementazione delle nuove

normative più lunghi.

Un interessante risultato riguarda l’effetto della proprietà azionaria detenuta dagli

amministratori sulla struttura dei CdA: in entrambi i periodi (pre e post SOX) valori più

elevati della quota azionaria detenuta dal Ceo sono associati a CdA di dimensioni più

37 Il Sarbanes-Oxley Act del 2002 o “Public Company Accounting Reform and Investor Protection Act” (e comunemente detto SOX) è una legge federale statunitense emanata in risposta ad una serie di scandali societari che hanno riguardato società statunitensi tra cui Enron, Tyco International, Adelphia, Peregrine Systems e WorldCom. Essa stabilisce nuove e rafforzate misure per tutte le società quotate disciplinando il funzionamento dei consigli di Amministrazione, del management e altri aspetti societari come le procedure contabili.

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ridotte, ma l’effetto di questa variabile è più contenuto nel periodo post SOX. L’impatto

della struttura proprietaria sulla configurazione del CdA risulta dalle analisi essere più forte

nel periodo che precede l’introduzione del SOX, rispetto al periodo seguente. Una

possibile spiegazione di tale risultato è che la disciplina SOX ha avuto dei riflessi

sull’importanza della struttura proprietaria nel determinare la struttura del Consiglio di

Amministrazione.

Anche Lehn, Patro e Zhao (2003) si concentrano sulla struttura societaria dei Consigli di

Amministrazione analizzando le determinanti e i trend della struttura dei CdA.

Il campione da essi considerato è costituito da 81 società statunitensi che hanno operato

continuativamente tra il 1935 e il 2000; i dati sono stati raccolti ogni 5 anni a partire dal

1935. Gli autori hanno scelto per la formazione del campione un requisito stringente

relativamente al criterio “sopravvivenza”, sulla base dell’idea che le società sopravvissute

per decenni abbiano strutture di governance appropriate per l’ambiente competitivo nel

quale operano.

L’analisi, condotta in serie storiche, parte dalle ipotesi che la dimensione e la struttura dei

Consigli di Amministrazione sono determinate al fine della massimizzazione del valore

dell’impresa e che la scelta della dimensione del CdA sia funzione del trade off tra

acquisizione delle informazioni rilevanti (che i CdA di grandi dimensioni hanno più facilità

a ottenere) e costi decisionali (che divengono più elevati all’aumentare della dimensione

del CdA). Due caratteristiche societarie che influiscono su tale trade off -che varia al

variare delle imprese e dei settori industriali- nonché sulla dimensione ottimale del CdA,

sono la dimensione d’impresa e le opportunità di crescita.

Gli autori individuano tre variabili per identificare la dimensione dell’impresa, ovvero il

fatturato (sales), il valore contabile dell’attivo (book value of assets), il valore di mercato

del capitale azionario (market value of equity) e tre variabili per determinare le opportunità

di crescita dell’impresa e cioè il rapporto tra il valore di mercato e il valore contabile

dell’attivo (MTB value of assets), il rapporto tra il valore di mercato e il valore di libro del

capitale azionario (MTB value of equity), il rapporto tra il valore di macchinari e impianti e

il valore contabile dell’attivo (ratio of property plant and equipment (PPE) to the book

value of total assets).

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Per testare l’impatto di dimensione e opportunità di crescita sulla composizione del CdA

gli autori utilizzano un panel di dati relativo alle 81 società contenute nel campione.

Formalmente, gli autori studiano i seguenti modelli econometrici

1) Log (Board Size) = α + β1 Log (Mkt Cap) + β2 Log Mkt Cap^2 + β3 Log MTB Ass

+ β4 Log PPE Ratio + β5 Post 80 Time Dummy + β6 Log Mkt Cap & Time Dummy+ β7

Log MTB Ass & Time Dummy + β8 Log PPE Ratio & Time Dummy + ε

2) % of Insiders = α + β1 Log (Mkt Cap) + β2 Log Mkt Cap^2 + β3 Log MTB Ass + β4

Log PPE Ratio + β5 Post 80 Time Dummy + β6 Log Mkt Cap & Time Dummy+ β7 Log MTB Ass & Time Dummy + β8 Log PPE Ratio & Time Dummy + ε

con l’obiettivo di verificare se esiste una relazione positiva tra dimensione del CdA e

dimensione d’impresa e tra proporzione di amministratori esecutivi e opportunità di

crescita, nonché una relazione negativa tra dimensione del CdA e opportunità di crescita e

tra proporzione di amministratori esecutivi e dimensione d’impresa.

Il modello (1) conferma l’esistenza di una relazione positiva (e non lineare) tra dimensione

del CdA e dimensione d’impresa. I coefficienti delle variabili Log Mkt Cap e Log Mkt

Cap^2 sono infatti positivi e significativi all’1%.

Allo stesso modo, il modello (1) conferma l’esistenza di una relazione negativa tra

dimensione del CdA e opportunità di crescita. Entrambi i coefficienti delle proxy per le

opportunità di crescita (Log MTB Ass e Log PPE Ratio) sono infatti significativi all’1% e

presentano rispettivamente segno negativo e positivo. Vi sono almeno due motivi che

spiegano tale risultato: i costi del monitoring dei manager crescono al crescere delle

opportunità di crescita delle società; società con elevate opportunità di crescita

generalmente necessitano di strutture di governance più snelle.

Il modello (2) consente invece di verificare l’esistenza di una relazione negativa tra

proporzione di amministratori esecutivi e dimensione d’impresa. Il coefficiente della

variabile Log Mkt Cap presenta infatti segno negativo ed è significativo all’1%.

Allo stesso modo, emerge una relazione positiva tra proporzione di amministratori

esecutivi e opportunità di crescita, con il coefficiente della variabile Log MTB Ass positivo

e significativo all’1%. Le due variabili “dimensione d’impresa” e “opportunità di crescita”

appaiono quindi essere rilevanti nello spiegare le variazioni nella dimensione e struttura dei

CdA. Il coefficiente della variabile dimensione del CdA cresce all’aumentare della

dimensione aziendale, mentre decresce all’aumentare delle opportunità di crescita; il

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coefficiente della variabile proporzione di amministratori esecutivi decresce all’aumentare

della dimensione del’impresa e cresce rispetto alle opportunità di crescita. Questi risultati

avvalorano la tesi per cui la dimensione e la struttura dei Consigli di Amministrazione sono

determinate endogeneamente e in modo consistente con la massimizzazione del valore

dell’impresa.

Anche Boone, Field, Karpoff e Raheja (2007) analizzano dimensione e composizione dei

Consigli di Amministrazione, considerando un campione formato da tutte le imprese

industriali statunitensi (1019 società) che si sono quotate sui mercati statunitensi tra il 1988

e il 1992, analizzate nei loro primi 10 anni di esistenza. L’analisi condotta utilizza dati

panel relativi al 1°, 4°, 7° e 10° anno di vita delle società contente nel campione e si

propone di testare tre ipotesi alternative:

I. “The scope of operations hypothesis”: la struttura dei Consigli di Amministrazione

é determinata dalle prospettive e dalla complessità delle attività delle imprese;

II. “The monitoring hypothesis”: la struttura dei Consigli di Amministrazione e la loro

composizione sono spiegate dallo specifico business e dall’ambiente nel quale le

imprese operano;

III. The negotiation hypothesis: la composizione dei Consigli di Amministrazione é il

risultato della negoziazione tra l’amministratore delegato della società e gli

amministratori non esecutivi.

Al fine di verificare la rilevanza della “scope of operations hypothesis”, gli autori hanno

verificato se imprese di più grandi dimensioni, multisettore o operanti in diverse aree

geografiche presentano CdA più numerosi, ovvero se la dimensione del CdA (board size) è

positivamente correlata alla dimensione dell’impresa (firm size) e se la proporzione di

amministratori indipendenti nel CdA è positivamente correlata alle prospettive e alla

complessità delle attività delle imprese (misurate sulla base di dimensione, età delle

imprese e numero di segmenti di business in cui esse operano).

I modelli econometrici considerati sono:

Board size = α +β1 firm size + β2 firm age + β3 n°business segments + β4 Lag (Proportion Independent Directors) + β5 Previous Merger Dummy + β6 Lag (ROA) + β7 Previous Reverse LBO Dummy + β8 Equity Carve-out Dummy + β9 Dual Class Dummy + ε

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Proportion Independent Directors = α +β1 firm size +β2 firm age + β3 n°business segments + β4 Lag (Board size) + β5 Previous Merger Dummy + β6 Lag (ROA) + β7 Previous Reverse LBO Dummy + β8 Equity Carve-out Dummy + β9 Dual Class Dummy + ε Poiché nelle regressioni in cui le variabili “dimensione d’impresa, anni di esistenza,

numero di segmenti di business in cui l’impresa opera” sono inserite separatamente come

variabili indipendenti, i rispettivi coefficienti sono tutti positivi e significativi all’1%; la

“scope of operations hypothesis”risulta essere confermata38.

Al fine di testare la “monitoring hypothesis”, gli autori verificano se la dimensione del

CdA è positivamente correlata ai private benefit39 del management e negativamente

correlato ai costi di monitoring40 e se la proporzione di amministratori indipendenti nel

CdA è positivamente correlata ai private benefit del management e negativamente correlata

ai costi di monitoring.

Formalmente, i due modelli econometrici studiati per rispondere a tali domande sono:

Board size = α + β1 FCF + β2 Industry concentration + β3 G index + β4 Log (MTB) + β5 high R&D + β6 Return variance + β7 CEO ownership + β8 firm size + β9 firm age + β10 n° business segments + β11 Lag (Proportion Independent Directors) + β12 Previous Merger Dummy + β13 Lag (ROA) + β14 Previous Reverse LBO Dummy + β15 Equity Carve-out Dummy + β16Dual Class Dummy + ε Proportion Independent Directors = α + β1 FCF + β2 Industry concentration + β3 G index + β4 Log (MTB) + β5 high R&D + β6 Return variance + β7 CEO ownership + β8 firm size + β9 firm age + β10 n° business segments + β11 Lag (Number of Directors) + β12 Previous Merger Dummy + β13 Lag (ROA) + β14 Previous Reverse LBO Dummy + β15 Equity Carve-out Dummy + β16Dual Class Dummy + ε Se la “monitoring hypothesis” fosse corretta, ci si dovrebbe attendere che dimensione e

livello di indipendenza del CdA siano positivamente correlati alle prime tre variabili (FCF,

38 Inserendo tutte e tre le variabili contemporaneamente nelle regressioni si rileva una distorsione che riduce il valore assoluto dei coefficienti poiché le variabili sono positivamente correlate. Tuttavia, anche in presenza di tale distorsione, “dimensione dell’impresa e numero di segmenti di business in cui l’impresa opera” rimangono significativamente correlati alla variabile “dimensione del CdA” per quanto riguarda il primo modello, mentre le variabili “dimensione d’impresa” e “anni di esistenza” rimangono significativamente correlati alla variabile dipendente “proporzione di amministratori indipendenti” nel secondo modello. 39 Le tre variabili utilizzate per rappresentare i potenziali private benefit del management sono: FCF dell’impresa, l’indice di Herfindahl per misurare la concentrazione del settore in cui l’impresa opera e l’indice G che indica quanto il management sia isolato dal mercato e il livello di difesa da takeover. 40 Le quattro variabili usate dagli autori per esprimere i costi di monitoring dei manager dell’impresa sono: log MTB ratio, una variabile dummy relativa agli investimenti in ricerca e sviluppo (R&D), varianza dei tassi di rendimento azionari e quota azionaria posseduta dall’amministratore delegato).

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Indice di Herfindahl e Indice di crescita G) e negativamente correlati alle ultime quattro

variabili (log MTB, varibile dummy per gli investimenti in ricerca e sviluppo, varianza dei

tassi di rendimento azionari e percentuale di azioni detenuta dall’amministratore delegato).

I risultati empirici mostrano che, quando ciascuna delle sette variabili esplicative è inserita

nel modello separatamente, la dimensione del board è positivamente correlata alle prime

tre variabili (FCF, indice di concentrazione del settore e indice di crescita) e negativamente

correlata alle 4 variabili (varianza dei tassi di rendimento azionari, dummy “high R&D” ,

CEO’s share ownership e log MTB ratio, ma quest’ultima variabile è statisticamente non

significativa). Stimando un modello che includa contestualmente tutte e sette le variabili

nonchè le tre variabili utilizzate in precedenza per testare la “scope of operations

hypothesis”, la maggior parte dei coefficienti ha lo stesso segno ottenuto nelle precedenti

analisi, eccetto per i coefficienti di FCF e firm age (presumibilmente a causa di un

problema di multicollinearità dovuto al fatto che nel modello sono state introdotte più

proxy per una stessa ipotesi). La variabile “board independence” è negativamente correlata

alle variabili log (MTB ratio) e CEO’s share ownership, mentre gli altri coefficienti non

sono statisticamente significativi e il livello di R&D ha un coefficiente positivo che non è

consistente con l’ipotesi di monitoring. Il test di Wald per la significatività congiunta delle

variabili utilizzate per testare la “monitoring hypothesis” (ad eccezione della dummy “high

R&D” ) indica tuttavia che questa ipotesi spiega effettivamente la variazione nel livello di

indipendenza del CdA.

La “negotiating hypothesis” richiede di verificare se la composizione del board riflette un

processo di negoziazione tra il CEO e gli amministratori non esecutivi. Per misurare

l’influenza del CEO nella negoziazione, sono considerati il numero di anni di permanenza

nel ruolo da parte dell’amministratore delegato (“CEO job tenure”) nonché la quota

azionaria da lui detenuta (“CEO share ownership”). I limiti all’influenza del Ceo sono

invece catturati dalla quota azionaria detenuta dai membri non esecutivi del CdA (“outside

director ownership”), dal fatto che al momento dell’IPO un investitore “venture capital”

deteneva un pacchetto azionario (“venture capital investment”) e dal ranking della società

al momento dell’IPO (“investment bank reputation”).

In particolare si è verificato se la “board independence” è negativamente correlata

all’influenza del Ceo nella negoziazione (e quindi alle variabili “Ceo job tenure” e “Ceo

ownership”) e positivamente correlata alle variabili che rappresentano i limiti alla sua

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influenza (e quindi ai regressori “outside director ownership”, “ venture capital investment”

e “investment bank reputation”).

Formalmente:

Proportion Independent Directors = α + β1 CEO tenure + β2 CEO ownership + β3 outside director ownership + β4 venture capital backing dummy + β5 investment bank reputation + β6 firm size + β7 firm age + β8 n°business segments + β9FCF + β10 Industry concentration + β11 G index + β12 Log (MTB) + β13 high R&D + β14 Return variance + β7

CEO ownership + β8 firm size + β9 firm age + β10 n^ business segments + β11 Lag (Number of Directors) + β12 Previous Merger Dummy + β13 Lag (ROA) + β14 Previous Reverse LBO Dummy + β15 Equity Carve-out Dummy + β16Dual Class Dummy + ε

I risultati ottenuti mostrano che, quando ciascuna delle cinque variabili esplicative è

inserita nel modello separatamente, tutte sono significative e correlate alla variabile

dipendente “board independence” con il segno atteso. Tali risultati sono sostanzialmente

confermati (eccetto per il coefficiente di Ceo tenure che non è statisticamente significativo)

per un modello che considera contemporaneamente tutte le variabili, ma emerge una

distorsione dovuta alla multicollinearità tra i regressori. Includendo nell’analisi anche tutti i

regressori utilizzati per testare le prime due ipotesi (“scope of operations hypothesis” e

“monitoring hypothesis”), i coefficienti delle cinque variabili usate per testare la

“negotiation hypothesis” conservano gli stessi segni e rimangono statisticamente

significativi, tranne la variabile “investment bank reputation”. Si può pertanto ritenere che

la “negotiation hypothesis” sia verificata.

E’ importante sottolineare che le dummy “venture capital” e “investment bank reputation”

sono rilevate nel momento dell’IPO. Baker e Gompers (2003) affermano infatti che l’IPO

sia un momento chiave dell’esistenza dell’impresa in cui poter indagare la “negotiation

hypothesis”, poiché comporta significativi cambiamenti nella governance e nelle strutture

proprietarie41 delle imprese. I risultati delle regressioni mostrano in particolare che

l’influenza del Ceo durante l’IPO è utile nello spiegare il grado di indipendenza dei CdA

anche negli anni successivi l’IPO. Complessivamente gli autori interpretano questi risultati

come una conferma dell’ipotesi per cui la dimensione del CdA e il suo livello di

indipendenza riflettano aggiustamenti endogeni ed efficienti all’ambiente operativo delle

imprese. I risultati dell’analisi non confermano però l’ipotesi di monitoring quando la

41 Vi è tuttavia una pratica diffusa di utilizzo che consiste nel prevedere clausole di lock up al fine di limitare l’evoluzione della struttura proprietaria all’IPO e nei periodi immediatamente successivi. Tali clausole comportano l’impegno a non compiere operazioni aventi ad oggetto le azioni dell’emittente detenute dagli insider.

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variabile dipendente in esame è “board independence”: l’ipotesi per cui il grado di

indipendenza del CdA rifletta un bilanciamento nei costi e benefici dell’attività di

monitoring dei manager non è verificata. Dall’analisi econometrica emerge che board size

e board independence dipendono da variabili o proxy relative alle opportunità

dell’impresa, ai costi di monitoring dei manager, all’influenza del Ceo e ai limiti di tale

influenza. Variabili come CEO ownership, firm age, numero di segmenti di business,

indice G, intensità della R&D e varianza del tasso di rendimento delle azioni sono rilevanti

sia statisticamente sia economicamente.

Complessivamente sembra emergere che i Consigli di Amministrazione delle società

crescono in dimensione (numero di amministratori) e nel grado di indipendenza (numero di

amministratori indipendenti sul totale degli amministratori che siedono nel CdA) al

crescere degli anni di vita e della complessità delle attività di business delle imprese.

Imprese di più grandi dimensioni, o con più anni di vita, hanno CdA più numerosi e con un

maggior numero di amministratori indipendenti; imprese nelle quali le opportunità dei

manager di appropriarsi di private benefit sono alte o in cui i costi di monitoring dei

manager sono contenuti hanno CdA più ampi; imprese in cui il management ha una

sostanziale influenza (e i limiti a tale influenza sono ridotti) hanno CdA con una bassa

percentuale di amministratori indipendenti. Board size e board independence sono quindi

determinati da un’ampia combinazione di caratteristiche societarie e manageriali a

confermare che essi emergono endogenamente come risultati dei processi competitivi nei

quali le imprese sono coinvolte.

3.3.2 Le determinanti della composizione dei CdA

Parbonetti (2006) analizza la dimensione e la composizione del board di 100 società

statunitensi42 appartenenti a differenti settori: banche commerciali, servizi di pubblica

utilità, semiconduttori, computer software, computer pheripherals, network e

telecomunicazioni. I settori banche commerciali e servizi di pubblica utilità sono

classificati come “non high tech”, in quanto caratterizzati da elevata complessità esterna e

42 Nella selezione del campione l’autore ha analizzato solo aziende statunitensi comprese nella classifica di Fortune 500, al fine di avere aziende omogenee per dimensione ed assetto istituzionale in modo da isolare gli effetti delle variabili oggetto di analisi sulla composizione del CdA.

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bassa interna; gli altri quattro settori, detti “high tech”, sono caratterizzati da elevata

complessità interna e bassa esterna43.

L’autore ritiene che, nell’analisi della configurazione del CdA, poco informativa sia la

distinzione tra amministratori esecutivi e non esecutivi (insider e outsider), sostenendo che

la caratteristica di indipendenza rileva ai soli fini del controllo del top management ma

nulla spiega dell’abilità degli amministratori nel supportare l’alta direzione nelle scelte

strategiche. Poiché gli amministratori non sono una categoria omogenea, risulta

maggiormente utile una classificazione degli stessi basata su competenze e ruoli che essi

possono svolgere all’interno del board. L’autore individua quindi 4 categorie44:

amministratori esecutivi (insiders); amministratori esecutivi di altre aziende (che apportano

capacità ed abilità di tipo manageriale - business experts); esperti in particolari ambiti (che

apportano specifiche competenze di tipo tecnico da integrare nell’ambito del processo

decisionale - support specialists) e rappresentanti di particolari categorie di stakeholders

(che apportano nel board il punto di vista di categorie di soggetti che appartengono

all’ambiente sociale e rivestono particolare rilievo per l’azienda - community influential).

Si transita così da un’attenzione focalizzata sulle funzioni del CdA a un’attenzione alle

condizioni che permettono al CdA un adeguato svolgimento dei compiti ai quali è

preposto.

Gli obiettivi che si pone l’autore consistono nell’analizzare come si modifica lo

svolgimento dei ruoli assegnati al board in relazione alle differenti condizioni di

operatività (ovvero alla differente tipologia di complessità esterna / interna) e al livello di

complessità (alta / bassa), nonché nel comprendere come la presenza di amministratori

appartenenti ai quattro differenti gruppi sia più o meno adeguata in funzione delle

caratteristiche delle società. L’autore formula 4 ipotesi relative alla composizione dei CdA:

A. le società che operano in settori che presentano alta complessità interna e bassa

complessità esterna hanno una proporzione maggiore di amministratori esecutivi rispetto

alle società che operano in settori caratterizzati da bassa complessità interna ed elevata

complessità esterna;

43 La scelta dei settori e delle imprese è determinata dalla necessità di individuare gli effetti che una elevata complessità interna o esterna possono avere sulla composizione del Consiglio di Amministrazione; l’autore ha pertanto escluso situazioni caratterizzate da elevata o bassa complessità sia interna sia esterna. 44 Tale classificazione è stata realizzata attraverso la lettura e analisi delle biografie e dei curricula degli amministratori delle società che costituiscono il campione oggetto di analisi.

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B. le società che operano in settori caratterizzati da alta complessità interna e bassa

complessità esterna hanno una proporzione minore di business expert rispetto alle società

che operano in settori caratterizzati da elevata complessità esterna e bassa complessità

interna;

C. le società che operano in settori che presentano alta complessità interna e bassa

complessità esterna hanno una proporzione maggiore di support specialist rispetto alle

società che operano in settori caratterizzati da elevata complessità esterna e bassa

complessità interna;

D. le società che operano in settori caratterizzati da alta complessità interna e bassa

complessità esterna hanno una proporzione minore di community influential rispetto alle

società che operano in settori caratterizzati da elevata complessità esterna e bassa

complessità interna.

L’ipotesi che si vuole verificare è che all’interno dei due gruppi “high tech” e “non high

tech” la composizione del CdA sia omogenea, mentre differisca tra le società dei 2 gruppi.

Viene confrontata quindi la composizione del board delle banche con quella delle utilities,

attraverso la verifica dell’ipotesa nulla: l’autore ha confrontato le proporzioni medie di

ciascuna categoria di amministratori per testare la significatività delle differenze esistenti,

seguendo quattro test di ipotesi nulla, uno per ciascuna categoria di amministratori:

H0 a) proporzione media di insider nelle banche = proporzione media di insider nelle

utilities;

H0 b) proporzione media di business expert nelle banche = proporzione media di business

expert nelle utilities;

H0 c) proporzione media di support specialists nelle banche = proporzione media di

support specialists nelle utilities;

H0 d) proporzione media di community influential nelle banche = proporzione media di

community influential nelle utilities.

In seconda battuta ha confrontato la composizione del board all’interno del gruppo “high

tech”. In questo caso le quattro ipotesi nulle sottoposte a test sono:

H0 e) proporzione di ciascuna categoria di amministratori nei semiconduttori =

proporzione di ciascuna categoria di amministratori nelle telecomunicazioni =

proporzione di ciascuna categoria di amministratori nelle aziende di computer software =

proporzione di ciascuna categoria di amministratori nelle società di computer peripherals.

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Successivamente ha analizzato e confrontato la composizione del board tra tutte le società

oggetto di analisi:

H0 f) proporzione di ciascuna categoria di amministratori nei semiconduttori =

proporzione di ciascuna categoria di amministratori nelle telecomunicazioni =

proporzione di ciascuna categoria di amministratori nelle società di computer software =

proporzione di ciascuna categoria di amministratori nelle società di computer peripherals

= proporzione di ciascuna categoria di amministratori nelle banche = proporzione di

ciascuna categoria di amministratori nelle utilities.

Infine ha realizzato un’analisi di regressione tesa a verificare che le differenze riscontrate

nella composizione dei CdA siano dovute alle condizioni di operatività aziendale. Per

verificare la rilevanza del livello e della tipologia di complessità nello spiegare le

differenze nella configurazione del CdA di aziende che operano in settori differenti, il

modello di regressione adottato è il seguente:

Proporzione di ciascuna categoria di amministratori = α + β1 dummy complessità + β2 Log Market Value + β3 Cash Flow + β4 Leverage + β5 MTB + β6 number board member + β7 CEO_own + ε

I risultati dell’analisi di regressione confermano la rilevanza della tipologia e del livello di

complessità sulla configurazione del CdA. Emerge una relazione positiva tra elevata

complessità esterna e bassa interna e proporzione di insider e support specialist e una

relazione negativa tra le stesse variabili di complessità e la proporzione di business expert e

community influential. Questi risultati confermano l’idea che l’adeguata configurazione del

CdA muti in relazione alle condizioni di operatività delle aziende. L’esito e il

suggerimento di questo lavoro consistono quindi in una classificazione degli

amministratori in funzione delle competenze (fondamentale per una valutazione

complessiva dei diversi ruoli svolti dal CdA) e nel testare la relazione tra governance e

performance tenendo presenti le condizioni di operatività.

Baglioni (2008) considera i meccanismi di corporate governance una risposta degli attori

societari alla questione della separazione tra proprietà e controllo. In particolare l’autore

costruisce un modello teorico attraverso il quale si concentra sull’estrazione di private

benefit da parte degli azionisti di controllo in società che emettono capitale azionario.

Sottolinea inizialmente due ordini di problemi: un problema di moral hazard, generato

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dall’abilità dei manager e degli amministratori esecutivi di estrarre private benefit45 (da cui

ha origine il ruolo di monitoring degli amministratori indipendenti sulle decisioni del

management che potrebbero non essere in linea con la massimizzazione del valore

societario) e un lemon problem, che emerge quando differenti tipologie di imprese

emettono capitale azionario (gli investitori non sono in grado di distinguere tra imprese in

cui l’opportunità di estrarre private benefit è alta e imprese nelle quali tale possibilità è

contenuta). Gli investitori esterni possono infatti solo disporre di indicatori indiretti della

possibilità di estrarre private benefit, quali il FCF, la complessità e la dimensione

dell’organizzazione dell’impresa, ma non possiedono informazioni accurate come quelle

degli amministratori esecutivi.

Considerando il caso in cui gli imprenditori proprietari dell’impresa conoscono la propria

qualità che non è però osservata dagli investitori (caso di “informazione nascosta”) l’autore

mostra la presenza di “cross subsidization” in equilibrio: gli imprenditori di buona qualità

sopportano parte dei costi derivanti dall’estrazione di private benefit a opera degli

imprenditori di bassa qualità. Gli imprenditori di buona qualità conseguono quindi un più

basso livello di utilità rispetto al caso di informazione completa, mentre quelli di cattiva

qualità detengono un livello di utilità più alto rispetto al caso di piena informazione.

Nel caso di disciplina di diritto societario che impone l’adozione di un’istituzione di

corporate governance46, in equilibrio si ottiene ancora “cross subsidization”. Introducendo

invece nel modello un’istituzione di corporate governance discrezionale47 che impedisce

all’azionista dominante di appropriarsi di private benefit si ottiene che gli imprenditori di

buona qualità non sussidiano quelli di cattiva qualità. Ciò che rileva in tale caso è il

differente costo dell’adozione dell’istituzione di corporate governance non obbligatoria:

per gli imprenditori di buona qualità non costa nulla, mentre quelli di cattiva qualità

dovrebbero sopportare dei costi in caso di implementazione. Nel modello si ottiene un

equilibrio separating solo se gli imprenditori detengono un’elevata quota di capitale

azionario: l’istituzione di corporate governance è adottata infatti dalle imprese nelle quali

gli amministratori esecutivi non consumano private benefit (sono di qualità definita buona)

e in questo caso effettivamente l’adozione su base volontaria dell’istituzione di corporate

45 L’informazione riguardante i private benefit è tipicamente non verificabile o troppo complessa per essere descritta in dettaglio, perciò non è possibile prescrivere contrattualmente uno specifico livello di private benefit e questo determina il problema di moral hazard. 46 L’autore definisce questo caso “regulation”. 47 L’autore definisce questo caso “self regulation”.

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governance è uno strumento di separazione in quanto segnala il tipo di impresa (di buona o

cattiva qualità), o dalle imprese in cui gli amministratori esecutivi dispongono di elevati

livelli di private benefit detenendo una piccola quota di capitale azionario - e in questo

caso l’adozione su base volontaria dell’istituzione di corporate governance è uno

strumento di commitment, poiché vincola a contenere l’estrazione di private benefit.

Infine, in caso di self regulation l’equilibrio che si ottiene domina l’equilibrio di regulation

(i pay off dell’impresa emittente sono leggermente superiori nel primo caso rispetto al

secondo).

Sulla base dei risultati ottenuti si può affermare che la relazione tra concentrazione

proprietaria e applicazione volontaria delle istituzioni di corporate governance è negativa:

laddove gli incentivi degli amministratori esecutivi sono più allineati a quelli degli

azionisti, l’importanza di introdurre questi meccanismi si riduce. L’adozione di istituzioni

di corporate governance che limitano l’estrazione di private benefit dovrebbe essere una

scelta volontaria delle imprese e non imposta dalla legge48: solamente in un equilibrio di

libero mercato alcune imprese sono in grado di distinguersi dalle altre strutturando la

corporate governance in modo da segnalare la propria qualità.

3.4 Il ruolo degli amministratori indipendenti

Il dibattito sul ruolo degli amministratori indipendenti quali controllori delle tendenze del

management a perseguire i propri interessi personali risale a Fama e Jensen (1983),

secondo i quali la struttura ottimale del CdA richiede amministratori esecutivi, affiancati

da amministratori non esecutivi che dovrebbero adoperarsi con particolare sollecitudine

intervenendo quando è necessario assumere decisioni strategiche. Gli amministratori non

esecutivi, dovrebbero infatti essere in grado di trattare e risolvere questioni che

coinvolgono potenziali conflitti di interesse tra i manager e gli azionisti, avendo una

minore probabilità di essere coinvolti in accordi collusivi con il management (non avendo

particolari legami con la società) al fine di espropriare gli azionisti.

48 Le istituzioni di corporate governance rappresentano risposte specifiche alle caratteristiche delle imprese, perciò l’imposizione di regole uniformi non è efficiente.

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Shleifer e Vishny (1997) sottolineano proprio l’importanza dei meccanismi volti a limitare

l’estrazione di ricchezza (i cosiddetti private benefit) a danno degli azionisti. Tale

operazione, posta in essere da soggetti che rivestono posizioni che consentono loro di

esercitare di fatto il controllo della società, può assumere diverse forme: i private benefit

possono essere di natura psicologica (ovvero il prestigio derivante dal ricoprire posizioni di

vertice di grandi imprese), ma possono anche comportare l’estrazione di ricchezza a spese

della minoranza degli azionisti esterni, ad esempio attraverso il trasferimento di asset a

prezzi inferiori a quelli di mercato (dalla società in favore degli amministratori esecutivi).

Questo tema è di importanza non trascurabile in quanto lo sviluppo finanziario, reso

possibile dagli investimenti che apportano fondi alle società è seriamente ostacolato in

assenza di garanzie contro l’espropriazione degli investitori esterni.

Molti contributi considerano gli amministratori indipendenti uno dei principali strumenti

contro l’espropriazione a danno degli azionisti e per tale ragione la loro presenza è

raccomandata dai codici nazionali di corporate governance e dalle istituzioni

sovranazionali.

Nello stesso filone di ricerca, Lorsch e MacIver (1989) affermano che gli amministratori

indipendenti, per la posizione che ricoprono, sono in grado di valutare e monitorare

l’attività dell’impresa; Byrd e Hickman (1992) osservano che gli amministratori

indipendenti sono responsabili della protezione e della promozione degli interessi degli

azionisti di minoranza ed infine Millstein (1993) definisce “tensione costruttiva” la

relazione che si instaura tra azionisti e amministratori e tra amministratori e manager nel

caso in cui l’indipendenza di parte del CdA sia credibile.

Secondo Black (2001), gli amministratori indipendenti rappresentano istituzioni utili a

sostenere gli azionisti nell’identificazione dei problemi di trasparenza e diffusione delle

informazioni. Il ruolo degli amministratori indipendenti è considerato particolarmente

rilevante in quanto, essendo parte integrante del CdA, essi possono avere una più completa

visione dell’operato del management.

Eckbo (2005) sostiene la necessità di un sistema di corporate governance rigoroso che

impedisca l’espropriazione dei diritti degli azionisti da parte degli amministratori esecutivi.

Drago, Santella e Paone (2006) propongono di verificare l’effettiva presenza di

amministratori indipendenti nei Consigli di Amministrazione delle società quotate

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italiane49. Essi considerano 284 amministratori50, membri dei Consigli di Amministrazione

di 40 società italiane quotate al dicembre 2004, facenti parte per capitalizzazione di borsa

dell’indice S&P/MIB51. L’analisi empirica è condotta sulla base dei documenti societari

riferiti all’anno 2003, pubblicati dalle imprese stesse e resi disponibili sui siti internet delle

singole imprese o sui siti della Borsa italiana e della Consob.

La prospettiva di indagine scelta dagli autori è quella di un investitore esterno che si trova,

o potrebbe trovarsi, in una posizione che gli consenta, in qualche misura, di verificare

l’esistenza di criteri di indipendenza citati dal codice di corporate governance che la

società dichiara di adottare.

Gli standard di indipendenza presi come riferimento sono quelli forniti dal Codice italiano

sulla corporate governance (Codice Preda) e dalle Raccomandazioni europee del 15

febbraio 2005 sul ruolo degli amministratori non esecutivi e di controllo e rappresentano

una proxy della best practice a livello internazionale. Entrambi i documenti contengono

norme non vincolanti: il Codice Preda prevede che, annualmente, tutte le società quotate

italiane, presentino un report sulla corporate governance indicando se e in quale misura

esse aderiscono ai principi del Codice Preda stesso; questo sistema è noto come il principio

del “comply or explain”, adottato anche dalle Raccomandazioni europee, che si

concentrano sul ruolo degli amministratori non esecutivi e preposti a funzioni di vigilanza,

in aree dove gli amministratori esecutivi potrebbero avere conflitti di interesse e includono

standard minimi per le qualificazioni, le responsabilità e l’indipendenza degli

amministratori stessi.

L’adozione di una duplice disciplina relativamente alla figura degli amministratori

indipendenti consente di prendere in considerazione le specificità italiane in materia di

corporate governance e nello stesso tempo il processo di convergenza in corso tra i sistemi

di corporate governance europei. Dall’analisi delle dichiarazioni delle società in merito al

49 Generalmente gli studi esistenti riportano il grado di indipendenza dei CdA ma sulla base delle qualificazioni di indipendenza ad opera delle imprese stesse, non esistendo indagini sistematiche che si occupano dell’effettività degli standard di indipendenza che le società dichiarano di presentare. 50 Di questi 284 amministratori, dieci ricoprono un duplice ruolo in Consigli di Amministrazione di società appartenenti all’indice S&P/MIB. 51 L'indice S&P/MIB misura la performance di quaranta azioni quotate sui mercati organizzati e gestiti da Borsa Italiana e mira a replicare la rappresentazione settoriale dell'intero mercato. L'indice offre una completa rappresentazione del tessuto economico, classificando i titoli in dieci settori di mercato. Sono compresi Beni di Consumo Discrezionali, Beni di Consumo di Prima Necessità, Energia, Finanziari, Sanità, Industriali, Informatica, Materiali, Servizi di telecomunicazioni e Servizi Pubblici.

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rispetto dei principi e criteri di indipendenza contenuti nei due Codici presi come

riferimento emerge che la percentuale di adozione dei principi è molto bassa; solo per 5 dei

284 amministratori che si dichiarano indipendenti delle 40 società oggetto d’esame è

possibile verificare l’adesione a tutti e 5 i criteri di indipendenza sanciti nel Codice Preda e

solo per 18 dei 284 amministratori è possibile verificare l’adesione a 4 dei 5 criteri di

indipendenza del Codice Preda. Con riferimento invece alle Raccomandazioni europee, per

solo 4 amministratori su 284 è possibile verificare l’adesione a tutti gli 11 criteri di

indipendenza. Vi è inoltre una significativa percentuale di amministratori per i quali esiste,

o è verificata, la possibilità che essi siano membri dei CdA da molti anni per cui la loro

indipendenza di giudizio ne sia pregiudicata. Infine vi sono alcuni amministratori che

svolgono un ruolo ausiliario rispetto agli azionisti di controllo. In quasi tutti i casi le

affermazioni delle società o contraddicono la presunta indipendenza degli amministratori o

non consentono di verificarla: la comunità finanziaria o l’opinione pubblica in generale

dovrebbero colmare tale lacuna e verificare che le previsioni del Codice Preda siano

applicate. Un’alternativa valida è rappresentata da controlli che potrebbero essere realizzati

dalla Borsa italiana o da altra autorità (per esempio la Consob) sulle dichiarazioni delle

imprese in merito agli amministratori indipendenti societari e sulla loro possibilità di

comminare sanzioni quando necessario.

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CAPITOLO 4

ANALISI EMPIRICA: IL DATABASE

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4.1 Il database

Il dataset utilizzato per le analisi empiriche condotte nella tesi è costituito dalle società

quotate alla Borsa Valori di Milano (e tenute a comunicare alla Consob52 i dati relativi alle

partecipazioni azionarie superiori al 2%) per gli anni compresi tra il 2004 e il 2007.

Sono stati raccolti dati:

–sulla struttura proprietaria delle imprese (dal sito della Consob, sezione “Emittenti -

Società quotate - azionariato”);

–relativi alla configurazione dell’assetto di governo societario (dimensione e composizione

del CdA, presenza di Comitati interni al CdA e loro consistenza, eventuali altri meccanismi

di governo societario implementati). A tale scopo sono state esaminate le Relazioni sulla

corporate governance di tutte le società quotate italiane nel quadriennio considerato53,

pubblicate sul sito della Borsa Italiana nella sezione “Documenti – Società quotate –

Corporate governance società quotate”;

–di bilancio e di performance societaria per gli anni 2004 – 2007, consultando le banche

dati Datastream e Aida.

Si sono inoltre rilevati la sede geografica e il numero di anni di esistenza delle società,

dalla consultazione del “Calepino dell’Azionista”, pubblicazione annuale di Mediobanca.

Dall’insieme di tutte le società italiane quotate nell’arco di tempo considerato si è costruito

un campione di imprese per le quali si dispone di informazioni complete sull’assetto di

governo societario. Il campione così ottenuto è costituito da 187 società per il 2004, 201

per il 2005, 254 per il 2006 e 261 società per l’anno 2007. Ai fini delle analisi

econometriche presentate nel Capitolo 6 si è considerato, oltre a tale campione sbilanciato

di imprese, un panel formato da 157 società quotate.

52 Le comunicazioni alla Consob relative alla trasparenza societaria sono diffuse al pubblico ai sensi dell’art. 120 del d.lgs. 58/98, Testo Unico della Finanza. 53 Tale lavoro di ricerca è stato condotto nel primo semestre del 2008, considerando le Relazioni sulla corporate governance disponibili sul sito della Borsa Italiana in quell’arco di tempo.

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4.1.1 La classificazione per settori

La classificazione adottata per l’attribuzione di ciascuna impresa ad uno specifico settore

industriale è quella realizzata dall’ICB Universe Data Service. L’ICB Industry Code

fornisce 4 livelli di classificazione (e quindi un codice di 4 cifre) del settore industriale in

cui operano le imprese, sulla base dell’output realizzato da ciascuna impresa. Nel

complesso, tale classificazione individua: 10 industrie (industry), 18 supersettori

(supersector), 39 settori (sector) e 104 sottosettori (subsector)54.

Oltre alla classificazione sopramenzionata, si è utilizzato il Codice Ateco55 secondo la

classificazione dell’anno 2002. La classificazione delle attività economiche ATECO è la

classificazione adottata dall'Istituto Nazionale di Statistica italiano (ISTAT) per le

rilevazioni statistiche nazionali di carattere economico ed è la traduzione italiana della

nomenclatura delle Attività Economiche (NACE) creata dall'Eurostat, adattata dall'ISTAT

alle caratteristiche specifiche del sistema economico italiano.

La classificazione ATECO 2002 è stata introdotta a distanza di 9 anni ad aggiornamento

della ATECO 1991; si sviluppa in cinque livelli di dettaglio: sezioni (codifica: 1 lettera),

sottosezioni (due lettere), divisioni (2 cifre), gruppi (3 cifre), classi (4 cifre) e categorie (5

cifre). Nell’anno 2007 sono state apportate nuove e ulteriori modifiche, che hanno

determinato la classificazione ATECO 2007: si tratta di una classificazione alfa-numerica

con 6 diversi gradi di dettaglio: le lettere indicano il macro-settore di attività economica,

mentre i numeri (che vanno da due fino a sei cifre) rappresentano, con differenti livelli di

dettaglio, le articolazioni e le disaggregazioni dei settori stessi. Le varie attività

economiche sono raggruppate, dal generale al particolare, in sezioni (codifica: 1 lettera),

divisioni (2 cifre), gruppi (3 cifre), classi (4 cifre), categorie (5 cifre) e sotto categorie (6

cifre).

In questa sede si è adottata la classificazione ATECO nella versione del 2002 in quanto il

campione di imprese considerato è riferito agli anni 2004-2007, anni nei quali era in vigore

54 Il dataset utilizzato in questo lavoro considera il livello di disaggregazione più ampio, suddividendo le imprese in dieci industrie: in questo modo le regressioni nelle quali si controlla per la variabile “settore industriale” presentano un numero di osservazioni significativo. Per ogni impresa si è comunque indicato il sottosettore di appartenenza e il codice ICB di 4 cifre, giungendo quindi al massimo livello di disaggregazione. 55 La classificazione secondo il Codice Ateco è stata ottenuta dalla Banca dati Aida.

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la versione del 2002; peraltro l’elenco sistematico dei codici ATECO per le società quotate

italiane disponibile presso la banca dati Aida è nella versione 2002.

In Tabella 4.1 è indicato il numero di imprese (del campione sbilanciato) che rientrano in

ciascun settore industriale sulla base della Classificazione Ateco per i quattro anni oggetto

di indagine:

SETTORE NUMERO IMPRESE PER SETTORE

Anno 2004 Anno 2005 Anno 2006 Anno 2007

Agricoltura 1.07% 1.00% 0.79% 0.77%

Estrazione di minerali 1.07% 1.00% 0.79% 0.77%

Attività manifatturiere 34.76% 33.33% 35.04% 35.25%

Public utilities56 3.21% 2.99% 2.76% 2.68%

Costruzioni 4.28% 3.98% 4.33% 4.60%

Commercio 5.88% 7.96% 7.09% 6.90%

Alberghi e ristoranti 1.07% 1.00% 1.18% 0.77%

Trasporti 5.35% 7.96% 6.30% 6.13%

Attività finanziarie 21.93% 22.39% 20.87% 21.46%

Attivita' immobiliari57 17.65% 14.93% 17.32% 18.39%

Istruzione

0.53% 0.50% 0.39% 0.38%

Altri servizi pubblici, sociali e personali

3.21% 2.99% 3.15% 1.92%

TOTALE 100% 100% 100% 100%

Tabella 4.1. Classificazione delle imprese che costituiscono il dataset per l'analisi econometrica in

funzione del settore industriale di appartenenza. Sebbene la numerosità dei quattro campioni sia differente e crescente negli anni, la

distribuzione delle imprese nei settori industriali e negli anni è pressoché omogenea.

56 La classificazione Ateco indica tale settore “Produzione e distribuzione di energia elettrica, gas e acqua”. 57 La classificazione Ateco riporta “Attività immobiliari, noleggio, informatica, ricerca e servizi alle imprese”.

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Sulla base di questa classificazione si sono create inoltre quattro variabili dummy settoriali,

suddividendo le società che operano nel settore primario (agricoltura ed estrazione di

minerali), le società che operano nel comparto manifatturiero (attività manifatturiere e

costruzioni), le società che svolgono attività finanziarie e infine le società che operano nel

settore terziario (produzione e distribuzione di energia elettrica, gas e acqua; commercio

all’ingrosso e al dettaglio; alberghi e ristoranti; trasporti, magazzinaggio e comunicazioni;

attività immobiliari, noleggio, informatica, ricerca e servizi alle imprese; istruzione e altri

servizi pubblici, sociali e personali).

4.1.2 La concentrazione industriale

Sulla base della classificazione ATECO 2002, utilizzando i dati Istat58 (a livello di

divisione di attività economica per le attività industriali e i servizi), si è calcolato l’Indice

di concentrazione di Herfindahl-Hirschman (HHI)59. Si tratta di un indice sintetico della

concentrazione dei settori industriali, calcolata tenendo presente due diverse grandezze: la

numerosità e la disuguaglianza delle imprese che operano nel settore considerato.

Per il calcolo dell’Indice di Herfindahl-Hirschman (HHI)

HHI =∑=

n

iix

1

2 , con

∑=

=n

ii

ii

X

Xx

1

si è utilizzata come variabile iX il “Valore Aggiunto60” (dai dati pubblicati dall’Istat

relativamente all’anno 2005, riguardanti le imprese industriali e i servizi, scomposte in

funzione del numero di addetti61); xi è il valore medio del “Valore aggiunto” (per ogni

58 “Competitività per classi di addetti_2005” dell’Istat, gli ultimi dati disponibili sul sito dell’Istat. 59 La variabile più comunemente utilizzata per misurare la struttura di mercato di un settore industriale è il rapporto di concentrazione delle prime quattro imprese (C4) oppure il C8, rapporto di concentrazione delle prime otto imprese presenti sul mercato; in alternativa si usa una funzione di tutte le quote di mercato delle singole imprese: l’indice HHI. 60 Si è scelto di adottare la variabile “Valore Aggiunto”, preferendola alla variabile “Fatturato”, in quanto quest’ultimo potrebbe risentire di problemi legati a differenze di integrazione verticale tra le imprese considerate. Nel caso in cui tra le imprese del campione ci fossero ampie diversità in merito all’organizzazione del processo produttivo (internalizzazione vs esternalizzazione delle fasi del processo produttivo) la variabile che consente di correggere questa distorsione è il valore aggiunto. 61 I raggruppamenti per “classi di addetti” prevedono 5 gruppi: classe di imprese di 1-9 addetti; classe 10-19 addetti; classe 20-49 addetti; classe 50-249 addetti; classe con imprese oltre 250 addetti.

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settore industriale, la variabile xi è ottenuta dal rapporto che presenta al numeratore la

media del valore aggiunto delle imprese raggruppate per “classe di addetti” e al

denominatore il valore aggiunto totale delle imprese di tutte le classi di addetti).

SETTORE INDUSTRIALE INDICE DI HERFINDAHL -HIRSCHMAN

Fabbricazione di mobili HHI = 3.41515E-05

Costruzioni HHI = 3.81396E-05

Commercio all’ingrosso HHI = 8.92982E-05

Attività professionali e imprenditoriali HHI = 9.53645E-05

Attività immobiliari HHI = 0.000100323

Commercio, manutenzione e riparazione di autoveicoli

HHI = 0.000100809

Fabbricazione e lavorazione dei prodotti in metallo

HHI = 0.000119058

Sanità HHI = 0.000129235

Commercio al dettaglio HHI = 0.000164711

Alberghi e ristoranti HHI = 0.000250786

Altre attività dei servizi HHI = 0.000456612

Istruzione HHI = 0.00051901

Tabella 4.2. I settori meno concentrati

Poiché si ritiene che nell’arco del quadriennio considerato la variazione della

concentrazione settoriale sia stata di entità contenuta62, l’indice di Herfindahl-Hirschman,

sebbene calcolato sulla base dei dati relativi al 2005 (gli ultimi dati forniti dall’Istat) è stato

adottato e inserito nelle analisi di regressione per tutti e quattro gli anni oggetto d’analisi

(dal 2004 al 2007).

Si ritiene generalmente che la facilità di entrata favorisca una minore concentrazione e che

il settore agricolo, dei servizi, del commercio al dettaglio e all’ingrosso e il settore delle 62 Non si dispongono dati circa la concentrazione del settore finanziario, poiché non disponibili nel file “Competitività per classi di addetti_2005” dell’Istat.

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attività manifatturiere siano caratterizzati da una modesta concentrazione. I risultati del

calcolo dell’Indice HHI confermano tale affermazione: per la maggior parte dei settori

industriali citati i valori riscontrati sono particolarmente bassi63.

Ordinando i settori sulla base del grado di concentrazione, ai primi posti (tra le industrie

meno concentrate) figurano i settori elencati in Tabella 4.2. Sono i settori dei servizi

(attività professionali e imprenditoriali, sanità, istruzione, alberghi e ristoranti), del

commercio al dettaglio e all’ingrosso, delle costruzioni, delle attività immobiliari a

presentare valori più bassi dell’Indice HHI. Per quanto riguarda i settori legati alla

produzione industriale, vi sono quelli relativi alla produzione di mobili, al commercio,

manutenzione e riparazione di veicoli e infine alla fabbricazione e lavorazione di prodotti

in metallo.

SETTORE INDUSTRIALE INDICE DI HERFINDAHL -HIRSCHMAN

Fabbricazione di autoveicoli HHI = 0.005718547

Noleggio di macchinari e attrezzature senza operatore e di beni per uso personale e

domestico

HHI = 0.006971517

Fabbricazione di macchine per ufficio HHI = 0.007726603

Fabbricazione di apparecchi radiotelevisivi HHI = 0.008013709

Fabbricazione di altri mezzi di trasporto HHI = 0.011624869

Produzione di energia elettrica HHI = 0.015238429

Raccolta, depurazione e distribuzione d'acqua

HHI = 0.015245308

Trasporti marittimi e per vie d’acqua HHI = 0.017810148

Trasporti aerei HHI = 0.02590411

Poste e telecomunicazioni HHI = 0.036701439

Fabbricazione di coke, raffinerie di petrolio HHI = 0.04116982

Estrazione di minerali HHI = 0.169108324

Tabella 4.3. I settori maggiormente concentrati

63 Vi è una sola eccezione riguardante il settore “estrazione di minerali”: dai calcoli si ottiene un valore dell’Indice HHI pari a 0.1691

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I settori industriali maggiormente concentrati sono quelli illustrati nella Tabella 4.3. In

particolare, i settori legati alla produzione industriale di autoveicoli e mezzi di trasporto in

generale, di macchine e apparecchiature, i settori dei servizi di trasporto aereo e

marittimo/fluviale, di noleggio di attrezzature e di comunicazione (poste e

telecomunicazioni) e infine i settori legati all’estrazione, produzione e distribuzione di

materie prime (energia elettrica, acqua, coke, petrolio e minerali) si dimostrano quelli

“relativamente” maggiormente concentrati, con un intervallo di variazione dell’Indice HHI

che va da 0.005718 a 0.169108.

E’ necessario considerare però che molte misure di concentrazione possono essere distorte

a causa di improprie definizioni di mercato, troppo ampie o troppo ristrette64. Affinché la

concentrazione industriale sia un indicatore significativo dell’ambiente competitivo in cui

si colloca l’impresa, ci si deve riferire alla nozione di mercato rilevante65, finalizzata a

individuare i principali concorrenti e in generale i vincoli competitivi all’azione delle

imprese oggetto di indagine. Non è stato peraltro possibile, per assenza di dati sistematici,

effettuare il calcolo dell’Indice di Herfindahl-Hirschman considerando un livello di

disaggregazione più dettagliato rispetto al livello “divisioni” qui utilizzato.

4.1.3 La quotazione di borsa

Un ulteriore criterio adottato per la classificazione delle società riguarda il segmento

borsistico d’appartenenza delle imprese in funzione della capitalizzazione di mercato

(valore minimo: un milione di euro). Il dato utilizzato riguarda la capitalizzazione delle

società quotate sulla Borsa alla fine del mese di dicembre di ogni anno oggetto d’indagine.

Borsa Italiana S.p.A. regolamenta e gestisce i mercati italiani azionari: Mercato Telematico

Azionario (MTA) e Mercato Expandi.

I segmenti del Mercato Telematico Azionario nei quali le imprese sono inserite sono:

64 Le misure di concentrazione possono anche essere distorte perché ignorano importazioni ed esportazioni. 65 La definizione di mercato rilevante si basa sostanzialmente sull’analisi di due tipi di sostituibilità. Dal lato della domanda comporta l’individuazione dei prodotti sostituti per gli acquirenti-consumatori, che essi potrebbero acquistare in caso di incrementi di prezzo dei prodotti delle imprese investigate; dal lato dell’offerta si individuano i concorrenti potenziali che potrebbero agevolmente entrare sul mercato, in caso di aumenti dei prezzi. Il mercato rilevante è definito da due componenti: il mercato del prodotto che include tutti i prodotti tra loro sostituti e il mercato geografico, ovvero l’area entro la quale si realizzano i rapporti di sostituibilità tra prodotti.

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1. Blue Chip (SBC): accoglie tutte le società appartenenti all'indice Mib30 e le altre società

con capitalizzazione superiore a 1 miliardo di Euro.

2. Star (SS): Segmento Titoli ad Alti Requisiti, dedicato a società con capitalizzazione pari

o superiore a 40 milioni di euro e inferiore a 1 miliardo di euro, che rispondono a requisiti

specifici in termini di liquidità, trasparenza e corporate governance.

3. Standard 1 e Standard 2 (SS1, SS2): il segmento di Borsa Ordinario accoglie tutte le

società con capitalizzazione inferiore a 1 miliardo di Euro, non appartenenti al segmento

Star. Il segmento si divide in 2 classi di negoziazione sulla base della frequenza degli

scambi e del controvalore medio giornaliero negoziato nel semestre precedente. All'atto di

ammissione a quotazione le società vengono classificate nella "classe 1".

4. Investment Companies66 (IC): si tratta di società per azioni che svolgono in via

prevalente attività di investimento e/o locazione in campo immobiliare.

Alle azioni quotate sul MTA si aggiungono le azioni appartenenti a società di dimensioni

più piccole quotate sul Mercato Expandi che ha requisiti di ammissione più semplici e un

processo di quotazione più agile. Il Mercato Expandi è un mercato disegnato infatti per le

società di piccole dimensioni che vogliono reperire nuovi capitali minimizzando il costo e i

tempi della quotazione e raccogliere capitali in diverse fasi in base a piani industriali

“meno aggressivi”. La capitalizzazione minima è 1 milione di Euro.

4.2 Le variabili che compongono il dataset

Le variabili rilevate per ciascuna impresa sono raggruppabili in tre distinte categorie:

• variabili riguardanti la concentrazione proprietaria aziendale, rilevate dall’analisi

delle Relazioni sulla corporate governance;

• variabili economico-finanziarie, ottenute dalle banche dati “Datastream” e “Aida”;

• variabili di corporate governance, desunte dalle Relazioni sulla corporate

governance.

66 La disciplina di listing per le Real Estate Investment Companies (REIC) nel mercato Expandi è stata introdotta con l’approvazione da parte della Consob delle modifiche al Regolamento dei Mercati deliberate dall’Assemblea degli Azionisti di Borsa Italiana nella seduta del 26 aprile 2007.

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4.2.1 La concentrazione proprietaria aziendale

Le società che fanno ricorso al mercato regolamentato per finanziare le proprie attività sono

ovviamente società “aperte” alla presenza di azionisti di minoranza (azionisti diffusi o azionisti

rilevanti). Gli assetti di controllo sono pertanto almeno potenzialmente dinamici, in quanto

l’esistenza di un mercato strutturato e regolamentato per scambiare azioni consente di

acquistare e cedere sia quote di minoranza, sia pacchetti di controllo.

Dai file disponibili sul sito della Consob relativi alle quote azionarie67 delle società quotate

italiane sono stati rilevati:

� il numero di azionisti rilevanti, ovvero gli azionisti che detengono più del 2% del

capitale sociale (azioni con diritto di voto)68;

� la percentuale totale di capitale sociale detenuta da tutti gli azionisti rilevanti;

� le quote azionarie (in percentuale sul totale del capitale sociale) detenute dai primi

3 azionisti, nonché quelle detenute singolarmente dal primo, dal secondo e dal terzo

azionista rilevante;

� la tipologia del primo e secondo azionista rilevante: a tal proposito si è distinto tra

soggetto privato (P), società (SS, SA, SAPA, SRL, SPA), istituto finanziario69 (IF),

pubblica Amministrazione (PA) e fondazione (F);

� la presenza di proprietà familiare e nel caso la quota posseduta dalla famiglia70.

Non sono stati invece raccolti dati circa la quota azionaria detenuta dal CEO e quella

complessiva o media posseduta dagli amministratori facenti parte del Consiglio di

Amministrazione (rispettivamente CEO’s ownership e board members’ ownership), in

quanto incompleti o totalmente assenti nelle Relazioni sulla corporate governance.

Nelle analisi econometriche che saranno condotte, l’inserimento di variabili di controllo

relative alla concentrazione della proprietà azionaria permetterà di valutare l’esistenza di

un eventuale impatto negativo della presenza di una struttura azionaria maggiormente

67 Le quote azionarie considerate si riferiscono alle quote possedute dagli azionisti rilevanti alla fine di ogni anno del quadriennio considerato. 68 A tale scopo si è adottato il metodo tradizionale, che guarda al soggetto che è presente nell’azionariato della società e ne misura la partecipazione detenuta in termini di quota di diritti di voto. Un altro approccio perseguibile si occupa di identificare l’azionista al vertice della catena di controllo (ultimate shareholder). 69 All’interno della categoria “istituto finanziario” sono state considerate le banche, le assicurazioni e le società finanziarie 70 La categoria comprende sia i singoli individui, sia i membri di una stessa famiglia; il controllo viene attribuito ad una persona fisica anche nei casi in cui le azioni siano detenute da una fiduciaria o da una finanziaria.

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concentrata, nonché la volontà dei principali azionisti di condizionare le decisioni di

governo economico delle imprese e l’effettiva possibilità di creare separazione tra

proprietà e controllo. L’effettiva separazione tra proprietà e controllo si realizza infatti

pienamente quando gli azionisti affidano la gestione dell’impresa a manager professionisti

che non possiedono partecipazioni significative nel capitale di rischio.

Nel caso in cui il capitale sia molto frazionato, ovvero gli azionisti siano molto numerosi,

si crea peraltro la possibilità che si verifichino fenomeni di opportunismo manageriale. Da

un lato i piccoli investitori non hanno l’incentivo e le competenze per esercitare

un’efficace attività di controllo sull’operato del management, dall’altro i manager, non

avendo alcun diritto sul flusso di cassa prodotto dall’impresa, hanno un incentivo a

massimizzare la propria utilità personale a danno dell’obiettivo di massimizzazione del

valore della società.

L’assetto di governance deve essere quindi strutturato in modo da bilanciare il potere del

management evitando che si verifichino casi di opportunismo manageriale. La

composizione del CdA, il ruolo del Presidente del CdA, la presenza di Comitati che si

occupino ciascuno di un preciso ambito (controllo interno, remunerazione degli

amministratori, nomina degli stessi), nonché i flussi informativi tra management e

amministratori (in modo particolare se indipendenti) sono quindi di fondamentale

importanza.

4.2.2 Le variabili economico-finanziarie

Per quanto riguarda le variabili economico-finanziarie, i dati relativi alle società quotate

italiane considerate sono stati ottenuti utilizzando le banche dati “Datastream” e “Aida”,

considerando i valori relativi alla fine dell’anno per ogni esercizio del campione.

Le variabili rilevate sono di seguito elencate e discusse:

1) Il fatturato, ossia il valore totale delle vendite, il totale dell’attivo e la

capitalizzazione di mercato (MVE, Market Value of Equity, ottenuta dal prodotto

tra il numero di azioni in circolazione e il prezzo unitario di mercato); queste tre

variabili sono utilizzate quali proxy della dimensione di una società.

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2) Il debito totale, il debito netto e una variabile che esprime il grado di dipendenza da

terzi (leverage71), inseriti nelle analisi di regressione come fattori di controllo in

quanto l’aumento di indebitamento limita il flusso di capitale disponibile per gli

investimenti e con esso la discrezionalità del top management nella gestione delle

risorse finanziarie.

3) Il patrimonio netto, ovvero la differenza contabile tra le attività e le passività

componenti lo stato patrimoniale di un’azienda. Si tratta di un indicatore di ciò che

rimane di competenza degli azionisti una volta dedotte dalle attività patrimoniali

tutte le passività verso terzi. Peraltro, la misura del patrimonio netto dello stato

patrimoniale generalmente non fornisce indicazioni in merito al valore intrinseco

del titolo azionario.

4) Il MTB: Market to book value of equity, dato dal rapporto tra il valore di mercato e

il valore di libro della società o dal rapporto tra il prezzo di mercato (quotazione) di

un'azione e il valore del capitale proprio della società risultante dal bilancio (valore

di libro) per azione. Ai fini dell’analisi econometrica, questa variabile è utilizzata

come proxy delle opportunità di crescita delle società. Il MTB è noto sia come

Price/Book Value (P/B), sia come Prezzo/Valore di Libro o Prezzo/Valore

Contabile ed è formalmente definito come:

P/B = prezzo/ [(capitale sociale + riserve + utili non distribuiti) / n° di azioni] =

= [prezzo x n° di azioni] / (capitale sociale + riserve + utili non distribuiti) =

= [prezzo x n° di azioni / patrimonio netto] = valore di mercato / valore di libro =

= market / book = MTB

Il valore contabile fornisce una misura relativamente stabile e intuitiva del valore

da paragonare con il prezzo di mercato. Inoltre, ipotizzando che esista uniformità

nei criteri contabili impiegati da diverse società, i rapporti P/B di aziende simili

sono agevolmente paragonabili al fine di individuare segnali di sopra o sotto

valutazione. Infatti, tale indicatore è spesso usato per ricavare grandezze relative a

una società attraverso un confronto con imprese aventi attività operative simili

all'impresa considerata (nota come target). 71 La variabile “leverage” è calcolata rapportando alla somma di debito a breve scadenza e debito a lungo termine il totale dell’attivo societario.

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Punti deboli nell’utilizzo di tale indicatore sono però lo sfasamento temporale tra

numeratore e denominatore (rapporto tra dati di mercato e valori contabili); gli

eventuali effetti sul denominatore determinati da politiche di bilancio decise dal

management della società in merito a politiche di ammortamento e accantonamento

e infine la scarsa significatività dei valori contabili per le aziende di servizio, le

quali generalmente sono prive di cespiti rilevanti.

5) Il ROA (Return on assets), utilizzato come misura di redditività delle attività

dell’impresa. Si tratta di un indice ottenuto come rapporto tra reddito netto e attività

totali e indica quanto efficientemente le attività totali dell’azienda siano utilizzate.

Tale misura è però influenzata dai problemi associati alla leva finanziaria e alle

aliquote fiscali.

6) Il FCF (Free Cash Flow) che rappresenta il flusso di cassa disponibile per l'azienda

ed è dato dalla differenza tra il flusso di cassa delle attività operative e il flusso di

cassa per investimenti in capitale fisso; è interpretabile come la parte di flussi di

cassa da attività operative che residua dopo avere provveduto alle necessità di

reinvestimento dell'azienda in nuovo capitale fisso72. Ai fini dell’analisi, il FCF è

inserito nelle regressioni come proxy della discrezionalità del management

nell’effettuare investimenti.

E’ utile osservare che il FCF non è una vera e propria misura di creazione del

valore poiché non distingue tra investimenti (e il valore creati da questi) con i flussi

di cassa generati da tali investimenti ed è pertanto in parte un concetto di

liquidazione: un'impresa riduce i propri FCF investendo, e aumenta i FCF

riducendo i propri investimenti, ma il valore dell’azienda aumenta all'aumentare

degli investimenti, qualora gli investimenti siano profittevoli. I FCF sarebbero

pertanto una misura di effettiva creazione di valore se i flussi di cassa in entrata

associati agli investimenti si realizzassero nello stesso periodo in cui si manifestano

i flussi di cassa in uscita necessari per porre in essere gli investimenti.

7) L’Ebit (Earnings before interest and taxes): è una misura di risultato operativo,

prima della deduzione degli oneri finanziari e delle imposte ed è utilizzato per il

calcolo dei flussi di cassa dell’impresa; in questo lavoro è utilizzato come proxy per

72 Si è considerato anche il FCFPS, ovvero il flusso di cassa per azione (Free Cash Flow per Share), ottenuto dividendo il FCF per il numero totale di azioni.

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94

la redditività operativa dell’impresa, anche in rapporto al fatturato (Ebit/Fatturato).

Si è inoltre preso in considerazione l’Ebitda (Earnings before interest, taxes and

depreciation), misura di risultato operativo, prima della deduzione di oneri

finanziari, imposte e ammortamenti.

8) La deviazione standard dei prezzi delle azioni

∑=−

=n

iiu

n 1

2

1

1σ con 1

ln−

=i

ii P

Pu

definita come misura della variabilità del rendimento di un’attività finanziaria, ossia

l’incertezza circa i futuri movimenti del prezzo di un bene o di una attività

finanziaria. Al crescere della volatilità cresce la probabilità che la performance

risulti molto elevata oppure molto contenuta, ossia cresce la probabilità che i

movimenti di prezzo (Pi) sia in aumento sia in diminuzione siano molto ampi. La

deviazione standard può quindi essere utilizzata come proxy della volatilità delle

azioni delle società.

9) Il Return index (RI, tasso di rendimento), che può riferirsi sia alle singole imprese

sia ai settori industriali; nel complesso esprime la crescita teorica del valore di una

azione in un determinato periodo (nel nostro caso un anno), sotto l’ipotesi che i

dividendi siano reinvestiti nell’acquisto di ulteriori unità di capitale. Formalmente,

RI è definito come:

=tRI 1−tRI ∗1−t

t

PI

PI∗

∗+

n

DY

1001

dove =tRI return index del giorno t; 1−tRI = return index del giorno precedente t;

tPI = indice del prezzo azionario al giorno t; 1−tPI = indice del prezzo azionario del

giorno precedente t; DY = tasso di rendimento dell’indice di prezzo e n = numero

di giorni in un anno finanziario (normalmente 260).

Nel dataset si è scelto di inserire il tasso di rendimento annuale a livello di settori

industriali, considerati sulla base della classificazione del codice ICB, con l’obiettivo di

verificare l’impatto della performance del settore industriale in cui operano le imprese

sugli assetti di governance delle stesse imprese.

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95

4.2.3 Le variabili di corporate governance

Dalle “Relazioni sulla corporate governance” sono stati tratti anche i dati e le informazioni

riguardanti la struttura dell’assetto societario, la configurazione del Consiglio di

Amministrazione e dei Comitati interni all’impresa. Si è rilevato il dato relativo alla

tipologia di struttura di governo societaria adottata dall’impresa: tradizionale, monistica o

dualistica. La riforma del diritto societario (D. Lgs. n. 6/03), entrata in vigore nel gennaio

2004, ha infatti offerto la possibilità, per le Società per azioni (anche non quotate), di

scegliere fra tre modelli alternativi di organizzazione dei processi di Amministrazione e

controllo: tradizionale, monistico o dualistico. È stata cioè introdotta la possibilità per le

società di decidere la struttura di governo societario a loro confacente.

Si è inoltre rilevato il dato relativo all’adesione al Codice di Autodisciplina: per le società

quotate è infatti previsto l’obbligo annuale di divulgare informazioni sull’adesione al

codice e sull’osservanza degli impegni a ciò conseguenti, con la necessità di motivare un

eventuale inadempimento (in base al principio del c.d. comply or explain).

Si è poi raccolto un insieme di dati che si concentrano sulla dimensione e configurazione

del Consiglio di Amministrazione poiché il CdA è il perno dell’assetto di governance

societario: è l’organo che riveste un ruolo centrale nel processo di corporate governance,

come espressamente previsto dall’art. 2380-bis del Codice Civile, per il quale “a esso

l’assemblea degli azionisti attribuisce la gestione dell’impresa e il diritto di compiere tutte

le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale”.

In particolare sono stati rilevati per ogni impresa:

a) il numero di consiglieri che formano il CdA,

b) il numero di amministratori esecutivi, il numero di membri non esecutivi e di questi

quanti sono i consiglieri indipendenti: quest’ ultimo dato assume particolare

importanza in quanto gli amministratori indipendenti costituiscono una presenza

importante per limitare o addirittura evitare comportamenti opportunistici da parte

del management e degli azionisti di controllo. Tutti i codici e le linee guida esistenti

in materia di corporate governance contengono una sezione apposita sugli

amministratori indipendenti, indicando le proporzioni di amministratori

indipendenti che devono figurare nei CdA. I “Principi di corporate governance”

emanati dall’OECD nel 2004 raccomandano che “i board comprendano un numero

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96

sufficiente di amministratori non esecutivi in grado di esprimere un giudizio

indipendente per questioni per le quali si potrebbero manifestare conflitti di

interesse”. Le Raccomandazioni europee sottolineano che la presenza di

amministratori non esecutivi e di supervisory director è rilevante sia nelle società

che presentano un azionariato disperso, dove la preoccupazione primaria è far sì

che il comportamento dei manager non sia lesivo nei confronti degli interessi degli

azionisti e in particolare dei piccoli azionisti, sia nelle società che presentano

azionisti di controllo, dove il problema principale è assicurarsi che la gestione della

società tenga in considerazione anche gli interessi degli azionisti di minoranza.

c) L’utilizzo del meccanismo del voto di lista per l’elezione degli amministratori della

società alla carica corrispondente: tale meccanismo riveste un ruolo importante in

materia di corporate governance poiché assicura una procedura di nomina

trasparente ed una equilibrata composizione del Consiglio di Amministrazione.

d) La presenza o meno e, in caso di risposta affermativa, il numero, di consiglieri

eletti da liste presentate dalla minoranza.

e) La presenza del “presidente” degli amministratori indipendenti (Lead Independent

Director). Si tratta di una figura che rappresenta il punto di riferimento per il

coordinamento delle istanze e dei contributi dei Consiglieri Indipendenti e può, tra

l’altro, convocare autonomamente o su richiesta di altri Consiglieri apposite

riunioni di soli Amministratori Indipendenti (c.d. Independent Directors executive

sessions). La sua presenza è spesso consigliata nel caso in cui il Presidente del

Consiglio di Amministrazione svolga anche la funzione di Amministratore

Delegato (CEO).

f) Il numero di eventuali amministratori donne.

g) Il numero di riunioni tenute dal CdA stesso nel corso dell’esercizio di riferimento.

Sempre con riferimento al CdA si sono rilevati la presenza e il numero, in caso positivo, di

amministratori facenti parte dei Comitati interni alla società.

In particolare sono stati raccolti dati sul Comitato esecutivo, il Comitato per il controllo

interno, il Comitato di remunerazione e il Comitato per le proposte di nomina.

Le caratteristiche funzionali di tali comitati sono descritte nel box sottostante.

Page 97: Tesi Donegani Chiara Paola · 3 6 Le caratteristiche del CdA, struttura proprietaria e performance: un'analisi empirica 6.1 Le caratteristiche del CdA in funzione della struttura

97

Box 4. 1: Le caratteristiche dei Comitati interni al CdA delle società quotate italiane II ll CCoommii ttaattoo eesseeccuuttiivvoo::

II ll CCoommii ttaattoo eesseeccuuttiivvoo èè ddoottaattoo ddii rrii lleevvaannttii ppootteerrii ddii ggeessttiioonnee,, ii ssuuooii mmeemmbbrrii ssoonnoo ppeerrttaannttoo

aammmmiinniissttrraattoorrii eesseeccuuttiivvii sseeccoonnddoo llaa nnoozziioonnee ffoorrnnii ttaa ddaall CCooddiiccee..

AAll CCoommii ttaattoo eesseeccuuttiivvoo ccoommppeettoonnoo::

�� llee pprrooppoossttee ddii bbuuddggeett ee ddeeii ppiiaannii pplluurriieennnnaall ii ,, ddaa ssoottttooppoorrrree aall ll ’’ aapppprroovvaazziioonnee ddeell

CCoonnssiiggll iioo ddii AAmmmmiinniissttrraazziioonnee;;

�� ii ll ccoonnttrrooll lloo ddeell ll ’’ eesseeccuuzziioonnee ddeell bbuuddggeett,, ddeeii ppiiaannii pplluurriieennnnaall ii ee ddeeii pprrooggeettttii ssttrraatteeggiiccii ;;

�� llaa mmaaccrroo--oorrggaanniizzzzaazziioonnee ddeell llaa ssoocciieettàà ee ddeell llee ccoonnttrrooll llaattee;;

�� llee nnoommiinnee ddeell llaa pprriimmaa ll iinneeaa ddii mmaannaaggeemmeenntt ddeell llaa ssoocciieettàà ((ee ii rreellaattiivvii ppaacccchheettttii

rreettrriibbuuttiivvii )) ee ll ’’ aapppprroovvaazziioonnee ddeell llee ppooll ii ttiicchhee rreettrriibbuuttiivvee ddeell llaa ssoocciieettàà ee ddeell llee ccoonnttrrooll llaattee,,

sseennttii ttoo ii ll ppaarreerree ddeell CCoommii ttaattoo ppeerr llaa rreemmuunneerraazziioonnee;;

�� llaa sscceell ttaa ddeeii ccoonnssuulleennttii ddii rrii ffeerriimmeennttoo ddeell llaa ssoocciieettàà ee ddeell llee ccoonnttrrooll llaattee ee ll ’’ aapppprroovvaazziioonnee

ddeeii rreellaattiivvii iinnccaarriicchhii ,, aanncchhee ssee pprreevviissttii aa bbuuddggeett,, cchhee ccoommppoorrttiinnoo uunn iimmppeeggnnoo ddii ssppeessaa

ooll ttrree uunnaa ssooggll iiaa pprreessttaabbii ll ii ttaa;;

�� ll ’’ iinnddiizziioonnee ddii ggaarree,, iinnvveessttiimmeennttii ,, ssppeessee ee llaa ffoorrmmuullaazziioonnee ddii pprrooppoossttee aall CCoonnssiiggll iioo ddii

AAmmmmiinniissttrraazziioonnee ppeerr ooppeerraazziioonnii cchhee ssuuppeerraannoo uunn cceerrttoo aammmmoonnttaarree..

CCoommee pprreevviissttoo ddaall lloo ssttaattuuttoo ddeell llee iimmpprreessee,, ii ll CCoommii ttaattoo eesseeccuuttiivvoo rrii ffeerriissccee ccoonn ffrreeqquueennzzaa

ssttaabbii ll ii ttaa ((ddii ssooll ii ttoo aallmmeennoo ttrriimmeessttrraallmmeennttee)) aall CCoonnssiiggll iioo ddii AAmmmmiinniissttrraazziioonnee ssuull llee aattttiivvii ttàà

ssvvooll ttee,, ddii rreeggoollaa aattttrraavveerrssoo ii ll ssuuoo pprreessiiddeennttee..

II ll CCoommii ttaattoo ppeerr ii ll ccoonnttrrooll lloo iinntteerrnnoo::

PPaarrttiiccoollaarree rrii lleevvaannzzaa ttrraa ii ccoommii ttaattii aassssuummee aanncchhee ii ll CCoommii ttaattoo ppeerr ii ll ccoonnttrrooll lloo iinntteerrnnoo:: ii ll

ssiisstteemmaa ddii ccoonnttrrooll lloo iinntteerrnnoo èè ll ''iinnssiieemmee ddeeii pprroocceessssii ddii rreettttii aa mmoonnii ttoorraarree ll ''eeff ff iicciieennzzaa ddeell llee

ooppeerraazziioonnii aazziieennddaall ii ,, ll ''aaff ff iiddaabbii ll ii ttàà ddeell ll ''iinnffoorrmmaazziioonnee ff iinnaannzziiaarriiaa,, ii ll rriissppeettttoo ddii lleeggggii ee

rreeggoollaammeennttii ,, llaa ssaallvvaagguuaarrddiiaa ddeeii bbeennii aazziieennddaall ii .. II ll CCoonnssiiggll iioo ddii AAmmmmiinniissttrraazziioonnee hhaa llaa

rreessppoonnssaabbii ll ii ttàà ddeell ssiisstteemmaa ddii ccoonnttrrooll lloo iinntteerrnnoo,, ddeell qquuaallee ff iissssaa llee ll iinneeee ddii iinnddii rriizzzzoo ee vveerrii ff iiccaa

ppeerriiooddiiccaammeennttee ll ''aaddeegguuaatteezzzzaa ee ll ''eeff ffeettttiivvoo ffuunnzziioonnaammeennttoo.. IIll PPrreessiiddeennttee pprroovvvveeddee aadd

iiddeennttii ff iiccaarree ii pprriinncciippaall ii rriisscchhii aazziieennddaall ii ,, ssoottttooppoonneennddooll ii aall ll ''eessaammee ddeell CCoonnssiiggll iioo ddii

AAmmmmiinniissttrraazziioonnee,, ee aattttuuaa ggll ii iinnddii rriizzzzii ddeell CCoonnssiiggll iioo aattttrraavveerrssoo llaa pprrooggeettttaazziioonnee,, llaa ggeessttiioonnee

ee ii ll mmoonnii ttoorraaggggiioo ddeell ssiisstteemmaa ddii ccoonnttrrooll lloo iinntteerrnnoo.. EE’’ ff rreeqquueennttee cchhee ii ll CCoonnssiiggll iioo ddii

AAmmmmiinniissttrraazziioonnee ccoossttii ttuuiissccaa aall pprroopprriioo iinntteerrnnoo uunn CCoommii ttaattoo ppeerr ii ll ccoonnttrrooll lloo iinntteerrnnoo,,

ssooll ii ttaammeennttee ccoommppoossttoo ddaa 33 mmeemmbbrrii :: ttrree ccoonnssiiggll iieerrii nnoonn eesseeccuuttiivvii ddii ccuuii aallmmeennoo uunnoo

Page 98: Tesi Donegani Chiara Paola · 3 6 Le caratteristiche del CdA, struttura proprietaria e performance: un'analisi empirica 6.1 Le caratteristiche del CdA in funzione della struttura

98

iinnddiippeennddeennttee,, cchhee ssvvoollggee aattttiivvii ttàà ddii rreeppoorrttiinngg ee ddii ccoonnttrrooll lloo ddii ggeessttiioonnee,, iinn ggrraaddoo ddii ffoorrnnii rree

ii ll qquuaaddrroo ddeell llaa ssii ttuuaazziioonnee eeccoonnoommiiccoo--ff iinnaannzziiaarriiaa ccoonn ppeerriiooddiiccii ttàà aallmmeennoo mmeennssii llee..

II ll CCoommii ttaattoo ppeerr llee RReemmuunneerraazziioonnii ::

PPeerr qquuaannttoo aattttiieennee aall llaa ddeetteerrmmiinnaazziioonnee ddeell ccoommppeennssoo ddeeii ccoonnssiiggll iieerrii iinnvveessttii ttii ddii ppaarrttiiccoollaarrii

ccaarriicchhee,, ll ’’ aarrttiiccoolloo 22338899 ddeell CCooddiiccee CCiivvii llee aattttrriibbuuiissccee iinn vviiaa eesscclluussiivvaa aall CCoonnssiiggll iioo,, sseennttii ttoo ii ll

CCooll lleeggiioo ssiinnddaaccaallee,, ii ll ppootteerree ddii ssttaabbii ll ii rree llaa rreemmuunneerraazziioonnee ddeeggll ii aammmmiinniissttrraattoorrii iinnvveessttii ttii ddii

ppaarrttiiccoollaarrii ccaarriicchhee iinn ccoonnffoorrmmii ttàà aall lloo ssttaattuuttoo ssoocciiaallee.. LLoo ssttaattuuttoo ddeell llee ssoocciieettàà ppuuòò ppeerròò

pprreevveeddeerree ll ’’ iissttii ttuuzziioonnee ddii ccoommii ttaattii ccoonnssuull ttiivvii ,, aanncchhee pprreessssoo ii ll CCoonnssiiggll iioo sstteessssoo:: nnoonn ddii rraaddoo

vviieennee nnoommiinnaattoo ffoorrmmaallmmeennttee uunn oorrggaannoo ddeelleeggaattoo,, ddeennoommiinnaattoo CCoommii ttaattoo ppeerr llee

RReemmuunneerraazziioonnii ,, ii ll qquuaallee aassssiissttee ii ll CCoonnssiiggll iioo ddii AAmmmmiinniissttrraazziioonnee nneell pprroocceeddiimmeennttoo ddeell llaa

ffoorrmmaazziioonnee ddeell llaa vvoolloonnttàà ddeell llaa SSoocciieettàà iinn mmaatteerriiaa ddii ddeetteerrmmiinnaazziioonnee ddeell llee rreettrriibbuuzziioonnii ddeeggll ii

eessppoonneennttii aazziieennddaall ii cchhee rriiccoopprroonnoo llee ppiiùù aall ttee ccaarriicchhee.. QQuueesstt’’ oorrggaannoo èè ccoommppoossttoo

eesscclluussiivvaammeennttee ddaa CCoonnssiiggll iieerrii nnoonn eesseeccuuttiivvii ,, ppooiicchhéé iinn uunn aaddeegguuaattoo ssiisstteemmaa ddii ccoorrppoorraattee

ggoovveerrnnaannccee nneessssuunnoo ddeeii CCoonnssiiggll iieerrii ppuuòò iinnff lluuii rree ssuull llaa ddeetteerrmmiinnaazziioonnee ddeell pprroopprriioo

ccoommppeennssoo ee ssuull llee mmooddaall ii ttàà ddeell llaa ssuuaa ddeetteerrmmiinnaazziioonnee..

II ll CCoommii ttaattoo ppeerr llee pprrooppoossttee ddii nnoommiinnaa::

PPeerr qquuaannttoo rriigguuaarrddaa llaa nnoommiinnaa ddeell CCoonnssiiggll iioo ddii AAmmmmiinniissttrraazziioonnee,, qquueessttaa ddeevvee aavveerr lluuooggoo

iinn ccoonnffoorrmmii ttàà aadd uunnaa pprroocceedduurraa ttrraassppaarreennttee,, cchhee ccoonnsseennttaa aall llaa ggeenneerraall ii ttàà ddeeggll ii aazziioonniissttii ddii

ccoonnoosscceerree llee ccaarraatttteerriissttiicchhee ppeerrssoonnaall ii ee pprrooffeessssiioonnaall ii ddeeii ccaannddiiddaattii ccoonn nneecceessssaarriioo aannttiicciippoo

ppeerr ppootteerr eesseerrccii ttaarree ccoonnssaappeevvoollmmeennttee ii ll ddii rrii ttttoo ddii vvoottoo.. EE’’ ppeerrcciiòò pprreevviissttoo cchhee llee ssoocciieettàà

qquuoottaattee ccoossttii ttuuiissccaannoo uunn CCoommii ttaattoo ppeerr llee pprrooppoossttee ddii nnoommiinnaa ssoopprraattttuuttttoo nneeii ccaassii iinn ccuuii ii ll

ccoonnssiiggll iioo rrii lleevvii ddii ff ff iiccooll ttàà ddaa ppaarrttee ddeeggll ii aazziioonniissttii aa pprreeddiissppoorrrree ddii rreettttaammeennttee llee pprrooppoossttee ddii

nnoommiinnaa;; cciiòò ppuuòò aaccccaaddeerree nneell llee ssoocciieettàà qquuoottaattee aa bbaassee aazziioonnaarriiaa ddii ff ffuussaa..

E’ stata infine rilevata la presenza di patti parasociali o patti di sindacato, ovvero accordi

che coinvolgono tutti o soltanto una parte dei soci finalizzati a disciplinare il loro

comportamento in determinati ambiti della vita della società. L'oggetto del patto

parasociale può riguardare: il voto in assemblea (sindacato di voto) o il regime di

circolazione delle azioni (sindacato di blocco). Nel primo caso il patto parasociale vincola i

soci a esso aderenti a votare tutti secondo il medesimo criterio, nel secondo caso il patto

parasociale pone dei limiti al trasferimento delle azioni possedute dai soci aderenti al patto.

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In altri casi il patto parasociale può avere a oggetto l'esercizio, anche congiunto, di

un'influenza dominante sulla società. Un patto parasociale può essere a termine (e in tal

caso non superiore a 5 anni) e può poi essere rinnovato, oppure può essere senza termine e

in tal caso ogni socio contraente ha il diritto di recedere con un preavviso di sei mesi. L'art.

122 del Testo Unico dell'Intermediazione Finanziaria stabilisce che per le società quotate

(e per le società che le controllano) i patti parasociali devono essere comunicati alla

Consob, al pubblico dei risparmiatori (mediante pubblicazione sulla stampa) e alla società

stessa, all'inizio di ciascuna assemblea pena la nullità dei patti.

4.3 Un’analisi qualitativa delle variabili considerate

Si presenta un’analisi qualitativa delle variabili inserite nel dataset e considerate nelle

analisi econometriche. Si discutono dapprima le variabili relative alla struttura proprietaria

aziendale; quindi si presentano le analisi sull’assetto di governo societario. Per le

statistiche descrittive delle variabili economiche e finanziarie si rimanda all’Appendice 4.1,

in fondo al presente capitolo.

Il dataset considerato è il panel sbilanciato delle società quotate italiane osservate nel

periodo 2004-2007. Il campione è stato inoltre suddiviso in società industriali e finanziarie

(all’interno delle prime si è considerato in particolare il settore high tech). Sebbene

l’analisi si concentri sull’intero dataset, si riportano anche risultati considerati interessanti

in merito ai due settori sopra citati (finanziario e high tech).

4.3.1 La concentrazione proprietaria aziendale

La ricostruzione degli assetti proprietari di ciascuna società nei quattro anni di riferimento

ha come obiettivo quello di coglierne le tendenze evolutive.

Dalla Tabella 4.4 emerge chiaramente che la struttura proprietaria delle società quotate in

esame è fortemente concentrata: in oltre il 50 % dei casi il controllo è attribuibile di diritto

a un unico soggetto (che detiene una quota superiore al 50% del capitale sociale, ovvero

detiene il controllo assoluto).

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100

TIPOLOGIA DI CONTROLLO

NUMERO IMPRESE (in%)

NUMERO IMPRESE (in%)

NUMERO IMPRESE (in%)

NUMERO IMPRESE (in%)

ANNO 2004 2005 2006 2007 Controllo esercitato da un

singolo azionista: quota >50%

58.82% 54.23% 53.54% 54.79%

Controllo esercitato da un singolo azionista:

quota >40% e <50% 5.88% 7.96% 9.84% 9.96%

Controllo esercitato da un singolo azionista:

quota >25% e <40% 15.51% 15.92% 14.96% 16.09%

Nessun azionista di riferimento 19.79% 21.89% 21.65% 19.16% Totale 100% 100% 100% 100%

Tabella 4.4: Il controllo delle società quotate

Nel corso dei quattro anni si è tuttavia registrata una lieve diminuzione del grado di

concentrazione e tale riduzione è evidente con riferimento al primo azionista: il numero di

società con controllo assoluto si è infatti ridotto di alcuni punti percentuali, passando dal

58.82% nel 2004 al 54.79% nel 2007. La percentuale di società con un azionista di

maggioranza relativa (ovvero un singolo azionista che detiene una quota azionaria

compresa tra il 40% e il 50%) ha mostrato invece un trend crescente: dal 5.88% nel 2004 al

9.96% nel 2007. Il confronto delle percentuali relative ai casi di società aventi un azionista

di riferimento (azionista principale la cui quota è inferiore al 40% ma superiore al 25%) e

di società prive di un azionista di riferimento mostra una variazione più contenuta, di

massimo due punti percentuali, nei quattro anni.

TIPOLOGIA DI CONTROLLO MVE (mgl €) % SUL TOTALE MVE (mgl €) % SUL

TOTALE Anno 2004 Anno 2007

Controllo esercitato da un singolo azionista: quota >50%

102637350 29.64% 130122660 24.67%

Controllo esercitato da un singolo azionista: quota >40% e <50%

18475280 5.34% 37093740 7.03%

Controllo esercitato da un singolo azionista: quota >25% e <40%

73183150 21.14% 70117110 13.30%

Nessun azionista di riferimento 151938420 43.88% 290033280 55.00% Totale 346234200 100% 526863.3 100%

Tabella 4.5: La capitalizzazione di borsa delle società quotate

Se il grado di concentrazione ha subito una lieve riduzione nel corso degli anni considerati,

la distribuzione del peso delle quattro categorie di controllo proprietario sulla

capitalizzazione di borsa ha mantenuto lo stesso ranking tra l’inizio e la fine del periodo,

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101

ma con variazioni percentuali di non lieve entità, come mostrato nella Tabella 4.5. Nel

2004 sono le società senza alcun azionista di riferimento ad avere il maggiore peso (la

percentuale relativa è 43.88%), seguite dalle società con controllo assoluto (29.64%). La

stessa situazione si presenta nel 2007, ma la categoria di società senza azionista di

riferimento ha ulteriormente incrementato il proprio peso, raggiungendo il 55% della

capitalizzazione totale di mercato, mentre la categoria di società con azionista di controllo

assoluto si attesta al 24.67% della capitalizzazione totale di borsa (con una riduzione in tre

anni di cinque punti percentuali). Al terzo posto, ma con un trend nettamente decrescente

(dal 21.14% al 13.30% del totale della capitalizzazione di borsa), vi è la categoria di

società con un azionista di riferimento, seguita dalla categoria con un azionista di

maggioranza relativa.

Analizzando esclusivamente le società che operano nel settore finanziario73 (Tabella 4.6) è

confermato il ranking in termini di concentrazione della proprietà, pur con un trend

crescente: nel 2004 il 43.90% delle società presenta un azionista che detiene il controllo

assoluto, a distanza di tre anni tale percentuale aumenta di poco meno di cinque punti

percentuali, attestandosi a 48.21%; di contro, la percentuale di casi in cui non vi è alcun

azionista di riferimento si riduce (di circa tre punti percentuali).

SOCIETA’ FINANZIARIE NUMERO IMPRESE

NUMERO IMPRESE

NUMERO IMPRESE

NUMERO IMPRESE

Controllo esercitato da un singolo azionista: quota >50%

18 43.90% 27 48.21%

Controllo esercitato da un singolo azionista: quota >40% e <50%

4 9.76% 4 7.14%

Controllo esercitato da un singolo azionista: quota >25% e <40%

6 14.63% 9 16.07%

Nessun azionista di riferimento 13 31.71% 16 28.57% Totale 41 100% 56 100%

Tabella 4.6: Il controllo delle società quotate finanziarie

E’ interessante indagare anche la natura degli azionisti che detengono quote rilevanti nelle

società quotate del campione analizzato. Nella Tabella 4.7 si analizza la tipologia del

73 Le società che svolgono “attività finanziarie”, così come indica la classificazione Ateco 2002, sono il 21.92% delle società del campione del 2004, il 22.38% del totale delle società del campione 2005, il 20.86% del 2006 e il 21.45% del 2007.

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102

primo azionista rilevante di ogni società (indipendentemente dall’entità della quota

azionaria da questi detenuta).

Nel corso degli anni considerati nell’analisi non si riscontrano forti variazioni percentuali

nella tipologia del primo azionista, fatta eccezione per la categoria “istituzione finanziaria”

il cui peso raddoppia, passando in quattro anni dal 8.56% al 17.62%. I soggetti individuali

e le società private si confermano per tutto il periodo le due principali tipologie di azionista

rilevante, i primi con una percentuale che oscilla intorno al 40% (solo nell’anno 2005 la

percentuale scende al 37.81%), le seconde con un peso pari al 40% nei primi due anni di

rilevazione, che si riduce nei due successivi attestandosi intorno al 35%.

TIPOLOGIA DI AZIONISTA NUMERO IMPRESE

(% sul totale)

NUMERO IMPRESE

(% sul totale)

NUMERO IMPRESE

(% sul totale)

NUMERO IMPRESE

(% sul totale) ANNO 2004 2005 2006 2007

Nessun azionista rilevante 1.60% 1.49% 3.15% 0.38% Ente autonomo 0.53% 0.50% 0.39% 0.38% Confindustria 0.00% 0.00% 0.00% 0.38% Fondazione 2.14% 1.49% 1.57% 1.15%

Istituzione finanziaria 8.56% 12.94% 15.75% 17.62% Soggetto privato 41.18% 37.81% 40.16% 40.23%

Pubblica Amministrazione 5.88% 5.47% 3.94% 4.21% Società privata

(ss, sa, sapa,srl, spa) 40.11% 40.30% 35.04% 35.63%

Totale 100% 100% 100% 100%

Tabella 4.7. La tipologia del primo azionista rilevante

Si è inoltre considerato il sottocampione di società finanziarie.

TIPOLOGIA DI AZIONISTA NUMERO IMPRESE

(% sul totale)

NUMERO IMPRESE

(% sul totale)

NUMERO IMPRESE

(% sul totale)

NUMERO IMPRESE

(% sul totale) ANNO 2004 2005 2006 2007

Nessun azionista rilevante 7.32% 4.44% 7.55% 1,79% Ente autonomo 0.00% 0.00% 0.00% 0.00% Confindustria 0.00% 0.00% 0.00% 0.00% Fondazione 9.76% 6.67% 7.55% 5.36%

Istituzione finanziaria 21.95% 35.56% 39.62% 39.29% Soggetto privato 26.83% 26.67% 22.64% 32.14%

Pubblica Amministrazione 0.00% 0.00% 0.00% 0.00% Società privata

(ss, sa, sapa,srl, spa) 34.15% 26.67% 22.64% 21.43%

Totale 100% 100% 100% 100%

Tabella 4.8. La tipologia del primo azionista rilevante nelle società finanziarie

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103

Come mostrato in Tabella 4.8, per il sottocampione di società finanziarie il tipo di azionista

più diffuso nel 2004 è la società privata, mentre nel 2007 tale tipologia si posiziona al terzo

posto, dopo “soggetti privati” e “istituzioni finanziarie”. Quest’ultima categoria, in

particolare, aumenta considerevolmente il proprio peso anche in questo sottocampione,

passando dal 21.95% del 2004 al 39.29% del 2007.

Un’ultima considerazione riguarda le cosiddette imprese familiari i cui azionisti di

controllo (le famiglie appunto) hanno tipicamente un orizzonte temporale di lunghissimo

periodo, anche intergenerazionale e detengono un portafoglio di attività poco diversificato.

Inoltre i membri delle famiglie che investono una parte rilevante della proprio ricchezza

nell’impresa tendono ad esercitare un ruolo attivo nella gestione aziendale assumendo

spesso incarichi esecutivi, manageriali o direttivi. Il fenomeno delle società a controllo

familiare interessa il 36.89% delle società quotate nel 2004, il 31.84% del 2005, il 32.67%

nel 2006 e il 32.95% del 2007.

La Tabella 4.9 mostra i settori nei quali operano le imprese soggette a proprietà familiare:

il settore nel quale è più elevata la presenza di imprese a proprietà familiare è quello

manifatturiero con una percentuale del 50% circa in tutti gli anni, seguito a distanza dai

settori immobiliare e di intermediazione finanziaria.

SETTORE (Classificazione Ateco)

IMPRESE (ANNO 2004)

IMPRESE (ANNO 2005)

IMPRESE (ANNO 2006)

IMPRESE (ANNO 2007)

Agricoltura 1.45% 1.56% 1.20% 1.16%

Estrazione di minerali 1.45% 1.56% 1.20% 0.00%

Attività manifatturiere 52.17% 50.00% 51.81% 53.49%

Costruzioni 4.35% 4.69% 4.82% 6.98%

Commercio 5.80% 3.13% 3.61% 1.16%

Alberghi e ristoranti 1.45% 1.56% 1.20% 1.16%

Trasporti 2.90% 4.69% 3.61% 3.49%

Intermediazione finanziaria

11.59% 12.50% 10.84% 16.28%

Attivita' immobiliari 15.94% 15.63% 16.87% 12.79%

Altri servizi pubblici, sociali e personali

2.90% 4.69% 4.82% 3.49%

Totale 100% 100% 100% 100%

Tabella 4.9. Le società a controllo familiare e i settori industriali d'appartenenza

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104

4.3.2 Variabili di corporate governance

In termini di modelli di governance, la quasi totalità delle società continua ad adottare la

tipologia tradizionale, anche se a partire dal gennaio 2004 l’ordinamento italiano prevede

la possibilità di adottare due nuovi modelli di corporate governance: il duale (di

derivazione tedesca) e il monistico (della tradizione angloamericana).

Nell’esercizio 2005 una sola impresa delle 201 considerate nel campione ha adottato il

sistema dualistico; negli esercizi successivi (rispettivamente il 2006 e 2007), il livello di

adozione dei due nuovi sistemi di corporate governance, è rimasto alquanto limitato, al di

sotto del 4%, come mostrato nella Tabella 4.10.

ANNO 2004 2005 2006 2007

SISTEMA Numero imprese

Numero imprese

Valore percentuale

Numero imprese

Valore percentuale

Numero imprese

Valore percentuale

TRADIZIONALE 187 200 99.50% 244 96.06% 251 96.17%

MONISTICO 0 0 0% 5 1.97% 4 1.53%

DUALISTICO 0 1 0.50% 5 1.97% 6 2.30%

Totale 187 201 100% 254 100% 261 100%

Tabella 4.10. Sistemi di corporate governance adottati dalle società del campione per gli anni 2004-2007

Il caso Mediobanca74, che a distanza di un anno e mezzo dall’applicazione del sistema

duale ha deciso di ritornare al sistema tradizionale, sembra confermare una certa diffidenza

nei confronti dei due nuovi sistemi di corporate governance.

Sulla base delle dichiarazioni delle società nelle Relazioni sulla corporate governance,

l’adesione al Codice di autodisciplina sembra essere invece un denominatore comune. Per

gli esercizi 2004 e 2005, la percentuale di adesione al Codice di Autodisciplina75 è

prossima al 100%. Per quanto riguarda l’adesione al Codice di Autodisciplina rivisitato76,

74 In Appendice 4.2 al presente capitolo è approfondito il caso Mediobanca. 75 Codice di Autodisciplina, versione del 2002. 76 Codice di Autodisciplina, versione rivista del 2006.

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105

il 6% delle imprese ha dichiarato (nelle Relazioni relative all’esercizio 2006) di non avervi

aderito, in alcuni casi per esplicita decisione del CdA, in altri casi perché il CdA non aveva

ancora avuto modo di pronunciarsi al riguardo. Dalle Relazioni relative all’esercizio 2007,

solo 2 imprese sulle 261 di cui si dispongono dati dichiarano di non aderire al Codice di

autodisciplina nella versione del 2006.

Per quanto riguarda la composizione del Consiglio di Amministrazione, l’organo chiave

del processo di corporate governance, la dimensione media è di poco superiore ai 10

amministratori nei primi 2 anni considerati, per ridursi in media a poco meno di 10

amministratori negli anni 2006 e 2007; il valore mediano è costante e pari a 9 (si veda in

proposito la Tabella 4.11). Nel complesso le analisi mostrano che la variabilità temporale

della dimensione dei CdA è assai contenuta.

DIMENSIONE DEL CDA VARIABILE VALORI

MEDI ( 2004)

VALORI MEDI ( 2005)

VALORI MEDI ( 2006)

VALORI MEDI ( 2007)

DIMENSIONE DEL CDA (n membri)

10.31 10.51 9.94 9.99

Tabella 4.11. La dimensione media dei Consigli di Amministrazione delle società del campione

Isolando dai campioni sopra considerati le società classificate come “istituzioni

finanziarie” (banche e assicurazioni), si rileva un valore nettamente superiore per la

dimensione media dei Consigli di Amministrazione (pur con un trend decrescente): 13.61

amministratori in media nel 2004, 13.57 nel 2005, nel 2006 la media è pari a 12.79 e nel

2007 è 12.32.

La Tabella 4.12 confronta la composizione media dei Consigli di Amministrazione delle

società contenute nel campione. La presenza media di amministratori esecutivi nel board

oscilla dal 30% al 34% (in valore assoluto, su dieci amministratori in media almeno tre

sono esecutivi). Per gli amministratori non esecutivi l’andamento nei quattro anni

considerati è complementare.

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106

COMPOSIZIONE DEL CDA VARIABILE VALORI

MEDI ( 2004)

VALORI MEDI ( 2005)

VALORI MEDI ( 2006)

VALORI MEDI ( 2007)

CONSIGLIERI ESECUTIVI

30.95% 30.79% 34.34% 32.78%

CONSIGLIERI NON ESECUTIVI

69.05% 69.21% 65.66% 67.22%

CONSIGLIERI INDIPENDENTI

40.77% 39.88% 39.75% 37.29%

CONSIGLIERE DONNE 5.25% 5.32% 4.83% 5.52%

Tabella 4.12. La composizione media dei Consigli di Amministrazione delle società del campione

Contrariamente a quanto raccomandato dai codici e regolamenti di corporate governance,

il numero di amministratori indipendenti sembra mostrare un andamento decrescente. In

quattro anni, il numero medio di consiglieri indipendenti (in valore assoluto) si è infatti

leggermente ridotto, passando da 4.38 a 3.81.

ANNO NUMERO IMPRESE

VALORE MEDIO

VALORE MEDIANO

2004 187 4.36 3.00

2005 201 4.45 3.00

2006 254 3.97 3.00

2007 261 3.81 3.00

Tabella 4.13. Andamento della presenza di amministratori indipendenti nei Consigli di Amministrazione

Un’ulteriore suddivisione del campione panel sulla base del segmento di quotazione in

borsa delle società ha mostrato la seguente dimensione e composizione media dei CdA. Le

società indicate con “small capitalization” sono le società quotate sul Mercato Expandi; le

società definite “medium capitalization” sono quotate sul Segmento Star, Standard 1 o

Standard 2; infine le “large capitalization” sono quotate sul Segmento Blue Chip (il

32.16% del campione panel è rappresentato da società “large cap”, il 66.08% da società

“medium cap”, un numero assai ridotto di società del campione è “small cap”-

quest’ultima percentuale è pari a 1.76%. I dati relativi a tale categoria sono quindi poco

rappresentativi).

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107

VARIABILE SMALL CAP

MEDIUM CAP

LARGE CAP

DIMENSIONE MEDIA 6.4 9.16 13.38 CONSIGLIERI ESECUTIVI

69.52% 34.42% 21.95%

CONSIGLIERI NON ESECUTIVI

30.48% 65.58% 78.05%

CONSIGLIERI INDIPENDENTI

6.66% 37.17% 45.11%

CONSIGLIERE DONNE 5.25% 5.32% 4.83%

Tabella 4.14. La dimensione e composizione media dei CdA delle società suddivise in funzione della capitalizzazione di borsa

La Tabella 4.14 mostra che la dimensione media dei Consigli di Amministrazione delle

società quotate cresce al crescere della capitalizzazione di borsa e nel contempo la

percentuale di amministratori esecutivi si riduce a favore di una maggiore componente

indipendente. Anche in questo caso, un confronto tra i quattro anni considerati (2004-

2007), relativamente alla dimensione e composizione media dei CdA delle società

suddivise per capitalizzazione di borsa, ha mostrato che la variabilità temporale all’interno

dei tre sottocampioni considerati è molto bassa.

Nel campione complessivo la presenza di amministratori donne che siedono nei CdA si

attesta intorno al 4%, presentando un trend decrescente. E’ interessante notare che in tutti

gli anni considerati le società che hanno nei loro consigli di Amministrazione consiglieri

donne sono spesso società a controllo familiare: nel 2007 vi sono amministratori donne nei

CdA di 107 su 261 società: di queste 107 imprese, la percentuale di società che presentano

controllo familiare è pari a 45.79%, mentre solo il 24.03% delle restanti 154 società è a

controllo familiare (nei tre anni precedenti si osservano percentuali simili).

Nella sezione dedicata ai principi generali, il Codice di autodisciplina (versione del marzo

2006) indica la necessità che la nomina degli amministratori avvenga secondo un

procedimento trasparente. Come criterio applicativo è prevista la presentazione di liste di

candidati alla carica di amministratore77 (utilizzo del cosiddetto meccanismo del voto di

77 Il criterio applicativo 6.C.1 recita: “Le liste di candidati alla carica di amministratore, accompagnate da un’esauriente informativa riguardante le caratteristiche personali e professionali dei candidati, con

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108

lista). E’ interessante verificare la presenza nel CdA di almeno un amministratore

proveniente dalla minoranza azionaria, fatto che rappresenta un indicatore di adesione

sostanziale al Codice di Autodisciplina in merito all’applicazione del meccanismo del voto

di lista. Dalla lettura delle Relazioni sulla corporate governance per le società dei

campioni considerati nei quattro anni si sono ottenuti i dati presentati nella Tabella 4.15.

Essa evidenzia che negli anni 2004 e 2005 solo un quinto delle imprese considerate hanno

dichiarato di adottare il meccanismo del voto di lista.

ANNO

SOCIETÀ CHE DICHIARANO DI ADOTTARE IL

MECCANISMO DEL VOTO DI LISTA

SOCIETÀ CHE AFFERMANO DI AVERE ALMENO UN

CONSIGLIERE ELETTO TRA LE LISTE DI MINORANZA

2004 21.93% 11.93%

2005 21.89% 16.42%

2006 57.87% 24.41%

2007 71.26% 33.33%

Tabella 4.15. L'adozione del meccanismo del voto di lista e la presenza di almeno un consigliere eletto

tra le liste di minoranza nelle società del campione (valori percentuali)

Tale percentuale è notevolmente aumentata nel 2006 a seguito dell’introduzione del

Codice di autodisciplina, per raggiungere il 71.26% nel 2007. Anche la presenza di

almeno un consigliere eletto tra le liste di minoranza nel Consiglio di Amministrazione

delle società considerate è crescente. Le basse percentuali rilevate però scontano il fatto

che il rinnovo del CdA avviene generalmente ogni tre anni. Pertanto solamente nei

prossimi esercizi si potrà valutare se tale criterio applicativo è stato effettivamente recepito

dalle società.

Infine, il numero di riunioni tenute in media dai Consigli di Amministrazione, come

evidenziato nella Tabella 4.16, è cresciuto nel corso dei quattro anni considerati.

indicazione dell’eventuale idoneità dei medesimi a qualificarsi come indipendenti ai sensi dell’art. 3 (dello stsso Codice di autodisciplina), sono depositate presso la sede sociale almeno quindici giorni prima della data prevista per l’assemblea. Le liste, corredate dalle informazioni sulle caratteristiche dei candidati, sono tempestivamente pubblicate attraverso il sito internet dell’emittente.

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109

NUMERO RIUNIONI CDA ANNO MEDIA 2004 9.16 2005 9.25 2006 9.58 2007 10.00

Tabella 4.16. Il numero di riunioni dei Consigli di amministrazione nei quattro anni (valori medi)

Ciò può essere motivato dal fatto che le difficoltà e le problematiche che i Consigli di

Amministrazione delle imprese hanno dovuto fronteggiare sono aumentate nel corso del

tempo, anche grazie agli accresciuti obblighi determinati dai più stringenti codici e

regolamenti introdotti negli ultimi anni.

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110

APPENDICE 4.1

Statistiche descrittive relative alle variabili utilizzate nelle analisi Attivo

Anno Media Mediana 2004 10458311.148 544707 2005 15285460.344 749939 2006 16135232.570 767002 2007 20157884.100 798268

Fatturato

Anno Media Mediana 2004 3477586.708 353070.500 2005 2936405.851 354271.500 2006 3212554.026 388435.500 2007 3575059.104 405222.000

Mve

Anno Media Mediana 2004 2012897.436 281625 2005 2353029.551 370490 2006 2707560.258 437170 2007 2815377.949 421380

MTB

Anno Media Mediana 2004 2.101 1.540 2005 2.127 1.740 2006 2.227 1.88 2007 2.219 1.725

FCF

Anno Media Mediana 2004 306771.2074 21871 2005 565546.0577 31865 2006 687794.0701 31062 2007 676534.1146 26468

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111

ROA

Anno Media Mediana 2004 1.701273885 1.83 2005 4.031210191 3.31 2006 2.618343949 2.16 2007 3.378874172 3.25

Ebit

Anno Media Mediana 2004 339294.8831 27757 2005 470327.8839 30895 2006 585693.4615 33588 2007 681597.2273 44528

Leverage Anno Media Mediana 2004 28.23366667 30.94 2005 26.73406667 27.37 2006 26.22789809 27.29 2007 28.0174026 28.98

Volatilità Anno Media Mediana 2004 0.550285009 0.254526819 2005 0.773 0.378189467 2006 0.740599693 0.373506683 2007 1.317943051 0.524631906

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112

APPENDICE 4.2

Il caso Mediobanca

Fondata subito dopo la II Guerra Mondiale nel 1946 da Banca Commerciale Italiana,

Credito Italiano e Banco di Roma, in oltre sessant’anni Mediobanca ha sempre svolto un

ruolo di primo piano nella vita economica e industriale italiana. Nel periodo post guerra ha

contribuito alla ricostruzione dell’industria italiana tramite il rifinanziamento a medio-

lungo termine e la consulenza aziendale; negli anni ’50 ha supportato la fase di

internazionalizzazione dei principali gruppi italiani, nel 1956 è stato il primo gruppo

bancario a quotarsi sulla Borsa di Milano. Negli anni ’70-’90 ha assunto un ruolo chiave

nella ristrutturazione dell’industria italiana, divenendo banca di riferimento dei maggiori

gruppi del Paese e durante il periodo delle privatizzazioni (anni ’90 - inizi degli anni 2000)

ha confermato il proprio ruolo chiave assistendo i maggiori gruppi bancari e industriali.

Dal 2003, con l’ingresso di un nuovo management l’istituto ha rifocalizzato la propria

strategia sulle attività bancarie, avviando l’attività di private banking, creando il terzo

operatore domestico nel credito al consumo e avviando infine l’attività bancaria di retail.

La politica di internazionalizzazione perseguita negli ultimi anni ha comportato una

crescente apertura sui mercati internazionali [Parigi e Madrid (2004), New York (2006),

Francoforte (2007), Londra (2008)].

Attualmente Mediobanca è l’unica banca d’affari italiana, ma anche una delle poche realtà

del settore che non ha dovuto mettere in discussione la propria natura nell’attuale contesto

di profonda crisi finanziaria mondiale che ha colpito grandi istituti di Wall Street

(fallimento di Lehman Brothers, salvataggio di Merrill Lynch, trasformazione di Goldman

Sachs e Morgan Stanley dallo status di banche di investimento a banche commerciali)78.

Nel giugno del 2007 Mediobanca ha adottato un nuovo modello di corporate governance

transitando dal modello tradizionale (il sistema di corporate governance più diffuso in

Italia) al modello duale, ispirato a un principio di netta separazione tra l’attività di

78 Nell’esercizio chiuso il 30 giugno 2008 Mediobanca ha infatti confermato gli utili record per un miliardo di euro dell’anno prima.

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113

controllo e di indirizzo, affidata al Consiglio di Sorveglianza, e quella di gestione e

Amministrazione del Gruppo, affidata al Consiglio di Gestione. Tale transizione è stata

motivata con l’osservazione che la separazione dei ruoli e delle responsabilità degli organi

sociali avrebbe consentito un funzionamento del governo societario più consono all’assetto

dell’azionariato di Mediobanca e alle sue esigenze operative. Il nuovo modello di

corporate governance avrebbe inoltre assecondato la crescente presenza dell’istituto sui

mercati internazionali.

L’Assemblea degli azionisti79 del 27 giugno 2007, ha nominato il primo Consiglio di

Sorveglianza di Mediobanca per gli esercizi 2008 - 2010, nominandone Presidente Cesare

Geronzi e Vice Presidente Dieter Rampl. L’elezione dell’organo di controllo di 21 membri

è avvenuta, ai sensi dello Statuto, sulla base delle liste di candidati in possesso dei requisiti

di professionalità, onorabilità e indipendenza richiesti dalla legge e dallo Statuto,

presentate dai soci titolari di almeno l’1% del capitale. Oltre alle competenze ex lege

(nomina e revoca del Consiglio di Gestione, verifica dell’adeguatezza del sistema dei

controlli), al Consiglio di Sorveglianza spetta l’approvazione delle proposte del Consiglio

di Gestione in merito ai piani industriali e finanziari, al progetto di bilancio, alle modifiche

statutarie e alle operazioni sul capitale; alla movimentazione delle partecipazioni

strategiche per quote superiori al 15% del possesso nonché alle operazioni che comportino

variazioni del perimetro dell’istituto bancario di importo unitario superiore a € 750 milioni.

Il Consiglio di Gestione (di 6 membri) è stato nominato dal Consiglio di Sorveglianza del 2

Luglio 2007. Al Consiglio di Gestione “spetta la gestione della banca e del gruppo: a tal

fine compie tutte le operazioni, di ordinaria come di straordinaria amministrazione,

necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale. Sono ad esso riservate: la politica di

gestione dei rischi e dei controlli interni; la predisposizione delle norme per

l’organizzazione dell’attività della banca e del gruppo; le proposte al Consiglio di

Sorveglianza in ordine di progetto di bilancio, ai piani industriali e finanziari, alle

modifiche statutarie e agli aumenti di capitale da sottoporre all’assemblea; le proposte al

Consiglio di Sorveglianza in ordine alla movimentazione delle partecipazioni strategiche

per quote superiori al 15% del possesso ed alle operazioni che comportino variazioni del

79 L’Assemblea degli azionisti è competente a deliberare, tra l’altro, in merito: alla nomina e alla revoca del Consiglio di Sorveglianza; alla responsabilità dei componenti del Consiglio di Sorveglianza; alla distribuzione degli utili; alla nomina e alla revoca della società incaricata della revisione contabile; alle operazioni di competenza dell’assemblea straordinaria ai sensi di legge

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114

perimetro del gruppo bancario di importo unitario superiore a € 750 milioni; l’esercizio

delle deleghe ex art. 2443 per aumenti di capitale previa approvazione del Consiglio di

Sorveglianza”.

Il Consiglio di Sorveglianza ha inoltre costituito al proprio interno i quattro Comitati

tecnici previsti dallo Statuto: “il Comitato per il controllo interno che svolge funzioni

propositive, consultive, istruttorie in tema di controlli interni, gestione dei rischi e sistema

informativo e contabile; il Comitato nomine che delibera sulle proposte formulate dal

Consiglio di Gestione in merito alle nomine delle cariche sociali delle partecipazioni

strategiche; il Comitato remunerazioni che ha funzioni propositive e consultive in merito ai

compensi del Consiglio di Gestione e dei suoi componenti muniti di particolari cariche e il

Comitato per la governance che, con ogni opportuno coordinamento con gli altri Comitati

istituiti, verifica periodicamente, formulando al Consiglio di Sorveglianza ogni relativa

proposta, l’applicazione del Regolamento del Consiglio di Sorveglianza, lo stato e la

funzionalità dei rapporti tra gli organi sociali, il rispetto del principio della ripartizione dei

ruoli ed il bilanciamento dei rispettivi poteri in conformità delle disposizioni normative,

regolamentari, statutarie, organizzative vigenti”.

Dopo una parentesi di struttura di corporate governance dualistica durata poco più di un

anno sono emerse alcune criticità relative al funzionamento del sistema duale e la

conseguente opportunità di rivedere il sistema di governance. Il dialogo e il raccordo tra

organi di indirizzo strategico e organo di gestione corrente non si sono dimostrati fluidi e

agili; sarebbero state necessarie procedure informative e operative complesse, con la

possibilità di rischi di burocratizzazione e di lentezza. In tale quadro, è maturata la

proposta per l’adozione del sistema tradizionale di governance attraverso un testo di statuto

che apporta tratti innovativi al sistema di governo di Mediobanca ante duale e alla prassi

più diffusa. Il ripristino dell’organizzazione precedente prevede infatti l’inserimento di

alcune novità che recuperano la seppur limitata esperienza dualistica confermandone il

principio ispiratore, ovvero quello di affidare ai manager responsabilità e visibilità per la

gestione corrente, distinguendola dall'attività di direzione strategica e di indirizzo. In

particolare, è prevista la partecipazione al Consiglio di Amministrazione dei cinque top

manager che facevano parte del Consiglio di gestione. Questi consiglieri costituiscono

anche la maggioranza del Comitato esecutivo, presieduto dal presidente del CdA e

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115

composto da nove membri, i quali, per espressa disposizione statutaria, “non possono

svolgere incarichi di Amministrazione, direzione, controllo o di altra natura in altri gruppi

bancari o assicurativi, salvo diversa determinazione del Consiglio di Amministrazione”. Il

Comitato esecutivo si presenta come l’organismo centrale dell’operatività della banca che

affianca Amministratore delegato e Direttore generale, membri di diritto del comitato. In

caso di urgenza, il Comitato esecutivo, che di regola si riunisce una volta al mese su

convocazione del presidente, può assumere di concerto con il presidente deliberazioni in

merito a “qualsiasi affare o operazione”, a patto di riferirne però alla prima riunione

successiva del Consiglio di Amministrazione. A sua volta, il CdA, composto da 15 a 23

consiglieri (di cui cinque devono essere dirigenti del gruppo da almeno tre anni, tre

possedere i requisiti di indipendenza e almeno uno riservato alle minoranze), si riunisce di

regola cinque volte all’anno e approva i piani industriali e finanziari, il bilancio, il budget, i

regolamenti interni, le proposte da portare in assemblea, in merito alla movimentazione di

quote superiori al 15% della quota in possesso a inizio esercizio delle partecipazioni

strategiche in Generali, Rcs, Telco-Telecom Italia e all’assunzione o cessione di

partecipazioni che comportino la variazione del capitale sociale del gruppo bancario di

importo superiore a 500 mln € o comunque di partecipazioni superiori a 750 mln €. E’

prevista inoltre la costituzione di tre comitati in seno al CdA: Comitato per il controllo

interno, Comitato per le remunerazioni e Comitato per le proposte di nomina.

L’Assemblea dei Soci convocata per il 28 ottobre 2008 ha approvato il nuovo statuto

basato sul modello tradizionale.

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116

CAPITOLO 5

TEORIA

ECONOMETRICA

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117

5.1 Le analisi di regressione con dati cross-section

Un primo insieme di analisi econometriche effettuate nella tesi è di tipo cross section e

considera le società quotate italiane per gli anni 2004, 2005, 2006 e 2007.

Per eseguire le analisi di regressione si è utilizzato il modello di regressione multipla

,...22110 uxxxy kk +++++= ββββ (5. 1)

che consente di stimare gli effetti parziali di ciascuna variabile indipendente sulla variabile

dipendente di interesse, tenendo fissi tutti gli altri fattori (analisi ceteris paribus).

In particolare per stimare i coefficienti delle variabili indipendenti si è utilizzato il metodo

OLS (Ordinary Least Squares) così definito perché gli stimatori OLS minimizzano la

somma dei residui (iu ) al quadrato, dove

iu = kk0i xxxy ββββ ˆ...ˆˆˆ2211 ++++− (5. 2)

ovvero: min 2110

1

)ˆ...ˆˆ( ikki

n

ii xxy βββ −−−−∑

=

, j = 0, 1, … k (5. 3)

Dalle condizioni del primo ordine del problema (5.3) si ottengono k+1 equazioni lineari in

k+1 0β , 1β , … kβ :

0)ˆ...ˆˆ( 1101

=−−−−∑=

ikki

n

ii xxy βββ (5. 4)

0)ˆ...ˆˆ( 1101

1 =−−−−∑=

ikki

n

iii xxyx βββ

0)ˆ...ˆˆ( 1101

2 =−−−−∑=

ikki

n

iii xxyx βββ

0)ˆ...ˆˆ( 1101

=−−−−∑=

ikki

n

iiik xxyx βββ

Il sistema di equazioni (5.4) definisce le condizioni OLS del primo ordine.

5.1.1 Le ipotesi alla base del modello OLS

Il modello OLS si basa su un’insieme di ipotesi discusse di seguito, sotto le quali gli

stimatori OLS godono delle desiderabili proprietà di:

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118

Ipotesi 1 - linearità nei parametri:

y = β0 + β1 x1 + β2 x2 + … + βk xk + u,

dove le y e le x sono le variabili casuali nella popolazione, β0 è l’intercetta, β1, β2 ,…, βk

sono parametri non noti e u è il termine di errore.

Ipotesi 2 - campionamento casuale: si ha un campione casuale di n osservazioni, {(xi1, xi2 ,

…xik, yi ): i = 1,2, …, n}

Ipotesi 3 - media condizionata pari a zero: E (u | x1, x2 , …xk) = 0, ovvero non vi è

correlazione tra variabili indipendenti e termine di errore.

Ipotesi 4 - variabili indipendenti non costanti nel campione: nel campione (e quindi nella

popolazione) nessuna delle variabili indipendenti è costante

2

1

)( xxn

ii∑

=

− > 0

e non vi sono relazioni lineari esatte tra le variabili indipendenti: se non esistesse

variabilità nel campione, gli stimatori OLS sarebbero indeterminati.

Queste quattro ipotesi consentono di stabilire la non distorsione degli stimatori OLS:

E ( jβ ) = βj, j = 0, 1, … k (5. 5)

E’ importante osservare che l’inclusione nel modello di una variabile irrilevante non ha

alcun effetto sulla non distorsione dell’intercetta e delle stime degli altri parametri.

(L’omissione di un regressore rilevante comporta invece la distorsione degli OLS).

Introducendo l’ulteriore ipotesi di omoschedasticità:

Ipotesi 5 Var (u | x1, x2 , …xk) = σ2

ovvero che la varianza80 dell’errore è costante e non varia condizionando per qualsiasi

variabili esplicativa, è possibile dimostrare il Teorema di Gauss-Markov. Tale teorema

80 Nel caso in cui Var (u | x1, x2 , …xk) non è costante, ma dipende dalle variabili esplicative x, si dice che il termine di errore è caratterizzato da eteroschedasticità.

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119

afferma che gli stimatori OLS sono i migliori stimatori lineari non distorti (stimatori

BLUE), ovvero gli stimatori di minima varianza.

5.1.2 La goodness of fit

L’obiettivo di un’analisi di regressione è tipicamente quello di spiegare la variazione del

fenomeno indagato. Per comprendere la bontà dell’analisi di regressione si usa la nozione

di goodness of fit, definita attraverso il coefficiente R2. La variazione totale, espressa dalla somma totale dei quadrati (total sum of squares) è

definita come:

SST = 2

1

)(∑=

−n

ii yy (5. 6)

La variazione spiegata o somma spiegata dei quadrati (explained sum of square) è:

SSE = 2

1

)ˆ(∑=

−n

ii yy (5. 7)

e infine la variazione non spiegata o somma al quadrato dei residui (residual sum of

squares) è:

SST = 2

1

)ˆ(∑=

−n

ii yy = ∑

=

n

iiu

1

2ˆ (5. 8)

L’ R2 della regressione, ovvero la proporzione spiegata della variazione campionaria in y, è

definito come:

R2 = SSE / SST = 1 - SSR / SST (5. 9)

Ogni nuovo regressore aggiunto nell’analisi di regressione ha un impatto positivo su R2

perché riduce l’impatto di SSR su SST.

Per misurare la bontà della regressione effettuata è spesso opportuno utilizzare un

indicatore più sofisticato che corregga introducendo una sorta di penalizzazione rispetto

all’aggiunta di nuovi regressori nel modello la cui utilità è dubbia. Tale indicatore è

l’ 2R ( 2R aggiustato). Riscrivendo 2R si ha che:

( ) ( )nSSTnSSRR //12 −= (5. 10)

L’ 2R è invece pari a:

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120

( )[ ] ( )[ ] ( )[ ]1/11/1/1 22 −−=−−−−= nSSTnSSTknSSRR σ (5. 11)

5.1.3 L’inferenza statistica

Per effettuare inferenza statistica è necessario avere informazioni sull’intera distribuzione

campionaria di jβ , non è sufficiente conoscere solo i due momenti di jβ (valore atteso e

varianza). Condizionando sui valori delle variabili indipendenti nel campione, le

distribuzioni campionarie degli stimatori OLS dipendono dalla sottostante distribuzione

degli errori. In particolare si assume che l’errore u sia normalmente distribuito nella

popolazione.

Ipotesi 6 – normalità: l’errore u nella popolazione è indipendente dalle variabili esplicative

1x , 2x , …, kx ed è distribuito normalmente con media 0 e varianza pari a σ2, i.e.

U ~ Normal (0, σ2) (5. 12)

L’insieme delle ipotesi 1-6 definiscono il cosidetto “modello lineare classico” (CLM). È

possibile dimostrare che sotto queste ipotesi, gli stimatori OLS godono di una proprietà di

efficienza più forte rispetto a quella del Teorema di Gauss-Markov: gli OLS sono gli

stimatori non distorti di minima varianza; non si restringe quindi più l’attenzione agli

stimatori lineari. Sotto le ipotesi 1 – 6 e condizionatamente ai valori campionari delle

variabili indipendenti si ha che gli stimatori OLS sono distribuiti normalmente:

jβ ~ N [ )ˆ(, jj Var ββ ] (5. 13)

Nel caso in cui l’ipotesi 6 fallisce, gli errori non sono distribuiti normalmente e così gli

stimatori.

Dalla (5.13) discende: ( )j

jj

sd βββ −ˆ

~ )1,0(N (5. 14)

quando infatti si standardizza una variabile casuale normale sottraendo dalla variabile la

sua media e dividendo tale differenza per la deviazione standard si ottiene una variabile

casuale normale standard.

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121

Riprendendo il modello (5.1) y= β0 + β1 x1 + β2 x2 + β3 x3 + … + βk xk + u, si assume

che esso soddisfi le ipotesi del “modello lineare classico”. In particolare i jβ sono i

coefficienti dei caratteri non noti nella popolazione, il cui valore non è determinabile con

certezza. Tuttavia si può verificare se le variabili jx sono variabili esplicative rilevanti,

testando se 0≠jβ ; si possono inoltre fare ipotesi circa il valore di jβ e usare l’inferenza

statistica per testare tali ipotesi.

Per costruire i test di ipotesi è necessario introdurre la distribuzione t per gli stimatori

standardizzati. Sotto le ipotesi 1 – 6:

( )j

jj

seβββ

ˆ

)ˆ( −~ 1−−knt (5. 15)

dove k+1 è il numero di parametri non noti nel modello della popolazione (5.1). La

distribuzione t discende dal fatto che non è possibile calcolare σ nella )ˆ( jsd β , è tuttavia

possibile calcolare σ (si veda in nota 81). La (5.15) differisce dalla (5.14) proprio perché si

è sostituito )ˆ( jsd β con la variabile casuale σ . Si possono quindi utilizzare le statistiche t

per fare test di ipotesi su un singolo parametro jβ . Tipicamente l’ipotesi nulla è:

0:0 =jH β ; in questo caso la statistica t è definita come:

( )j

j

set

j ββ

β ˆ

ˆˆ ≡ (5. 16)

Nel testare l’ipotesi è necessario scegliere un livello di significatività82 (1%,5% o 10%:)

che insieme ai gradi di libertà (dati dalla differenza 1−− kn ) e all’ipotesi alternativa (che

può essere “one sided”: 0:1 >jH β o 0:1 <jH β , oppure “two sided” e quindi

81 Si definisce [ ] 2/12 )1()ˆ(

jj

jRSST

sd−

= σβ . Il problema che emerge è l’impossibilità di calcolare σ . È

tuttavia possibile stimare σ ; si definisce quindi [ ] 2/12 )1(

ˆ)ˆ(

jj

jRSST

se−

= σβ .

82 Il livello di significatività rappresenta la probabilità di rigettare l’ipotesi nulla 0H quando di fatto essa è

vera.

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122

0: ≠jH β ) determina il valore critico rispetto al quale confrontare la statistica t83.

Tuttavia si usa spesso il p-value84 per il test t: in questo modo l’ipotesi può essere testata a

qualsiasi livello di significatività.

È possibile testare anche che jβ assuma altri valori diversi da zero, in questo caso l’ipotesi

è: jj aH =β:0 ; dove ja è il valore ipotizzato di jβ . La statistica t è:

( )j

jj

se

at

j ββ

β ˆ

)ˆ(ˆ

−≡ (5. 17)

Dato y = β0 + β1 x1 + β2 x2 + β3 x3 + β4 x4 + u (5. 18)

per testare restrizioni lineari multiple del tipo:

0,0,0: 4320 === βββH contro 01 : HH non è vera (5. 19)

si utilizza la statistica F. Formalmente:

( )( )1/

/

−−−

≡knSSR

qSSRSSRF

ur

urr (5. 20)

dove rSSRè la somma al quadrato dei residui del modello ristretto (modello che non

considera le variabili sottoposte al test di ipotesi), urSSR è la somma dei residui al quadrato

del modello non ristretto (ovvero il modello originale), q è il numero di gradi di libertà dati

dalla differenza tra i gradi di libertà del modello ristretto e quelli del modello non ristretto,

ovvero il numero di restrizioni testate e (n-k-1) è il numero di gradi di libertà del modello

non ristretto. Esiste inoltre una seconda forma della statistica F85.

La statistica F è utilizzata anche per valutare la significatività complessiva di una

regressione: in questo caso si testa l’ipotesi nulla che tutti i parametri siano pari a 0 e che 83 Sempre sotto le ipotesi del modello lineare classico per ogni jβ è possibile costruire un intervallo di

confidenza (CI) al fine di testare l’ipotesi nulla riguardante jβ contro un’alternativa “two-sided”. 84 Per p-value si intende il più piccolo livello di significatività per il quale è possibile rigettare l’ipotesi nulla, poiché il p-value è una probabilità, (ovvero è la probabilità di rigettare l’ipotesi nulla quando questa è vera) il suo valore è compreso tra 0 e 1.

85 Una seconda forma del test F è basata invece sugli R2 dei due modelli, ed è:

( )( ) ( )

( )( ) urur

rur

ur

rur

dfR

qRR

knR

qRRF

/1

/

1/1

/2

22

2

22

−−

=−−−

−= ,

dove 2urR è l’ 2R del modello non ristretto e 2

rR è l’ 2R del modello ristretto.

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123

quindi l’insieme delle variabili esplicative non abbia alcun effetto sul valore atteso della

variabile y.

5.1.4 Il problema dell’eteroschedasticità

Si è in presenza di eteroschedasticità quando Var (u | x1, x2 , …xk) non è costante, ma

dipende dalle variabili esplicative ix . Essa non causa distorsione o inconsistenza degli

stimatori OLS, ma invalida gli errori standard e quindi le statistiche t: in presenza di

eteroschedasticità gli stimatori OLS non sono più i migliori stimatori lineari non distorti

(non sono più BLUE). Esistono diversi test che consentono di verificare la presenza di

eteroschedasticità: i più comuni sono il test di Breusch Pagan (BP) e il test di White.

Nel test di BP è necessario stimare il modello originario, ottenere i quadrati dei residui

OLS ( 2u ) e regredire i quadrati dei residui sulle variabili indipendenti:

exxxu kk +++++= δδδδ ...ˆ 221102 . (5. 21)

Si costruiscono quindi le statistiche F:

( ) ( )1/1

/2ˆ

2

2

−−−=

knR

kRF

u

u (5. 22)

o il Lagrange multiplier statistic (la statistica LM):

2ˆ2u

RnLM ⋅= (5. 23)

che dipendono da 2R della regressione sopra descritta (indicati con 2ˆ2u

R ): si calcola il p-

value utilizzando la distribuzione 1, −−knkF nel primo caso e 2kχ nel secondo. Se il p-value è

sufficientemente piccolo, ovvero inferiore al livello di significatività scelto, si può rigettare

l’ipotesi nulla di omoschedasticità.

White (1980) ha proposto un altro test per l’eteroschedasticità. Sotto le ipotesi di Gauss-

Markov, l’ipotesi di omoschedasticità può essere sostituita con l’ipotesi più debole che

2u sia incorrelato con tutte le variabili esplicative jx , j∀ e con tutti i prodotti hj xx ,

hj ∀∀ , , hj ≠ . Si aggiungono alla regressione (5.21) i quadrati e i prodotti incrociati di

tutte le variabili indipendenti ottenendo:

exxxxxxxxxxxxu ++++++++++= 329318217236

225

2143322110

2ˆ δδδδδδδδδδ (5. 24)

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124

Il test di White per l’eteroschedasticità è la statistica LM per testare che tutti i

jδ nell’equazione sono pari a 0, a esclusione dell’intercetta. La debolezza di tale test è però

determinata dalla numerosità dei regressori e dal fatto che utilizza tanti gradi di libertà per

modelli con un numero limitato di variabili esplicative.

Una seconda versione del test di White utilizza invece i fitted values, definiti, per ogni

osservazione i da:

ikkiii xxxy ββββ ˆ...ˆˆˆˆ 22110 ++++= (5. 25)

La procedura consiste nello stimare il modello con gli OLS, ottenere i residui OLS (u) e i

fitted values ( y ), calcolare i quadrati OLS dei residui e dei fitted values ( 2u e 2y ),

effettuare la regressione:

eyyu +++= 2210

2 ˆˆˆ δδδ (5. 26)

e considerare l’ 2R della regressione (2ˆ2u

R ). Si costruisce quindi la statistica F o LM e si

calcola il p-value, utilizzando la distribuzione 1, −−knkF nel primo caso e la distribuzione

2kχ nel secondo. Se il p-value è sufficientemente piccolo, ovvero inferiore al livello di

significatività prescelto, si può rigettare l’ipotesi nulla di omoschedasticità. In questo caso

se si testa la (5.26) per l’omoschedasticità, indipendentemente dal numero di regressori si

hanno solo due restrizioni: 0,0: 210 == δδH .

L’eteroschedasticità non determina alcuna distorsione o a livello asintotico alcuna

inconsistenza negli stimatori OLS. In presenza di eteroschedasticità gli stimatori della

varianza, )ˆ( jVar β sono distorti. Poiché gli standard error dell’OLS sono basati su tali

varianze essi non sono più validi per costruire i test t. Inoltre, il Teorema di Gauss-Markov

non è più valido: gli stimatori OLS non sono i migliori stimatori lineari non distorti e non

sono neppure asintoticamente efficienti. In presenza di eteroschedasticità è necessario

utilizzare la statistica t robusta all’eteroschedasticità.

Per il problema di eteroschedasticità, White (1980) ha indicato una soluzione.

Considerando inizialmente il caso univariato:

( )( )

21

22

x

n

iii

SST

xx

Var∑

=

−=

σβ . (5. 27)

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125

si può notare che la formula della varianza, derivata nell’ipotesi di omoschedasticità, non è

più valida se vi è eteroschedasticità. Poiché ( ) )ˆ(ˆ11 ββ Varse = , White ha mostrato

(utilizzando i residui OLS (u), ottenuti dalla regressione iniziale di y su x) che uno

stimatore valido di ( )1βVar in presenza di eteroschedasticità di qualsiasi forma è:

( )2

1

22 ˆ

x

n

iii

SST

uxx∑=

− (5. 28)

Lo stimatore della varianza è ora valido. Nel caso di regressioni multivariate si ha:

( )2

1

22 ˆˆˆ

j

n

iiij

jSSR

ur

Var∑

==β (5. 29)

La radice quadrata di ( )jVar β è definita errore standard robusto all’eteroschedasticità.

Quando la forma dell’eteroschedasticità è nota a meno di una costante moltiplicativa, è

possibile avvalersi di stimatori GLS (stimatori dei minimi quadrati generalizzati). Gli

stimatori GLS per correggere l’eteroschedasticità sono chiamati stimatori WLS (weighted

least squares). Questi stimatori minimizzano la somma pesata dei residui al quadrato: ogni

residuo al quadrato è infatti pesato per 1/hi, dove h(x) è la forma funzionale delle variabili

esplicative che determina l’eteroschedasticità.

Formalmente, quando si ha un modello uxxxy kk +++++= ββββ ...22110 che presenta

errori eteroschedastici, per cui iiiii hxhxuVar 222 )()|( σσσ === , considerando

ii hu / al posto di iu si può transitare da un modello con errori eteroschedastici a un

modello con errori omoschedastici.

0=

i

i

i xh

uE (5. 30)

e ( ) ( ) ( ) .11 222

22 σσ ===

==

ii

iiii

i

iiii h

hh

xuExh

uExuExuVar (5. 31)

Il modello originale diventa così:

iikkiiii huhxhxhxhhy //...//// 22110 +++++= ββββ (5. 32)

ovvero ***

22*11

*00

* ... iikkiiii uxxxxy +++++= ββββ , (5. 33)

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126

dove 0)( * =iuE , 2* )( σ=iuVar .

Spesso è però difficile definire la funzione ( )ixh , ovvero non è possibile conoscere come

la varianza dell’errore è correlata alle variabili indipendenti. In tali casi si può utilizzare la

stima di ih , ovvero ih (la forma funzionale generalmente utilizzata è quella esponenziale).

Utilizzando ih al posto di ih si ottiene lo stimatore FGLS (feasible GLS).

5.1.5 Le proprietà asintotiche degli stimatori OLS

Fino ad ora si sono considerati campioni finiti e si sono analizzate le proprietà esatte degli

stimatori OLS. Sotto le ipotesi 1 - 4 si è derivata la non distorsione dello stimatore OLS,

per cui, come mostrato nella (5.5): E (jβ ) = βj, j = 0, 1, … k . In caso di distorsione dello

stimatore OLS, la (5.5) non è più valida. Vi è comunque unanimità in letteratura

nell’affermare che il requisito minimo per gli stimatori OLS quando sono distorti è la

consistenza:

0)ˆ( →>− εββ jjP per ∞→n , (5. 34)

per cui se lo stimatore è consistente, la distribuzione di jβ diviene progressivamente più

concentrata intorno a jβ all’aumentare della dimensione del campione (ovvero per

∞→n ). È quindi possibile affermare che, sotto le ipotesi di Gauss-Markov 1 – 4, lo

stimatore OLS jβ è consistente per jβ , con j = 0, 1, …, k. Formalmente, si considera:

−=

ii

iii

xx

yxx

211

11

1)(

)(β e iii uxy ++= 110 ββ ;

−+=

++−=

ii

iii

ii

iiii

nxx

nuxx

xx

uxxx

/)(

/)(

)(

))((ˆ

11

11

1211

11011

1 βββ

β (5. 35)

Applicando la legge dei grandi numeri al numeratore e denominatore, si ottiene che il

numeratore in probabilità converge a ),( 1 uxCov , mentre il denominatore in probabilità

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127

converge a )( 1xVar . Purchè 0)( 1 ≠xVar (per l’ipotesi 3 delle ipotesi di Gauss-Markov), si

ha che:

)(

),(ˆlim1

111 xVar

uxCovp += ββ . (5. 36)

Se 0),( 1 =uxCov , allora

11ˆlim ββ =p (5. 37)

Perché lo stimatore OLS sia consistente (il caso qui considerato è di regressione semplice)

si è utilizzata l’ipotesi di assenza di correlazione: 0)( =uE e ,0),( =uxCov j per

kj ,...2,1= . Così come gli stimatori OLS sono distorti se 0),...,|( 21 ≠kxxxuE , nel caso in

cui 0),( 1 ≠uxCov tutti gli stimatori OLS sono inconsistenti. Se l’errore u è correlato con

una qualsiasi delle variabili indipendenti, allora lo stimatore OLS è distorto e non

consistente. La non consistenza (o distorsione asintotica) è:

)(

),(ˆlim1

111 xVar

uxCovp =− ββ . (5. 38)

Poiché 0)( 1 >xVar , la non consistenza dipende dal segno del numeratore.

Con l’introduzione dell’ipotesi 5 di omoschedasticità, considerando l’insieme delle ipotesi

1 - 5 si è potuto affermare che lo stimatore OLS è il migliore stimatore lineare non distorto.

Dall’ipotesi 6 di normalità della distribuzione dell’errore si sono derivate le distribuzioni

campionarie esatte degli stimatori OLS (condizionatamente alle variabili esplicative). La

(5.13) ha indicato che gli stimatori OLS hanno distribuzione campionaria normale (ovvero

sono distribuiti come una normale) e ciò ha consentito di considerare le distribuzioni t e F

per le statistiche t e F. In assenza però dell’ipotesi di normalità della distribuzione

dell’errore, le statistiche t e F non hanno distribuzioni t e F esatte. Per campioni

sufficientemente grandi, il Teorema del limite centrale86 consente di verificare che gli

stimatori OLS hanno una distribuzione asintoticamente normale e quindi i test t e F hanno

approssimativamente una distribuzione t e F.

Il teorema della normalità asintotica degli stimatori OLS afferma che sotto le ipotesi 1 – 5

di Gauss-Markov : 86 Si consideri { }nyyy ,...2,1 variabile casuale con media µ e varianza 2σ . Il Teorema del limite centrale

allora la variabile casuale n

yz n

n σµ−

= ha asintoticamente una distribuzione normale standard.

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128

)ˆ( jjn ββ − ~a ),0(2

2

jaN

σ, (5. 39)

dove 2

2

ja

σ è la varianza asintotica di )ˆ( jjn ββ − ; )ˆ

1lim(

1

22 ∑=

=n

iijj r

npa con ijr sono i

residui della regressione di jx sulle altre variabili indipendenti. jβ ha distribuzione

asintoticamente normale;

2σ è uno stimatore consistente di )(2 uVar=σ ;

,j∀ )ˆ(

ˆ

j

jj

se βββ −

~a N (0,1).

Al crescere di n, ovvero per campioni sufficientemente grandi, la statistica t approssima

una normale N.

5.1.6 Le variabili qualitative (variabili dummy)

Nelle analisi di regressione possono figurare variabili qualitative, che assumono valore pari

a 0 o 1: si parla in questo caso di variabili binarie (dummy variable). Una variabile dummy

è solitamente impiegata per discriminare tra differenti gruppi e il coefficiente relativo

indica la differenza (ceteris paribus) tra i gruppi. Nel caso in cui si considerino diversi

gruppi, si introduce nella regressione un set di variabili dummy: se i gruppi sono n, le

variabili dummy da includere nel modello sono (n-1), per evitare di incorrere in problemi di

perfetta collinearità (dummy variable trap). Le stime dei coefficienti delle variabili dummy

incluse nel modello devono essere interpretate con riferimento al gruppo base non incluso

nel modello.

E’ inoltre spesso utile considerare le interazioni tra le variabili dummy e le altre variabili

esplicative quantitative: in questo caso non solo si hanno intercette diverse per i diversi

gruppi considerati, ma si possono manifestare anche differenze nelle evoluzioni dei

fenomeni rappresentati dai regressori quantitativi e quindi si hanno differenze nelle

pendenze.

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129

5.1.7 Le forme funzionali

Diverse possono essere le forme funzionali considerate nelle analisi di regressione.

In un semplice modello dove sia la variabile dipendente sia le variabili esplicative sono

espresse in livelli (5.1), il coefficiente 1β indica di quanto cambia la variabile dipendente al

variare di una unità della variabile indipendente. Ciò equivale a dire che

1xy ∆=∆ β (5. 40)

Nel caso in cui si abbia un modello log-livello del tipo:

,...)log( 22110 uxxxy kk +++++= ββββ (5. 41)

il coefficiente 1β indica la variazione percentuale nella variabile dipendente y in

conseguenza di una variazione unitaria nella variabile indipendente 1x . In questo modo,

l’effetto di un aumento unitario della variabile indipendente genera una variazione

percentuale costante nella variabile dipendente:

11

1 β=⋅dx

dy

y (5. 42)

Considerando il modello

,...)log( 22110 uxxxy kk +++++= ββββ (5. 43)

il coefficiente 1β indica di quante unità cambia la variabile dipendente per effetto di una

variazione percentuale della variabile indipendente:

1

11 x

dxdy β= (5. 44)

Si ipotizza quindi che una variazione dell’1% nella variabile indipendente 1x generi un

effetto costante sul valore della variabile dipendente; tale effetto costante è misurato dal

coefficiente 1β .

Nel modello log-log

,...)log()log( 22110 uxxxy kk +++++= ββββ (5. 45)

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130

il coefficiente 1β indica la variazione percentuale nella variabile dipendente y per effetto di

una variazione dell’1% nella variabile indipendente x.

Il coefficiente 1β rappresenta cioè l’elasticità di y rispetto ad x1:

11

1

β=⋅y

x

dx

dy (5. 46)

I motivi per cui nelle analisi di regressione le variabili sono presentate in forma logaritmica

sono molteplici. I modelli che presentano la variabile dipendente espressa in forma

logaritmica soddisfano in modo migliore rispetto ai modelli in livello le ipotesi del modello

lineare classico: regressori strettamente positivi hanno spesso distribuzioni asimmetriche, i

logaritmi possono mitigare o eliminare tale problema. I logaritmi consentono inoltre di

trascurare le unità di misura delle variabili indipendenti e di restringere l’intervallo di

variazione di una variabile: ciò rende le stime meno sensibili alla presenza di osservazioni

estreme (outlying) nelle variabili dipendente o indipendenti.

Alcune variabili esplicative possono avere effetti marginali crescenti o decrescenti sulla

variabile dipendente. Si considerano allora funzioni non lineari, in particolare quadratiche:

uxxy +++= 2210 βββ (5. 47)

il coefficiente 1β non indica la variazione in y determinata dalla variazione di una unità di

x. Stimando il modello si ottiene:

2210

ˆˆˆˆ xxy βββ ++= (5. 48)

la relazione tra y e x dipende dal valore di x, infatti:

xxy ∆+=∆ )ˆ2ˆ(ˆ 21 ββ , da cui: 21ˆ2ˆˆ

ββ +≈∆∆

x

y. (5. 49)

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131

5.2 Il Linear Probability Model (LPM)

Quando la variabile dipendente è una variabile dummy, jβ non può essere interpretato

come la variazione in y determinata dalla variazione di una unità nella variabile jx ,

tenendo tutti gli altri regressori fissi. Quando la variabile y è una variabile binaria che

assume valore 0 o 1, è sempre vero che:

( ) ( )xyExyP ||1 == (5. 50)

La probabilità di successo, ovvero la probabilità che 1=y sia pari al valore atteso di y è

una funzione lineare injx :

( ) kk xxxyP βββ +++== ...|1 110 (5. 51)

L’equazione (5.51) è un esempio di modello a risposta binaria e ( )xyP |1= è nota come

probabilità di risposta (response probability). Nel modello LPM jβ misura la variazione

nella probabilità di successo al variare di una variabile continua jx , tenendo fissi gli altri

fattori:

( ) jj xxyP ∆== β|1 (5. 52)

Moltiplicata per jx∆ , la (5.52) dà la variazione approssimata in ( )xyP |1= quando

jx aumenta di jx∆ , tenendo fissi tutti gli altri regressori. Il modello di regressione lineare

multiplo con variabile dipendente binaria è noto come linear probability model (LPM),

poiché la response probability è lineare nei parametri jβ .

Il LPM presenta alcuni problemi: stimando la variabile y, y potrebbe assumere (per alcune

combinazioni dei valori dei regressori) anche valori non compresi tra 0 e 1 e trattandosi di

una probabilità predetta tale risultato non ha alcun senso. Inoltre, il LPM implica un effetto

marginale costante di ciascuna variabile esplicativa sulla variabile y. Infine, il LPM viola

l’ipotesi:

( ) ( ) ( )[ ]xpxpxyVar −= 1| ,

presenta quindi inevitabilmente problemi di eteroschedasticità.

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132

5.3 I modelli probit

Il metodo di analisi probit consente di superare i limiti presentati dal LPM. Al fine di

illustrare le caratteristiche dei modelli probit, si considera una classe di modelli a risposta

binaria della forma:

( ) )()...(|1 0110 χβββββ +=+++== GxxGxyP kk (5. 53)

dove G è una funzione che assume valori strettamente compresi tra 0 e 1: 0 < )(zG < 1,

per tutti i numeri reali z. Ciò assicura che le probabilità stimate di risposta siano

strettamente comprese tra 0 e 1 ( kk xx ββχβ ++= ...11 ).

Nel modello probit, la funzione G è:

∫∞−

=Φ=z

dvvzzG )()()( φ dove )2/exp()2()( 221

zz −∏= −φ (5. 54)

La scelta di G assicura che ( ) )()...(|1 0110 χβββββ +=+++== GxxGxyP kk sia

strettamente compresa tra 0 e 1 per tutti i valori dei parametri e di jx , (dove

kk xx ββχβ ++= ...11 ).

L’obiettivo generalmente perseguito è la stima dell’effetto parziale di jx sulla probabilità

di successo ( )xyP |1= , ma ciò è complicato dalla natura non lineare della funzione G. Se

jx è una variabile continua, il suo effetto parziale su )|1()( xyPxp == è pari a:

( ) jj

gx

xp βχββ +=∂

∂0

)(, dove )()( z

dz

dGzg ≡ (5. 55)

Poiché G è una funzione di distribuzione cumulativa standard normale (cdf) di una

variabile casuale continua, g è una densità di probabilità. Per la funzione probit, )(⋅G è una

funzione strettamente crescente, per cui 0)( >zg per tutti gli z. L’effetto parziale di jx su

)(xp dipende da χ attraverso la quantità positiva ( )χββ +0g e quindi l’effetto parziale

ha sempre lo stesso segno di jβ . L’equazione mostra che gli effetti relativi di due qualsiasi

variabili esplicative non dipendono daχ : il rapporto degli effetti parziali per jx e hx è

hj ββ / . Nel caso in cui g è simmetrica rispetto allo zero, il maggiore impatto si ha quando

00 =+ χββ . Si ottiene quindi con )()( zzg φ= , 40.02/1)2()0()0( 21

≈Π=Π==−

φg .

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133

Se per stimare il LPM si possono utilizzare gli OLS, per i probit essi non sono applicabili a

causa della non linearità di )|( χyE . Si utilizza allora la stima maximum likelihood (MLE).

Per ottenere lo stimatore MLE, condizionando sulle variabili esplicative, è necessario

disporre della densità di iy dato iχ :

[ ] [ ] yi

yii GGyf −−= 1

; )(1)()|( βχβχχ β , 1,0=y (5. 56)

Prendendo il logaritmo della (5.56) si può scrivere la funzione log-likelihood:

[ ] ( ) [ ])(1log1)(log)( βχβχβ iiiii GyGy −−+=l (5. 57)

Poiché )(⋅G è strettamente compreso tra 0 e 1 nel modello probit, )(βil è definito per tutti

i valori di β . Lo stimatore MLE di β , ovvero β , massimizza la funzione (5.57). Se )(⋅G

è la cdf di una distribuzione normale standard, allora β è lo stimatore probit. La teoria

dell’MLE per campioni casuali sostiene che sotto le condizioni generali lo stimatore MLE

è consistente, asintoticamente normale ed efficiente.

Il problema principale per il metodo probit consiste nell’interpretazione del coefficiente.

Un primo metodo consiste nel sostituire ogni variabile esplicativa con la sua media

campionaria:

( ) ( )kk xxxgg βββββχβ ˆ...ˆˆˆˆˆ221100 ++++=+ , (5. 58)

dove )(⋅g è la densità normale standard. Quando la (5.58) è moltiplicata per jβ , si ottiene

l’effetto parziale di jx per il soggetto medio nel campione.

Un secondo metodo consiste invece nel calcolare la media degli effetti parziali individuali

nel campione, ottenendo l’effetto parziale medio:

( )[ ]∑=

− +n

ijign

10

1 ˆˆˆ ββχβ , (5. 59)

dove il termine che moltiplica jβ è un fattore di scala (nel modello probit,

( ) ( )βχβφβχβ ˆˆˆˆ00 iig +=+ ).

Calcolare i fattori di scala consente di rendere confrontabili gli effetti parziali che si

ottengono utilizzando i metodi LPM e probit. Poiché per i probit 40.02/1)0( ≈Π=g e

per LPM 1)0( =g , una “rule of thumb” consiste nel dividere le stime probit per 2.5 per

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134

renderle confrontabili con le stime LPM. Tuttavia per stabilire confronti più accurati si

utilizza il fattore di scala ( )[ ]∑=

− +n

iign

10

1 ˆˆ βχβ .

5.4 Le analisi di regressione con dati pooled cross-

section

Il secondo insieme di analisi è stato realizzato mediante l’utilizzo di dati pooled cross

section. I dataset pooled cross section sono ottenuti considerando dei campioni da una

popolazione in differenti periodi di tempo. Da un punto di vista statistico, i dataset pooled

cross section sono costituiti da osservazioni campionarie indipendenti: ciò esclude che vi

sia correlazione nei termini di errore tra le differenti osservazioni. Poiché le distribuzioni

delle variabili tendono a variare nel tempo, l’ipotesi di distribuzione identica non è di solito

valida. Considerando dataset pooled cross section si hanno quindi osservazioni

indipendenti, non identicamente distribuite (i.n.i.d.). Per tener conto del fatto che la

popolazione può avere differenti distribuzioni nei vari periodi temporali si consente

all’intercetta di variare nei diversi periodi di tempo introducendo variabili dummy

temporali per tutti i periodi considerati, tranne uno, scelto come anno base. E’ possibile

comunque interagire le variabili binarie con gli altri regressori per verificare se l’effetto di

una specifica variabile è mutato nel tempo.

Il metodo di stima per i dataset pooled cross section è quello degli stimatori OLS con le

procedure descritte in precedenza, comprese le misure da adottare in presenza di

eteroschedasticità.

I dati pooled cross section sono inoltre utilizzati per valutare l’impatto di un certo evento o

di una certa politica. Si parla di esperimento naturale quando un evento esogeno (spesso un

cambiamento di policy) modifica il contesto nel quale individui, famiglie, imprese, città,

nazioni, etc operano. Un esperimento naturale richiede la presenza di un “gruppo di

controllo” (C) non interessato dalla variazione della policy e un “gruppo trattato” (T) che si

ritiene invece essere interessato dalla policy. Per verificare se vi siano differenze

sistematiche tra i due gruppi è necessario disporre di dati relativi a due anni, uno

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135

precedente il cambiamento della policy, e uno successivo a esso. Si divide quindi il

campione in quattro gruppi: C = control group, T = treatment group, dT =1 variabile

binaria per gli individui appartenenti al gruppo trattato, d2 = variabile binaria per il

secondo periodo. Formalmente:

rialtrifattodTddTdy +⋅+++= 22 1100 δβδβ (5. 60)

dove 1δ misura l’effetto della policy (poiché misura l’effetto del trattamento o della policy

sul valore medio della variabile dipendente è detto effetto di trattamento medio). Senza

altri fattori nella regressione, 1δ è lo stimatore difference-in-differences:

( ) ( )CTCT yyyy ,1,1,2,21 −−−=δ (5. 61)

5.5 Le analisi di regressione con dati panel

Un dataset panel presenta sia la dimensione cross-sezionale, sia la dimensione time-series:

per raccogliere i dati panel o longitudinali si rilevano infatti dati sugli stessi soggetti su un

certo arco temporale. In questo caso non è ovviamente possibile affermare che le

osservazioni sono indipendentemente distribuite nel tempo. Si rende quindi necessario il

ricorso a specifici modelli e metodi di analisi.

Si considera a titolo esemplificativo il modello seguente, riferito a un dataset panel di due

soli periodi: 2,1=t :

itiittit uaxdy ++++= 100 2 βδβ (5. 62)

La variabile td2 è una variabile dummy pari a 0 quando 1=t e pari a 1 quando 2=t ,

perciò l’intercetta è pari a 0β per 1=t e a 00 δβ + in 2=t .

La variabile ia cattura tutti i fattori non osservati e costanti nel tempo che hanno un effetto

su ity : generalmente ia è definito effetto non osservato o effetto fisso. Il modello (5.62) è

pertanto detto a effetti fissi.

Il termine di errore itu indica un errore idiosincratico o errore che varia nel tempo e

rappresenta i fattori non osservati che variano nel tempo e hanno un impatto sulla variabile

dipendente ity .

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136

5.5.1 Il metodo first-differencing

Un primo metodo di stima per modelli panel consiste nella derivazione dello stimatore first

differencing.

Nel modello (5.62) l’“effetto non osservato” ia , costante nel tempo, può essere correlato

con le variabili esplicative. Al fine di eliminare l’effetto fisso ia si può utilizzare il metodo

di stima definito first differencing.

È possibile considerare due modelli in due diversi periodi di tempo, per esempio:

221002 )( iiii uaxy ++++= βδβ , in 2=t (5. 63)

11101 iiii uaxy +++= ββ , in 1=t (5. 64)

Sottraendo la (5.64) dalla (5.63) si ottiene:

)()()( 12121012 iiiiii uuxxyy −+−+=− βδ , (5. 65)

ovvero ii uxy ∆+∆+=∆ 110 βδ (5. 66)

definita “equazione first-differenced”, dove∆ indica la variazione tra 1=t e 2=t . Lo

stimatore OLS di 1β è detto “stimatore first-differenced” (FD).

Per stimare modelli first differencing è necessario introdurre alcune ipotesi:

Ipotesi FD.1: per ogni osservazione i, il modello è:

itiitkitit uaxxy ++++= ββ ...1 , Tt ,...,2,1=

Ipotesi FD.2: campionamento casuale; si ha un campione casuale di n osservazioni, {(xi1,

xi2 , …xik, yi ): i = 1,2, …, n} per ogni periodo dell’intervallo di tempo considerato.

Ipotesi FD.3: ogni variabile esplicativa varia nel tempo (per almeno alcune osservazioni i)

e non esistono relazioni lineari perfette tra le variabili esplicative.

Assumendo che itX rappresenti l’insieme delle variabili esplicative per tutti i periodi di

tempo delle osservazioni cross-section, per cui itX contiene xitj, Tt ,...,2,1= , kj ,...2,1= , si

formula la

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137

Ipotesi FD.4: per ogni t, ( ) 0,| =iiit aXuE , ovvero il valore atteso dell’errore idiosincratico

date le variabile esplicative in tutti i periodi considerati e l’effetto non osservato è pari a

zero.

Quando l’ipotesi FD.4 è verificata, si dice che gli xitj sono strettamente esogeni

condizionatamente al fattore non osservato: controllando per ia , non vi è cioè correlazione

tra xisj e l’errore idiosincratico rimanente itu per tutti gli s e t. Un’importane implicazione

dell’ipotesi FD.4 è che:

( ) 0| =∆ iit XuE , Tt ,...2= (5. 67)

Queste prime quattro ipotesi, se verificate, consentono di affermare che gli stimatori first-

differenced sono non distorti. Sotto le stesse ipotesi lo stimatore FD è inoltre consistente

per T dato ∞→N .

Tre ipotesi aggiuntive sono necessarie per assicurare che gli errori standard e i test statistici

risultanti dalle regressioni pooled OLS siano (asintoticamente) validi.

Ipotesi FD.5: ( ) 2| σ=∆ iit XuVar , Tt ,...2= : la varianza della variazione degli errori è

costante, condizionatamente a tutte le variabili esplicative.

Ipotesi FD.6: ( ) 0|, =∆∆ iisit XuuCov , st ≠ : le differenze negli errori idiosincratici sono

non correlate, condizionando per tutte le variabili esplicative e per tutti i st ≠ ; ovvero non

vi è correlazione seriale tra le variazioni degli errori.

Sotto le ipotesi FD.1 - FD.6 lo stimatore FD di jβ è il migliore stimatore lineare non

distorto (BLUE).

Si ipotizza inoltre che:

Ipotesi FD.7: Controllando per iX , itu∆ sono variabili casuali normali indipendenti e

identicamente distribuite (iid).

Sotto l’ipotesi FD.7 gli stimatori FD sono normalmente distribuiti e le statistiche t e F

hanno distribuzioni t e F esatte87.

87 Se l’ipotesi FD.7 non fosse verificata, si dovrebbe fare ricorso ad approssimazioni asintotiche.

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138

5.5.2 Il metodo fixed-effect

Un secondo metodo di analisi per campioni panel che consente di eliminare l’effetto fisso

ia è il metodo “fixed effect” (FE), definito anche “trasformazione within88” .

Si consideri un modello con k variabili esplicative:

itiitkkitit uaxxy ++++= ββ ...11 , Tt ,...,2,1= (5. 68)

Prendendo la media della (5.68) per ogni osservazione i rispetto al tempo si ottiene:

iiikkii uaxxy ++++= ββ ...11 (5. 69)

Poiché il fattore fisso ia è costante nel tempo esso compare in entrambe le equazioni.

Sottraendo la (5.68) dalla (5.69) si ottiene:

iitkitkkiitiit uuxxxxyy −+−++−=− )(...)( 11 ββ , Tt ,...,2,1= (5. 70)

ovvero:

ititkkitit uxxy &&&&&&&& +++= ββ ...11 , Tt ,...,2,1= (5. 71)

dove iitit yyy −=&& , itkx&& e itu&& sono variabili dalle quali si è sottratto il valore medio

rispetto al tempo. Esse sono note come variabili “time-demeaned”.

L’effetto non osservato ia non compare nella (5.71). Ciò suggerisce che si possa stimare

l’equazione con stimatori OLS, definiti in questo caso stimatori a effetti fissi, “fixed effect”

(FE), perché basati appunto su variabili dalle quali si è sottratto il valore medio rispetto al

tempo.

La derivazione degli stimatori fixed effect richiede che siano soddisfatte alcune ipotesi

elencate di seguito.

Ipotesi FE.1: per ogni osservazione i, il modello è:

itiitkkitit uaxxy ++++= ββ ...11 , Tt ,...,2,1=

dove jβ sono i parametri da stimare e ia è l’effetto non osservato.

Ipotesi FE.2: campionamento casuale

88 Lo stimatore FE è detto anche stimatore “within” in quanto l’OLS nella equazione (5.71) di seguito considerata utilizza la variazione nel tempo in y e x tra (in inglese si usa il termine within )ogni osservazione cross sezionale.

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Ipotesi FE.3:ogni variabile esplicativa varia nel tempo (per almeno alcune osservazioni i) e

non esistono relazioni lineari perfette tra le variabili esplicative.

Ipotesi FE.4: per ogni t, date le variabili esplicative in tutti i periodi considerati e l’effetto

non osservato, ( ) 0,| =iiit aXuE , ovvero il valore atteso dell’errore idiosincratico, è pari a

zero.

Se queste prime quattro ipotesi (identiche a quelle formulate per gli stimatori first-

differencing) sono verificate, gli stimatori fixed-effect sono non distorti e consistenti per

dato T e ∞→N . L’ipotesi chiave per determinare non distorsione e consistenza degli

stimatori è l’ipotesi FE.4 di stretta esogeneità (che assume che non vi sia correlazione tra le

variabili esplicative in tutti i periodi considerati e l’errore idiosincratico, controllando per

l’effetto non osservato ia ).

Ipotesi FE.5: ( ) ( ) 2,| uitiiit uVaraXuVar σ== , Tt ...2,1=

Tale ipotesi assicura che gli errori itu siano omoschedastici.

Ipotesi FE.6: ( ) 0,|, =iiisit aXuuCov , st ≠ : gli errori idiosincratici sono incorrelati,

condizionando per tutte le variabili esplicative e per ia .

Sotto le ipotesi FE.1 - FE.6, lo stimatore fixed effect di jβ è il migliore stimatore lineare

non distorto (BLUE). In particolare l’ipotesi FE.6, che implica che gli errori non sono

serialmente correlati, rende preferibile lo stimatore fixed effect a quello first differencing.

Infine:

Ipotesi FE.7: Controllando per iX e per ia , itu sono i.i.d. come una normale ( )2,0 uN σ .

L’ipotesi FE.7 implica FE.4, FE.5 e FE.6, ma è più forte in quanto assume che gli errori

idiosincratici abbiano distribuzione normale. Aggiungendo l’ipotesi FE.7 alle precedenti

ipotesi lo stimatore FE è normalmente distribuito e le statistiche t e F hanno distribuzioni t

e F esatte89.

89 In assenza dell’ipotesi FE.7 è necessario fare ricorso ad approssimazioni asintotiche, che richiedono N grande e T piccolo.

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140

5.5.3 Il metodo random-effect

Quando si ritiene che alcune variabili omesse possano essere costanti nel tempo ma variare

tra le osservazioni e altre possano invece essere fisse tra le osservazioni considerate, ma

variare nel tempo, si utilizza il metodo “random effect” (RE) che consente di tenere in

considerazione entrambi i casi.

Si considera in particolare il modello:

itiitkkitit uaxxy +++++= βββ ...110 , Tt ,...,2,1= (5. 72)

dove, senza perdita di generalità, l’intercetta è definita in modo tale che l’effetto non

osservato ia abbia media zero.

Assumendo che :

( ) 0, =iitj axCov , Tt ,...,2,1= , kj ,...,2,1= , (5. 73)

l’equazione (5.72) è nota come “modello random effect”, poiché assume che l’effetto non

osservato ia sia non correlato con ciascuna variabile esplicativa.

Le ipotesi sulle quali si fonda lo stimatore random effect includono le prime sei ipotesi del

modello fixed effects.

Fa eccezione l’ipotesi FE.3 che è sostituita da:

Ipotesi RE.3: non vi sono relazioni lineari perfette tra le variabili esplicative.

È necessario inoltre modificare l’ipotesi FE.4:

Ipotesi RE.4: oltre all’ipotesi ( ) 0,| =iiit aXuE , si assume ( ) 0| β=ii XaE , ovvero il valore

atteso dell’effetto non osservato ia , condizionato su tutte le variabili esplicative, è

costante. L’ipotesi RE.4 gioca un ruolo cruciale escludendo che vi sia correlazione tra

l’effetto non osservato ia e tutte le variabili esplicative.

Si introduce infine l’ipotesi che impone l’omoschedasticità per ia :

Ipotesi RE.5: ( ) 2| aii XaVar σ=

Sotto le sei ipotesi (FE.1), (FE.2), (RE.3), (RE.4), (RE.5) e (FE.6), lo stimatore random

effect (RE) è consistente e distribuito asintoticamente come una distribuzione normale, per

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141

T dato e ∞→N . La consistenza e la normalità asintotica dello stimatore discendono dalle

prime quattro ipotesi. Le ultime due ipotesi garantiscono che gli errori standard e la

statistica t sono validi. Riprendendo il modello (5.72) si definisce itiit uav += , dove itv è

noto come errore composito. Si può quindi scrivere:

ititkkitit vxxy ++++= βββ ...110 (5. 74)

Poiché ia si trova nell’errore composito in ogni periodo, itv è serialmente correlato nel

tempo.

Dalle ipotesi del modello RE, discende infatti:

( ) ( )222 /, uaaisit vvCorr σσσ += , st ≠ dove { })();( 22ituia uVaraVar == σσ (5. 75)

Poiché gli errori standard usuali OLS ignorano la correlazione seriale, essi non sono validi

in questo caso, così come gli usuali test statistici.

Per risolvere tale problema si utilizzano gli stimatori dei minimi quadrati generalizzati

(GLS).

Definendo:

( )[ ] 2/1222 /1 auu Tσσσλ +−= (5. 76)

l’equazione (5.74) può essere scritta come:

)()(...)()1( 1110 iitikitkkiitiit vvxxxxyy λλβλβλβλ −+−++−+−=− (5. 77)

Nella (5.77), per ogni variabile si considerano dati quasi-demeaned: lo stimatore fixed

effect sottrae infatti dalle variabili il valore medio delle variabili stesse rispetto al tempo; la

trasformazione random effect ne sottrae invece solo una frazione che dipende da 22 , au σσ e

dal numero di periodi T (introducendo quindi il concetto di quasi-demeaned).

Lo stimatore GLS è lo stimatore OLS pooled dell’equazione (5.77).

La trasformazione tiene conto delle variabili costanti nel tempo e questo è un vantaggio del

metodo RE rispetto ai metodi FE e FD; ciò è possibile perché il modello RE assume che il

fattore non osservato sia incorrelato con tutte le variabili esplicative, sia quelle variabili,

sia quelle fisse nel tempo. Il parametroλ non è noto, ma può essere stimato in diversi

modi, sia utilizzando OLS pooled, sia i fixed effect. Lo stimatore feasible GLS che utilizza

λ al posto di λ è chiamato stimatore RE.

Utilizzando l’equazione (5.77) è immediato osservare che quando 0=λ si ottengono gli

stimatori OLS pooled, mentre per per 1=λ si ottengono gli stimatori fixed effect.

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142

5.5.4 Il metodo between-effect

Si considerano infine gli stimatori “between effects” (BE). Essi sono ottenuti come gli

stimatori OLS dell’equazione:

iiikkii uaxxy ++++= ββ ...11 (5. 78)

utilizzando le medie (condizionate rispetto al tempo) sia della variabile dipendente, sia dei

regressori. Si utilizza il metodo BE quando si vuole controllare per variabili omesse che

variano nel tempo ma sono costanti tra le osservazioni: esso consente di utilizzare la

variazione tra le osservazioni per stimare l’effetto di variabili indipendenti omesse sulla

variabile dipendente.

I problemi principali dello stimatore BE consistono nel fatto che è distorto quando ia è

correlato con ix e nel fatto che esso per definizione non considera come le variabili

evolvono nel tempo.

5.5.5 Un confronto tra i metodi di stima per le analisi panel

Dal confronto tra i metodi FD, FE è possibile affermare che: se T=2, ovvero si considerano

due soli periodi, le stime FD e FE e tutti i test sono identici; nel caso in cui T=3 gli

stimatori FD e FE sono entrambi non distorti e consistenti, tuttavia per N grande e T

piccoli la scelta tra i due metodi dipende dalla relativa efficienza degli stimatori e ciò è

determinato dalla correlazione seriale negli errori idiosincratici itu (assumendo che itu sia

omoschedastico). Nel caso in cui gli itu sono serialmente incorrelati, FE è più efficiente di

FD; quando invece vi è correlazione seriale positiva allora è preferibile utilizzare lo

stimatore FD. Se infine ogni itjx è incorrelato con itu , ma l’ipotesi di stretta esogeneità è

violata, lo stimatore FE è meno distorto di quello FD.

Confrontando infine i metodi FE e RE, lo stimatore FE è ritenuto essere uno strumento più

convincente per stimare effetti ceteris pari bus. Tuttavia, se il regressore chiave è costante

nel tempo non è possibile utilizzare FE per stimare il suo effetto sulla variabile dipendente.

Il metodo RE consente invece di includere controlli costanti nel tempo tra i regressori.

Nel caso in cui l’ipotesi

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143

( ) 0, =iitj axCov Tt ,...,2,1= kj ,...,2,1= (5. 79)

sia rifiutata, allora si utilizzano i FE

Il test di Hausman consente infine di stabilire quale dei due metodi (FE e RE) sia

preferibile adottare.

Statisticamente fixed effect è il metodo d’analisi che dà risultati consistenti, tuttavia

potrebbe non dimostrarsi il metodo più efficiente; random effect potrebbe presentare p-

value migliori in quanto è un metodo d’analisi più efficiente.

Il test di Hausman consente di confrontare i due metodi di analisi RE e FE, testando

l’ipotesi nulla che i coefficienti stimati da RE siano gli stessi stimati da FE.

Se non vi sono differenze sistematiche tra i coefficienti ottenuti con i due metodi (il p-

value assume valori elevati, Prob>chi2 è maggiore di 0.05) allora si utilizzano i RE, in caso

contrario il test indica di utilizzare FE.

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CAPITOLO 6

CARATTERISTICHE DEL CDA, STRUTTURA PROPRIETARIA E PERFORMANCE: UN’ ANALISI EMPIRICA

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145

Si presentano in questo capitolo i risultati delle analisi di regressione condotte sul

campione di imprese descritto nel Capitolo 4 e realizzate attraverso l’utilizzo del software

econometrico Stata 9.

I modelli considerati si concentrano su quattro aree di indagine. In primo luogo si

analizzano le caratteristiche del Consiglio di Amministrazione in funzione della struttura

proprietaria, considerando le relazioni che si instaurano tra questi due aspetti di corporate

governance.

Si analizza quindi l’impatto delle variabili economiche-finanziarie d’impresa sulla

dimensione e composizione del Consiglio di Amministrazione. In particolare si

considerano la percentuale di amministratori esecutivi, o insider representation e la

percentuale di amministratori indipendenti sul totale dei consiglieri del Consiglio di

Amministrazione.

Nel terzo paragrafo si studia poi la relazione tra performance societaria e caratteristiche del

Consiglio di Amministrazione, indagando se e come influisca sulla redditività e sulle

opportunità di crescita dell’impresa.

Infine, si considerano le determinanti della decisione di istituire i comitati interni al

Consiglio di Amministrazione, come raccomandato dal Codice di autodisciplina. Alcune

ulteriori analisi sono poi tese a verificare l’esistenza di equilibri tra poteri, in particolare tra

consiglieri indipendenti e comitati interni al CdA.

Lo studio delle differenti tecniche econometriche illustrate nel capitolo 5 ha permesso di

confrontare le potenzialità e nel contempo i problemi che possono sorgere nel loro utilizzo.

Le analisi qui presentate sono basate sul metodo di analisi pooled cross section e si

riferiscono al campione panel di 157 società osservate per gli anni 2004-2007. Si è scelto

di condurre i test econometrici utilizzando il metodo d’analisi pooled cross section e di

inserire le dummy temporali considerando come anno base il 2007, che quindi non figura

nei modelli di analisi. Tale scelta è stata motivata dal fatto che per questo lavoro di ricerca

l’analisi pooled cross section è sembrata migliore rispetto alla tecnica generalmente

utilizzata su campioni panel, ovvero il metodo fixed effects. Lo stimatore FE controlla

infatti per le variabili omesse che differiscono tra le osservazioni del campione, ma sono

costanti nel tempo, ovvero utilizza le variazioni delle variabili nel tempo per stimarne gli

effetti sulla variabile dipendente. Ciò è equivalente a inserire le variabili dummy temporali

(annuali nel nostro caso) che consentono di controllare per gli “effetti fissi” in regressioni

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146

pooled OLS. Rilevando però scarsa variabilità nel tempo relativamente alle caratteristiche

del CdA, lo stimatore FE si è rilevato non essere adeguato. Lo stesso vale per lo stimatore

RE (calcolato come media ponderata di FE e BE). Poiché BE trascura molta informazione

(in quanto lavora sulle medie over time) lo stimatore OLS sulla pooled cross section

sembra essere la scelta più adeguata.

Dopo aver effettuato per ogni modello il test di White con l’obiettivo di verificare la

presenza di eteroschedasticità, si sono utilizzati gli errori standard robusti. Si è tenuto

inoltre conto del fenomeno dei cluster: ogni osservazione (ovvero ogni società) in quanto

rilevata per quattro anni appartiene al cluster definito da quella stessa impresa.

Formalmente:

isiisis ucxy ++= β ; nel nostro caso 157=i e 4=s , dove i indicizza il gruppo o cluster e

s indicizza le unità all’interno del cluster.

Poiché si ritiene che le osservazioni all’interno di un cluster siano correlate (come risultato

di un effetto cluster inosservato), si sono utilizzati gli “errori standard robusti ai cluster”

per la presenza appunto di 157 clusters definiti in funzione del “nome della società”.

Le analisi presentate nei seguenti paragrafi sono state realizzate utilizzando anche il dataset

sbilanciato (dataset costituito da 187 società per il 2004, 201 per il 2005, 254 per il 2006 e

261 società per l’anno 2007). In questo caso i risultati ottenuti sono qualitativamente

consistenti e perfettamente coerenti con quelli emersi dalle analisi effettuate sul campione

bilanciato di società; non vengono riportati per ragioni di spazio.

Per le analisi condotte sul campione di imprese panel utilizzando i metodi FE, RE e BE si

rimanda alla trattazione nell’ultimo paragrafo di questo capitolo.

6.1 Le caratteristiche del CdA in funzione della

struttura proprietaria

Un primo insieme di analisi si occupa della relazione tra uno specifico elemento di governo

delle imprese, la struttura proprietaria e le caratteristiche del Consiglio di Amministrazione

delle società quotate italiane del campione, considerate nel periodo 2004-2007. Si è

condotta in tal senso un’analisi innovativa, della quale non si sono trovati contributi in

letteratura. Si ritiene tuttavia che tale analisi possa rappresentare un interessante campo di

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147

ricerca, soprattutto se riferita alle società quotate italiane che presentano alcune peculiarità:

strutture proprietarie concentrate e fenomeno della proprietà familiare assolutamente non

trascurabile, come mostrato nel Capitolo 4. La letteratura empirica conferma che gran parte

delle società privatizzate90 agli inizi degli anni Novanta, caratterizzate in una prima fase da

una proprietà relativamente dispersa, ha sperimentato a partire dall’inizio del nuovo

millennio un ricompattamento dell’azionariato. Nelle società considerate esiste dunque un

soggetto che è titolare di una frazione significativa delle azioni societarie e per questo è

incentivato a svolgere un ruolo attivo nella gestione aziendale. Tale soggetto o gruppo di

comando (se vi è una ristretta cerchia di azionisti che detengono quote elevate di capitale

sociale) ha considerevoli probabilità di esercitare un controllo sul management e non di

rado di ricoprire incarichi manageriali (si configura così il sistema definito insider system).

In questo caso si verifica un maggiore allineamento tra la funzione obiettivo del soggetto

controllante e la massimizzazione del valore dell’impresa, in quanto decisioni che non

creano valore comportano un effetto negativo anche per il soggetto o il gruppo di

comando. Il soggetto controllante può infatti influire sul management affinché questo sia

maggiormente incline ad assumere decisioni che accrescono il valore delle azioni; ciò

determina benefici condivisi del controllo (shared benefits of control) che avvantaggiano

tutti gli azionisti. Il problema che emerge di frequente è rappresentato dai conflitti di

interesse tra il soggetto o il gruppo di comando che mantiene il potere di gestione della

società e la proprietà diffusa, ovvero l’insieme di soggetti che apportano capitali senza

influire attivamente sulle decisioni aziendali. Tale situazione tende ad aggravarsi

ulteriormente nel caso in cui la separazione tra proprietà e controllo sia attuata mediante il

ricorso a strumenti legali e o contrattuali che accrescono l’incentivo a espropriare la

ricchezza degli azionisti che non partecipano attivamente alla gestione aziendale. La

comunicazione di governance, istituita in tal senso, dovrebbe permettere ai destinatari di

acquisire consapevolezza in merito alla struttura del capitale e alla presenza di azionisti

rilevanti. Le Linee guida italiane raccomandano infatti la divulgazione di informazioni sul

funzionamento dell’assemblea e sull’interazione tra l’impresa e gli azionisti.

90 Il processo di privatizzazione cui si fa riferimento (della prima metà degli anni Novanta) ha portato alla cessione di consistenti quote di società mediante offerte pubbliche di vendita.

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Nelle analisi di regressione condotte si è cercato di indagare quindi la relazione tra struttura

proprietaria e assetto di governo societario. Con riferimento alla proprietà diretta91, si è

considerato il grado di concentrazione della proprietà azionaria. Come variabili esplicative

sono state utilizzate il numero di azionisti rilevanti, la quota di capitale sociale detenuta dal

complesso degli azionisti rilevanti e la frazione di capitale azionario dei primi tre azionisti

rilevanti, considerando singolarmente i rispettivi possessi azionari.

Inoltre si è inserita una variabile binaria che indica la presenza di patti di sindacato. In

presenza di compagini azionarie concentrate infatti, la proprietà è scarsamente

contendibile. Pertanto l’eventuale trasferimento del controllo non si verifica tipicamente

mediante scalate ostili, bensì attraverso accordi diretti tra azionisti di riferimento. In tali

sistemi, il mercato della riallocazione del controllo ha scarse possibilità di funzionare quale

meccanismo di governance; sono i meccanismi di controllo interni e quelli legali che

possono offrire una protezione agli azionisti di minoranza.

Relativamente ai primi, assume importanza il ruolo svolto dal Consiglio di

Amministrazione e in particolare la sua composizione, la presenza di amministratori

indipendenti e l’articolazione in comitati che decidono su questioni particolarmente

sensibili per gli azionisti (come, ad esempio, la remunerazione del management o

l’adozione di sistemi di controllo interno).

Dai test condotti (Tabella 6.1, Modelli I - III) emerge che all’aumentare della quota di

capitale sociale detenuta dagli azionisti rilevanti sia considerati nel loro complesso, sia

singolarmente, la dimensione del CdA tende a diminuire92. Tale relazione negativa si

presenta anche, ma con intensità maggiore quando si considera come variabile dipendente

la percentuale di consiglieri indipendenti sul totale degli amministratori del board (in

questo caso i coefficienti sono -0.340 nel Modello I e nel Modello II -0.242, -0.202 tuttavia

non significativo e -1.292): al crescere della concentrazione proprietaria le società tendono

a presentare CdA con percentuali inferiori di amministratori indipendenti (Tabella 6.2,

Modelli I e II).

91 Nel rilevare la struttura proprietaria di ogni società è stato adottato il metodo tradizionale che considera il soggetto presente nell’azionariato della società e misura la partecipazione detenuta in termini di quota di diritti di voto. 92 La relazione è statisticamente significativa all’1% e il coefficiente della variabile in esame è pari a -0.063 nel I modello che considera la percentuale complessivamente detenuta dagli azionisti rilevanti, mentre nel III modello i coefficienti associati alle quote detenute dai primi tre azionisti considerati singolarmente sono pari a -0.058, -0.049 e -0.129.

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Tabella 6.1. Le caratteristiche del CdA in funzione della struttura proprietaria: dimensione del CdA

I II III

Capitale sociale azionisti rilevanti (%) -0.063*** -0.056*** (-3.37) (-3.24) Quota 1^ azionista (%) -0.058*** (-6.15) Quota 2^ azionista (%) -0.049** (-2.31) Quota 3^ azionista (%) -0.129*** (-2.94) Proprietà familiare dummy -1.595*** -1.611*** (-2.97) (-5.49) Patti parasociali dummy 1.608*** 1.420*** (3.04) (3.49) Costante 14.620*** 14.241*** 14.299*** (11.41) (11.88) (20.39) Dummy anno sì sì sì Periodo di tempo considerato 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) Numero osservazioni 628 628 628 R-quadro 0.0738 0.1426 0.1519 Statistiche t riportate in parentesi. Standard error robusti e corretti per la presenza di cluster.

La relazione tra percentuale di consiglieri esecutivi e concentrazione proprietaria è invece

positiva e significativa ai livelli convenzionali, come mostrato in Tabella 6.2, Modello III.

Allo stesso modo la relazione tra la dimensione del board e l’istituzione di patti di

sindacato è positiva e significativa ai livelli convenzionali. Tuttavia l’ipotesi di una

relazione positiva tra la presenza di accordi parasociali tra azionisti e la percentuale di

azionisti esecutivi che siedono nel board non è confermata dalle regressioni condotte

illustrate nella Tabella 6.2, Modello III.

Le analisi elaborate suggeriscono quindi che, in presenza di strutture proprietarie

concentrate, i Consigli di Amministrazione tendono a essere meno numerosi e a presentare

una minore percentuale di consiglieri indipendenti (entrambe le relazioni sono

statisticamente significative ai livelli convenzionali). Da questo quadro emerge che in

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presenza di strutture proprietarie concentrate i meccanismi di controllo interni, affidati al

Consiglio di Amministrazione, potrebbero essere poco affidabili.

Tabella 6.2. Le caratteristiche del CdA in funzione della struttura proprietaria: percentuale di amministratori indipendenti ed esecutivi nel board

Ia IIb IIIc

Capitale sociale azionisti rilevanti (%) -0.340*** 0.231*** (-3.86) (3.21) Quota 1^ azionista (%) -0.242*** (-2.91) Quota 2^ azionista (%) -0.202 (-0.75) Quota 3^ azionista (%) -1.292*** (-2.96) Proprietà familiare dummy -3.651 -3.502 6.538** (-1.47) (-1.44) (2.53) Patti parasociali dummy -1.314 -0.654 -3.159 (-0.42) (-0.22) (-0.94) Costante 60.603*** 56.674*** 14.725*** (10.87) (10.98) (3.01) Dummy anno sì sì sì Periodo di tempo considerato 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) Numero osservazioni 628 628 628 R-quadro 0.0977 0.0892 0.0911 Statistiche t riportate in parentesi. Standard error robusti e corretti per la presenza di cluster. Modelli Ia - IIb, variabile dipendente: percentuale di amministratori indipendenti nel CdA. Modello IIIc, variabile dipendente: percentuale di amministratori esecutivi nel CdA.

Tale risultato conferma l’importanza dei meccanismi di controllo legali, ovvero codici e

regolamenti. In particolare quella del Codice di autodisciplina, che regola la struttura e la

composizione dei Consigli di Amministrazione raccomandando un’adeguata

rappresentatività di amministratori indipendenti nel board e che disciplina, tra i vari ambiti

di applicazione, l’intervento diretto o indiretto degli azionisti in assemblea e prevede la

possibilità di promuovere azioni legali nei confronti degli amministratori. Rilevante è il

fatto che il Codice non richieda solo trasparenza informativa: l’introduzione del principio

del “comply or explain” è interpretabile infatti come un forte incentivo per le società

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italiane verso un progressivo adeguamento alla disciplina in materia di corporate

governance e quindi a un maggior equilibrio nel governo societario.

Oltre alla concentrazione, che determina il grado di controllo sui flussi di cassa futuri, è

rilevante la tipologia dell’azionista di controllo, ovvero il fatto che lo stesso sia una

famiglia, una società, un’istituzione finanziaria, una fondazione o la Pubblica

Amministrazione (Stato o ente pubblico). Diverse tipologie di soggetti proprietari possono

perseguire obiettivi differenti e rispondere a incentivi di diversa natura e ciò si riflette sulla

modalità di gestione dell’impresa e quindi sui risultati.

In particolare, si prendono in considerazione le relazioni tra proprietà familiare e

caratteristiche dell’assetto di governo societario. Se una frazione significativa del capitale

sociale è controllata da una famiglia, si può presumere che essa tenderà a svolgere un ruolo

attivo nella corporate governance, svolgendo incarichi esecutivi all’interno dell’impresa.

Da un lato ciò può comportare un maggior coinvolgimento nelle decisioni aziendali e un

rafforzamento, anche per questa via, della supervisione dell’operato del management,

dall’altro può però determinare l’insorgere di problemi nel caso in cui i membri della

famiglia non siano i soggetti più qualificati a ricoprire tali incarichi. Si ipotizza quindi che i

Consigli di Amministrazione di società “familiari” tenderanno a presentare un numero

ridotto di figure professionali esterne (ovvero gli amministratori non esecutivi) a favore di

membri appartenenti al gruppo familiare; di conseguenza si è proceduto a verificare

l’esistenza di una relazione positiva tra presenza di consiglieri esecutivi nel Consiglio di

Amministrazione e proprietà familiare.

Le regressioni condotte nelle Tabelle 6.1 e 6.2 verificano tale ipotesi: per le società

“familiari” la struttura proprietaria è un fattore determinante la struttura e composizione del

CdA. Nella tabella 6.1 (Modello II) il coefficiente associato alla dummy “proprietà

familiare” è negativo e statisticamente significativo ai livelli convenzionali, a conferma che

nelle società familiari la dimensione del CdA è sensibilmente inferiore rispetto alle società

“non familiari”. Inoltre, la relazione tra percentuale di consiglieri esecutivi nel CdA e

proprietà familiare è positiva e statisticamente significativa (il coefficiente è +6.538): nel

board delle società familiari la componente esecutiva è maggiore rispetto a quella che si

osserva nei board delle altre società, come mostrato nella Tabella 6.2 (Modello III).

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6.2 Le caratteristiche del CdA in funzione delle caratteristiche dell’impresa

La relazione tra configurazione del CdA e caratteristiche societarie è molto dibattuta e vi

sono teorie che propongono visioni differenti. La resource dependence theory (Pfeffer e

Salancik 1978) considera il CdA come l’organo di collegamento fra l’azienda e il suo

ambiente di riferimento. Esso ha la responsabilità di individuare e acquisire dall’ambiente

esterno le risorse necessarie al funzionamento dell’azienda in modo da ridurre la

dipendenza e le minacce esterne: il CdA si presenta così come una risposta efficiente al

contesto in cui l’impresa è inserita. Secondo la resource based view dell’impresa (Mace,

1986; Provan, 1980), invece, il CdA contribuisce alla performance aziendale non solo

reperendo le risorse necessarie dall’ambiente esterno, ma anche attraverso le competenze e

le esperienze professionali esistenti al suo interno. L’impresa è considerata come l’insieme

delle risorse e delle capacità presenti al suo interno e le competenze possono rappresentare

sia un vincolo allo sviluppo delle imprese, qualora assenti, sia una fonte di vantaggio

competitivo, nel caso siano presenti (Madhok, 1997; Langlois e Robertson, 1995).

Le analisi empiriche presentate nelle Tabelle 6.3, 6.4, 6.5 sono state condotte sulla base

dell’ipotesi che la struttura del Consiglio di Amministrazione sia una risposta efficiente

all’ambiente, ovvero il settore industriale nel quale l’impresa opera. Inizialmente, si è

considerato il campione nel suo complesso, in seguito si sono analizzati in particolare due

settori, quello finanziario e quello high tech.

6.2.1 La dimensione del CdA

La letteratura teorica riconosce la presenza di rilevanti trade off associati alle differenti

dimensioni del Consiglio di Amministrazione, che variano per intensità in funzione delle

peculiarità delle società, ma anche in funzione delle caratteristiche settoriali nelle quali le

imprese operano, come indicato dalla “monitoring hypothesis” illustrata da Boone, Field,

Karpoff e Raheja (2007). Il maggior vantaggio che presenta un CdA numeroso è l’ampia

disponibilità di informazioni sulle diverse determinanti del valore dell’impresa. Tali

informazioni consentono ai membri del CdA di svolgere al meglio i compiti di monitoring

e di indirizzo. Di contro, un CdA numeroso incorre in costi di coordinamento e problemi di

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153

free riding maggiori, determinati dal fatto che al crescere della dimensione dell’organo

amministrativo l’influenza media dei singoli membri decresce, riducendo gli incentivi

degli amministratori a sostenere anche costi privati per raccogliere informazioni e a

svolgere attivamente la funzione di monitoring sui manager.

Tabella 6.3. Le caratteristiche del CdA in funzione delle caratteristiche dell’impresa: dimensione del CdA

I II III IV V

Log Attivo 0.319*** 0.123* (3.15) (1.26) Log Fatturato 0.335** 0.397*** (2.27) (2.90) Log Mve 0.647*** 3.820*** 4.874*** 0.673*** 0.619*** (3.87) (3.69) (4.32) (3.64) (4.15) (Log Mve)2 -0.099** -0.156*** (-2.47) (-3.66) Log Mtb -0.596** -0.284 (-2.39) (-1.11) Log Fcf 0.537*** 0.375*** (3.59) (2.76) Leverage -0.014* -0.016* (-1.70) (-1.85) Costante -6.489*** -21.818*** -31.059*** -2.032 -4.973*** (-4.98) (-3.30) (-4.27) (-1.35) (-4.14) Proprietà familiare dummy -0.543** -0.662*** (-2.17) (-2.60) Settore finanziario dummy 2.242*** 2.640*** (5.38) (6.43) Settore high tech dummy -0.315 -0.348 (-0.88) (-1.15) Dummy anno sì sì sì sì sì Periodo di tempo considerato 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) Numero osservazioni 623 623 621 487 608 R-quadro 0.3114 0.3355 0.3897 0.3915 0.3995 Statistiche t riportate in parentesi. Standard error robusti e corretti per la presenza di cluster.

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154

Tali dinamiche sono state analizzate attraverso i modelli riportati nella Tabella 6.3. I

coefficienti relativi al fatturato, al totale dell’attivo e alla capitalizzazione di mercato

(Modelli I e V) sono tutti positivi e significativi ai livelli convenzionali: ciò conferma

l’ipotesi che la dimensione del board è direttamente e positivamente correlata alla

dimensione d’impresa (come indicato anche nella Tabella 4.14). Le imprese di grandi

dimensioni sono coinvolte infatti con maggiore probabilità in un volume di attività

maggiore rispetto alle imprese di piccole dimensioni e operano in mercati differenti, sia

geografici, sia merceologici. All’interno del CdA sono richieste un maggior numero di

competenze in molteplici ambiti e questo può portare alla nomina di un maggior numero di

amministratori.

I Modelli II e III testano l’esistenza di una relazione non lineare tra la capitalizzazione di

mercato e la dimensione del board. E’ infatti ragionevole ipotizzare che la dimensione del

CdA cresca all’aumentare della dimensione societaria, tuttavia oltre una determinata soglia

l’andamento della curva in esame sia decrescente (e quindi presenti derivata negativa).

Dalle analisi emerge che i coefficienti associati alla variabile Log Mve e alla stessa

variabile elevata al quadrato sono statisticamente significativi, a confermare l’esistenza

della relazione non lineare ipotizzata.

Analizzando inoltre la variazione della dimensione societaria e della dimensione dei

Consigli di Amministrazione, le statistiche descrittive mostrano, come è ragionevole

attendersi, che la variazione della dimensione societaria93 è molto più ampia di quella

osservata nella dimensione del CdA. Nel campione la dimensione massima del CdA è pari

a 25 e quella minima è di 3 amministratori (il multiplo è pari a 8.33), mentre il valore

massimo assunto dalla variabile Mve è pari a 102 mld di euro e quello minimo è di 5.86

mln di euro (il multiplo è pari a 17,400 circa).

La variabile utilizzata come proxy per le opportunità di crescita, ovvero il Mtb, presenta

segno negativo nei Modelli III e IV (tuttavia è significativa ai livelli convenzionali solo nel

Modello III). Questo risultato conferma l’ipotesi per cui le società con opportunità di

crescita elevate operano spesso in settori dinamici dove sono richieste capacità di

coordinamento e tempi di reazione contenuti e quindi sono preferibili strutture di

93 Anche in questo caso si considera la capitalizzazione di mercato, tuttavia la stessa analisi è stata replicata considerando anche il fatturato e il totale dell’attivo.

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155

governance più snelle. E’ inoltre in linea con quanto ottenuto da Lehn, Patro e Zaho (2003)

per un campione di società statunitensi.

Introducendo variabili dummy settoriali, relative ai settori finanziario e high tech, il

coefficiente associato alla dummy “financials” è significativo sia statisticamente ai livelli

convenzionali, sia economicamente, con un coefficiente positivo pari a 2.242 e 2.640,

come mostrato nella Tabella 6.3 (Modelli IV e V). Questo risultato conferma il fatto che la

dimensione del CdA delle società finanziarie è maggiore rispetto alla dimensione del CdA

delle società appartenenti a tutti gli altri settori a parità di fattori. Il board delle società

finanziarie assume infatti un ruolo di primo piano nell’ambito dei processi di controllo

degli obiettivi aziendali e del comportamento del management, rivestendo una funzione di

garanzia nei confronti di tutti gli stakeholder. Ciò comporta non solo la verifica del corretto

funzionamento societario, ma anche un’attiva partecipazione al processo decisionale. Per

l’espletamento di queste complesse funzioni i CdA delle società finanziarie hanno una

dimensione media superiore alla dimensione media delle altre società. Ipotetici margini di

interessi economici potrebbero inoltre contribuire a spiegare la presenza di CdA più

numerosi per le società finanziarie. La variabile dummy relativa al settore high tech non è

invece statisticamente significativa ai livelli convenzionali.

6.2.2 La composizione del CdA

Con la stima dei modelli presentati nella Tabella 6.4 si è investigata la diversa percentuale

di amministratori esecutivi (definita anche “insider representation”) e indipendenti

presenti nel CdA delle società del campione.

I Modelli I-III mostrano le variabili fatturato, totale dell’attivo e capitalizzazione di

mercato (tutte espresse in forma logaritmica), che presentano coefficienti negativi e sono

significative ai livelli convenzionali. Questo risultato, consistente con la relazione

evidenziata da Lehn, Patro e Zaho (2003), indica che la dimensione d’impresa è

negativamente correlata alla presenza di amministratori esecutivi nel CdA.

Le dummy settoriali (per il settore finanziario e high tech) nei Modelli II e III sono

economicamente e statisticamente significative ai livelli convenzionali. Il coefficiente della

dummy “financial” è pari a -7.241. Tale valore indica che ceteris paribus, l’insider

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156

representation è molto più bassa per le imprese del settore finanziario rispetto alle “società

non finanziarie”. Situazione opposta si riscontra invece per le società del settore high tech,

per le quali il coefficiente associato alla dummy high tech è invece pari a +4.718.

Tabella 6.4. Le caratteristiche del CdA in funzione delle caratteristiche dell’impresa: percentuale di amministratori esecutivi e indipendenti nel board

Ia IIb IIIc IVd Ve

Log Attivo -1.070* 1.013* (-1.72) (1.55) Log Fatturato -0.756 -2.472*** 0.602 (-0.85) (-4.11) (0.65) Log Mve -1.142 -3.420*** (-1.19) (-9.18) Log Mtb 0.518 2.617** -0.184 -0.653 (0.24) (1.95) (-0.13) (-0.45) Log Fcf -1.356* 1.997*** 2.123*** (-1.64) (3.46) (3.08) Leverage -0.134*** 0.131*** 0.151*** (-2.72) (2.60) (2.59) Costante 89.792*** 61.841*** 74.981*** -2.021 0.931 (12.20) (7.34) (14.87) (-0.32) (0.12) Proprietà familiare dummy 4.571** (1.93) Settore finanziario dummy -7.609*** -7.839*** 5.747*** (-2.75) (-4.78) (2.26) Settore high tech dummy 10.164* 7.589** 4.419* (1.72) (2.50) (1.50) Dummy anno sì sì sì sì sì Periodo di tempo considerato 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) Numero osservazioni 483 614 621 485 487 R-quadro 0.2017 0.2084 0.1988 0.1264 0.1379 Statistiche t riportate in parentesi. Standard error robusti e corretti per la presenza di cluster. Modelli Ia- III c ,variabile dipendente: percentuale di amministratori esecutivi nel CdA. Modello IVd- Ve , variabile dipendente: percentuale di amministratori indipendenti nel CdA.

Emerge inoltre dai Modelli II e III una relazione positiva e significativa (anche se solo nel

secondo modello) tra opportunità di crescita (Log mtb) e insider representation, a

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157

suggerire la validità dell’ipotesi per cui le imprese con elevate opportunità di crescita

necessitano di strutture di governo snelle e flessibili in grado di prendere decisioni veloci,

per le quali è preferibile un gruppo coeso di amministratori esecutivi; un risultato in linea

con l’evidenza riscontrata in letteratura.

I Modelli IV e V nella Tabella 6.4 mostrano i risultati delle analisi che presentano come

variabile dipendente la percentuale di amministratori indipendenti che siedono nel CdA.

Si ipotizza una relazione positiva tra il livello di indipendenza del board (calcolata come

percentuale di amministratori indipendenti nel CdA sul totale degli amministratori) e la

dimensione d’impresa. Si ritiene infatti che il problema di agenzia tra management e

azionisti si acuisca al crescere della dimensione societaria, in quanto la percentuale di

azioni detenute dai manager (che possono costituire degli incentivi a una corretta gestione)

tende a presentare una relazione negativa con la crescita dimensionale dell’impresa. Al fine

di ridurre tale problema di agenzia si ipotizza perciò una relazione positiva tra livello di

indipendenza del CdA e dimensione societaria. Dalle analisi dei Modelli IV e V solo il

coefficiente associato alla variabile “totale dell’attivo” è significativo ai livelli

convenzionali; non si ha perciò evidenza robusta della validità della relazione ipotizzata.

È interessante notare che la variabile inserita nel Modello IV come proxy per la possibilità

di estrazione di rendite (Log FCF)94 presenta coefficiente positivo ed è statisticamente

significativa (all’1%). Pertanto, all’aumentare delle opportunità di estrazione di private

benefit da parte del management le società del campione tendono a inserire nei Consigli di

Amministrazione una percentuale maggiore di consiglieri indipendenti95. Questo risultato è

consistente con quanto indicato da Adams e Ferreira (2006) e Raheja (2005), che mostrano

come la possibilità di estrarre benefici privati per il management sia positivamente

associata alla presenza nel board di un maggior numero di amministratori indipendenti.

Utilizzando come proxy dell’attività di monitoring la presenza nel board di una forte

94 Nelle analisi qui presentate si utilizzano come proxy per l’estrazione di benefici privati il logaritmo dei flussi di cassa. I flussi di cassa societari possono generare infatti conflitti di agenzia, in quanto il management ha incentivi a utilizzarli a proprio beneficio e non per investimenti che creino valore (a beneficio degli azionisti). 95 In ulteriori modelli di analisi qui non presentati si è introdotta la proxy Indice di concentrazione settoriale (Indice di Herfindahl), che non è però risultata significativa ai livelli convenzionali. La concentrazione settoriale calcolata mediante l’Indice di Herfindahl rappresenta anche la possibilità di estrazione di benefici privati. Il management di una società che detiene potere di mercato nell’industria in cui opera può essere meno soggetto alla disciplina di mercato e quindi avere maggiori possibilità di estrarre rendite rispetto al management di società che operano in settori molto competitivi.

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componente di amministratori indipendenti, si può affermare che vi è evidenza nel

campione di società considerate che all’aumentare della possibilità di estrazione di benefici

privati le società tendono a rafforzare la board independence (che garantisce un’attività di

monitoring al fine di contenere i fenomeni espropriativi).

Nel Modello IV si riscontra inoltre una relazione positiva e statisticamente significativa, tra

livello di indebitamento societario (leverage) e presenza di amministratori indipendenti.

Infine, il Modello V include le dummy settoriali financial e high tech. Solamente la

dummy relativa al settore finanziario risulta significativa ai livelli convenzionali. Il

coefficiente positivo (+5.747) sta a indicare che nei CdA delle imprese finanziarie

maggiore è la quota di amministratori indipendenti rispetto a quella dei CdA di tutte le

altre società. L’evidenza empirica mostra che nelle società finanziarie italiane la funzione

di garanzia nei confronti degli stakeholder è svolta in modo più trasparente grazie a una

maggiore componente indipendente, così come indica il Codice di autodisciplina

affermando che “gli amministratori non esecutivi indipendenti, non essendo coinvolti in

prima persona nella gestione operativa della società, possono fornire un giudizio autonomo

e non condizionato sulle proposte di deliberazione”.

I Modelli probit96 presentati nella Tabella 6.5 mostrano la variazione nella probabilità di

istituzione di comitati interni al Consiglio di Amministrazione in funzione della variazione

delle caratteristiche economiche-finanziarie delle società. Dalle analisi effettuate emerge

che solamente le variabili relative alla dimensione societaria97 sembrano essere rilevanti

nello spiegare la variazione nella probabilità di istituzione dei comitati esecutivo, di

controllo interno, di remunerazione e di proposta di nomine.

Il Modello I presenta infine una relazione positiva e statisticamente significativa tra Log

FCF e istituzione del Comitato esecutivo, ciò suggerisce che al crescere della possibilità di

estrazione di rendite da parte del management aumenta la probabilità che all’interno del

CdA sia istituito un Comitato esecutivo.

96 Nei modelli presentati nella Tabella 5 è stato utilizzato il metodo dprobit. Sono riportati gli effetti marginali, ovvero la variazione nella probabilità di istituire i comitati interni al Consiglio di Amministrazione (le variabili dipendenti considerate nei quattro modelli sono infatti le dummy di ciascun comitato) per una data variazione infinitesimale delle variabili indipendenti. 97 Per ogni comitato interno si riporta solamente un modello tra quelli implementati e verificati, considerando ogni volta una variabile dimensionale differente. Anche nei modelli qui non presentati vi è sempre evidenza di una relazione positiva tra dimensione societaria e probabilità di istituire un comitato.

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159

Tabella 6.5. Le caratteristiche del CdA in funzione delle caratteristiche dell’impresa: comitati interni al CdA

Ia IIb IIIc IVd

Log Attivo 0.039** (3.06) Log Fatturato 0.035* 0.023** (1.82) (2.02) Log Mve 0.045*** (2.99) Log Mtb 0.035 0.077** 0.120*** -0.021 (1.01) (2.05) (3.10) (-1.14) Log Fcf 0.023** -0.014 0.001 -0.007 (1.80) (-1.34) (0.03) (-0.83) Leverage -0.002 0.001 0.002 -0.001 (-1.39) (0.75) (1.54) (-0.83) Dummy anno sì sì sì sì Periodo di tempo considerato 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) Numero osservazioni 485 487 487 487 R-quadro 0.0944 0.0995 0.073 0.0306 Statistiche t riportate in parentesi. Standard error robusti e corretti per la presenza di cluster. Modelli probit: Modello Ia, variabile dipendente: Comitato esecutivo dummy. Modello IIb, variabile dipendente: Comitato controllo interno dummy. Modello IIIc, variabile dipendente: Comitato di remunerazione dummy. Modello IVd , variabile dipendente: Comitato per le proposte di nomina dummy.

6.3 La performance dell’impresa in funzione delle caratteristiche del CdA

Le caratteristiche del Consiglio di Amministrazione rappresentano un insieme di variabili

potenzialmente rilevanti nel determinare la performance aziendale. A questo organo sono

attribuite infatti responsabilità articolate e complesse, che vanno dalla determinazione delle

linee strategiche di sviluppo delle imprese fino all’indirizzo (attività di advising) e al

controllo sulla performance e sull’operato del management (attività di monitoring). Il CdA

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160

si configura come un’istituzione in grado di contribuire a limitare i problemi di agenzia

relativi alla gestione e riguardanti prevalentemente i conflitti di interesse esistenti fra

proprietà e management delle imprese. Esso rappresenta quindi un meccanismo di

governance fondamentale ai fini dell’allineamento di obiettivi fra azionisti e management.

L’ipotesi da cui prendono le mosse le analisi di questa sezione è l’esistenza di una

relazione positiva tra la qualità, intesa come accountability, del modello di corporate

governance di un’impresa e il suo valore di mercato98. Tale relazione è resa possibile da

due condizioni: efficienza dei mercati e trasparenza dell’informazione sui fatti societari

(incentivata da codici e regolamenti). Se tali condizioni si verificano, è possibile per gli

investitori apprezzare l’esistenza di pratiche aziendali di “buon governo” che ne tutelino gli

interessi. Tuttavia, ad oggi le conferme di una relazione tra corporate governance e

performance sono assai contenute. In parte, ciò è dovuto ai tempi relativamente recenti di

introduzione della disciplina in materia di corporate governance da parte delle società

quotate. Il processo di recepimento delle norme è tutt’ora in corso e la sensibilità degli

investitori in tale direzione è ancora in fase di definizione. Gli investitori mostrano

solitamente un limitato apprezzamento della disciplina sulla corporate governance,

concentrandosi solamente sui risultati di breve periodo, con una conseguente attenzione

alle determinanti di incrementi degli utili piuttosto che ai meccanismi organizzativi e

gestionali che garantiscono la stabilità dell’impresa nel medio termine.

Per quanto riguarda le caratteristiche istituzionali del CdA, si considerano in questa analisi

fattori quali la dimensione, la percentuale di amministratori esecutivi e indipendenti sul

totale dei membri del CdA, la percentuale di amministratori eletti da liste presentate dalla

minoranza azionaria, la presenza femminile nel board e infine la presenza di comitati

interni al CdA. Come variabili dipendenti si utilizzano la redditività aziendale (ROA),

l’Ebit, le opportunità di crescita (Log Mtb) e la volatilità o rischio d’impresa (deviazione

standard dei prezzi azionari). È ragionevole attendersi che le caratteristiche del Consiglio

di Amministrazione (considerato al tempo t) abbiano un impatto sui risultati della gestione

98 Anche Jensen (1993) indica l’esistenza di una relazione positiva fra le caratteristiche e la qualità del Cda con la performance aziendale complessiva. L’autore ritiene che la qualità incida positivamente sulla performance in quanto consente il corretto indirizzo e governo delle strategie aziendali; la migliore capacità gestionale per quanto riguarda situazioni di crisi o di pressioni competitive; l’efficiente presidio sul sistema dei controlli interni e infine la migliore comunicazione al mercato circa l’attenzione prestata dal CdA al tema del valore per gli azionisti.

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161

e quindi sulla performance societaria negli anni successivi (e quindi in t+1, t+2, etc…).

Tuttavia, come mostrato dall’analisi delle statistiche descrittive presentate nel capitolo 4, le

variabili relative alla dimensione e composizione del Consiglio di Amministrazione

presentano scarsa variabilità temporale. Si ritiene quindi ragionevole testare anche dei

modelli che considerano gli effetti contemporanei delle caratteristiche del CdA sulla

performance societaria.

Relativamente al fattore dimensionale, Jensen (1993) e Lipton e Lorsch (1992) sostengono

che a Consigli di Amministrazione di maggiori dimensioni corrisponda una più bassa

performance aziendale. Quando le dimensioni dei CdA sono troppo elevate, questi

assumono per lo più carattere “simbolico” e la loro attività si configura come non allineata

ai processi posti in essere dal management. A questo riguardo si può ipotizzare che il

problema consista sia in un peggioramento dei processi decisionali, sia in una definizione

poco chiara delle responsabilità individuali. Le dimensioni troppo elevate del CdA

potrebbero condizionarne i processi decisionali, in seguito all’emergere (per esempio) di

problemi di comunicazione e di organizzazione delle attività. L’effetto

deresponsabilizzante che deriva dalle dimensioni elevate potrebbe creare infine problemi di

consenso nel raggiungimento di decisioni importanti costituendo, in questo modo, un

rilevante problema per l’esercizio delle attività di controllo sul management.

Le analisi presentate nelle Tabelle 6.6 - 6.8 mostrano in tutti i modelli l’esistenza di una

relazione positiva con variabili statisticamente significative ai livelli convenzionali tra

performance aziendale e dimensione del board. Tale risultato indica che per il campione

considerato la performance è crescente nella dimensione del board. Ciò potrebbe essere

determinato dal fatto che dimensioni più elevate dei Cda possono rendere più effettivo il

controllo sull’operato del management in quanto sarebbe più difficile per quest’ultimo

mettere in atto forme di condizionamento nei confronti dei consiglieri.

Questa relazione positiva non tuttavia è in linea con quanto ottenuto in letteratura.

Eisenberg et al. (1998) individuano infatti una correlazione negativa fra dimensioni del

Cda e Q di Tobin per un campione rappresentativo di imprese finlandesi; Yermack (1996)

individua una relazione negativa per un campione rappresentativo di imprese statunitensi.

Inserendo tra i regressori anche la dimensione del board al quadrato (Tabella 6.6), il

coefficiente del termine di primo grado è di segno positivo, mentre quello di secondo grado

negativo (entrambe le variabili sono significative all’1%). La funzione non lineare

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162

analizzata (una parabola) presenta come punto di massimo un valore pari a circa 15. Ciò

indicherebbe che per dimensioni del Consiglio di Amministrazione inferiori a 15

consiglieri, l’effetto dell’inserimento di un nuovo membro nel board fa aumentare la

performance aziendale, per valori dimensionali del CdA superiori l’effetto è invece

negativo.

Tabella 6.6. La performance dell’impresa in funzione delle caratteristiche del CdA: Roa

I II III IV* V*

Dimensione del CdA 1.122*** 0.854*** 0.999*** 0.149 (3.61) (2.65) (2.70) (1.37) (Dimensione del CdA)2 -0.038*** -0.028*** -0.033*** (-3.45) (-2.58) (-2.62) Consiglieri esecutivi (%) 0.062*** 0.039*** 0.058*** 0.055*** (4.11) (2.54) (2.94) (2.67) Consiglieri indipendenti (%) -0.024* (-1.60) Consiglieri di minoranza (%) 0.298 0.235 (1.46) (1.20) Consiglieri donne (%) 0.045 0.035 (1.46) (0.88) Comitato esecutivo dummy 1.011* 0.007 (1.64) (0.01) Comitato controllo interno dummy 0.619 1.012 (0.77) (1.06) Comitato remunerazioni dummy -0.153 -0.201 (-0.24) (-0.25) Comitato proposta nomine dummy 0.001 0.341 (0.00) (0.35) Costante -5.606*** -1.607 2.020* -3.964* -0.027 (-2.75) (-0.71) (1.83) (-1.69) (-0.02) Dummy anno sì sì sì sì sì Periodo di tempo considerato 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) Numero osservazioni 622 622 622 465 465 R-quadro 0.0519 0.0360 0.0406 0.0345 0.0299 Statistiche t riportate in parentesi. Standard error robusti e corretti per la presenza di cluster. *Nei modelli IV e V si è considerata la variabile dipendente Roat+1.

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163

Le analisi che tengono conto dell’effetto ritardato dell’assetto di governance sulla

redditività (presentate nei Modelli IV e V della Tabella 6.6) mostrano risultati

qualitativamente analoghi e coerenti con quelli ottenuti considerando i modelli

contemporanei.

Riguardo alla composizione dei CdA, si considera l’impatto degli amministratori esecutivi

e di quelli indipendenti sulla redditività d’impresa. I coefficienti associati alla variabile

“percentuale di amministratori esecutivi” riportati nelle Tabelle 6.6 – 6.8 sono positivi a

indicare l’esistenza di una relazione positiva tra presenza di consiglieri esecutivi e risultati

aziendali con l’eccezione del Modello I della Tabella 6.7.

In generale, gli amministratori indipendenti sono scelti oltre che per l’elevato profilo

professionale, per le garanzie fornite di indipendenza di giudizio99. Se tale componente

risulta prevalente, cresce la probabilità di ottenere una maggiore efficacia nel controllo e

quindi si può ipotizzare una migliore performance. Le analisi effettuate non consentono

tuttavia di ottenere evidenza di una relazione positiva tra la presenza di amministratori

indipendenti e redditività aziendale (nel Modello III della Tabella 6.6 il coefficiente è anzi

negativo e statisticamente significativo).

Questi esiti nel complesso poco convincenti si inseriscono in un quadro di risultati

altrettanto contrastanti: alcuni studi, (Baysinger e Butler, 1985) e Hermalin e Weisbach,

1991) mostrano che non esistono correlazioni dirette tra percentuale di amministratori

indipendenti e performance aziendale; altri e relativamente più recenti studi, (Yermack,

1996 e Barnhart e Rosenstein, 1998) trovano una relazione negativa e significativa tra la

proporzione di amministratori indipendenti e la q di Tobin a indicare che le società con più

alte percentuali di amministratori indipendenti nel board conseguono una performance

peggiore.

Anche considerando la presenza di amministratori nel board eletti da liste di azionisti di

minoranza100 non si ottengono risultati definitivi, in quanto la relazione positiva e

99 Ogni anno alle società è richiesta la verifica del rispetto dei requisiti di indipendenza definiti nel Codice di autodisciplina da parte degli amministratori indipendenti e l’esito di tale verifica deve essere comunicata al mercato e successivamente nella Relazione sul governo societario. 100 Come mostrato nel capitolo 4, la presenza nel CdA di amministratori eletti da liste di minoranza è in crescita (nel 2004 solo poco più del 10% delle società presentava nel board almeno un consigliere eletto da liste di minoranza, mentre nel 2007% la percentuale si attesta al 33%), tuttavia riguarda una percentuale minoritaria di società.

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statisticamente significativa che emerge dai Modelli I e II nella Tabella 6.7 non è verificata

nei Modelli delle Tabelle 6.6 e 6.8.

Tabella 6.7. La performance dell’impresa in funzione delle caratteristiche del CdA: Log Ebit

I II* III*

Dimensione del CdA 0.247*** 0.445*** (9.54) (4.68) (Dimensione del CdA)2 -0.007** (-1.95) Consiglieri esecutivi (%) -0.031*** 0.015*** (-7.31) (2.85) Consiglieri indipendenti (%) 0.005 0.010* (0.90) (1.75) Consiglieri di minoranza (%) 0.266*** 0.163** (3.49) (2.23) Consiglieri donne (%) -0.032*** -0.025** (-3.23) (-2.24) Comitato esecutivo dummy 1.184*** 0.202 (5.90) (0.81) Comitato controllo interno dummy 0.520* 0.047 (1.63) (0.13) Comitato remunerazioni dummy 0.408* 0.347 (1.68) (1.29) Comitato proposta nomine dummy 0.122 0.215 (0.36) (0.62) Voto di lista dummy 0.061 0.278 0.458** (0.30) (1.23) (2.12) Costante 10.920*** 7.702*** 6.473*** (27.13) (21.28) (11.07) Dummy anno sì sì sì Periodo di tempo considerato 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) Numero osservazioni 516 385 385 R-quadro 0.3088 0.3745 0.3561 Statistiche t riportate in parentesi. Standard error robusti e corretti per la presenza di cluster. *Nei modelli II e III si è considerata la variabile dipendente Log Ebitt+1

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165

Tabella 6.8. La performance dell’impresa in funzione delle caratteristiche del CdA: Mtb, deviazione standard dei prezzi azionari

Ia IIb IIIc

Dimensione del CdA 0.167* -0.017 (1.83) (-0.65) (Dimensione del CdA)2 -0.007** (-2.13) Consiglieri esecutivi (%) 0.017 0.009** (1.54) (2.23) Consiglieri indipendenti (%) -0.008 0.002 (-1.15) (0.48) Consiglieri di minoranza (%) -0.085 -0.063 (-1.44) (-1.31) Consiglieri donne (%) -0.010 -0.001 (-0.77) (-0.10) Comitato esecutivo dummy 0.575 0.431 (0.98) (1.60) Comitato controllo interno dummy 0.285 0.262 (0.68) (1.58) Comitato remunerazioni dummy -0.047 0.228 (-0.20) (1.51) Comitato proposta nomine dummy -0.209 0.066 (-1.03) (0.25) Voto di lista dummy 0.669* 0.045 (1.65) (0.26) Costante 1.662* 1.260*** 0.455 (1.63) (3.08) (1.45) Dummy anno sì sì sì Periodo di tempo considerato 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) Numero osservazioni 470 470 628 R-quadro 0.0125 0.0381 0.0720 Statistiche t riportate in parentesi. Standard error robusti e corretti per la presenza di cluster. Modelli Ia, IIb, variabile dipendente: Mtbt+1 Modello IIIc, variabile dipendente: deviazione standard dei prezzi azionari

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166

D’altra parte, come afferma il commento al Codice di Autodisciplina, “la circostanza che

un amministratore sia espresso da uno o più azionisti di minoranza non implica, di per sé,

un giudizio di indipendenza di tale amministratore”.

Per quanto riguarda l’aspetto della partecipazione femminile all’interno dei Consigli di

Amministrazione, in letteratura si ritiene che la presenza di consiglieri donne possa

contribuire a rendere i board più efficaci grazie alla possibilità di disporre di un ampio

bacino di talenti (Adams e Ferreira, 2004) e di gestire le relazioni con maggiore facilità,

disponendo di profili diversificati (Fields, 2003). Altri autori ritengono invece che

l’aumento della differenziazione rischia di ridurre l’accordo all’interno del “team” di

amministratori (Eisenhardt et Al.,1997), poiché può compromettere la fiducia fra

componenti di genere diverso. Ciò potrebbe essere particolarmente pericoloso in periodi di

tensione competitiva, quando occorre accelerare i processi decisionali e raggiungere

posizioni di consenso in tempi rapidi (Bodega, 1998).

Non vi sono evidenze empiriche in letteratura sufficienti a dimostrare la correttezza

dell’una o dell’altra posizione. Anche le analisi implementate e mostrate nelle Tabelle 6.6-

6.8 non forniscono risultati definitivi: nella maggior parte dei modelli considerati il

coefficiente relativo alla percentuale di donne nel CdA sul totale degli amministratori non

è statisticamente significativo. Solo nei Modelli I e II nella Tabella 6.7, dove si considera

come variabile dipendente il logaritmo del reddito operativo aziendale, il coefficiente della

variabile in esame ha segno negativo a suggerire che all’aumentare di consiglieri donne

che siedono nel board si riducano gli utili d’impresa (ante interessi e imposte). Si tratta in

ogni caso di una relazione che necessita di ulteriori riscontri.

Nel complesso la presenza di comitati interni al CdA non sembra presentare relazioni

dirette con la redditività, il risultato operativo aziendale e le prospettive di crescita. Dalle

analisi dei modelli emerge che solamente il Comitato esecutivo mostra relazioni positive e

significative con la performance societaria.

6.4 Checks and balances

Al fine di incrementare l’efficienza e l’efficacia dei lavori del Consiglio di

Amministrazione, il Codice di autodisciplina prevede espressamente l’istituzione di uno o

più comitati interni al CdA.

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167

Per quanto riguarda il Comitato esecutivo, il criterio applicativo 1.C.1 del Codice afferma

che “il Consiglio di Amministrazione attribuisce e revoca le deleghe agli amministratori

delegati e al Comitato esecutivo definendone i limiti e le modalità di esercizio”. Il CdA è

chiamato comunque a formulare le deleghe in modo tale da non risultare spogliato delle

proprie prerogative (Amministratori delegati e Comitato esecutivo sono tenuti infatti a

riferire al CdA le proprie attività con periodicità inferiore al trimestre).

Le analisi presentate nella Tabella 6.9 hanno l’obiettivo di verificare se esiste una relazione

tra la presenza di amministratori indipendenti nel CdA e la composizione del Consiglio di

Amministrazione considerando in modo particolare i comitati istituiti al suo interno. Il

primo modello evidenzia una forte relazione positiva e statisticamente significativa tra il

numero di amministratori indipendenti e la dimensione del CdA; la stessa relazione

positiva emerge tra il numero di amministratori indipendenti nel board e la dimensione del

Comitato esecutivo. Se nel primo caso la relazione positiva può essere determinata da un

effetto composizione, per cui al crescere della dimensione dei CdA, aumenta il numero di

amministratori che siedono nel CdA e quindi anche quello relativo ai consiglieri

indipendenti, più interessante è invece la seconda relazione. Essa suggerisce che

all’aumentare della dimensione del Comitato esecutivo, cresce la numerosità di

amministratori indipendenti presenti nel CdA. Tale risultato potrebbe essere riconducibile

a un effetto di controllo e bilanciamento dei poteri: le società quotate italiane sembrano

infatti inserire nell’organo amministrativo una maggiore rappresentanza indipendente (che

dovrebbe garantire autonomia di giudizio) per bilanciare il peso di comitati esecutivi

numerosi. Tale effetto di controllo e bilanciamento del potere si presenta con particolare

intensità nelle società appartenenti al settore finanziario, come mostra il Modello II.

Considerando solo il sottocampione di società finanziarie (Modello III), il coefficiente

associato alla dimensione del Comitato esecutivo è statisticamente significativo e di entità

superiore al coefficiente ottenuto nel Modello I (in cui si è considerato l’intero campione),

a conferma del fatto che nelle società finanziarie si ha evidenza di una maggiore

propensione a equilibrare i poteri tra le due categorie di amministratori, esecutivi e

indipendenti.

Sempre in relazione al Comitato esecutivo, l’analisi probit nel Modello I della Tabella 6.10

mostra che la probabilità che tale comitato sia costituito aumenta all’aumentare della

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168

dimensione del Consiglio di Amministrazione e tale relazione è più forte per le società

appartenenti al settore finanziario.

Tabella 6.9. Checks and balances: numero di consiglieri indipendenti

I II III* IV

Dimensione del CdA 0.443** -0.142 (1.98) (-0.23) Dimensione Comitato esecutivo 1.471*** 1.312** 3.139*** (3.50) (2.18) (3.38) Dimensione Comitato controllo interno 3.083** (2.13) Dimensione Comitato remunerazioni 1.875* (1.52) Dimensione Comitato proposta nomine 0.418 (0.39) Costante 31.268*** 37.842*** 30.607*** 27.705*** (7.80) (19.94) (3.69) (6.83) Settore finanziario dummy 6.352* (1.73) Settore high tech dummy -2.740 (-0.53) Dummy anno sì sì sì sì Periodo di tempo considerato 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) Numero di osservazioni 628 628 628 628 R-quadro 0.0584 0.0695 0.2335 0.0978 Statistiche t riportate in parentesi. Standard error robusti e corretti per la presenza di cluster. *Nel modello III si è considerato il sottocampione “settore finanziario”.

Il Codice raccomanda inoltre l’istituzione di un Comitato per la remunerazione (art. 7) e di

un Comitato per il controllo interno (art. 8) e richiede infine di valutare l’opportunità di

istituire un Comitato per le nomine (art. 6). Per questi comitati, che hanno “funzioni

propositive e consultive” definisce sia la composizione, stabilendo che la maggioranza dei

membri sia rappresentata da amministratori indipendenti, sia le competenze.

In particolar modo due comitati, quello di controllo e di remunerazione svolgono una

funzione di monitoring dell’operato del Consiglio di Amministrazione.

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169

Il Comitato per il controllo interno101 verifica il corretto utilizzo dei principi contabili,

vigila sul processo di revisione contabile e su richiesta esprime pareri su specifici aspetti

inerenti l’identificazione dei principali rischi aziendali. Il suo operato contribuisce a

limitare il conflitto di interessi, definito anche problema di agenzia, tra azionisti e

management. I primi, che agiscono nell’ottica di investitori, richiedono che la gestione da

parte del management sia orientata alla massimizzazione del valore delle azioni. I manager

invece, se da un lato non osteggiano tale obiettivo (in quanto il mancato soddisfacimento

degli interessi degli azionisti può comportare la loro rimozione dall’incarico) dall’altro

possono tuttavia, sfruttando la loro posizione, perseguire obiettivi almeno parzialmente

divergenti dalla massimizzazione del valore. Essi possono mirare ad aumentare il loro

potere e prestigio attraverso l’aumento delle risorse sotto il loro controllo, tendendo ad

accrescere le dimensioni aziendali oltre il livello ottimale dal punto di vista degli azionisti.

Il Comitato per il controllo interno agevola inoltre la diffusione di informazioni a beneficio

di azionisti e creditori riducendo così l’asimmetria informativa tra insiders e outsiders.

Anche l’operato del Comitato di remunerazione (che determina la natura e l’ammontare dei

compensi degli amministratori) contribuisce a limitare il problema di agenzia, in quanto

fornisce gli incentivi per allineare gli obiettivi del management con quelli degli azionisti.

Dalle analisi nei Modelli II-IV nella Tabella 6.10 emerge che (così come individuato per il

Comitato esecutivo) anche per i Comitati di controllo interno e di remunerazione la

probabilità di una loro istituzione è direttamente correlata alla dimensione del Consiglio di

Amministrazione, mentre per il Comitato per le proposte di nomina non vi è evidenza di

una tale relazione. Infine, nel Modello III la variabile dummy per il settore finanziario è

statisticamente significativa ai livelli convenzionali e presenta segno negativo, ad indicare

che per le società finanziarie la probabilità di istituzione del Comitato di remunerazione

cala al crescere della dimensione del board. Infine, per il settore high tech non si hanno

relazioni significative.

101 Il ruolo di tale comitato rimane distinto rispetto a quello attribuito dalla legge al collegio sindacale, che si caratterizza invece per una funzione di verifica prevalentemente ex post.

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170

Tabella 6.10. Checks and balances: comitati interni al CdA

Ia IIb IIIc IVd

Dimensione del CdA 0.035*** 0.027*** 0.029*** -0.002 (3.79) (3.97) (3.45) (-0.32) Settore finanziario dummy 0.244*** -0.093 -0.225*** 0.102* (3.24) (-1.59) (-2.79) (1.76) Settore high tech dummy 0.100 0.043 0.092 0.054 (0.79) (0.58) (0.94) (0.78) Dummy anno sì sì sì sì Periodo di tempo considerato 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) Numero di osservazioni 628 628 628 628 Pseudo R-quadro 0.2738 0.0868 0.0665 0.0284 Statistiche t riportate in parentesi. Standard error robusti e corretti per la presenza di cluster. Modelli probit: Modello Ia, variabile dipendente: Comitato esecutivo dummy Modello IIb, variabile dipendente: Comitato controllo interno dummy Modello IIIc, variabile dipendente: Comitato di remunerazione dummy Modello IVd , variabile dipendente: Comitato per le proposte di nomina dummy

6.5 Le analisi panel

Considerando il problema associato alla non osservabilità di alcune variabili esplicative

(che possono avere effetti sul comportamento della variabile dipendente), si sono realizzate

inoltre le analisi panel. Si è adottato il metodo fixed effect per controllare per variabili

omesse che differiscono tra le osservazioni ma sono costanti nel tempo (l’ipotesi alla base

del modello FE è che l’eterogeneità sia persistente nel tempo per ogni tipologia di

osservazione, ovvero per ogni impresa, ma differisca tra le imprese considerate). Si è

inoltre considerato il modello random effect, che ipotizza che il fattore di eterogeneità sia

una variabile casuale (ovvero si assume eterogeneità anche all’interno della stessa

impresa), tenendo presente che il software utilizzato per l’analisi econometrica calcola lo

stimatore RE come una media ponderata degli stimatori FE e BE102.

102 Lo stimatore BE è utilizzato nelle analisi panel quando si ritiene che le variabili omesse variano nel tempo ma rimangono costanti tra le osservazioni. Il modello BE prevede l’utilizzo della variazione tra le osservazioni per stimare l’effetto delle variabili indipendenti omesse sulla variabile dipendente. Di fatto, la regressione con lo stimatore BE equivale a una regressione le cui variabili esplicative sono i valori medi di ogni osservazione sui diversi anni. Ciò comporta una notevole perdita di informazioni, perché si elimina la dimensione temporale.

Page 171: Tesi Donegani Chiara Paola · 3 6 Le caratteristiche del CdA, struttura proprietaria e performance: un'analisi empirica 6.1 Le caratteristiche del CdA in funzione della struttura

171

Per ogni modello panel considerato si è effettuato il test di Hausman, il cui risultato

consente di scegliere se adottare il metodo d’analisi FE o RE.

Tuttavia dall'applicazione dei diversi modelli panel sono emersi risultati poco convincenti.

Si ritiene che essi siano determinati dalla scarsa variabilità temporale dei dati riguardanti la

struttura dei Consigli di Amministrazione. Se vi è scarsa variabilità nel tempo, infatti, lo

stimatore FE (che lavora proprio sulle variazioni nelle variabili indipendenti per stimare

l’effetto sulla dipendente) non sembra essere adeguato. Lo stesso potrebbe essere vero per

RE che è una media ponderata di FE e BE.

Il calcolo dei valori medi delle caratteristiche dei CdA ha mostrato infatti che la

dimensione e la configurazione dell’organo amministrativo rimane stabile nell’intervallo di

tempo considerato. Si ritiene quindi che la dimensione temporale del fenomeno sia

scarsamente rilevante.

Un ulteriore controllo, realizzato mediante l’utilizzo sempre del modello panel, ma con

stimatore between effect (BE), ha permesso di confermare tale ipotesi in quanto, in

quest’ultimo caso, si sono ottenuti risultati in linea con quelli dell'analisi cross-section.

Poiché BE (lavorando sulla media over time) trascura molta informazione, lo stimatore

OLS sulla pooled cross section con dummy temporali (nel nostro caso dummy anno)

sembra essere la scelta più adeguata.

Si riconferma quindi la scelta iniziale di utilizzo del modello pooled OLS poiché questo

modello rappresenta le relazioni oggetto di studio meglio del modello panel; in Appendice

al capitolo si presentano comunque i modelli studiati con le analisi panel.

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172

APPENDICE 6.1 Le analisi panel Tabella 6.1A. Le caratteristiche del CdA in funzione della struttura proprietaria: dimensione del CdA

FE RE BE

Capitale sociale az.sti rilevanti (%) 0.034** 0.004 -0.067*** (2.48) (0.28) (-3.97) Proprietà familiare dummy 0.194 -0.875** -1.620*** (0.46) (-2.25) (-2.77) Patti parasociali dummy 0.187 0.331 2.515*** (0.68) (1.19) (2.88) Costante 8.245*** 10.505*** 14.692***

(9.98) (11.43) (13.31)

Periodo di tempo considerato 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) Numero osservazioni 628 628 628 R-quadro 0.1078 0.0733 0.1981 Statistiche t riportate in parentesi. Standard error robusti e corretti per la presenza di cluster.

Nelle analisi presentate nelle Tabelle 6.1A e 6.1B il test di Hausman suggerisce di

utilizzare lo stimatore FE, che presenta però risultati non convincenti in entrambi i casi per

le ragioni già evidenziate nel Paragrafo 6.5. Si sottolinea la perfetta coerenza di risultati tra

il metodo BE presentato nelle Tabelle 6.1A e 6.1B e il modello pooled OLS (Tabella 6.1,

Modelli I, II e III).

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173

Tabella 6.1B. Le caratteristiche del CdA in funzione della struttura proprietaria: dimensione del CdA

FE RE BE

Quota 1^ azionista (%) 0.034** -0.001 -0.067*** (2.29) (-0.07) (-3.77) Quota 2^ azionista (%) 0.001 -0.020 -0.058 (0.03) (-0.72) (-1.33) Quota 3^ azionista (%) 0.044 0.022 -0.194** (1.11) (0.61) (-1.93) Proprietà familiare dummy 0.415 -0.832** -1.609*** (0.87) (-2.10) (-2.74) Patti parasociali dummy 0.210 0.332 2.384** (0.75) (1.19) (2.46) Costante 8.567*** 10.846*** 14.752*** (11.22) (12.91) (13.60) Periodo di tempo considerato 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) Numero osservazioni 628 628 628 R-quadro 0.1383 0.1097 0.2088 Statistiche t riportate in parentesi. Standard error robusti e corretti per la presenza di cluster.

Page 174: Tesi Donegani Chiara Paola · 3 6 Le caratteristiche del CdA, struttura proprietaria e performance: un'analisi empirica 6.1 Le caratteristiche del CdA in funzione della struttura

174

Tabella 6.2A. Le caratteristiche del CdA in funzione della struttura proprietaria: consiglieri indipendenti

FE RE BE

Capitale sociale az.sti rilevanti (%) -0.267*** -0.303*** -0.351*** (-2.18) (-3.67) (-4.05) Proprietà familiare dummy -0.283 -2.762 -3.754 (-0.15) (-1.31) (-1.27) Patti parasociali dummy -3.340** -3.108** -0.567 (-2.01) (-2.02) (-0.13) Costante 56.834*** 59.918*** 62.644*** (7.85) (10.85) (11.22) Periodo di tempo considerato 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) Numero osservazioni 628 628 628 R-quadro 0.1015 0.1122 0.1153 In parentesi sono riportate le statistiche t. Standard error robusti e corretti per la presenza di cluster. Tabella 6.2B. Le caratteristiche del CdA in funzione della struttura proprietaria: consiglieri esecutivi

FE RE BE

Capitale sociale az.sti rilevanti (%) 0.044 0.116** 0.254*** (0.56) (2.09) (3.09) Proprietà familiare dummy -0.237 4.081** 6.717** (-0.05) (1.80) (2.40) Patti parasociali dummy 0.568 0.142 -5.474 (0.40) (0.11) (-1.31) Costante 27.921*** 22.037*** 13.788*** (6.14) (6.26) (2.60) Periodo di tempo considerato 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) Numero osservazioni 628 628 628 R-quadro 0.0376 0.1066 0.1185 Statistiche t riportate in parentesi. Standard error robusti e corretti per la presenza di cluster.

Con riferimento ai Modelli presentati nelle Tabelle 6.2A e 6.2B, il test di Hausman

suggerisce di utilizzare lo stimatore RE (che fornisce risultati qualitativamente analoghi al

metodo BE). I modelli BE si dimostrano coerenti con i risultati delle analisi pooled OLS

(Tabella 6.2).

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Tabella 6.3A. Le caratteristiche del CdA in funzione delle caratteristiche dell’impresa: dimensione del CdA

BE RE BE

Log Attivo 0.003 0.535* (0.05) (1.74) Log Fatturato 0.410** 0.224 (2.30) (0.91) Log Mve 4.003*** 0.697*** 0.479** (2.62) (3.44) (1.92) (Log Mve)2 -0.133** (-2.34) Log Mtb -0.572 (-1.31) Log Fcf 0.817*** (4.06) Leverage -0.020 (-1.41) Costante -26.520*** -4.526** -6.498*** (-2.61) (-2.08) (-2.99) Settore finanziario dummy 2.778*** 2.195*** (3.71) (3.36) Settore high tech dummy -0.370 -0.266 (-0.74) (-0.34) Periodo di tempo considerato 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) Numero osservazioni 487 608 608 R-quadro 0.4421 0.4467 0.4579 Statistiche t riportate in parentesi. Standard error robusti e corretti per la presenza di cluster.

I modelli BE si dimostrano coerenti con i risultati delle analisi pooled OLS (Tabella 6.3).

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Tabella 6.4A. Le caratteristiche del CdA in funzione delle caratteristiche dell’impresa: percentuale di amministratori esecutivi (primi due modelli, Re e BE) e indipendenti (ultimi tre modelli, FE, RE e BE) nel board

RE BE FE RE BE

Log Attivo -0.961*** -0.219 3.299** (-2.63) (-0.53) (2.29) Log Fatturato -2.239*** -2.492*** (-4.86) (-3.57) Log Mtb 0.114 0.635 -2.017 -0.840 1.680 (0.11) (0.27) (-1.29) (-0.60) (0.63) Log Fcf 0.212 1.604*** 0.407* (0.36) (3.17) (0.33) Leverage 0.148* 0.141** 0.097 (1.94) (2.29) (1.10) Costante 59.394*** 61.502*** 46.669*** 21.177*** -15.156 (9.00) (6.49) (5.99) (3.35) (-1.33) Proprietà familiare dummy 2.920 4.932* (1.31) (1.78) Settore finanziario dummy -8.148*** -7.431** (-2.93) (-2.45) Settore high tech dummy 10.364** 10.232** (2.11) (2.31) Periodo di tempo considerato 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) Numero osservazioni 614 614 485 485 485 R-quadro 0.2430 0.2465 0.0095 0.1199 0.1689 Statistiche t riportate in parentesi. Standard error robusti e corretti per la presenza di cluster.

Il test di Hausman per il secondo gruppo di modelli (che presenta come variabile

dipendente la percentuale di amministratori indipendenti nel board) suggerisce di utilizzare

lo stimatore FE, i cui risultati non sono tuttavia coerenti con le analisi pooled OLS. Lo

stimatore BE fornisce invece risultati qualitativamente analoghi a quelli ottenuti con le

analisi pooled OLS (sia per il Modello mostrato nella colonna II, sia per quello nella

colonna V).

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177

Tabella 6.5A. Le caratteristiche del CdA in funzione delle caratteristiche dell’impresa: comitati interni al CdA

Ia IIb IIIc IVd

Log Attivo 0.116 (1.03) Log Fatturato 0.338 0.325 (1.50) (1.25) Log Mve 0.502** (2.02) Log Mtb 0.410 0.268 -0.181 -0.629 (0.97) (0.62) (-0.43) (-1.24) Log Fcf 0.389** 0.003 0.052 -0.033 (2.40) (0.02) (0.33) (-0.18) Leverage -0.030* 0.001 0.015 -0.022 (-1.84) (0.05) (1.00) (0.15) Costante -9.362*** -2.359 -1.395 -7.696*** (-4.93) (-0.95) (-0.64) (-3.44) Periodo di tempo considerato 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) Numero osservazioni 485 487 487 487 Log likelihood -138.052 -113.272 -146.132 -77.588 Statistiche t riportate in parentesi. Standard error robusti e corretti per la presenza di cluster. Modelli probit: Modello Ia, variabile dipendente: Comitato esecutivo dummy. Modello IIb, variabile dipendente: Comitato controllo interno dummy. Modello IIIc, variabile dipendente: Comitato di remunerazione dummy. Modello IVd , variabile dipendente: Comitato per le proposte di nomina dummy.

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Tabella 6.6A. La performance dell’impresa in funzione delle caratteristiche del Consiglio di Amministrazione: Roa

FE RE BE

Dimensione del Cda 0.33 0.980*** 1.292*** (0.78) (2.60) (2.69) (Dimensione del Cda)2 -0.014 -0.033** -0.042** (-0.93) (-2.55) (-2.27) Consiglieri esecutivi (%) 0.026 0.051*** 0.073*** (1.03) (3.15) (2.88) Costante 0.406 -4.685** -7.72** (0.15) (-1.99) (-2.41) Periodo di tempo considerato 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) Numero osservazioni 622 622 622 R-quadro 0.0442 0.0792 0.0808 Statistiche t riportate in parentesi. Standard error robusti e corretti per la presenza di cluster.

Tabella 6.6B. La performance dell’impresa in funzione delle caratteristiche del Consiglio di Amministrazione: Roat+1

FE RE BE

Dimensione del Cda -0.307 0.812* 1.150** (-0.52) (1.86) (2.22) (Dimensione del Cda)2 0.015 -0.027* -0.038* (0.72) (-1.81) (-1.92) Consiglieri esecutivi (%) 0.034 0.053** 0.064** (0.63) (2.30) (2.30) Costante 3.576 -3.416 -5.819* (0.87) (-1.17) (-1.71) Periodo di tempo considerato 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) Numero osservazioni 465 465 465 R-quadro 0.0446 0.0532 0.0537 Statistiche t riportate in parentesi. Standard error robusti e corretti per la presenza di cluster.

Per le analisi presentate nelle Tabelle 6.6A e 6.6B, il test di Hausman suggerisce di

utilizzare lo stimatore FE i cui risultati non sono coerenti con le analisi pooled OLS. Lo

stimatore BE fornisce invece risultati qualitativamente analoghi alle analisi pooled OLS.

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Tabella 6.6C. La performance dell’impresa in funzione della tipologia di consiglieri e di comitati interni al CdA: Roa

FE RE BE

Consiglieri esecutivi (%) 0.025 0.032* 0.045* (1.01) (1.87) (1.70) Consiglieri indipendenti (%) -0.001 -0.015 -0.041 (-0.02) (-0.95) (-1.59) Consiglieri di minoranza (%) -0.032 0.180 0.588 (-0.13) (0.89) (1.49) Consiglieri donne (%) 0.116 0.064* 0.033 (1.46) (1.78) (0.60) Comitato esecutivo dummy 1.046 0.942 1.212 (1.13) (1.40) (1.15) Comitato controllo interno dummy -2.518** -0.468 2.365 (-2.05) (-0.56) (1.32) Comitato remunerazioni dummy -0.705 -0.033 -0.830 (-0.77) (-0.05) (-0.56) Comitato proposta nomine dummy -0.588 -0.149 0.413 (-0.46) (-0.16) (0.28) Costante 4.083** 2.341** 1.038 (2.42) (1.99) (0.54) Periodo di tempo considerato 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) Numero osservazioni 622 622 622 R-quadro 0.0053 0.0358 0.0660 Statistiche t riportate in parentesi. Standard error robusti e corretti per la presenza di cluster.

Per le analisi presentate nella Tabella 6.6C, il test di Hausman indica di utilizzare il

modello RE.

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Tabella 6.7A. La performance dell’impresa in funzione delle caratteristiche del Consiglio di Amministrazione: Log ebit

FE RE BE

Consiglieri esecutivi (%) 0.001 -0.006* -0.036*** (0.29) (-1.76) (-3.43) Consiglieri indipendenti (%) -0.004* -0.002 -0.002 (-1.63) (-0.80) (-0.17) Consiglieri di minoranza (%) 0.066** 0.096*** 0.438*** (2.34) (3.04) (2.77) Consiglieri donne (%) 0.006 -0.002 -0.031 (0.72) (-0.29) (-1.45) Comitato esecutivo dummy -0.156 0.012 1.564*** (-0.93) (0.69) (3.66) Comitato controllo interno dummy -0.116 0.019 1.010 (-0.69) (0.11) (1.47) Comitato remunerazioni dummy -0.091 -0.012 0.158 (-0.58) (-0.08) (0.28) Comitato proposta nomine dummy -0.177 -0.099 0.369 (-0.69) (-0.34) (0.62) Costante 11.312*** 10.955*** 10.551*** (49.38) (39.67) (13.23) Periodo di tempo considerato 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) Numero di osservazioni 516 516 516 R-quadro 0.1296 0.2733 0.3597 Statistiche t riportate in parentesi. Standard error robusti e corretti per la presenza di cluster.

Per le analisi presentate nella Tabella 6.7A, il test di Hausman suggerisce di utilizzare il

modello FE.

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181

Tabella 6.8A. Checks and balances: consiglieri indipendenti

RE BE FE RE BE

Dimensione del Cda -0.767** 0.552 (-2.51) (1.18) Dimensione Comitato esecutivo 0.772 1.290* (1.34) (1.64) Dimensione Comitato controllo interno 1.672** 2.138*** 3.654** (1.98) (2.67) (2.18) Dimensione Comitato remunerazioni 0.269 0.909 2.052 (0.30) (1.34) (1.44) Dimensione Comitato proposta nomine -0.773 -0.378 0.799 (-1.06) (-0.51) (0.51) Settore finanziario dummy 10.798*** 4.283 (2.56) (1.09) Settore high tech dummy -3.984 -1.866 (-1.09) (-0.39) Costante 44.532*** 31.354*** 34.530*** 31.553*** 24.242*** (13.01) ()6.67 (13.87) (11.62) (6.81) Periodo di tempo considerato 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) Numero osservazioni 628 628 628 628 628 R-quadro 0.0371 0.103 0.1004 0.1238 0.13 Statistiche t riportate in parentesi. Standard error robusti e corretti per la presenza di cluster.

A riguardo degli ultimi tre modelli considerati nella Tabella 6.8A, il test di Hausman

suggerisce di utilizzare il modello FE.

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Tabella 6.9A. Checks and balances: comitati interni al CdA

Ia IIb IIIc IVd

Dimensione del Cda 0.576*** 0.237*** 0.263*** -0.093 (4.17) (3.83) (3.39) (-1.42) Settore finanziario dummy 3.832*** -1.242** -2.306*** 2.123*** (3.06) (-1.92) (-2.86) (3.11) Settore high tech dummy 1.127 -0.65 1.005 0.951 (0.93) (0.73) (1.04) (1.10) Costante -11.665*** 1.539** 1.671** -5.213*** (-6.12) (2.33) (2.02) (-7.67)

Periodo di tempo considerato 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) 04(1)-07(4) Numero di osservazioni 628 628 628 628 Log Likelihood -118.475 -148.006 -185.57 -103.334 Statistiche t riportate in parentesi. Standard error robusti e corretti per la presenza di cluster. Modelli probit: Modello Ia, variabile dipendente: Comitato esecutivo dummy. Modello IIb, variabile dipendente: Comitato controllo interno dummy. Modello IIIc, variabile dipendente: Comitato di remunerazione dummy. Modello IVd , variabile dipendente: Comitato per le proposte di nomina dummy.

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APPENDICE 6.2

Tavola 6.2.1 Variabili dummy: descrizione VARIABILI BINARIE (DUMMY VARIABLE) Descrizione Settore finanziario dummy Dummy=1 se la società appartiene al settore

finanziario Settore high tech dummy Dummy=1 se la società appartiene al settore

high tech Comitato esecutivo dummy Istituzione del Comitato esecutivo Comitato controllo interno dummy Istituzione del Comitato di controllo interno Comitato remunerazioni dummy Istituzione del Comitato di remunerazione Comitato per le proposte di nomina dummy Istituzione del Comitato per le proposte di

nomina Voto di lista dummy Adozione del meccanismo del voto di lista Patti parasociali dummy Presenza di patti parasociali Proprietà famigliare dummy Presenza di proprietà familiare

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CONCLUSIONI

In questa tesi si è studiata la corporate governance delle società quotate italiane, tenendo

conto dell’iter legislativo che ha portato all’attuale definizione del modello di corporate

governance, mostrandone le peculiarità e analizzando i cambiamenti determinati dalle

recenti modifiche normative. Sebbene le società italiane possano scegliere tra tre modelli

alternativi di organizzazione dei processi di amministrazione e controllo (tradizionale,

duale e monistico), il modello di corporate governance adottato dalla quasi totalità delle

società quotate in Borsa resta quello tradizionale, che attribuisce a un unico organo

amministrativo, il Consiglio di Amministrazione, il compito di gestire la società.

Sulla base di un dataset costruito appositamente ai fini delle analisi condotte nella tesi e

costituito da tutte le società quotate del periodo 2004-2007103, si sono studiate le

determinanti della struttura del CdA, l’organo chiave del governo societario, e le relazioni

tra CdA e risultati aziendali.

Le analisi empiriche realizzate nella tesi hanno rivelato che la struttura proprietaria delle

imprese gioca un ruolo rilevante nella definizione della governance aziendale. In

particolare la struttura proprietaria delle società italiane quotate appare fortemente

concentrata: molte imprese quotate sono caratterizzate dalla presenza di un unico azionista

di controllo104, o di un gruppo di soci di riferimento e un’altra quota non trascurabile è a

proprietà familiare105. Le analisi econometriche condotte hanno investigato la relazione tra

struttura proprietaria e assetto di governo societario mostrando che, al crescere della

concentrazione proprietaria, i CdA tendono ad avere dimensione più contenuta e una

percentuale inferiore di consiglieri indipendenti. La relazione tra percentuale di consiglieri

103 A partire dal dataset complessivo, formato da tutte le società italiane quotate sulla Borsa Valori di Milano nel periodo 2004-2007 si è individuato un campione (sbilanciato) di società per le quali si hanno dati completi sulla corporate governance (ottenuti dalle Relazioni sulla corporate governance pubblicate sul sito della Borsa Italiana), sulla performance aziendale e sulla struttura proprietaria. Ai fini delle analisi econometriche si è utilizzato un panel bilanciato di 157 società contenente tutte le società per le quali si dispone di un insieme completo di informazioni per tutti gli anni oggetto di indagine. I risultati ottenuti rimangono qualitativamente gli stessi qualora si consideri il panel sbilanciato. 104 La presenza di un unico azionista che detiene il controllo assoluto interessa oltre il 50% delle società quotate, sebbene nei quattro anni si è rilevata una lieve diminuzione di tale quota. Il numero di società con controllo assoluto si è infatti ridotto di alcuni punti percentuali, passando da più del 58% nel 2004 a poco meno del 55% nel 2007. 105 Questo fenomeno interessa più del 30% delle società e la proprietà familiare si attesta in media nei quattro anni analizzati intorno al 52% del capitale sociale.

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esecutivi e concentrazione proprietaria è invece positiva, a conferma del fatto che gli

azionisti di maggioranza (o di controllo) godono di rilevante influenza e potere contrattuale

nella nomina dei consiglieri che siedono nel CdA. La struttura proprietaria è una

determinante essenziale dell’assetto di governo societario, in particolare per le imprese a

proprietà familiare. La dimensione del CdA delle imprese a proprietà familiare è

sensibilmente inferiore rispetto a quella delle società “non familiari” e la relazione tra

percentuale di consiglieri esecutivi nel CdA e proprietà familiare è positiva e significativa.

Quest’ultimo risultato conferma il fatto che nel board delle società familiari la componente

esecutiva (tipicamente legata alla famiglia) è maggiore rispetto a quella osservata nei

Consigli delle altre società.

Si sono inoltre analizzate le relazioni tra la dimensione del CdA e la sua composizione (in

particolare la percentuale di amministratori esecutivi -“ insider representation”- e la

percentuale di amministratori indipendenti sul totale dei consiglieri del board) e le variabili

economiche e finanziarie d’impresa. I risultati ottenuti confermano l’ipotesi (ampiamente

dibattuta in letteratura) in base alla quale la dimensione del CdA è direttamente e

positivamente correlata alla dimensione d’impresa e si è suggerita l’esistenza di una

relazione non lineare tra la capitalizzazione di mercato e la dimensione del board. Come

evidenziato in letteratura, si è inoltre individuata una relazione negativa tra opportunità di

crescita e dimensione del CdA, a conferma dell’ipotesi secondo la quale le società che

presentano opportunità di crescita elevate operano spesso in settori dinamici dove sono

richiesti tempi di reazione contenuti e sono quindi preferibili strutture di governance più

snelle. La dimensione d’impresa si conferma come la determinante più rilevante nella

spiegazione non solo della dimensione, ma anche della composizione del board. Al

crescere della dimensione societaria, i CdA sono caratterizzati da una minore percentuale

di consiglieri esecutivi a favore di una maggiore componente non esecutiva indipendente,

un risultato che è coerente con l’ipotesi che l’introduzione di consiglieri indipendenti sia

volta a mitigare i problemi di agenzia tra management e azionisti, che aumentano

d’intensità al crescere delle dimensioni dell’impresa.

Coerentemente con quanto evidenziato in letteratura, le opportunità di crescita delle società

italiane quotate sono positivamente correlate con la presenza di consiglieri esecutivi.

L’evidenza empirica mostra, inoltre, che laddove è maggiore la possibilità di estrazione di

benefici privati per il management, maggiore è l’effettiva presenza nel board di un numero

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più elevato di amministratori indipendenti, a garanzia di una più intensa attività di

monitoring. In particolare, le società finanziarie presentano CdA più numerosi e un peso

maggiore della componente indipendente rispetto a società appartenenti ad altri settori.

Le variabili relative alla dimensione societaria sembrano essere le uniche realmente

rilevanti nella spiegazione della probabilità di istituzione dei comitati (esecutivo, di

controllo interno, di remunerazione e proposta di nomine). Si è peraltro anche verificato

che, al crescere della possibilità di estrazione di benefici privati da parte del management

(misurata per mezzo della variabile FCF), aumenta la probabilità che all’interno del CdA

sia istituito il Comitato esecutivo. Tale evidenza potrebbe rappresentare un segnale della

possibilità di comportamenti collusivi tra consiglieri esecutivi (espressione degli azionisti

di maggioranza) e management dove è maggiore la possibilità di estrazione di rendite.

Sebbene siano necessari ulteriori approfondimenti, un risultato di questo tipo

evidenzierebbe la rilevanza dei problemi di agenzia tra azionisti di maggioranza e

minoranza.

Un terzo insieme di analisi econometriche ha investigato la relazione tra performance

societaria e caratteristiche del CdA, indagando se e come esso possa influire sulla

redditività e sulle opportunità di crescita dell’impresa106. Nei modelli analizzati emerge una

relazione positiva tra performance aziendale e dimensione del board, a suggerire che

dimensioni più elevate dei Cda possano rendere più effettivo il controllo sul management.

Si tratta però di un risultato non scontato rispetto alle evidenze empiriche disponibili in

letteratura. Jensen (1993) e Lipton e Lorsch (1992), ad esempio, hanno mostrato che

l’aumento della dimensione del CdA può comportare sia un peggioramento dei processi

decisionali, dovuto a problemi di comunicazione e di organizzazione delle attività, sia un

problema di coordinamento in seguito a un’imprecisa definizione delle responsabilità

individuali.

Circa l’impatto della composizione dei CdA sulla performance aziendale, si è riscontrata

una relazione positiva tra presenza di consiglieri esecutivi e risultati, mentre non si è

trovata evidenza di una relazione tra amministratori indipendenti e redditività aziendale. La

presenza di amministratori donne nel board e di consiglieri eletti da liste presentate da

106 Sebbene sia naturale attendersi un impatto ritardato delle caratteristiche del CdA sulla performance aziendale, la scarsa variabilità temporale osservata nella dimensione e composizione del CdA consente anche di testare relazioni contemporanee. I risultati ottenuti utilizzando variabili ritardate e quelli basati su variabili contemporanee forniscono infatti risultati qualitativamente analoghi.

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azionisti di minoranza non sembra determinare effetti specifici. Allo stesso modo, nel

complesso la presenza di comitati interni al CdA non sembra avere effetti diretti sulla

performance societaria (misurata in diversi modi: redditività, risultato operativo aziendale

e prospettive di crescita). Solo la presenza di un Comitato esecutivo ha un effetto positivo e

significativo sulla performance societaria.

Si è verificata, infine, l’esistenza di possibili equilibri tra poteri di gestione attribuiti al

Consiglio di Amministrazione considerato nel complesso delle sue articolazioni,

analizzando in particolare le relazioni intercorrenti tra la presenza di amministratori

indipendenti nel CdA e il Comitato esecutivo. La probabilità di istituzione di un Comitato

esecutivo cresce all’aumentare della dimensione del Consiglio di Amministrazione. Inoltre

la dimensione dei comitati esecutivi è correlata positivamente alla presenza di

amministratori indipendenti nel board. Ciò può essere spiegato sia con un puro effetto di

“composizione”, per cui al crescere della dimensione del CdA aumenta il numero di

consiglieri esecutivi così come quello degli amministratori indipendenti, sia con un effetto

definibile di “controllo o bilanciamento” dei poteri, che sembra presentarsi con particolare

intensità nelle società appartenenti al settore finanziario. La probabilità di costituzione di

Comitati di controllo interno e di remunerazione, con funzioni propositive e consultive, è

invece spiegabile essenzialmente attraverso un effetto di “composizione”, in base al quale

la probabilità di istituzione è direttamente correlata alla dimensione del Consiglio di

Amministrazione.

Complessivamente, i risultati ottenuti evidenziano l’esistenza di rilevanti problemi di

agenzia tra azionisti di maggioranza e minoranza, determinati innanzitutto dalla

concentrazione della struttura proprietaria. Se da un lato la concentrazione della proprietà

societaria può essere desiderabile, in quanto un commitment di lungo periodo assunto

dall’azionista di riferimento e il suo coinvolgimento diretto nell’impresa riducono

fortemente il rischio di politiche di breve termine nelle decisioni di investimento

(garantendo quindi la massimizzazione del valore societario), dall’altro tale sistema

comporta l’insorgere di conflitti di interesse tra il soggetto, o il gruppo di comando che

mantiene il potere di gestione della società, e la proprietà diffusa, ovvero l’insieme di

soggetti che apportano capitali senza influire attivamente sulle decisioni aziendali. Tali

conflitti sono acuiti dal fatto che, come si è mostrato, al crescere della concentrazione

proprietaria la percentuale di amministratori indipendenti (coloro che dovrebbero garantire

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un giudizio autonomo e non condizionato da interessi personali nelle deliberazioni) che

siedono nel CdA tende a ridursi107.

Per risolvere problemi di agenzia di questo tipo tra azionisti di maggioranza e di minoranza

una possibile soluzione sembra essere l’applicazione del meccanismo del voto di lista. In

questo senso è auspicabile una più diffusa applicazione sostanziale di tale criterio108, in

quanto in grado di favorire più trasparenti procedure di nomina degli amministratori e una

più equilibrata composizione del board, consentendo una rappresentatività effettiva degli

azionisti di minoranza nel Consiglio di Amministrazione109.

Come più volte sottolineato nella tesi, il tema della corporate governance è attuale e in

divenire. Ulteriori approfondimenti di questo lavoro potrebbero consentire di individuare le

possibili relazioni che intercorrono tra le diverse società quotate, tanto in relazione ai

meccanismi di controllo - a monte e a valle - che definiscono i cosiddetti “gruppi

industriali quotati”, quanto ai legami che le società quotate stabiliscono, tramite la

condivisione dei consiglieri che siedono in diversi Consigli di Amministrazione (fenomeno

del cumulo delle cariche o interlocking directorship). Inoltre, il passare del tempo

consentirà di analizzare sistematicamente l’impatto dell’introduzione del Codice di

autodisciplina del 2006 sulle società quotate italiane. In particolare, considerando un

intervallo di tempo centrato sull’introduzione del Codice (ad esempio il triennio precedente

e quello successivo), sarà possibile studiare gli eventuali mutamenti negli assetti di

governo delle società (mutamenti solamente marginali a oggi) in seguito alla crescente

rilevanza della disciplina sulla corporate governance.

107 Ulteriori problemi di agenzia possono essere ricondotti alla relazione positiva rilevata tra possibilità di estrazione di rendite e incremento della probabilità di istituzione del Comitato esecutivo. 108 Secondo quanto dichiarato dalle stesse società quotate italiane nelle Relazioni sulla corporate governance, ha adottato il meccanismo del voto di lista il 22% circa delle società nel 2004, così come nel 2005. Nel 2006 tale percentuale è salita al 58% circa e nel 2007 il 71% delle società ha dichiarato di adottare tale meccanismo. 109 Nel 2004 solamente il 12% circa dei CdA delle società quotate italiane presentava almeno un consigliere eletto tra le liste di minoranza, nel 2005 tale percentuale è cresciuta al 16% circa, nel 2006 ha raggiunto il 24% e nel 2007 il 33%.

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