Terzo millennio - Biblioteca Provinciale di Foggia La ... · Pietro Paolo Parzanese PARTE VIII...

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Terzo millennioCollana di studi della Provincia di Foggia

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© 2000 Claudio Grenzi sasPrinted in Italy

Tutti i diritti riservati.Nessuna parte di questa pubblicazione può essere tradotta, ristampata o riprodotta,

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Verso Sud

Claudio Grenzi Editore

Diari, novelle e poesie sulla Capitanatadal Quattrocento ad oggi

a cura di

Davide Grittani

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A Daniela, o capitanomio capitano

ISBN 88-8431-034-2

© 2000 Claudio Grenzi sasPrinted in Italy

Tutti i diritti riservati.Nessuna parte di questa pubblicazionepuò essere tradotta, ristampata o riprodotta,in tutto o in parte, con qualsiasi mezzo, elettronico,meccanico, fotocopie, film, diapositive o altrosenza autorizzazione della Claudio Grenzi sas.

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Quale occasione migliore di questa antologia per promuovere il famigerato “marchioCapitanata”? E quale maniera più consona, se non quella di raccogliere alcuni dei piùsignificativi testamenti letterari lasciati in eredità alla nostra provincia dai più celebriscrittori italiani e stranieri? Un viaggio “Verso Sud” che è soprattutto un viaggio dentro ilSud: il nostro Sud, così mutevole e bizzarro, suggestivo e incantevole, selvaggio ed enigma-tico. Un Sud che sembra - dalle pagine di questa preziosa monografia curata da DavideGrittani - si sia aperto agli scrittori che l’hanno viaggiato in lungo e in largo; come unaterra che si lascia coltivare, attraversare da radici molto diverse eppure molto simili, leradici dell’anima.

Un’opera che ha subito incontrato i favori dell’Amministrazione Provinciale perché larappresenta tutta, in ogni angolo e anfratto. S’incontrano, descritte in queste pagine, lepietre sacre di Monte Sant’Angelo raccontate non senza ironia da Arthur Miller, la miste-riosa figura di Padre Pio dipinta da Greene, Bacchelli, Piovene e D’Annunzio, la poesiadelicata e severa della costa garganica raccontata da Anna Maria Ortese, e ancora brani diGatto, Ungaretti, Accrocca, Pazienza, due lettere inedite di Umberto Giordano, contribu-ti di Mascagni, Montale, Nigro, Marcone e il “nostro unico” premio Strega Mariateresa DiLascia.

Tutto questo ha pienamente convinto il Presidente della Provincia di Foggia Prof.Antonio Pellegrino ad inserire quest’opera, proposta dal Museo del Territorio nella Collanadi studi della stessa Provincia con la consapevolezza che queste testimonianze letterariepossano essere il volano di una proiezione del Museo del Territorio, in un Museo-Racconto,un Museo-Itinerario inserito in un più vasto tragitto del sapere e della partecipazione.

In un’epoca segnata fortemente dal progresso tecnologico, dalla telematica e dalle im-magini virtuali si rinnova più forte il rapporto tra letteratura e storia per preservare lememorie di noi tutti e creare testimonianze culturali di questa terra per coloro che ancoranon la conoscono.

L’Antologia presenta brani scritti sia da chi in questo territorio è nato ed ha le sue radici,sia da chi invece viaggiando nella luce e nei colori di questa terra stupenda ma schiva, èriuscito a coglierne la bellezza e l’ospitalità, legandosi al passato più o meno lontano, ai suoitesori e alle sue antiche memorie, intravedendone ed indicandone il suo possibile futuro.

Testamenti letterari di Capitanata

Valeria de Trino GalanteResponsabile “Agenzia per la Cultura della Provincia di Foggia”

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11 Prefazione “postuma”Mario Sansone

13 Un lascito, una profeziaCorrado Augias

PARTE ILa Capitanata al tempo dei Latini

17 La Via AppiaJohn Northall

19 La Puglia negli autori antichiAldo Luisi

PARTE IIItinerari e luoghi

29 Viaggio pittorescoAbbé de Saint Non

35 Da Foggia a LuceraFrançois Lenormant

39 La valle dell’OfantoFrançois Lenormant

45 Impressioni di viaggioPaolo Schubring

53 Il TavoliereGiuseppe Ungaretti

55 Dal Subappennino al TavoliereRaffaele Nigro

65 Garofani rossi per FaustoVasco Pratolini

67 Le pietre si muovonoMaria Marcone

Sommario

PARTE IIIFoggia

71 Foggia al tempo di Federico IIdi SveviaErnesto Kantorowicz

75 FoggiaJocelyn Brooke

77 Clizia a FoggiaEugenio Montale

83 La prima rappresentazione alla Scaladel Re di Forzano e GiordanoEugenio Montale

85 Due lettere inediteUmberto Giordano

87 Il Piano delle FosseGiuseppe Ungaretti

89 Foggia e il TavoliereGuido Piovene

101 Omaggio a FoggiaPasquale Soccio

103 FoggiaEugenio Bennato

PARTE IVSan Severo

107 PianuraUmberto Fraccacreta

109 I confini territoriali del“Monasterium Terrae Maioris”Antonio Casiglio

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117 San SeveroAndrea Pazienza

PARTE VLucera

121 Lucera, colonia saracenadegli HohenstaufenFerdinand Gregorovius

137 LuceraRiccardo Bacchelli

141 Lucera, città di Santa MariaGiuseppe Ungaretti

145 Lucera dei SaraceniGiuseppe Ungaretti

PARTE VIRocchetta Sant’Antonio

151 Rocchetta la poeticaFrancesco De Sanctis

157 Passaggio in ombraMariateresa Di Lascia

PARTE VIIBovino

161 Il vallo di BovinoPietro Paolo Parzanese

PARTE VIIICerignola

167 Lettera da CerignolaJustus Tommasini

169 Da Cerignola a Canne della BattagliaFriedrich Leopold Stolberg

173 Al capezzale di mia madreNicola Zingarelli

175 Ho ingannato persino il SindacoPietro Mascagni

PARTE IXManfredonia

179 L’angelo di ManfredoniaNorman Douglas

191 Santa Maria Maggiore SipontinaGiuseppe Ungaretti

195 La giovine maternitàGiuseppe Ungaretti

199 Sabato Santo a ManfredoniaLeonardo Sinisgalli

PARTE XMattinata

203 Il farmacista di MattinataVirgilio Lilli

PARTE XIRodi Garganico

209 Fotogrammi di Rodi MinorGiuseppe Cassieri

PARTE XIIPeschici

217 PeschiciAntonio Baldini

PARTE XIIIMonte Sant’Angelo

225 Descrittione del Monte SantoAngeloLeandro Alberti

233 Monte Sant’AngeloArthur Miller

247 La Montagna dell’ArcangeloFerdinand Gregorovius

255 Monte Sant’AngeloCorrado Alvaro

259 La Tomba di RotariGiuseppe Ungaretti

261 PasquaGiuseppe Ungaretti

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PARTE XIVSan Giovanni Rotondo

267 Quelle due fotografie di Padre PioGraham Greene

269 San Giovanni RotondoAntonio Baldini

PARTE XVIl Gargano

275 Il Gargano in una relazione per visita canonica di fine SeicentoEgidio Mattielli

281 Al GarganoConsalvo Di Taranto

283 In GarganoRiccardo Bacchelli

303 Conquista del sassoGiuseppe Ungaretti

305 La Foresta UmbraTommaso Fiore

309 M’ascolti tu, mia terra?309 (Ode al Gargano)

Joseph Tusiani

315 Ex votoAlfonso Gatto

317 Gargano sessantunoRoberto Roversi

321 Oltre l’isola dei coatti qualcuno hachiamatoAnna Maria Ortese

PARTE XVIIsole Tremiti

327 Le Isole TremitiÉmile Bertaux

PARTE XVII331 Poesie

333 Lettera a Padre Pio da PietrelcinaGabriele D’Annunzio

335 Tavoliere controventoElio Filippo Accrocca

337 Dal pattume dei secoli...Cristanziano Serricchio

339 Sante MattéieGiacomo Strizzi

341 Viaggio in PugliaMaria Luisa Spaziani

343 Lamento per il SudSalvatore Quasimodo

345 Da Foggia a Lucera correndo...Giuseppe Ungaretti

347 Segnorina puglieseLuciano Luisi

349 Stringe l’inverno...Michele Urrasio

351 Dedicata alla mammaAndrea Pazienza

353 I pellegrine d’IncurnateRaffaele Lepore

PARTE XVIII355 Citazioni

Affermazioni, frasie interviste diAlberto Moravia, Silvia Ballestra,Vittorio Gassman, Massimo Troisi,Piero Chiara, Lalla Romano

359 Bibliografia

361 Indice alfabetico degli autori

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La Puglia, in genere, e la Daunia, in ispecie, sono state, sino a tempi recenti erecentissimi, tra le terre d’Italia meno conosciute e ritenute tra le meno sviluppate, nonsolo economicamente. Non che non fossero conosciuti scrittori e poeti pugliesi e dauni,ma si trattava di singole personalità, delle quali sarebbe stato assurdo ignorare il prestigioe il valore: ma l’affermazione personale era il risultato dell’antico malanno dell’emigra-zione dei cervelli. Questa raccolta si presenta invece come il risultato di un diffuso econcorde fervore regionale, come l’espressione di un gruppo idealmente congiunto e voltoal culto della poesia; come il segno di una terra che si muove, e che acquista, anche perquesta via, il senso della sua autonomia.

E, naturalmente, quando si parla di autonomia in ambito poetico, bisogna inten-dersi. Non si tratta di una pretesa autonomia rispetto ai modi, gl’indirizzi, il livellodella poesia nazionale, e non si tratta di un singolare e privilegiato filone d’oro scopertotra il Subappennino, il Gargano e la grande piana della Capitanata; si tratta di unapoesia che non si avverte come esercizio di una sparuta ed isolata minoranza, ma che fai conti con se stessa, si riconosce nei suoi pregi, nei suoi limiti, nelle sue aspirazioni e sichiarisce nei suoi propositi: si tratta, in conclusione, di una cospicua manifestazione dicultura di una regione - la Daunia - che va acquistando la coscienza del contributo chereca ed intende recare alle nostre cronache di poesia...

(...) Perciò questa raccolta non ha nulla di provinciale o di attardato rispetto allavoro di tanti operatori di poesia in Italia.

(...) A noi basta riaffermare il significato storico, culturale e civile di questo libro -dove non mancano cose belle e talora assai belle - ed augurare nuovi provvidi segni diautonomia intellettuale della piccola patria che abbiamo comune coi poeti della terradauna.

Prefazione “postuma”

Mario Sansone

Nota Bene. Questa prefazione, così fatalmente adatta alla presente antologia, rappresenta in realtà un “sac-cheggio letterario” compiuto al testo Poeti dauni contemporanei (a cura di CRISTANZIANO SERRICCHIO, ANTONIO

MOTTA e COSMA SIANI, Apulia Editrice, Foggia 1977). Ho fatto mio l’ardore poetico dell’indimenticato prof.Sansone, nella duplice speranza di restituire alla Capitanata uno fra i suoi figli più illustri e di testimoniaredegnamente la coralità degli interventi riportati in questa raccolta.

il Curatore

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Molti italiani, ma anche parecchi stranieri; molti scrittori ma anche parecchi poeti;molti autori contemporanei ma anche qualcuno del passato. A scorrere l’indice dell’an-tologia curata da Davide Grittani questo è il primo dato che salta all’occhio: la varietàdei contributi, la loro eccellenza, l’unitarietà dell’argomento.

Basta fare qualche nome, anche se bisognerebbe per giustizia farli tutti: GrahamGrene e Arthur Miller, Anna Maria Ortese e Alfonso Gatto, Umberto Giordano ePietro Mascagni. Gente di penna, gente d’intelletto, creativi come si dice oggi, personeche hanno attraversato zone come l’Ofanto, il Subappennino, il Gargano, la Capitana-ta, il Tavoliere e ne hanno scritto colpite da una particolarità del territorio, da unriverbero di luce, da un resto del passato che da queste parti ha lasciato tracce lungo imillenni. E questi resti affiorano improvvisi come un lampo della memoria e racconta-no, a chi è capace di coglierlo, il senso della loro sopravvivenza.

È bella l’idea di Grittani di mettere insieme un’antologia composta da questi testa-menti letterari e lasciarli parlare, lasciare cioè che le pagine si facciano testimonianza,lascito e profezia.

Verso Sud, pochi avrebbero detto che tante minute particolarità di paesaggio sareb-bero diventate con il tempo elemento distintivo di questa parte del Mezzogiorno d’Italia.Solo spiriti raffinati, menti aperte, occhi che sapevano guardare lontano potevano preve-derlo. Perché al viaggiatore distratto certe parti della Capitanata possono anche apparirearide e inospitali, altri possono ricevere l’impressione di una terra destinata ad essereattraversata, inadatta per ciò stesso all’agio di una sosta prolungata. Invece è accaduto ilmiracolo, si è operato il rovesciamento. La terra che sembrava segnata dalla sua animatransumante, votata più ai “passaggi” che alle permanenze, più al “transito” che alladimora, ha aperto davanti agli occhi di viaggiatori attenti la sua anima segreta.

A che punto del viaggio, in base a quali circostanze, è avvenuto questo rovesciamen-to? Quali fattori hanno fatto venire alla luce la soluzione? Leggendo le pagine che avetedavanti credo che una risposta si possa trovare. O almeno una delle risposte possibili.Quel fattore, quella circostanza, sono a mio giudizio la gente di Capitanata, il suopopolo. La semplicità della vita, la severità dei costumi imposta dalla povertà, a volte da

Un lascito, una profezia

Corrado Augias

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Verso Sud14 D. Grittani

una vera miseria, non hanno mai fatto venire meno la generosità anche quando laprecarietà delle condizioni di vita riduceva quella generosità a un gesto o a un sorriso. Èstata la gente che ha fissato nella memoria dei viaggiatori l’immagine della terra, le gentecioè il popolo, i contadini, e quando non i contadini quelle borghesia colta e civile diprovincia che è stata (e tutt’ora è) il nerbo dell’Italia migliore memore del proprio passa-to, aperta verso un ragionevole avvenire.

Lo studioso e amico carissimo Franco Cassano ha dato un nome alla civiltà meridio-nale di cui stiamo parlando. L’ha chiamata la civiltà del tempo meridiano, un tempoche scorre secondo un suo ritmo interno, che ha priorità e gerarchie sue, che ha, verrebbevoglia di dire, una sua moralità. C’è ancora quel tempo? Esiste? Francamente non locredo, o se è ancora esistente lo è per una minima parte. Esiste tuttavia dentro di noi,come un memento, cioè un’utopia, un indice che ci permette di misurare ciò che abbia-mo perduto rispetto ad allora ma anche ciò che (altrettanto indiscutibilmente) abbiamoguadagnato.

Le pagine che state per leggere fanno parte di questi indicatori. Vi troverete ciò che cipiace ricordare ma anche in parte ciò che, oggi, sarebbe impossibile tenere in vita. Trove-rete le immagini e i sentimenti, le luci e i colori, le tante ragioni che ci tengono legati aquel passato più o meno lontano ma anche i motivi che mettono quel passato tra lememorie individuali o collettive con le quali i conti sono ormai stati chiusi.

Non c‘è solo questo da dire sulla bella antologia Verso Sud. A me piace che i libriservano alla vita e viceversa, che ci siano insomma scambi tra le pagine lette e l’esistenzavissuta. Quali scambi e considerazioni allora l’antologia di Davide Grittani può sugge-rire? Ne indico due, libero ciascuno di rifiutarle o di aggiungerne altre.

La prima è che se quel Sud è in gran parte sparito come stato d’animo, inclinazionee sentimento, una nuova consapevolezza l’ha sostituito: l’ambiente e la terra, il passato ela memoria intese come ricchezza. Se avessimo avuto questa consapevolezza anni fa,quando un certo sviluppo economico è cominciato in modo così disordinato e convulso,non avremmo commesso gli errori e gli scempi di cui invece ci siamo resi colpevoli.

Nulla è compromesso, intendiamoci. La ricchezza era immensa, ne abbiamo sperpe-rato una parte, teniamoci allora stretta quella che resta, che è sufficiente se sapremo beneamministrarla. Sufficiente a far sì che i visitatori capaci di guardare le nostre terre con gliocchi dei viaggiatori d’elite racchiusi in queste pagine diventino sempre più numerosi.

E anche, seconda considerazione, che venga rispettata la vera vocazione di questenostre terre. Abbiamo fatto tanti calcoli sbagliati sul possibile sviluppo del Mezzogiorno.Certe volte era inesperienza, altre malafede. Questa antologia non è soltanto una testi-monianza letteraria, è anche un vademecum, indica una direzione, può diventare laguida a uno sviluppo possibile e sostenibile. Questo intendo dicendo che i libri, a saperlileggere, servono anche alla vita, che insegnano a vivere meglio.

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PARTE I

La Capitanata al tempo dei Latini

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John Northall (1723? - 1759), abile soldato del quale restano incerti luogo edata di nascita. Nel 1752 si recò a Minorca da dove s’imbarcò per Livorno, maanziché visitare le città italiane più note dapprima conobbe a fondo la Toscana,quindi Roma, Napoli e seguendo la Via Appia arrivò fino a Brindisi. Un reso-conto postumo di questo viaggio fu pubblicato nel 1766 con il titolo Travelsthrough Italy. In questa antologia riportiamo le pagine relative al VI capitoloThe Appian way (testo tradotto da Angela Cecere).

Quando i Romani sottomisero le popolazioni dell’Apulia e dei paesi vicini, con-tinuarono la Via Appia da Benevento a Brindisi. La data esatta in cui questa partedella strada fu costruita non si conosce; ma, come ricorda Tullio nelle sue Epistole,è certo che accadde prima della caduta dell’impero. Tre differenti strade conduceva-no da Benevento a Brindisi; una sulla destra attraverso Venosa, Troia e i dintorni diTaranto, l’altra sulla sinistra attraverso Aecae e Herdonia (Ordona), e la terza correvafra le due precedenti attraverso Trevicum (Trevico), i dintorni di Asculum (Ascoli) eCanusia (Canosa). Tutte e tre le differenti strade lasciano Benevento proprio all’Ar-co di Taranto ora chiamato Porta Aurea. La strada che si dirigeva sulla sinistraattraverso Aecae, ora Troja, si divideva dalle altre due che conducevano ad Eclarium(Eclano), le cui rovine si trovavano nei pressi di Mirabella. Da Eclano la Via Appiasi dirigeva a destra verso Venosa. Da Canosa la strada si dirigeva verso Ruvo, unacittadina assai antica. Proseguiva poi per Botuntus, ora Bitonto, situata in una fertilepianura. Di lí la strada continuava lungo la costa dell’Adriatico verso Bari, che eraun municipio romano. Infine, la Via Appia continuava fino a Brindisi, e lì termina-va. Brindisi è famosa nella storia per l’antichità e la bontà del suo porto. Nell’annodi Roma 487 fu sottomessa dai Romani, che vi instaurarono una colonia nel 509.Pompeo vi si ritirò durante le guerre civili, ma fu obbligato da Giulio Cesare adabbandonarla, ed a ritirarsi nell’Epiro. È stata parecchie volte saccheggiata dai bar-bari, ma è stata ricostruita per la bontà del suo porto. La cattedrale è una splendida

La Via Appia

John Northall

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Verso Sud18 D. Grittani

struttura fatta costruire da re Ruggero di Sicilia. Il mare precedentemente circonda-va tre lati della città; ma attualmente la sua estensione si è notevolmente contratta.Qui vediamo parecchie iscrizioni ed altri antichi monumenti. La Via Appia chepassava vicino Taranto giungeva a Brindisi dove si ricongiungeva alla Via Traiana.La seguente è una nota delle distanze da Roma a Brindisi:

Destinazione Miglia Destinazione MigliaAd Ariccia 16 Al Ponte Campano 9Al Foro Appio 26 Ad Octavum 9A Medias 9 A Capua 8A Terracina 10 A Benevento 32A Fondi 14 A Ruvo 107A Formia 14 A Bari 21A Minturno 9 A Brindisi 71A Sinnessa 9 Totale da Roma a Brindisi 364

Si può osservare che le distanze sulle colonne miliari erano calcolate da Romafino all’estremità del Lazio, considerato nella sua massima estensione, cioè appenaal di sotto di Sinuessa; ma in Campania le distanze sulle colonne erano numerate daCapua. Le grandi città erano come un punto centrale da cui tutte le distanze deiterritori circostanti venivano calcolate. La strada romana che passava attraverso Trojaera quasi della stessa lunghezza di quella ricordata prima; ma quella che passava daVenosa e dalle vicinanze di Taranto era più breve di circa otto o nove miglia. Pliniofa la media di queste distanze, e calcola con Strabone 360 miglia da Brindisi aRoma.

[Tratto da Travels through Italy; containing new and curious observations on that country, Londra 1766]

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Pubblicato nel numero 3-4 dell’VIII anno del periodico Il Rosone, questo do-cumentato saggio di Aldo Luisi ripercorre le tracce dei popoli che hanno abitatola Puglia dal IV secolo a.C. Attraverso una preziosa ricostruzione storica edetimologica, Luisi contribuisce a far chiarezza sulle derivazioni che in seguitoavrebbero dato i nomi a molte città e paesi della Puglia.

La regione che noi oggi chiamiamo Puglia, fu dai Greci chiamata Iapigia e daiRomani Apulia. Essa si estende lungo le coste dell’Adriatico dal Gargano al Capo diLeuca per una lunghezza di circa 340 km, fino alla foce del Bradano lungo il MarIonio, confinando con i Frentani, col Sannio e con la Lucania.

L’antica Iapigia o Apulia era suddivisa in Daunia, corrispondente all’attualeCapitanata; Peucetia, corrispondente alla zona di Bari e provincia; Messapia, corri-spondente alla terra d’Otranto e della provincia Jonica.

Attorno a questi nomi è fiorita una copiosa letteratura. Il dato storico spesso si èconfuso con quello fantastico producendo in tal modo risultati poco chiari. Tutta-via, volendo riassumere i fatti, dobbiamo dire che sul territorio iapigio preesistevanopopolazioni indigene con la loro civiltà all’arrivo dei Greci. Gli storici greci antichihanno imbastito meravigliose leggende per nobilitare le origini dei propri stanzia-menti in terra iapigia.

Ciò ha portato inevitabilmente a grande confusione perfino nella individuazionedei popoli. Basti dire che contemporaneamente quei gruppi o agglomerati abitantila Messapia erano indicati anche col nome di Salentini, Calabri, Japigi, Messapi.Quattro nomi per un unico gruppo omogeneo.

La Puglia negli autori antichi

Aldo Luisi

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Verso Sud20 D. Grittani

Fonti antiche

I primi storici della Magna Grecia compaiono solo nel V secolo a.C.; cito peresempio Antioco di Siracusa, Ferecide di Lero, Ellanico di Mitilene, dei quali cirestano frammenti, per lo più, in tradizione indiretta, tramite Dionisio di Alicarnassoe Stefano di Bisanzio. Di maggiore interesse sono le opere dei due grandi storiciErodoto e Tucidide. Questi autori trasmettono solo occasionalmente notizie e in-formazioni sull’Italia meridionale.

Così dicasi anche per scrittori del IV secolo: Pseudo-Scilace, Eforo e Aristotele:questi, rifacendosi ai precedenti, presentano solo deboli varianti a una stessa tradi-zione. È interessante notare in questo periodo la presenza di storici originari dellaMagna Grecia, come Filisto di Siracusa, Lico di Reggio e Timeo di Taormina. Diquest’ultimo un filologo tedesco, J. Geffken, ha detto che la sua opera potrebbeessere considerata la “summa” di tutte le conoscenze greche sull’Italia meridionale esulla Sicilia, e i suoi successori vi avrebbero attinto abbondantemente.

Tutti questi autori hanno operato nel campo della mitografia un eccellente lavo-ro di sintesi e di sistemazione delle leggende che inizialmente avevano un caratterelocale. Un vero concentrato di mitologia è l’opera La Biblioteca, attribuita forseerroneamente al grammatico alessandrino Apollodoro. Fonte importante per i mitisull’Italia meridionale è anche l’opera poetica Alessandra di Licofrone di Calcide (anoi restano solo circa 1500 trimetri giambici). In quest’opera si hanno, in partico-lare, notizie sul culto di Calcante e Podalirio in Daunia (culto localizzabile con ogniprobabilità a Monte Sant’Angelo sul Gargano). L’ultimo gruppo di storici com-prende autori del I secolo a.C., quali Diodoro Siculo, Dionisio di Alicarnasso esoprattutto Strabone. Questi autori parlano delle grandi città italiote e siciliote e delloro rapporto con le popolazioni primitive della penisola.

Nel campo latino le cose non vanno meglio. Tolti gli autori della prima e secon-da annalistica, di cui abbiamo scarsi e lacunosi frammenti, gli altri, cioè gli storicidell’età imperiale, sono in generale assai poveri, per quanto riguarda il nostro argo-mento. Tuttavia una certa messe di dati può essere raccolta da Tito Livio, Plinio,Tacito, Velleio Patercolo, Giustino, e perfino dai caotici Collectanea rerummemorabilium del grammatico Solino e dal Commento all’Eneide di Servio. Questiautori latini, oltre ad avere attinto più o meno direttamente agli storici greci, aEforo e a Timeo, devono avere utilizzato assai largamente Varrone. Quali conclu-sioni si possono trarre da questa rassegna delle fonti letterarie della storia più anticadell’Italia meridionale? È chiaro che la tradizione trasmessaci dagli autori antichi,nonostante il carattere di continuità che presenta dal secolo V sino all’epoca bizan-tina, non ci è pervenuta senza lacune e senza errori; ma è anche sicuro che, per

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La Puglia negli autori antichiA. Luisi 21

quanto nel corso dei secoli abbia potuto subire mutilazioni o deformazioni, nondeve essere considerata un tessuto di invenzioni tarde, senza valore e fondamento.

Apuli e Dauni

Dal geografo Strabone sappiamo che i veri Apuli abitavano intorno al golfo delGargano; che erano simili in tutto ai Dauni e ai Peuceti; e che solo nell’antichitàfurono diversi anche nel linguaggio. Lo stesso Strabone dice che i Greci davano agliApuli il nome di Dauni. Al cap. 242 egli scrive «i Greci chiamano Dauni gli Apuli».Al cap. 277 aggiunge anche i Peuceti: «Dopo i Calabri a nord sono i Peuceti e iDauni, detti così in lingua greca; ma gli abitanti chiamano Apulia tutta la regionedopo i Calabri». Al cap. 283 ribadisce che il nome di Peuceti e Dauni non è indige-no; che fu dato solo nell’antichità e che egli non può discutere con sicurezza iconfini di tali popolazioni, perché tutta la regione dai Calabri ai Frentani a temposuo si chiamava Puglia.

Sicché dalle dichiarazioni di Strabone possiamo ritenere verosimile che gli Apuliabitavano tutta la regione prima dell’arrivo dei Peuceti e Dauni, i quali avendooccupato le loro terre, li relegarono intorno al golfo del Gargano.

Ma quando giunsero in Puglia tali popoli? Dionisio di Alicarnasso nel I libro, alcap. 11, delle sue Antichità Romane scrive: «Diciassette generazioni prima dellaguerra troiana Peucetio, lasciato il Peloponneso, con la flotta allestita navigò loIonio. Appena giunto in Italia sbarcò sul promontorio Iapigio e vi stabilì la suagente. E gli abitanti di quelle terre si chiamarono Peuceti». Lo stesso Dionisio con-clude il cap. 13 dicendo: «Non so vedere spedizione più antica di questa che sirecasse dalla Grecia alle parti occidentali di Europa». Notizia confermata da unaltro scrittore greco, Pausania detto il Periegeta, vissuto nel II sec. d.C. al tempo diAdriano e Antonino Pio.

Comunque sappiamo che i Peuceti sono Pelasgi venuti armati in Apulia agliordini di Peucezio figlio di Licaone re della Pelasgia, detta più tardi Arcadia.

Iapigi - Messapi

Erodoto (IV, 99) afferma che gli Iapigi abitano il promontorio che va dal portodi Brindisi sino a Taranto. Vennero in Iapigia cinque anni dopo la morte di Minosse,tre generazioni prima dei fatti troiani, cioè tra il 1290 e il 1280 a.C.: «Erano Cretesie divennero Iapigi-Messapi e in luogo di isolani si fecero continentali» (VII, 170).

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Verso Sud22 D. Grittani

L’espressione di Erodoto ci conferma che già nel V sec. a.C. i due popoli venivanoconfusi fra loro. La confusione si riscontra anche in Tucidide, che li considera l’unoparte dell’altro. E Strabone è assai imbarazzato quando deve parlare di Messapi,Iapigi, Calabri e Salentini: tutti nomi che nel suo tempo venivano usati indifferen-temente per indicare le stesse popolazioni: secondo Strabone la Iapigia era chiamatadai Greci anche Messapia, e per gli indigeni era costituita, nella parte meridionale,dalla regione salentina, e nella parte settentrionale dalla regione calabra; a nord deiCalabri cominciava la regione che gli indigeni chiamavano, con un termine genera-le, Apulia mentre i Greci distinguevano un paese dei Peuceti (o Pedicli) e un paesedei Dauni. Polibio dal canto suo, dà sugli Iapigi notizie del tutto diverse, per quan-to conservi al nome un valore collettivo: gli Iapigi avrebbero compreso tre popoli:quello daunio, quello peucezio e quello messapico. Ma gli abitanti di questa zonasono ricordati anche con altri nomi: Calabri e Salentini.

Quanto ai Salentini, le notizie antiche sulla loro origine cretese sono assai piùchiare: così, Cretesi li considera Strabone, il quale situa nel loro territorio un riccotempio di Atena, nella località che i latini chiamavano Castrum Minervae. Ma, adifferenza degli Iapigi, questi Cretesi della penisola salentina sarebbero stati con-dotti in Italia da Idomeneo, il quale, secondo Virgilio, approdò in quella zona dopola caduta di Troia ed era re di Licto, a Creta; si spiega così come Solino dica che iSalentini discendevano dai Licti. Indicazioni più esaurienti le troviamo in un passodi Varrone conservatoci da Probo: passo che però non sembra essere stato riportatocon troppa esattezza, per cui nei dettagli, se non nell’insieme, resta un po’ oscuro.Secondo Varrone, dunque, i Salentini, il cui nome viene spiegato con un gioco diparole, avevano una triplice origine, cretese, illirica e locrese; Idomeneo, fuggito daCreta a causa di una sommossa, si recò nell’Illiria; ripartito di qui insieme a ungruppo di Illiri, e congiuntosi in mare a un altro gruppo di esuli locresi, approdò aLocri, i cui abitanti, spaventati, fuggirono; si stabilì così nella città abbandonata, epoi fondò molte fortezze, fra cui Uria e Castrum Minervae. Il passo di Varrone sichiude con la notizia che i Salentini erano suddivisi in tre «parti» e in dodici «popo-li». Le stesse indicazioni ritroviamo, in forma abbreviata, in Festo: anche Festo parladella Triplice origine, cretese, illirica e locrese, dei Salentini.

Tutte queste coincidenze non fanno altro che consolidare le tradizioni degliantichi; ma ci servono anche da monito per farci capire che esse per essere validedevono necessariamente confrontarsi con altre tradizioni, soprattutto quelle emer-genti dai dati dell’archeologia, dell’onomastica, della toponomastica. Oggi gli studidevono essere condotti di concerto con altre discipline. Non è possibile indagare inun mondo così lontano, quale quello dei primordi dell’Italia antica, in modo solita-rio. Occorre invece che ci si muova interdisciplinarmente. D’altra parte di un po-

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La Puglia negli autori antichiA. Luisi 23

polo non è sufficiente conoscere il solo nome, è necessario penetrare nella sua civil-tà, negli usi, costumi, lingua, religione, insomma in tutto ciò che ci dà la dimensio-ne esatta della vitalità di quel popolo. Tutto ciò non lo si può scoprire solo leggendole fonti degli antichi, ma comparando queste con i dati forniti dalle altre discipline:archeologia, epigrafia, onomastica, toponomastica ecc.

La penetrazione romana

L’esame finora condotto lascia qualche dubbio dovuto al fatto che non sempresi è sicuri che il dato riportato sia collegato col fatto storico, trattandosi di argomen-ti così lontani nel tempo e così suggestivi per la presenza di elementi mitologici nelracconto. Questa seconda parte invece si avvale di una più ricca documentazione,perché indaga sui contatti dei Romani con gli abitanti dell’Apulia e tratta di unperiodo storico più interessante e più vicino a noi. Secondo Tito Livio (8,25,3;27,2) gli Apuli entrarono per la prima volta in contatto con i Romani, chiedendonel’alleanza, nel 326 a.C., appunto agli inizi della seconda guerra di Roma contro iSanniti. Se la notizia, molto discussa, è vera, è probabile però che per Apuli siintendessero qui solo gli abitanti di Arpi, egemoni della Daunia iapigia e sicura-mente dalla parte dei Romani durante la guerra. Per il resto i centri dauni, da alcuniindizi delle azioni militari come lo stesso Livio altrove osserva (8,27; 29; 37; 9,12),paiono essere stati piuttosto dalla parte dei Sanniti. Dopo la vittoria romana le cittàdaunie, divenute alleate di Roma, entrarono a far parte della sua lega italica, unasorta di confederazione organizzata e guidata da Roma. La penetrazione romananella regione non era in realtà ancora solida. Pochi anni dopo, agli inizi del terzosecolo, durante la terza guerra della lega di Roma contro quella dei Sanniti, lamaggior parte degli Apuli sembra essere stata dalla parte dei Sanniti. Contro gliApuli, secondo la tradizione, i Romani dovettero sostenere un duro scontro milita-re nel 297 presso Maleventum (Benevento). Solo Arpi e Lucera rimasero sicura-mente fedeli a Roma. Appena poterono dunque i Romani nel 291 cercarono dirafforzare la loro posizione nella regione con una massiccia dedizione coloniarialatina a Venosa e a Lucera. Era un passo avanti strategico di grande rilievo. Nellasuccessiva guerra di Roma contro Taranto, Venosa, Lucera, Arpi ed Ascoli operaro-no contro Pirro una resistenza molto importante. Dopo il fondamentale scontro,Taranto entrò nella confederazione italica guidata da Roma, che intanto avevadebellato e costretto all’alleanza Lucani e Bruzi. Gli Iapigi/Messapi (Calabri/Salentiniriuniti in leghe) furono infine le ultime popolazioni italiche, nel 267 e 266, adessere assoggettate da Roma e ad entrare nella sua lega.

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Verso Sud24 D. Grittani

Alla metà del III secolo dunque si conclude la cosiddetta «conquista romana»della Puglia. Soltanto nell’età dei Gracchi, fra il 133 e il 122 a.C. si procedette a unavasta colonizzazione del territorio pugliese. La guerra dei soci (90-88) rappresentala svolta fondamentale nella storia dei rapporti fra Roma e l’Italia e quindi anche fraRoma e la Puglia. Si può dire propriamente che solo ora e non all’epoca della«conquista romana» del III secolo, la Puglia viene romanizzata. Da alleati, tutti gliApuli diventano cittadini romani. Le città conservano una propria autonomia am-ministrativa; ma ora è Roma che regola, probabilmente con una serie di leggi, isingoli statuti cittadini delle nuove organizzazioni. È da osservare che dopo la guer-ra italica i nuovi municipi non furono raggruppati in alcun distretto regionale. Unaprima divisione regionale d’Italia si ebbe con Augusto: fu divisa allora in undiciregioni: la Puglia divenne la Regio secunda. La configurazione regionale di Augustonon prevedeva però una unità regionale amministrativa con magistrati e funzionariche vi sovraintendessero: era semplicemente una suddivisione di comodo per i com-piti del censo e forse anche delle entrate delle tessazioni straordinarie.

La viabilità

La Via Appia arrivò in Puglia fino alla colonia latina di Venosa agli inizi del IIsec. a.C. Solo successivamente giunse a Taranto, attraverso Silvium e da qui a Brin-disi attraverso Uria.

Città importanti come Canosa erano tagliate fuori dall’arteria consolare, puressendo collegate a strade secondarie molto note. Orazio nel 38 parte da Roma incompagnia di amici per giungere a Brindisi. Egli segue la via Appia solo per untratto, poi effettua una deviazione che lo porta a Canosa (Sat. 1, 5, 91) e quindi aRuvo, Bari, Egnazia e finalmente a Brindisi (finis viae est) ove termina il viaggio(ivi, v. 104).

La strada percorsa da Orazio fu fatta lastricare dall’Imperatore Traiano nel II sec.d.C. Essa collegava Benevento a Brindisi e offriva al viandante un’alternativa allapiù antica via Appia.

Da Benevento a Brindisi la via Traiana toccava i centri di Aecae (Troia), Herdonia(Ordona), Canusium, (Canosa), Rubi, (Ruvo), Butuntum (Bitonto), Caelia (Cegliedi Bari), Egnazia, Brindisi. A queste due arterie fondamentali va aggiunta un’altrastrada che seguiva la costa adriatica del Sannio e si congiungeva a Siponto con altrestrade collegate a quelle per Brindisi.

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La Puglia negli autori antichiA. Luisi 25

Aspetti socio economici

Verso la metà del I sec. a.C. la crisi sociale coinvolge gran parte del territoriopugliese. I motivi sono tanti: le guerre, l’insicurezza dei mercati mediterranei, ladiffusione della pirateria, ed altre cause che concorreranno a fare della Puglia laregione più spopolata d’Italia (Cicerone nel 49 a.C. dirà: Apulia inanissima parsItaliae). Di desolate terre d’Apulia (in desertis Apuliae) parlerà Seneca in età neroniana.Orazio, a sua volta, parlerà di Puglia assetata (siticulosa) e dannosa per l’influenzadello scirocco (Atabulus); essa è conosciuta povera d’acqua da altri autori, quali:Varrone, Strabone, Columella. Cicerone e Seneca parlano di insalubrità dei luoghi,mentre Cesare nel 48 a.C. ricorda di essere preoccupato per la salute del suo esercitoaccampato in una zona insalubre del territorio brindisino.

Nonostante le ostilità dei luoghi i contadini locali hanno sempre reagito, tantoche Orazio parla di operosità dell’agricoltore apulo (Carm. 3, 16, 26 quidquid aratimpiger Apulus).

Sulle attività di lavoro in Puglia abbiamo una pregevole documentazione che cideriva oltre che da iscrizioni anche dagli autori antichi. Si parla di mercanti, uominidi affari, banchieri, lavoratori edili, armatori di navi, sarti, artigiani, medici, tessilicollegati alla pastorizia. Marziale ricorda l’eccezionale qualità della lana pugliese(14, 155) ricavata dai ricchi greggi dell’Apulia (2, 46); il candore della lana è degnodi essere paragonato col bianco Galeso (12, 63). Lo stesso Marziale ricorda anche itessuti scuri di Canosa (14, 127) e le bianche toghe lavate nel Galeso (4, 28). Daun’espressione di Marziale (14, 155) sappiamo che la Puglia aveva il primato inItalia della lana: «la Puglia è famosa per le sue lane di prima qualità, Parma perquelle di seconda qualità: le lane di terza qualità fanno onore ad Altino».

Personaggi

Tra i personaggi noti in ambiente storico-letterario c’è da ricordare il poeta QuintoEnnio di Rudiae, vissuto tra il terzo e il secondo secolo a.C. Secondo un famosoaneddoto riportato da Aulo Gellio (II sec. d.C.) Ennio era solito dire che aveva treanime, poiché sapeva parlare greco, latino e osco. Non abbiamo documenti cheattestino la penetrazione linguistica osca in Messapia, mentre conosciamo la diffu-sione della lingua osca in Peucetia dalle iscrizioni trilingui (osco, greco, messapico)rinvenute a Rubi e Azetium. È probabile che l’osco di cui parla Gellio sia piuttostoil messapico parlato dal volgo all’epoca di Ennio. La lingua ufficiale e dotta inPuglia prima della romanizzazione era la greca. Il latino, come lingua, si diffonde

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Verso Sud26 D. Grittani

nella regione solo alla fine del II sec. a.C. È comunque da ritenere che nel I sec. a.C.le lingue ufficiali e più note fossero il greco e il latino. Orazio chiama gli abitanti diCanosa «more bilingues» e Porfirione che commenta il passo annota che il fenome-no era diffuso «per omnem illum tractum Italiae». Sono in molti a sostenere chel’altra lingua parlata dai Canosini fosse una lingua indigena, probabilmente ilmessapico, lingua diffusa in Peucetia e specialmente in Daunia.

Oltre Ennio c’è da ricordare Livio Andronico, greco di Taranto, deportato aRoma come schiavo durante la guerra tarantina e poi affrancato dalla gens Livia.Egli a Roma curò due generi letterari: il drammatico, di modello greco, e l’epico,traducendo in latino l’Odissea.

Di Brindisi fu invece il tragediografo Marco Pacuvio, nipote di Ennio per partedi madre.

Infine da ricordare Orazio, Lucanus an Apulus anceps, come egli diceva di sé,ponendo in dubbio se fosse lucano o apulo. Marziale (8, 18) non ha dubbi, lochiama apulo: «Virgilio non volle cimentarsi nella poesia lirica coltivata dall’apuloOrazio».

Alcune corrispondenze

Daunia: Aecae = Troia; Arpi = Foggia; Ausculum = Ascoli Satriano; Aeclanum =Eclano; Cannae = Canne; Canusium = Canosa; Herdonia = Ordona; Luceria =Lucera; Salapia = Sapi; Silvium = Gravina; Sipontum = Siponto; Venusia = Venosa.

Peucetia: Azetium = Rutigliano; Barium = Bari; Butuntum = Bitonto; Caelia =Ceglie del Campo; Grumum = Grumo; Neapolis = Polignano a Mare; Norba =Conversano; Palio = Palo; Rubi = Ruvo; Turenum = Trani.

Messapia: Aletium = Alezio; Caelia = Ceglie Messapico; Callipolis = Gallipoli;Gnathia = Egnazia; Hydruntum = Otranto; Lupiae = Lecce; Manduria = Manduria;Neretum = Nardò; Rudiae = Rudie; Uria = Oria; Uzentum = Ugento.

[Tratto dal numero 3-4 dell’anno VIII de Il Rosone, ALDO LUISI, Edizioni del Rosone, Foggia 1983]

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PARTE II

Itinerari e luoghi

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Jean-Claude-Richard de Saint Non (1727-1791). Abate, esperto viaggiatoreautore di cinque volumi intitolati Voyage pittoresque ou description desRoyaumes de Naples et de Sicile, pubblicati a Parigi tra il 1781 e il 1786dall’editore Delafosse.

In Ispagna, tutte le pecore appartengono al Re ed i pascoli ai privati; qui tutti ipascoli sono del Sovrano ed i privati pagano in proporzione al numero delle bestieche pascolano. Queste pecore passano l’inverno e la primavera in pianura e durantel’estate si spostano in montagna. A sei miglia da Manfredonia il terreno comincia asalire avvicinandosi ai monti: qui il paese assomiglia del tutto per clima e caratteri-stiche del suolo alla Provenza. Dopo essere passati sul luogo dove era l’antica Sipon-to arrivammo a Manfredonia.

Manfredonia fu costruita da Manfredi, quello stesso che fu ucciso davanti aBenevento. Dopo aver edificato questa città per popolarla vi fece venire delle fami-glie da diverse parti della Puglia; la città fu poi distrutta e quasi completamentedevastata dalle incursioni dei Turchi, ma fu poi ricostruita. C’è a Manfredonia uncastello a prova di colpo di mano; un molo naturale sul mare forma un porto cheper la sua scarsa profondità non può chiamarsi se non una rada ma assai sicuro perposizione ed al riparo dei venti del Nord per le montagne che formano lo speronedello Stivale, chiamato Monte Gargano. Il fondo è poi così regolare che l’ancorag-gio è ottimo; vi si vedono molte navi veneziane che vi portano tele, mercanzieminute e caricano granaglie, lana, etc., prodotti naturali del paese.

La città di Manfredonia è ben costruita, aperta e popolata da quattromila abi-tanti; noi eravamo alloggiati nel Convento dei Domenicani ai quali eravamo statiindirizzati dal Preside di Lucera che ci aveva dato lettere per tutti i Sindaci del suodistretto; fummo ricevuti in modo perfetto dal Priore che era un uomo buono edaffabile.

Viaggio pittoresco

Abbé de Saint Non

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Verso Sud30 D. Grittani

L’indomani vedemmo arrivare il Governatore del Castello che aveva già manda-to il suo luogotenente ad interrogarci. Con l’anima tutta piena del suo Castelloebbe sul principio l’aria di considerarci dei nuovi normanni che venissero a ricon-quistare la Puglia; è da credere poi che il nostro aspetto pacifico lo avesse rassicuratosubito.

Dopo pranzo, tornammo sui nostri passi per un miglio e mezzo, nel luogo doveera l’antica Sipontum, fondata da Diomede, il fondatore di città. Si ritiene che essatragga il nome da Saepia e da Pontium, mare di seppie, a causa della quantità diseppie (supia o calamaro), specie di polipi che si trovano in abbondanza su questaspiaggia.

Da lì ci recammo ad osservare, quattrocento tese più lontano, delle strade dovesi vedono i resti di antichissime catacombe quasi a fior di terra: erano scavate in untufo giallastro molto simile alla pozzolana ma che è una concrezione marina mesco-lata ad una infinità di conchiglie di ogni grandezza. La distribuzione e la formadelle tombe antiche è quasi simile a quella delle catacombe di Napoli e gli ossami visono del pari ben conservati. Questi sotterranei sono attualmente scoperti perchésono stati scavati per ricavarne le pietre con le quali fu costruita Manfredonia ma sivede ancora dappertutto la traccia delle torce che servivano anticamente agli abi-tanti di queste oscure dimore.

All’ingresso di queste catacombe è stata presa la veduta incisa n. 6, nella qualel’artista ha riunito le strade, le rovine di Siponto, il sito stesso di Monte Sant’Angeloche si scorge dalle alture, come anche le montagne che formano il promontoriovolgarmente chiamato lo Sperone dello Stivale.

Non può riconoscersi subito l’esistenza dell’antica Siponto se non per il rilievoche le antiche volte sotterranee dànno al terreno. Non si sa quando fu distrutta, mauna chiesa costruita su quel suolo nell’undicesimo secolo permette di stabilire che lasua distruzione fu anteriore a quell’epoca. Il che dimostra come questa chiesa siastata ricostruita dopo la distruzione della città di Sipuntum e che essa sia il soloedificio ancora integro esistente in quel luogo, costruito con antichi resti ricompostisecondo lo stile greco dell’epoca e con gli stessi caratteri della chiesa di Troja dellaquale abbiamo parlato prima. Essa è ancora la chiesa episcopale di Manfredonia.

Sotto la chiesa è stata costruita una cappella sotterranea molto interessante e checostituisce un’altra prova di ciò che abbiamo ora detto essendo quasi interamentecomposta da fusti di colonne di marmo antico ma con capitelli moderni. Di questedue chiese sono state incise le vedute n. 7 e 8. Nello stesso luogo trovammo dei fustidi colonne, di grandezza media, di marmo cipollino e di granito, dei grandi capitel-li antichi e corinzi, un fregio dorico ed un piedistallo con questa iscrizione in onoredi Antonino:

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Viaggio pittorescoAbbé de Saint Non 31

imp. Caesaridivi hadriani f.Divi traiani partici n.Divi nervae pronep.Tito aeliohadriano antoninoavg. Pio. Pont. Maximotri. Pot. Cos. Sipvnt.PubliceD… D…

Questo piedistallo di tre o quattro piedi di altezza e con un larghezza di base didue piedi e sei pollici, sosteneva senza dubbio una statua perché si vede ancora ilsegno del posto dove doveva essere collocata. Poiché la curiosità, il desiderio divedere e di scoprire ci faceva ricercare ed osservare tutto ciò in cui ci imbattemmo,scoprimmo a qualche distanza da lì due piccole volte sotterranee che volemmoosservare più da vicino: erano sormontate e coperte da un paramento e da unintonaco che doveva formare il solaio di una antica casa. Queste rovine ci detteroinoltre il livello del suolo antico, a poca profondità. Vi erano pure dei frammentisporgenti di antiche muraglie, a forma di settore circolare, che potrebbero indicareun teatro ma gli avanzi sono così diruti che non può aversene alcuna certezza. Ilmare, a quanto sembra, arrivava a lambire le mura della città, dato che lo spazio cheintercorre tra questa elevazione e l’attuale riva è uno stagno a fior d’acqua.

Il giorno dopo il nostro arrivo a Manfredonia ci venne la curiosità di andare aMonte Sant’Angelo, uno dei primi santuari della Cattolicità, nel quale, si dice, ilprimo angelo del Paradiso ha voluto mostrarsi agli uomini in una brutta grottaumida e scura nella quale da quindici secoli si va a prendere il raffreddore. Nono-stante la mia scarsa fiducia nei luoghi miracolosi, indussi i miei compagni ad ac-compagnarmi in questo pellegrinaggio e così arrivammo sul luogo cavalcando moltoumilmente degli asini. Ciò che maggiormente stimolava la nostra curiosità era ildesiderio di visitare un luogo che era stata la cagione prima della calata dei Normanniin Italia. Si sa che questi Paladini famosi vi furono attirati specialmente dai raccontimeravigliosi che sentivano fare dai pellegrini dell’epoca e da tutto ciò che dellabellezza e della feracità di questo paese essi narravano.

Al posto però di tutte queste meraviglie non trovammo che una montagnaarida, secca e dirupata; tanto alta che vi fa freddo quasi sempre e per tutto l’anno.Nonostante queste condizioni poco piacevoli vi sono però ottomila abitanti masenza commercio, quasi senza attività produttive ed altra fonte di reddito oltre

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Verso Sud32 D. Grittani

quella costituita dall’affluenza dei pellegrini in alcuni mesi dell’anno. Eravamo di-retti dal Governatore che non parlava alcuna lingua e ci mise nelle mani di uncanonico che ne parlava una misteriosa.

Avrei voluto poter trascrivere quello che diceva perché, quando ebbe finito ilsuo pio sproloquio, ci fu impossibile capire una sola della parole che aveva pronun-ciato. Da parte mia mi comportai a meraviglia: guardai, ammirai, baciai tutto ciòche egli mi volle far baciare ed ammirare. Comprai anche delle statuette dell’Arcan-gelo e mi caricai di pietre della Grotta. Ma ciò che ci piacque più di tutto e cicompensò di tutte le nostre pene fu il portarci via una affascinante veduta del luogoe della scena stessa alla quale avevamo assistito e che uno dei nostri disegnatorieseguì rendendone, con tutto lo spirito ed il realismo possibile, il tumulto ed ilmovimento di questo genere di feste popolari molto più comuni e gustate in Italiache in qualsiasi altro luogo.

Dimenticavo di parlare del simulacro di San Michele che è famoso nel paese eche viene attribuito, per la somiglianza del nome, a Michelangelo Buonarroti. Questabrutta piccola statua è eretta su una specie di colonna tronca, sproporzionata edeturpata da un enorme capitello che funge da piedistallo. La figura del Santo è altatre piedi, l’espressione della testa è priva di carattere ed è pochissimo adeguata al-l’azione del momento che è quello in cui l’Angelo atterra il Diavolo. Questo, poi,ha l’espressione di una vecchia arrabbiata. Nel complesso, l’atteggiamento dellafigura è brutto, i dettagli sono meschini e, nell’insieme, di qualità molto mediocre.Alla statua è stata impostata una armatura d’argento dorato che riesce ancor più adimpoverirla e guastarla.

Non avendo potuto trovare a Manfredonia né calessi né cavalli, fummo costrettia prendere umilmente un carretto col quale ci mettemmo in istrada, seguendo lariva del mare lungo la spiaggia perfettamente piatta per cui avevamo sempre unaruota nell’acqua ed una sulla riva.

Questa vasta, immensa piana si estende all’interno per una larghezza di quaran-ta miglia; è un terreno incolto, qualche volta arido e popolato di pecore e nelle partipiù basse ed umide frequentato da bufali e da altro grosso bestiame, con capanne dipaglia sparse per alloggio dei pastori. Lungo il litorale si trovano, ad ogni sei miglia,delle torri di guardia, costruite per la sicurezza del territorio e cioè per annunciarecon il cannone le scorrerie che un tempo frequentemente facevano i Barbareschi,gli Albanesi ed i pirati turchi; ciò è molto meno frequente da quando gli sciabecchie le feluche del Re di Napoli incrociano nei paraggi e soprattutto da quando laRepubblica di Venezia si è assunto l’incarico della polizia dell’Adriatico.

Dopo aver traghettato su due fiumi o ruscelli che incontrammo sulla nostrastrada e che si gettano poco lontano nel mare, ci fermammo presso una delle torri

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Viaggio pittorescoAbbé de Saint Non 33

per far riposare i cavalli e sei miglia più avanti giungemmo alle Saline che fornisco-no di sale tutto il Regno e che, volendo, lo fornirebbero a tutto il mondo per lafacilità di estendere all’infinito le fosse di raccolta dell’acqua marina.

[Tratto da Voyage pittoresque ou déscription des Royaume de Naples et de Sicile, ABBÉ DE SAINT NON, Delafosse,Parigi 1781-1786. Il testo è stato curato da Franco Silvestri e ristampato, nel 1972, dalle edizioni d’arte CarloBestetti, Roma]

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Da Foggia a Lucera

François Lenormant

François Lenormant (Parigi 1837-1883). Archeologo francese che attraversò inlungo e in largo tutta la penisola italiana, soffermandosi con attenzione quasimorbosa nelle regioni meridionali. La descrizione dei sentieri di Capitanata diFrançois Lenormant resta, ancora oggi, tra i documenti più suggestivi dellastoria di questa terra. Il testo Da Foggia a Lucera, così come gli altri che seguo-no, è tratto da Attraverso la Puglia e la Lucania, opera pubblicata nell’annodella sua morte.

Augusto aveva qui inviato una nuova colonia di veterani e tanto gli scrittoriquanto le iscrizioni mostrano che essa mantenne fino alla fine il suo grado colonia-le, con i privilegi conseguenti. Nella Tavola di Peutinger essa è segnata come seded’un praetorium provinciale.

L’importanza di Luceria si mantenne oltre le invasioni barbariche e gli spavento-si saccheggi delle guerre dei Goti. Paolo Diacono la descrive come città opulentasotto la dominazione dei Longobardi, che ne fecero il capoluogo d’un loro castaldato.Ma nel 663 l’imperatore greco Costante II la tolse a costoro e la distrusse quasi deltutto. Da questo momento, per sei secoli, Lucera rimase una semplice borgata,dove risiedeva comunque un vescovo. In tale stato essa era ancora nel 1223, quandoFederico II, proprio l’anno in cui costruì il palazzo di Foggia, costrinse i musulmaniribelli di Sicilia a chiedere l’aman e a rimettersi alla sua mercé. Giudicando impru-dente lasciarli in val di Mazzara, dove le loro tradizioni d’indipendenza erano trop-po vive ed era per loro troppo facile, in caso di rivolta, ricevere aiuti dai fratellid’Africa, non volendo neppure privare i suoi Stati di una tale valida e industriosapopolazione con una espulsione simile a quella compiuta in seguito dalla Spagna,egli si decise a spostarli sul continente italiano. La massa degli Arabi di Sicilia fudunque per suo ordine trasportata a Lucera, Girofalco, Acerenza. Lucera fu la colo-nia principale, e per accogliere quella massa fu eretta un’enorme fortezza, dove in

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Verso Sud36 D. Grittani

un primo tempo essi vissero separati dalla popolazione cristiana della città.In tal modo trapiantati, dopo un tentativo di rivolta nel 1226, gli Arabi accetta-

rono rapidamente il nuovo destino con la facile rassegnazione dei musulmani e benpresto si legarono persino con ardore e devozione al sovrano che aveva serbato lorola vita, nel momento in cui le abitudini e il diritto di guerra, secondo i costumidell’epoca, gli avrebbero consentito il loro sterminio. Soggetti tutti al servizio mili-tare, le loro milizie furono per più di vent’anni nerbo e nucleo permanente deglieserciti di Federico II, e la fortezza da loro occupata, portata a termine nel 1227,diventò il principale punto d’appoggio della denominazione degli Hohenstaufennelle province bagnate dall’Adriatico; quando la rottura tra l’imperatore e il papadivenne palese e insanabile, la presenza dei musulmani a Lucera diventò doglianzadi cui il sovrano pontefice fece maggiormente echeggiare il mondo cristiano controFederico.

Morto Manfredi e dispersa la sua famiglia, i saraceni di Lucera si sottomisero alconquistatore, il quale mantenne i loro privilegi e le leggi speciali.

Ma l’anno seguente, all’annuncio dell’approssimarsi di Corradino, che si prepa-rava a valicare le alpi, essi issarono di nuovo sulle loro torri lo stendardo della CasaSveva sicché Lucera ridiventò il punto di coagulo dei Ghibellini nel Sud della peni-sola.

Carlo d’Angiò volle tentare di far capitolare la roccaforte prima che il suo anta-gonista arrivasse dall’Alta Italia. Ma dopo parecchi mesi di inutili attacchi, dovettetogliere l’assedio per avviarsi verso Corradino. Quando l’ebbe vinto e ridotto amorte, tornò davanti a Lucera nel 1269.

I musulmani si difesero strenuamente ma, dopo un lungo assedio, furono infinecostretti a capitolare per fame. Il 15 agosto, essi aprirono le porte della città e sfila-rono davanti al vincitore irritato, il quale li costrinse a passare sotto il giogo.

Ma Carlo non volle assolutamente privarsi dei servigi di guerrieri, di cui avevapotuto apprezzare il valore, sicché diede loro salva la vita e concesse di continuare adabitare la città.

Solo li privò dei privilegi, del diritto di governarsi da sé stessi all’interno dellacittà e di avere quali ufficiali di giustizia i loro cadì, i quali giudicavano tutte lequestioni secondo la legge musulmana.

Li sottopose invece alla diretta autorità del giustiziere della provincia e misesessanta lance come guarnigione nel castello, al fine di sorvegliarli. Nello stessotempo, in ricordo della sua vittoria e al posto della principale moschea della città,ordinò di costruire una grande chiesa dedicata alla Vergine al posto dell’antica Cat-tedrale, dando alla città il nome ufficiale di Lucera Christianorum.

Nel 1799 San Severo, come Andria e Trani in provincia di Bari, fu il luogo in cui

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Da Foggia a LuceraF. Lenormant 37

si riunirono i Borbonici per resistere alla nuova Repubblica creata in quel momentodai Francesi. Il generale Duhesme venne all’attacco con una divisione dell’esercitodi Championnet e coi volontari napoletani comandati da Ettore Carafa, conte diRuvo, poiché questo capo della grande famiglia dei Carafa, sì illustre nella storia, laprima del Napoletano del XVII secolo, aveva con ardore abbracciato la causa re-pubblicana, come gran parte dell’alta nobiltà del Regno. La resistenza e l’attaccoebbero l’accanimento proprio delle guerre civili. La lotta fu senza quartiere e la cittàfu presa solo dopo che Carafa, come era avvenuto ad Andria, fece dar fuoco alle caseper stanare i loro difensori. In fatto di ferocia, poteva rivaleggiare con lo stessocardinale Ruffo, suo avversario, che lo cacciò dalla Puglia, ma era un uomo diincomparabile valore e la sua morte fu bellissima. In seguito dalle bande infinita-mente superiori per numero dei Sanfedisti, si rinchiuse in Pescara, dove la fame locostrinse alla resa, a patto, regolarmente firmato, che avrebbe potuto liberamenteritirarsi con i suoi soldati. Incurante della parola data, il cardinale Ruffo lo fecearrestare e rinchiudere nella prigione di Castel Nuovo a Napoli, dove i giudici-carnefici della regina Carolina, al ritorno della corte, lo condannarono alladecapitazione. Salendo con passo deciso e con volto sereno il patibolo, egli chieseed ottenne di essere disteso supino sul piano della ghigliottina, col viso verso lalama: «Io, nobile e discendente di prodi, disse, mentre muoio per la libertà dellamia patria, voglio vedere lo strumento del supplizio davanti al quale tremano ivigliacchi».

A metà strada tra Lucera e San Severo, sono le insignificanti rovine di CastelFiorentino, il castello di villeggiatura dove, il 13 dicembre 1250, morì Federico II.Scoraggiato dalle sconfitte subite in Germania e nel Nord d’Italia, ma soprattuttodalla notizia della prigionia del figlio Enzo, indebolito dalla malattia, sentendovenir meno l’energia indomabile che lo aveva fino allora sostenuto nelle più grandiprove, intravedendo ovunque intorno a sé il tradimento pronto a manifestarsi,voleva rinchiudersi nella fortezza di Lucera tra i suoi fidi Saraceni. Giunto a CastelFiorentino, il suo stato divenne tale che dovette fermarsi. Il nome del luogo, ricor-dandogli una predizione dei suoi astrologi, fece nascere nel suo animo sinistri pre-sentimenti. «Morrete, – gli era stato detto – presso la porta di ferro, in un luogo ilcui nome sarà formato dalla parola fiore». Siccome nella camera regale il letto na-scondeva un’antica apertura da lungo tempo chiusa, che poteva immettere in unatorre attigua, egli la fece aprire, sicché essa si trovò munita d’una porta di ferro.«Mio Dio, – esclamò allora Federico, – se devo rendervi l’anima, si compia la vostravolontà!». Poi, con perfetta calma, chiamò vicino a sé Berardo, arcivescovo di Paler-mo che da trent’anni, malgrado gli anatemi pontifici, gli serbava grandissima fedel-tà; Bertoldo, marchese di Hohenburg, capo delle truppe tedesche e suo parente;

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Verso Sud38 D. Grittani

Riccardo di Montenegro gran giustiziere del Regno, il calabrese Pietro Ruffo, cheda origini oscure egli aveva elevato alla dignità di maresciallo; infine Giovanni daProcida, suo amico e medico, lo stesso che in seguito sarebbe diventato l’animadella congiura dei Vespri Siciliani. Alla loro presenza, egli dettò il suo testamento alnotaio Nicola da Bari. Ciò avveniva il 10 dicembre; tre giorni dopo, il sovrano cheda trent’anni faceva risuonare il mondo dell’eco del suo nome, spirava nella notte,assistito dall’arcivescovo di Palermo, che gli somministrò i sacramenti. Per il resto,una profonda oscurità aleggia sui particolari dei suoi ultimi momenti. Per quantoattiene alla lotta tra Papato e Impero, le passioni avevano raggiunto sotto FedericoII un tal grado di violenza, la menzogna e la calunnia s’erano sì trasformate inabitudine dalle due parti, che è impossibile prestare cieca fede ai racconti degliscrittori contemporanei sulla benché minima decisiva circostanza della sua vita.Ciascuno, senza alcuno scrupolo, secondo l’interesse del suo partito, inventa ciòche può recar vanto o offuscare la memoria dell’imperatore e la minore preoccupa-zione dei cronisti Guelfi e Ghibellini è il rispetto della verità. Secondo i Ghibellini,dopo aver professato in tutta la vita una filosofia scettica, Federico morì da cristianopentito, rivestito, secondo l’uso del tempo, d’un saio monacale, piangendo sui suoipeccati e edificando coloro che lo assistevano. Invece i Guelfi lo rappresentano sulsuo letto di morte in preda a rabbiose convulsioni, divorato dal veleno, senza alcunpentimento, senza desiderio dei Sacramenti, mentre minaccia la Chiesa e digrignai denti. Se si è in diritto di pensare che i primi hanno forzato le cose come a loropareva per onorare il loro eroe, gli stessi termini del testamento di Federico smenti-scono il furore e l’empietà a lui attribuiti dai secondi nel suo ultimo momento divita. Ma dove la calunnia dei cronisti Guelfi diventa avvero atroce e supera talmen-te la misura da tradire la sua menzogna, è quando sostiene che Federico II fu soffo-cato sotto il cuscino dal figlio Manfredi, avido di impadronirsi del denaro del tesoroe di aprirsi la strada per il trono. Nessuno storico serio si è soffermato su quest’abo-minevole accusa, smentita dalla sua stessa assurdità quanto dal nobile carattere diManfredi, ben più retto e leale del padre, per il quale un parricidio, in qualunquecircostanza si fosse verificato, avrebbe prodotto conseguenze più funeste per i suoiinteressi. Una tale accusa è stata avanzata dopo la tragica morte di Manfredi, quan-do non bastava più agli odi di parte aver dissotterrato il suo cadavere alla fossa in cuii soldati di Carlo d’Angiò l’avevano deposto sul campo di battaglia di Benevento,per darlo in pasto ai corvi, volendo che persino il ricordo fosse coperto d’infamia.

[Tratto da Attraverso la Puglia e la Lucania, FRANÇOIS LENORMANT, 1883]

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Fra tre anni al massimo si andrà da Foggia a Melfi in ferrovia: per ora non ècompiuta ed è in esercizio soltanto una parte del percorso, quaranta chilometricirca.

La linea, attraverso il piano, si dirige a sud verso le montagne, gradualmenteallontanandosi da quella che conduce a Benevento ed indi a Napoli, e passa, adiciotto chilometri da Foggia, a pie’ della modesta collina sulla quale è il piccolovillaggio di Ordona, prossimo alle rovine di Herdonea. Questa era un’antica cittàdegli Apuli, ricordata nella storia della seconda guerra punica per essere stata ilteatro delle due successive vittorie di Annibale sui Romani, la prima, del 212 a.C.,col pretore Cn. Fulvius Flaccus, e la seconda, del 210, col proconsole Cn. FulviusCentomalus, in seguito alla quale il generale cartaginese, diffidando della fedeltàdegli abitanti della città stessa al suo partito, che essi avevano abbracciato dopo labattaglia di Canne, la fece radere al suolo, e ne inviò con la forza tutti i cittadini,parte a Metaponto e parte a Thurioi: i superstiti di essi, otto anni più tardi, furono,finita la guerra, ridati dai Romani ai propri lari, ma la città ricostruita non riguadagnòmai più la sua importanza passata restando d’allora una località secondaria, perquanto sotto l’Impero fosse municipio, e riprendesse una qualche vita dopo la co-struzione della grande via, che porta il nome di Traiano, da Benevento a Brindisiper Castelfranco (Equus Tuticus) e Canosa (Canusium), che divenne la principalestrada per andarsi ad imbarcare per l’Oriente, e che attraversa Herdonea, la quale èappunto una delle stazioni che gli itinerari segnano sul suo percorso.

I resti, assai numerosi ma del tutto informi, che ancora si osservano sul sito diquesta antica città, mostrano nella loro costruzione la maniera dell’epoca degliAntonini: Herdonea fu distrutta nel IX secolo, in una delle incursioni dei saraceniche occupavano Bari dove avevano stabilito anche un Sultano.

A tredici chilometri più oltre, presso un’altra stazione, v’è Ascoli, cittadina dipoco più che cinquemila abitanti, sede vescovile, con una cattedrale della metà delsecolo XVI e l’antico palazzo fortificato de’ suoi conti, di cui la successione rimonta

La valle dell’Ofanto

François Lenormant

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Verso Sud40 D. Grittani

al tempo di Carlo d’Angiò, feudo che da Carlo V fu eretto a principato per Antoniode Leyva ed indi, nel XVIII secolo a ducea.

Ascoli, posta a cavaliere d’una delle ondulazioni che qui incominciano a pro-nunziarsi in modo sensibile e si rannodano ai contrafforti dell’Appennino, ha con-servato quasi senza alterazione il nome dell’antica città apula cui è succeduta, Asculumo più esattamente Ausculum come lo scrivevano le leggende monetarie, Auhusclumin ozeo, le rovine della quale, piuttosto rilevanti, si vedono fuori la cinta delle mura.Ausculum, al tempo della sua piena indipendenza, fu in effetti molto importante eprosperò tanto da battere monete proprie. Sotto le sue mura Pirro, nel 279 a.C.,combattè la seconda battaglia contro i Romani, battaglia di cui anche ora, conPlutarco alla mano, si possono seguire le fasi principali sul terreno che presentasempre le pieghe e le alture delle quali i consoli profittarono abilmente per condur-re il loro esercito. Però vi si cercherebbe invano un avanzo dei fitti macchioni daiquali il suolo in gran parte era allora coverto in modo da ostacolare completamentele cariche degli elefanti del re d’Epiro e della brillante cavalleria dei Tarantini e daimpedire che la fanteria legionaria fosse battuta come alla battaglia di Eraclea.

La campagna d’intorno oggi è completamente brulla, essendo il territorio diAscoli compreso nei confini del Tavoliere e quindi sottoposto al suo regime deva-statore. In questi campi, forse più che altrove nella provincia, pullulano le famosetarantole.

Ascoli ebbe a due riprese colonie di cittadini romani da Caio Gracco e da GiulioCesare, e mantenne sempre un posto coloniale sotto gli Antonini. Le iscrizioni cifanno conoscere che sotto Valentiniano era ancora tra le principali città dell’Apulia.S’ignora poi la sua sorte sotto i Goti e i Longobardi, ma da brevi indicazioni de’cronisti si sa che i Bizantini vi s’installarono nel 950 e che indi, nel 970, l’imperato-re Ottone il Grande la prese e la occupò per qualche tempo. Nel 1041 fu una delleprime città che si diedero spontaneamente ai Normanni per sfuggire ai Greci, enella ripartizione famosa essa fu assegnata a Guglielmo Bracciodiferro, il primoge-nito dei figli di Tancredi d’Altavilla. Quando poi il conte Abagelardo o Abelardo,figlio d’Umfredo e sempre pronto ad erigersi a competitore di Roberto il Guiscardo,si fu ribellato per la seconda volta abbattendo Boemondo, s’impadronì di Ascoli dicui fece una delle sue piazzeforti (1076). Però presto Roberto venne ad assediarlapersonalmente e se ne impadronì di bel nuovo. Qualche anno dopo, avendo essamanifestato velleità di rivolta mentre Roberto guerreggiava in Oriente contro l’Im-peratore greco, suo figlio Ruggiero la distrusse e ne disperse gli abitanti, per nonricostruirla, istallandovi nuovi coloni, che dopo essere diventato egli stesso, morto ilpadre, duca delle Puglie. Da quell’epoca la storia della città non offre più nulla dinotevole, tranne il parlamento che vi tennero i baroni del partito angioino per

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La valle dell’OfantoF. Lenormant 41

eleggere i sei deputati incaricati di governare, all’arrivo di Luigi II d’Angiò, la por-zione del Regno che gli era favorevole. Del resto essa decadde rapidamente dal XIVsecolo, decadenza principalmente dovuta alla fatalità dei cinque terremoti che ladistrussero del tutto in un periodo di tre secoli, negli anni 1348, 1360, 1456, 1627e 1694.

Due leghe dopo Ascoli la ferrovia, pel momento, termina alla stazione di Can-dela, stazione costituita da una semplice baracca in legno che deve il suo nome a unborgo di tre o quattromila abitanti, posto a qualche chilometro di distanza, sullacima di un’alta solitaria collina a pan di zucchero, dipendente nel passato dal ducatodi Melfi.

In tale stazione, in tempi normali, non si trova ad affittare che cavalli da sella perrecarsi alle località vicine, ma noi vi eravamo attesi da una vettura che ci era statamandata da Melfi, il cui cocchiere subito ci chiese se preferivamo battere la stradamaestra o l’accorciatoia, avvertendoci che il primo percorso era doppio del secon-do. Volendo guadagnar tempo ed arrivare ancora di buon’ora all’antica capitale deiconti di Puglia, preferimmo naturalmente l’accorciatoia, e, fatto caricare i bagaglisulla vettura, ci mettemmo subito in cammino a traverso i campi, o, al più, seguen-do un sentiero sterrato, fatto solo pel passaggio dei carri da buoi a ruote piene,solcato da profonde carraie, dove si deve restare impantanati senza possibilità d’uscirnesolo che faccia due o tre giorni di pioggia. Ma il viaggio divenne sopra tutto orribileraggiungendo i resti del selciato d’una vecchia strada medioevale, quella forse che altempo dei Normanni univa Ascoli a Melfi; e ancora adesso non so spiegarmi comemai la carrozza non si sia cento volte squassata nel passare su queste grosse pietredisgiunte tra cui s’aprono buche profonde. Passandovi, io mi domandavo quantevolte avevo maledetto in Grecia i resti, ridotti nel medesimo stato, delle antiche vieselciate dell’epoca veneziana e dei primi tempi della dominazione turca, dove ilviaggiatore ad ogni passo intravede il momento in cui, sbalzato di cavallo, debbarompersi il collo cadendo.

In tal modo, tra sobbalzi violenti, guadagnammo una catena di colline nude epovere d’alberi tanto quanto la prossima pianura, passate le quali vedemmo ai no-stri piedi il corso dell’Ofanto, l’Aufidus degli antichi. Quasi secco in quel momen-to, non era che un filo d’acqua giallastra corrente in fondo ad una vallata stretta dicui uno dei fianchi si solleva rapidamente in pendio. Il letto, molto largo, è ingom-bro di ciottoli e di pezzi di roccia strappati alle montagne, donde discende, nellastagione in cui le piogge invernali e lo scioglimento delle nevi ne fanno il sonansAufidus di cui canta Orazio. In questo tratto, di inverno esso è un torrente impe-tuoso che tutto travolge nel suo corso, ben diverso dal tratto prossimo al mare incui, come l’ho visto qualche anno fa dinanzi a Canosa e a Canne, trascina pigra-

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Verso Sud42 D. Grittani

mente le sue acque nel piano, su di un terreno senza più quasi pendenza, e le spargein impaludamenti irti di canne.

Scesa una costa quasi a picco, eccoci in fondo alla valle, sull’argine del fiume,dove però la collocazione del pietriccio per la futura ferrovia ha soppresso il sentieroche costeggiava la riva sinistra, nè ve n’è altra tra i fitti boschi della destra. Il cocchierespinge bravamente i suoi cavalli giù, sull’argine, guada la corrente, e dopo, invece dirisalire dalla parte opposta, ritorna a destra, continuando sul letto dell’Ofanto cherimontiamo per circa due chilometri, Dio sa a prezzo di quali scosse per noi e diquali disagi pei nostri poveri cavalli, tagliando e ritagliando i meandri sinuosi dellastessa corrente quasi a secco, arrestati ad ogni istante da pezzi di roccia o da tronchid’alberi da essa portati al tempo della piena. Giungiamo finalmente ad un ponte inpietra e mattoni, uno dei tre che sonvi su tutto il corso del fiume; la base de suoipiloni è di costruzione romana, e può facilmente notarsi come dall’Impero esso siastato più volte ricostruito e più volte asportato dalle piene invernali. È il ponte diSanta Venere.

Qui la via da Benevento a Venosa (Venusia), per Equus Tuticus a pie’ dei monti,passava l’Ofanto. Ora questo ponte imbocca la via maestra da Foggia a Melfi, chefinalmente raggiungiamo: per prenderla rimontiamo l’argine della riva sinistra, pas-siamo il ponte, ci arrampichiamo su per una lunga costa tra i boschi e, giunti infondo, ci troviamo su d’una specie di promontorio di notevole altezza, contornatodal fiume, dal quale, da qualunque parte si volga lo sguardo, l’occhio spazia su diuna incantevole ed ampia veduta.

Quardando indietro, verso il lato donde siamo venuti, vediamo ai nostri piedi lavalle aprirsi quasi subito nella pianura grigia e nuda in cui serpeggia il fiume, pianu-ra che, diritto innanzi, si stende senza ondulazioni fino alle lagune del Pantano e diSalpi, e fino al mare, mostrando in mezzo ai suoi campi senz’alberi, su di unacollinetta appena accentuata, le bianche case della città commerciale di Cerignola,dove il duca di Nemours nel 1503 perdette, contro Consalvo di Cordova, la batta-glia che decise del possesso del Regno di Napoli. Sul limite estremo dell’orizzonte,a sinistra, il Gargano, di cui si vede solo una parte, chiude la pianura. A dritta, di làdall’Ofanto, il terreno si solleva un poco, mostrando subito un primo altipiano sulquale è costruito Lavello, che vide morire Corrado IV nel 1252; più lontano versoil mare, s’ergono le colline sulle quali è Canosa tanto ricca di monumenti e dimemorie latine e medioevali; e finalmente un po’ più a destra, ha inizio la rocciosacatena delle Murge.

Dal lato opposto si scorge la valle, sempre più stretta e profonda, dell’Ofantosuperiore che discende dalle alte ed aspre montagne della Basilicata, da pressoPescopagano, montagne d’aspetto torvo e sinistro che ben si addice al ricetto di un

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La valle dell’OfantoF. Lenormant 43

popolo di eroici briganti qual’è stato quello degli antichi Lucani.Le pendici della valle più prossima a noi son coverte di boschi e di campi disse-

minati di solitari ciuffi d’alberi, e in fondo si scorge un ponte antico a tre luci, ilponte dell’Olio, l’antica stazione di Pons Aufidi degli Itinerari Romani, dove la viaAppia, nel suo primitivo tracciato, varcava il fiume andando da Benevento a Venosa.Poco più avanti, in linea retta, dall’altro lato della valle, è il borgo di Monteverde,pittorescamente posto a cavaliere d’un dirupo che forma come l’avanguardia dellemontagne in cui si nasconde l’antica Aquilonia, una delle città del piccolo popolodegli Irpini, della quale il nome moderno è Lacedonia, curioso esempio della con-servazione popolare degli antichi nomi locali, poiché esso si approssima assai piùalla forma osco-sannita, nota per le monete, di Akudunniu, anzi che a quella latinadi Aquilonia.

Ancora un breve tratto fra i boschi di querce, e finalmente si è in vista delVulture...

[Tratto da Attraverso la Puglia e la Lucania, FRANÇOIS LENORMANT, 1883]

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Impressioni di viaggio

Paolo Schubring

Scrittore e viaggiatore tedesco, visitò la Puglia nella metà dell’Ottocento. Neltesto qui riportato Schubring si produce in una descrizione abbastanza fedeledella vasta pianura del Tavoliere delle Puglie.

Si crede generalmente che la Puglia sia un deserto monotono, un paese privo diattrattive speciali e proprie della regione italiana. Ma «chi crede a questo cartello,non mangia vitello». L’immenso piano della campagna leggermente ondulata, ilmare così maestoso, il cielo così infinito e sereno costituiscono una trinità grandiosae singolare. In tutto si riscontra il carattere orientale, e specialmente nell’intensità enella purezza de’ colori. L’aspetto della campagna muta, nella notte stellata, è poiindimenticabile! Plutarco racconta di un uomo, che, avendo visto il Giove di Fidiaa Olimpia, ne aveva riportato una tale impressione, da ripetere sempre: «Chi havisto una volta la testa fidiaca di Giove, non può diventare del tutto infelice». Lostesso si può dire della beltà unica e maestosa della campagna pugliese.

Il rapporto dell’uomo con la natura ha sempre in special modo richiamato lamia attenzione, e già a scuola io intuivo la diversità di sentimento naturale ne’ Salmie nell’Iliade, senza saperla comprendere. Più tardi mi stupì l’indifferenza del medioevo per la natura, specialmente perché, nonostante questa indifferenza, i trovatoricantavano sempre sullo stesso tono l’amore insieme con la primavera. Alfredo Biesemi ha insegnato nel suo noto libro su Lo sviluppo del sentimento della natura nelmedio evo e nell’età moderna, che il sentimento della natura come unità, come ungiuoco di forze infinite, chiuse misteriosamente, non prospera nell’animo primiti-vo o ancora mezzo barbaro, ma che una tale aspirazione verso la grande unità invi-sibile sorge primieramente nello spirito ben educato, che indaga al di là dell’utile edel benessere materiale. Così solo si comprende come i Crociati, che tornavanodall’Oriente, vantassero in modo puerile i gioielli d’oro e d’avorio de’ reliquiaribizantini, e i broccati persiani, e le sete arabe, senza far cadere parola sul carattere

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Verso Sud46 D. Grittani

della contrada, o almeno mostrarsi stupiti del suo aspetto singolare.Per intendere la natura come unità, e capire il paesaggio come veduta, bisogna

aspettare le grandi conquiste del Rinascimento. I poeti hanno festeggiato la naturaprima de’ pittori: i diari del Petrarca e di Enea Silvio Piccolomini sono più vecchirispettivamente di due e di un secolo della pittura del paesaggio presso i Veneziani.L’arte del paesaggio non ha però raggiunto la perfezione nel paese dove nacque. Giàda lungo tempo questo genere di pittura ha iniziato la sua marcia trionfale attraver-so il nord dell’Europa, e in questo secolo specialmente i Francesi ne hanno ottenutoil primato. Gl’Italiani, al contrario, ancora oggi, non accettano, di fronte al senti-mento intimo, la pura immagine del paese. Questo popolo, così sviluppato artisti-camente, non vede e non dipinge né il paysage intime, né, quel che a lui dovrebbeessere più simpatico, il paesaggio eroico. Furono artisti tedeschi e francesi quelli chescoprirono il fascino della linea continua, e trovarono il profilo delle catene mon-tuose, nude, non coperte d’alcun bosco, la cui magnifica linea ci fa pensare al mae-stoso ritmo della vita ascendente e discendente. Questa purità lineare de’ pendiimeridionali, che l’occhio gusta così intensamente, considerata al lato economicocosta abbastanza cara. Un disboscamento privo di ogni precauzione, ha denudato ipaesi del bacino mediterraneo. Il piccolo arbusto, che spontaneamente germoglia-va, è stato, sin dalle radici, rovinato dalle capre, come la grande selva è stata distruttadall’uomo. L’unico bouquet d’alberi, singolarmente folto, che rimane ancora, cometestimone della vecchia e verde maestà de’ boschi mediterranei, è il promontorioAthos nella Calcide. Qui i monaci vietano l’entrata alle femmine, così che anche lacapra è compresa nella clausura! La sciocchezza umana ha una volta fatto bene a séstessa! Non si può descrivere il modo che oggi tengono i pellegrini sul Gargano e aBari, per dimostrare la loro devozione al Santo: è più una prurigine dei sensi che unelevarsi della mente e del cuore. Cupi suoni animaleschi vengono emessi; le lingue,che leccano il suolo, diventano sanguinanti; il piegarsi, l’alzarsi, il baciare sudicisassi, il mercanteggiare la manna, è tutto un quadro oltremodo indegno. E, sullamoltitudine piagnucolante e in ginocchio, sta il coro de’ preti in abito violaceo, chegirano gli occhi e sorridono dolcemente, guardando intorno. Possono andar super-bi dell’opera loro: essi sono padroni della massa, ma a qual prezzo! La povera gentes’abbruttisce nella sua libidine, i preti benedicono!

Anche qui il passato può nuovamente venire a toglierci dallo sconforto dell’og-gi. La dominazione bizantina non ha potuto mai consolidarsi nel Tavoliere; la storiadel paese principia co’ Normanni. Questi hanno diretta la loro sistematica conqui-sta della penisola da Melfi, che era proprio la loro cittadella. La conquista del Tavo-liere riuscì, relativamente, facile; molto più facile del distretto del Catapano greco.E, come segno della loro vittoria, essi ampliarono, sulle alture dei monti a nord-

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Impressioni di viaggioP. Schubring 47

ovest di Foggia, la colonia greca di Troia, che fu la sede del loro Arcivescovo, la cittàd’incoronazione de’ Re Normanni.

Troia, adagiata su di un monte, non può restar nascosta al viaggiatore che per-corre la strada ferrata da Foggia a Napoli; ma raramente il turista si va a ficcare finlassù. Un unico charà-bancs mette in comunicazione la stazione di Giardinetto conla sommità del monte. Lassù manca un albergo, un caffè. Potemmo avere esclusi-vamente de’ maccheroni in un portone, dove cavalli, asini, un cane, quattro polli, eundici bambini banchettarono con noi. La cara gioventù ci attorniò poi così fitta,durante la nostra visita alla cattedrale, che ce ne rammentammo per due giorni edue notti.

Ma la cattedrale è così singolare, che si perdona alle stesse pulci! La sua costru-zione risale a’ primi tempi del secolo XII; nel 1119 doveva essere già compita. Ilpiano superiore della facciata, come ha giustamente rilevato il Mothes, rimonta alsecolo XIII. Questa facciata è la più splendida dell’Italia meridionale. Una poderosacornice orizzontale la distingue in due piani, di cui l’inferiore è diviso in diversearcate, il superiore è adorno di un ricchissimo cornicione interrotto nel mezzo daun rosone gigantesco. Questa disposizione differisce totalmente dal tipo delle altrecostruzioni pugliesi. La tradizione lombarda, che fa le pareti intere, e articolatesoltanto da due lievi pilastri, non è rispettata; qui si è invece provato a ornare laparete in un modo, che ricorda subito la cattedrale di Pisa, sorta proprio allora, eritenuta e ammirata come una meraviglia del mondo. È chiaro che i Normannivolevano fabbricare le loro chiese diversamente da quelle della regione che conqui-stavano. Essi trovarono a Bovino, nelle vicinanze di Troia, una colonia di Pisani,che, il traffico della metropoli commerciale toscana, costituiva la stazione e l’empo-rio dell’esportazione di Levante. L’edifizio meraviglioso della cattedrale pisana, con-sacrata al culto nel 1118, diede il modello per la chiesa dell’Incoronazione di Troia.L’alternarsi delle pietre nere e bianche, l’ornamentazione de’ quadrati angolari, lapianta con la navata trasversale sporgente, il colonnato dell’abside son tutte remini-scenze di Pisa. I Normanni non aveva un’arte propria, quando nel principio delsecolo XI irruppero nella Puglia. In Sicilia essi si sottomisero all’arte araba; in Pugliacercarono di importare almeno l’architettura di un’altra provincia italiana.

Oltre questo di Troia, vi sono tre altri edifici, eretti dalla colonia pisana percommissione de’ Normanni: la cattedrale di Foggia, la chiesa oggi mezzo distruttadell’abbandonata Siponto, e la cattedrale di Benevento, ricostruita nel secolo XI.

Troia ha nella sua cattedrale due porte di bronzo: quella del portale maggioresorpassa in splendore, bellezza e ricchezza tutte le altre dell’Italia meridionale, fattaeccezione di Benevento. In essa la tecnica bizantina del niello contrasta ancora conla fusione indigena del rilievo. Io non conosco ceffi d’animali più stupendi de’ leoni

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e de’ cani che portano gli anelli de’ battenti di questo portone; e così pure sonolavorati in modo singolare i corpi scagliosi e inanellati de’ draghi anguiformi cherecano i battenti della porta. Le porte sono state fuse a Benevento: la grande nel1119, la piccola nel 1127. Doveva esser questa una chiesa molto ricca, se poté farcostruire due simili porte di bronzo, allorché una tale decorazione era riguardatacome l’ornamento più prezioso e più costoso di una chiesa.

Se la cattedrale di Troia ci conserva vivo il ricordo della magnificenza de’ princi-pi normanni, gli altri edifici di queste contrade ci riconducono col pensiero dellasignoria normanna, all’indimenticabile svevo Federico II. In Germania i Gesuititentarono di falsare e di distruggere la memoria di questo imperatore, a vantaggiodel nonno Barbarossa, ma il paese, nel quale Federico ebbe la sua sede e morì, nonse n’è lasciato defraudare. Per qual motivo l’imperatore, cui apparteneva mezzosettentrione, venne qui a scegliersi per residenza la piccola città di Foggia e nonPalermo fu la sede del suo governo? La spiegazione è facile a darsi: a Palermo non sisentiva abbastanza sicuro; i nobili palermitani non avevano dimenticato le sangui-nose giornate di Enrico VI, sebbene l’oppressore fosse finalmente perito, a lorovendetta, per mano della propria moglie. Ma a Foggia Federico era sicuro: nellevicinanze di Lucera aveva stanziati, quali guardie del corpo, 20.000 Saraceni, chepiù volte dettero prova della loro grande fedeltà. E presso questa guardia, in Ferentino,egli morì.

Le mura del castello di Lucera, che è stato molto ingrandito sotto gli Angioini,sono ancora in piedi. Nella grande corte, fiancheggiata da diciotto torri, vediamo,con gli occhi della nostra fantasia, avvicinarsi le vecchie truppe orientali: neri cavallicon gualdrappe rosse, feroci condottieri con mantello azzurro, turbante e scimitarra;quivi, predominante in mezzo a uno stuolo di dame dagli occhi lucenti, la bellaFartima, che regalò al suo imperatore il prediletto Manfredi; e poi tutta la suppellet-tile orientale variopinta, alla rinfusa, con tutta la sua clamorosità, con tutta la suastupefacente stranezza, un quadro davvero multicolore, che avrà spesso ricreatol’occhio d’artista di Federico, quando egli entrava per la «Porta de’ Saraceni». Certa-mente Castel del Monte, il castello di caccia presso Andria, come edificio, è piùimportante; ma Lucera ci rammenta la presenza dell’Oriente, lo splendore dellamezzaluna nel cuore d’un paese continuamente attraversato da’ Crociati. E non èveramente strano? L’imperatore stesso intraprese una crociata contro gl’infedeli, cheallora egli medesimo aveva fatto stabilire nel suo proprio paese, senza punto esiger-ne la conversione.

Del palazzo di Federico a Foggia è rimasto ben poco; solo un pregevole arco confogliami e aquile ricorda la scomparsa magnificenza. Forse in avvenire l’edificioverrà restaurato e isolato con la stessa cura che si spese per il palazzo di Teodorico a

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Ravenna; così si avvantaggerebbe molto la nostra conoscenza dell’architettura pro-fana degli Staufen, e costruzioni come il palazzo imperiale di Gelnhasen, vicino aFrancoforte, si comprenderebbero forse meglio nella loro origine. L’impero tedescoha un obbligo di fronte a questi monumenti dell’arte sveva nel mezzogiorno d’Ita-lia: i castelli dell’imperatore svevo, che nella sola Puglia son diciassette, dovrebberoessere isolati, esaminati e illustrati. Questa sarebbe un’impresa che ci converrebbeassai meglio di qualche spedizione in Oriente.

Il movimento nazionale che con tanta passione avvampò per trent’anni, e scavòun profondo abisso fra sé e il passato clericale, ha dato fino a oggi pochi frutti. Siparla più di quel che non si agisca: ecco il male. Di fronte alle insostenibili condizio-ni economiche si vive in una precarietà permanente, alla quale sembra che si sia cosìbene abituati, che ogni energica innovazione viene risentita come rigorosità. Il con-tadino pugliese, per assicurarsi il sole, suole avvolgere un panno intorno alla poppadella capra madre, e quindi i piccoli capretti cadono estenuati, o tuttalpiù cresconomezzo morti di fame. L’ingenuità di un tal calcolo s’incontra qui a ogni passo: se siha da vivere per domani, si può andare a letto soddisfatti. Io conobbi in Puglia de’genitori, che avevano preso in abbonamento un palco al teatro, possedevano unabella carrozza, ergevano degli splendidi monumenti sepolcrali, ma tralasciavanoper tutto l’anno di pagare la tassa scolastica per i loro figliuoli. Se possono con unaqualunque parola insignificante trarsi fuori, per dieci minuti, da una situazionescabrosa, credono di esserne usciti onorevolmente.

Da lungo tempo non sono più assuefatti alla lealtà e alla schiettezza: è evidenteche dicono quel che nel momento è opportuno. Il più delle volte ciò ha la suaorigine nella politica, nelle elezioni: un candidato sacrifica spesso mezzo patrimo-nio per una campagna elettorale: se egli vince, bene; se no, circa cinque famiglierestano rovinate per venti anni. Come si può a capo di una certa rettitudine con unsimile governo parlamentare?

Il paese qui geme affannosamente sotto il peso di spaventevoli tasse. Le impostedirette, massime quelle sulla ricchezza mobile, sono sproporzionatamente alte. Masoprattutto le indirette gravano in particolar modo, come una maledizione, sullapopolazione povera. Infatti per ogni bottiglia di vino si debbono pagare dodicicentesimi di gabella comunale, e il pane quotidiano non può introdursi esente dadazio. Oltre a ciò esistono i molti monopoli: il tabacco e il sale sono immensamentecari.

Spesso i contadini fanno tre quarti d’ora di corsa verso il mare con l’intento dirisparmiar pochi grammi di sale per i maccheroni, che vengon cotti nell’acquamarina. Tutta questa miseria si potrebbe sopportare, se lo smercio fosse in qualchemodo agevolato; ma appunto per i prodotti del suolo dominano ancora metodi

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primitivi. Se a Bari negozianti tedeschi non avessero, da sessanta anni a questaparte, diretta l’esportazione de’ vini, degli oli e delle mandorle, il paese se ne stareb-be ancora oggi derelitto in mezzo alla sua divina ricchezza. Lo Stato ha fatto pocoper migliorare la tecnica agricola, per riguadagnare terre paludose e malariche conla piantagione di alberi, con l’imboschimento di terreni poveri e privi d’acqua.L’antico sistema del subaffitto fa poi che l’ultimo fittaiuolo guadagni pochissimolavorando molto.

Si potrebbe, innanzi a queste negligenze dello Stato, con una stretta di spallepassare all’ordine del giorno, se il povero popolo, per le sue buone qualità, nonmeritasse tutta la nostra compassione. Per quanto possano essere corrotti i diecimilaaltolocati, altrettanto sono sincere, pure, fedeli le classi inferiori.

Chi viaggia nel treno diretto conosce soltanto l’ingenua impudenza di questipoveri diavoli, che si attaccano come mignatte a forestieri, da’ quali sperano unqualche momentaneo sollievo alla loro dura sorte. Ciò non è affatto piacevole, manondimeno è naturale comprensibile. Però si guardi ora un poco l’operaio e il con-tadino italiano non eccitato da nessun inglese. In lui si trovano ancora le virtùsemplici e pur tanto difficili della sincerità, della gratitudine, della modestia, dellacastità.

In questa gente non vi è nulla di falso, tutti hanno il pregio di un tatto interiorecosì delicato, che di rado ci pentiamo della schietta famigliarità loro accordata. Ione ho incontrati alcuni che non concepivano la mancia; altri la prendevano, ma laportavano ai loro genitori. L’attaccamento ai genitori è proprio commovente. Ungiovane di 36 anni, per rispetto, non fumava in presenza del padre, quantunquequesti lo invitasse. Tali piccoli tratti sono notevoli, poiché ci danno la misura delsentimento, che poi si manifesta in casi più importanti. Che cosa non ci sarebbe dafare con tali uomini! Le donne, per abitudine, frequentano le chiese, sebbene ladiffidenza verso i preti sia molto forte; gli uomini le accompagnano di rado, perchédi domenica si continua a lavorare. Donde prende questa gente i sentimenti suoipiù alti e benefici? Lo Stato si presenta più di frequente come vampiro, che comebenefattore, e per lo più si accosta a loro nella dogana e nella caserma, due istituzio-ni assai odiate. Quindi, solo stimolo al bene, resta l’amore per la famiglia e uninnato impulso di preparare ai figli un avvenire migliore del proprio.

Pure dovrei parlare soltanto d’arte. Ma si vedono tante cose quando si viaggia inregioni dove i treni diretti sono poco conosciuti. Le strade ferrate, in Puglia sono unargomento doloroso, che non si può toccare sine ira. «Si spende tanto», «non siarriva mai», ecco quel che si sente dire tutti i momenti. Ad eccezione della Spagna,nessun paese europeo può gloriarsi di un servizio così strascinato e costoso. Ma èmeglio non parlarne.

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Una delle più belle gite che si possano intraprendere da Bari, è quella per Bitonto.La via costeggia il mare, quindi attraversa estese piantagioni di olivi, la cui formastranamente fantastica mi ricorda sempre le antiche Driadi e fate boscherecce.

Bitonto deve il suo splendore e il suo duomo all’Imperatore Federico II e alpadre di costui, Enrico VI. La città fu una volta potentemente fortificata, e conser-va ancora gli avanzi delle vecchie porte e delle mura, che han fatto buona prova inqualche assalto. Il Duomo in questi ultimi tempi, sotto la direzione dell’abile archi-tetto Ettore Bernich, è stato liberato dagli ornamenti sovraccarichi, con i quali loavevano coperto nel secolo XVIII; così esso offre la più chiara idea di quelle costru-zioni lombardo-bizantine, che ho già descritte nei precedenti articoli. All’esternorisalta lo splendido corridoio de’ matronei (tribunale per le donne), la cui favolisticaanimalesca, selvaggiamente fantastica, illustra bene il capriccio inventivo di queltempo. Si notano inoltre sontuosi portoni nella facciata occidentale, con ricchesculture (sull’architrave Cristo e i dodici apostoli; più su la Madonna con degliangeli; ai lati, l’intero sistema planetario; sul davanti due leoni, modellati così beneda sembrar vivi), e nel portone della parete meridionale si può forse scorgere l’in-fluenza saracena. Ancor più rilevanti sono, nell’interno, l’ambone e il pergamo,ambedue del principio del secolo XIII. Pur troppo l’ambone non è conservato nellasua primitiva forma (con doppia entrata); però, anche così ridotto, produce uneffetto grandioso, in grazia della sua purezza di stile. Si nota subito che l’età contri-buì con tutte le sue forze per erigere una tribuna di così gran valore, in omaggio allaparola di Dio marmi, figure, ornamenti di vetro, colori, nulla è risparmiato. Illeggio viene portato dall’aquila superba, che ci rivela il protettore svevo; uno schia-vo nudo, ginocchioni, la sostiene, ed è proprio una di quelle guardie saracene, cheFederico aveva acquartierate a Lucera. Del resto non mancò lo stesso imperatore:una balaustra della scala rappresenta mentre viene ossequiato dai vassalli. Si com-prende l’unione, in quei tempi, dell’imperatore col clero, anche se l’imperatorescrivesse, così, a caso, un libro De Tribus impostoribus (Federico non ha di certocomposto il libro, ma lo avrebbe ben potuto scrivere). Sugli antichi capitelli dellearcate poggiano le alte pareti superiori, in cui si aprono le trifore delle logge. L’inte-laiatura del tetto, scoperta e dipinta, accresce l’impressione dell’architettura leggera,e pur così saldamente piantata. E adesso ancora una gita alla tanto rinomata Cano-sa, che nell’antichità godette d’una fama universale per la sua fabbrica di vasi; poi,dal 216, celebre perché immediata al campo di battaglia di Canne; e finalmente nelsecolo XI, nota come resistenza d’un nobile normanno. La battaglia cominciò allecinque del mattino e sembrò dapprima favorevole ai Romani; ma verso mezzogior-no la sorte cambiò: i cavalieri di Annibale, che erano stati posti accortamente, lon-tani dal fiume, e che perciò godevano piena libertà di movimento accerchiarono da

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oriente. Dei 90.000 Romani, così dice la tradizione, ne caddero 70.000! Qualestrage dobbiamo immaginarci, se con spade e lance furono scannati, da 40.000nemici, 70.000 uomini, in quattro ore? Canosa nella sua antica cattedrale di S.Sabino possiede una costruzione puramente bizantina de’ secoli X e XI. L’idealedell’agia Sofia presente all’architetto, che cercò di riprodurlo modestamente. I pre-ziosi avanzi di questo antico tempio, la sedia episcopale e l’ambone, giacciono oggi,infranti, nel granaio, e la grande Confessio è sorretta da travi di legno. Al contrarioil mausoleo del Duca Boemondo di Taranto (morto il 1110) è ben conservato. Fucostruito durante la vita del principe, ed è un vero gioiello architettonico. La parteinferiore, rettangolare, coperta tutta di marmo e sostenuta da colonne e capitelliall’antica, viene coronata da una graziosa cupola ottagonale, il cui profilo e le cuicolonnine non hanno pari. Anche qui abbiamo una porta di bronzo, metà bizanti-na in niello d’argento, e metà saracena con ornamentazione plastica e geometrica.L’artista si chiama Ruggerus Melfiae Campaniae. Per l’aggiunto di Campaniae sivuole riconoscere in questa Melfi, Amalfi; ma ciò nonostante si ritiene trattarsi diMelfi in Basilicata, avendosi sicura notizia della fonderia di questa città normanna.In ogni modo la porta è stata fusa in terra italiana, quantunque la tecnica sia bizan-tina.

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Giuseppe Ungaretti (Alessandria d’Egitto 1888 - Milano 1970). Quelle dedi-cate alla Capitanata dal poeta caposcuola dell’ermetismo sono pagine che com-muovono per la loro straordinaria intensità. Si tratta di prose che videro per laprima volta la luce come articoli della Gazzetta del Popolo, dal febbraio alsettembre 1934. Successivamente le prose vennero raccolte in un volume intito-lato Deserto e dopo (a proposito del quale Luigi Paglia, studioso foggianodocente di letteratura, deve ritenersi tra i più profondi conoscitori) contenenteautentiche dichiarazioni d’amore nei confronti di una terra, la Capitanata,che deve aver riservato a Ungaretti un’indimenticabile accoglienza. Per l’ap-punto da Deserto e dopo sono estratti tutti i brani riportati in questa antolo-gia, suddivisi - ci auguriamo opportunamente - a seconda delle aree geograficheche l’illustre poeta visitò e descrisse con commovente sentimento.

Foggia, il 20 febbraio 1934

FontaneNon saprei dirvi dove potreste trovare una cosa più sorprendente e commoven-

te, e augurale, delle tante fontane che s’incontrano oggi fra le palme, arrivando aFoggia. Foggia e le sue fontane! Non è quasi come dire un Sahara diventato Tivoli?L’acquedotto non c’era. Finalmente questi Pugliesi a furia di sperare e di gridareavevano ottenuto che fosse progettato e s’incominciasse a costruire. Questo lavoroda Romani era stato intrapreso: l’uomo, così forte, come dicono i santi, perchél’unico fra gli esseri viventi a sapersi debole, aveva raccolto e alzato nelle sue poverebraccia un fiume, l’aveva con una grazia mitica voltato dall’altra parte del monte…alla fine, sì, c’era l’acquedotto; ma in mezzo ai litigi andava in malora. Alcuni trattidi diramazione, sì, erano arrivati sino alla Capitanata; ma chi credeva più che do-vessero portarci l’acqua? Ed ecco che negli abitati ora è arrivata, l’acqua e le fogna-ture, l’acqua e l’avvenire. Ed ecco che antiche città hanno ritrovato una furia di

Il Tavoliere

Giuseppe Ungaretti

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sviluppo così lieta come se ora appena fossero state fondate. Fontane monumentali!Certo in tutta la Puglia l’acqua potabile ha un valore di miracolo, e c’erano nellaregione zone più secche, tutto sacco; ma dove più amabile mi parrà la voce dellavolontà, se non in quest’acqua ultima arrivata? Spezzando la luce del sole, è la piùfestosa di tutte. L’amante del sole, l’hanno chiamata i poeti. Egli, il sole, la copre digioie, come s’è visto. Non solo, e subito mi viene incontro l’altro suo simbolo: ilfulgore d’uno scheletro, nell’infinito. Quale merito ci sarebbe altrimenti ad addo-mesticarlo? Sarà perché sono mezzo Affricano, e perché le immagini rimaste im-presse da ragazzo sono sempre le più vive, non so immaginarlo se non furente etrionfante su qualche cosa d’annullato. Mi commuoverebbe altrimenti così a fon-do, un sole reso gentile? Voglio dire che anche qui ha regno il sole autentico, il solebelva. Si sente dal polverone, fatti appena due passi fuori. Penso con nostalgia chedev’essere uno spettacolo inaudito qui vederlo d’estate, quand’è la sua ora, e va, nelcolmo della forza, tramutando il sasso nel guizzare di lacerti. Non v’è un rigagnolo,non c’è un albero. La pianura s’apre come un mare. Vorrei qui vederlo nel suo sfogoimmenso, ondeggiare coll’alito tormentoso del favonio sopra il grano impazzito. Èil mio sole, creatore di solitudine; e, in essa, i belati che di questi mesi vagano, nerendono troppo serale l’infinito; incrinato appena dalla strada che porta al mare. Ea notte, ancora solo le pecore saranno a muovere le ombre, ammucchiate sotto iportici d’una masseria sperduta.

[Tratto da Deserto e dopo, GIUSEPPE UNGARETTI, Mondadori, Milano 1961]

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Raffaele Nigro (Melfi 1947). Dell’autore del memorabile romanzo I fuochidel Basento (Premio Campiello 1987) resta quasi anonima una raccolta diprose intitolata Viaggio in Puglia, pubblicata dalla editrice Laterza di Barinel 1991. I brani che dell’autore lucano - ormai barese di adozione - abbiamoscelto, raccontano dell’inizio del viaggio dal Fortore al Salento, per la cui stesuraNigro non rinuncia ai propri tratti della narrazione favolistica.

«Svegliati, andiamo».La luce si insinua tra gli interstizi delle serrande, aiuta il martellìo della sveglia a

gettarmi dal letto. Sono le sette e bisogna partire. Livia si gira nel letto, cerca riparonel buio delle lenzuola. La luce disegna la piccola curva acquattata sotto le coltri. Faancora freddo, siamo alle soglie dell’estate ma l’estate non viene.

Nella penombra sfilo via dal letto, percorro il corridoio in cerca di interruttori,apro le serrande dello studio, della cucina. Il sole ha accesso di colori la siepe diedera e ligustri, ha svegliato i gatti; una tribù di gatti si stiracchia sulle cappotte delleautomobili parcheggiate nel recinto condominiale. È tardi, proprio tardi.

«Svegliati, Livia, andiamo».Leggera come una gatta appare in fondo al corridoio, sale con gli occhi ancora

socchiusi, strofinandosi le braccia incrociate. L’autoclave già fa sentire il suo lamen-to, giù, dagli scantinati, mentre la casa si inonda di luce, man mano che sollevo leserrande, con fragore di listelli.

Sono i rumori famigliari, le voci ripetitive della quotidianità. Il rubinetto delbagno, l’acqua che gorgoglia nel lavandino, il fischio della caffettiera, il ronfo delQuattro e del Quattro Sbarrato, gli autobus che scendono da Carbonara e da Ceglieverso il cuore della città. L’autostrada ha di bello i motel. Non sei mai solo. Ti fermiper un pieno di carburante e intanto puoi consumare un cappuccino al bar, con uncornetto alla crema e marmellata e acquistare i quotidiani; La Gazzetta del Mezzo-

Dal Subappennino al Tavoliere

Raffaele Nigro

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giorno per la cronaca regionale, la Repubblica e Il Corriere della Sera per tutto il resto.Mastichi e scorri con gli occhi, un sorso e una voltata di pagina. C’è odore di ariapulita, dentro e fuori del bar. Le bariste ritardatarie vengono annodandosi il grem-biule. Il barista sta nel retrobottega, lo senti armeggiare tra casse e scatole, intuisce lanostra presenza, si attarda, poi eccolo, che si stropiccia gli occhi, si sistema il berret-to bianco sui capelli, apre la valvola del vapore o infila una tazza da caffè sotto lamacchina a pressione.

Livia si aggira tra le teche di vetro. Vi sono boccacci di peperoni, melanzane epomodori in aceto e olio; barattoli di funghi porcini; confezioni di mandorle sec-che; ciotole di ceramica locale e cianfrusaglie. Livia si perde come in un paese dimeraviglie, acquista poco o niente, il viaggio sarà lungo e ne troverà di cose belle. Ègiovane, Livia, ama i vestiti attillati e i capelli lunghi. Le invidiano una pelle diporcellana.

L’autostrada per Candela pare disegnata con la riga, poche le curve difese daglieucalipti che ad ogni inverno muoiono di gelo. E pochi i saliscendi, almeno fino aCanosa, poi si arrampica verso il falsopiano di Cerignola e ridiscende alla valledell’Ofanto. Candela sta su un cocuzzolo. Dal terremoto dell’80 appare annunciatada una folta schiera di prefabbricati. Di sera è una punteggiatura di luci sui primicontrafforti del Subappennino. Feudo dei principi Doria il paese è stato teatro, nelsettembre 1902, di una forte sollevazione di braccianti. I carabinieri aprirono ilfuoco, furono uccise otto persone.

Spaccando Candela a mezzo a mezzo, si giunge a Rocchetta Sant’Antonio. Nell’87visitammo il paese su invito del sindaco. Livia ha parenti per parte di madre, manon c’è mai stata occasione di conoscerli. L’invito del sindaco nasce da una ragionesingolare. In un mio romanzo, I fuochi del Basento, ho immaginato che la protago-nista femminile, Concetta Libera Palomba, sia nata nel paesino sulle montagne, ametà Settecento, e che abbia poi sposato Francesco Nigro di Melfi. Grande festadunque in nome di un fantasma letterario.

Il paese domina la valle dell’Ofanto. In periferia, i resti della rocca e, in centro,un ricordo marmoreo di Francesco De Sanctis, passato per Rocchetta durante ilsuo viaggio elettorale del 1874.

Mentre attraversiamo il falsopiano dove Pirro sconfisse i romani, non riesco afugare un moto di stizza. Da anni, ventotto vagoni carichi di liquami di magnesioprovenienti da Bolzano sono bloccati presso la stazioncina sull’Ofanto. Erano de-stinati a una discarica abusiva in territorio di Monteverde, uno dei tanti cimiteri dirifiuti venduti con mano camorristica a qualche industria settentrionale. Fermatida un pretore a Rocchetta, sono rimasti lì, nella comoda dimenticanza di Dio e delmondo giudiziario e amministrativo.

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Dal Subappenino al TavoliereR. Nigro 57

A destra nel fondovalle, la strada prosegue verso Sant’Agata, quindi per Accadiae infine per Deliceto.

Deliceto è un serpente steso tra colle d’Elce e monte Silecchia. Un castello nor-manno in pietra nera lo domina. A vederlo dalla vallata sottostante pare un bastio-ne sospeso sulle colture di olivi, viti a spalliera ed elci. De iliceto, da un bosco di elci,pare prendere nome il paese e un elce è raffigurato nel suo stemma. Ma la bellezzadel paesaggio sta tutta in quella rocca mastodontica che chiama alla mente i castellilavici di Melfi e Lagopesole e poco quelli in travertino e in tufo della Puglia marina.

A sud di Deliceto, su un falsopiano che guarda il fiume Carapelle, c’è il collegiodi Santa Maria della Consolazione. Tiriamo al collegio senza entrare in paese. Adaspettarci è padre Pennetta, redentorista. «Il caffè l’avete preso?» Si toglie di testa ilberretto e ci fa strada tra i corridoi freddi e puliti. «Qui dentro dormiva sant’Alfon-so, ma come vi ho già detto al telefono, non date retta a fantasie, non è vero cheabbia scritto qua la Cantata dei pastori. Oddio, può anche darsi, ma è solo una voce.Noi non abbiamo trovato alcun documento». Dal refettorio viene odore di cucina.Nella casa sono rimasti pochi religiosi. «Ecco, questa fu la stanza di san GerardoMaiella». Finalmente sfila di sotto al braccio la pubblicazione voluminosa che si ètenuto bella stretta finora, è la Storia meravigliosa di san Gerardo, raccontata daNicola Ferrante. «L’avevo qui per farvene dono».

«Padre Francesco – gli dico – io sono qua per dare un’occhiata alla fortezza.Sono in giro di sopralluogo per un documentario televisivo. Non che un progettoabbastanza vago e un titolo provvisorio: Il paese di pietra. Ci darete spero il piaceredi essere nostro ospite a ristorante?». L’aria è come impregnata da una sorta di mito,un’aria serafica. Da piccolo ho imparato ad amare e temere la figura di Gerardiello.Mi portò una volta mia madre in pellegrinaggio a Caposele, insieme a mio nonno.La statua del santo era stata riprodotta più volte a grandezza naturale e sistemata invari ambienti. Era l’immagine di un giovane emaciato e tisico. Mi colpiva l’espres-sione dei suoi occhi, sempre rivolti al cielo. Mi colpivano le storie devote che rac-contava il nostro accompagnatore, padre Massimiliano, da un microfono nel pull-man. Storie che mi hanno accompagnato fino agli anni universitari, quando hoavuto un impatto fortissimo con le organizzazioni della sinistra extraparlamentarebarese. E le impalcature hanno preso a vacillare.

Linguine al peperone e capretto, in un ristorante di periferia, mentre padreFrancesco mi racconta dei santi di casa. «Sant’Alfonso accettò l’eremitaggio diDeliceto alla fine del 1744. Era spossato da una lunga campagna apostolica. Virestò due anni, a scrivere e meditare. Parlava molto bene del paese nelle sue lettere.Dice che ci sono magnifici boschi e acqua in abbondanza. Acqua di paradiso, dicelui, con una fontana propria della Madonna e con la peschiera per cui si può

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adacquare in ogni tempo il giardino e si possono fare delle verdure». Tre anni dopo,nel 1749, arriva in collegio san Gerardo. È un ragazzotto così mingherlino chepensano subito di aver fatto un brutto affare. «Un giorno, durante la ricreazione, unsuperiore dice a Gerardo di portare della neve in sagrestia per farne un sorbetto. Ilragazzo corre in giardino e ne porta una brancata. Il superiore è uscito. Allora Gerardoposa la neve sul bancone dei paramenti e corre a chiamare il superiore. «Venite chealtrimenti la neve si scioglie tutta».

«Dove l’hai messa?» chiede il superiore. «In sagrestia, sul bancone». Il poverosuperiore si dà una manata in fronte. «I miei paramenti… chissà come me li avraiconciati». Si precipitarono in sagrestia. La neve s’era già sciolta e sgocciolava. Ilsuperiore spaventato aprì il bancone e tirò fuori le pianete e i camici. Erano tuttiasciutti».

Ripartiamo nel primo pomeriggio senza aver potuto visitare il castello in restau-ro. Ripartiamo con una promessa di ritorno a Deliceto coi permessi della sovrinten-denza e in più tranquillità. «Mio marito ha perso la strada della fede – ha detto – esolo voi gliela potete far ritrovare». Padre Pennetta le ha donato alcune medagliettedei santi redentoristi e della Madonna.

Ci accostiamo a Troia con lo stomaco in subbuglio per l’andirivieni dei tornantidel Subappennino. Una bibita in un ristoro alla periferia del paese e saliamo a piediverso la cattedrale, tra vicoli medievali che sanno di fumo, stretti e grigi, rovinatinella loro purezza architettonica da superfetazioni, da rivestimenti in ceramica e inmarmo, da pitturazioni non in armonia con la seriosità che il tempo ha consegnatoalle pietre, sfregiati da fastidiosi infissi di anticorodal. Poco prima della cattedrale,ecco la casa De’ Pazzi, alla quale appartenne Miale da Troia, uno dei tredici italianidella Disfida di Barletta. Saremo ospiti di un pittore del posto. Un autore dallamano popolareggiante, docente a Brera, Leon Marino. Marino è un compagno cheha scelto la linea dura. Avvelenato contro gli scempi urbani non sa capire la sceltaannacquata di Achille Occhetto. Prima che in cattedrale, vorrebbe portarmi in casa,per mostrarmi le sue tele, ma vale la pena approfittare delle ultime ore di luce eanteporre la visita della cattedrale. Strada strada mi parla dei suoi compagni, dellelotte sostenute, dal Sessanta in qua, a fianco ai contadini. Mentre saliamo su per uncorso leggermente in pendenza, incontriamo alcuni giovani che si accodano a noi,mi mostrano un foglio mensile di tendenza che con sacrifici di ogni genere stampa-no a Foggia, «La Refola». Marino ne cura l’impostazione grafica, disegna vignettesatiriche contro i politici locali e contro i parlamentari italiani, con gusto naif mafortemente irridente e sarcastico. Ma all’improvviso ecco la cattedrale. Una costru-zione straordinariamente imponente. Qui comincia la vera Puglia di pietra, quel-l’Apulia maior che annovera le grandi cattedrali, i mastodontici castelli nati tra età

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longobarda e angioina che Pina Belli d’Elia, Stella Calò Mariani, Karl Willemsen eCesare Brandi hanno saputo raccontare con competenza. La città nasce secondo lecronache nel 1019 per volontà del catapano Basilio Boioannes, a difesa della Pugliadai longobardi di Benevento. Leon Marino sostiene adducendo informazioni distorici locali che nacque sui resti di una città romana, Aecae, saccheggiata dai gotinel VII secolo. Roccaforte bizantina, Troia resta comunque legata al rito latino ededica la sua cattedrale a Santa Maria Assunta. Anno di fondazione incerto, ma dacollocare a trent’anni dalla fine del Mille. Le sue mura ricordano comunque guerresanguinose tra i normanni Altavilla e i bizantini.

La cattedrale, a croce latina, sta tutta raccontata nella facciata, anzi, nel rosone.Ne ha undici di raggi, sono colonnine che si collegano con archi intrecciati. Tra lecolonne è un puntagiorno nella pietra, un colabrodo di fori a losanghe stellettequadratini croci che deve aver fatto impazzire gli scalpellini. Immagino i cantieri divirtuosi dello scalpello, uomini che i notabili pagavano con un piatto di lenticchie,accosciati tra i blocchi di pietra, tutti pieni di volontà di stupire per la propriacapacità di ricavare l’impossibile dalla roccia. Da un cantiere nascevano cento capi-telli, mille statue, altrettante bestiole, grifi, basilischi, leoni cornuti e uccelli caudati,incubi notturni, sogni felici, fiori di favole e di leggende. Arrivava un architetto, ungiovane con la faccia rasata, munito di carte imperiali, o con un seguito di cassieri,decideva, tacciava disegni, acquistava marmi belli e pronti, dava indicazioni. L’ar-chitetto assemblava i pezzi, a volte era un capomastro e ne sapeva più di cinquantaarchitetti, guidava i lavori, dalla costruzione delle impalcature alla copertura delleinfrastrutture. Il più delle volte non lasciava il proprio nome sui marmi, sentiva chein troppi avevano gettato il sangue attorno a un edificio, troppe teste e troppe mani.In un affresco nella chiesa di San Donato a Ripacandida, questi architetti sono aipiedi del grande edificio dell’Arca con carte e squadri. Vestono abiti eleganti concappe e calzerotti di fattura angioina, a differenza dei manovali che si arrampicanosulle impalcature e indossano ridicole vestagliette corte, strette in vita da legacci opendenti a campana.

Il rosone è protetto da un archivolto a tre arcate concentriche tempestate dasculture bizzarre. La facciata è tagliata orizzontalmente in due da un cornicione. Laparte superiore è dominata dal rosone, l’inferiore da sei arcatelle su lesene che af-fiancano l’arco del portale. Una porta di bronzo, risalente al 1119, opera di Oderisioda Benevento, ospita la figura dello stesso scultore insieme a Cristo Giudicante e aun paio di committenti, il conte Bernardo e il vescovo Guglielmo. E ancora Oderisioè l’autore delle formelle in bronzo della porta sulla fiancata destra della chiesa.

Ma a che servono le descrizioni, se non a raccontare a chi sta lontano un luogoirraggiungibile? A nulla servono se la bellezza va goduta coi propri sensi. Il viaggia-

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tore dei nostri tempi forse deve limitarsi a suggerire chiavi di lettura, raccontare leproprie emozioni. La civiltà delle immagini ha ucciso quella della parola descrittiva.Per il resto, i monumenti sono dove li lasciammo, e attendono di essere visitati.

Leon Marino si sbraccia per fare spazio alle tele. Un mondo incantato di conta-dini, preti volanti, donne chiuse da fazzolettoni, nella sobrietà di una pitturafintamente infantile, racconta la vita di Troia e delle sue campagne. Ma c’è sempreuna punta di amarezza, di ironia, di scontento nelle sue figure, un briciolo di dadai-smo. Come in una maternità dove la Madonna regge un Bambino che orina in unpiccolo vaso da notte.

Poi si decide per un ristorante con cucina casareccia. Prima di uscire, il pittore diTroia mi fa dono di un quadro, è una crocifissione sui generis. Due contadinistanno sollevando la carcassa di un maiale e attorno tre donne si danno da fare conrecipienti. Il racconto può apparire blasfemo, ma Marino sa quanto per la famigliacontadina abbia potuto significare il sacrificio del maiale. La crocifissione è dunquecostruita sulla scorta di maestri del Due e Trecento fiorentino, ma con sobrietà esintesi iconografica.

Dormire si dorme a Foggia.Martoriata dal terremoto del 1731 e dalla seconda guerra mondiale, la città ha

compiuto sforzi enormi per risorgere. Ma del centro storico restano angoli, piccoliscorci, reliquie sperse nel mare di caseggiati popolari degli ultimi decenni. Unacattedrale romanica ricorda coi suoi pochi resti normanni il fasto del passato. Vi èannessa la cripta dell’Icona Vetere. Una icona bizantina attorno alla quale vortica lastessa origine della città. Esisteva, dice la leggenda, nei pressi dell’attuale sito diFoggia, un villaggio stretto da paludi, Borgo del Gufo, a poca distanza da Arpi,l’antico insediamento dauno. Sulle paludi del Borgo, alcuni pastori videro attornoal Mille tre fiammelle galleggianti. Accanto alle fiammelle, galleggiava un quadrodell’Assunta avvolto da veli, l’Icona Vetere o Madonna dei Sette Veli. Il quadrochiamò devoti dai paesi circostanti e li convinse a costruire un nuovo abitato.

Proprio sulla via per Arpi sorgono alcuni palazzi seicenteschi di grande bellezza.Insieme al palazzo imperiale di Federico II costituiscono le reliquie di una città chesvevi e angioini lasciarono ricca di testimonianze, la città di un’intera famiglia diarchitetti medievali, Bartolomeo e i figli Gualtiero e Niccolò. In questo palazzo nel1241 morì la terza moglie dell’imperatore, Isabella d’Inghilterra. Federico volle chevenisse trasportata ad Andria e sepolta a fianco alla seconda moglie, Jolanda diBrienne, nella cripta della cattedrale. E in questo palazzo si ammalò l’imperatorenell’invernata del 1250. Qui fu trasportato da Fiorentino già cadavere, qui il suocorpo venne imbalsamato per il trasporto a Palermo.

Di icone, la Puglia è ricca. Esse testimoniano gli scambi che per secoli si sono

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intrecciati tra Mezzogiorno e paesi di cultura greco-bizantina. Se ne sono censite atutt’oggi un’ottantina, eseguite tra XI e XVIII secolo, secondo alcuni da artisti ci-prioti o mediorientali, secondo altri da maestri locali. Si fanno allora i nomi diAngelo Bizamano, Demetrio Bogdano e dell’otrantino Giovanni Maria Scupula.Fascinosi i nomi delle madonne raffigurate: Madonna della Madia, della Fonte,dell’Idria, dei Sette Veli. Un ricco catalogo curato dall’infaticabile Pina Belli d’Eliaha tentato di censirle una volta per tutte, a corredo di una mostra di icone. Ma lamostra ha suscitato un vespaio. Le chiese di Monopoli e di Foggia si opponevano alprestito. La diocesi foggiana non autorizzava infatti a mostrare in pubblico il voltodella Madonna dei Sette Veli, nascosto da sempre agli stessi fedeli foggiani, comel’icona fosse il corpo vivo di Maria e non una tavola di conifera. La città resta,nonostante le trasformazioni sociali, la capitale del Tavoliere, il granaio del Mezzo-giorno. Non a caso, una delle etimologie che si assegnano al nome di Foggia èfoveae, fosse per il grano. Sede della Regia Dogana della Mena delle Pecore in etàaragonese e borbonica, si è trasformata dopo la bonifica dei suoi territori, in piùpunti malarici, in capitale dell’agricoltura, sede di un’importante fiera del bestiamee dei prodotti della terra. Né si dimentichino le aspre lotte sindacali e antifasciste,con Trematore, Fioritto, Maitilasso, Cannelonga, Allegato, Pontone e altri fondatoridei partiti di opposizione di Capitanata. Avvenimenti piccoli e grandi e uomini dicui diffusamente discorrono le indagini documentatissime di Michele Magno eRaffaele Colapietra.

La cultura della città, mi pare affidata oggi alla sua ricca biblioteca provinciale, alteatro Umberto Giordano e all’editrice Bastogi, di Angelo Manuali. Da Foggia sisale a San Severo. La città dà di vino e morga anche lontano dall’autunno. Unaperiferia sviluppatasi in modo selvaggio nasconde un centro storico ricco di testi-monianze architettoniche barocche e rococò. Il Medioevo, presente negli edificidella cattedrale e della chiesa di San Severino, non riesce a dare un’impronta allacittà, che appare segnata dalla presenza prepotente dei conventi cinque e seicenteschi.Benito Mundi, che oggi dirige la biblioteca comunale intestata a un tipografo quat-trocentesco emigrato a Milano, Angelo Minziano, ha dato l’anima per l’apertura diun museo archeologico cittadino. Per anni ha lavorato con alcuni amici della localesezione dell’Archeoclub, con loro ha condotto ricerche nella vicina grotta Paglicci,dove sono state rinvenute presenze in età neolitica. Finalmente, Mundi può oggirestarsene tutto il giorno tra le teche di vetro, innamorato della civiltà sanseverina.Ci accoglie infatti tra quelle sale rese luminose dal sole di fine maggio, un conventofrancescano incamerato dal comune, restaurato e adattato a museo. Un altro con-vento, appartenuto ai Celestini, oggi ospita l’amministrazione comunale.

Incerti se proseguire per Lucera o ripiegare verso Monte Sant’Angelo, ci conce-

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diamo, in compagnia di Mundi, una mattinata piacevole in una masseria agrituri-stica, in contrada Santa Giusta, a pochi chilometri da Castelfiorentino. La masseriafu feudo dei Di Sangro, signori di Torremaggiore. Vi praticavano la caccia. L’ultimoesponente della famiglia baronale, il principe Michele Di Sangro, privo di eredi,donò negli anni Cinquanta la tenuta alla propria governante, Elisa Crogan, che asua volta donò tutto al comune di San Severo, con l’obbligo di istituire una fonda-zione per l’incremento dell’agricoltura. Il castelletto dove la ricca famiglia trascorre-va primavera ed estate, è ora pericolante e richiede un intervento consistente. Mundivi ha fatto trasportare alcune sculture mastodontiche, le ha collocate ai marginidella strada d’accesso e ha fatto trasformare le stalle in ristorante e ambienti perpernottare. I magazzini sono stati trasformati in museo della civiltà contadina. Sa-lendo sui terrazzi, si intravede nella distanza il castello di Lucera.

In quel castello sono tornato alcuni anni orsono per assistere ad un evento tea-trale. Giorgio Albertazzi aveva realizzato, pasticciando tra idee e testi di alcuni auto-ri italiani viventi, tra i quali Sanguineti e Ruggeri, uno spettacolo orbitante attornoalla figura di Federico II di Svevia. Federico vi fece trasferire gli arabi quando siinterruppero con loro i rapporti di amicizia. In questi luoghi venne a morire, quifece costruire edifici. La sua ombra vive a Lucera e nelle campagne della Daunia, siallunga sulle città turrite della costa, fino a Brindisi, e in ogni città lascia una leggen-da, un riferimento ad azioni furbe, di volpina prepotenza. A Motta Montecorvinodirime una questione tra due famiglie, rivali per via di una promessa sposa che nonaccetta di convolare a nozze per terrore della prima notte. Federico avrebbe fattoportare presso di sé la donna e le avrebbe insegnato in concreto il da farsi. A Bari siscontra con san Francesco. A Gioia del Colle Bianca Lancia si uccide per amore dilui e lascia nella pietra impressa la forma del proprio seno.

Ma a San Severo, Federico è poco presente. D’altro canto sembra si disfacessedella città donandola ai Templari. Qui è nume tutelare Raimondo Di Sangro, ilprincipe mago che avrebbe tentato la via della mummificazione dei corpi e avrebbepraticato in pieno Settecento la magia naturale avvalendosi delle regole di chimica.

L’aria si è riscaldata e ci convince a salire a Monte Sant’Angelo. Inutilmentetento di mettermi in contatto telefonico con Pasquale Soccio, il curatore della ScienzaNuova di Vico. Abita da anni a Foggia, ma in realtà vive sui treni e in auto. Soccioè una meraviglia della natura. Cieco da diversi anni, continua a studiare e a manda-re a memoria opere intere con l’aiuto di giovani lettori che registrano per lui sumagnetofono il contenuto dei libri. Soccio ha studiato in maniera approfondita ilbrigantaggio postunitario che ha avuto in queste contrade molti proseliti, ha scrittolibri sulla storia minore di Lucera e del Gargano, qui, gode, com’è giusto che sia, dimolto rispetto. Insieme a Nino Casiglio, narratore della microstoria e dei miti di

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questi paesi, è certamente la figura più rappresentativa di quell’intellettualità dellaprovincia italiana innamorata dei raccordi tra storia patria e storia nazionale.

Nel primo pomeriggio, dopo una capatina alla cantina sociale per un riforni-mento di bianco di San Severo, ripartiamo per Monte Sant’Angelo.

[Tratto da Viaggio in Puglia, RAFFAELE NIGRO, Laterza, Bari 1991]

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Vasco Pratolini (Firenze 1913 - 1991). Fondatore con Alfonso Gatto dellarivista letteraria “Campo di Marte”, Vasco Pratolini è ricordato soprattutto perIl quartiere (1943), Cronache di poveri amanti (1947), Le ragazze di SanFrediano (1949), Metello (1955) e l’opera della sua maturità Lo scialo (1960).Scaltro e apprezzato cronista, Pratolini commentò per Il nuovo Corriere diFirenze molte tappe del Giro d’Italia, a proposito del quale il 4 giugno 1947descrisse la fiera pedalata di Fausto Coppi per le strade di Capitanata.

È fuori dubbio, ormai: nel subcosciente del signor Cougnet, specchiatissimapersona, dimora un seviziatore. Non potendo trovare polvere, mulattiere, sentieridi campagna, ostacoli naturali e trabocchetti, riuscendogli impossibile compensarela relativa lunghezza della tappa di oggi con un tracciato da cross country, ha dispo-sto la partenza per l’una dopo mezzogiorno. Dico le una dopo mezzogiorno: al 4 digiugno, precoce estate, lungo le strade del Tavoliere, allorché l’asfalto diventa fangonero e appiccicoso, le zolle sono aride come la pomice, e il sole scava il cervello econtorce i tronchi degli ulivi.

Con la sua faccia di vecchio ufficiale coloniale, la pipetta in bocca, Cougnet s’èavventurato per primo, a testa eretta e scoperta, incontro alla calura. Ci siamo but-tati sulla sua scia a dorso nudo. Il capo riparato dal berrettino donatoci dalla Wilier-Triestina, fidando nel vento protettore che la macchina solleva correndo (mi è man-cato il coraggio di mettermi al piccolo trotto sul camioncino della Wally. Ho ri-mandato l’appuntamento a uno dei prossimi giorni).

Dietro di noi, il Circo ha snodato la sua processione. Eravamo tanti penitentiche si recavano da Bari a Foggia per un voto. Ci guidava un uomo diabolico, dal-l’aria di certosino. I corridori hanno offerto la schiena al sole con la stessa disinvol-tura con cui il Santo famoso si distese sulla graticola.

I paesi ci attendevano al loro solito con l’intera popolazione bella e schierata, da

Garofani rossi per Fausto

Vasco Pratolini

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Modugno a Ruvo, da Andria a Canosa, ciascuno con un traguardo a premio, cia-scuno col suo bambino e il suo cane che traversano la strada all’ultimo istante,ciascuno con le sue scritte e i suoi festoni. Bitonto ci ha accolto con la sirena di unaschiacciasassi aperta a tutto vapore e il macchinista che saltava sulla grossa ruota perla gioia. Al di là del ponte sull’Ofanto solitario, un malinconico signore in neroagitava stancamente un fazzoletto: un corridore, era una maglia viola della Welter,passando glielo ha strappato di mano.

A Corato l’equilibrista Maggini, che si esibiva nella volata, è precipitato dal filoper l’imprudenza di una spettatrice, appoggiatasi ai cavalletti di sostegno. È statauna caduta fortunata per lui e per lei, ma intanto anche il bel Luciano ha versato lesue goccie di sangue sull’arena. Alla tibia di Serse, al femore di Covolo, alla testa ealla mano di Desmet, di cui ci insegue la nostalgia, aggiungete, insieme al braccio diRonconi, alla coscia di Brotto, alla caviglia di Bresci, al sedere di Zanassi, il ciglio diMaggini: anatomica esemplificazione del martire del Circo, ricoperto di cerotti eingessature.

Ma la campana suona anche per i seviziatori; ed è stato quando a Cougnet èvenuta a mancare la complicità del sole, giusto alle porte di Cerignola. Avevamopreceduto la processione, stavamo fuori la soglia di un bar centellinando una grani-ta di caffè con panna degna dei maccheroni di Foggia che fra poco mangeremo;allorché il cielo si è abbassato sulla terra nascondendo il sole, l’aria si è fatta improv-visamente ventilata e le prime goccie della pioggia estiva ci sono cadute addossomescolandosi al sudore. Ce ne siamo rallegrati per le schiene dei corridori. I quali,come subitamente rinviviti, hanno messo la testa sul manubrio e l’acceleratore allemoltipliche. Così, anche a Foggia, mercé l’arrivo frazionato, il Circo ha salvato lafaccia. Una faccia che si sta facendo grinzosa. Grinzosa e tuttavia feroce e sorridentedopo le volate finali. E l’eccitazione degli spettatori a cambiarle i connotati. Non ilvincitore del giorno, Conte, Bertocchi o Ricci, ma Bartali e Coppi sono le calamite.Oggi, come a Roma, Gino I è caduto nella tagliola. La folla lo premeva da ogni lato;emergevano sulle teste i moschetti dei gendarmi disperatamente impegnati a pro-teggere il campione; due giovani frati francescani facevano leva delle mie spalle e diquelle di un collega per vederlo un attimo da vicino. Coppi, invece, era riuscito adileguarsi. Tre uomini lo andavano cercando di qua e di là, framezzo alla marea,smarriti ma dignitosi, con un fascio di garofani rossi infiocchettato. Erano i rappre-sentanti del P.C.I. di Foggia, che a nome dei compagni volevano rendere omaggioa Fausto che ha fama di simpatizzante.

[Tratto da Il nuovo Corriere di Firenze, VASCO PRATOLINI, Firenze 4 giugno 1947]

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Maria Marcone (Foggia 1931). Una vita trascorsa tra la scuola e la scrittura,Maria Marcone ha firmato con Le pietre si muovono una delle pagine piùsignificative della nuova letteratura meridionale, descrivendo il tragico «sfolla-re» dei foggiani verso la vicina Troia, nel disperato tentativo di sfuggire ai bom-bardamenti del secondo conflitto mondiale.

(...) Ogni casa splendeva di un bianco accecante, e non c’erano più nella stradale ombre dei palazzi, ma cumuli enormi di macerie giacevano sotto il sole; squarcidi interni si vedevano qua e là, con un quadro appeso alla parete, o un comodino inbilico sull’orlo di un pavimento crollato, o un lampadario di cristallo rimasto appe-so a un lembo di soffitto, luccicante al sole come se avesse le lampadine accese.Stesso spettacolo si manifestò ai miei occhi, quando in uno dei bombardamenti chemi sono presa in testa, uscii dal rifugio e tra tanta distruzione, calpestando cumulidi macerie e forse frammenti di membra umane, mi avviavo verso la strada perTroia (lungo quella che è l’attuale via Vittime Civili) con mio padre e mio fratelloalla ricerca di un qualsiasi mezzo di fortuna che ci avesse portato a Troia, dove glialtri familiari erano in ansia. Lungo la stessa strada, chiamata allora via Napoli, cheera già quasi aperta campagna, ora è un’ampia strada con la stessa denominazione econ bei palazzi nuovi; in questa strada su Porta Troia (o Porta Napoli) vi era unapiccola bottega di fabbro-meccanico: era di origine troiana e risiedeva a Foggia damoltissimi anni, non conosco il nome, ma lo chiamavano dialettalmente “Cott-Cott” (a Troia “Cott-Cott” è la trippa bollita con i condimenti): lì era una specie direcapito e di deposito per i troiani in arrivo e in partenza o che si servivano per iltrasporto di merci da e per Troia del “vetturino” concittadino Eleuterio Aquilinoche andava e veniva quotidianamente e che perdette un figlio che lo aiutava, vitti-ma appunto dei bombardamenti. Colà ci recavamo a piedi quel giorno appenausciti dal rifugio dopo il bombardamento per trovare qualche mezzo di fortuna per

Le pietre si muovono

Maria Marcone

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raggiungere Troia. Fu durante il percorso che tra i cumuli di macerie raccolsi dei“souvenirs” che ancora conservo: una scheggia di bomba ancora caldissima quandola raccolsi, un Crocifisso dal quale nella caduta si era staccato il Cristo e una grossafotografia-ricordo di una qualche cerimonia militare in cui si vede il Re VittorioEmanuele III al centro circondato da alcuni alti ufficiali, ma con su ancora oggi unarossa macchiettina di sangue.

[Tratto da Le pietre si muovono, MARIA MARCONE, Mursia, Milano 1989]

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PARTE III

Foggia

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Ernesto Kantorowicz (1895 - 1963). Celebre studioso tedesco di storia medie-vale, autore dell’opera I due corpi del Re (1957) e soprattutto del pregevolesaggio Federico II di Svevia (1939). Da quest’ultima opera, che rappresenta lapiù attendibile e compiuta biografia dell’imperatore svevo, è tratto il brano quiriportato.

Si dimentica facilmente che nonostante tutta la giurisprudenza e la dottrina, lagran Corte era pur sempre una Corte medioevale, ininterrottamente, per decenni,centro di vita cavalleresca e cortese, che poté così avere in Italia il suo pieno svilup-po. Poiché la Corte di Federico apparteneva a tutta l’Italia molto più della Cortenormanna. Infatti non è Palermo la residenza abituale dell’imperatore, per quantoegli abbia celebrato con espressioni di entusiasmo le bellezze e le delizie della suaterra ereditaria, in realtà gli splendori della Corte di Federico a Palermo sono piut-tosto leggendari, perché l’Imperatore negli ultimi anni si recò una volta sola inSicilia, per reprimere la rivolta di Messina nel 1233. Palermo era nominalmente lacapitale del regno, ma la sua posizione geografica incomoda a raggiungersi, sia conuna pericolosa traversata marittima, sia con una lunghissima marcia terrestre, fecesì che Federico stimò opportuno di prendere dimora là dove era il nucleo più fortedello Stato, ossia nelle province verso Nord. La Puglia, le province costiere del-l’Adriatico, la Terra Laboris, l’odierna Campania erano per Federico la terra pro-messa: egli stesso si chiamava l’uomo d’Apulia e la sua vera e propria patria fu laterra che univa quelle due province, la Capitanata e la Puglia intorno al golfo diManfredonia. Fino ai tempi di Federico, la Capitanata aveva avuto poca importan-za, e se per quasi un secolo le fila della politica europea conversero nel Tavoliere diPuglia, se Foggia divenne città nota in oriente come in Occidente, lo si deve soltan-to alla predilezione di Federico per questa provincia, predilezione che aveva senzadubbio base politica. Ivi Federico si trovava nel punto più vicino al teatro delle sue

Foggia al tempo di Federico II di Svevia

Ernesto Kantorowicz

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lotte, cioè all’Italia centrale e settentrionale e poteva tenersi sempre pronto ad inter-venire personalmente; ma soprattutto il luogo costituiva un buon punto d’osserva-zione per ciò che accadeva a Roma. Altri elementi contribuirono anche alla scelta diquella località come quasi abituale soggiorno di Federico, poiché le terre ora desertee sassose, pascolo a greggi vaganti, erano allora ricche di boschi, di amene valli, difertili campi e, se non offrivano gli splendori lussureggianti e quasi tropicali diPalermo, né gli incanti del Golfo di Napoli, favorivano però la grande passione delsovrano per la caccia, tant’è vero che egli soleva passare l’inverno a Foggia e l’estatefra i monti. Molto probabilmente la maggior attrattiva fu appunto la vergine bel-lezza della campagna non ancora sfruttata, campo aperto a tutte le iniziative, einfatti Federico riuscì meravigliosamente a trasformare quei luoghi.

Là c’erano i castelli da lui stesso fatti erigere. Già nel 1223 fu cominciata lacostruzione di quello di Foggia, la cui iscrizione diceva che Federico aveva innalzatola città regale ai fastigi della dignità imperiale. Ben presto ne sorsero altri, castelli pervilleggiatura, casine da caccia, casali di campagna a cui di solito era annesso unpodere o una masseria.

Quali misteriosi e inverosimili festini devono essersi svolti dietro le mura silen-ziose di quei castelli! Un cronista del tempo descrive il castello di Foggia come unpalazzo marmoreo adorno di statue e colonne verde antico, di leoni, di vaschemarmoree, e narra di feste grandiose in cui si alternavano cori e rappresentazioni, egli occhi erano rallegrati dalle vesti di porpora degli attori. Di questi, alcuni veniva-no creati cavalieri, altri ricevevano distintivi ed onorificenze. I divertimenti si susse-guivano tutto il giorno e continuavano la notte al lume delle fiaccole. Un altrocronista narra le meraviglie dei cortili interni, quando fu accolto nel castello il figliodel re d’Inghilterra Riccardo di Cornovaglia che tornava dalle Crociate. Il conte,stanco e sfinito dal lungo viaggio nella calda stagione, ebbe dapprima ristoro dibagni, salassi e corroboranti, quindi si passò ai divertimenti. Con sua grande mera-viglia ascoltò musiche strane, suonate su strumenti mai visti, ammirò i giocolieri ele danzatrici saracene che eseguivano balli fra loro, scivolando leggermente su gros-se sfere, sul pavimento liscio e lucente al ritmo di cembali e castagnette. Addiritturaleggendaria è la descrizione delle feste che avevano luogo alla Corte quando centi-naia di cavalieri d’ogni paese, ospiti di Federico, raccolti sotto seriche tende assiste-vano a rappresentazioni date da artisti venuti da ogni parte del mondo, o le amba-scerie di altre potenze offrivano all’imperatore i doni più strani e preziosi, o i messidel re Prete Giovanni gli portarono, per esempio, una veste di amianto, un filtro digiovinezza, un anello che rendeva invisibili e la pietra filosofale. Si raccontavanoinoltre meravigliose storie sul misterioso astrologo di Corte Michele Scoto, il cuisolo nome faceva rabbrividire e che, fra gli altri miracoli, un giorno di gran caldo,

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Foggia al tempo di Federico II di SveviaE. Kantorowicz 73

per desiderio dell’imperatore, fece quello di attrarre nubi temporalesche e produrreuna benefica pioggia.

La cortese cavalleria, la pompa e lo splendore della Corte di Federico si spenserocon lui.

[Tratto da Federico II di Svevia, ERNESTO KANTOROWICZ, Garzanti, Milano 1939]

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Il poeta Jocelyn Brooke giunse a Foggia, con gli eserciti alleati, nei mesi imme-diatamente successivi ai feroci bombardamenti del luglio 1943, rimanendosensibilmente colpito dalla città semidistrutta. La sua lirica Foggia apparve perla prima volta nei quaderni di poesia Botteghe Oscure (n. II, anno 1948).

Mi sporgo dalla finestraNella sera glaciale,E vedo il crepuscolo d’invernoDissolvere le dirute mura;e il tramonto ostile fiammeggiaSulla secca e vuota cortecciaDel sobborgo cittadino, e cadeCome un dito accusatoreSulle chiese sventrate,Sulle piccole case rotteSpaccate come giocattoli; o indugiaPer le strade e cercaCon la perizia d’un poetaI piccoli, i trascuratiSegni dell’antica, invincibileVita che senza sosta,Tutta innocente e improtettaOra si rinnova: il bimboChe giuoca con un cerchio, la donnaChina sul fornello,E i lastricati con la lanugine

Foggia

Jocelyn Brooke

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Verso Sud76 D. Grittani

Del tenero verde primaverileDi finocchio selvatico e cicoria.Ed ora, calando la sera,Le case ruinate si adergonoScialbate di luna, bianche come ossa,Presso l’orlo della città, dove i campiFluiscono dolcemente nell’ignotoPaese oscurato dalla guerra;E la porta appena illuminataOffre la sua visione incorniciata di buio(Una natura morta di Chardin);E i fuochi sul lastricatoChe ardono per il pasto seraleCome per una festa,Sfidano la dura costrizioneDella Guerra e l’urgente, maschio assaltoDel preparato disastro:Segnale luminoso per i futuriGiorni sorridentiQuando di nuovo i fuochi festiviNella strada e sulla piazza avvamperannoE i getti e le candele romaneSprizzeranno la loro ingenua lodeDelle sgargianti immagini di santi,Riscattando con ore lieteQuesto duro tempo senza amore;E la gente tornerà a danzareNelle strade parate di fiori,Tra lo scorrere del vino nuovo.

[Poesia tratta dai quaderni di Botteghe Oscure, JOCELYN BROOKE, n. II del 1948, traduzione di SalvatoreRosati]

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Eugenio Montale (Genova 1896 - Milano 1981). Il grande poeta ligure, no-minato Senatore a vita nel 1967 e insignito del Premio Nobel nel 1975, ispira-to dal sentimento che nutriva nei confronti di Irma Brandeis (avvenente “musa”alla quale l’autore di Ossi di Seppia dedicò molti componimenti), descrisseuna sua visita immaginaria alla stazione di Foggia. Nel 1956 questa visitaassunse forma di racconto, e venne pubblicata dall’editore vicentino Neri Pozzacon l’emblematico titolo Clizia a Foggia. La conoscenza di questa prosa - chedescrive con impareggiabile maestria la fissità di un «meriggio» trascorso sottol’afa di una città senza più connotati a causa della guerra - si deve in particolarmodo a Paolo De Caro, docente foggiano tra i più rispettati studiosi italianidell’opera montaliana. Tuttavia il primo letterato foggiano che se ne occupò fuil filosofo Pasquale Soccio, che inserì il racconto Clizia a Foggia tra i contributiletterari della sua monografia sentimentale Omaggio a Foggia (Adda Editrice,Bari 1974).

I binari erano incandescenti sotto il torrido cielo di Foggia. Al di sopra del lorobarbaglio i vagoni color vinaccia, la fontana secca, i tronchi d’albero legati insieme(assurda anticipazione dell’inverno) sembravano sul punto di sciogliersi come gom-ma. Balenò nitida per un secondo la visione dell’ultimo respingente del treno che siallontanava con dolcezza quasi per suggerire l’idea che una corsetta di cento metriavrebbe permesso di raggiungere il vagone di coda. Ma nel tempo che Clizia impie-gò a valutare le forze che le restavano dopo due giorni passati nell’afa di Foggia, icento metri s’erano fatti centocinquanta, duecento. Troppi. Erano le tre del pome-riggio. Clizia sedette con precauzione sull’orlo di un sedile della sala d’aspetto e aprìl’orario. Fino alle sette non c’erano treni, poi un accelerato l’avrebbe trascinata perventi ore verso il nord. Guardò in alto col gesto istintivo, rassegnato e disperatoinsieme, con cui negli ex-voto delle chiese di campagna coloro che sono in bilico

Clizia a Foggia

Eugenio Montale

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Verso Sud78 D. Grittani

sull’estremo pericolo cercano in cielo qualcuno che li aiuta, si afferrano quasi congli occhi a qualche simbolo della loro interna fiducia. Ma il soffitto della sala d’aspettonon si schiuse ad alcuna consolante apparizione. Le apparve invece in tutta la sualubrica e funebre pompa una lunga pavesata di acchiappamosche gialli, punteggiatidi macchie nere, sibilanti, quasi urlanti dello spasimo di tante agonie riunite. Alcentro della striscia più vicina un grosso ragno nero affondato in quella viscidasuperficie non si muoveva più. Come aveva potuto giungere fino al centro dellastriscia? Clizia si fermò su diverse ipotesi. Poi concluse che una corrente d’aria dove-va essere stata la causa della sciagura; appeso al filo della sua bava il ragno s’era certocalato attraverso gli spazi della sua aerea architettura e il ciclone l’aveva sorpreso,spingendolo verso le sabbie mobili di quel fatale approdo.

Esaurita l’indagine Clizia uscì sulla piazza. La valigetta di fibra era leggera ma lebruciava come un’ortica la mano accaldata. I bar della città non sono allegri, inpiena estate, per le squadriglie di mosconi che succhiano voracemente clienti econsumazioni. E Clizia aveva disdetto la camera all’albergo. Provò un attimo didesolato smarrimento, poi la salvezza le si presentò improvvisamente nello spazioverde di un enorme manifesto murale. Nel salone del Municipio (che subito imma-ginò ombroso e ricco di morbide poltrone) i celebri professori Dobrowsky e Peterson,delle università di Bâton Rouge e dell’Istituto Avatar di Charleston (Sud Carolina)avrebbero svolto un importante dibattito sulla metempsicosi. Se qualcuno del pub-blico si fosse prestato erano previsti esperimenti pratici del più alto interesse. L’in-gresso costava poche lire.

Poco dopo Clizia entrò in un portoncino adorno di stenti limoni e di fronde dipino. Alcune frecce la guidarono fino al salone. Un’ombra di navata la accolse e laristorò. Nella sala c’erano forse una quindicina di persone che si tenevanoprudentemente discoste dal tavolo dei due oratori, già fermi, in attesa, al loro tavo-lo. Due uomini diversi; uno calvo, allampanato, occhialuto, vestito di nero, l’altropingue, rossiccio, in shorts e camicia di seta cruda.

Girava fra il pubblico un inserviente, o forse un discepolo dei due maestri, edistribuiva opuscoli a pagamento. Clizia ne acquistò uno. In prima pagina un dise-gno riproduceva Pitagora nel tempio di Apollo a Branchide. Dal pallio tendeva ilbraccio e l’indice verso uno scudo appeso a una parete. Dal suo viso maschio equadrato come quello dei giovinetti che l’attorniavano usciva una nuvoletta biancanella quale era scritto a grossi caratteri: «Ecco lo scudo che usavo quand’ero Euforboe Menelao mi ferì!» Nell’interno dell’oscupolo l’episodio era spiegato minutamentee non mancavano cenni sulla vita e le opere del sommo filosofo. Clizia lesse due o trepagine. La sua energia di neofita scemava man mano che dalle finestre aperte il frescodi navata cedeva al caldo e minacciosi si affacciavano i primi sciami delle mosche.

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Clizia a FoggiaE. Montale 79

Si spostò indietro di alcune file, nell’angolo più buio, sfuggendo allo sguardoindagatore del professor Peterson: e fu così che perdette a poco a poco contatto colmondo esterno, affondando per conto proprio in una palude nera ma non spiace-vole.

Le parve dapprima che al mondo non esistesse più alcuna forza di gravità. Sisentiva leggera, molleggiata su otto lunghissime zampe terminanti in soffici peli cheattutivano dolcemente ogni passo: se così si può dire, perché di passi propriamentedetti non si trattava nella sua marcia, bensì di frazioni di passi portati avanti ora daquesta ora da quella zampa, in un ordinato movimento che si creava da sé, senzache lei si affaticasse a dargli impulso o direzione. Vedeva il mondo secondo unaprospettiva orizzontale, non verticale come le pareva ricordare quella dell’uomo,piantato su due trampoli e procedente ad angolo retto con la terra. A questa nuovavisione contribuiva certo la posizione del suo corpo prono in avanti, disteso sullesue basi press’a poco come il soldato negli esercizi dell’«ordine sparso», ma anche lastrana disposizione degli occhi, otto come le zampe e messi a semicerchio intorno alcapo, tanto che – cosa sconosciuta agli uomini – una buona parte della pianuracircostante le appariva simultaneamente accrescendo la sua illusione di spazio e dilibertà. Degli occhi, poi, due erano come appannati, un po’ miopi di giorno, mapure in questo Clizia vide una ragione che tendeva a darle una libertà anche mag-giore: e infatti, appena scesa la sera, furono essi a entrare in azione, a illuminarle letenebre, a renderle più facile il lavoro della tela.

La sua tela era bella, solida e ben tessuta, la più bella che riuscisse a scorgerelungo le quattro pareti di quel cortiletto di marmo bianco in mezzo al quale unapiccola fontana cantava notte e giorno spandendo il suo getto su uno strato dimuschio morbidissimo. Veniva talora a passeggiare nel cortile un giovane vestito dibianco (ma dove l’aveva già visto?); col braccio ripiegato oltre l’orlo del pallio sor-reggeva un libro che scorreva passeggiando su e giù per il portico, assente da ognialtra cosa. E accadeva ch’egli si fermasse e guardasse attentamente la tela. Anche dinotte venne una volta a guardarla, e a lei parve che il giovane si accorgesse delbell’effetto che faceva la rugiada lungo le sottili trame dell’ordito, illuminata dallaluna. Mentre guardava il lavoro l’enorme viso del giovinetto non perdeva la suaespressione assorta e intensa. Pareva che la tela continuasse quasi i suoi pensieri,s’inserisse negli argomenti del libro che leggeva camminando lungo il portico, dalmattino alla sera.

A volte altri ragazzi venivano a trovare il giovinetto dal bel viso quadro. Sedeva-no con lui accanto alla fontana, o sullo zoccolo che circondava il portico, non dirado proprio sotto il capitello che Clizia abitava. Parlavano, sfogliavano libri e per-gamene, spinte dai loro gesti piccole onde d’aria arrivavano alla tela facendola on-

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Verso Sud80 D. Grittani

deggiare, il movimento ridestava ancora per un secondo le mosche invischiate eormai intorpidite nell’agonia (qualcosa nella bava del ragno doveva toglier loro lavitalità, almeno a giudicare dalla poca resistenza che opponevano una volta cadute,facili prede ormai pronte ad essere abbracciate e succhiate). Spesso i giovinettisbocconcellavano cibi e quando se ne andavano, il ragno scendeva a far bottino dibriciole, di chicchi e talvolta di bucce dolciastre. Fu così che in un caldo pomeriggioegli avvistò appoggiata sullo zoccolo sottostante una fila di piattini colmi di unapolpa dolce, bionda, odorosissima. Si appese alla tela e si calò, ahimè, con troppafuria per l’ingordigia, lungo il filo che si allungava man mano, sempre più: guarda-va il suo filo di sotto in su, stendersi stendersi così lucente e forte, con una specie diebbrezza, di orgoglio. Quando si accorse di ciò che stava succedendo, era troppotardi, il suo orrendo destino era segnato. Il nettare biondo e molliccio l’aveva affer-rato per la peluria del dorso, si dimenò, si scosse, sputò fuori tutta la sua bava perrafforzare il filo e tentare di risalire. Nello sforzo il capo gli fu imprigionato, pocodopo anche una zampa affondò in quella viscida palude. Un odore dolciastro, nau-seabondo si addensava su di lui, il corpo gli si induriva. In un anelito di supremadisperazione, di schifo senza limiti, stava buttando il capo indietro per affrettare lamorte quando una mano posata dolcemente sul braccio la svegliò.

Vide l’uomo in shorts e l’uomo in nero curvi su di lei.«Signora – disse il primo – lei è un soggetto veramente eccezionale. Voglia salire

sulla cattedra ed esporre ciò che ha sognato. Vuol dirmi il suo nome, la sua profes-sione, qualcosa di sé? È di questa città? Lavora qui, studia, viaggia?»

«No, canto – disse Clizia tanto per dire qualche cosa (e infatti canticchiavaspesso per sé).»

«Signore e signori – tuonò il prof. Dobrowsky in pessimo italiano, rivolto alpubblico – forse abbiamo qui una reincarnazione della Malibran o della divinaSaffo. Ma no, è impossibile, sarebbe un salto troppo forte nel tempo. Vuol dircisignorina chi ha sognato di essere? Questo sogno dev’essere rivelatore della sua pre-cedente esistenza. Si lasci andare, parli con abbandono.»

Clizia guardò dinanzi a sé e vide che le quindici persone di prima erano diven-tate forse una trentina.

«Ecco – disse in preda a un imbarazzo enorme che rasentava un sentimento dipudore offeso – ecco, io credo di aver sognato di essere un ragno, sì, un ragno nelcortile della casa di Pitagora, almeno mi pare di averlo riconosciuto dal viso.»

Il pubblico scoppiò in un’enorme risata e il prof. Dobrowsky si fece rosso finoalle orecchie.

«Signora – disse – lei si burla della scienza, non è degna della facilità con cui lamia ipnosi ha agito su lei. Si rende conto della perfezione che occorrerebbe per

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Clizia a FoggiaE. Montale 81

passare in un sol balzo dallo stadio di ragno a quello di essere umano? Parli sul serio,ci dica dunque chi ha sognato di essere.»

«Un ragno nel cortile di Pitagora – ripeté Clizia, mentre le sghignazzate delpubblico salivano al soffitto e il professor Peterson la prendeva per un braccio el’accompagnava alla porta ammonendola a non partecipare più a esperienze troppopiù serie di lei.»

Si ritrovò quasi di corsa nella strada, strinse con rabbia la valigetta, emise unpiccolo gorgheggio per risentirsi viva e guardò l’orologio che portava al polso. Man-cava appena un quarto d’ora alla partenza del treno, il pomeriggio foggiano eraterminato.

[Tratto da La Farfalla di Dinard, EUGENIO MONTALE, Neri Pozza, Vicenza 1956; Mondadori, Milano1960)

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Il teatro lirico, preso troppo frequentemente di mira dai compositori di drammia tinte forti e di convenzionali duetti d’amore, trova talvolta opportuno ristorarsialle più modeste e dilettose fonti della novella e della fiaba, in cui l’immaginazionee la grazia, il colore del pittoresco e l’arguzia della satira possono benissimo armo-nizzare insieme e divenire materia d’arte. Questa opportunità deve essere stata sen-tita da Giovacchino Forzano e Umberto Giordano scegliendo la materia allegorico-novellistica del Re, andato ieri sera in scena alla Scala diretto da Arturo Toscanini.

(...) Il pubblico, preparato dalla conoscenza della trama a intonare le proprieimpressioni al genere, ha fatto buon viso al nuovo lavoro e con sei chiamate, dellequali quattro fragorose dirette a Toscanini e a Giordano e le ultime due anche aForzano, si è dichiarato soddisfatto. La sala era magnifica, stipate apparivano legallerie ed esauriti erano i posti di platea.

(...) Alle prese con questo Re di carta pesta, il maestro Umberto Giordano aveva,come principale compito, da usare dei mezzi infiniti della musica per scolpire ilcomico della novella, sfiorare delicatamente le tenui corde affettive di Rosalina eColombello, immergere la rappresentazione scenica in un’atmosfera di musicalitàfiabesca, entro la quale sarebbe avvenuta la fusione degli elementi reali coi fantasticie giustificata la presenza, in qualche punto, del grottesco.

(...) Ora Giordano, a modo suo, cioè impiegando i noti mezzi d’invenzione dicui egli diede ripetute prove di poter disporre, è pervenuto a non rallentare il movi-mento dell’azione scenica.

(...) Diretta da Toscanini, l’esecuzione procedette snella, equilibrata, colorita.Lo strumentale di Giordano, pregevole in quanto afferma la mano sicura dell’auto-re e non manca di particolari interessanti, è uscito nitido dalla concertazione. L’ele-mento vocale di palcoscenico, sia solistico che corale, si è armonizzato nelle tinte,conservate nei toni discreti di un dinamismo di buon gusto. Allestita da Forzano,l’opera aveva assicurata a sé una interpretazione scenica perfettamente corrispon-dente alle intenzioni del librettista.

La prima rappresentazione alla Scaladel Re di Forzano e Giordano

Eugenio Montale

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(...) La parte di Rosalina sembra scritta apposta per Toti Dal Monte, tanto benea lei si adattano i passi agili scritti da Giordano e il carattere del personaggio conce-pito da Forzano. La sicurezza del canto della Del Monte, sempre facile, pronto,nitido, ha avuto ragione della struttura della musica, cosparsa di virtuosismi.

(...) Apprezzata è stata pure la Pampanini come Nedda. Alla fine degli atti,Toscanini e gli altri interpreti sono stati ripetutamente acclamati al proscenio.

[Articolo tratto dal Corriere della Sera, Milano 13 gennaio 1929. Il poeta ligure siglò questa recensionecon le iniziali G.C., sebbene l’intervento sia senz’altro da ricondurre al periodo delle prime collaborazionicon la memorabile Terza Pagina del quotidiano milanese]

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Umberto Giordano (Foggia 1867 - Milano 1948). Il foggiano più illustre diogni tempo nacque - in una bella casa dell’allora via della Peschiera, oggi viaPescheria - dal farmacista Ludovico Giordano e la napoletana Sabata Scogna-millo. Allievo del Conservatorio Musicale di Napoli, che frequentò assieme a unaltro compositore destinato alla celebrità come Francesco Cilea, il maestro fog-giano conobbe la popolarità grazie al Concorso Musicale per «opere prime in unsolo atto» bandito dall’editore musicale Sonzogno nel 1888 (com’è noto il con-corso fu vinto da Cavalleria Rusticana del livornese Pietro Mascagni, maGiordano pur classificandosi sesto con l’opera Marina ottenne importanti rico-noscimenti). Compositore tra i più stimati del movimento musicale verista difine Ottocento, Umberto Giordano scrisse opere come Andrea Chénier (1896),Fedora (1898), Siberia (1903), Mese Mariano (1910), Cena delle Beffe(1924) e Il Re (1929) destinate a firmare alcune tra le più felici del camminodella lirica italiana nel mondo.Le due brevi lettere che pubblichiamo in questa antologia sono entrambe indi-rizzate al Commendatore Pecorella (l’allora direttore del Teatro Dauno di Fog-gia, istituzione successivamente dedicata al grande compositore foggiano) edentrambe di significativo valore storico. La prima perché succede alla definitivanomina, avvenuta quando il maestro era ancora in vita, del Teatro ComunaleUmberto Giordano; la seconda perché commenta, con poche amare righe scritteotto mesi prima della morte, la mancata nomina di Senatore che invece andò alcelebre Maestro Arturo Toscanini.

Milano, 21 ottobre 1947Carissimo amico Pecorellaavete ricostruito il teatro che porta il mio nome, avete organizzato le superbe

rappresentazioni di Chénier, avete diretto i festeggiamenti in mio onore, avete col-mato di cortesie la mia consorte e avete fatto... l’impossibile.

Due lettere inedite

Umberto Giordano

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Verso Sud86 D. Grittani

Come posso ringraziarvi? Mi limito a dirvi semplicemente grazie di tutto cuore.So che spesso siete a Milano e vi prego venirmi a stringere la mano ché ne avrò granpiacere.

Con cordiali salutiUmberto Giordano

Milano, via Turini 27 marzo 1948Carissimo Comm. e amicoricevo in questo momento la vostra gradita. Ringrazio voi e i miei amici concit-

tadini per l’affettuosa premura presso il Governo: ma ormai è troppo tardi. Il Go-verno ha nominato il M. Toscanini. Vi stringo affettuosamente la mano

Umberto Giordano

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Venosa, il 22 agosto 1934

Piazza ovale che non finisce più, d’una strana potenza. È tutta sparsa di gobbe,sconvolta, secca, accecante di polvere. Da un lato la chiude una fila di carri obliquisulle ruote nelle profondità dei quali i fichidindia messi in mostra fanno come unmosaico coi loro colori gelati. Grandi scommesse a chi ne mangerà di più, e c’è chiarriva a mandarne giù anche cento.

Mi sono avvicinato a una delle tante gobbe. Dietro aveva come le altre unapiccola lapide. Smossa la terra, tolte le assicelle apparse sotto, s’è aperto un pozzo edentro s’alza un monte di grano. Questa piazza a perdita d’occhio nasconde dun-que l’uno accanto all’altro un’infinità di pozzi, conserva il grano della provincia chene produce 3.000.000 di quintali, e più. Altro che grotta di Alì Babà.

Ho visto cose antiche, nessuna m’è sembrata più antica di questa, e non soloperché forse il Piano c’era prima di Foggia stessa, come fa credere la curiosa analogiafra “Foggia” e “fossa”, ma questo alveare sotterraneo colmo di grano mi riconduce atempi patriarcali, quando sopraggiungeva un arcangelo a mostrare a un uomo unincredibile crescere e moltiplicarsi di figli e di beni.

Nessun luogo avrebbe più diritto d’essere dichiarato Monumento Nazionale.

Il Piano delle Fosse

Giuseppe Ungaretti

[Tratto da Deserto e dopo, GIUSEPPE UNGARETTI, Mondadori, Milano 1961]

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Guido Piovene (1907-1986). Scrittore vicentino legato al filone del cattolicesi-mo veneto, autore di un pregevole saggio-inchiesta sulle bellezze della nostrapenisola dal titolo Viaggio in Italia, da cui è tratto il brano che segue: descrizio-ne ironica e disincatata della terra e degli abitanti del Tavoliere.

Quella pianura vasta e di un solo colore, un tempo tutta verde perché tuttapascolo, più tardi tutta gialla perché coltivata a grano, il Tavoliere della Puglia, è conla Sardegna ed alcune zone interne della Sicilia troppo scarsamente abitata. Si deveai cattivi governi se una terra fertile, dove qualsiasi coltura risulta possibile, fu ab-bandonata gradualmente dagli uomini. Il cosiddetto regime di Tavoliere, volutodai Borboni, che si protrasse fino al 1865 con il breve intervallo di GioacchinoMurat, proibiva le coltivazioni per riservare il pascolo a beneficio dell’erario. Il Ta-voliere era il maggiore sbocco delle greggi che scendevano sui tratturi attraverso ilFortore dalle montagne molisane e abruzzesi. Le cronache ci parlano di quell’im-mensa landa verde in cui si protrasse, fino a meno di un secolo fa, la vita senza datadella pastorizia. Decine di migliaia di animali vi pascolavano: pecore, capre, vacche,cavalli, bufali. Era un West italiano. Anche Foggia mescolava nell’aspetto e negli usii caratteri di una cittadina del Texas a quelli d’una cittadina borbonica. Capitale delregno più vasto del bestiame nomade, era anche il maggiore mercato del bestiame edella lana grezza. Ferdinando II, appassionato di cavalli, vi andava con la scorta deisuoi ufficiali; ed in quel piccolo West napoletano si faceva baldoria, si stringevanofidanzamenti, si giocava d’azzardo. Molti, raccontano le cronache, venuti a venderebestiame, ritornavano senza bestiame e senza danaro. Tenuto a bella posta incolto,con abitanti fissi sempre più rari, il Tavoliere decadeva a plaga selvaggia. Le acqueimpaludavano vasti tratti di terra; i venti di mare spingevano verso l’interno i miasmidelle paludi; si diffondeva la malaria. Gli alberi furono distrutti: in provincia diFoggia, il feroce diboscamento ha lasciato soltanto un’isola, la Foresta Umbra del

Foggia e il Tavoliere

Guido Piovene

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Gargano. La miseria de’ pochi abitanti superstiti stabilì un regime di furti, di rapinee di abigeati.

Sulla distruzione degli alberi, che abbiamo constatato in Sardegna, in Calabria,in Lucania ed altrove, dovuta all’odio del pastore, che non tollerava un’ombra dovepascolava il suo gregge, ed aborrendo quella datagli dalle fronde cercava per séstesso l’ombra delle prode dei fossi, vorrei aggiungere qualche riga. La miseria laspiega, ma una miseria convertitasi in moralismo. Non solamente l’albero è giudi-cato dannoso perché prende un pezzo di terra, ma aborrito come predone, perché“ladro di terra”. È un sentimento d’invidia per l’essere improduttivo (o almenoritenuto tale), che non lavora, che non sgobba, eppure pretende di vivere: un atto diprimitiva giustizia contro l’ozioso, il parassita, di cui si mette in causa, il diritto allavita. È una condanna moralistica, l’esecuzione capitale di un presunto reo.

La legge del 1865, che abolì il regime di pascolo, non ripopolò il Tavoliere maprovocò la nascita del latifondo. La pianura fu infatti divisa da speculatori che viinstaurarono una sola coltura, la coltura del grano, che non esigeva grandi capitali,strade, abbondante mano d’opera stabile. Due sole operazioni erano infatti neces-sarie, la semina e la raccolta. Non sorsero né case, né pozzi, né stalle, né alberi.Dall’uniforme color verde dell’epoca pastorale, la pianura passò all’uniforme colorgiallo dell’epoca cerealicola, egualmente deserta, sotto il sole ed il vento. La siccità larendeva inadatta a colture più ricche. E l’emorragia demografica continuò in tuttoil primo quarto del secolo. Alcuni villaggi della provincia si sdoppiarono riprodu-cendosi per emigrazione oltre Oceano, e soprattutto in California.

La rinascita vera del Tavoliere esigeva perciò una bonifica a fondo della terradivenuta ostile. Era necessario immettervi colture più varie e più ricche sottraendo-le al monopolio della coltura cerealicola, e perciò popolarla; ma anche distogliereparte degli abitanti dall’agricoltura per instaurarvi un’economia meno semplice.Lavori di bonifica furono infatti compiuti disordinatamente agli inizi del Regno. IlConsorzio formato nel 1933 costruì case e borgate. Una bonifica più integrale edorganica, iniziata nel dopoguerra, è ora in corso con grandi mezzi; e questa fase dipassaggio si riflette anche nell’aspetto di Foggia.

Foggia era stata pressoché distrutta dai bombardamenti aerei, che vi fecero 18mila morti. La sua ricostruzione fu spettacolare. Nonostante la decimazione, gliabitanti salirono dai 62 mila censiti nel 1936 a 116 mila. Parte per l’immigrazionedalla provincia, parte da altre regioni, e perfino dal Nord. Tra l’altro Foggia è unodei centri ferroviari e stradali più importanti d’Italia. Circa sessanta autolinee vifanno capo. Se non lo sviluppo industriale, quello commerciale fu enorme, elevan-do il tenore di vita. Più carne, più vino, più dolci, più telefoni, più energia elettrica.Inoltre Foggia è al centro dell’opera di bonifica. La sua ambizione di diventare uno

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dei perni della vita meridionale, e di competere con Bari, è palese. Certo ha unoslancio più forte di qualsiasi altra città della Puglia. Perciò Foggia ci appare oggi unacittà interamente moderna, o meglio, una città in cui il moderno, che occupa lafacciata, trascina i resti anonimi di una vecchia decaduta. L’attrattiva maggiore è nelsuo disegno spazioso di grande città in embrione, nelle strade del centro, ampie,ben arieggiate, nell’acqua squisita, nel vento fresco. Vi sono palazzi, negozi appari-scenti di frigoriferi e di biancheria fine; anche se per la strada si incontrano ancoral’asino e il mulo. Vista sotto tale scorcio la città dà l’impressione della ricchezza; ma,addentrandosi nei suoi quartieri, ecco le case decadute ad un piano solo, di generecoloniale; e, dicono le statistiche, nonostante l’impulso edilizio stupefacente, 20.000persone vivono ancora in grotte, in caverne, in baracche. Più che cresceregradatamente, il moderno sembra essere esploso, sovrapponendosi in modo vistosoalla vecchia anima meridionale, abitudinaria, guardinga. Si direbbe che la casa cam-bi più rapidamente degli animi e delle usanze, e sia troppo grande per essi. Forse unemblema del Sud, nella fase attuale, si scorge in certi interni, grigi ed affollati, dovenello squallore spicca la macchina bianca di un frigorifero lussuoso. Prima di diven-tare vero il moderno attraversa una fase retorica. Ma impressiona lo sviluppo fisicodella città, la cadenza della trasformazione, la rapidità della corsa.

La provincia di Foggia è prevalentemente agricola. L’industria più importante èuna cartiera, proprietà dello Stato, con una buona produzione di cellulosa. Vi sonoindustrie alimentari, mulini e pastifici. La centrale del latte e lo stabilimento persgranare il cotone sono sorti nel dopoguerra. Tra le risorse più importanti bisognacitarne almeno due: il sale delle saline di Margherita di Savoia, raccolto ma nonlavorato in loco, e la miniera di bauxite presso San Giovanni Rotondo. Ma cellulosae sale sono industrie statali, e la bauxite della Montecatini. Dopo la perdita dell’Istriaquella citata or ora è l’unica miniera di bauxite italiana, e fornisce 270 mila tonnel-late di alluminio all’anno. Si ritiene che nel Gargano vi siano altri giacimenti rima-sti intatti. Piccole industrie, specie della pelle e del cuoio, potrebbero attecchire. Unnotevole guadagno, connesso con lo sviluppo della bonifica, si avrà dall’aperturadella centrale ortofrutticola. In questa grande plaga agricola fino ad oggi infatti èmancato il modo di conservare frutti ed ortaggi, così che si è dovuto vinificare conuva pregiata da tavola perché non si avevano i mezzi di mantenerla fresca. Si arriva-va all’assurdo che pere, pesche ed albicocche, prodotte nel foggiano, erano conser-vate nei frigoriferi delle città del Nord, Milano, Verona, Bologna. Lo stesso per gliagrumi, che maturano tardi in Puglia, quando sono finiti quelli siciliani.

Il Tavoliere pastorale, più tardi cerealicolo e latifondista, era la plaga più scarsa distrade in Italia, paludoso per vasti tratti, soggetto alle tragiche piene di torrente prividi regola. Le tre prime necessità erano costruire strade, eliminare le paludi, imbri-

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gliare i torrenti. Coi fondi della Cassa del Mezzogiorno le strade sono state adessoportate a mille chilometri circa, raggiungendo così l’indice medio italiano, e lasituazione appare nell’insieme soddisfacente. Di 30.000 ettari circa di acque noci-ve, oltre 20.000 sono stati già prosciugati, redimendo il terreno alla coltura. È spa-rito ad esempio il cosiddetto lago Contessa. Le restanti paludi, specie verso Manfre-donia, spariranno tra breve. Terreni acquitrinosi o sabbiosi intorno ai graziosi laghidi Lesina e di Varno, ai margini del Gargano sulla costa marina, sono stati pureredenti, per coltivarli a cotone e ad ortaggi. Questa bonifica non è esente da contro-versie. A Lesina, per esempio, 1500 ettari sono stati occupati dai contadini via viache uscivano dalla palude, onde il conflitto con i quattro o cinque proprietari degliacquitrini. Un esperimento, finora compiuto su 500-600 ettari, dovrà estendersi sutremila: e cioè ricoprire le terre sabbiose con terra fertile dal fondo dei laghi.Frangiventi di alberi si stanno qui piantando come in Sardegna. La bonifica, dallapianura, via via risale sulla collina. E per quanto riguarda specialmente la parteidraulica, con l’acquisizione di nuovi vasti terreni alla coltura, il 60 per 100 puòconsiderarsi compiuto. Meno rapida invece procede la trasformazione. Bisognacoltivare più vigneti ed ortaggi; dare impulso alla zootecnia, finora scarsa e nomade;far sorgere una rete di industrie derivate. Un radicale cambiamento delle condizioniambientali richiede inoltre l’irrigazione più diffusa. Dovranno provvedervi soprat-tutto le acque del Fortore e dell’Ofanto. L’invaso dell’Ofanto, già finanziato, irri-gherà 10.000 ettari circa intorno a Cerignola. Opera più cospicua sarà la costruzio-ne di una diga e la formazione di un lago artificiale, disciplinando le acque delFortore, torrente fino ad oggi infausto. Il Fortore corre, tra monti, ai confini, delleprovince di Benevento e Campobasso; in una bella e povera zona, priva di ferrovie,percorsa ancora dalle mandrie, rigata dai tratturi delle transumanze. Da lì le acquedovrebbero irrigare 60.000 ettari circa delle pianure sottostanti.

La bonifica è legata alla riforma agraria. Se pochi vi sono i coloni, il Tavolierepresenta forse la maggiore concentrazione di braccianti d’Italia. Una enorme massadi circa 70.000 braccianti, che ha Cerignola e San Severo come principali centri:soggetta alle vicende delle stagioni, ai capricci della siccità. La grande proprietà,dopo il frazionamento iniziato tra le due guerre, ha ricevuto un altro colpo dallariforma. L’estensione media delle proprietà classificate come grandi è passata da500 a 250 ettari. A differenza di altre parti d’Italia, non si è espropriato solo pascolo,ma anche vigneti ed oliveti, assumendo come criterio non la qualità del terreno, mail reddito del proprietario. Sei borgate rurali sono sorte, in aggiunta a quelle dell’an-teguerra. I braccianti, stipati in Cerignola, San Severo e in altri centri, formicai dilavoratori dei campi ma lontani da campi, secondo il costume del Sud, sono stati inparte assorbiti dalla piccola proprietà. Ma le quote assegnate ai braccianti risultano

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troppo piccole perché vi possano vivere da contadini senza un’attività complemen-tare; e soltanto le industrie potrebbero venire incontro al forte aumento demografico.Bonifica e trasformazione del Tavoliere delle Puglie sono una grandiosa impresa;tanto che non era possibile iniziare se non di qui il nostro giro della Puglia, per altrimotivi stupenda. Lucera, con la splendida fortezza svevo-angioina, Troia con la suacattedrale dalle porte di bronzo capricciosamente scolpite, che mescola il bizantinoall’arabo ed al toscano, ci introducono nel meraviglioso e composito stile romanicopugliese, a poca distanza da Foggia. Ma la grande bellezza turistica della provincia èil Gargano. Promontorio montuoso, intorno al quale la letteratura è scarsa in para-gone alle sue attrattive, e che perciò conserva qualche segreto, mi è apparso diversoda quello che le descrizioni altrui mi avevano prefigurato. Pensavo ad una monta-gna selvatica, scura, aspra, tendente all’orrido; mi sono trovato davanti ad una delleterre più greche d’Italia, nel senso del grazioso e del lieve. Con l’aiuto della stagione,vedevo un passaggio dolce, fiorito, quale si incontra nei poeti greci più lirici; coimandorli metà bianchi di fiori e metà verdi di foglie, i greppi ricoperti di ireosselvaggi di colore violetto, e i gruppi degli olivi contorti sopra la roccia. Anche ivillaggi, dalle case basse e intonacate a calcina, erano di una pulizia luminosa. Gliasini e i muli, le pecore, le capre nere attraversandoli spiccavano su quel bianco, eandavano ad abbeverarsi a fontane di marmo da poema cavalleresco, ricchezza dipaesi poveri e fino a ieri isolati dal mondo. Nel mezzo delle strade le donne lavoranoa maglia, e i banditori portano le notizie e le ordinanze del Comune. Un’aria classi-ca, civile, per antichità. Se l’orecchio non mi ha tradito, ho udito un contadinorivolgere a una donna un complimento mitologico: «O Giuno!». Ai margini dellegrandi concentrazioni bracciantili, è una terra di contadini, pastori e pescatori. Sipesca lungo tutta la costa, fino al golfo di Manfredonia, e nelle isole Tremiti al largo;in quei paesetti marinari, splendenti e scarni, che sono Peschici e Vieste. Leggera èanche la foresta cosiddetta umbra, non si sa bene se in memoria degli umbri, anti-chi abitatori di queste terre, o solamente perché è ombrosa; posta in alto sul monte,unico avanzo delle foreste che coprivano il promontorio. Vi predomina il faggio,albero chiaro, ma vi crescono l’agrifoglio e il tasso venefico; ed è popolata di uccelli,folta ma senza orrore.

Sul Gargano si accavallarono, lasciando ciascuna un deposito, genti diverse dipassaggio. La preistoria, la Grecia, Roma e il Medio Evo vi lasciarono i loro segni,non tutti ancora messi in luce. Nelle Tremiti, belle e poco note, secondo la leggendafu sepolto Diomede. Il santuario di Monte Sant’Angelo fu il più famoso nel medioEvo. Mitologia pagana, magia, devozione cristiana si confusero in modo pressochéinestricabile. Il Gargano poi cadde in un oblio quasi totale, da cui solo ora si solleva.Agricoltura e pastorizia vi danno poco reddito. Squisita la pesca, e ricca di pesce

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pregiato, oltre ad anguille e capitoni nei laghetti costieri; ma condotta ancor oggicon sistemi artigiani, senza trasporti organizzati, tanto che si è dovuto talvolta ri-buttare il pescato a mare. Questa situazione provoca forti malumori politici checontrastano stranamente con il grazioso arcaismo ambientale. Il turismo potrà alle-viarla quando il Gargano sarà conosciuto di più. Lo amarono soprattutto viaggiato-ri stranieri, più curiosi degli italiani delle bellezze rare e di una vita primitiva, in cuimitologie diverse sembrano continuare a vivere. Già costruita è un’ottima rete distrade; si progetta ora una serie di piccoli alberghi, come quello esistente nella Fore-sta Umbra. Vicini a Manfredonia sorgono in solitudine due squisite chiese romani-che, Santa Maria di Siponto e San Leonardo; presso la prima sono in corso scaviarcheologici sull’area dove sorse Siponto, altra città scomparsa. Che cos’era, checos’è il Gargano, lo si vede a Monte Sant’Angelo. Il suo castello fu sede di principie re. La basilica fu la più famosa meta medievale di pellegrinaggi, e l’itinerariogarganico fu forse l’unico in Italia paragonabile ai grandi itinerari di pellegrini cherigarono di fiumi umani il suolo francese e spagnolo. Fu il santuario nazionale deilongobardi: qui si inginocchiarono papi, san Francesco d’Assisi, san Tommasod’Aquino, santa Caterina da Siena, e i crociati in procinto di partire per la TerraSanta in omaggio all’Arcangelo guerriero. Da una basilica superiore si scende, peruna scala sotterranea monumentale, fino alla grotta dove, secondo la leggenda,apparve l’Arcangelo. Entra da un’apertura l’aria e l’odore del mare, mescolandosisotto le volte a quelli dei ceri, della muffa e dei devoti. Ancora oggi al santuariosalgono, nelle feste, quasi 500.000 pellegrini all’anno. Ma nei giorni normali ognisplendore è spento. La borgata sorge su greppi pietrosi dai quali si domina il marein lontananza; l’occhio per giungervi sorvola anfratti tra cui spunta qua e là unulivo, qualche ciuffo di grano che contende la vita ai sassi.

A Monte Sant’Angelo, dove mi fermo qualche ora, serpeggia nella piazza unacuriosa effervescenza. Gli animi sono travagliati dalle parole, misteriose come quelleliturgiche, che hanno udito ai comizi. È una povera popolazione, ed esce da uninverno duro, in cui la neve l’ha bloccata con minaccia di fame. Adesso attribuisconoagli agiati del borgo sterminate ricchezze, giganteschi egoismi, cupidigie leggendarie.I due o tre signorotti escono dai loro limiti modesti per entrare nella mitologia. Laparola che odo ripetere più spesso nell’atto di accusa è “azionisti”, possessori di azio-ni: è una parola liturgica, che si pronuncia con mistero, abbassando la voce. L’imma-ginazione cammina. Di un tal proprietario, sul cui nome s’insiste, domando checosa possegga. Siamo in cima al paese, di dove si scorge un vasto panorama di altureche scendono verso mare: «Tutto quello che vede è suo», dice l’uomo che mi staaccanto, nominatosi mio cicerone d’autorità, e con un gesto circolare abbraccia tuttoil panorama. Guardo più attentamente e vedo un’unica sassaia rotta da precipizi, tra

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cui spunta qua e là un ulivo, qualche ciuffo di grano trapelante fra i sassi: disgraziatonababbo! Col mondo padronale ho un incontro subito dopo. Una vecchia padrona,forse di novant’anni, seduta davanti alla casa, sorveglia due serve al lavoro. L’unastende la biancheria, l’altra setaccia la farina, la quale si ammucchia cadendo in unaspecie di ampia culla di legno. Commetto l’errore di chiedere qualche spiegazione alei, volgendo le spalle alla vecchia; chiedo se tutti facciano il pane in casa. Mi rispon-de che fanno in casa tutto il pane e in parte la pasta; in parte invece l’acquistano allabottega. La vecchia alle mie spalle, offesa che la serva parli al suo posto, agita i piedia nocche, coperti solo dalle calze, e starnazza. «La pasta che si compera nelle bottegheè per loro due che hanno i denti, ma per me è troppo dura. Io mangio quella fatta incasa.» Mi scopre le gengive nude e si rinchiude in un silenzio ingrugnato. Essere lapadrone e mancare dei denti sono due titoli d’onore che si confondo, e insieme ledanno il diritto a cibarsi più nobilmente. San Giovanni Rotondo, dove abita PadrePio, è poco lontano da qui: e Padre Pio è una specie di presenza occulta a cui tuttiricorrono per le loro necessità. La monaca che mi ferma per chiedere un posto inmacchina non fa che ringraziare Padre Pio durante il viaggio. Perduta la corriera, l’hainvocato dicendo: «Padre Pio, mandatemi una automobile». È ancora più sicura chesia stato lui a mandarmi quando le dico che mi appresto a fargli una visita. Padre Pioha detto: «Mandiamole quel signore che sta per venire da me».

Per arrivare a Padre Pio, bisogna passare attraverso questa efflorescenza magica,di cui la gente lo circonda fino a nasconderlo, non riuscendo a dividere il suoconcetto d’un santo da quello d’un mago. Da questo si è più disturbati che attratti.La lettura delle anime, le lotte con i demoni, l’ubiquità… Appena giunto a SanGiovanni Rotondo, ricevetti lo sfogo di un giovane settentrionale impiegato quag-giù. Si era presentato tre volte a Padre Pio per confessarsi, ed era stato rimandato trevolte senza assoluzione. Lo strano è che mi narrava queste ripulse in topo apologetico,come una prova di più della perspicacia del monaco francescano; quasi offrendo séstesso e la sua provvisoria dannazione per testimoniarne la gloria. Parlavamo nel-l’atrio di un albergo. «Qui» mi disse «una sera, mentre stavo con altri quattro, ilcommendator X, l’ingegner Y, ecc., scoppiò improvvisamente un profumo di violacosì forte, che ne rimasero storditi. Io solo non sentivo nulla». E mi guardava conun’aria avvilita, scuotendo il capo su sé stesso; anche quel castigo, quel segno, laprivazione del profumo, diventavano un motivo d’ammirazione, una testimonian-za della santità dell’uomo che sa giudicare e punire. «Ma Padre Pio» gli chiesi «eraqui nell’albergo?» «Oh no» rispose il giovane con il sorriso col quale si accolgono ledomande ingenue «stava in cella, a mezzo chilometro».

«E manda il profumo così lontano?» Nuovo sorrisetto. «Qui è niente; in Egitto,in Alaska…»

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Questa vicenda delle assoluzioni negate per straordinaria forza di penetrazionenelle anime fa parte della leggenda di Padre Pio. I motivi per cui Padre Pio puòrespingere sono, da quanto mi raccontano, i più semplici e più ortodossi. Il matri-monio volontariamente infecondo; non ricordare quante volte si è perduta la Mes-sa, dimostrano così di annettervi poca importanza.

In Egitto, in Alaska… Come se fosse scaturita da quell’atmosfera magica, scesoin paese vi trovai l’unica centenaria della mia vita. Era già nella farmacia dove entrai:un fantoccio di cenci fluidi, nei quali il corpo si perdeva senza disdegno. La pelle delvolto pendeva come i cenci nello stesso senso, così che vesti, corpo e volto indistintisembravano colare insieme. Aveva posato sul banco dieci lire e una bustina: il far-macista prendeva con un cucchiaio alcune pastiglie di gomma verde ed avvoltenello zucchero, e le metteva dentro alla bustina contandole. D’un tratto uscì daicenci non una voce, ma uno strido di topo: «Di più, di più. Non lo sapete che devomangiare per quattro giorni?».

«Quante ne volete mangiare?» ribatté il farmacista «quattro al giorno, per caso?Due, due, dovete prenderne». La vecchia farfugliava che aveva fame; ed ottenutealcune pastiglie di più, uscì stringendo la bustina.

«Ha visto» spiegò il farmacista. «Le ho detto due al giorno perché si limiti aprenderne quattro; se le dico quattro, è capace di mangiarne anche sei… Credobene, che non mangi altro; che cosa dovrebbe mangiare alla sua età? Ha cent’annipassati. Sono pastiglie di mentolo: se le mette sotto la lingua e continua a succhiareper la giornata intera. Lo zucchero la nutre, e il mentolo la tiene su. A cent’anni cen’è d’avanzo…»

Poi, tornato all’albergo, di nuovo miracoli, miracolati. Ecco un diplomaticoamericano, un ebreo convertito, tra la moglie ed i figli, nell’attesa agitata della mat-tina dopo. Secondo il suo racconto, un frate gli era apparso miracolosamente negliStati Uniti, venticinque anni fa, persuadendolo alla conversione, senza palesargli ilsuo nome. Solo recentemente lo riconobbe in una rivista illustrata, e si precipitò inItalia per ringraziarlo. Non conoscevo ancora il drappello delle devote, trasferitesiqui per stare sempre presso il Santo, ricavando da vivere dal commercio degli ogget-ti sacri. All’alba, prima della Messa, si stringono intorno alla porta della piccolachiesa perché nessuno entri prima di loro. Quando la porta s’apre, irrompono nellachiesa, occupando le prime due file davanti all’altare e le ali del breve passaggio cheuscendo dalla sagrestia Padre Pio è costretto a percorrere. Appena appare lo aggredi-scono, per toccarlo, mettersi in vista, competere nello zelo, facendolo vacillare, tal-volta pestandogli i piedi piagati dalle stimmate. Giacché Padre Pio ha le stimmate;le mani e i piedi traforati, e una piaga al costato; e i buchi delle mani coperti di unalieve crosta che sanguina.

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Più su di questo, vi è l’opera e la persona dell’unico uomo vivente che, almenonel nostro Paese, abbia fama di santità. Nei giorni in cui lo vidi si preparava l’inau-gurazione ufficiale dell’immenso ospedale (la Casa sollievo della sofferenza), fissataper il 5 maggio, perché il 5, mi dicono, è il numero di Padre Pio, e ha segnato glieventi principali della sua vita. La costruzione, lunga 188 metri, con una superficiedi 6000 metri quadrati, è sorta dove fino a pochi anni fa si vedeva soltanto unconventino sperduto tra i greppi sassosi, sopra una povera borgata di montanari delGargano. Adesso il conventino scompare di fronte all’ospedale, alle costruzionicivili, agli alberghi che salgono verso di esso sulla rampa; si assiste alla nascita d’unacittà intorno alla fama di un uomo. Un altro grande ospedale è in progetto. Confes-so che quello già sorto, mentre lo visitavo, ed ammiravo la modernità degli impian-ti, mi parve fin troppo pomposo e troppo carico di marmi. Ma l’impressione fucorretta quando entrai nel convento che genera questo sfarzo. È il convento piùpovero e sgangherato ch’io conosca. Le celle, intraviste dal corridoio, sono come lecamere dei contadini del Sud; i muri devono essere umidi, se si giudica dai vecchifrati, che camminano un po’ sbilenchi. Eppure Padre Pio riceve qua dentro, datutte le parti del mondo, molti milioni al giorno che fluiscono nell’ospedale, inlavori che costano miliardi, dai quali il conventino sarà sommerso come le vecchiecasupole anacronistiche nascoste tra i grattacieli delle città.

Padre Pio non si muove dal convento: non si occupa dei lavori che promuove, senon per sollecitarli, e li abbandona ai tecnici. Dire Messa è per lui l’avvenimentocapitale della giornata. Nelle altre ore, prega e confessa. Queste opere riprendono inlui, come in antico, un valore di funzione pubblica. Dorme poco, si nutre di qual-che erbaggio e di un bicchiere di birra. La Messa è alle cinque della mattina ad unaltare secondario della chiesetta. La folla comincia però ad assediare di notte laporta chiusa. Quella Messa che, benché normale, dura un’ora abbondante, è unevento drammatico, che porta Padre Pio di sbalzo molto più su della leggendadiffusasi intorno a lui. Mi limito a ricordarlo nell’emozione di quel dramma, la-sciando giudicare ad altri la sua fama di santo magico, su cui non saprei dire nulla.Padre Pio dice Messa in uno stato, certo autentico, di estasi e di rapimento: non unrapimento immobile; un rapimento travagliato, in cui si alternano sentimenti di-versi, con una specie di altalena tra l’ebbrezza e l’affanno. Le mani, che durante ilgiorno ricopre con mezzi guanti di lana, sono nude all’altare e mostrano la grandemacchia rossiccia delle stimmate. Si vede che gli dolgono; e specialmente soffre nelgenuflettersi, come lo richiede il rito, pesando sul piede sinistro. Allora si aggrappaall’altare; un’ombra di dolore fisico gli appare in faccia, come nel sonno dei malati,che soffrono del male ma ne sono incoscienti; e si mescola ad una sofferenza mag-giore. È chiaro che il frate rivive, anima e corpo, il sacrificio di Cristo; più che una

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Messa, il suo è un colloquio con Cristo, concitato a momenti, ed in altri disteso. Isentimenti discordanti, di gioia o d’angoscia, che palesa sul volto, sono suscitati inlui dalla vicenda a cui partecipa. Ho visto Padre Pio togliersi dalla manica un fazzo-letto, adoperarlo, e poi gettarlo sull’altare; la sua Messa è, nel tempo stesso, tragicae confidenziale. Qualche ora più tardi, ritrovai Padre Pio nel corridoio del conven-to, dove soltanto gli uomini sono ammessi. Non vidi niente in lui dell’indovino nédel mago. La cerchia intorno a lui comprendeva fedeli di ogni professione e ceto,dottori, ingegneri, industriali, operai, pastori della montagna. Erano tutti uniformatidal sorrisetto beato ed un po’ melenso col quale bevevano le sue parole, senza stac-cargli un istante gli occhi di dosso, e cercando, appena possibile, di afferrargli unamano per baciarla. In mezzo, Padre Pio scherzava, raccontava modesti aneddoti,proverbiosi, gli stessi che si ascoltano nelle case dei contadini, e hanno come oriz-zonte la vita e i costumi della campagna. Nessuna sottigliezza intellettuale. Credoche soffrisse ancora, almeno a giudicare dal passo, vacillante, guardingo, da personache cerca di pesare il meno possibile; ma quel nodo di sentimenti, alcuni dei qualiaffannosi, suscitati in lui dalla Messa, gli si era sciolto in gioia. Nell’occhio grande,sferico, tale che riempie le palpebre e dà loro una forma fortemente convessa, unocchio dove si direbbe che gli oggetti della visione s’ingrandiscano come traversan-do una lente, vi era un’espressione di gioia assoluta. Appena fuori del convento,ripiombai nell’informe aspirazione alla magia che alita in queste terre; quasiché unsentimento religioso vagante cerchi dove può il suo oggetto, pronto a farsi calamitare.Un crocchio di donnette si era raccolto intorno a una signora bionda, seduta inautomobile in mezzo al piazzale.

«Americana?»«No».«Capisci l’italiano?»«Certo, sono italiana».«Italiana è, capisce l’italiano!» cominciò a strillare una donna. «Quanto è bella!

Che pelle tiene!» Le toccava la guancia per il finestrino aperto, si baciava la puntadelle dita: «Santa martire! Santa martire!». Tutte le donne a turno toccavano quellaguancia, per baciarsi le dita, per farsi il segno della croce: «Santa martire! Santamartire!». L’aggredita si difendeva e strillava a sua volta. «Non sono Padre Pio! Nonsono Padre Pio!». Egli convoglia le credenze della nostra regione in cui la magia halasciato più profondi residui; qui polarizzate da un Santo, ed altrove da maghi e daguaritori profani. La Puglia è ricca di folclore interiore: il folclore esteriore, che sidispiega in pittoresche usanze arcaiche, è quasi estinto. Una viaggiatrice inglese, nel1889, trovò i villaggi del Gargano con gli uomini tutti in costume, e le donnecoperte d’oro come Madonne. Nulla si vede oggi di simile. Altra usanza era la

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cosiddetta ditt, rappresentazione teatrale all’aria aperta, simile ai maggi reggiani etoscani, diversa però nello spirito, non desunta cioè dai poemi cavallereschi. Trepersonaggi fissi vi intervenivano, Pulcinella, il demonio e San Michele. Anche que-sta usanza è scomparsa. Una difficoltà nel capire l’Italia è il contrasto tra la persistenzadi sedimenti arcaici nelle coscienze, e la veloce sparizione delle espressioni più visi-bili, l’irruzione di una modernità di superficie. La Capitanata, con Foggia, è unaPuglia sui generis, il cui aspetto oggi più preminente è la bonifica dei campi e latrasformazione delle colture. La vera Puglia comincia più a sud; e si può vederla,secondo gli umori, come una regione povera, o come un paradiso terrestre dell’agri-coltura, dove raggiungono il primato, rispetto alle altre regioni d’Italia, il vino e lavite, l’oliva e il mandorlo, il tabacco ed il fico, l’avena e la melacotogna.

[Tratto da Viaggio in Italia, GUIDO PIOVENE, Mondadori, Milano 1957]

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Pasquale Soccio (San Marco in Lamis 1907). Figlio di un fabbro ferraio e diuna casalinga, Pasquale Soccio va senza dubbio annoverato tra le personalitàculturali più autentiche della Puglia. E non solo, dato che il pensiero di Soccioha prepotentemente varcato i confini continentali grazie a L’autobiografia,poesia e scienza nuova di Gian Battista Vico, saggio di straordinaria luciditàpubblicato nella collana Grandi Libri Garzanti (Milano 1983). L’opera piùnota di Soccio è stata infatti tradotta in numerose lingue e adottata dallaprestigiosa Stanford University (California). Oltre ad ospitare alcuni brani trattida Omaggio a Foggia (Adda 1974), questa antologia si fregia dell’onore diriservare a Soccio un posto da protagonista nello splendido racconto Garganosessantuno di cui è autore il poeta Roberto Roversi (vedi capitolo dedicato alGargano).

Io dormo sul tuo cuore antico, o Foggia, e sogno oro di grano, oro di lana.Dove una volta confluivano i tratturi e si apriva il gibboso piano delle fosse,

arche ricolme del frutto più cospicuo della tua terra, e dove ora invece il cementotutto ha sepolto, io sono giunto, con la mia dimora, come a una estrema riva; eguardo estatico il tuo volto di oggi e di sempre.

Con onde di messi, onde di greggi, in luce bionda si desta la tavola che ti contie-ne. In una cornice azzurra, che va da monte a monte, percorsa ad oriente dallafuggitiva letizia delle onde adriatiche, immenso appare il tuo volto sulla piana im-mensa. ‘Hai per sede lo spazio, il deserto hai per matrice’. Al centro, onnivisibilefaro d’orientamento, la verticale di un’opera di fede: sull’anonima nebbia delle case,prone e povere, vigile sale e ardita la cattedrale. Il campanile è l’asta puntata di uncompasso ideale che con felice giro geometrico di vasto respiro circoscrive uno deglispazi più armoniosi nella divisione delle province italiane. È un dito protesoimperiosamente verso l’invisibile, verso orizzonti senza confini, verso l’infinito.

Di giorno, quando i venti, non più domati dai monti intorno, dilagano

Omaggio a Foggia

Pasquale Soccio

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Verso Sud102 D. Grittani

tripudiando nella piana a gara con bufali e cavalli superstiti, sta come saldo penno-ne fra tempeste di venti e di eventi.

Di notte, quando si spalancano cieli favolosi di stelle e il Tavoliere a specchio,con la razionale disposizione delle sue città, imita e riflette la quiete stellare, essoaddita una luce che trascende quelle visibili.

Allora i treni, che, come i venti, con infrenato slancio hanno caracollato lungo legiogaie appenniniche, sfrecciano in pianura e intonano il canto fermo della veloci-tà; e come fulgide meteore sono calamitate dal tuo lago luminoso.

Fragile voglia al vento e della sorte, dopo incerto peregrinare con la mia dimora(non so se ultima), sono stato collocato dal destino nel punto dove tu, nascendo,avesti culla e giovine vita: qui il tuo spazio originario estua nel tempo, e cioè dovesorgiva e foce danno già vigoroso corso al fiume della tua storia, divenendo cononde impetuose città di frontiera, fatale crocevia della storia umana.

Sento ora in me l’invito filiale ad ardere di consapevolezza nell’ascoltare e sentirela tua voce, nel riconoscere l’espressione del tuo volto.

Oggi sono come ago di bussola che vibra magnetizzato dal tuo sguardo e oscillatra i due poli del Vulture e del Gargano, visibili insieme da qui in giorni di chiarìa eche cingono di sereno la bionda pagina del Tavoliere.

Da una pianta amica scende per un filo di ragno una goccia d’acqua di mattuti-na rugiada e rimane sospesa nel vuoto.

Riflette l’arco del tuo centro antico e si immilla di luci. È una goccia di sole, chesi illumina d’immenso. La sua vita fugace dipende da un breve moto d’aria, da unlieve brivido del vento. (Così la mia vita: un pensiero sospeso nella coscienza, pron-to a vanire nell’infinita serenità). Ma in questo preciso istante, in questa goccia diumore s’incentra, s’addensa e riflette l’intero universo dauno dal Gargano all’Ap-pennino. Lo slancio d’orizzonte che offre questa mia dimora, incombente sulleumili case dell’antico centro, accende una esaltazione inebriante. Oggi, dunque,sono io una luminosa stilla di gioia: la trasparenza effimera della coscienza; labilepunto di luce reale e mentale. Uno scatto della memoria provoca una consaputafata Morgana, e fantastica e delira con ombre e oggetti, eventi ed esistenze.

Sia pure caduco al primo vento della sorte, sento di essere quella convergenza diluci, che si esalta a questi vertici singolari di spazio e di tempo.

E mi tormento d’essere opaca, irrequieta materia; aver dentro grovigli di pensie-ri, sensi al dolore; creatura esposta al capriccio del caso: non poter essere fermospecchio del tuo cielo, il riso del tuo mattino. (...)

[Tratto da Omaggio a Foggia, PASQUALE SOCCIO, Adda, Bari 1974]

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Artista impegnato nella ricerca delle più antiche sonorità, uomo profondamen-te innamorato della Capitanata, Eugenio Bennato ha trovato nei “Cantori diCarpino” i suoi ideali compagni di un viaggio a ritroso nel tempo, sulle traccedelle autentiche radici popolari garganiche. Quello che segue è il testo dellacanzone Foggia, dedicata dal cantautore alla città capoluogo della Daunia.Nella canzone si noterà un chiaro riferimento a Renzo Arbore, al quale Benna-to si rivolge con la frase «tu che viene ’a Foggia e vuò fa o napulitano, tu nun tisi accorto e’ niente... »

Foggia è chella musicache nasce int’ o paesee che more dint’e caseaddò se ferma o vientoc’attraversa la campagnatutta spine e tutta roseaddò se ferma o tiempoe addeventa tarantellaaddò nu santo dorme sott’e stelle

Foggia è chella musicaca dura na jurnatae chi ’a sente è furtunato(Foggia è chello ca è passatoe c’ancora adda venire)

E tu pozza girarecomme gira lu sole lu sole

Foggia

Eugenio Bennato

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Verso Sud104 D. Grittani

e tu pozza sentire sentireo profumo ’e na rosa d’amoreE’ na musica meridionaleca nun siente a la televisioneè na rosa ca fa’ annammurareè a chitarra e’ Matteo Salvatore

Tu che viene ’a Foggiae vuò fa o napulitanotu nun ti si accorto e’ nientee Napule se sapefa a furtuna ’e chi s’a vennee Foggia è sulamenteterra antica e terra amarade rose e de canzoni mai sentute

Tu che viene ’a Foggiae vuò fa o napulitanoforse nun l’e cunusciute(Foggia è chello che è passatoe ca ancora adda venire).

[Tratto dall’album Angeli del Sud, EUGENIO BENNATO, 1995]

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PARTE IV

San Severo

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Umberto Fraccacreta (San Severo 1892 - 1947). Apprezzato poeta, fine tra-duttore dal francese, Umberto Fraccacreta dedicò non molte liriche alla suaterra natale. Tra queste segnaliamo gli emozionanti versi di Pianura, che ripor-tiamo in questa antologia.

In questi versi v’è la trasparenzache abbaglia l’infinita mia pianura,la quale niuna forza mai misurase cuor non l’accompagna in sofferenza.

Lieve ombra che non cangia la parvenzavi disegna la grama alberatura,mentre già ebre dalla gran caldurale cicale rinforzan la cadenza.

Travaglio e sete il giorno, ma la nottevariegata di lucciole e di stelleè l’oasi che affranca dalle lotte.E il pino solitario è l’incensiereche anela le boscaglie delle bellependici, a cui s’inchina il Tavoliere.

Pianura

Umberto Fraccacreta

[Poesia tratta da Elevazione, UMBERTO FRACCACRETA, Cappelli, Bologna 1931]

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Antonio Casiglio (San Severo 1921 - Foggia 1995). Tra i più rispettati scrittoridegli anni Settanta, Nino Casiglio ha firmato con Il conservatore (Vallecchi1972), Acqua e sale (Rusconi 1977, Premio Napoli nello stesso anno), Lastrada Francesca (Rusconi 1980) e La dama forestiera (Rusconi 1983) alcunetra le opere più brillanti dell’ultimo ventennio della narrativa italiana. Al pun-to che, un aneddoto piuttosto ricorrente, racconta di una cena consumatasi aBologna nella metà degli anni Ottanta durante cui, interrogato sul più origi-nale dei narratori italiani, Umberto Eco senza esitazioni avrebbe fatto il nomedel sanseverese Casiglio.Tuttavia lo scrittore tendeva a non dimenticare mai le proprie origini di studio-so e ricercatore, tant’è che si riteneva molto soddisfatto più che dei propri ro-manzi di una relazione-saggio che tenne in occasione di un convegno sullastoria di San Severo. In questa sede pubblichiamo integralmente l’interventoche personalmente Nino Casiglio consegnò al curatore di questa antologia, conla significativa dedica «questa pietra in saccoccia, per quando tirerà un po’ divento».

Nel suo recente, attentissimo studio su San Severo nel Medioevo Pasquale Corsiha messo giustamente in evidenza la difficoltà di definire adeguatamente il confinedel territorio di Terra Maggiore sul versante di Civitate. Il monastero possedevabeni in molti luoghi; ma la documentazione confinaria sul suo tenimento si riduceai nn. 11 (a. 1152) e 21 (a. 1192) del Leccisotti. È vero altresì che una miglioreconoscenza dei territori di Dragonara, Plantiliano, Fiorentino, Casale Novum, Bantiao Vanzo e San Giovanni in Piano ci consente oggi di escludere con maggiore ominore sicurezza alcune terre dall’ambito di Terra Maggiore e di trarre quindi alcu-ne conferme negative. Indipendentemente da siffatto genere di conferme e dai datiricavabili attraverso l’analisi dei toponimi presenti nella documentazione spicciola,

I confini territoriali del“Monasterium Terrae Maioris”

Antonio Casiglio

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Verso Sud110 D. Grittani

è opportuno riesaminare i due documenti fondamentali, dai quali mi sembra pos-sibile trarre conclusioni in parte diverse da quelle già note.

Ad evitare fastidiosi riscontri, è bene riportare qui almeno il dispositivo essen-ziale delle due confinazioni conservatesi.

N. 11: … omnes terras universaque tenimenta, que sunt a vallone de Radicosa aloco ubi via Lucerina iungitur cum ipso vallone de Radicosa et sallendo per ipsamRadicosam ubi sunt ilices et sallit usque ad serram quae Ferratam se clamat, et descenditin rivum de Camerato, et dimisso rivo transit et vadit per limites collis Sancti Martiniet per quandam cupam, quae est proxima ecclesie Sancti Nycolay de Viridamento, adflumen Viridamenti in loco ubi monticellus stat super ripam ipsius fluminis subteripsam ecclesiam Sancti Nycolay; quae terrae et tenimenta sunt in proprium et designatumterritorium ipsius monasterii, ita ut quecumque terre vel tenimenta sunt infra predictosfines et terminos usque ad alia confinia dicti territorii Terre maioris, monasterium ipsumfirmiter habeat et proprietario iure in perpetuum possideat.

N. 21: De prima parte incipit a Radicosa et salit per illum vallonem unde stantillices et descendit usque ad serram et deinde vadit usque ad rivum Ferrandi. De secundaparte vadit per rivum Ferrandi usque ad finem eiusdem rivi Ferrandi. De tertia parteincipit a fine predicti rivi et vadit in cyrcuitu usque ad viam Lucerinam et sicut vaditvia Lucerina et vadit usque Radicosa. De quarta parte incipit a via Lucerina ubi iungiturcum Radicosa et sallit a Radicosa ad vallonem ubi stant supradicte illices et vadit adprimum finem.

Si sa che la seconda confinazione è in realtà la più antica, in quanto la conferma diTancredi riporta un privilegio di Roberto il Guiscardo risalente al 1067, che a suavolta conferma un precetto del catapano Boiano. Ma una seconda e importantedifferenza tra il n. 11 e il n. 21 sta nel fatto che, mentre il n. 21 intende dare unacompleta anche se sommaria confinazione dell’intero tenimento, col n. 11 invece siintende restituire a Terra Maggiore una quota parte del tenimento, che era statausurpata. Il conte Roberto, richiesto più volte (nella sua sede di Civitate) di assicurarela restituzione delle terre usurpate che si trovano ex illa parte Radicose et ex illa partevici (intendo rivi come nella confinazione che segue) de Camerato, vale a dire, perl’osservatore posto a Civitate, rispettivamente sulla destra del Radicosa e sulla sinistradel canale del Frassino, che convoglia nello Staina le acque della contrada Cammerata,si porta nel monastero e riconosce gli antichi confini, in modo che Terra Maggioreeserciti pacificamente il suo diritto di proprietà infra predictos fines et terminos usquead alia confinia dicti territorii Terre maioris. L’esigenza comporta quindi una confinazionepiù particolareggiata. Questa diversità, per così dire, di scala non va trascurata.

Inoltre occorre correggere due errori del Leccisotti. Egli ha ritenuto, sulle ormedel Barone, che il Viridamentum fosse il Fortore; ma sappiamo ora che è invece lo

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I confini territoriali del “Monasterium Terrae Maioris”A. Casiglio 111

Staina: il Martin ha opportunamente citato l’uso del toponimo “Guardamento”nella relativa carta tratturale della reintegra Capecelatro. È possibile aggiungere cheil toponimo si ritrova nella carta Michele della locazione di Guardiola, per denomi-nare due contrade contigue (Dragonara 421 e Cantigliano 424) nel corredo de-scrittivo dell’atlante Della Croce e ancora in alcune carte dell’Ottocento (Archiviodi Stato di Foggia, Atti privati reg., F. 336, marzo 1843; Piante top., Atlante 17, n.36). D’altronde il cartolario di Sculgola offre una conferma negativa di questo datodi per sé certo, distinguendo inequivocabilmente in numerosissimi luoghi il Fortoredal Viridamentum. Inoltre l’analisi topografica del cartolario, che ho in corso dipubblicazione, consente di constatare che il territorio di Dragonara si spingeva sulladestra dello Staina con Santa Maria in Aulicina, confinando col territorio diPlantiliano e probabilmente, a S. di Mezzana delle Ferole, con Terra Maggiore.

In secondo luogo, il Leccisotti parla di “confine settentrionale” del tenimento.L’espressione è impropria, data la dislocazione di esso, di cui il n. 21 mostra di tenerconto, facendo perno su due punti sicuri, il Radicosa e il Ferrante e descrivendonella prima parte l’intero angolo nord-occidentale e nella quarta il tratto esclusiva-mente settentrionale, mentre il n. 11 unifica i due tratti e analizza particolareggiata-mente il primo dei due, che è oggetto della contestazione. Ma soprattutto il Leccisottiha ritenuto che il confine dal Radicosa si spingesse verso Civitate. A parte l’incongruità(a Civitate sarebbe rimasto ben poco), il confronto tra il n. 21 e il n. 11 e la letturadella confinazione del n. 11 sui fogli 155, II SO, e 155, III SE dell’I.G.M. portanoa conclusioni diverse. La confinazione del n. 11 è in senso antiorario, prima da Everso O, poi, seguendo la conformazione del tenimento, da NO verso SE.

Si parte dall’incrocio di una Via Lucerina col Radicosa. Questo punto, ancorchénon accertabile con assoluta sicurezza, è presente anche nel n. 21 e costituisce lachiave della confinazione. Va quindi esaminato con particolare attenzione. A suotempo il Fuiano ha ritenuto che si tratti di una via da Lesina a Lucera per SanSevero. Di qui una conferma della posizione equivoca di San Severo e del suoterritorio, solo in parte ricadente nel tenimento del monastero di San Pietro. Setuttavia la strada del n. 21 è la stessa del n. 11, non sembra che possa trattarsi dellaLesina-San Severo-Lucera, indipendentemente dalla validità in sé stessa dell’affer-mata importanza della così detta “via del pesce”. Proviamo infatti a rileggere laconfinazione del n. 21 tenendo sotto gli occhi i fogli 155 (San Severo) e 163 (Luce-ra) allegati alla nota opera dell’Alvisi. In base al n. 21 il confine (secondo tratto)segue il Ferrante fino alla sua confluenza nel Triolo. Nel terzo tratto il confine,risalendo verso N attraverso E, parte da questa confluenza formando un arco (vaditin cyrcuitu) fino ad una Via Lucerina, che segue per un certo tratto fino al Radicosa.È difficile pensare che essa coincida con l’itinerario Lucera-Motta del Lupo-Ser-

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Verso Sud112 D. Grittani

pente (ad E di San Severo), giacché in tal caso includerebbe contrade come quelladi Bantia o Vanzo, che sappiamo aver avuto vicenda feudale del tutto indipenden-te. Ma neppure l’itinerario Lucera-San Severo-Lesina può essere accettato facil-mente. In questo caso, infatti, la Via Lucerina avrebbe raggiunto il Radicosa parec-chio ad E di Torre della Gramigna, che sappiamo essere appartenuta a San Giovan-ni in Piano prima di una permuta che intorno al 1375 consentì ai Celestini dimettere radici in San Severo e portò Torre della Gramigna, almeno in parte (54versure) e per vie finora sconosciute, tra i beni del monastero femminile sanseveresedi San Lorenzo. Indipendentemente dalla natura giuridica dei possessi, non è facileaccettare l’idea di una enclave di San Giovanni in Piano nel territorio dotale di SanPietro. E se la Via Lucerina doveva raggiungere il Radicosa ad O di Torre dellaGramigna, occorre pensare ad una delle numerose vie che collegavano e colleganoLucera con la zona di Civitate, tagliando il Radicosa a N di Torremaggiore o a NOdi San Severo.

È difficile dire quale di esse fosse all’epoca maggiormente battuta e quindi me-glio rispondente alla comprensibilità della confinazione quando i documenti furo-no redatti. Questo discorso non modifica quanto finora si è concordemente pensa-to, che cioè l’arco confinario dal Triolo risalisse verso N (probabilmente senza inclu-dere la contrada Motta del Lupo) fino alla contrada Vignali e, passando tra i tenimentidi Casale Novum (ad E) e Sant’Andrea (ad O), piegasse verso San Severo.

Un problema particolare, che finora era sfuggito all’attenzione degli studiosi eche in questa sede non sono in grado di chiarire interamente, riguarda il territoriodi Casalorda, a SE di Santa Giusta e a SO di Sant’Andrea. Esso, in base allaconfinazione del n. 21, rientra nel territorio di Terra Maggiore, in quanto postosulla sinistra del Ferrante. E in epoca moderna, nell’ambito del feudo dei principi diSangro, rientra nel tenimento di Sant’Andrea. Ma non è nominato nelle confermepontificie dei beni di Terra Maggiore e risulta feudo autonomo non solo nelle nu-merose menzioni dei Registri Angioini (cfr. i voll. 4°, 21°, 22°, 23°, 26°, 35°, advocem), ma anche, che è assai più, nel Catalogus Baronum (C 321). Occorre pensareche circostanze a noi ignote abbiano portato alla sua separazione successivamente alprivilegio di Roberto il Guiscardo (1067) e anteriormente alla redazione ordinariadel Catalogus, senza che Terra Maggiore abbia avuto interesse a darne atto, secondola tendenza a mantenere aperte e impregiudicate le questioni del genere.

Con questa premessa, tentiamo ora la lettura della confinazione del n. 11. Dal-l’incrocio della via Lucerina il confine procede lungo il Radicosa verso O fino ad unvallone caratterizzato dalla presenza di lecci. In verità le querce erano diffuse ovun-que, fino a tempi recentissimi, lungo i valloni torrentizi che nel Tavoliere settentrio-nale confluiscono tutti nel Candelaro. Nel caso particolare bisogna pensare ad uno

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I confini territoriali del “Monasterium Terrae Maioris”A. Casiglio 113

dei due valloncelli che danno vita al Radicosa, a quello per esempio che ora fa daconfine tra i comuni di Torremaggiore e San Paolo. Di qui il confine sale alla serraFerrata e discende al rivo de Camerato. Non voglio dire che l’attuale toponimoFerrauto abbia a che fare con Ferrata; ma il confine attuale sfiora la coppa de Totra,che ben può essere quella che una volta era definita serra: un’altura accidentata, unpiccolo massiccio che pendenze, vegetazione ed acque dovevano rendere disagevo-le. Di qui il confine scende ad un rivo che sembra non poter essere se non il canaledel Frassino, che congloba appunto le acque provenienti dalla contrada Cammerata.Passato il canale, il confine segue il piede di un colle che sembra essere quello imme-diatamente ad E della contrada Mezzana delle Ferole. Di qui il confine raggiunge loStaina (I.G.M., F. 155, III SE) per cupam, passando cioè per una gola, un avvalla-mento, là dove un monticello (quote 77 e 74) sovrasta la riva (quota 48), dalle partie un po’ più in basso della chiesa di San Nicola de Viridamento, che dovremo porrepoco più a S, sull’altura tra le masserie Pesacane e Creta Bianca. Rare volte accade diritrovare, come in questo caso, tanta concordanza tra i dati documentari e i segniattuali.

Occorre precisare che la chiesa di San Nicola de Viridamento nelle conferme diAlessandro III (a. 1168) e di Onorio III (a. 1216) è indicata come pertinente aDragonara. Quest’angolo nord-occidentale del tenimento di Terra Maggiore sareb-be dunque confinante col territorio di Dragonara. Ma bisogna anche tener presen-te a) che la chiesa di San Nicola de Viridamento non è mai citata nel cartolario diSculgola; b) che la secca citazione di un colle Sancti Nicolai in Martin, n. 70 (p.126), non autorizza l’identificazione; c) che una chiesa intitolata a San Nicola esi-steva nell’abitato di Dragonara e che ad essa sembrano riferirsi le svariate citazionidi terre “di San Nicola” in diverse contrade del territorio di Dragonara (Navaratorio,Oguale, San Biagio, Querceto), che comunque non hanno a che fare con la zona dicui qui ci occupiamo; d) che infine solo un rapido accenno in Martin, n. 11 (p. 22),ad un fons Salzule contiguo a terre Sancti Nicolai consentirebbe un ipotetico riferi-mento a San Nicola de Viridamento, in base alla sussistenza del toponimo “Salsoletta”a N della contrada Voiragni ed a NE del passo e ponte del Porco. Pertanto il proble-ma del confine tra Terra Maggiore e Dragonara non si può ancora considerarerisolto.

Riepilogo qui brevemente le conclusioni:1) Mentre il n. 21 del Leccisotti dà una confinazione generale del territorio, il n.

11, con cui si intende restituire terre usurpate nell’angolo nord-occidentale, contie-ne dati parziali ma più particolareggiati. Esiste dunque tra i due documenti unadifferenza di scala.

2) Occorre correggere due errori del Leccisotti. Egli riteneva che il Viridamentum

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Verso Sud114 D. Grittani

fosse il Fortore; sappiamo invece che è lo Staina. Inoltre egli parla inesattamente diun tratto “settentrionale” del territorio, descritto più genericamente dal n. 21 e piùparticolareggiatamente dal n. 11. In realtà il n. 21 descrive nel primo tratto l’angolonordoccidentale e solo nel quarto tratto la parte confinaria esclusivamente setten-trionale, mentre il n. 11 si occupa specificatamente dell’angolo nordoccidentale.

3) Entrambe le confinazioni nominano una via Lucerina. Si è pensato, dal Fuiano,che si tratti di una via da Lucera a Lesina. Ma essa non può essere né quella chesaliva da Lucera per Motta del Lupo e Serpente, perché in tal caso avrebbe inclusouna parte del territorio di Vanzo o Bantia, di cui conosciamo la vicenda feudaleestranea a Terra Maggiore, né la Lucera-San Severo-Lesina, perché passa ad E diTorre della Gramigna, che sappiamo essere appartenuta a San Giovanni in Pianoanteriormente ad uno scambio avvenuto nella seconda metà del XIV secolo. Te-nendo conto anche della prospettiva in cui i documenti sono stati redatti, occorrepensare ad una delle parecchie strade che da Civitate scendevano e scendono versoLucera, oltrepassando il Radicosa a N di Torremaggiore o a NO di San Severo.

4) Sui fogli 155, II SO e III SE dell’I.G.M è possibile riconoscere con insolitachiarezza il tratto confinario descritto dal n. 11: partendo da E verso O, da uno deivalloncelli da cui nasce il Radicosa all’attuale coppa de Totra, poi al canale delFrassino che raccoglie le acque della contrada Cammerata, poi lungo il piede di uncolle (ad E della contrada Mezzana delle Ferole), poi allo Staina, passando per cupam(un avvallamento in ombra nettamente riconoscibile nella fotografia aerea), là doveun monticello (quote 77 e 74) sovrasta la riva (quota 48).

A questo punto desidero aggiungere alcune considerazioni, problematiche enon conclusive, sul rapporto tra Terra Maggiore e l’insediamento di San Severo,riferendomi ai termini della questione, quali sono stati riesaminati da PasqualeCorsi, con la completezza che gli è solita, nel recente studio sopra citato.

Metterei il problema in questi termini: ammesso che lo sviluppo dell’insedia-mento nel corso del XII secolo resta indissolubilmente legato ad iniziative del mo-nastero di Terra Maggiore, la nascita dell’insediamento è conseguenza di un’inizia-tiva istituzionale del monastero o, viceversa, l’iniziativa è essa stessa una conseguen-za di insediamenti di altra origine, che il monastero ha orientato e guidato? Spiegareil celebre documento del 1141 (in nostra… curia apud Sanctum Severum; actum inCastello Sancti Severini) come l’espressione di una fase di indistinzione tra i duetoponimi mi sembra un’ipotesi non meno delle altre bisognosa di dimostrazione.Lo stesso Corsi e il Fuiano hanno messo in giusta luce il documento tremitense del1059 contenente la donazione di due chiese, di San Severino e di Santa Lucia, daparte dei due Bocco, padre e figlio, abitanti di Civitate, mediante atto rogato a SanGiovanni in Piano. Nel mio breve studio sul casale Sancte Lucie apparso nel 1984,

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I confini territoriali del “Monasterium Terrae Maioris”A. Casiglio 115

ho mostrato come il magnum tenimentum sia da porsi per necessità nell’immediataperiferia orientale di San Severo, tra le porte di Foggia e di San Nicola. Il documen-to tremitense avrebbe così un duplice riferimento alla situazione insediativasanseverese. Aggiungo che solo da qualche anno si comincia da noi a dedicareconcreta attenzione al fenomeno delle chiese private, al così detto Eigenkirchenrecht,di cui trovo per ora che si sono interessati il Martin e il Vitolo. E nell’XI secolo ilfenomeno doveva essere rilevante, così come stretto doveva essere il nesso tra vitareligiosa e vita economica là dove l’estensione di un tenimento richiedeva la presen-za in loco della mano d’opera.

Un altro punto da tener presente è la velocità del mutamento sociale. Il ritmodegli eventi non è costante e tra l’inizio dell’XI secolo e l’inizio del XII il passaggiodai Bizantini al Ducato Normanno e poi al Regno comportò mutamenti accelerati,così come nel corso del XII secolo la messa a cultura di terre in presenza di unascarsa densità di popolazione fu un fenomeno inusuale e destinato ben presto adesaurirsi. La disputa fra i cleri di San Nicola e di Santa Maria per il possesso delvicino tenimento di Santa Lucia sembrerebbe adattarsi meglio all’idea di muta-menti piuttosto rapidi nei rapporti di proprietà che non all’altra, della veloce cresci-ta quantitativa di un casale inizialmente molto piccolo. E ancora: se il monastero diSan Pietro diede prova di capacità promozionale, la diede solo a San Severo e nonnella più vicina Torremaggiore, che ebbe una formazione assai più lenta e tortuosa.Ed è strano che si sia preoccupato solo di questa sorta di fiore all’occhiello. Perquesto lo schema, da cui del resto anche Corsi è ben lontano, del Castrum nato ecresciuto come una zucca mi riesce poco persuasivo.

Né l’incastellamento va inteso necessariamente come costruzione di un luogoforte; può essere anche l’istituzione di un sistema di norme attive e passive in unambito spaziale definito, il che non mancherebbe nel caso di San Severo. Nondunque un nucleo precocemente arricchitosi di sobborghi; bensì l’istituzione di unluogo preferenziale che con la sua regolamentazione contribuisce a cementare uninsediamento più rado e casuale.

Se qualcosa di simile è accaduto a San Severo tra l’XI e il XII secolo, sarebbeagevole spiegare la posizione relativamente debole del monastero ai tempi di Federi-co II, che disponeva certamente della forza, ma era in grado anche di utilizzare stru-menti giuridici sofisticati là dove le circostanze lo consentissero. E perfino il tardivostatuto aragonese basato sulle tre parrocchie di Santa Maria, San Nicola e San Gio-vanni potrebbe far pensare non solo, come fa il Corsi, ad una temporanea rarefazionedi anime, ma anche a perplessità nella posizione giuridica di quella che restava laprimitiva struttura organizzativa della baronia monastica, ormai ridotta in commenda.

Aggiungo che anche la pianta della parrocchia di San Severino – ferma restando

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la scarsa leggibilità complessiva del centro storico per l’inserimento di ampie dimo-re signorili in epoca relativamente tarda e posteriore al terremoto del 1627 – pre-senta in via Lucchino (quale continuazione di via Imbriani) e in vico Granata segniinterpretabili come tracce di una primitiva recinzione che escludeva le altre treparrocchie. Risulta evidente in ogni caso che sul confine orientale il tenimento diSan Pietro era lontano dal coincidere non solo con l’attuale territorio comunale diSan Severo, ma anche col suo demanio, quale risultava nel 1577, all’atto del secon-do definitivo infeudamento ai principi di Sangro, e con zone come quella di SantaLucia, su cui non pare che San Pietro potesse vantare un diretto dominio.

Posta sul confine del tenimento di San Pietro, la città sembra aver mantenuto alungo storicamente i segni di un’origine anomala.

[Estratto dagli Atti del 12° Convegno Nazionale sulla Preistoria, Protostoria, Storia della Daunia, ANTONIO

CASIGLIO, San Severo 14-16 dicembre 1990; Atti, Tomo I, Tipografia Dotoli, San Severo 1991]

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Andrea Pazienza (San Benedetto del Tronto 1956 - Bologna 1988). L’ecletticoe geniale disegnatore che ha rivoluzionato il fumetto italiano ha vissuto moltianni della sua vita a San Severo, città a cui era legato da un conflittuale rap-porto di amore e odio e dove, tutt’ora, riposano le sue spoglie.

Esiste una ferocia razziale inaudita nei confronti dei meridionali; il meridionaleè accettato solo in due casi: o quando è perfettamente integrato e risponde nel gestoe nel comportamento a una serie di proposizioni non meridionali che non gli ap-partengono; oppure quando ha un enorme carisma e riesce a imporre con fatica econ intelligenza e comunque in modo improbo (perché dovrebbe?) la propriameridionalità, sia che si tratti di autori sia che si tratti di semplici macchine targatecon sigle meridionali.

La mia meridionalità è una meridionalità alla Mohammed Alí, in termini didifesa da quello che è uno sfruttamento da una serie di cose che io condannoenormemente.

San Severo è una città orrida da un punto di vista di situazione politico-gestionale-amministrativa. Il potere ha questa gamma: ci sono dei ricchissimi, c’è il Countryclub, lo Sporting club, il Lions club, il Rotary club, c’è gente che gira con dellemacchine incredibili e si va a comprare le scarpe a Bologna, c’è tutto un mondo dimedici che si sono arricchiti restando nell’ombra senza aver mai scritto su unarivista medica; che hanno partecipato solo a congressi tennistici, perché si giocava-no tutte le loro carte a livello tribù di medici. Vedi il torneo nazionale mediciospedalieri di Chiavari... Poi ci sono avvocati soprattutto notai che hanno guada-gnato sulla povera gente, sul reddito della popolazione, tantissimi, poi c’è un saccodi droga accompagnata alla noia più totale e c’è un centro autogestito per tossico-mani... Poi c’è una campagna meravigliosa, della gente bellissima: la gente chelavora nelle campagne. Io di San Severo ho dei ricordi che son fatti di sberleffi,

San Severo

Andrea Pazienza

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litigavo con dei monelli tremendi e mio fratello, che si chiama Michele dettoMacaluso, che si buttava come un tornado nella mischia, lui aveva dodici anni, ioquindici, e seminava il panico fra i miei assalitori. Poi ho passato un periodo tra isedici e i diciotto anni a rissare stupidamente, prendendole e dandole, specialmented’estate.

A San Severo, si era venuto a creare per caso un piccolo nucleo di artisti, ognunocon una propria fede e una propria direzione. A questo proposito devo fare duenomi: Marcello D’Angelo che si è saputo conquistare il nostro affetto e la nostraamicizia con grande amore e poi Enrico Fraccacreta che da ragazzo aveva un umo-rismo dal quale tutti noi abbiamo attinto, non so, però, che fine abbia fatto la suacreatività.

Erano estati bellissime, lunghissime, passate con la fila degli ombrellini, l’altale-na sul mare, piogge di romani e milanesi in fila con i juke-box.

[Tratto da Paz, ANDREA PAZIENZA, scritti, disegni, fumetti a cura di Vincenzo Mollica, Einaudi StileLibero, Torino 1997]

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PARTE V

Lucera

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Ferdinand Gregorovius (1821 - 1891). Storico tedesco, viaggiatore coltissimo,dotato di un invidiabile senso estetico, Gregorovius ha scritto sulla Capitanatapagine dalla cui fedeltà storica e pertinenza non si può prescindere. Le suedescrizioni rappresentano tutt’oggi un punto fermo per chiunque intende av-venturarsi in una qualsiasi ricerca letteraria che riguardi la Daunia. Il testoqui riportato fa parte di un ampio saggio intitolato Nelle Puglie (EdizioniBarbera, 1882).

Da un pezzo io nutrivo il desiderio di visitare nelle Puglie Lucera, Manfredoniae il Gargano, il Promontorio sull’Adriatico, il vero Hagion Oros dell’Occidente, ilmonte celebre pel suo pellegrinaggio. Solo nella primavera del 1874 potei appagareil desiderio mio.

Miei compagni, nelle escursioni attraverso il bel paese della Puglia, furono miofratello e Raffaele Mariano, col quale, venendo egli da Roma, ci eravamo data laposta a Caserta, ed ivi infatti c’incontrammo.

A parecchi Tedeschi il nome di questo giovane di molto ingegno non dev’esseresconosciuto. Egli è uno de’ più caldi ammiratori della Germania e della sua cultura;e, come tale, ha fatto spesso sentire la voce sua. I migliori articoli nel Diritto, nelragguardevole giornale che a viso aperto confessa le simpatie germaniche e sostienel’alleanza dell’Italia con l’Alemagna, si devono alla penna di lui, o a quella del suosagace amico Maraini, proprietario del giornale. Mariano è discepolo del Vera, ilcapo e fondatore della scuola egheliana a Napoli. Egli ha dato fuori una serie discritti e di saggi, qualcuno anche in francese, fra i quali mi piace menzionare soprat-tutto un esame critico della filosofia italiana contemporanea, da lui dedicato al miovenerato maestro Carlo Rosen Franz. Il Vera stesso, che io sappia, non è stato peranco in Germania riconosciuto in modo condegno ai suoi meriti. Eppure la scuoladi egheliani, fondata da lui, è già uno de’ fattori della cultura odierna dell’Italia.

Lucera, colonia saracena degli Hohenstaufen

Ferdinand Gregorovius

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Tutto quanto in opposizione al pensiero teologico-scolastico fosse atto a risollevarele energie della coscienza, l’attività libera e interiore dello spirito; tutto quanto po-tesse spianare, aprire la via alle idee riformatrici germaniche e redimere, rigeneraremoralmente il paese, immerso in un pieno indifferentismo religioso; tutto ciò ha ingran parte i suoi seguaci, i suoi propugnatori nella scuola del Vera. Appunto nelmio viaggio ebbi ad imbattermi in discepoli di lui che ne parlavano con entusia-smo. Il che vuol dire che sulle coste dell’Adriatico, a Barletta e a Trani, m’incontraiin pari tempo negli amici più appassionati della Germania.

Il 15 maggio muovemmo per Foggia, passando per Benevento: magnifico viag-gio, attraverso i bacini del Volturno e del Calore. Ad ogni passo le storiche figuredegli Hohenstaufen, nel momento supremo e drammatico del loro scompariredalla scena del mondo, si presentavano vive alla fantasia. Qui, a Telese specialmen-te, Carlo d’Angiò alla testa del suo esercito in marcia; più in là il campo di battagliapresso Benevento.

Nell’avvicinarci a Foggia, dopo esserci lasciate alle spalle le regioni montuose,vedevamo dispiegarcisi via via dinanzi il Tavoliere di Puglia, il grande agone datempo immemorabile de’ pastori e delle greggi d’Italia. Esso si stende sino all’Adria-tico; il mare però non è per anco visibile, lontano com’è da Foggia parecchie migliae nascosto da una elevazione del suolo.

Per ore intere l’occhio è intento a riguardare una lunga distesa di montagne diun bel celeste azzurro, che qual gigantesca muraglia rocciosa si protende in direzio-ne di ovest ad est. È il Gargano, dove noi presto rivolgeremo i passi, come ad unadelle mete delle nostre peregrinazioni.

Ad occidente la pianura pugliese è cinta da poggi e colline, disposte in forma diemiciclo, estremi contrafforti che manda giù l’alta giogaia dell’Appennino. Essiseparano i bacini del Candelaro e del Cervaro da quello del Fortore, che scorre asettentrione. Qui e là sulle alture spiccano castelli e città parecchie. Due soprattuttone osservammo di lontano con la più viva curiosità: Troia e Lucera, l’una monu-mento della dominazione bizantina nelle Puglie, l’altra la famosa colonia saracenadegli Hohenstaufen.

Foggia è posta nel mezzo appunto del Tavoliere, su di un terreno affatto piano.È il capoluogo della Capitanata, e sino nel medio evo una delle più ragguardevolicittà della Puglia. L’importanza sua la deve all’imperatore Federico II. In questaregione Foggia era la residenza da lui preferita. Non le bellezze naturali, ma la positurageografica gliela rendevano assai rilevante. Evidentemente, i pressi di Foggia po-trebbero senza grande sforzo essere ridotti nel più bel giardino che sia mai stato. Edè vero pure che tutto all’intorno le si dispiega un ampio e splendido orizzonte. Senon che, la città giace sulla pianura del Tavoliere, ove quasi non vedi albero né filo

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Lucera, colonia saracena degli HohenstaufenF. Gregorovius 123

d’acqua; onde gli ardori del sole estivo vi devono, dal maggio all’ottobre, essereaddirittura insopportabili. Bastano pochi passi, e tu ti trovi qui in un vero deserto,coperto di pascoli e popolato d’armenti. E bisogna correre ore ed ore, prima diarrivare al golfo di Siponto o Manfredonia, o di aver raggiunto le ubertose campa-gne di Cerignola, di Canosa e di Barletta. Nulladimeno, già al tempo degliHohenstaufen, Foggia era un punto centrale, ove venivano ad intrecciarsi le grandistrade, che menano ad Ancona, Napoli e Roma da un lato, e dall’altro a Bari e aBrindisi. Ed oggi essa è rimasta ancora tale, il centro, cioè, di parecchie strade ferra-te. Similmente, questa sua giacitura fa della città un emporio pel commercio e pergli scambi dell’Italia Meridionale; epperò essa fiorisce e vien su con rapido moto, edè destinata ad un avvenire di più in più considerevole.

Appunto ne’ giorni in che noi vi fummo, la città era in gran movimento. Dove-va aver luogo una esposizione industriale ed agraria, ed era stato all’uopo costruttoun enorme baraccone. L’inaugurazione doveva essere onorata della presenza delprincipe ereditario, Umberto. Sembra che di Foggia si voglia fare un centro agricoloper le province meridionali. I prodotti naturali convergono qui, sul mercato, ingrande copia da tutta la provincia; ed il ceto de’ mercatanti vi abbonda. OggidìFoggia conta già 30.000 abitanti. È una grande città, bene edificata, con strade epiazze dall’apparenza tutta moderna, e sempre animate da gran calca di gente.

Meno alcune chiese, fra le quali primeggia il Duomo, Santa Maria, notevoteedifizio del XIII secolo, tutto il medio evo vi è scomparso.

Del grande palazzo, residenza di Federico II, non rimane che un meschinoavanzo, incastrato nella facciata di una casa privata: un arco in stile romano. Nelpunto di congiunzione de’ pilastri si veggono due aquile imperiali in pietra. L’iscri-zione, ben conservata su di una tavola di marmo, ricorda che Federico II fece edifi-care il palazzo nell’anno 1223: Hoc Fieri Jussit Fredericus Cesar Ut Urbs Sit FogiaRegalis Sedes Inclita Imperialis. L’architetto si chiamava Bartolomeo, come è detto inun’altra epigra: Sic CesarFieri Jussit Opas Istum Proto Bartholomeus Sic ConstruxitIllud. Una terza iscrizione suona così: A. Ab Incarnatione MCCXXIII. M. Junii XI.Ind. R. Dno. N. Frederico Imperatore R. Sep. Aug. A. III. Et Rege Sicilie A. XXVI. HocOpas Feliciter Inceptum Est Prephato Dno. Precipiente.

Innanzi a quest’ultimo avanzo del palazzo imperiale, ove, tutto assorto nella suaidea di dominare sull’occidente e sull’oriente, consigliandosi col suo fido cancellierePier delle Vigne, e divisando i piani e i mezzi di condurre innanzi la sua lottastrepitosa con i Guelfi d’Italia e col Papato romano, il più geniale degli Hohenstaufenfece sì sovente dimora, nessun Tedesco può fermarsi senza sentirsi addentro com-mosso. In codesto palazzo morì, nel 1241, la moglie dell’Imperatore, Isabella d’In-ghilterra. Essa fu sepolta non a Foggia, ma nella cripta del duomo di Andria, ove era

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pure già stata deposta la prima moglie di Federico, Jolanta di Gerusalemme.Per quanto glielo consentivano le circostanze, specie le guerre insistenti che sen-

za posa lo costringevano a correre innanzi e indietro dalle Alpi alla Sicilia, e a doversempre lasciar daccapo il suo prediletto paradiso delle Puglie, il grande Imperatoreabitò volentieri nel palazzo di Foggia. Il suo primo rescritto, emanato da questacittà, è del febbraio 1221. Più tardi, nel 1225, quando il castello era stato terminatotutto, vi passò i mesi di maggio e giugno. Dal 1228 in poi, vi sono solo pochi annine’ quali l’avervi egli dimorato non appaia con certezza da documenti. Da Foggiaegli poteva agevolmente visitare le altre sue residenze e i suoi castelli di caccia e didelizie nelle Puglie, in Andria, per esempio, e il magnifico Castel del Monte, ovve-ro, dall’altro lato di Foggia, Castel Fiorentino e Lucera.

Oltre lo svago della caccia, furono, senza dubbio, queste condizioni di luogoeccezionalmente favorevoli che indussero anche i successori di Federico a fare, comelui, di Foggia una lor residenza. Manfredi, il quale tolse la città al Papa, e poi piùtardi il vincitore suo Carlo d’Angiò soggiornarono spesso a Foggia. Carlo I si feceedificare ne’ pressi, in pantano, un castello di caccia. Nella Cattedrale di Foggiavennero celebrate le nozze tra la figlia di lui, Beatrice, e Filippo, figlio dell’imperato-re di Costantinopoli Balduino. Ed egli stesso, Carlo, morì in Foggia appunto.

Noi prendemmo a nolo una carrozza, la quale doveva portarci prima a Lucera,e poi, passando di nuovo per Foggia sul golfo di Manfredonia.

Lucera è alla distanza di due ore da Foggia. Vi si va per un’ottima strada checorre diritta, quasi freccia, dall’una all’altra città e sempre attraverso la estesa pianu-ra, sino al punto in che questa, leggermente elevandosi, va formando una cinta dipoggi. Via facendo, passammo innanzi a ville e fattorie, ma rare e sparse in mezzoad un paesaggio languido e morto, la cui ampia distesa però è in lontananza circo-scritta da superbe montagne, mentre a manca sulle verdeggianti alture si mostra labizantina Troia. Incontrammo un drappello di carabinieri che servivano di scortaad un trasporto di malfattori, i quali dalla Corte d’Assise di Lucera avevano giàsentito pronunziarsi la condanna. Oltre di questo, nulla: la strada era totalmentedeserta: dopo un’ora di cammino comincia lievemente a salire.

Lucera stessa è posta su di una eminenza. Simile a promontorio, questa s’inalzasul piano, per poi ricadervi in alcuni punti ripidamente. La catena di colli, chechiude qui e domina il Tavoliere di Puglia, esigeva per le sue condizioni naturali chevi si mettesse una città fortificata. Nacque così in antico la sannitica Lucera Apulorum.Caduto l’Impero Romano, il paese fu in principio goto; poscia divenne un veropomo della discordia tra Bizantini e Longobardi. Ai Duchi longobardi di Beneventolo tolsero i Normanni. Finalmente Federico II fece della città il più forte baluardodel suo regno.

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Lucera, colonia saracena degli HohenstaufenF. Gregorovius 125

Essa ora ci si presenta dinanzi come una città di qualche considerazione, abitatada 15.000 anime all’incirca, assisa sulla collina verde di pampani e di piante fruttifere,con avanzi qua e là delle antiche mura, con alcune torri del tempo feudale, con unapiccola cupola da’ colori variopinti e luccicanti, i quali a noi, che sapevamo i Saracenidi Sicilia aver quivi abitato non meno di ottanta anni, ci dettero l’impressione di unnon so che di arabo. Avremmo dovuto entrare per la porta di Foggia e battere lastrada principale della città; ma la si lastricava appunto a nuovo; dovemmo quindifare il giro delle mura, ed entrammo per la porta di Troia.

Qui parve quasi ci muovesse incontro quella serena quiete, tutta propria in Italiaalle città storiche di provincia, il cui fascino meraviglioso e attraente non ha l’ugualenel mondo. L’aria calda e soleggiata è pregna e mossa tutta dall’alito del passato.Tempi e culture, scomparse da secoli, mandano da’ loro monumenti una elettricapotenza: è il magnetismo della storia. Qui nulla di nebbioso, nulla di romantico,come nel settentrione. Ogni avvenimento si disegna innanzi alla fantasia netto,limpido, tranquillo, come le linee cilestri e il porporino delle montagne laggiù, nellontano orizzonte.

Lucera, formata di strade e piazze d’ordinario anguste e piccole, è costruita comela più parte delle città italiane medievali; ed anche, come queste, quasi tutta im-biancata. L’Italiano del Mezzogiorno è diverso in ciò dal Latino. Egli non amavedere le case dello scuro color naturale della pietra. Le imbianca invece, e non badané molto né poco alla riflessione solare che abbaglia. Così intanto, sotto l’imbianca-tura, antichi edifizii perdono ogni carattere: gli è come se si coprisse con tela mobilieleganti. Questa deplorevole manía di dar di bianco a palazzi per vetustà rispettabilis’è oramai fatta generale in Italia: sciocca esagerazione della tendenza, che di presen-te domina, a voler tutto rimettere a nuovo. In Bari, per esempio, l’antico e pittore-sco palazzo del Gran Giudice Roberto, della famiglia un tempo potente de’ Chyurlia,di colui che fu il carnefice giuridico di Corradino, lo trovai tutto pulito di calce e,come può immaginarsi, spogliato totalmente di ogni effetto architettonico. Sciagu-ratamente, codesta febbre dell’imbiancare si è dall’anno 1871 inoculata anche inRoma, dove già ad alcuni vecchi palazzi è stata tolta via la loro vernice storica. Nonmanca che di vedere affidato all’imbianchino il Colosseo e Castel Sant’Angelo:allora la vecchia Roma vorrà parer bella davvero e nuova di pianta!

Del resto, quanto a Lucera, non si creda che essa faccia impressione peculiar-mente insolita o antica. Pur troppo, anche in essa lo stile e il gusto moderni la fannoda un pezzo da padroni. Le chiese però e i chiostri e le maravigliose rovine delcastello stanno lì, con la loro impronta di originalità, a rendere ancora testimonian-za de’ tempi andati.

La famosa fortezza de’ Saraceni trovasi a un quarto d’ora dalla città. A guardarne

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le alte e lunghe mura di uno scuro cupo, e le torri che ancora in parte si tengono inpiedi, l’impressione che se ne riceve è grandiosa. S’aggiunga, che il castello s’erge inmezzo ad una maestosa solitudine, sulla cima di un’altura brulla, i cui fianchi,coperti di erba o nudi e incrostati di pietra gialla, scendono giù in linee lunghe,ovvero scoscesi e ripidi. Allorché le venti torri, ond’era munito, e tutta la cinta dellasue mura erano intatte, dev’essere stato una fortezza di prim’ordine. Ed era infatti lachiave delle Puglie e, così al tempo di Federico II, come a quello di Manfredi e diCorradino, il vero punto d’appoggio della dominazione degli Hohenstaufen nel-l’Italia Meridionale.

Vediamone la costruzione. Una muraglia in mattoni e pietra cinge intorno echiude la superficie della collina. Addossate alla muraglia si elevano quindici torriad angoli retti, equidistanti l’una dall’altra. Questa era la cittadella, il quartiere ara-bo fortificato. Dal lato poi verso la città, si congiungeva ad essa, occupandone unangolo, la parte veramente essenziale della fortezza, il castello o palazzo dell’Impera-tore, da lui abitato allorché era a Lucera. Quivi aveva pure sua dimora il castellanosaraceno.

Questo palazzo imperiale formava un quadrato perfetto. Stava di faccia allacittà. Un fosso con ponte levatoio ne proteggeva l’ingresso. Era pure munito diparecchie torri, delle quali due rotonde; e di queste una, un vero colosso, è presso-ché perfettamente conservata. La porta guardava la città, mentre dagli altri lati lacollina forma un dirupo inaccessibile.

Oggidì il superbo edifizio mostra solo le sue grosse mura di cinta. Delle camerenel palazzo dell’Imperatore sono appena riconoscibili le vestigia di una delle grandisale. Qui e là si veggono avanzi di scale e di stanze rovinate. All’interno, del resto,tutto è vuoto e deserto: il grande edifizio è ridotto oramai a ricovero di capre e dipecore.

La fortezza fu edificata da Federico II nel 1233, dappoiché ebbe represso ildisperato sollevamento de’ Saraceni in Sicilia. Dove fosse anch’egli stato un fanaticocome Ferdinando il Cattolico o Filippo di Spagna, avrebbe rimandato i Maomettaniin Africa, ovvero, a maggior gloria di Dio, li avrebbe tutti fino ad uno fatti sgozzare.Invece egli trapiantò i prodi, operosi ed abili figliuoli dell’Oriente sul continente, inPuglia.

Il loro trasmigrare ebbe luogo a più riprese. L’imperatore assegnò ai Saraceni perdimora alcune città, come Lucera, Girofalco, Acerenza. Un desiderio intenso perl’amato luogo natío, donde erano stati con la forza strappati, li spingeva a fuggire dinascosto in Sicilia. Allora Federico, per ovviare a codeste fughe, pensò unire insie-me tutti i Maomettani in un luogo solo, a Lucera. Ciò accadde nell’anno 1239.Ancora nel 1245 vennero colà trasportati dalla Sicilia gli ultimi Saraceni. Così nac-

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Lucera, colonia saracena degli HohenstaufenF. Gregorovius 127

que la colonia Lucera Saracenorum. Solo per errore il nome di Lucera fu scambiatocon l’altro di Nucera, nel quale ultimo luogo non furono mai Saraceni.

Questi stranieri in Puglia si trovarono su di una terra che uomini della stessarazza loro avevano calpestata e in parte anche dominata già, secoli innanzi, allorchéa Bari sedeva un Sultano arabo, e tutto il paese del Gargano era in possesso diSaraceni. Essi presero adunque a Lucera dimora fissa e stabile, in sul principio dimala voglia e pieni di odio verso l’Imperatore, che non sapevano considerare altri-menti che qual tiranno e quale usurpatore del legittimo possesso degli antenatiloro, della bella Sicilia; poscia, da veri orientali, rassegnandosi al fato; in fine consincero amore e fedeltà pel loro Sultano, il grande Imperatore, l’accanito avversariodel Papa, l’amico spregiudicato e illuminato dell’Oriente e de’ suoi colti dominatori.Così Lucera divenne la tomba degli Arabi di Sicilia, la cui storia toccò quivi altermine suo.

Nel tempo in che i Saraceni vi furono trasferiti, la vecchia città giaceva nel piùprofondo scadimento, tuttoché un vescovo vi tenesse ancora presso la cattedrale lasua residenza. Il numero degli abitanti cristiani non poteva esservi che assai scarso,e quindi impotente rispetto ai pagani nuovi venuti. Nulladimeno, Federico separòda prima le due comunità, diverse per razza e per fede. Accanto alla vecchia, gettò lefondamenta della nuova Lucera, ch’è appunto il quartiere fortificato, alla cuiedifıcazione gli avanzi dell’antichità, allora esistenti ancora in gran copia, fornironoi materiali.

Michele Amari, lo storico de’ Saraceni di Sicilia, è dell’opinione che gl’ingegne-ri, che costruirono la fortezza, fossero, senza dubbio, arabi. Di ciò per altro manca-no le prove; ed è d’altronde poco verosimile, avendo Federico II a sua disposizionenumerosi architetti indigeni.

Nel recinto della cittadella noi possiamo raffigurarci la piazza d’arme e le caser-me de’ guerrieri saraceni, gli arsenali e le fabbriche di ogni natura ed anche le mo-schee. Più tardi si saranno via via andate estendendo anche di fuori, quasi sobbor-ghi, le abitazioni del popolo arabo. La colonia, amministrata e retta dal Kadì diLucera, era numerosa, ancoraché il numero di 60.000 anime, che notizie del temporegistrano, sia da tenere per esagerato. Protetta dall’Imperatore, essa salì tanto infiore che divenne un centro di attività industriale di qualche considerazione. GliArabi avevano infatti portato seco dalla patria, dalla Sicilia, gli elementi e le nozionidi ricche industrie; e così si videro sorgere a Lucera fabbriche di armi e telai edofficine di eccellenti lavori in legno.

L’Imperatore vi pose una cultura di razze arabe, e vi faceva pure allevare cam-melli. Egli vi teneva altresì serragli di bestie feroci, importate dall’Africa; e i leopardispecialmente venivano addestrati alla caccia. Senza dubbio, il palazzo di Federico

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era messo con lusso orientale; affinché le forme della corte imperiale nelle Pugliecontinuassero ad essere saracene, come lo erano state quelle de’ re normanni aPalermo. Oggi ancora si pretende mostrare ove fosse a Lucera il posto dell’Haremimperiale, assai ben provvisto e custodito da enunuchi. Egli cercava abbellire la suacolonia in ogni possibile modo. Pare non la dimenticasse neppure nelle sue lontaneimprese guerresche. Allorché nel 1243 assediava Roma da’ monti Albani, portò viadue figure antiche di bronzo per collocarle a Lucera. Ed anche da Napoli vi fecetrasportare statue.

Spesso l’Imperatore sarà venuto da Foggia a Lucera per osservare i progressidella colonia ed intrattenersi nello splendido castello, ov’egli teneva anche in serboil suo tesoro. Da’ suoi Regesti, pubblicati da Huillard-Brébolles, appare, veramente,ch’egli passasse a Lucera solo l’aprile del 1231, l’aprile del 1240 e il novembre del1246; ma tanto più numerose sono le date della residenza da lui fatta nella vicinaFoggia.

Come può immaginarsi, la fondazione di una colonia saracena nel bel mezzodella Puglia era pel Papa una spina negli occhi. Ne’ secoli andati, solo a costo digrandissimi sforzi, la Chiesa di Roma e gl’imperatori di Germania avevan potutoriuscire a mettere un termine alle incursioni degli Arabi in Italia e a distruggere iloro fortilizi nella Campania. Ed ora era appunto l’Imperatore medesimo cheinsediava codesti infedeli nel cuore d’Italia per servirsene contro la Chiesa ovvero ilPapa. E di qui, dal fatto di Lucera, i suoi avversarii accaniti pigliavano soprattuttomotivo per scaraventare addosso al grande Imperatore tutte le colpe, tutte le accuse,trattandolo da empio pagano e nemico di Cristo. Il Papa levò presso il mondointero i suoi clamori contro Federico, come colui, che con animo deliberato abbat-teva la religione cristiana e trapiantava il paganesimo in un’antica città vescoviled’Italia. Sembra infatti che gli Arabi si permettessero parecchi atti di violenza con-tro la popolazione cristiana di Lucera e delle campagne circostanti. Essi giunseroinsino, almeno così venne riferito a Roma, a devastare la cattedrale del luogo; anzidovettero finire addirittura per impadronirsi di tutta Lucera, tanto che la comunitàde’ cristiani vi venne quasi interamente meno.

Giammai monarca non ebbe sudditi più grati né più fedeli. Per Federico II iSaraceni di Lucera erano i suoi pretoriani, i suoi zuavi, i suoi turcos. La loro caval-leria leggiera, che combatteva con lance e dardi avvelenati, era il solo nucleo perma-nente dell’esercito imperiale. La loro grande caserma era l’arsenale sempre ben for-nito e sempre parato alla lotta dell’impero contro il Papato. In molte spedizionibellicose questi Maomettani misero a sacco e fuoco vescovadi e monasteri cristiani,e contro di essi non servivano scomuniche né anatemi papali.

Con grande insistenza la Chiesa esigeva la conversione al Cristianesimo del ter-

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ribile popolo pagano. E Federico lasciava libero l’adito a Lucera a missionari france-scani; benché poi con ironico sorriso sulle labbra facesse convenire insieme alla suamensa vescovi e Saraceni di distinzione e di merito. A costringere intanto i suoifedeli soldati a mutar fede e religione non pensava punto, ché la conversione neavrebbe spuntato le armi nella lotta contro il Papa. Federico sentiva piuttosto am-mirazione per la religione de’ suoi Arabi, le cui forme di culto forse trovava menosuperstiziose di quelle della Chiesa romana; e, ad ogni modo, era sicuramente unareligione meno ostile all’autorità dello Stato.

«O Asia felice, o felici monarchi dell’Oriente, cui l’invenzione del Papato nonprocaccia affanni,» così scriveva egli una volta al genero suo Vatazes.

E, più tardi, anche il re Filippo di Francia esclamava: «O felice Saladino, chenon ha nulla da soffrire per opera de’ Papi».

Da quei tempi ci separano lunghi secoli. Nulladimeno ancora al giorno d’oggiesclamazioni di tal genere potrebbero essere sentite, specialmente dalla bocca del-l’Imperatore di Germania.

La vista della fortezza saracena riconduce la mente a tempi di vera grandezza.Chi sappia per poco toccarne le mura con la bacchetta magica della fantasia, le vedea un tratto popolarsi di figure storiche della più notevole delle epoche nella vitadell’Europa. Arrampicandoci su e giù, sotto le raffiche di un vento impetuoso chead ogni istante minacciava precipitarci dall’alto de’ merli, noi tre compagni di viag-gio eravamo lì, quasi rappresentanti della nuova Germania e della nuova Italia. Conintimo compiacimento andavo ripensando che l’amico italiano era figliuolo di quellaCapua stessa, ove il geniale Pier delle Vigne ebbe i suoi natali; e che mio fratelloaveva combattuto la grande guerra germanica contro la Francia; la guerra che hadato nel mondo il colpo di grazia al guelfismo e distrutto per sempre il poteretemporale de’ Papi.

Con noi intanto s’era per caso unito un giovane prete di Lucera, che ci faceva daguida. Guardandolo, egli mi appariva, malgrado delle sue maniere gentili e premu-rose, come il rappresentante del campo de’ furiosi avversari di Federico II, e comel’ombra tenebrosa, che s’accompagna con la libertà dello spirito e per lungo temponon se ne lascerà staccare.

Dal castello di Lucera la fantasia mi spinse repente di là da’ monti splendididella luce e del sole di Puglia. Nella remota Germania, nella Svevia leggendaria, ilpaese degli Hohenstaufen, io rividi le rovine di un altro castello. Con stupore misu-rai le lunghe vie della storia, per le quali la stirpe eroica di Federico di Buren dal suosvevo castello avito erasi condotta sin qui, sin nelle terre pugliesi; e con stupore mitornavano pure in mente gl’intimi legami, che congiungevano Hohenstaufen conLucera e la sua fortezza.

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Solo poche ore di cammino separano Hohenstaufen da Hohenzollern. All’Im-pero germanico occorsero però non meno di sei secoli interi di storia per percorrereil breve tratto. Il termine suo non lo ha toccato che il 1870. L’Impero tedesco si èricostituito sotto la dinastia degli Hohenzollern, la quale ha ripreso in sua mano econtinua la missione degli Hohenstaufen.

La identica lotta, già combattuta con Roma dagl’Imperatori svevi, si è prestoriaccesa con uguale ardore. E la Germania, sorta appena alla nuova esistenza d’im-pero nazionale, appare scissa e divisa di nuovo in partiti di guelfi e ghibellini, inseguaci dell’Impero e della Chiesa. Il fenomeno sembra sorprendente: pure puòrecare maraviglia solo a chi ignori il processo della storia e il concatenamento de’suoi eventi. Codesto deplorevole risorgere dell’antica contesa incaglia, senza dub-bio, il tranquillo ordinamento dell’Impero, cui nemici palesi o nascosti attornianoed insidiano; ma è storica necessità. Forse l’esistenza nazionale della Germania èdestinata a non potere per lungo tempo ancora trovare assetto sicuro e pacifico,quale toccò in sorte all’Inghilterra, compiuta che ebbe la sua rivoluzione. Il princi-pio della Riforma costringe la nazione germanica a portare nel seno suo queglielementi contrari ed opposti, sui quali riposa lo svolgimento della vita interioredell’Europa. Codesto principio ha posto in Germania la sua sede e il suo centro.Ciò se non fu conseguenza al tutto diretta delle proprietà specifiche spirituali dellanazione germanica, lo fu, certamente, del fatto di essere stato ad essa per secoli, apartire da Carlo Magno e dagli Ottoni, commesso il potere imperiale. Dato il fatto,era inevitabile pel popolo tedesco l’impigliarsi in una lotta incessante col poterepapale e col Cristianesimo della Chiesa romana.

Il moto degli spiriti in Europa sembra come descrivere un circolo perenne, ovetutto ritorna e si ripete lo stesso. Chiesa ed Impero, Papa ed Imperatore vi tengonosempre l’attitudine medesima, come già al tempo di Federico II e di Gregorio IX.In realtà, antichi pensieri organici giacciono nel fondo della cultura nostra, intornoai quali questa s’aggira tuttora, comunque la costituzione politica ed ecclesiasticadel mondo sia in molti rispetti mutata. L’Imperatore germanico, che oggi seguita acombattere il principio gerarchico del successore di Gregorio IX e d’Innocenzo IV,non è più lì, solo, non compreso dal tempo suo, come il geniale Federico II. E,d’altra parte, il pertinace nemico, che gli sta di contro, non dispone più de’ mezzismisurati, de’ molti alleati, come al tempo in che la Chiesa, per opera di GregorioVII e d’Innocenzo III, s’era levata nel mondo al grado di unica potenza ideale, diuniversale organismo spirituale; e la teologia, nel campo della scienza, esercitavadominio illimitato; e i nuovi Ordini de’ Francescani e Domenicani avevano destatonella cristianità tutta quanta un ardore, una febbre di fede religiosa; e le Crociatevalevano ancora come le più nobili, le più eccelse imprese politiche di principi e

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popoli. Alla Chiesa di Roma, a codesta magica potenza che teneva sotto di sé ilmondo intero, che disponeva di sì gran copia di elementi, e trovava di più nellospirito democratico e nazionale degl’Italiani il suo alleato, il grande Hohenstaufen,non sostenuto che dal suo proprio genio, non appoggiato tampoco dalla Germa-nia, la quale era pure la sua base naturale, doveva solo opporre resistenza. E facileimmaginare quanto dura, quanto spaventevole dovett’essere per lui la lotta conRoma, se oggi ancora le difficoltà, fra le quali per la contesa ecclesiastica il suopotente successore, il capo dell’Impero tedesco, si è cacciato, appaiono pur sempreimmense!

In vero, a petto della potenza ond’era in possesso all’epoca degli Hohenstanfen,e che investiva tutte le forme della vita, la Chiesa romana odierna è ridotta ad unmeccanismo privo d’anima e di spirito. La Riforma religiosa germanica, cui il prin-cipio ghibellino di Federico II fu una delle presupposizioni, le rapì assai più che nonfosse il dominio di molte terre e popoli. Essa l’ha interiormente impoverita edesinanita. Tutto ciò che un tempo formava la grandezza sua, la scienza e le ideeumane e civilizzatrici, sono diventate patrimonio del mondo della Riforma. E tuttociò che da tre secoli a questa parte ha forza di muovere e spingere innanzi le societàeuropee, è il risultato della efficacia del principio della Riforma.

Il Papato romano, nel quale oramai la Chiesa cattolica s’è raccolta e concentratatutta, ha cessato di essere una potenza mondiale, un regolatore della civiltà. Nessunpensiero pieno di senso profetico e di avvenire; nessuno che sia in grado di entusia-smare l’umanità e trascinarla può mai più sprigionarsi dal chiuso e cupo recinto delVaticano. La fede ha perduto la sua forza. La scienza e la critica vanno ogni giornopiù decomponendo il Cristianesimo storico e dommatico. Qual valore, quale im-portanza ha oggi la teologia a confronto del tempo di Tommaso d’Aquino? Gliordini monastici, per cui mezzo soprattutto il Papato potette una volta esercitare ilsuo potere universale sui popoli dell’Europa, sono spariti. L’ultimo per ragion ditempo, l’ordine de’ Gesuiti sbandito ed esiliato, va in parte errando pel mondo.Quando si pongono a raffronto le idee contenute nella dottrina gesuitica con leregole di quella de’ Francescani, appare evidente che intima sostanza delle primenon è più la religione del Cristo, ma la politica della Curia romana. È, in unaparola, il programma dell’assolutismo papale. Ora il principio dell’infallibilità delPapa o, ch’è lo stesso, dell’annientamento della ragione nella Chiesa e dell’assogget-tamento del pensiero in generale, può essere forse concepito quale idea destinata asuscitare l’entusiasmo dell’umanità? Può l’umanità riporre fede in un domma, chea scopo supremo dello svolgimento suo le mette dinanzi l’al di là, l’avvenireestramondano? Domande siffatte non si può ascoltarle: non vi si può rispondereche con un sorriso.

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Nulladimeno, questo Papato gesuitico-romano, grazie alla tradizione, al suomeraviglioso sistema di accentrata unità, al gran numero di coloro che fidamente eciecamente gli aderiscono è ancora, assai potente. Ed è vero; esso dispone ancora diuna forza politico-sociale. Esso costituisce sempre un centro tradizionale di unitàper l’immensa moltitudine che professa una intuizione dommatica circa l’ordina-mento e il governo del mondo e della vita. Onde gli si schierano intorno tutti ipartigiani del Cristianesimo concepito nelle sue forme viete e scadenti, tutti glielementi che aspirano alla conservazione e al legittimismo, e in generale tutti queiche cercano l’ideale loro nella fede autoritaria del passato. Di riscontro a codestopartito sta l’altro, il quale muove dal principio della determinazione autonoma edintrinseca di ogni singolo individuo, cui è comunanza politica lo Stato moderno, ilquale si svolge libero ed estraneo alle differenze confessionali.

Nel luogo de’ guelfi e ghibellini di un tempo si sono oggi sostituiti la Chiesa e loStato, ovvero, rispetto alla Germania, la Chiesa dell’assolutismo romano e papale, el’Impero moderno e irrazionale.

Malgrado di Roma e de’ Gesuiti, l’Impero tedesco s’è oramai costituito sotto ladinastia protestante degli Hohenzollern. Sulla base solida della Germania unificataed elevata ad esistenza nazionale il nuovo Imperatore può tenersi più saldo, piùpossente che non i più grandi degli Hohenstaufen e lo stesso Carlo V. Ciò è appun-to perché il domma della dominazione universale di Roma nell’ambito dell’Imperogermanico è venuto meno per sempre. Esso però continua, pur troppo, a vivere nelPapato; ed il combatterlo, sino a che non sia caduto morto anche in questo suocampo proprio, è in parte il contenuto e lo scopo della lotta del tempo presente, lalotta del mondo moderno col passato. Scopo siffatto s’erano a tempo loro prefisso ighibellini; ma non lo raggiunsero. Il principio della monarchia universale essi pre-tendevano attribuirlo a sé. E gli Hohenstaufen caddero pure, poiché dell’Italia, diun paese straniero, vollero fare la base pratica di un impero che doveva abbracciareil mondo. L’Italia è patrimonio mio: diceva Federico II; ed il Papa affermava esatta-mente lo stesso. Roma, lo Stato della Chiesa, l’Italia, a partire dalla favolosa dona-zione di Costantino, erano stati il fondamento sempre agognato e, più o meno,anche realmente e praticamente mantenuto della dominazione universale de’ Papi.Ed occorre aggiungere che codesto fondamento era per lo meno più prossimo e piùnaturale ad essi che non agl’Imperatori tedeschi. Nel medio evo gl’Imperatori sape-vano che senza l’Italia la loro monarchia universale era impossibile: non altrimentierano convinti i Papi rispetto alla dominazione alla quale essi pure aspiravano. Orail fondamento del dominio papale è stato tolto via: esso è caduto per sempre nel1870. Distruttori dello Stato della Chiesa sono stati appunto i ghibellini, gliHohenzollern.

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Dall’alto del castello di Lucera io riandava le fasi e lo svolgimento di questo granprocesso storico. E, pieno di gioia, mandai un saluto all’ombra dell’immortaleHohenstanufen, che Dante stesso, comunque il più entusiastico de’sostenitori del-l’idea dell’Impero e della monarchia universale che vi si connetteva, pure, qual pioe fedele cattolico, non poté a meno, tenendolo per eretico e saraceno, di cacciarlogiù nel profondo inferno e di metterlo a giacere in un letto di fuoco.

Quale non sarebbe lo stupore di Federico II, se gli fosse dato oggi di rivederRoma! Quel trono temporale, tutto jeratico e per nulla cristiano, che a lui nonriuscì abbattere, è ora finalmente gettato per terra: il Papa, che si tien chiuso inVaticano, abbandonato dalle potenze politiche, come una volta lo fu egli stesso,Federico: un prigioniero libero e volontario, e non per tanto prigioniero vero ereale, siccome colui che i nuovi tempi hanno relegato a star chiuso là entro: a pochipassi poi da lui assiso tranquillamente sul trono di Roma il discendente de’ sovranidella piccola Savoia, divenuto Re d’Italia e, come tale, riconosciuto e circondatodelle felicitazioni di tutti gli Stati, di tutti i popoli della terra!

Anche morto Federico II, i Saraceni continuarono a rimanere a Lucera fedeli,irremovibilmente legati con la Casa sveva, cui infrattanto il Papa studiava ed affret-tava i modi di strappare le Puglie. Solo ad essi Manfredi andò debitore dell’averpotuto salire sul trono del padre suo. Egli veramente non iniziò la sua splendida ederoica carriera che appunto in codesta fortezza di Lucera. Quivi nel novembre 1254venne a cercare e trovò salvezza dopo la sua fuga audace da Aversa, attraverso lemontagne del Sannio. Giunto alle porte di Lucera e datosi a conoscere, i Musulmani,giubilando, lo condussero nella fortezza e lo proclamarono loro Signore. E quiviegli sentì di avere una base solida e sicura. Onde poté quindi scacciare i nemici dallavicina Foggia, e poscia da Troia, donde il cardinale legato, Guglielmo Fieschi, mes-so in fuga, andò a riparare a Napoli presso il Papa.

Nulla aveva più forza di esacerbare quest’ultimo, quanto il durare della coloniasaracena di Lucera. Vani erano i tentativi di conversione da parte della Chiesa. Edinvano pure venivano rivolte istanze a Manfredi, perché rimandasse in Africa i suoiMaomettani. Egli non se la sentiva di disfarsene, vedendo in essi i più fidi guerrieried alleati suoi. Come suo padre, amava tenerseli intorno; onde i preti e Carlo d’An-giò lo nominavano il Sultano di Lucera.

Sul campo di battaglia presso Benevento gli Arabi pugnarono valorosamente ecaddero a migliaia. Prima di muovere contro l’Angioino, Manfredi aveva affidatoalla custodia della guardia saracena di Lucera la sua giovane e bella consorte, Elenadi Epiro, e i suoi figliuoli. E qui, a Lucera, fu portata alla sventurata la nuova chesuo marito era caduto. Priva di consiglio, in preda alla disperazione, essa fuggì coni figlinoli a Trani per imbarcarsi e cercar rifugio in Epiro. Ma il castellano della

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fortezza consegnò le vittime ai persecutori che già le cercavano ed inseguivano dap-presso.

I Saraceni di Lucera abbattuti, costernati, conclusero con l’usurpatore vittoriosoun trattato, pel quale fu loro consentito di continuare, quali sudditi di lui, a viveree governarsi con le istituzioni e le leggi date loro dagli Hohenstaufen. Però, giànell’anno 1267, allorché il giovane Corradino si apprestava alla spedizione in Italia,essi fecero sventolare di nuovo da’ merli della loro fortezza il vessillo di casa sveva.Lucera fu allora il centro di riunione e la base e il sostegno dei ghibellini dell’Italiadel mezzogiorno, e quindi oggetto di massima inquietudine pel Papa come perCarlo d’Angiò.

Dietro le insistenti sollecitazioni del primo aveva il secondo mandato un eserci-to a cingere d’assedio la fortezza, la quale però respinse vittoriosamente tutti gliassalti. Nell’aprile 1268 Carlo stesso, obbedendo al volere del Papa, venne in perso-na di Toscana nella Puglia per sottomettere Lucera. Ma dovette poscia levare dacca-po l’assedio per andare incontro all’ultimo degli Hohenstaufen, Corradino, che perla via Valeria veniva giù verso il lago Fucino.

La battaglia presso Sgurgola decise della sorte dell’infelice. Caduto lui, Luceravenne nuovamente assediata. I Saraceni si difesero con disperato coraggio, sino ache il 28 agosto 1269, un anno dopo la disfatta di Corradino, furono per famecostretti ad arrendersi. Il loro numero s’era via via assottigliato di molto. Nulladimeno,anche ora, benché privati delle loro franchige, seguitarono a tenere per sé Lucera.Anzi, nel 1271, si sollevarono ancora una volta contro l’odiato Angioino, il vassallodel Papa, facendo risorgere a Lucera un falso Corradino. Ridotti di nuovo allasommissione e crudelmente puniti, restarono non per tanto ad abitare nella lorocittadella, imperocché in fondo l’Angioino stesso riconosceva l’importanza di que-sta colonia di prodi guerrieri. Egli fece anzi munire anche più la fortezza, e granparte delle mura e delle torri esistenti è appunto del tempo di Carlo I. Molti decretidi questo re si riferiscono al compimento del Castello di Lucera, il quale, comeprima, serviva anche di luogo di custodia pel tesoro reale.

Quando in fine ogni speranza in una possibile restaurazione de’ ghibellini fumorta, e gli sventurati figliuoli di Manfredi giacevano sepolti ne’ sotterranei di unaprigione, i Saraceni, spinti dal sentimento della propria conservazione, si misero alservigio degli Angioini. E questi si avvalsero di loro nel medesimo modo che avevanfatto gli Hohenstaufen. Nella guerra del Vespro Siciliano Carlo II li mandò a com-battere contro Aragona sotto le insegne della Croce e sotto gli occhi del Legatopapalino.

Il Papa intanto domandava in maniera categorica l’esterminio de’ pagani; e CarloII cedette finalmente al comando di lui. Senza motivo al mondo fece prendere

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d’assalto la fortezza e trucidarvi i Saraceni che vi eran dentro. I pochi che scamparo-no, rimanendo superstiti, vennero costretti ad abbracciare il Cristianesimo. Lemoschee furono abbattute dalle fondamenta. La cattedrale cristiana venne riedifıcata.Insino l’antichissimo nome di Lucera si volle barattare con quello di Santa Maria,senza che però avesse forza di attecchire e mantenersi.

Così, dopo una durata di quasi ottant’anni, si estinse, nel 1300, la città de’Saraceni. Già nel 1525 Leandro Alberti trovò la cittadella caduta in rovina e diven-tata ricovero di animali. La storia di essa meriterebbe davvero di essere trattata inmodo speciale da qualche conoscitore a fondo delle cose arabe. Anche non avendoper sé grande importanza, formerebbe sempre un capitolo attraente della storia de’Saraceni di Sicilia. Ed è da deplorare che Michele Amari non abbia più colorito ildisegno che ne aveva concepito. Allorché cominciò la sua dotta e seria opera su’Musulmani di Sicilia, non gli fu dato consultare che solo in parte gli atti dell’Archi-vio di Stato di Napoli; mentre, a quanto egli assicura nell’Introduzione, in taleArchivio, ne’ Registri della Casa Angioina, sono a centinaia i documenti che siriferiscono ai Saraceni di Lucera. Per un uomo come l’Amari di sì rara potenza dilavoro non dovrebbe anche oggi esser diffıcile il mettere insieme da tali documentiuna storia degli Arabi di Lucera.

Chi dalle mura della fortezza giri intorno intorno lo sguardo, abbracciando lebelle campagne pugliesi, splendide ed irradiate da un elisio etere azzurro, vededispiegarglisi dinanzi un teatro veramente unico e, come in uno specchio, apparirviconcentrati e riflessi tutti gli eventi storici dell’Italia Meridionale. Romani, Cartagi-nesi - laggiù in fondo s’intraveggono i campi di Canne, il luogo della famosa batta-glia di Annibale - Goti, Longobardi, Saraceni, Bizantini e Normanni, i Crociati, -di lì, da quelle coste, salparono essi la prima volta - gli Hohenstaufen, gli Angioini,gli Aragonesi, gli Spagnuoli, i Francesi: egli vede passarsi via via innanzi allo sguardol’una dopo l’altra tutte queste apparizioni e i fatti e le gesta che vi si congiungono!

Tutto all’intorno un orizzonte veramente meraviglioso! A settentrione la catenadel Gargano dal color di porpora; e un po’ a sinistra in lontananza il mare luccican-te e l’isola di Tremiti, che emerge dal seno suo, come di mezzo a uno specchiod’argento. Ad oriente, di là da Foggia, l’Apulia Plana che si stende ampia, soleggiatasino al golfo di Manfredonia. Verso occidente e mezzogiorno le pendici maestosedell’Appennino beneventano e più in qua le montagne di Campobasso e di Boiano.Da quest’ultimo lato, a poche miglia di distanza, dirimpetto alla campagna lucerina,una catena di verdeggianti colline, sulle quali si disegna spiccatamente l’antica Troia.

Il classico nome di questa città ci conduce assai lungi, riponendoci nella memo-ria luoghi e tempi omerici. La fondazione sua però non risale più in là degli iniziidell’XI secolo. Troia è una delle città pugliesi edificate da’ Bizantini. Il Catapano

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Bugianus la fece costruire nel tempo in che la gente longobarda nelle Puglie, op-pressa da’ Greci, insorse. E già nel 1022 la nuova Troia era luogo così ben munitoche l’imperatore Enrico II, nella sua spedizione nell’Italia Meridionale, dovette cin-gerla in tutta regola d’assedio e darle l’assalto. Oggi conta seimila abitanti, e dispecialmente notevole non ha che l’antica cattedrale.

Di ritorno dal Castello, visitammo in Lucera alcune chiese: Sant’Antonio Aba-te, una volta appartenente all’Ordine de’ Cavalieri Teutonici, il quale al tempo degliHohenstaufen ebbe ricchi possessi nelle Puglie; San Domenico; e poi il Duomo.

Questo è opera degli Angioini. Dell’antica cattedrale vescovile i Saraceni di Fe-derico avevano fatta una moschea, e poiché fu abbattuta e ridotta ad un mucchio dimacerie, il successore di Carlo d’Angiò risolvette, nell’anno 1300, di far edificare dipianta la cattedrale Santa Maria. Due anni più tardi, benché non per anco finita,venne già consacrata. Dopo del Castello, è il più ragguardevole monumento dellacittà e come il suo centro architettonico: edifizio gotico a tre navate, di armonicheproporzioni, semplice e dignitoso nelle forme. La facciata è una cuspide ad angoloottuso, con un finestrone rotondo, e tre porte gotiche in tufo calcareo bruno. Le staalato il non alto campanile, terminato in cima con un ottagono. Indarno, entratodentro, cercai monumenti od epigrafi che ricordassero il passato: ovunque in Italiaesse vanno scomparendo dalle chiese. Solo nel battistero esiste ancora una statua inmarmo del fondatore della chiesa: figura giovanile dall’aspetto leggiadro. Le manitiene conserte sul petto, e con i piedi, strano davvero!, poggia sopra due cani, i qualipiegano sotto il suo peso. Sul piedistallo si legge scritto in caratteri moderni: CarolusII. Andeavensis A. S. MCCC. Templum Deo et Deiparae Dicavit. Il sarcofago, cui lafigura in origine era annessa, disgraziatamente non esiste più.

Il giovane prete, colui che ci fu guida al Castello, ci condusse pure a visitare labiblioteca comunale, posta nel palazzo appunto del Comune. Vi occupa due came-re ben pulite. Fra le altre cose, mi venne mostrata tutta una serie di manoscritti,moderne compilazioni di documenti concernenti la storia di Lucera. Tale storiainvero non è stata per anco sufficientemente descritta. Nel 1861, pe’ tipi di Salvato-re Scepi, in Lucera, si ebbe bensì una storia della città, scritta da Giambattistad’Ameli, barone di Bineto e Meledugno; ma è libro codesto che non tien conto dialcuna esigenza scientifica. Nella biblioteca non ci era che un lettore solo, dal qualefatto, per altro, io voglio astenermi dal trarre sfavorevoli conclusioni circa le abitu-dini e tendenze studiose della città. Queste, di certo, non si distingueranno peroperosità e fervore, benché il liceo di Lucera goda buona fama.

[Tratto da Nelle Puglie, FERDINAND GREGOROVIUS, traduzione di Raffaele Mariano, Barbera Edizioni,Firenze 1882; ristampa anastatica La Terrazza Editrice, Pianoro di Bologna 1975]

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Riccardo Bacchelli (Bologna 1891 - 1985). Nel 1929 l’autore del Mulino delPo, invitato dal suo amico di studi universitari Giustiniano Serrilli di SanMarco in Lamis, si recò in visita sul Gargano dove soggiornò dal 19 marzo al15 aprile restando affascinato dalle tradizioni e dal paesaggio di questa inegua-gliabile terra. E proprio da San Marco in Lamis, Bacchelli inviò al quotidianoLa Stampa una serie di articoli che furono pubblicati nella primavera stessa del1929. Soggetto di questi articoli, ciascuno dei quali fu successivamente raccoltonell’antologia Italia per terra e per mare (Rizzoli 1952), il fascinoso Garganoe la cordialità che Bacchelli qui conobbe.

Si entra in Lucera da una porta militare, per una strada rustica e in pendìo, enaturalmente si ha la testa piena dei saraceni e del secondo Federico. Dei famosisaraceni, ch’egli trasportò qui dalla Sicilia, rimangono soltanto il ricordo e certiorridi ceffi moreschi, che furon messi a far da capitelli e da ornati sugli stipiti e negliangoli, per far paura ai ragazzi, diresti, e per commemorare le giornate in cui di testevere musulmane s’addobbarono i muri della città. E anche di lui, dell’imperatorescomunicato, «martello della Chiesa Romana, luxuriosus, epicureus», rimane poco.Il castello, dominatore di una delle più belle vedute di Puglia, fra gli Appennini e ilGargano sulla gran distesa del Tavoliere, dov’egli ebbe palazzo e fortezza, è in mas-sima parte costruzione degli Angioini; di svevo serba ben poco; ed è solatia rovina,dove intorno brucano le pecore sotto la guardia vigile dei cani da pastore, e dovesolo della Torre della Regina resta tanto da risuscitare nella fantasia le eleganzearchitettoniche che l’abbellirono. E il vento primaverile, che stormisce nelle feritoiee nelle breccie del fiero recinto, par che dia al sole schietto la melanconia dell’ala deltempo, lieve cosa senza rimedio. Qui, nel luogo dove i distruttori del sangue svevocostruirono poi il castello, il lussurioso epicureo tenne il serraglio delle belle fiere edei leopardi da caccia e delle bellissime femmine e degli abbominevoli eunuchi.

Lucera

Riccardo Bacchelli

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Qui campava da rinnegato alla moresca, ridendosi dei monitori papali e dei missio-nari che non riuscivano a convertire la «peste musulmana» da lui introdotta interraferma. Qui anche, vicino, era una moschea dei suoi fidatissimi saraceni dellacolonia lucerina.

Cotesto tedesco fantastico seppe molte cose, ma ignorò quel che si offende, enon si offende impunemente, quando si oltraggia la religione del popolo. A noi loinsegna il ribrezzo, che dura ancora dopo tanti secoli, in Lucera, e che si esprimenella leggenda. La tavola dell’altar maggiore in Duomo è fatta d’una grande e bellis-sima lastra di pietra la quale era la sua mensa in Castel Fiorentino, dove morì. Estata posta lì come segno d’espiazione? Certo è che il popolo lucerino favoleggia chedel Duomo Federico si fosse fatto un lupanare di donne, e che proprio sul luogodell’altar maggiore avesse messa la latrina. Favola; fra l’altro il Duomo è opera po-steriore, di Carlo II lo Zoppo. Ma la fantasia è forte ed acre, e tenace il disprezzopopolare lucerino. Eccone un esempio. C’è accanto alla porta di sinistra, una pietratombale incastrata nel muro. Colui che vi è effigiato, un innominato gentiluomo, aquel che pare dal vestito, del Seicento, non ha, che si sappia, altra colpa che quellad’avere una faccia brutta e maldisponente, da segnato da Dio: il popolo s’è messo intesta che sia il traditore Pier delle Vigne; e i vecchi lucerini, nonostante la sorve-glianza e i divieti del sagrestano e dei canonici, ritengono di farsi un merito collosputargli in viso. Traditore, essi lo detestano, non già dell’odiato Federico, ma dellafede, eretico come il padrone, e dannato suicida. In quella loro giustizia, che nonguarda per il sottile, né alla decenza, non possono ammettere che il capitolo dellacattedrale tenga nella chiesa quella statua, e così l’ingiuriano. Quest’odio e quell’at-to dura da secoli, e il nostro mondo, che a forza di decenza rischia d’ammollire ilmaschio vigore dei sentimenti, convien non dimentichi che detestare tradimento etraditori è, anche se in atti sconci, effetto di principii sani. Un tempo le genti siuccidevano per la fede, ed era una ragione più nobile che per il petrolio e le materieprime. Ma imparo da un’acuta e dotta monografia dello storico Egidi, che anche ladistruzione dei saraceni di Lucera, dei quali Carlo lo Zoppo fece metterne ventimi-la a fil di spada dal suo ministro Pipino da Barletta fra il 15 e il 24 agosto del 1300,fu un’operazione finanziaria, un esproprio delle terre demaniali concesse agli infeli-ci musulmani non che da Federico, anche da Carlo I, e da lui stesso, lo Zoppo,travagliato dalla guerra perpetua e dal bisogno orrendo di denaro e di frumento.

Non ho l’autorità di discutere né di dubitare. Sotto ogni fatto della storia c’èquel fattore economico, ma la storia non sarebbe la storia, anzi l’uomo non sarebbel’uomo, e non opererebbe storicamente, se non anche avesse motivi d’altro genere:primo e capitale, quello della religione e dei sentimenti.

Quel povero Carlo lo Zoppo, che combattè non so quante battaglie e credo che

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LuceraR. Bacchelli 139

le perse tutte; che cominciò il regno in prigionia; che, quando Ruggiero di Laurial’ebbe preso nella battaglia del Golfo di Napoli, sentì i capitani e le ciurme sicilianediscuter lungo la traversata se era da tagliargli il collo o da metterlo a prezzo diriscatto; disprezzato già da suo padre (uno dei migliori cavalieri che mai fossero,secondo il suo gran rivale Giacomo d’Aragona), il quale, quando seppe la rottanavale e prigioniero il figlio e morti molti dei suoi migliori: «Così fosse morto lui -disse - quel prete imbelle e sconsigliato!» quel povero Carlo lo Zoppo è effıgiato inuna statua tombale che ho vista nel Duomo di Lucera, e che mi ha mosso la fanta-sia.

Prete, lo chiamava suo padre, che pur era religiosissimo ma da quell’energicosoldato e politico che fu, perché, nato più per le devozioni che per le armi, si narrache avesse la tenda piena di libri e di insegne sacre e di reliquie; prete, perché eradebole di corpo, eccitabile, fantasioso, e facile a credere alle predizioni e ai voti. Intutta la sua vita travagliosa e nel suo regno, si scorge una specie di sbaldanzitatenacia nella sventura, che par più adatta a un penitente rassegnato, che a un re eguerriero.

Povero Carlo! Se devo confessare la verità, ciò che più mi persuade che nell’ope-razione sui saraceni di Lucera ci fu veramente qualcosa di un eccidio religioso, diuna notte di San Bartolomeo (24 agosto anche questa; vedi i casi e gli incontri delledate!) è il suo ritratto.

(La cattedrale di Lucera, città dai bei portali, è una grande opera che sorge da unterreno disuguale; e l’industria degli architetti, invece di spianarlo, che sarebberostati buoni tutti, s’è ingegnata coi contrafforti arditi e varii a sostenerla sulla dispa-rità del terreno, in modo da farne una fabbrica piena di naturale imprevisto e digrazia ardita). Lo Zoppo giace a mani in croce, mani piccole in posa stanca e d’ab-bandono; ha indosso una corazza tutta lavorata, e quasi si direbbe che il corpogracile v’abbia da poco smesso di respirarvi dentro, e che gli fosse di fatica; unaspada troppo grande per lui gli pende rigida e pesante dal fianco. Ha le mascellelunghe e il mento rotondo; le guancie, se posso dir così, affusolate; la fronte testardae nella quale non si suppongono né molte né grandi né fervide idee. Per altro è unafronte nobile, e tutto l’uomo ha quel che esprime, sia anche in significato di deca-denza, la parola «signorile». Il segno della tenacia sfortunata, e che sa d’esserlo, è fraocchio e occhio; una specie di corrugazione testarda e smarrita; sulla bocca infantilee imbronciata c’è uno scontento e un cruccio che non riesce ad esser crudele, mache è tanto amaro da far credere che crudele possa essere stato. Gli occhi, che dovet-tero esser grandi e prominenti, sembrano arresi or ora a una grande stanchezza.

Se questi fu lo Zoppo, par di leggergli in volto proprio quel tanto d’eccitabile eturbato che produce in certe anime il fanatismo; maniera di devozione diversa e

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certo tanto inferiore a quella che nei maggiori spiriti di santi si chiama carità, ecarità severa magari; ma adattata a fargli deliberare quel macello del 24 agosto1300.

E ci sarà stato anche il movente economico, a intrudersi in quella ch’egli avessepensato come una vendetta di Dio: e ne sarà stato men contento e men certo di sé;e gli sarà cresciuta la paura dell’inferno e il cruccio della coscienza, e l’ostinazione el’orgoglio stanco, figli quasi sempre della tristezza e della disgrazia.

Se questi fu lo Zoppo. Infatti mi dicono alcuni cortesi e colti amici lucerini, loscrittore Colucci, l’avvocato Gifuni e il professor Catalini fra gli altri, che si tratta diuna attribuzione tradizionale e incerta.

Ebbene, io trovo la risposta nel libro, che essi mi hanno regalato in ricordo diLucera, di un celebre lucerino. Il Bonghi registra questo detto del Manzoni: «Lastoria è assai grande, e più assai dubbia. Ottavio Castiglione, uomo dottissimo, fınìper non crederne più nulla». Per me, credo che quella statua rappresenti davvero reCarlo II, e mando verso la quieta e ventosa Lucera queste fantasticherie di unamattina fresca di primavera in Duomo, quando fui a visitare, e tanto mi piacque, lacittà civile e colta e giuridica.

[Articolo apparso sul quotidiano La Stampa nella primavera del 1929; successivamente pubblicato nellibro L’Italia per terra e per mare, RICCARDO BACCHELLI, Rizzoli, Milano 1952]

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Lucera, il 15 maggio 1934

Scriveva Gregorovius ricordando la sua entrata a Lucera: «Ti viene incontro laquiete tutta propria in Italia delle città storiche di provincia. È cosa d’una seduzioneche non ha l’uguale nel mondo».

In un delta oblungo, e come sposando il silenzio, il Duomo è fermo su una terraa onde.

Duomo della città di S. Maria. Ma commemora lo scatenamento d’un furore.La pietra cotta e la cruda, stinte, patinate, penetrate l’una nell’altra, hanno avuto

dal tempo un’unità di giallo leggermente ombrato: è una facciata alta, impettita,piallata, orba con quel suo finestrino nel rosone, tagliente, coperta dal tempo di uncolore di grido represso.

Ora che l’archeologo può sbucare segreto da una stradicciola e frugare in girodietro le lenti cogli occhi affamati, si può gettare un’occhiata nei solenni portalisettecenteschi di cui la città è ricca, arrivare a quello del Palazzo Ramamondi, digesso ercolanense, affondato in quinte, e a bell’agio vedere che tutti finiscono inuna corte piena di carri, carrette, d’arnesi per lavorare la terra e d’una carrozzella nelmezzo, così decrepita che le mani vi scappano a turarvi gli orecchi per paura chenon si metta anche da ferma a cigolare; possiamo incontrare ragazzi del Real Colle-gio dove fu alunno Salandra, che passeggiando ripassano le lezioni con una serietàdi statue; su e giù per la stessa strada, potrete osservare avvocati calmi discutere oreintere e accanto, passando, un prete in orazione può sentirsi come in un chiostro, ealzare appena gli occhi dal breviario per un salutino; ecc.: è questa la quiete?

Giambattista Gifuni, direttore della Biblioteca Municipale, che m’accompagnae che conosce mirabilmente la storia della sua città per un amore che da secolihanno da padre in figlio nella sua famiglia, mi fa segno d’avviarci. Ed ecco per dareil garbo all’abside, che la terra a onde s’è messa a girare come dentro una chiocciola,e i nostri passi con essa; ma presto tutto sembra immutabile e lo stesso coloredell’aria, arrivati come siamo a un punto dove è unico motore l’architettura.

Lucera, città di Santa Maria

Giuseppe Ungaretti

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Verso Sud142 D. Grittani

Ora, per l’annodarsi stretto dei contrafforti, la mole fa da sporgenza a sporgenzaeffetto di galoppare tra altissimi agguati: è un’elegante mole con un nonnulla dicalligrafico, pericolosa e anche serena, come s’addice a fabbrica provenzale trecentescaancora ammaliata d’Oriente, sorta sotto il più largo cielo del mondo sulle rovinefumanti d’una moschea.

Ma appare più di tutto, assediata e presa d’assalto dalle cose così com’è rimasta,nave gonfiata dall’affanno umano, veramente la forza dalla quale nascono o rinasconoe vanno alla ventura città. Città di S. Maria!

Ci basterà del resto fare due altri passi ed entrare nel Duomo per vedere gli stessifantasmi approvare Gifuni d’avere nel suo scritto intorno alle “Origini del ferrago-sto lucerino”, opposto all’Egidi che non tanto la ragione economica quanto la pas-sione religiosa mosse Carlo II a radunare un esercito e, al comando del “valoroso”Maestro Razionale della Curia Reale Giovanni Pipino da Barletta, spedirlo addossoa Lucera a farvi “macello” dei “tanto arditi et grandi Saracini cani” che la popolava-no.

Entrati in Duomo, il primo fantasma a farsi riconoscere – e che or ora, a quel-l’esterno dell’abside frutto di un’educata violenza, già avremmo potuto immaginarepresente – è Dante.

Carlo I d’Angiò, Carlo II d’Angiò: il Nasuto, il Ciotto, come Dante li ha cruc-ciato soprannominati per sempre, sono qui nel centro del loro trionfo. Dicono cheil Ciotto sia quel giovanotto di marmo dagli occhi pieni di sonnolenza, il cui visopaffuto chiede il grazioso ovale al mento sottile e che giace coi piedi poggiati suicagnolini in una cappella laggiù in fondo. Era uso tramandare sui cenotafi il piùleggiadro aspetto d’uno scomparso? E quindi d’un uomo attempato non dovevarimanere che la memoria del suo corpo giovane? Uso amabile, il che non impediscealla statua d’essere d’un’esecuzione dozzinale, nonostante il giudizio di RiccardoBacchelli, il quale, avendo una volta da interpretare in modo penetrante come sa ilcarattere del Ciotto, le dedicò alcune delle sue frasi ornate. Opera più originale, oanzi addirittura geniale, è un altro giacente che entrando vedrete alla vostra destra,tenuto in alto da due mensole. Da quel suo vestire che infagotta dall’inguine in susbuffando alle spalle e in giù fascia, si capisce che è un gentiluomo della secondametà del Cinquecento. Ma guarda un po’ e chissà perché, la gente l’ha voluto Pierdelle Vigne. Eppure è gente che qui s’è stabilita al posto dei “Saracini cani”, cari efedeli agli Svevi; e dunque non certo perché tradì Federico – che non tradì – glisputano in faccia, lo chiamano “Segnato da Dio!”, “Sansone”, “Traditore!”. O,maltrattandolo, vogliono essi manifestare il loro atavico e cattolicissimo rancore nelmedesimo tempo che contro lo scomunicato Federico, e contro i suoi “grandi etarditi Saracini”, contro specialmente Pier delle Vigne che fu l’atleta, il Sansone,

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Lucera, città di Santa MariaG. Ungaretti 143

appunto, dell’Impero, l’uomo dotto che dettava le grandi pagine nella polemica difuoco con Onorio III, Gregorio IX e Innocenzo IV?

Questa schiettezza d’animo dei Lucerini, quest’ostinazione nell’odio, anche questoè dantesco. Spostano le mensole, Piero giace sempre più su, cercano colle buone ecolle cattive di convincerli che non è educazione; ma uno schizzo ogni tanto, ciac,lo raggiungerà sempre: mirano a quel suo povero naso acciaccato.

Statua orrenda nella sua impeccabile eloquenza: è uno scheletro beffardo, unoscheletro vivente: tutta l’amarezza del Seicento…

Gli sputi sono una bella prova dell’errore dell’Egidi.Ma ce n’è ancora un’altra: siamo entrati in sagrestia e ci fanno vedere alcuni

oggetti del tesoro, e il sagrestano alza un vecchio camice di lino, lo alza colle bracciain alto e non basta, sale su una sedia e non basta, sale su una scala: è un camice diquasi tre metri, c’è entrato dentro il fantasma d’un gigante. Appartenne al beatoVescovo Agostino Cassiota da Traú, il quale era un Domenicano, e non bastava, erauno che, anche senz’essere Domenicano, al solo vederlo si era piccini e si tremava.Fu qui dal 1317 al 1323 per sradicare i resti dell’eresia musulmana. Compito per ilquale nella mente del popolo è rimasta l’idea che a finire di schiacciare tanto mostroci voleva Ercole in persona, e un Ercole spietato. Omaggio reso al valore del nemi-co, valore dunque leggendario, e prova lampante – poiché dal sentimento alla fan-tasia non trova altra via per manifestarsi se non nella leggenda – del carattere inprevalenza religioso di tale inimicizia.

Vollero perfino cambiarle nome. Urlarono i fanatici neo-Lucerini: «Città diSanta Maria!».

Ma è più difficile cambiare di nome che di naso, e Lucera rimase Lucera, comela chiamano le storie antiche di Roma che la segnalano per la sua fedeltà.

Gifuni torna alla sua biblioteca e mi fermo nel giardino del Municipio.È un vasto rettangolo che dà strapiombando nell’infinito della pianura. Fra le

piante vi sorprende duramente un enorme leone di scavo, un leone romano dibardiglio, steso minaccioso sulle zampe anteriori. Fu trovato nel 1830 insieme a unaltro uguale, ma a pezzi, «le cui ossa – come dice in un suo quaderno un antenato diGifuni – furono buttate al vento».

Ora guardo la città nel suo panorama e penso: «L’Egidi non deve avere avutotutti i torti ragionando come ragionava. L’errore suo fu di non far dipendere mezzi– quelli economici nel caso che esamina – da ciò ch’è sempre fondamentale negliimpulsi umani: la nostra vita morale».

E penso che l’argomento meriterebbe uno svolgimento apposito tanto più chemi permetterebbe di rivedere certe mie riflessioni sull’architettura; e la Lucera deiSaraceni col Federico e il Manfredi rimpianti da Dante non merita forse un artico-

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lo? Starò dunque a Lucera coi miei quattro lettori, anche la prossima volta. C’èun’altra memoria di Federico: un segno vivo: non ci sono piccioni qui in piazza;ma, come sulla Leonessa e il Leone, sul campanile si alza il falco, e si ferma sull’aria:ha trovato nelle ali infiniti equilibri…

Figli dei figli di quei falchi ch’egli ha fatto venire qui per mettersi in grado didettare il suo trattato di falconeria?

Mentre starai per partire, il tempo si guasterà. Apparirà nel cielo un affrettarsi dinuvole nere. Come succede sempre, alla imminente bufera le pietre balzeranno.Nell’arretrarsi dei loro sangui e dei loro ori che fra il Leone e la Leonessa incupiranno,esse assumeranno una nettezza strana: un giorno consumato ringiovanirà, astratto,eterno, nudità finalmente lucida…

[Tratto da Deserto e dopo, GIUSEPPE UNGARETTI, Mondadori, Milano 1961]

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Lucera, il 5 giugno 1934

Quando t’apparirà da lontano l’arco ogivale di Porta Troia e vedrai, in un vol-gersi immenso di solitudine, Lucera, dal chiarore infinito del grano, balzata sui suoitre poggi, potrà succederti che alcuni fra i più avventurosi fantasmi della storiavengano a mettersi allato.

Avvolto nel vento leggero che muove la loro invisibile cavalcata, seduto in fondoa una carrozzella stridula, forse di loro, che per accompagnarti corrono lentissimi,t’accorgerai mentre, a poco a poco vedendo dall’ombra d’un muro la povera bestiaattaccata alla tua vettura uscire con tutto il lungo tenebrore del suo corpo, udendolanel sole accrescere la solitudine col suo trotto invalido, andavi pensando che lagrande malinconia superstito dell’800 è il cavallo.

Ti sembrerà che uno dei fantasmi stia dicendo: «Ben Abu Zunghi, farete ordi-nare per ciascuna delle nostre signore un manto foderato di martora, due camicie edue veli di lino, una gonnella colla mazzetta a fibbia… Capito?»

L’altro ha risposto baciandosi la mano e portandosela solennemente alla fronte eal cuore. Ha capito: ha capito la lode indiretta; ma non ve ne accorgereste che dasegni impercettibili: da vvero eunuco ha una pelle senza età, e ora dalla gioia gli s’ètesa sulla faccia più del solito; da vero guardiano di harem ha gli occhi giallastri, cheper un momento ora la crudeltà non oscura.

L’Imperatore, senza parlare, alzando un dito, lo rimanda con quelli del seguito,gli sorride di nuovo…

Legata al cavallino impaziente di Federico II, ora t’accorgerai che dietro la sellac’è una bestia dagli occhi bendati. Bruscamente egli s’è girato, la scioglie, la prendein braccio, la lancia, e di lì a poco quella bella pantera di Barberia gli torna con unagazzella fra i denti…

Senza lasciare la preda, la bella fa le fusa, strusciandosi alle gambe del cavallo…A questo punto, il “Poeta e Fautore di Poeti” crederà giunto il tuo turno della

sua attenzione: «Vedi, m’è caro d’essere Cesare (“l’ultimo” Cesare, dirà Dante) e

Lucera dei Saraceni

Giuseppe Ungaretti

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Verso Sud146 D. Grittani

(saranno ancora, a suo riguardo e del suo bennato figliuolo Manfredi, prole diDante) m’è caro quindi di seguire in modo eroico e non plebeo la superbia. E perquesto alla mia Corte, e dandone io stesso l’esempio, la lingua parlata salirà i primigradini della poesia colta, e dal luogo del nostro Seggio Regale le prime poesiescritte in italiano si chiameranno per sempre siciliane… Sei sorpreso di trovarti quifra questi Arabi, di vedere là quei cammelli? Lo so, dolce sorpresa per te, che ti faritrovare l’infanzia e la prima giovinezza trascorse nei loro focosi paesi… In Siciliabaroni e… monaci me li avevano messi contro… Li ho sconfitti, e, sottomessi, li hotrasferiti in massa qui: ventimila Infedeli fra vecchi, donne, fanciulli, uomini… Suquelle alture segregate e come sole al mondo, è il loro accampamento vivace… Inquella città peripatetica, li ho trasformati da nemici nei miei cavalieri più sicuri…Non è stato difficile: anch’io li conosco e voglio loro bene da quando ero piccolo…Perché ho scelto Lucera? Guardala: per la stessa natura del terreno, città non soloalta, ma tonda: città militare di quella perfetta forma che Vitruvio prevedeva “affin-ché il nemico sia da più lungi scoperto”… Ora, guarda quella strada scoccata comeuna freccia: si conficca laggiù a venti chilometri, nel cuore di Foggia… Ecco: hocapito che Lucera poteva essere come il mastio di Foggia, come il possesso di tuttoil Tavoliere… Pane e armenti e tributi a volontà: ti sembra poco per uno che fa laguerra?

«Dunque avrebbero ragione l’Egidi e il Lenormant sostenendo che Vostra Ma-està, e il Nasuto e il Ciotto, e più tardi Francesi e Spagnuoli contendendosi il pos-sesso del Regno di Napoli, non avevate precipitandovi sulla Capitanata se nonmotivi economici?»

«Economici? Ai miei tempi, questa parola non c’era ancora… Certo, certo…Avevo la mia fede… Nessun vero Capitano, né Alessandro, né Cesare, né Napole-one hanno fatto la guerra se non per una fede… Ogni tempo ha la sua…»

E così dicendo colui che da piccolo chiamavano “il fanciullo di Puglia”, sparve…Federico è quello che è: un uomo grande, e cioè un uomo più che dei suoi

tempi, di tempi che aiuterà a nascere. Impersona il Medioevo, la parte epica delMedioevo che è germanica, che è feudale, e nello stesso tempo si dà a promuoverel’Umanesimo, il che è come dire che s’era gettato a capofitto in un’azione contro séstesso.

Economia, economia?No, sono tanti i lieviti, era la natura, la storia, la Provvidenza: l’uomo è condotto

misteriosamente…Quando sarai arrivato già dentro Lucera, al Belvedere, e da quell’ameno paesag-

gio ti sporgerai sul precipizio che va a cadere dove la pianura fugge, la città ti appa-rirà che si inalbera simile a un promontorio, a un salire dalle sue porte militari per

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Lucera dei SaraceniG. Ungaretti 147

amabili pendii verso il brusco orrore del vuoto. Tenderai allora l’orecchio per sentirese dall’alto d’un minareto non s’alzi ancora almeno un grido… Non ci sono piùminareti in questa che fu “la Città senza Croci!”. E come saranno state, come sonoimmaginabili di mattoni, “non bianche”, le moschee?

Dei “Saracini cani” non è rimasto nulla: qualche vasetto, qualche pezzetto diceramica…

Le memorie qui sono romane o angioine. Roma, Roma, Roma qui non finiràmai di risuscitare: la sua antichità in questa terra è inesauribile e l’altro giorno anco-ra in mezzo al Belvedere s’è aperta una fossa e s’è messa a buttare pargoli in fasce,giovi, veneri, bracci, piedi, falli: una vera montagna di terrecotte votive…

Di Federico II non è rimasto se non un enorme slancio di pietre come unacappa sbranata che sta su per miracolo; se non un movimento raccapricciante dipietre paragonabile per audacia solo alla volta della Basilica di Massenzio. D’unaresidenza che dovette essere una delle meraviglie del mondo a giudicare da Casteldel Monte, questo rimane…

Ma come nascenti da questo bellissimo rudere, ecco dal Belvedere vedrai che làin cima si svolgono, invece della Cittadella araba, i 900 metri di cinta della fortezzaalzata dal nasuto. È come una corona posata, e da questo punto sembra che baste-rebbe un venticello a smuoverla.

Salirai. La vedrai nelle sue pietre sbiadite, d’un rosso e d’un giallo quasi bianchi,mossa e annodata nella sua quadratura da ventidue torri poligonali, e dal Leone e laLeonessa, moli cilindriche altissime e grosse d’una vertigine unica sulla ripiditàdella scarpa. Dal lato meridionale, sotto ci sono le fornaci, coi loro laghetti fra ilgrigio della creta che verrà cotta: una miniatura: un vero presepio colle pecore cheora passano: ahimè, una gran disgrazia per la fortezza! Quei fornaciai coi loro scavihanno fatto sì che ora sono lesionate e pendono la Leonessa e tutta la cortina colletorri da quella parte. Trattandosi di terreni appartenenti al Comune, non dovrebbeessere difficile concedere ai fornaciai altre cave in punti, che non mancano, dove laloro opera non sarebbe se non proficua. Entrerai nella fortezza: nessuna rovinaproduce un maggior effetto di ampiezza disabitata, di piazza morta e senza confi-ne… Nessuna m’ha lasciato un uguale senso d’opacità del destino, un senso cosìesagerato di scoramento…

Vedrai ancora i fantasmi; il deserto della fortezza si popolerà dei Provenzali diGiovanni Pipino da Barletta… E, ecco, dal lato di Levante che guarda Lucera eFoggia, i “Saracini cani” tentano un estremo assalto: lo squallore della fame ha resosguaiati quegli artigiani fini, e i Provenzali li uccidono come per giuoco, e agli uccisialle volte spaccano sghignazzando lo stomaco per mettere allo scoperto la poltigliadel poco trifoglio strappato e divorato eludendo la sorveglianza…

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Verso Sud148 D. Grittani

Lo Svevo non ha lasciato qui che un brandello di muro? C’è qui un altro suosegno: l’altare del Duomo e quella sua mensa di Castel Fiorentino, alla quale invita-va a sedere insieme vescovi e ulema per ridere nel vederli guardarsi in cagnesco. Nonfu guerra religiosa? E perché quella mensa è stata messa lì, se non in segno di ripa-razione?

[Tratto da Deserto e dopo, GIUSEPPE UNGARETTI, Mondadori, Milano 1961]

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PARTE VI

Rocchetta Sant’Antonio

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Francesco De Sanctis (Morra Irpino, oggi Morra De Sanctis 1817 - Napoli1883). Il celebre storico della letteratura italiana pubblicò un’originale operaautobiografica dal titolo Un viaggio elettorale (1876), diario romanzato cheracconta le vicissitudini della candidatura di De Sanctis alle elezioni politichedel 1875 nel collegio Foggia-San Severo.

Decretata la rinnovazione del ballottaggio, dissi: ora vado io là. E andai. Veniva-no meco due miei concittadini, Achille Molinari e Salvatore Derogatis.

Giunsi a Foggia domenica sera, il 10 gennaio. L’altra domenica era il dì postoper il ballottaggio. Avevo sei giorni innanzi a me.

Capitai improvviso in casa di Giovanni de Sanctis, dov’era pure un albergo.Colui me lo aveva fatto conoscere uno di quegli amici che la mente porta seco sinoalla morte, Giorgio Maurea.

«È qui Giorgio?» domandai.«No, è partito ieri. Ma ci sono tutti i vostri amici di Foggia, che sarebbero tanto

lieti di stringervi la mano.»«Sarà per un’altra volta. Ora acqua in bocca. Ho bisogno che San Severo ignori

il mio arrivo qui. Non voglio ch’essi dicano: De Sanctis è stato a Foggia, e non èvenuto a vederci».

Rimasi solo. I miei pensieri andavano veloci, come i miei passi... Se io andassi aSan Severo! Tre quarti d’ora, e sarei a San Severo. Cosa è l’uomo! Io ho là un nidoriposato e sicuro, là stimato da tutti, amato da molti, e debbo correre appresso alleombre, cacciarmi tra monti e dirupi in paesi meno civili, dove pochi mi conoscono,e nessuno quasi mi comprende, e dove il mio nome è trastullo delle loro piccolelotte e piccole passioni. Tu non sei più un giovinotto, mi dice Marietta mia; pensache t’incammini verso la vecchiaia. E ora, nel cuore dell’inverno, con tanti anniaddosso... Ma respinsi questi pensieri come una tentazione. Questa è, dissi tra me,

Rocchetta la poetica

Francesco De Sanctis

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quella tale seconda voce, che è sempre una traditora. Ubbidiamo alle prime ispira-zioni che vengono dal cuore. Maggiore è il sacrifizio, e più grande sarà la soddisfa-zione della coscienza.

Alto là! rispose un’altra voce. Tu posi, come un Iddio. Guarda bene in queste tueispirazioni del core, e ci troverai un po’ di passioncella, un po’ d’impegno, undispettuzzo, e forse anche una piccola vanità. Tu non vuoi apparire uno sconfitto.

Mi esaminai, e sentii che questa voce non avea tutto il torto. E rimasi perplesso.Camillo de Meis aveva un po’ di ragione, quando mi chiamava un Amleto vaga-bondo tra le voci del pensiero.

Io non sono un Amleto, ma sono pigro, e non mi movo se non ho una buonaspinta dagli avvenimenti. Ma se mi movo, io vivo là entro e ci metto tutto me, oscriva, o insegni, qualsiasi cosa io faccia. Piccola o grande, buona o cattiva, unapassione c’era in me che mi traeva seco. Ed io non l’analizzai più; le ubbidii.

La mattina giunsi a Candela, e trovai per avventura alla stazione un agente dicasa Ripandelli. Antichi legami, avevo con quella casa, fortificati da nuova amiciziacol mio Ettore, già mio collega, perfetto gentiluomo e perfetto amico. Non trovainessuno, ma quel bravo agente, saputo il mio nome e la mia intenzione, mi fece glionori di casa, e mi si offerse compagno al viaggio.

Fu spedito un corriere a Rocchetta di Sant’Antonio, la porta del mio collegio daquel lato. Doveva annunziare il mio arrivo, e consegnare una mia lettera al Sindaco.

Chi fosse il Sindaco, non sapevo. Ma, conoscendo le piccole gelosie de’ paesi, èstato sempre mio costume di indirizzarmi ai sindaci, come quelli che rappresentanotutta la cittadinanza.

Scrivevo al Sindaco: «Vengo costà, diretto alla casa comunale, la casa di tutti, evoglio parlare a tutti gli elettori, senza distinzione. Ne dia avviso specialmente all’ar-ciprete Piccoli, mia vecchia conoscenza.»

Alcuni non credettero vera la lettera. Nelle lotte elettorali tra gli altri bei costumici è falsar telegrammi e lettere. È proprio sua questa lettera? E mentre disputavanofu annunziata la mia carrozza. Allora si posero a cavallo tutti, e mi vennero incon-tro.

Alla voltata mi fu mostrato quello spettacolo. Gridavano: Viva! Mi salutavanocon le mani, impazienti di stringer la mia. E la faccia mi raggiò, come se l’animafosse scesa lì.

Fra molta folla giunsi alla casa Comunale, e mi feci presentare gli elettori ad unoad uno. Strinsi la mano a parecchi, e tra gli altri a Ippolito e Piccoli, che passavanoper miei avversari.

Poi dissi così: «Saluto con viva commozione Rocchetta, la porta del mio collegionativo. Il luogo dove son nato è Morra Irpino; ma la mia patria politica si stende da

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Rocchetta la poeticaF. De Sanctis 153

Rocchetta insino ad Aquilonia. Io vengo a rivendicare la patria mia. Dopo un obliodi quattordici anni, voi miei concittadini, travagliati da lungo ed ostinato lavoro diparecchi candidati, avete all’ultima ora improvvisata la mia candidatura, ed aveteintorno al mio nome inalberata la bandiera della moralità. Siate benedetti! E possaquesta bandiera esser principio di vita nuova! Voi mi avete data una maggioranzanotevole. Eppure quell’elezione gittò il lutto nell’anima mia. Io vi avevo telegrafato:Bravi gli elettori che intorno candidatura improvvisata inalberarono bandiera morali-tà! Auguro a quella bandiera strepitosa vittoria domenica. La domenica venne, lavittoria ci fu, e mi parve una sconfitta. Non mi sapevo dar ragione di tanto accani-mento nella lotta, e del gran numero di voti contrari, e di certe proteste vergognose,che gittavano il disonore su questo sfortunato collegio. E in verità vi dico, che sequell’elezione fosse stata convalidata, con core sanguinante, ma deciso, vi avrei ab-bandonato. Ma benedissi quelle proteste che indussero Giunta e Camera a decreta-re la rinnovazione del ballottaggio. Era in questione l’onor mio, l’onore dei mieielettori. Ed io dissi: fin’ora sono stato in Napoli spettatore quasi indifferente diquella lotta. Non debbo io fare qualche cosa per questi elettori? Non mi conoscono,sono involti in una rete di menzogne e di equivoci. Io ho pure il debito d’illuminar-li, di dire la verità, di togliere ogni scusa agli uomini di mala fede. Ed eccomi qui inmezzo a voi, miei cari concittadini. Ed ecco la verità. Il Collegio è diviso in duepartiti che lottano accanitamente, comuni contro comuni, cittadini contro cittadi-ni, ed io non sono qui che il prestanome delle vostre collere e delle vostre divisioniÈ così che volete rendere la patria a Francesco de Sanctis No, io non potrei esseremai deputato di un partito per schiacciare un altro partito; non posso essere loscudo degli uni e il flagello degli altri; io voglio essere il deputato di tutti, vogliolasciare nella mia patria una memoria benedetta da tutti. Mi volete davvero? Voleteche io passi gli ultimi miei anni in mezzo a voi? Stringete le destre, sia il mio nomesimbolo della vostra unione. Ed io sarò vostro per tutta la vita.»

La commozione fu grande. Vidi alcuni piangere; altri, avversari ieri, amici oggi,stringersi le mani. Tutti applaudivano.

Ed io soggiunsi: «Signor Sindaco, ho pranzato a Candela, voi ci farete una cenetta,e voglio fare io il padrone di casa, voglio invitare i signori Ippolito e Piccoli. Mange-remo lo stesso pane, berremo lo stesso vino, faremo un brindisi a Rocchetta unita eprospera.»

Benissimo! benissimo! Tutti batterono le mani. Rocchetta non dimenticheràpiù quel giorno.

Prese allora la parola l’Arciprete Piccoli. Giovine e asciutto di viso, occhi vivi,avea nella fisionomia una cert’aria di finezza che non ti affida interamente. Rottoagli affari, uso a destreggiarsi mescolato in lotte locali, rimpiccolito in quel paesello,

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mi parve che in teatro più vasto sarebbe riuscito un buon diplomatico. Mi dissemolte gentilezze, con certi giri di frasi, che volevano dire: vedi, anch’io ho fatto imiei studi.

Parlò poi Ippolito. Faccia austera, aria risoluta, parola semplice e diretta. Disseche, dissipato ogni equivoco, Rocchetta sarebbe stata unanime e desiderava chequesto giorno fosse stato il preludio di unione sincera e durevole. Erano sentimentidi buon cittadino. Gli strinsi la mano con effusione.

Notai un prete, molto attento al mio dire, ma sentii che non avevo fatto presa sudi lui. Era in quel viso non so che di oscuro e compresso. Più tardi troverò io la viadi quel cuore.

Dopo cena, mi coricai subito. Sentivo sonno. Ma che sonno e sonno! Mi passa-vano innanzi le ombre della giornata. Vedevo l’arciprete Piccoli a cavallo correre,correre con quel suo cappello a tre pizzi, che mi parea sventolassero. Ferma, ferma.E tutta la cavalcata dietro. Come galoppava bene quel prete! Il povero Alfonso, ch’èil letterato del luogo, tirava forte le redini e faceva sì e no sul cavallo che poco locapiva. Un altro prete mi stava accanto, rubizzo e mezzo secolaresco, con aria sicu-ra, su di un cavallo che andava passo passo in grave atteggiamento, come uno diquei cavalli educati da Guillaume. Rocchetta si avvicinava, e quel gruppo di case inquel chiaroscuro mi parevano uomini che m’attendessero e gridassero: Viva! Leimmagini si confusero: ero stanco e sentivo freddo. E mi accoccolavo, e mi strofina-vo le gambe. Mi volsi dall’altro lato, non c’era verso di dormire. Ed ecco un suonodi chitarra giungermi all’orecchio, con un canto a cadenze e a ritornello, tra granfolla di contadini, che battevano le mani e mi gridavano: Viva! Bravo Rocchetta,diss’io. Mi accoglie a suon di poesia. E tesi l’orecchio, ma non potei raccapezzarverbo di quella canzone. Lungo tempo cantarono e gridarono; forse quella bravagente avrebbe voluto vedermi, sentirmi. Poi a poco poco si fe’ silenzio, ma quelsuono mi errava deliziosamente nell’orecchio. Io mi applaudiva di quell’accoglien-za. E se tutti gli altri comuni rassomigliano a Rocchetta, chi potrà più separarsi daquesto collegio? Che potenza ha la parola, pensavo, la parola sincera e calda cheviene dal cuore! Io conquisterò con la mia parola tutto il collegio, e la mia conquistasarà un beneficio, lenirà i costumi, unirà gli animi. Ma la voce del buon sensorispondeva: credi tu di poter fare miracoli? Sei ben certo che tu, proprio tu haiprocurata questa riconciliazione? Qui la materia era già ben disposta. Sarà il mede-simo a Lacedonia? E un qualcuno m’aveva già detto: a Lacedonia non sarà così.Fantasticando, sofisticando, mi addormentai.

La mattina girai un po’il paese. Faccie allegre e sincere, bella e forte gioventù. Adestra, a sinistra, gruppi che mi salutavano. Volli vedere cantanti e sonatori, e dissiloro che volevo battezzare quel paese così allegro, e lo chiamai Rocchetta la poetica.

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Rocchetta la poeticaF. De Sanctis 155

E vennero le visite. Rividi la Luisa, a cui ero stato fidanzato giovanissimo, oramadre felice di robusta e allegra prole. «E, buon per te - le dissi - che si fecero lenozze. Che vita avresti avuta appresso a me! Prigioni, esili e miseria. Tu hai avutopiù giudizio di me, e ora sei ancora una rosa». Fui in casa Piccoli. E mi venneincontro un altro prete, faccia chiara e aperta che faceva contrasto con l’aria argutadel fratello arciprete. Vidi casa antica, illustrata dalle immagini degli antenati, guar-data con sospetto da case nuove di gente laboriosa e industriosa. Feci altre visite.Attento! dicevo tra me. Un tal prete Marchigiani non visitato mi divenne in Sessanemico inespugnabile. Eppure dimenticai uno, quel prete dal viso oscuro. E credoche me ne volle. Credo.

Giunse il sindaco di Lacedonia con parecchi altri. Si fece una sola cavalcata e viaa Lacedonia. Io mi sentivo purificato. Venuto con un disegno non ben chiaro, e conmolta passione, alla vista dei miei concittadini non ci fu in me altro sentimento, chedi riacquistar la mia patria. Essi m’avevano già conquistato; dovevo io conquistarloro, guadagnarmi i loro cuori. E la cosa mi pareva facile. Rocchetta la poetica avevatrovato il motto dell’elezione. Nel partire, serrandosi intorno a me, gridavano:

«Tutti con tutti.»Ed io, rapito, risposi: «E uno con tutti.»Era realtà? Era poesia? In quel momento era realtà. Le mani si levarono. Pareva

un giuramento. Tutti ci sentivamo migliori.

[Tratto da Un viaggio elettorale, FRANCESCO DE SANCTIS, Napoli 1876]

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Mariateresa Di Lascia (Rocchetta Sant’Antonio 1954 - Roma 1994). Per laprima volta la provincia di Foggia sale sul gradino più alto del Premio Strega,e lo fa con un romanzo caratteriale ambientato in una terra arida di grandieventi ma non certo di emozioni. Passaggio in ombra, così come Il Gattopar-do, pur essendo un’opera postuma s’impone nel più prestigioso premio letterarioitaliano, e così come capitò per il memorabile romanzo di Giuseppe Tomasi diLampedusa (“cestinato” dalla Einaudi per volontà di Elio Vittorini) diviene unbestseller dopo essere stato rifiutato dai più grandi editori italiani. Tranne cheda Gabriella D’Ina (direttore editoriale della Feltrinelli) che lo pubblica nelgennaio del 1995, a pochi mesi dalla morte dell’autrice.

Nella casa dove sono rimasta, dopo che tutti se ne sono andati e finalmente si èfatto silenzio, mi trascino pigra e impolverata con i miei vecchi vestiti addosso, e lescatole arrampicate sui muri scoppiano di pezze prese nei mercatini sudati del ve-nerdì. Ormai sono libera di non perderne neanche uno, e ho tutta la mattina perstare in mezzo alle baracche a rovistare a piene mani, fra stoffe colorate e sporcheche qualcuno, per sempre sconosciuto, ha indossato tanto tempo fa.

(...) Da ragazza mi vestivano come un’attrice del cinema, e io guardavo il mon-do con i miei occhi di pupa di pezza, lunghi e ricciuti come le ali, di una farfalla.Nessuno si accorse mai che l’occhio destro era completamente cieco per una mac-chia che mi era venuta fin da bambina, contro la quale non hanno saputo fare nullaneanche i medici che poi ho incontrato nella vita.

Avevo i capelli biondi e una testa leonina che si faceva guardare quando cammi-navo, immersa nei miei pensieri, e le macchine si fermavano bruscamente per nontravolgermi sulla strada. Ho vissuto in ogni città di questo paese e non ho potutofermarmi, inseguita com’ero sempre dai mille mostri atroci della mia fantasia. Sonoandata pellegrina di strada in strada, di casa in casa, cambiando pure i bar dove mi

Passaggio in ombra

Mariateresa Di Lascia

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piaceva prendere il caffè della mattina, perché non trovassero le mie tracce. Letracce dei miei racconti di principessa esule su questa terra senza anima, dove i mieipolmoni hanno trovato difficile perfino respirare. (...)

[Tratto da Passaggo in ombra, MARIATERESA DI LASCIA, Feltrinelli, Milano 1995]

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PARTE VII

Bovino

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Pietro Paolo Parzanese (Ariano di Puglia 1809 - Napoli 1852). Poeta, docentedi teologia, autore delle opere Canzoni popolari (1841), Canti del Viaggianese(1846) e della tragedia pubblicata postuma Sordello (1911). Abile traduttoredi Hugo, Byron e Lamartine, compose la prosa Il vallo di Bovino durante unviaggio in Puglia compiuto nel 1845.

Tacito, solo, e senza compagnia, me ne portavano i tre sparuti ronzini, attraver-sando le pianure di Camporeale le quali si stendevano come un tappeto di verzuraun cotal poco gialleggiante; ed il sole inviandovi su qualche raggio furtivo, vi susci-tava mille gradazioni di colori bellissimi. In questo prendemmo a discendere versola valle irrigata dal fiume Cervàro, e guardammo con un po’ di stizza rotti i canali edissipate le acque che mettevano nella fontana fabbricata per comandi di Re CarloIII, in capo al ponte. Io non sono di quelli che vogliono scritte in latino eziandio letabelle de’ barbieri e de’ macellai: ma qualora mi viene sott’occhi una bella epigrafelatina, scritta con attica semplicità, e che non sia una noiosa ripetizione delle solitefrasi imparate a scuola, me ne viene un gran piacere all’animo, e parmi di sentirerinascere nel mio petto la dignità de’ nostri avi conquistatori del mondo.

E però non fu mai, che passassi d’innanzi alla fontana di Camporeale, che nonrileggessi la stupenda iscrizione di Mazzocchi uno di quegli uomini di cui il similenon può impastarsi così presto. Che severità di stile! che nitor di parole! e come nebalza chiaro e nettissimo il concetto! Fu un tempo, che mi adoperai a volgere initaliano la epigrafe mazzocchiana: come vi sia riuscito non so; ma questo è utilestudio a chi volesse addestrarsi a scriverne delle italiane.

Questo cammino, o viandante,innanzi per lo stroppio degli animaliimmeritatamente dettoCAMPO-REALE

Il vallo di Bovino

Pietro Paolo Parzanese

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Verso Sud162 D. Grittani

CARLO RE DELLE SICILIE: P. A. F.PROVVEDENDO ORA A TANTO DISAGIO.APPIANATO IL SENTIEROED AGGIUNTE LE DELIZIE DI UN’ACQUA PERENNE,IL. LUOGO AL NOME ACCONCIÒA. D. MDCCXXXVII.In sul finire della discesa, e propriarnente dove il fiume facendo gomito divide

Principato Ulteriore da Capitanata, stavasene diritto e immobile, come una statua,un giovinotto vestito con uno di quei camicini, che oggi dì si usano per viaggio da’forestieri, siano signori baroni, siano venditori di coperte o di zolfanelli. All’avvici-narsi della nostra carrozza si appressò anch’egli, e in buono italiano disse al cocchiere:

- Potrei avere un posto in carrozza? -- Signore non posso accontentarvi; dacché dentro non si vuol compagnia: se

volete acconciarvi ... -- Sulla tua seggiola: tanto meglio, chè almeno potrò fumare senza recar fastidio

a nessuno: e così dicendo, già saltava lesto e svelto per adagiarsi in sul di fuori: ma ionon glielo consentii, e lo pregai volesse entrare in carrozza.

Era un buon francese, il quale per i suoi negozi dimorava da parecchi anni nelnostro regno, ed allora viaggiava alla volta di Foggia. un po a piedi un po’ in vetturacome gli tornava più opportuno; ma ciò solamente per giovanile bizzaria, a quantomi parve; perchè la borsa aveva piena di bei gruzzoletti di oro e di argento.

Non passarono tre minuti, ed eravamo già entrati di uno in altro ragionare, conquella disinvolta speditezza ch’è tutta propria de’ Francesi. Nelle lettere e nella storiamezzanamente informato, I’italiano parlava con qualche nettezza; ne’ modi pienodi urbanità e di cortesia. Non essendo letterato di professione, nè viaggiatore poeta,di noi e delle nostre cose parlava senza disprezzo: e la bontà del nostro ingegnoconfessava non temer paragone, nè per nemico volger di tempi potersi arrugginire.Ascoltandolo così parlare a me venivasi allargando il cuore, e se non fosse statosegno di troppa dimestichezza, me lo avrei abbracciato e baciato quel buon france-se. Quanto diverso da molti suoi concittadini, i quali in versi e in prosa vomitanoogni mille bestemmie contro il nostro paese! O Esopo, e dove te ne stai, che nonvieni a ricantare in faccia a costoro la favola dell’asino che tira un calcio al leone?

Intanto che io così fantasticava e guardava la nebbia che lenta levavasi dal Cervàro,come fumo che sbocchi dal fondo di una fomace; il Francese con grande curiositàstavasi a sbirciare per entro una lente i due villaggi di Savignano, e di Greci, chel’uno contro l’altro si guardano dalla cima di due monti ripidi, scoscesi, selvaggi.Sono come due castelli fabbricati a guardia dell’ingresso che mette in quella lungagola chiamata il Vallo. Su per una viottola che serpeggia un lato del monte, a sinistra

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Il vallo di BovinoP.P. Parzanese 163

tutta scheggiata e pietrosa, salivano in fila, come le grù, una quindicina di fanciulle,recandosi ciascuna sulle spalle accomodato a due funi un fascio di legna: e conmolta armonia cantavano a coro una canzone, che nè io intendeva, nè il mio com-pagno.

«Udite, come vanno di accordo quelle voci, e quanta passione si chiude in quelcanto: ma per tendere che io faccia l’orecchio non ne capisco una parola: è purdifficile la vostra lingua!»

«Voi v’ingannate. Signore’ io gli risposi; giacchè le parole di quel canto non sonomica italiane; e per quanta pratica io abbia di quella buona gente, non mi è riuscitogiammai di impararne la lingua!»

«Se non vi spiegate più chiaro’ è come se udissi il borbogliare di un fiasco.»«Eppure la cosa è naturalissima. Gli abitanti di quella terra situata lassù a sinistra

non sono che una colonia di albanesi, venuti per quanto si dice a combattere controi vostri avi, e capitanati dal celebre Scanderberg; or come potremmo intenderne lalingua, ch’è tuttora quella de’ loro padri?»

«Ora capisco: e mi ricordo di averne udito a parlare anco in Napoli, dove mi handetto delle cose curiose intorno a’ costumi ed all’indole di cotesti albanesi italianizzati.»

«Ma di questi costumi molto già si è perduto, e fra pochi anni, non rimarrà forseneppur memoria delle usanze superstiziose ed un po’ selvagge di questo popolo.Nella Basilicata sono molte terre di albanesi, poste qual dentro le gole de’ monti, equali presso i boschi: contrabbandieri e banditi ferocissimi furono ne’ tempi passa-ti, e molte istorie si raccontano di loro, piene di ferocia e di sangue. Guardatequell’uomo sulla porta della taverna, che ora mi fa di cappello: consideratene l’aspetto:quegli è un albanese. Bruna la carnagione, neri i capelli, fiera la guardatura, tumidoil labbro; di questa stampa son quasi tutti gli albanesi, risoluti e di cuore. Gelosidelle loro donne, fino a lasciarsi per esse condurre a feroci delitti: ospitali sì, che unforestiero è sempre il ben venuto, e siede con loro presso il focolare come se fossedella famiglia. Usano come bevanda pregiata un vino generoso entro cui sono bol-liti aromi forti ed inebbrianti; e pel forestiero ve ne ha sempre la sua tazza: lo chiamanovino caldo (ingroght).

Nelle nozze e ne’ mortori hanno particolari cerimonie, ed usanze tradizionali.Alla nuova sposa la madre del marito presenta un pane, una pentola di olio, e forseanche la conocchia; nel che vuole raffigurarsi la cura delle domestiche faccende,dalla suocera ceduta alla sua giovine nuora, come per riposarsi nella vecchiezza. Nèil fidanzato recasi la sposa a casa senza aversela prima conquistata; perchè gli èmestieri rapirla di mezzo ad un cerchio di fanciulle, che tenendosi pcr mano ledanzano attorno, e la difendono di tutta forza; onde spesso avvienc che qualchepovero giovine nc riporti delle busse e delle ferite.

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Tra le donne ve ne ha delle belle con occhi neri pieni di baldanza una bellezzacome quella delle arabe, se ci dicono il vero i viaggiatori. Amano il canto, e la vocehanno limpida e passionata. In una canzone di amore che mi venne traducendoparola per parola un mio amico albanese, si vede chiaro, che in questa gente anchela più delicata passione è senza sguaiataggine, e piena di vero affetto. Sono duefidanzati che cantano a vicenda. Udite, se vi piace:

«La donna mia è tra le belle bella:Nero l’occhio ed il crinLa vidi all’alba e mi parea la stellaChe si affaccia al mattin.- L’amico mio è bello e giovinettoCome un grappolo di or.A vederlo appoggiato al suo schiappettoSentii tremarmi il cor.La donna mia va sola alla fontanaChe sta in fondo al burron:Da una macchia mentr’ella si allontana,io ne odo la canzon.L’amico mio va solo alla foresta».

[Tratto da Un viaggio di dieci giorni in Puglia, incluso nell’opera Poliorama pittoresco, Anno X, PIETRO

PAOLO PARZANESE, Napoli 1845]

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PARTE VIII

Cerignola

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Viaggiatore tedesco che attraversò la Puglia verso la prima metà dell’Ottocento,Tommasini descrisse l’esperienza del suo faticoso viaggio in un suggestivo diariodal quale abbiamo estratto questa lettera scritta da Cerignola nell’autunno del1825.

Cerignola, 26 ottobre 1825

Anche la strada che da Trani porta a Barletta costeggia il mare. Fra le due localitàsi vedono meno campi coltivati di quanti non se ne vedano in genere sulla costa.Barletta è una città dall’aspetto un po’ antico, con case alte, costruite con lastroni dipietra calcarea. Le opere di fortificazione che la circondano sono di scarsa impor-tanza. Fuori della città si erge un castello di modeste proporzioni. Il porto ha unaspetto strano. Il molo, infatti, si incunea nel mare sino all’altezza di un secondomolo trasversale fonnato in parte da una roccia naturale, a ridosso del quale sitrovava un numero infinito di brigantini. Era da Napoli che non ne vedevo tanti inuna volta. Da questo molo si ha uno scorcio stupendo su tutta la costa, ma soprat-tutto sul Gargano che si protende a sinistra verso il mare. Per godermi il panoramanon mi è certo mancato il tempo. Mi avevano detto, infatti, che, per ritirare il miopassaporto, non essendosi il sottintendente ancora alzato, sarei dovuto ripassaredopo due o tre ore.

Avrei volentieri visitato le rovine di Canne che si trovano non lontano da qui,non tanto per le rovine in sé che saranno sicuramente di epoca posteriore e di scarsointeresse, ma per la particolare configurazione del Canne della Battaglia. Il passa-porto rilasciatomi da quei maledetti organi di polizia mi vieta, però, ogni deviazio-ne dall’itinerario prestabilito.

Da Barletta sino all’Ofanto la strada costeggia il mare. Dopo avere attraversatoil fiume su un lungo ponte di legno. ci s’inoltra verso l’interno dove continua laserie di masserie e di terreni coltivabili. San Cassano, un piccolo centro abitato, si

Lettera da Cerignola

Justus Tommasini

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Verso Sud168 D. Grittani

trova a poca distanza dalla strada; a sinistra, dove incominciano a delinearsi i con-torni delle prime montagne. Si scorge, in cima ad una roccia, Castel del Monte, e,a destra, verso il mare, l’importante Casale della Trinità e, nelle prossimità, le saline.La campagna è ora meno coltivata con delle masserie sparse qua e là mentre lacarrozzabile, come già nel tratto Taranto-Lecce, a tratti è interrotta.

Cerignola è una cittadina passabile con una locanda piú che discreta. L’oste,napoletano di nascita, mi ha chiesto i numeri del lotto, che gli ho dato, e, perricompensanrmi, mi ha offerto una bottiglia di ottimo vino che, come mi è statosubito precisato, non sarebbe stata messa sul mio conto. Auguro a quel galantuomoche la sua bottiglia gli ritorni centuplicata, ma, quand’anche vincesse, è certo chenon ne avrò alcun merito.

Verso sera, provenienti da Bari, sopraggiunsero due cavalieri che subito rico-nobbero in me la persona di cui avevano già sentito parlare per via dell’arresto. Ilprimo cavaliere, un uomo un po’ grossolano, eccessivamente premuroso e gentile’mi dà l’indirizzo di una locanda di Foggia, la cittadina dove sono diretto, dovepernottare e si rallegra sin d’ora del piacere che avrà di rivedermi. È chiaro che ha inmente qualcosa, ma non sono così bravo da indovinarlo.

[Lettera di Justus Tommasini tratta da Viaggiatori tedeschi in Puglia nell’Ottocento, a cura di TEODORO

SCAMARDI, Schena, Fasano 1992]

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Friedrich Leopold Stolberg (Bramstedt 1750 - Sondermühlen 1819). Apprez-zato poeta tedesco, dopo la conversione al cattolicesimo Stolberg compose il poe-ma apocalittico L’avvenire (1781) e il saggio Storia della religione di Cristo(1806-18). Sul finire del Settecento visitò a lungo la Puglia, regione dallaquale restò suggestionato al punto da ambientarvi gran parte dell’opera Viag-gio in Germania, Svizzera, Italia e Sicilia (1822).

Barletta, 4 maggio 1792

(...) A Cerignola, cittadina ben costruita, si rinviene ancora una pietra miliareromana con un’iscrizione del tempo di Traiano.

Nella locanda si radunarono molte persone e, secondo l’usanza locale, anche lanostra stanza venne invasa dalla gente che ci guardava a bocca aperta come se fossi-mo delle marmotte. Ci ponevano domande sulla nostra terra natia, sul nostro viag-gio e poi parlavano del loro paese, del campo di battaglia di Canne, delle antichitàdella zona. Il nostro gentile oste mandò a chiamare un certo Signor GiovanniDanielle, un giovanotto molto istruito che era ben informato e della regione e degliscrittori antichi. Con grande calore ci parlò del suo conterraneo Orazio, la cui cittàVenusium (ora Venosa) dista da Cerignola soltanto 18 miglia. Da lui appresi chel’Atabulus, che secondo Orazio dissecca i monti della Puglia, sarebbe un ventod’oriente scottante, chiamato ora dai pugliesi Altino. Egli ci fece vedere, da un colle,il golfo di Manfredonia e il Monte S. Angelo. Con il tempo limpido si dovrebbescorgere anche Manfredonia e i resti dell’antica Arpi, fondata da Diomede. Nonlontana da Cerignola si trovava l’antica Salapia, le cui rovine conservano il nomeSalpe. Don Giovanni possedeva una casa di campagna proprio vicino a Salpe, dovedei lavoratori, mentre zappavano la terra, alcuni anni fa, rinvennero un vaso anticodi grandi dimensioni, la cui imboccatura era sigillata accuratamente con piombo.Nella speranza di trovarvi del denaro, l’aprirono ma vi era soltanto dell’acqua molto

Da Cerignola a Canne della Battaglia

Friedrich Leopold Stolberg

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Verso Sud170 D. Grittani

profumata. È usanza in tutta l’Italia del Sud e Sicilia di chiamare le persone con illoro nome di battesimo. Ma insieme al nome non si usa dire Signore, ma Don. Allastessa maniera degli inglesi che mettono Sir davanti al nome del baronetto e delCavaliere: Sir Isac, come Don Giovanni Don Giuseppe ecc.

Colmi di delusioni per essersi ingannati, capovolsero il vaso, versando questapreziosa acqua di nardo, che diffuse, per ben tre giorni,un profumo gradevole neidintorni. Si sa bene quale importanza attribuissero gli orientali, ma anche i greci ei romani, a quest’acqua di nardo.

Durante la nostra passeggiata si era sparsa la voce della presenza di alcuni straniforestieri, e così si unì a noi un cospicuo seguito di curiosi. Alcuni ci seguironopersino nella stanza. L’oste pregò Iacobi di annotargli i nostri nomi con relativiindirizzi, in modo da potersi, per sua tranquillità, informarsi per lettera se eravamoben rientrati.

Don Giovanni ci ha accompagnato oggi a Canosa e a Canne, divenuta moltofamosa per le vicende dei romani. Attraversammo il fiume Ofanto, l’Aufidus degliantichi. Già in questa stagione si abbassa notevolmente e a metà estate dovrebbetrasformare il suo largo letto di ciottoli in un ruscello; però in autunno e in invernodiventa impetuoso, meritandosi l’appellativo longe sonans, datogli da Orazio (IV,od.), ancora talvolta dovrebbe inondare i campi come al tempo dei poeta, cheparagona questa corrente al giovane guerriero Claudius, figliastro di Augusto:

Sic tauriformis volvitur Aufidus qui regna Dauni praefluit apuli, cum saevithorrendamque cultis diluviem meditatur agris.

La Canosa odierna occupa soltanto una parte dell’antica città di cui si vedonoancora alcune tombe, una porta e i resti delle mura. Volentieri avremmo rintraccia-to la tomba della buona Busa, una nobile matrona che, dopo la battaglia di Canne,aveva rifornito generosamente di cereali, vestiti e denaro quattromila profughi ro-mani, ai quali i cittadini di Canosa avevano dato alloggio, e per questo essa fuelogiata pubblicamente dal Senato (Tit. Liv. XXII c. 52). Su consiglio di Orazio,avevamo portato con noi del pane da Cerignola e avevamo fatto molto bene. NamCanusi lapidosus. Il pane di Canosa è in effetti ancora oggi duro come la pietra epeggiore di quant’altro io abbia trovato in Italia, dove in molti luoghi il pane ècattivo. A buon diritto si attribuisce ciò alle macine dei mulini che a Canosa sonotroppo morbide. Ma com’è mai possibile che gli abitanti da oltre diciotto secoli nonabbiano pensato a procurarsi macine più idonee?

Nella chiesa principale, un edificio gotico per il resto insignificante, vi sono seicolonne di verde antico. Vicino a questa chiesa è sepolto il Cavaliere Boemondo,reso immortale dalla Gerusalemme Liberata di Tasso. Con Livio alla mano ammi-rammo il campo di battaglia di Canne. In quale maniera la visione di quei luoghi fa

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Da Cerignola a Canne della BattagliaF.L. Stolberg 171

rivivere le vicende del passato, dando forma e colore alle loro ombre errabonde!La descrizione di Livio è eccellente! Potremo chiaramente vedere dove si trovava

Annibale che schierava l’ala sinistra verso l’Aufidus e l’ala destra sulle dune, dallaparte del mare. E come i romani avevano in faccia il vento di Sud-ovest che spiravadal monte Volture (ventum Volturum) e, nello stesso tempo, il sole del pomeriggio.

La battaglia si svolse nel periodo della vendemmia. Come allora, anche adesso ilsole scottante del pomeriggio ci colpiva e il vento di Sud-ovest soffiava dal Volturnosulla pianura sabbiosa, sollevando con sé polvere.

Non si è voluto comprendere come mai i romani fuggitivi abbiano cercato disalvarsi verso Canosa e non attraverso il fiume ! L’Ofanto infatti d’estate si abbassasempre più in modo da poter essere attraversato; anche una parte della legioneromana, che era accampata sull’altro lato, era passata all’attacco attraversando ilfiume. Ma non si tiene conto però che, nella ritirata generale, i fuggiaschi si riversa-rono in tutte le direzioni e che soltanto un piccolo manipolo, a cui forse l’ottimacavalleria cartaginese aveva tagliato ogni via di salvezza, era riuscita a rifugiarsi aCanosa. Né si può escludere che lo stesso Annibale abbia gridato al suo esercitovincitore: fermatevi, risparmiate i vinti!

Sotto una duna scorre una sorgente rumorosa ricca d’acqua. La tradizione vuoleche Paulus Emilius, mentre le sue ferite lo dissanguavano, si fosse qui dissetatoprima di morire.

Questa intera regione è molto brulla. Vicino a Barletta si trovano però magnificicampi di grano e vigneti, le cui viti non si tirano su più di un cubito. Si sostiene chein questa maniera il vino maturi nel migliore dei modi, poiché il calore della terra,attraverso il terreno roccioso, penetra meglio negli acini dei grappoli. Il vino diquesta zona è un rosso forte e focoso. Dato che si vende a buon prezzo, come da noila birra, il vino era diventato per gli svizzeri, che tempo fa occupavano Barletta,causa di danno e pericolo per la quantità smisurata da loro trangugiata. (...)

[Lettera sessantanovesima di Friedrich Leopold Stolberg tratta da Viaggio in Germania, Svizzera, Italia eSicilia, Amburgo 1822; inclusa nella raccolta Viaggiatori in Puglia dalle origini alla fine dell’Ottocento, a curadi MARIA LUISA HERRMANN e ANGELO SEMERARO, Schena, Fasano 1990]

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Nicola Zingarelli (Cerignola 1860 - Torino 1935). L’autore del primo Voca-bolario della lingua italiana, pubblicato nel 1922 e tutt’oggi strumento impre-scindibile per la conoscenza del nostro lessico, in questa lettera confessa al suoamico Michele Barbi come le preoccupanti condizioni di salute della madre loriportino, di tanto in tanto, nella natìa Cerignola.

Napoli, Sabato Santo 24 marzo 1894

Carissimo,tu ti sarai meravigliato del mio silenzio, ma sappi che ho avuto mia madre in

pericolo di vita, e ho dovuto accorrere al suo capezzale, laggiù a Cerignola, dovesono rimasto sette giorni. Ti manderò gli articoli subitissimo. Desideravo da tel’indice delle Prose o Operette Morali del Leopardi pubblicate costà dal Piatti il 1834.Il numero mancante della I serie del Bullettino è l’ottavo. Ma avendo ricevuto sinoall’undicesimo, non so se dopo ne sia uscito qualche altro. Presi l’impegno di fareuna edizione delle Op. Mor. del Leopardi per le scuole, e son quasi al termine. Maè stato un lavoro faticosissimo per me, che son avvezzo a fare le cose senza leggerez-za. Buona Pasqua e credimi aff. mo amico

Zingarelli

Al capezzale di mia madre

Nicola Zingarelli

[Lettera di Nicola Zingarelli tratta da Carteggi di Nicola Zingarelli, a cura di CARMEN PRENCIPE DI DON-NA, pubblicato con gli auspici della Società Dauna di Cultura, Apulia Editrice, Foggia 1979]

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Pietro Mascagni (Livorno 1863 - Roma 1945). Il compositore, tra i maggioriinterpreti del verismo musicale italiano, dimorò a Cerignola per almeno cinqueanni, dal 1887 al 1892, periodo durante cui diresse la Compagnia Luigi Marescae compose - o quantomeno ultimò - le opere musicali Cavalleria Rusticana,Amico Fritz, Rantau, Guglielmo Ratcliff e Silvano. In queste due letterescritte a Vittorio Gianfranceschi, il maestro toscano descrive la sua permanenzanella cittadina dauna e la grande gioia dovuta alla nascita del figlio, avvenutaproprio a Cerignola. Avvenimento che per qualche mese fu costretto a nasconde-re, poiché non ancora sposato con Lina Carbognani (la compagna parmigianacon la quale Mascagni condivise la propria abitazione cerignolana).

17 febbraio 1887, Cerignola

«Mi scritturai a Napoli con una compagnia d’infimo ordine, con una paga moltomisera. Siamo stati oltre Napoli, a Benevento, a Foggia e poi qui a Cerignola. Io miero scritturato perché a Napoli non potevo più vivere (ho lasciato un monte didebitucci che vado pagando giornalmente, privandomi di un sigaro) [e sappiamoche il sigaro fu un compagno inseparabile per il musicista] - e fino a quindi giorni faci è stata sempre la speranza di venire al Fossati» [un teatro che a Milano allestivaspettacoli di operette di ottimo livello]. «Adesso è svanita questa speranza e la com-pagnia andrà in Sicilia, dico andrà perché è pure probabile che la Compagnia sisciolga, qui a Cerignola abbiamo fatto bruttissimi affari e regna un grande malu-more. Se la compagnia si scioglie, io mi trovo a morire di fame. Stando qui aCerignola, ho incontrato molta simpatia in tutta la cittadinanza e parecchi signorimi hanno domandato se sarei restato qui a dare lezioni di pianoforte».

Ho ingannato persino il Sindaco

Pietro Mascagni

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Verso Sud176 D. Grittani

10 luglio 1887, Cerignola

«Il periodo più brutto era per me il battesimo del bambino ed anche quello hosuperato in un modo provvidenziale. Si trattava di ingannare persino il Sindaco,che è il mio più forte protettore e che mi ha affidato le figlie… Cerignola è un paeseantico, bigotto, superstizioso, e Dio ne guardi se si sapesse che la donna che sta conme non è mia moglie!». Ma come aveva sistemato il Maestro la sua situazione dicoppia illegale, in quel tempo davvero pericolosa per una carriera? È proprio veroche un buon amico si trova sempre e in questo caso sarà un «impiegato municipale,addetto alle nascite, ai matrimoni ed alle morti», questo giovane si è mostrato tantomio amico che io ho voluto che fosse compare del bambino; io gli ho detto tutto, eho pensato a regolare le cose in maniera che nessuno ha potuto dubitare dellanostra legittimità di marito e moglie. Però per mille ragioni ho promesso a mestesso di sposare in realtà questa donna che merita tutto.

[Lettere di Pietro Mascagni tratte da Mascagni ritrovato 1863/1945: l’uomo, il musicista, Edizioni Sonzo-gno, Milano 1995]

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PARTE IX

Manfredonia

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Norman Douglas (Tilquihillie, Scozia 1868 - Capri 1952). Scrittore inglese,visse a lungo nell’Italia meridionale, terra da cui trasse ispirazione per i suoiromanzi Terra di sirene (1911), Vento del Sud (1917), Vecchia Calabria(1915) e Ultima messe (1946). La prosa che abbiamo scelto per questa anto-logia gli fu suggerita da un viaggio in carrozza compiuto da Manfredonia aMonte Sant’Angelo nel 1915.

Chiunque guardi una carta geografica del promontorio del Gargano vedrà cheè cosparso di nomi greci di persone e luoghi, Matteo, Marco, Nicandro, Onofrio,Pirgiano e così via. Non c’è da stupirsene, perché queste regioni orientali erano incontatto con Costantinopoli sin dai tempi antichi e lo spirito di Bisanzio ancor lesovrasta. Fu su questa montagna che l’Arcangelo Michele, durante la sua primaapparizione nell’Europa occidentale, si degnò di comparire a un vescovo greco diSiponto di nome Laurenzio; e sempre, da allora, una caverna, santificata dalla pre-senza di questo alato messaggero di Dio, è stata la meta di milioni di pellegrini.

La roccaforte di Sant’Angelo, metropoli del culto europeo degli angeli, è sortaattorno a questa grotta devota e onorata; nei giorni di sole le sue case sono chiara-mente visibili da Manfredonia. Coloro che desiderino offrire la propria devozioneal santuario non possono far meglio che portarsi appresso Gregorovius, come cice-rone e mistagogo.

Invano attesi una bella giornata per scalare le alture. Infine decisi di farla finita eandarvi, con qualsiasi tempo. Fu convocato un vetturino e le trattative per partire ilmattino successivo furono portate a termine. Sessantacinque franchi, cominciò adirmi, era il prezzo pagato da un inglese l’anno precedente per una visita di ungiorno al sacro monte. Forse è anche vero, gli stranieri sono pronti a far qualsiasicosa, in Italia. O forse me lo disse solo per «incoraggiarmi». Ma oggidì è piuttostodifficile riuscire a incoraggiarmi. Ricordai all’uomo che c’era un servizio di diligen-

L’angelo di Manfredonia

Norman Douglas

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Verso Sud180 D. Grittani

ze che faceva andata e ritorno per un franco e mezzo e già quel prezzo mi sembravapiuttosto esoso. Avevo visto tante grotte sante in vita mia! E, in fin dei conti, chi eraquesto San Michele? Il Padreterno, per caso? Nulla del genere: solo un angelo qua-lunque. Ne avevamo a dozzine in Inghilterra. Fortunatamente, soggiunsi, mi eragià stata fatta l’offerta di unirmi a un gruppo privato per raggiungere la vetta incarrozza, una quindicina di persone dietro un minuscolo cavallino. E questa, comelui ben sapeva, era una spesa di pochi centesimi. E anche in tal caso, il cielo minac-cioso... Sì, ripensandoci, forse era più saggio rimandare del tutto l’escursione. Un’altravolta, il cielo permettendo. Accettava un sigaro a ricompensa del suo disturbo peresser venuto fin qui?

Con rapidità stupefacente e travolgente le sue pretese scesero a otto franchi. Fuil tabacco a compiere il miracolo. Un signore «che dà qualcosa in cambio di niente»(questa era la sua logica) – be’... non si può mai sapere che cosa si può riuscire aricavarne. Si accetti il prezzo e si corra il rischio! Affidò il sigaro alla tasca del suopanciotto per fumarselo dopo cena e se ne andò, vinto ma raggiante, entro di sé, diaccesa aspettativa.

Quando aprii gli scuri mi si parò dinanzi agli occhi una mattinata orribile:raffiche di pioggia e nevischio battevano contro i vetri. Ma non importava. Lacarrozza era ferma da basso e dopo la detestabile parvenza di prima colazione che èquanto basta per volgere i pensieri dell’uomo più equilibrato al suicidio e al delitto– quando impareranno i meridionali a mangiare una prima colazione decorosa aun’ora decorosa? – ci mettemmo in viaggio. Il sol faceva apparizioni di una brevitàirritante, per lasciarsi subito dopo inghiottire da un’oscurità pesante e, del percorsoche facevamo, vidi solo il vecchio tracciato sassoso che taglia qua e là le ventunsvolte della nuova strada carrozzabile. Cercai di raffigurarmi i prìncipi normanni,gli imperatori, i pontefici e altri diecimila pellegrini celebri che si arrampicavanoper quei pendii rocciosi – scalzi – in giornate come questa. Dovette essere messa adura prova persino la pazienza di San Francesco d’Assisi che compiva il pellegrinag-gio con loro e che, secondo Pontano, fece qui, come era su abitudine, un piccolomiracolo, en passant.

Dopo circa tre ore di viaggio raggiungemmo la città di Sant’Angelo. A quell’al-tezza di 800 metri faceva un freddo pungente. Seguendo il consiglio del vetturinoscesi subito al santuario; secondo lui là sotto avrebbe dovuto far caldo. La grandefestività dell’8 maggio era passata, ma torme di fedeli continuavano ad arrivare; eavevano un aspetto pittorescamente pagano, negli indumenti sudici e cenciosi, coni bordoni sormontati da rami di pino e con la bisaccia.

Nelle massicce porte di bronzo della cappella, che erano state fatte aCostantinopoli nel 1076 per un ricco cittadino di Amalfi, sono infilati anelli metal-

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L’angelo di ManfredoniaN. Douglas 181

lici, che il vero pellegrino deve percuotere furiosamente per attirare l’attenzionedelle potenze divine sulla sua visita e che, nella perorazione, bisogna ancora unavolta battere con la massima forza affinché il compimento dell’atto di adorazionepossa essere debitamente segnalato: a giudicare dal frastuono la divinità deve essereassai dura d’orecchio. A volte esse sono stranamente sorde.

I ventiquattro pannelli di queste porte sono ingenuamente incrostati con raffi-gurazioni smaltate di apparizioni di angeli assai svariati: alcune di esse recano iscri-zioni e la seguente è degna di nota:

«Prego e imploro i preti di San Michele di pulire questi cancelli una volta l’annocome ho ora mostrato loro, affinché abbiano sempre a essere lindi e lucenti». Laraccomandazione evidentemente non è stata eseguita da un bel po’ di anni.

Entrati dal portale si scende una lunga scalinata in mezzo a uno sciame fitto distraccioni devoti e maleodoranti, sino a un’ampia caverna, la dimora dell’arcangelo.È un’anfrattuosità naturale nella roccia, illuminata da candele. Qui la sacra funzio-ne procede con accompagnamento di vivaci arie d’opera eseguite da un organoasmatico; l’acqua sgocciola senza sosta dalla volta rocciosa sulle teste devote deifedeli inginocchiati, che coprono il pavimento, con candele accese in mano, don-dolandosi estatici e biascicando e salmodiando. Una scena veramente irreale. E ilvetturino aveva indovinato, quanto alla differenza di temperatura. Fa caldo laggiù,un caldo umido come in una serra. Ma l’aroma non può essere descritto comeun’emanazione floreale: il bouquet di tredici secoli di pellegrini sporchi e sudati.«Terribilis est locus iste» dice un’iscrizione all’ingresso del santuario. Verissimo. Inposti del genere si capiscono le usanze, e forse l’origine, dell’incenso.

Ciò nonostante mi ci soffermai e i miei pensieri tornarono all’Oriente, da dovesono derivate queste pratiche misteriose. Ma una folla orientale di fedeli non micommuove come queste masse europee di fanatici; non mi persuado mai a conside-rare dei pellegrini così appassionati senza una certa dose di inquietudine. Date loroil nuovo Messia, e tutta la nostra arte e le nostre conoscenze faticosamente accumu-late, tutto ciò che riconcilia l’uomo civile con l’esistenza terrena, viene buttato aiquattro venti. La società può trattare con i suoi criminali, ma sono gli entusiastiappassionati come quegli altri che costituiscono la minaccia alla sua stabilità. Rifles-sioni amare: ma il viaggio in salita aveva raggelato la mia solidarietà umana; e inol-tre, quella cosiddetta prima colazione...

Mi lasciai alle spalle quella torma strisciante. Salii i gradini, e approfittando diun raggio di sole, mi arrampicai là dove, sopra la città, sorge un’orgogliosa rovinaaerea nota come il Castello del Gigante. Su una delle sue pietre è incisa la data 1491– una certa Regina di Napoli, si dice, fu uccisa tra quelle mura ora crollanti. Questisovrani furono uccisi in tanti castelli che ci si chiede come abbiano mai trovato il

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Verso Sud182 D. Grittani

tempo di vivere, se pure per poco; la costruzione è un rudere e il suo portale èchiuso; ma nemmeno provavo un gran desiderio, in quel gelido soffiar del vento, diperlustrare l’interno privo di tetto. Potei tuttavia osservare che questa assurdità feu-dale reca un numero, come ogni casa abitata di Sant’Angelo, il numero 3.

Questo è l’ultimo spasso del governo italiano: rinumerare le abitazioni di tutto ilregno, e non solo le abitazioni occupate da esseri umani, ma mura, vecchie rovine,stalle, chiese, anche un occasionale stipite o una finestra. Si divertono un mondocon questo gioco, che promette di continuare a divertirli per un periodo di tempoillimitato – in effetti finché non si inventerà una nuova moda. Nel frattempo, fintantoche questa mania perdura, mezzo milione di funzionari dallo sguardo allegro, ar-denti di giovanile vigore, vengono assunti per affiggere questi numeri, che poi se-gnano con fare sbrigativo su una quantità dieci volte maggiore di agende, e registra-no in migliaia di archivi municipali, in tutto il paese, per scopi amministrativi im-perscrutabili ma di enorme importanza. «Abbiamo gli impiegati», come mi disseuna volta un deputato romano, «e pertanto essi debbono pur trovare qualche cosada fare». In complesso, quel giorno il tempo mi tolse l’appetito della ricerca e del-l’esplorazione. Sulla strada che conduceva al castello ebbi occasione di ammirare labella torre e di rimpiangere che, a prima vista, non esistesse alcun punto vantaggiosodal quale la si potesse rimirare per benino; fui anche colpito dal numero di piccoleraffigurazioni di San Michele, di un genere ultra giovanile; e infine, da certi vegliardidel luogo, ben sbarbati. Questi venerandi e decorativi briganti – perché tali sarebbe-ro stati fino a pochi anni prima – se ne stavano ora pacifici sulla soglia di casa conaddosso un mantello di pesante lana marrone, che donava loro assai, portato a mo’di burbus. L’indumento mi interessava, poteva essere un’eredità degli arabi che ave-vano dominato su questa regione per qualche tempo, spogliando il sacro santuarioe lasciando che il loro ricordo fosse perpetuato dall’attiguo Monte Saraceno. L’indu-mento, d’altra parte, potrebbe esser venuto dalla Grecia: è raffigurato sulle statuettedi Tanagra ed è portato dai moderni pastori greci. Anche da quelli sardi... Potrebbeanche essere una forma primordiale di abbigliamento dell’umanità.

La vista da questo castello deve essere stupenda nelle giornate limpide. Mentreme ne stavo lì, guardavo l’entroterra e ricordavo tutti i luoghi che avevo avutointenzione di visitare – Vieste e Lesina con il suo lago, e la Selva Umbra, il cui stessonome suggerisce il pensiero di radure rugiadose; quand’erano remote sotto nuvolecosì scoraggianti! Non le vedrò mai. La primavera esita a sorridere su questi gelidialtipiani; siamo ancora nella morsa dell’inverno.

Aut aquilonibusQuerceta Gargani laborantEt follis viduantur orni.

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L’angelo di ManfredoniaN. Douglas 183

Così cantava il vecchio Orazio, dei venti garganici. Scrutai l’orizzonte, alla ricer-ca del suo Monte Vulture, ma tutta quella zona era ammantata in una grigia cortinadi vapore: solo lo Stagno Salso – laghetto salato dove il Candelaro dimentica le sueacque mefitiche – brillava di una luce decisa, come un lenzuolo di piombo lucidato.Presto la pioggia riprese a cadere e mi indusse a cercar rifugio tra le case, doveintravidi la figura familiare del mio vetturino, seduto con aria sconsolata sotto unportico. Sollevò lo sguardo e osservò (in mancanza di meglio da dire) che mi avevacercato per tutta la città, nella tema che mi fosse capitato qualche guaio. Fui intene-rito da quelle parole; così intenerito che deposi un franco nel palmo riluttante dellasua mano e lo invitai a comperarsi qualcosa da mangiare. Un franco intero... Ah!pensò indubbiamente lui, «la mia teoria del vero signore: comincia a funzionare».Eravamo appena a metà della giornata. E tuttavia ero già disgustato dell’angelicametropoli e i miei pensieri cominciarono a volgersi di nuovo in direzione di Man-fredonia. A un angolo della strada, tuttavia, alcune sciolte vociferazioni in inglese ein italiano, che nulla mi avrebbe indotto a lasciar perdere qui, mi colpirono; prove-nivano – in apparenza – dai visceri della terra. Mi fermai ad ascoltare, scosso nel-l’udire un linguaggio scurrile in una città santa come questa; poi, spinto dalla curio-sità, scesi una lunga rampa di gradini e mi trovai in uno scantinato. Lì un gruppo diemigranti stava bevendo e giocando a carte – gente allegra; una buona metà di loroparlava inglese e, nonostante alcune frasi irriverenti, presto mi conquistarono conun «Ecco! Bevete questo, signore!».

Il cupo scantinato era un istruttivo pendant alla grotta dell’arcangelo. Un nuovotipo di pellegrino si è evoluto; pellegrini convinti che la traversata fino a Pittsburgnon sia più impegnativa di un viaggio in carrozza a Manfredonia. Ma la loro canti-na era impregnata di un odore di vino versato e di fumo di tabacco, invece dellasottile Essence des pèlerins des Abruzzes fleuris e, ahimè, l’oggetto della loro adorazio-ne non era l’angelo caldeo ma un’altra forma orientale egualmente antica: Mammone.

Parlavano molto di dollari; e udii anche diverse allusioni poco ortodosse al «com-mercio dell’angelo», commercio che loro definivano ormai «sfruttato»; nonchéun’osservazione nel senso che «solo chi è maledettamente stupido rimane in questopaese». In breve, questi individui erano all’altro capo della scala umana; essi erano iforti, gli energici: forse gli spietati; ma sicuramente gli intelligenti. E per tutto iltempo il calice faceva il giro del gruppo, con gioviale ripetizione, e tutti eranod’accordo che, qualsiasi potessero essere gli inconvenienti di Sant’Angelo, non v’eranulla da ridire sull’alcool del luogo. Era, in verità, un prodotto divino: un vino dimontagna di nobile pedigree. Questo pensavo mentre risalivo faticosamente le scale,rallegrato da questo incidente della caverna che faceva concorrenza all’altra, e leg-germente stordito dal fumo del tabacco. E qui, appoggiato allo stipite della porta,

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stava il vetturino che aveva indovinato dove mi trovavo, per un suo oscuro intuitomassonico di solidarietà. Il suo volto si aprì in un sorriso vacuo, e vidi presto cheinvece di rafforzare la propria costituzione con sano cibo aveva sperimentato i me-todi alcolici per difendersi dall’inclemenza del tempo. «Solo un bicchiere di vino -spiegò -. Ma il cavallo non è assolutamente ubriaco».

Quel quadrupede era pari all’eccezionalità della situazione. Gloriosamente in-differenti al nostro destino, scivolammo verso il basso, in un vertiginoso ma magi-strale volo planato da quella città di montagna piuttosto riprovevole. Un accoglien-te scoppio di sole salutò il nostro arrivo in pianura.

Culto cavernicolo

Perché l’arcangelo esaltato ha scelto come dimora questa cella maleodoranteinvece di qualche tempio ben costruito alla luce del sole? A simbolizzare un raggiodi luce che penetra nelle tenebre, così vi verrà risposto. È più probabile ch’egli vi siapenetrato da guerriero distruttore, per scacciare quella forma pagana, che Strabonedescrive come dimorante in quel malsano recesso, e per impossessarsi dell’antro innome del Cristianesimo. Sant’Angelo è uno dei tanti luoghi ove Michele ha esegui-to il compito di un Ercole cristiano, a simiglianza di quello antico che ripulì le stalledi Augia.

Per il resto, questo culto cavernicolo è più antico di qualsiasi divinità o diavolo.È il culto del principio femminile – un residuo di quell’ossessione aborigena del-l’umanità di rifugiarsi in qualche antichissimo crepaccio nel sacro grembo di Ma-dre Terra che ci dà cibo e che ci riceve dopo la morte. Le apparizioni, antiche erecenti, nelle grotte non sono altro che le spiegazioni popolari di questa oscurabrama primordiale; e i gerofanti di tutti i secoli hanno capito il valore commercialedel sacro brivido che penetra nel cuore dei fedeli, in queste caverne, dando loro unarisonanza di fatti divini. E così qui, proprio vicino all’altare, i preti vendono fram-menti della cosiddetta «Pietra di San Michele». Il commercio è attivo.

La statuetta dell’Arcangelo, conservata in questa cappella sotterranea, è un’ope-ra del tardo Rinascimento. Pur risentendo di quell’elaborazione leziosa che alloracominciava a contaminare l’arte e la letteratura locale – ed è legata al nome delpoeta Marino – è tuttavia figura di una virilità passabile. Ma quelle innumerevolialtre, nelle chiese o sopra le porte, raffigurano davvero l’uccisore del drago, il mar-ziale principe degli angeli? Questo fanciullo grazioso dai lineamenti femminili –può costui essere il Lucifero del Cristianesimo, la Spada dell’Onnipossente? Quis utDeus! Avrebbe potuto difficilmente far del male a una mosca.

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L’angelo di ManfredoniaN. Douglas 185

Il venerando genio alato di Caldea che ha assorbito l’essenza di tante solennidivinità, ora, in tardissima età, è entrato in una seconda infanzia ed è diventatoormai troppo giovanile per il suo rôle, subendo una metamorfosi che va oltre i limitidella probabilità leggendaria o del buon senso; ogni traccia di divinità e di forzavirile ne è stata spremuta. Così giovane e di bellezza tanto terrena, rassomiglia,piuttosto, a un bel ragazzetto che si è agghindato, per giuocare, con una spada e unelmo infantili – vien voglia quasi di divertircisi insieme. Questo non è un guerriero!C’est beau, mais ce n’est pas la guerre. Gli dei, si dice, son sempre giovani ed una notapiuttosto sensuale e carnale è essenziale per quelli italiani, se devono riuscire a con-servarsi l’amore dei loro fedeli. D’accordo! Non ci serve un veterano sfregiato eirsuto; ma abbiamo per lo meno bisogno di un personaggio che sia in grado dibrandire la spada, una figura all’incirca come questa:

L’elmo lucente allentato mostravail fiore di sua giovinezza nella virilitàin cui finiva l’adolescenza;dal fianco gli pendeva, scintillante zodiaco, la spadaterrore indicibile di Satana, e in mano sua la lancia...Ecco! questo è il vero arcangelo.E il gran drago, quel vecchio serpente, chiamato il Diavolo, e Satana, ha subíto

un’analoga trasformazione. Si è rattrappito diventando un povero piccolo rettile,appena un vermiciattolo, che quasi non vale nemmeno la pena di schiacciare.

Ma come potrebbe attrarre la gente comune una concezione sublime comel’eroe apocalittico? Queste figure poderose emergono dal crepuscolo, progenie diepoche fatali; se ne stanno in disparte, altere dapprima, ma subito la loro luminosagrandezza è smorzata, il loro profilo altezzoso è offuscato e cancellato dal logorio.Sono trascinati al livello dei loro adoratori più infimi perché l’intero gregge adatta ilproprio passo a quello dell’agnello più debole. Nessuna divinità che abbia rispettodi sé sopporterebbe un simile trattamento – di essere volgarizzata e resa comprensi-bile a una folla. Le divinità capite dalle masse cessano di essere efficaci; gli egiziani ei bramini l’hanno capito. Non si tratta di dare agli dei la possibilità di interpretarliin modo incongruente e sleale. Ma il volgo non ha idea alcuna del decoro e dellacorrettezza: non sa mantenersi alla giusta distanza; si prende costantemente dellelibertà. E, alla fine, anche il più orgoglioso degli dei è costretto a cedere.

Vediamo questa fatalità anche nella stessa parola Cherubino. Che diversa imma-gine suscita questo bimbo paffuto e frivolo di fronte al bel Ministro di Dio cinto dauna spada di fiamma! La vediamo nella Madonna italiana in cui, nonostante ognipossibile novità assimilata dalla sua mente, bisogna presupporre una certa gravità

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d’atteggiamento, e che, pur tuttavia, diventa di giorno in giorno di una leziositàsempre più infantile; nel suo Figliolo che – quanto meno da queste parti – haabbandonato tutti gli attributi seri di virilità e si è ridotto a poco più di un bambo-lotto. Era la stessa cosa ai tempi antichi. Apollo (che San Michele ha soppiantato),Eros, e Afrodite – tutti passano attraverso un processo di edulcorazione deterioratrice.Le nostre creature più belle, quand’hanno superato l’apogeo del loro vigore, sonoesposte all’assalto e alla distruzione da parte di una tendenza insidiosa al diabete.

È questo istinto bamboleggiante dell’umanità che ha ridotto San Michele allasua attuale condizione. E un influsso estraneo ha operato nella medesima direzione:il graduale rammollimento delle maniere entro i tempi storici. Quella svirilizzazioneche va di pari passo con il crescente benessere sociale. La divinità riflette i propricreatori umani e il loro ambiente; divinità grandiose o battagliere diventano super-flue e, infine, incomprensibili nei giorni monotoni della pace. Per sopravvivere, lenostre divinità (come il resto di noi) devono possedere una certa plasticità. Serecalcitrano, vengono silenziosamente esonerate dalle loro funzioni e dimenticate.Questo è quanto è accaduto in Italia al Dio Padre e allo Spirito Santo, che sonosvaniti dall’Olimpo volgare; mentre il diavolo, grazie a quella versatilità spregiudi-cata per cui va famoso, resta sempre giovane e popolare.

Le nozioni d’arte del Cinquecento sono pure da condannare; in effetti, per quelche riguarda le forme angeliche dell’Italia meridionale, l’influsso del Rinascimentoè stato affatto malefico. Estranee a questo suolo, esse sono dapprima del tutto igno-te – nessuna è raffigurata nelle catacombe napoletane. Subito dopo, viene il breveperiodo della loro gloria artistica; quindi il sincretismo del Rinascimento, quandoquesti messaggeri alati furono amalgamati con gli amoretti pagani e presero a svolaz-zare in quello sciocco stile barocco attorno alla Regina dei Cieli, secondo il modellodi quegli indecorosi piccoli geni al servizio di una Venere di cattiva scuola. Quellostesso istinto che degradava un Eros giovanile nell’infantile Cupido fu il colpo mor-tale inferto all’antica dignità e alla santità degli angeli. Oggidì vediamo la cattiveriadi tutto ciò; siamo tornati al buon senso e riusciamo ad apprezzare quella rinascitatanto lodata al suo vero valore; e i nostri scultori moderni vi metteranno insieme unangelo rispettabile, un adolescente grave, secondo i migliori canoni del gusto – nelcaso voi possediate ancora la fede che un tempo imponevano tali opere d’arte.

Noi viaggiatori ci familiarizziamo con la discendenza di questo messaggero cele-ste ma è difficile supporre che i fedeli che ora si affollano davanti al suo santuariosappiano gran che di queste cose. Come sarà possibile scoprire i loro veri sentimentiper questo grande santo grottereccio e per la sua vita e le sue azioni?

Be’, se ne può avere una vaga idea attraverso gli opuscoli che vendono sul posto.Ho acquistato tre di questi moderni trattatelli, stampati rispettivamente a Bitonto,

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L’angelo di ManfredoniaN. Douglas 187

a Molfetta e a Napoli. Il Canto Popolare in onore di San Michele contiene questastrofa:

Nell’ora della morteCi salvi dall’infernoE a Regno SempiternoCi guidi per pietà.

Ci guidi per pietà. Questa è l’eredità di Mercurio. Poi, La storia e i miracoli diSan Michele si apre con un gioviale dialogo in versi tra l’arcangelo e il diavolo intor-no all’anima; finisce con un elenco particolareggiato, in venticinque strofe, dei mi-racoli fatti dall’angelo, come ad esempio l’aiuto alle donne durante il parto, la curadei ciechi, e altre meraviglie, in tutto e per tutto simili a quelle elaborate da piùumili santi terreni. Infine la Novena in onore di San Michele Arcangelo stampata nel1910 (terza edizione) con l’approvazione ecclesiastica, ha il seguente notevole para-grafo sulla Devozione per le sacre pietre della grotta di San Michele.

«È assai salutare aver stima per le pietre che sono prelevate dalla sacra grotta, inparte perché da tempo immemorabile sono sempre state venerate dai fedeli e ancheperché sono classificate come reliquie di sepolcri ed altari. Inoltre è noto che duran-te la pestilenza che afflisse il Regno di Napoli nell’anno 1656, Monsignor G. A.Puccini, arcivescovo di Manfredonia, raccomandò a ciascuno di trasportare devota-mente sulla propria persona un frammento della pietra sacra in virtù della quale lamaggioranza fu salvata alla pestilenza, e questo aumentò la devozione a loro tribu-tata».

Il colera è in aumento e questo può spiegare la rapida vendita delle pietre inquesto momento.

L’opuscolo contiene anche una litania in cui i titoli dell’arcangelo vengono enu-merati. Egli è, tra le altre cose, Segretario di Dio, Liberatore delle Infernali Catene,Difensore nell’Ora della Morte, Custode del Pontefice, Spirito della Luce,Prudentissimo tra i Magistrati, Terrore dei Demoni, Comandante in Capo degliEserciti del Signore, Sferza di Eresie, Adoratore del Verbo Incarnato, Guida deiPellegrini, Accompagnatore dei Mortali: Marte, Mercurio, Ercole, Apollo, Mitra –quali antenati più nobili può desiderare un angelo? E tuttavia, quasi che questefunzioni complicate e responsabili non fossero sufficienti per le sue energie ne haaltre venti, tra cui c’è quella di Custode della Sacra Famiglia – che, a quanto pare, habisogno di un protettore, un Monsieur Paoli, come qualsiasi terrestre monarchia.

«Assurdità blasfeme!» mi par di sentire esclamare qualche metodista. E si puòesser senz’altro tentati di schernire questi pellegrini, per i più illuminati dei quali si

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stampa questa roba. Perché essi sono indubbiamente una folla repellente: vecchiesporche per il viaggio, controfigure per la Maga di Endor; ragazze anemiche scapigliate,dall’aspetto attonito; ragazzi troppo deboli per maneggiare una vanga a casa loro, dimodi pateticamente rozzi, con bocche spalancate e occhi che esprimono tutta unagamma di emozioni incontrollate, dalla gioia più selvaggia all’idiozia vera e propria.Come ci si rende conto, in fondo a questa grotta, dell’effetto che, su alcuni uominicolti dell’antichità, come Rutilio Namaziano, deve aver avuto il culto nelle cata-combe, in mezzo a quei primi convertiti cristiani, a quegli «uomini che rifuggivanodalla luce», trascinati com’erano dalle stesse classi sociali verso gli stessi oscuri ritisotterranei! Persone simili non si possono né amare né rispettare. E simulare com-passione nei loro riguardi sarebbe più consono alla loro religione che alla mia.

Ma è facilissimo capirlo. Per tredici secoli il movimento dei pellegrini ha continua-to a esistere. Tredici secoli? No. Il luogo in tempi antichi era un oracolo e sappiamoche luoghi simili erano frequentati da uomini niente affatto meno barbari e bigottidei loro rappresentanti moderni – non c’è errore più grande che quello di supporreche le folle dell’antica Roma e di Atene fossero più raffinate delle nostre («Demostene,signore, parlava a un’assemblea di bruti»). Allora diciamo che, per trenta secoli, unadivinità ha attirato i fedeli al suo santuario – Sant’Angelo è diventato un vuoto pneu-matico, per così dire, che deve essere periodicamente riempito con elementi dellacampagna circostante. Questi pellegrinaggi sono nel sangue della gente: da bambinivi sono accompagnati; da adulti vi portano la prole; quando hanno la barba grigia iloro passi incerti sono sorretti da pellegrini come loro, gentili e più robusti.

Pontefici e imperatori non si arrampicano più per quei pendii: il sentimentodella pietà è calato, tra i grandi della terra; questo è sicuro. Ma i raggi della luce chetoccano i rami più alti non hanno ancora penetrato il sottobosco rigoglioso edeffervescente. E allora, che altro si può offrire a questi montanari? La loro è una vitadi miseria avvilente e rivoltante. Non hanno giuochi o sport, non hanno corse dicavalli, club, mostre di bestiame, caccia alla volpe, politica, caccia ai topi, o una diquelle tante gioie che rendono diversa la vita dei nostri contadini. Non sono sfioratida alcun tocco di umanità, non ricevono marmellate o coperte da gentili dame, enessun medico gioviale si interessa dei loro figlioli; non leggono giornali o libri emancano loro persino le blande eccitazioni fornite dal contrasto tra anglicani edissidenti, o dal romanzo d’amore della figlia del vicario, o dall’ultima lite delsignorotto con la moglie – nulla! La loro esistenza è quasi animalesca nella suavacuità. Li conosco, ho vissuto tra loro. Per quattro mesi l’anno sono stivati in taneumide che non si possono definire stanze, dove un inglese riterrebbe disonorantetenere un cane – stivati in uno squallore incredibile per chi non lo vede; per il restodel tempo si affannano, con il sudore della fronte, a strappare qualche spiga di

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L’angelo di ManfredoniaN. Douglas 189

grano dall’ingrato terreno calcareo. Le visite all’arcangelo – quei picnic invernali eautunnali – sono la loro unica forma di divertimento.

Si dice che l’affluenza sia diminuita dall’inizio del 1900, allorché ne venivanosolitamente trentamila l’anno. Può esser benissimo; ma immagino che questo nonsia tanto dovuto a un grado crescente di illuminazione quanto allo spopolamentoprovocato dall’America; molti villaggi sono stati di recente ridotti alla metà del loronumero precedente di abitanti.

E qui si inginocchiano, la candela in mano, sulle pietre umide di questa cavernamalsana e maleodorante, fissando rapiti l’idolo che sorride mellifluo, solleticati nellaloro sensibilità da preti risplendenti che recitano biascicate frasi in latino, mentrel’organo sopra il loro capo suona brani ansimanti de «La forza del destino» o il valzerdel «Mefistofele» di Boito... certo deve essere una pregustazione del Paradiso. Ed èassai probabile che questi siano «i poveri di spirito» cui è riservato quel regno. Questapotrebbe esser definita una forma adulterata del Cristianesimo. Forse il fondatore diquesto culto l’avrebbe ritenuta disgustosa; ma questo è un altro problema e, adulte-rata o meno, è quanto meno viva e palpitante, il che già costituisce più di quanto sipuò dire per certe altre varietà. Ma l’arcangelo, come era inevitabile, ha subito untriste mutamento. Il suo più bell’attributo di Apportatore di Luce, di Apollo, non gliappartiene più; è stato requisito e assorbito dalla «Luce del Mondo», il suo nuovopadrone. A una a una, le sue funzioni gli sono state strappate, salvo nominalmente,come succede a uomini e angeli insieme, quando prendono servizio sotto padroni«gelosi». Che resta ora di San Michele, il gerarca lucente? Può egli ancora sopportarela luce del sole? O forse si è ridotto a un Hermes spettrale, un lugubre psicopompoche china la testa in una gloria rimpicciolita e che non guida più le anime degliuomini verso l’alto, bensì verso il basso – giù, alle smorte regioni delle cose che sonostate? E trascorrerà molto tempo prima che anche egli sia gettato da qualche fiam-meggiante demone dal volto di Gorgone negli stessi regni di Minosse, nel cuposottomondo dove risiedono Saturno, e Kronos, e altri ideali frantumati e in pezzi?

Così meditavo quel pomeriggio, scendendo in carrozza per il pendio di Sant’An-gelo, comodamente al riparo dal temporale, mentre il generoso vino di montagna miscorreva rapido nelle vene, scaldandomi la fantasia. Poi, finalmente, il sole uscì in unimprovviso scoppio di luce, aprendo uno squarcio tra i vapori e rivelando l’interacatena appenninica, insieme con l’appuntito cratere di Monte Vulture. Lo spettacolomi rallegrò e mi fece pensare che una giornata simile sarebbe stata degnamente com-pletata da una visita a Siponto, a poche miglia al di là di Manfredonia, sulla strada diFoggia. Ma abbordai l’argomento con cautela, temendo che il vetturino potesse obiettarea questo lavoro in più. Fu tutto il contrario, invece. Mi ero guadagnato il suo affettoe mi avrebbe accompagnato da qualunque parte avessi desiderato. Solo a Siponto?

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Perché non a Foggia, a Napoli, ai limiti della terra? Quanto al cavallo, il viaggio gli eraindifferente, del tutto indifferente: non c’era cosa che gli piacesse di più della corsadavanti a una carrozza; inoltre «è suo dovere» dichiarò l’amico. Siponto è tanto anticache si dice fosse stata fondata da quel leggendario Diomede che fece la stessa cosa perBenevento, Arpi e altre città. Ma questo record non soddisfa Monsignor Sarnelli,storico della città, secondo il quale essa era già fiorente quando Sem, figlio di Noè, nedivenne il re. Regnò all’incirca nell’anno 1770 dalla creazione del mondo. Due annidopo il diluvio aveva cento anni e, a quell’età, ebbe un figlio, Arfaxad, dopo la cuinascita visse ancora cinquecento anni. Il secondo re di Siponto fu Appulo, che regnònell’anno 2213... Più tardi qui dimorò San Pietro che vi battezzò alcune persone.

Di Siponto non resta nulla; nulla, ad eccezione di una chiesa e anche questacostruita di recente; è dell’XI secolo; una chiesa famosa, nello stile pisano, concolonne di marmo lavorate, e appoggiate con ornamenti romboidali a leoni, e altreeccellenti lavorazioni nella pietra che rallegrano l’occhio. Essa era stata sede arcive-scovile e le sue belle sedie episcopali sono ora conservate a Sant’Angelo; e si puòancora fare omaggio all’autentica Madonna bizantina, dipinta su legno da San Luca,dalla carnagione scura, dal naso lungo, e dallo sguardo fisso, che regge l’Infante sulsuo braccio sinistro. Terremoti e incursioni saracene hanno rovinato la città che èrimasta del tutto abbandonata quando Manfredonia fu costruita con le sue pietre.

Di antichità pagane vi sono, sparsi qua e là, pochi capitelli, e così pure colonnedi granito nella strana, antica cripta. Un pilastro se ne sta tutto abbandonato in uncampo e, vicinissimi alla chiesa, ve ne sono altri due, in piedi, il più grande dicipollino, abbellito da una patina di lichene dorato; una testa di pozzo in marmo,mezzo consumata per l’uso delle funi, si trova sepolta nell’erba lussureggiante. Lapianura su cui sorgeva la grande città di Sipus è ora coperta di aspra vegetazione. Ilmare si è ritratto dalla sua antica spiaggia, e bestiame semi-inselvatichito pascola sulluogo di questi antichi moli e palazzi padronali. Non resta una pietra. La malaria ela desolazione regnano supreme. È un luogo profondamente malinconico. E tutta-via fui contento di quella rapida visione. Avrò ricordi cari e duraturi di quel santua-rio – il travertino della sua struttura elaboratamente scolpito, che brilla di un colorefulvo aranciato nel tramonto; e della pianura abbandonata, più oltre, piena di visio-ni fantomatiche del passato.

Quanto a Manfredonia, è un luogo piccolo e triste dove il vento di mezzogiornogeme e le montagne sono velate nelle brume.

[Tratto da Vecchia Calabria, NORMAN DOUGLAS, Londra 1915; ristampato da Martello, Milano 1962,tradotto da Grazia Lanzillo e Lidia Lax]

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Poi dalla solitudine si sprigiona una colonnetta, e le fanno seguito a pochi passi,su leoni, le colonne che, fra le scure sopracciglia di archi ciechi, reggono in unafacciata deserta il ricco portale di Santa Maria Maggiore di Siponto.

Questa è dunque quell’arte solenne che dicono pisana, che un giorno a Luccadolcemente mi svelò la Patria, che mette nel silenzio d’una pagina d’orazioni ilrilievo prezioso dell’iniziale miniata.

Non me ne intendo, ma non stupirei se questa cattedrale in mezzo al prato fossedavvero il primo esempio del costruire monastico e guerriero nel quale il Medioevosi provò a fondere le esperienze del suo rincorrere la visione del mondo, dall’inno-cente epica dei Mari del Nord alle erudite voluttà della svelta Persia. La nascitad’un’architettura significa il principio d’una chiarezza spirituale e d’una volontàvittoriosa. Perché nell’era cristiana non dovrebbe essere stata per prima questa terra,questo ponte dei Crociati, a immaginare saldamente, nella pietra murata e ornata,un’unità fra Occidente e Oriente? Sono le cose che mi commuovono di più, comedi vedere, dopo la spedizione d’Alessandro, il canone di Fidia insinuarsi nella scul-tura indiana di 23 secoli fa.

Perché questa regione pietrosa non dovrebbe essere una madre d’architettura? Èvenuta su dal tormento della pietra: dalla pietra, vittoria della forma sopra unimmemorabile caos. Prolifica d’ogni sorta di pietre: dura, macerata, terra della sete:ci vorrebbero forse altri eccitamenti per inventare una forma?

Nella sua desolata vecchiaia, Santa Maria Sipontina impartisce difatti oggi an-cora la lezione più moderna. Dal faticoso svolgersi di due quadrati, guardate comeal terzo la sua pianta ottiene che, sovrapponendosi di volo, 4 pilastri e 4 ogive e… 4muri, e… (avete indovinato!) «quattro» colonne compongano alla cupola la salitapotente d’un doppio spazio di cubi. Più cubisti di così… Non c’è da ridere: sempli-cità e ordine apriranno sempre le vie del sogno.

Siamo usciti.I passi del sagrestano sono silenziosi come se andasse a piedi nudi. Per uno

Santa Maria Maggiore Sipontina

Giuseppe Ungaretti

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strano mimetismo anche i nostri passi si sono fatti impercettibili. Siamo scomparsi.Al poco chiaro che può mandare un sanguigno di colonne, ci siamo ritrovati,

sorpresi.Scorgiamo all’altare in fondo, in un cavo d’abside, gli occhi sbarrati d’una statua

di legno dipinto. Sono gli enormi occhi bizantini, dimentichi del tempo. Solo Picassopotrebbe dirci perché i Bizantini sono così vicini ai selvaggi. Ripensavo – cogliocchi fissi a quello sguardo insensato, laggiù… – allo Scima che per occhi metteall’idolo pezzetti di specchio. Sarà mai rappresentata meglio l’insensibilità d’unavista eterna davanti al passare?

Sparse come guardie, le gentili colonne – e sono… (bravi!) 4x4 – per il lororegolare i giuochi ora evidenti della volta, via via che avanziamo sembrano dividereil buio addirittura a tende, a scostarle.

Vediamo anche quattro colonnoni; ma ci devono stare per prolungare e fortifi-care da questa cripta, i pilastri della chiesa di sopra; cercano di non disturbare eritraggono più che possono nell’ombra la loro corpulenza.

In tali penombre, presso la statua di legno arrampicandosi negli angoli, appari-scono apparecchi ortopedici, grucce a mucchi, e vestitucci di tulle polverosi, inve-rosimili sulla durezza e la freddezza della pietra.

A questo punto scopriamo appesi al muro – è uno scoppio – tutto un fiorire diquadri su rame. Di solito il popolo racconta bene, è la sua facoltà, e ne è provaquesto genere di quadretti di voto. Ma questa volta le immagini hanno una vivacitàstraordinaria: sia che si faccia vedere uno che con una tavola sotto il braccio si gettidal piroscafo squarciato da un siluro, e riesca a raggiungere riva coll’aiuto di quellatavola; o si discorra d’un bambino che, caduto sotto cavalli impennati, attaccati adun carro pesantissimo, passato il carro, mentre gli astanti urlano ancora disperati, sialzi e sorrida; ovvero s’indichi un albero schiantato dal fulmine mentre lo potano, eil potatore resti a cavallo d’un ramo della mezza pianta rimasta ritta, e guardi in girocome per dare i numeri al lotto; ecc. ecc. Il dramma è nel mare e nella nave, è neicavalli impennati e negli astanti, è nell’albero e nel fulmine; non è mai in chi sisalva. Ci sia o meno la volontà, c’è sempre il miracolo, c’è sempre la fede che rasse-rena.

Stanno nella polvere e nel grigio, lì abbandonati i ricordi della sofferenza. L’uo-mo, si diceva incominciando, è debole e lo sa, e perché lo sa, per miracolo divino oper volontà, che è miracolo umano – e di solito le due forze si alleano – la suacondizione, e la sua dignità, è di superarsi. Per questo quando s’è salvato – come havisto l’artista – è al di là di sé, al di là del dramma, egli è valore spirituale, e ildramma langue e perisce nella natura delle cose.

Allora il sotterraneo mi s’è riempito di pellegrini.

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Santa Maria Maggiore SipontinaG. Ungaretti 193

Non c’era nessuno.C’erano impronte di piedi, impronte di mani, graffi sulla pietra, e un nome

dentro ciascuna mano o ciascun piede. Pellegrini che erano arrivati qui cantando,anzi gridando: a piedi scalzi con il loro passo rapido, anzi impetuoso com’è la fede.E finalmente il loro piede aveva calcato il suolo sacro, la loro mano aveva toccato lapietra benedetta. Ne resti memoria per sempre!

Sentirò per tutto questo mio correre dietro l’acqua, in su e in giù, dal Garganoa Caposele, il passo del pellegrino. E se non ne sentirò il passo, ne vedrò la traccia.

Siamo tornati al prato. È il tocco. Ora si vede meglio come qui il sole detestil’inverno. Ora ha potuto finire di aprirgli – direbbe Leonardo Sinisgalli, un giovanepoeta delle parti d’Orazio, quasi di queste parti la mano superba e la noia del giornoed esso, vinto, può prendere, come un presagio di primavera, un calore carnale.

[Tratto da Deserto e dopo, GIUSEPPE UNGARETTI, Mondadori, Milano 1961]

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Manfredonia, il 6 marzo 1934

Là fu Siponto

Siponto non è più che un nome musicale. Un Diomede laureato e il giavellottofendente l’aria sopra la fuga d’un cinghiale: la celebrazione del fondatore d’una cittàin maremma, nel suono d’oro d’una moneta.

Per tutta la riviera adriatica – come è del Tirreno, Enea – corre voce di questoDiomede dalla barba fiorita, e sono indecisi perfino quelli di Comacchio se vantarsidi discendere da lui o da Noè.

La moneta è visibile nei musei. Ma perché il mito che porta i due rivali omericia prosperare sui due lati della terra italica, non dovrebbe essere verità? È come unaprima figura di quel mistero che avvierà sempre ogni sogno epico a sciogliere i suoidrammi sotto la chiarezza del nostro cielo.

Un mucchio di monete nelle vetrine: Diomede e la ragazza con la corona dispighe, e l’uomo che rovescia un leone. Più alcune anfore piantate bene: memoriedi braccia che, alzandosi per trattenere un peso nell’armonia rigogliosa dei passi,facevano impazzire. È tutta qui, Siponto?

Ci sarebbe anche la cattedrale di cui si parlava l’altro giorno. E una città, finchéuna sua pietra sta ancora ritta, non può dirsi scomparsa e meta solo della memoria.

Ma la speranza, perennemente attuale, in un certo senso ha strappato SantaMaria Maggiore al suo luogo e al suo tempo. Gridando aiuto, si chiama un genero-so. Dov’è, che importa? E colla divinità che verrà mai a fare la storia? Eh, lo so chenon si ha storia senza l’arrampicarsi verso lassù come un’edera, delle nostre passioni.E che, dopo tutto, all’uomo non resta che un pugno di storia.

Che verrà mai a fare la storia? Questa Madonna dai grandi occhi non ha se nonricovero palese, fra gli unici muri di una metropoli rimasti ritti. Per miglia in giro,varcando solitudini, dal mare e dalla corona dei monti tutto un popolo nei suoi dolori

La giovine maternità

Giuseppe Ungaretti

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Verso Sud196 D. Grittani

la sogna. Una chiesa non ha bisogno di dominare visibilmente un pigiarsi d’abitatiper essere non il segno superstite d’una rovina, ma un nucleo vivo d’umanità.

Anche come semplice lavorata pietra, è così poco ormai Siponto, decrepita pie-tra com’è. L’arte non la distacca più dalla natura. È, come la stessa Siponto, terrenoanch’essa, stravaganza del terreno.

Non è quasi più nemmeno una memoria anche l’acqua malata che a un reanimoso fece ordinare l’esodo totale degli abitanti e fondare a qualche chilometropiù in là, la città cui dette il nome. Ma forse la malaria non fu che un pretesto, e lanecessità d’avere braccia per la costruzione d’un porto potente consigliò invece ilguerriero.

La memoria delle Paludi Sipontine stanno disperdendola le idrovore. Non neresta ormai che un raro barlume viola nel vento.

E in linea diritta davanti alla fu Siponto, l’arco di Manfredonia si volta giustonel punto dove, pieno di freschezza e di appetito per l’abbondanza di seppie, losguardo dell’acqua marina si fa moro come quello di gitane.

Azione e fede

Torri, torri che a volte emergono da fondamenta marine e acquistano bellezzanel variare perenne dei riflessi, torri che si mantengono, nonostante l’altezza, d’unarotondità cospicua, torri, così carnali, malinconiche sotto i colpi della luce, torriche a volte armano una cattedrale ai quattro venti, guerra e preghiera, azione e fedealleate e fuse, ancora e sempre, è ciò che qui non ha paura del tempo. È il modocordiale, diremmo, di celebrazione: è celebrare la divinità nell’uomo, cioè soltantoun momento umano particolarmente intenso, e quella luce che non ci abbandonamai e che vediamo così bene quando ci facciamo piccini piccini per amore e neinostri momenti di disperazione. Un Italiano nella sua arte, anche parlando di mor-te, celebrerà sempre la vita. Se sono occhi, non avranno l’esorbitata fissità dell’ico-na, né tanto meno saranno quelli ghiacci e ancora più tremendi del feticcio sudanese.Noi non abbiamo mai pensato d’annientare la carriera del tempo immaginando,come gli Egiziani, una lancetta che ne avrebbe segnato senza fine il vano ripetersi. Èun’idea di gente che il deserto circonda. Non mi sono mai meravigliato vivendolaggiù, che quegli Antichi pensassero che il tempo sia vinto dal tempo stesso, e cioè,il tempo essendo una misura, sia vinto dalla sua misura. Meridiane colossali, pira-midi, una saetta d’ombra che i secoli non denaturano. E l’eterno? Morte! Mummienell’orrore, nella cecità delle fosse di quelle piramidi. Per un Italiano poesia invece –anche se un’idea come quella degli Egiziani gli servirà da termine di rapporto – sarà

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La giovine maternitàG. Ungaretti 197

l’illusione di perpetuare l’attimo che ci ha rapito il cuore, di perpetuare la vita d’unnostro attimo: ecco dove cerca pietà e forza e il divino, la nostra arte.

La casa azzurra e gialla

Con qualche torre che ci seguita, bruscamente entriamo in una selva difichidindia. Il ficodindia non è una rarità. L’abbiamo incontrato tante volte a fareda siepe, o addossato a un rialzo di macerie, o come un’elefantiasi contendere lospazio nei campi d’agrumi. Ma un intrico assoluto di questo verde idropico chetolga il respiro così a lungo, fino ai piedi del monte, può essere una sorpresa. Conche gioia uno di quegli «ahuan» che mangiano il vetro e i serpenti entrerebbe quidentro e divorerebbe le foglie spinose, che evocano perfino la roccia nella loro mo-struosità. Ma, sarà per un dolce venticello che muove quella pesantezza, ora tuttequelle foglie, quelle enormi orecchie sorde, sembrano essere salite sul naso di pa-gliacci equilibristi.

E alle radici del Gargano, mentre la selva grottesca continua la sua risatina e oravi ride alle spalle, e voi tornate invece a pensare a muri merlati nascenti dal mare,una casa azzurra e gialla vi accoglie sola sola. Un altro miracolo. Nel progetto dimassima del 1902 per la distribuzione dell’acqua non erano compresi i comuni diMontesantangelo. E se l’acqua non riusciva mai ad arrivare dove avevano allorastabilito che dovesse arrivare, come avrebbe fatto ad arrivare un giorno lassù incima? Nel 1925 si dà ordine che si compili un progetto di massima perché l’acquavada fino lassù. Nel 1928 vengono compilati altri progetti esecutivi e i lavori vengo-no senz’altro rapidamente eseguiti.

Non era una cosa facile. Sono stati risolti ardui problemi d’ingegneria che sipresentavano per la prima volta: con semplicità, come sempre quando si fa sul serio.

Ed ecco che, nella casa gialla ed azzurra, ora si muove l’impianto di sollevamen-to: sono pompe a stantuffo accoppiate a motori Diesel: sono le braccia e i polmonid’acciaio di migliaia di ciclopi che mandano, senza affannarsi, silenziosamente,come nulla fosse, dallo spazio di poche decine i metri, una quarantina di litri d’ac-qua al secondo a un’altezza di quasi mille metri. Tutto questo organismo nero fal’effetto di un’enorme dissimulata violenza che basta una mano d’uomo a dominaree a regolare senza sforzo.

[Tratto da Deserto e dopo, GIUSEPPE UNGARETTI, Mondadori, Milano 1961]

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Leonardo Sinisgalli (Montemurro, Potenza 1908 - 1981) Poeta fortementelegato al movimento ermetico - che rappresentò tuttavia senza eccessi di forma-lismo - autore di Poesie (1938), Campi Elisi (1939), I nuovi Campi Elisi(1947), La vigna vecchia (1956) e Fiori pari fiori dispari (1945). La liricaSabato Santo a Manfredonia rappresenta un emozionante omaggio alla terragarganica, la cui suggestiva aridità deve aver rievocato in Sinisgalli i paesaggibrulli della Lucania.

Di qua non resta più nessuno.Le anitre scivolanouna dopo l’altraverso la buia sponda.Gli amici fondano una città celeste.Ci lasciano alle finestrecontro il mare brunocome una montagna.Messaggeri tra vita e mortei fanciulli si tuffanoa cogliere vermi sott’acquae il vecchio pescatoreaspetta che risorganocon un ramoscello di sanguetra le dita.

Sabato Santo a Manfredonia

Leonardo Sinisgalli

[Poesia di LEONARDO SINISGALLI tratta da Cineraccio, Neri Pozza, Vicenza 1961]

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PARTE X

Mattinata

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Virgilio Lilli (Cosenza 1907). Giornalista e scrittore, ha pubblicato Raccontidi una guerra (1941), Gazzettino (1947) e Una donna s’allontana (1959).Inviato speciale del quotidiano milanese Corriere della Sera, sulle cui pagine il17 luglio 1959 pubblicò il divertente elzeviro riportato in questa sede.

A una ventina di chilometri da Manfredonia esiste un paese che ha un nomeveramente chiaro e sereno. Si chiama Mattinata. Ma a Manfredonia la gente ve neparla non per questo suo consolante nome, bensì a casa di una delle sue due farma-cie. A noi, per esempio, accadde di sentirci dire: «Andate a Mattinata a comprarviun tubetto d’aspirina o un calmante contro il mal di testa; ma fate attenzione:prima farmacia a sinistra entrando in paese. Ne vale la pena». Accettammo il sugge-rimento senza domandarci perché, per un tubetto d’aspirina del quale fra l’altronon avevamo bisogno, dovessimo fare quaranta chilometri andata e ritorno. Evi-dentemente volevamo riservarci il piacere (o la delusione) della sorpresa.

Ci sembrò obbligatorio partire al mattino, convinti che un paese con un similenome di pomeriggio non ci si sarebbe presentato nei suoi veri panni. Ma il tempoci bloccò a Manfredonia quasi fino a sera. Improvvisamente, verso le dieci, scoppiòuna gran tempesta di vento, subito seguita da una tempesta di pioggia e infine dauna tempesta di mare, con onde gialle e sciroppose come fossero di catarro piutto-sto che d’acqua. Verso le tre del pomeriggio, poi, una tromba d’aria.

Detto fra parentesi, noi non avevamo mai assistito allo spettacolo d’una trombad’aria. Ci trovavamo nell’atrio di un grazioso albergo moderno situato sul mareall’estremo limite del paese, e contemplavamo l’inferno della pioggia, del vento edei cavalloni lungo la costa, quando udimmo una sirena lamentarsi con un gridolungo, cupo e accorato come in tempo di guerra. Pensammo si trattasse di qualchenuova difficoltà. Era, al contrario, la tromba d’aria. Constatammo così che le trom-be d’aria suonano precisamente la tromba e ci domandammo se per caso esse non

Il farmacista di Mattinata

Virgilio Lilli

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Verso Sud204 D. Grittani

dovessero il loro strano nome a questa particolarità più che alla forma di imbutocapovolto che ha il loro risucchio. Si tratta comunque di furie. Questa che ascol-tammo con i nostri orecchi nel giro di pochi minuti aveva scoperchiato un grossocasamento sul mare, abbattuto un lungo muro sulla strada dietro quel casamento esradicato una decina di pini.

Sempre detto fra parentesi, noi finimmo col credere che a Manfredonia e din-torni le trombe d’aria fossero di casa, per il fatto che qualche minuto dopo quelputiferio la polizia era già arrivata sul posto e con la polizia era arrivata una squadradi operai e di tecnici che già rimettevano ordine, con una efficienza da veri e propri«specialisti in trombe d’aria». Qualcuno ci informò più tardi che trombe d’aria aManfredonia, invece, non se ne vedono quasi mai. Segno che quei pugliesi, i qualinell’Italia del centro e del nord vengono ritenuti «meridionali sonnolenti, pigri,infingardi» e via di seguito, hanno i riflessi anche più rapidi di certi settentrionali;senza contare l’organizzazione. Mentre noi li osservavamo con piacere, così alacried efficienti sul luogo dell’incidente, la tempesta, che s’era alquanto addolcita tantoda consentirci d’uscire, se ne andò com’era venuta e il sole tornò a splendere comenulla fosse stato. Lavata dall’acquazzone, Manfredonia appariva ora d’una essenzia-lità perfino eccessiva, i filari delle sue case avevano assunto una piattezza grafica datavola a colori. E a questo proposito vorrei anzi dire di passaggio che nei paesimarittimi della Puglia, sotto il Gargano, c’è molta Grecia e allo stesso tempo un po’di Venezia. Non la Grecia, naturalmente, delle acropoli, dei templi, degli stadi, mala Grecia d’oggi: la casta e asciutta magrezza dei paesi della costa del Peloponneso,soprattutto, e anche delle Cicladi. Quanto a Venezia, è chiaro non si tratti del mollee colorato sfarzo del Canal Grande ma della schematicità teatrale dei suoi quartieripiù poveri: gli stessi intonachi delle mura, le stesse cornici bianche tutt’intorno allefinestre e alle porte, e per finire l’atmosfera di palazzo che hanno anche le catapecchie,da quella di palcoscenico, con la gente seduta sugli usci, all’aperto, quasi attendessedi cominciare una recita: come nei campielli. A parte queste considerazioni d’ordi-ne generale, passata la tempesta ce ne andammo a Mattinata. Il sole era ora fulgidoproprio come di mattina, e sarebbe stato veramente un capriccio letterario insisteresu quel contrasto fra il nome «Mattinata» e il fatto «pomeriggio». Prendemmodunque la strada litoranea garganica, che da Manfredonia segue l’intera costa delpromontorio e, dopo Mattinata, andrà a Vieste, a Peschici, a San Menaio, a RodiGarganico fino a lambire la laguna di Varano per poi innestarsi, a San Severo, sullaFoggia-Termoli. Si tratta di una delle strade più splendenti del mondo, una diquelle che si contano sulle dita di una mano, come la amalfitana, la Guernavaca-Acapulco al Messico, quella costiera (occidentale) di Shikoku, in Giappone, la Ate-ne-Capo Sunion in Grecia, eccetera. Dentro il sole, dopo il lavacro d’una pioggia

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Il farmacista di MattinataV. Lilli 205

tempestosa, su questa strada i colori del mare, del cielo, delle rocce, dei fiori dicampo e della campagna, non solo ma il colore dell’asfalto perfino sembra sia l’oc-chio a crearli nello stesso momento che li guarda; tanto immediata è la loro presen-za e immacolata la loro purezza. (E quanti italiani del centro e del nord conosconosia pure la sola esistenza d’una simile meraviglia?).

A Mattinata, sulla sinistra della via centrale arrivandoci da Manfredonia, ci re-cammo alla farmacia indicataci. E ci sorprese che la via centrale, appunto, si chia-masse corso matino (con un t solo a differenza del nome del paese che ne ha due).Anzi ne domandammo un po’ qua un po’ là una spiegazione, subito: e alcuni cidissero che il paese essendo esposto a Oriente, il sole lo scopre appena si leva dalmare, di primo mattino, e così gli ha dato il nome (passandolo anche alla sua stradaprincipale); altri che quel nome non ha niente a che vedere col sole e il mattino, mache si tratta d’una derivazione linguistica greca o addirittura sanscrita della qualenon sanno di più.

Fuori della farmacia non notammo nessuna insegna che ce ne dicesse il nome oil nome del proprietario; soltanto, al di sopra della porta riparata da una tenda dilunghi fili di perline colorate, una lanterna anch’essa colorata faceva trasparire attra-verso i vetri smerigliati una piccola croce rossa. Superata la porta ci trovammo in unlocale più profondo che largo, immerso in una gradevole penombra, diviso vaga-mente in due settori: un settore verso la strada con vetrine e armadi alle pareti, e unsettore più interno col bancone di vendita dietro al quale, del resto, altre vetrine earmadi si incollavano alla parete. Un ampio retrobottega o studio infine, si intrave-deva da una porta semiaperta sulla parete di fondo, con scaffali, armadi, vetrine euno scrittoio maggiolini davanti a una poltrona con tappezzeria rosso vermiglio. Ilfarmacista era un uomo di mezza età, piuttosto piccolo e asciutto, di viso abbronza-to, regolarissimo e di modi riservati, ma con qualche bruschezza. Non vestiva ilcamice bianco dei farmacisti e si muoveva fra i clienti, la più parte contadini, comeun ufficiale fra la sua truppa, con affetto, cioè, e autorità. Lo aiutava nel suo lavorouna ragazzetta dagli occhi nerissimi, incantati. Noi gli chiedemmo un tubetto diaspirina in attesa che avvenisse qualcosa di interessante; ma egli ce lo dette cortese-mente come in una qualsiasi farmacia del mondo. Ci disponevamo così, ad andar-cene piuttosto contrariati (ma nello stesso tempo incerti se dire al farmacista: «Eb-bene, che cosa c’è di nuovo e di bello qua dentro?»), quando, abituati gli occhi allapenombra, notammo nelle vetrine e negli armadietti più prossimi alla porta d’usci-ta oggetti piuttosto insoliti nelle vetrine e negli armadi delle farmacie. Si trattava dianfore di fattura greca, di lacrimatoi che parevano usciti allora da tombe precristiane,di piatti, vasi, ampolle, e poi monili, e poi specchi, e poi perfino spilli ecceteraeccetera la cui età andava visibilmente sopra i due millenni.

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Verso Sud206 D. Grittani

Sorpresi, buttammo uno sguardo più attento sulle vetrine e sugli armadi dietroil bancone: anch’essi contenevano oggetti archeologici o comunque da museo. E necontenevano teche e scaffali ai lati del bancone, insieme con lumi a petrolio delsecolo scorso, assai lunghi e gracili, forse napoletani, e a ceramiche cinquecenteschee ottocentesche, di Faenza, di Napoli e anche pugliesi, a pezzi di cultura barocca ealtro. Tutto, per la verità, un poco confuso, forse di proposito, nell’intento che unadisposizione da catalogo non sfreddasse l’intimo calore di quel mescolarsi di cosìdisparate testimonianze del tempo. Avvedutosi del nostro interesse, d’altra parte, ilfarmacista, sempre impegnato a servire i suoi taciturni clienti, ci fece segno con latesta di entrare nel retrobottega, e di dare un’occhiata a nostro comodo alle suecollezioni. Così noi facemmo; e trovammo il solito grazioso e prezioso confondersidi oggetti di scavo con oggetti di più recente antiquariato e perfino con qualcheciaffo. Ciotole romano-campane, vasi di Ruvo, brocche e anfore italiche, greche esimili sugli scaffali, e perfino sul pavimento di quel bizzarro laboratorio chimico-farmaceutico, alitavano decisamente intorno una atmosfera romana da via delBabuino e da Villa Giulia allo stesso tempo, sia pure in diciottesimo; fra una terra-cotta e l’altra s’avvertiva perfino la presenza enigmatica degli etruschi, molto grecizzaticome mi pare avvenga particolarmente al sud, ma forse per questo più dolci ecordiali. Unica testimonianza d’oggi, una foto grande come un manifesto mostravauna bellissima ragazza in costume garganico, la quale volgendo le spalle all’obietti-vo metteva elegantemente in luce un ampissimo scialle; ed era la figlia di lui, delfarmacista.

Né mancava San Michele. Questo arcangelo così congeniale ai cattolici anglo-sassoni è intensamente amato dai pugliesi che, sul Gargano, lo considerano unaspecie di padre della patria e lo venerano nel santuario di Monte Sant’Angelo sottole spoglie d’una piacevole scultura attribuita al Sansovino. Nel laboratorio-studio-museo nel quale ci trovavamo, di San Michele ce ne era una vasta collezione d’esem-plari, fra i quali una copia abbastanza preziosa di quello sansoviniano.

È necessario dichiarare ora che un uomo come questo farmacista archeologo è lastessa Puglia in carne ed ossa? Il figlio tipico di una civiltà che riesce a fondere senzastridori certi fatti della vita essenzialmente umani nel senso anche più pratico dellaparola con certi fatti della intelligenza essenzialmente umani nel senso anche piùfantastico della parola. (Quanto alla nostra personale esperienza, la più simpaticaaspirina della nostra esistenza è ovvio rimarrà quella di Mattinata).

[Articolo di VIRGILIO LILLI tratto dal quotidiano Corriere della Sera, Milano 17 luglio 1959]

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PARTE XI

Rodi Garganico

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Giuseppe Cassieri (Rodi Garganico 1926). Autore tra i più originali della nar-rativa italiana, il garganico Giuseppe Cassieri è noto soprattutto per la suaopera d’esordio La cocuzza (1960), quindi per Ingannare l’attesa (1979, Pre-mio Selezione Campiello), per lo sferzante romanzo Diario di un convertito(1985) e per Un asino al patibolo (1983, Premio Ennio Flaiano per il teatro).La prosa Fotogrammi di Rodi Minor, che qui viene riproposta integralmente,apparve in versione notevolmente ridotta sulle pagine culturali del quotidianoLa Gazzetta del Mezzogiorno il 23 agosto del 1989.

Pare assodato che il Giannone, tutto preso dai suoi impegni storici egiusnaturalistici, precocemente coinvolto in circostanze politiche che dovevano al-lontanarlo per sempre dalla nativa Ischitella, non abbia lasciato alcuna impressioneautobiografica sulla piccola Rodi, pur a tiro d’archibugio dalla casa dove venne allaluce.

Non uno strappo lirico, non un atteggiamento stupefatto dinanzi alla naturache da monte a mare, a lago, passando per boschi e valloncelli, si compendiava inun guazzetto alla Poussin.

Dimenticanza troppo grave all’occhio dei rodiani perché memorialisti coevi eposteriori a Pietro Giannone, specie Michele Rotunno e Antonio Vaccaro, nonfacessero del loro meglio per restringere nelle Appendici i meriti di chi minacciavadi guadagnarsi la posterità nonostante quella e altrettali lacune.

E anche quando, pochi decenni orsono, un prefetto di Foggia, imbeccato dal-l’alto, suggerì ai sindaci garganici di intitolare una strada all’autore del Triregno,nella piccola Rodi prevalse l’antico dispetto sul sussurrato rispetto, e il Consigliomunicipale pervenne alla deliberazione di chiamare Corso Giannone una sconnes-sa fettuccia extramurale. Forse l’ubicazione della targa in quell’angolo derelitto fusoltanto genericamente irriguardoso: la periferia e basta; ma non si può escludere

Fotogrammi di Rodi Minor

Giuseppe Cassieri

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che un ispirato giustiziere abbia suggerito quel «Corso» per applicare una sorta dicontrappasso. Di che, in fondo, si era occupato l’autore del Triregno, parlando di sé,nella Vita? Per caso dei trastulli dell’infanzia al cospetto degli aranceti, dei gagliardioliveti, dei giganteschi olmi e lecci, delle acque zampillanti al tocco di ogni verga?

Per caso delle anguille e dei capitoni del Varano, con un sospiro nostalgico pergli eccezionali arrosti alla griglia, in una combinazione aromatica di menta e rosma-rino? O delle dolci colline agrumifere da cui contemplare le Diomedee (non ancoravolgarizzate in isole Tremiti) avvolte nell’oro del mito? Niente, niente in quellepagine «raspose» che fosse spia di uno spirito innamorato della sua terra, lusingatodi portarne in giro le tracce. Quel pochissimo che vi aveva dedicato, ricostruendogli anni dell’infanzia, ecco in che si distillava: nome e cognome («ci mancherebbe!»commenta scandalizzato il Rotunno) dei genitori e di qualche stretto parente; nomee cognome del prete che gli insegnò grammatica latina; e dopo siffatte minutagliel’episodio a piene lettere dell’imbarazzo viscerale, sicuramente grave («ma dov’èquel fanciullo che non ne ha avuto e non ne avrà?» – vedi A. Vaccaro) per cuiPietruccio stette tra vita e morte. E insistendo sui dettagli – con tutto quello chec’era da dire sulla popolazione e sul paesaggio – quale meraviglia giunge a insinuareil grande storico? L’imbecillità, l’ignoranza dello speziale («sissignore, sarà stato vero,ma carità di patria richiedeva di non perpetuar il qui-pro-quo di un conterraneo» –M. Rotunno, ibidem) che aveva venduto alla madre del malatino chissà che famige-rato purgante, se gli fece rischiare la liberazione precoce dell’anima.

Nessun dubbio che l’avesse scampata «col favore di un Arcangelo» e che Pietrucciofosse rimasto così traumatizzato da quella «profluvie», da risultare per contrastomolto stitico in veste di autobiografo. Ma si poteva liquidare in due pagine somma-rie e fortemente «realistiche» l’ellenica bellezza dello «Sperone d’Italia» (M. Rotunnoe A. Vaccaro all’unisono) e partirsene da mercenario? Meglio, allora, il totale riget-to. Si aggiunga che un contemporaneo dell’ischitellano, Giacomo Ventrella, fratecappuccino di incerta provenienza, scrivendo la sua «Istoria apula», usciva a dire, acoronamento di un inno antropico: «Qui, a Rodi minor, figlia diletta della Rodimajor, innanzi che gli uomini abitarono gli dei». Si aggiunga che il frate, in agonia,volle essere trasportato dai confratelli sulla loggia del convento per godersi in un’estre-ma panoramica la dimora dei buongustai pagani, parafrasando nei gemiti il versoriferito a S. Cristoforo: «Rodi videas, postea beatus eas…». Si tenga presente questoparallelo sapientemente ravvicinato dal Rotunno e dal Vaccaro, e si spiegherà l’ab-bondanza delle monografie ventrelliane nelle contrade del Promontorio, nonchél’intestazione del Belvedere all’appassionato cappuccino, col corsivo: «Rodi videas,postea beatus eas».

Un po’ più elaborato, se si vuole, del «Vedi Napoli e poi muori», ma appunto

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Fotogrammi di Rodi MinorG. Cassieri 211

per questo in armonia con la struttura notevolmente orgogliosa dei rodiani (a pro-posito, il Rotunno si batte per Rodî in disaccordo col Vaccaro che propone rodiesi)i quali, se accettano di discendere da Rodi Egeo, disdegnano legami di lingua e disangue con le città del Tirreno, alla stessa stregua che da sempre disdegnano Romae Garibaldi (l’una per non aver provveduto, nei fasti consolari, a una ramificazionedell’Appia, l’altro per non avervi fatto tappa nel suo zingaresco viaggio nel meridio-ne), né si sgomentano di affrontare l’economia di mercato avventurandosi da solinel mondo. Tanto che oggi non c’è volantino compilato dalla Pro-Loco che nonriporti il verso del Ventrella, e finanche sulla «Frankfurter Allgemeine Zeitung»,fidando sul romanticismo germanico, le inserzioni che vi fanno comparire gli affit-tacamere concludono col: «Rodi videas…».

Cosa dunque troveranno, appena approdati, i visitatori stranieri e, similmente,gli italiani attratti dal medesimo slogan? Per la verità, di Omero non è accertabilealcunché, e perfino il Rotunno e il Vaccaro debbono convenire che l’«omerico» valeper definizione augurale, nel senso che un luogo così fatto sarebbe immensamentepiaciuto a Omero. Su questo non si può dar loro torto. Rodi minor si pronuncia asprone sullo spartiacque del medio e basso Adriatico dopo che – un’illusione otticacui difficilmente si sfugge – ha «chiesto» alla campagna circostante di potersi sfoltiredi alberi, coprirsi di caseggiati insolitamente alti, e bagnarsi tra gli scogli.

Per essere situata, come si diceva, al punto di congiunzione del basso e medioAdriatico, accade che il paesino sfugga a ogni determinismo meteorologico e ilcampo cursorio dei venti e delle piogge obbedisca a una circoscritta validità am-bientale. Questo non vuol dire che la sua posizione sia assolutamente privilegiatarispetto al resto del Gargano e che nella risacca si spengano per magìa le ire delgrecolevante; ma è innegabile che un certo favorevole gioco di correnti si attui sel’inverno si congloba nell’autunno, se l’estate è lunga ma ombrosa, se la primaverasi traduce in una frenesia di aranci fioriti. Giacché questa è, infine, la riprova dellastraordinaria mitezza: la predominanza di agrumi sugli oliveti e sulle altre colture.Scarsi i cereali, rari gli eucalipti, defilati i cipressi e, segno di squisita attenzione delladea Pomona (il Ventrella, il Rotunno e il Vaccaro in perfetta coincidenza di vedute),la varietà della frutta; dai fichi che maturano in cinque qualità e resistono sui ramida giugno a novembre, ai fichidindia della durezza di una cassata e del colore di unfiocco cardinalizio, prugne e susine, percoche e pere spadone, amarene e nespole,uva moscata, carrube grasse col miele che scorre come tiepido mercurio nella guainellae, si capisce, la regina del corteo, l’arancia. Quest’ultima, i rodiani hanno faticatoun paio di secoli per imporla come la migliore del Mediterraneo, ma non avendoottenuto autorevoli riscontri, hanno fatto sapere in Sicilia, in Calabria, a Sorrento

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Verso Sud212 D. Grittani

che la riconoscevano essi come tale ed erano superflue ulteriori tavole rotonde.Vittoria più facile, e forse mai contestata, l’ebbero viceversa con i limoni.

Agronomi, docenti universitari, esportatori e medici di chiara fama non esitarono aindividuare nel grado di acidità del limone rodiano una caratteristica che lo ponevaautomaticamente in una posizione di gran rilievo «su scala internazionale».

Durante il colera del 1866, le statistiche assicurano che fu possibile risparmiarequalche migliaio di vite umane proprio in virtù dei rodianissimi limoni, mentre aSan Severo, a Foggia e più lontano l’epidemia faceva tale strage da generare empietànei sopravvissuti. Non si contarono i morti che poi non erano veramente morti maappena presunti, seppelliti in fretta, con manifesti segni di «sepolti vivi». Anchenella piccola Rodi, ci tramanda un memorialista più equanime del Vaccaro e delRotunno, Luigi Vigliaroli, un’anziana signora, colpita da semplice collasso, vennesepolta in un bagno di calce nella Chiesa del Crocifisso su istanza del figliocciosconvolto dall’idea del contagio.

Ma subito il Vigliaroli aggiunge che furono i bravi trabaccoli rodiani a sfidare idivieti delle autorità sanitarie, a caricare la stiva del prezioso prodotto e a trasportar-lo nottetempo in Dalmazia, allorché nel 1893, nel 1907 e nel 1913 taluni centri diquella regione furono investiti dal disastroso morbo.

Conti alla mano, non si può comunque negare che arance e limoni siano quidiventati un lusso da principato di Monaco. Con tutta la protezione della Verginedella Libera e la benignità atmosferica, ogni quattro, cinque, sei anni si verifica la«gelata»: a due gradi partono i limoni e a tre gradi sotto zero marciscono le piùsuperbe arance. Il che significa non solo fallimento del raccolto in atto, bensì pre-giudizio per moltissime piante ferite nel tronco.

Se la natura rispetta i suoi cicli a un lustro dalla gelata è probabile che il raccoltovenga su pieno, sì che molti agrumieri saldano i debiti, imbellettano la casa, man-dano i figli all’università. Se però nelle annate di recupero Spagna e Israele inonda-no il mercato a prezzi concorrenziali, la completezza del raccolto paga un cospicuotributo alla scarsa possibilità di reggere il confronto. Al quinto, al sesto o al settimoanno, stando alle statistiche, il gelo ricompare e il paese torna a radunare «le suelacrime e le sue preci» dietro il manto della Vergine della Libera portata in proces-sione dal Santuario al Belvedere, nella speranza, – mai assecondata, a detta deimemorialisti – che le falde di neve si posino impunemente sull’aurea scorza.

Accertato infine, come pure è stato accertato, che Rodi minor è atavicamenteedonistica, e la sua fisionomia tradisce quel tanto di fragile e iridescente che è nelcarattere delle civiltà bizantine, essa vanta qualcosa che i paesi garganici della mezzamontagna non possono assolutamente eguagliare: la nessuna inclinazione allarissosità, all’avarizia, al crimine.

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Fotogrammi di Rodi MinorG. Cassieri 213

I registri della Pretura permettono di riscontrare come sia inequivoco questoaspetto sociale: contro la ridda dei delitti consumati, nel giro di trent’anni, in agrodi Carpino, Cagnano, Sannicandro, San Marco, San Giovanni, il rapporto è di unoa mille. Il furto più frequente a Rodi minor avrebbe fatto impazzire di tenerezzaGoethe, se costui si fosse spinto sullo «Sperone» (vedi il Vigliaroli, ibidem) «anzichéperdere tanto tempo a Napoli»: l’innocente e davvero omerica concupiscenza difichi che trova appagamento nelle «uccelline», nelle «verdesche», nelle «cipressuole»,nei «faraoni». Per i cinque mesi in cui matura e si moltiplica questo frutto prodigio-so, chi non ne possiede in proprio non resiste alla tentazione d’intrufolarsi nellecampagne altrui, arrampicarsi sulle piante, allentarsi la cinta e starsene lì accovacciatofino all’estinzione del desiderio. Non a caso, volendo dire nel gergo rodiano farescempio di qualcosa, si dice comunemente: «È stato conciato a pedafico» (cioè adalbero di fico follemente strapazzato).

Metastasi espressiva in cui è da leggere a un tempo il piacere della trasgressionein sé e il trionfo papillare della sensualità.

[Testo di GIUSEPPE CASSIERI, pubblicato non integralmente dal quotidiano La Gazzetta del Mezzogiorno,Bari 23 agosto 1989]

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PARTE XII

Peschici

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Antonio Baldini (Roma 1889 - 1962). Tra i più illustri rappresentanti delmovimento letterario La Ronda, con il magistrale elzeviro Indicazione delGargano a uno straniero dubbioso (pubblicato dal Corriere della Sera il 18giugno 1925), Antonio Baldini ha firmato alcune delle pagine più belle chesiano mai state dedicate alla cosiddetta “montagna sacra”. Nel racconto chesegue, pubblicato nella raccolta di novelle Italia di Bonincontro, si noti curio-samente come Baldini potrebbe essere ritenuto presago della fortuna che (bensettantatre anni dopo, cioè nel 1998) avrebbe regalato a Peschici la straordina-ria vincita di 63 miliardi al SuperEnalotto. Lo si noti, soprattutto, nel passo cherecita «Che favola mai è questo vostro paese? Garantisco che potrebbe fornireottimi scenari e argomenti a qualunque favola, leggenda o romanzo...»

«E così non siete mai stato in Italia?»«Oimè signore! è mio desiderio, studio e proposito antico conoscere personal-

mente vostra bella Italia.»«E, di grazia, che aspettate a decidervi? Sento che conoscete già così bene la

nostra lingua e mostrate d’essere informato delle cose nostre antiche e moderneassai meglio di tanti italiani.»

«Grazie. Qui sta il male. Intanto vi dirò che una delle ragioni che mi tiene dalvenire in Italia è che Alinari l’ha già tutta fotografata.»

«E che male vi ha fatto con questo il povero Alinari?»«Che oramai Italia, senza esserci stato mi pare di conoscerla lo stesso.»«Che mi dite!»«Che vi dico? Venezia e la Ca’ d’oro, va bene? Firenze e il Ponte vecchio, va bene?

Napoli, Pompei, il cratere che fuma, la grotta azzurra, va bene? il dolze far niente, ilcampanil di Pisa, pergole d’Amalfi e di Sorrento, il Colosseo, templi di Girgenti edi Pesto sotto la luna, va bene? – sono oramai cose troppo conosciute, troppo

Peschici

Antonio Baldini

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Verso Sud218 D. Grittani

suonate, sempre e dovunque sentite dire, da mio padre, da mio nonno, da miosuocero, e passate e ripassate per tutte le salse di colore e di parole; e io conosco perprova, signore, la delusione di ritrovar sul posto la cosa che c’eravamo immaginatané più né meno di come proprio ce l’eravamo immaginata. Vostra troppo famosaItalia mi desta molto affanno, signore. Domando: non ci sarebbe forse modo dientrare in lei da una porta di servizio dove non fosse nulla di famoso da vedere? nonavreste, tanto per cominciare, un paese senza conosciute rovine, senza gondole,senza Garibaldi, senza torri che pendono, senza grotte che parlano, senza monti chefumano, senza tarantella, senza pescatore che accomoda le reti, senza tramonti alsugo di tomate? Scusate come parlo, mio signore. Non è detto che anche io a tempoe luogo non stimerei dovermi incontrare con vostri panorami e monumenti uni-versalmente noti, ma un momento di respiro nel principio, oh pregherei molto,signore! Arrivarci di fianco, di sorpresa, incognito, quasi per combinazione, questovorrei: non capitargli incontro a suono di musica, come in viaggi di nozze, ciceroniin testa e vetturali in coda, mio signore. E il campanile pendesse pure quanto glipare, il Vesuvio fumasse pure con tutto il suo comodo, e la grotta fosse pure azzurraa suo talento, ma vorrei che venuto per me il momento di vederle, tutte questemeravigliose cose non avessero aria di darla a intendere come a un primo venuto.So bene, signore, che il difetto non è tanto nelle cose quanto nella memoria giàguastata da troppe letture sull’argomento e nei miei occhi che hanno già vedutotroppi quadri, troppe stampe, troppe oleografie, «Santuzza credimi», troppo Alinari.

Voi, mio signore, avete l’aria di ridere; ma io torno a domandarvi: non avreste,per anticamera del mio soggiorno in vostro paese, da consigliarmi Italia di prova, dimezza luce, senza storia, per soli amatori, fuori delle zone troppo illustrate, bellasenza cornice e all’insaputa di Alinari, di Dante, Carducci, Gregorovius, d’Annun-zio, Bertacchi? da poterci fare un po’ di quarantena innanzi d’affrontare la grantràppola aperta al forastiero? Vi siete reso conto, signore, di quello che senza offesaper nessuno io voglio dire?»

«Perfettamente. E vi dirò che io credo d’aver avuto per le mani quanto di megliofarebbe al caso vostro e di altri che si possano trovare nelle vostre condizioni. Ascol-tate. Che ne direste, se invece della grande Italia allungata da N. a S. pei viaggi dinozze coi grandi Espressi, vi dessi, come voi chiedete, una minuscola Italia di prova,che andasse invece da O. ad E., ancora «nuova per queste scene» e senza la piùpiccola traccia di strada ferrata? una piccolissima Italia, ancora inedita, quintesenziata,con degli abitanti sui generis, con un appennino e dei laghi tutti per lei, e con unassaggio assai compendioso e istruttivo (sopra una lunghezza di settanta e una lar-ghezza di quaranta chilometri circa) del colore e delle caratteristiche di paesaggio edi cultura di molte, se non di tutte, le altre terre italiane di maggiore spicco: voglio

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PeschiciA. Baldini 219

dire con un poco di Liguria e un poco di Sicilia, un poco d’Istria e un poco diToscana, un poco d’Umbria e un poco di Calabria, un po’ di Capri e un po’ diCiociarìa? Che ne direste?»

«Accettato. Ma esiste questa terra veramente?»«Pensate dunque che bellezza! una piccola Italia così poco conosciuta dagli stessi

italiani che anche tra le persone colte molti non sanno, facendo il suo nome, dovelasciar cadere l’accento; una vera piccola Italia ricca di boschi, di storie, di santità, dileggende, della quale il Baedeker non dice nulla e probabilmente lo stesso Alinari s’èdimenticato. Vi va? si combina?»

«Corpo di mondo, io domando se esiste veramente la terra che voi dite.»«Esiste. Un’ora di mulo vi fa salire, dalla regione dei fichi d’India, dove abbon-

dano i capperi sulle mura arroventate dal sole, a quella delle carboniere nelle goleumidissime del monte. Una mezz’ora di carrozza vi trasporta dalle agrumifere terreancora profumate dalla canzone di Mignon alla rada turchina delle ecloghe pesche-recce del Sannazaro. Una corsa a ruota libera in bicicletta, per ottime strade, attra-verso pascolo e foresta, vi fa riuscire, giù da un grigio e scorbutico villaggio diSchiavonìa nella piazza deserta e abbagliante d’un paese tutto arabo sul mare. Gliulivi che accuratamente coltivati per tutto un fronte di colline fanno tornare amente certi dolci aspetti dell’Umbria francescana, per poco che salga la costa voi livedete uscir di terra grandi e selvaggi come quelli del gebel tripolitano.

E voi, voi che mostrate d’aver in tanto sospetto i motivi troppo pittoreschi dellanostra vita regionale, dove io vi voglio portare potrete lasciarvi servire tranquillo. Lefacce che incontrerete per le vie di quei monti è difficile che le abbiate viste in altrevetrine. Nel paese che dico debbono far presto a invecchiare, perché di giovani se nevedono pochi: e invecchiando non pigliano quell’aria arzilla, benigna, quella co-mune dolce figura d’attaccabottoni che sullo scenario d’una qualunque piazzettaitaliana si può sempre facilmente figurare in polpe goldoniane di scrivano pubblicoo in berretta di «pescatore-affonda-l’esca»; ma dal loro viso di serio e buon galeottotutto tagliuzzato di rughe traluce una certa chiusa illirica tristezza. Quello che offro-no è un figurino assurdo, come chi dicesse un barcarolo di montagna. Essi e le lorofamiglie vanno a bisdosso dell’antico cavallo pugliese, che nei tempi dei tempi fuincrociato coll’arabo; e quando il cavallo memore dell’antica generosità fa uno scar-to escon dal gruppo nugoli di mosche.

Paese incrostato di storia più di qualunque altro; ma con questo di buono, chelì la storia non fa più rumore di quanto ne possan fare nei meriggi estivi le onde delmare e le fronde del bosco: e quando tutto tace anch’essa tace e schiaccia il pisolinodell’erudito locale nella libreria senza pretese. I monumenti che ci sono cercano dinon farsi vedere o spuntano con tutta discrezione da un verde di giardini profuma-

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Verso Sud220 D. Grittani

ti. Per lo più sono vecchie torri alzate un giorno invano sul litorale contro i piratiturchesi che desolarono a varie riprese la regione, e che ora, rimbiancate di calce,servono d’alloggio alle guardie di finanza. Potete fidarvi, signore. Qui la storia nonabbaia e non morde. Sonnecchia. Ma come talora il buon vino dà forza mirabile aquei sapori misti di cedro, di fragole e di popone che son chiusi nella polpadell’ananasso, così nell’ardente silenzio di questa regione voi potrete a momentigustare senza troppa fatica come un sapore misto delle varie civiltà che lentamenteuna dopo l’altra vi si sono posate nel fondo, ogni volta lasciandovi qualche cosa dinuovo e d’inconfondibile per secoli dei secoli sulla faccia dei più poveri abituri,nell’aria stessa, nei visi degli abitanti, nei costumi, nella favella e fin nella bardaturadegli animali domestici: trasmissioni e influenze longobarde, bizantine normanne,saracene… »

«Che favola mai è questo vostro paese?»«Garantisco che potrebbe fornire ottimi scenari e argomenti a qualunque favo-

la, leggenda o romanzo, ecloga o poema, tanto è vario, animato, risentito, pittore-sco; e non ancora sfruttato. Chi voglia vederlo, c’è il sasso dove prima apparveall’Occidente Michele Arcangelo ancora sonante del suo lungo volo attraverso ilmar di Venere. Chi voglia ricorrervi, c’è perfino un santo in carne e ossa e con tantodi stímmate, in un bianco convento di Minori Cappuccini. Chi li preferisca, trove-rà sul monte scenari di bosco e caverne, dove ancora non s’è bene spento il ricordodei briganti che sul primo tempo del Regno assaltavano la corriera postale italianaal grido di viva Francesco secondo! E ci sono castelli e torri in rovina che la sera delladomenica s’empiono di suonatori di chitarra con dei berretti che non avrete maivisto gli uguali sulle stampe che dite. E ci sono i grossi paesi del monte, candidi sullaroccia a ottocento e più metri sul mare, colle più capricciose accostature e incrociaturedi casa con casa, di scale esterne, arconi, terrazze, poggiuoli, che sia dato vedere pertutto l’Adriatico. Vanno le nere capre per le strade e le piazze, pare impossibile,senza insudiciare. La gente coglie tutti i pretesti per portare le seggiole sul marcia-piede e siede soddisfatta guardandosi attorno. Le ragazze restano in piedi sull’uscioo sedute sul primo scalino. Tra le bianche case senza cornicione il giorno non finiscemai di tramontare e attorno alle minuscole finestre filze di bucce d’arancio messe aseccare pare che trattengano per loro conto la luce del sole fino a scuro. Seccaallegria, questa per tutto diffusa decorazione di bucce, che sta a significare né più némeno che questo: che una delle più invidiate ricchezze del luogo non potendoessere inoltrata per mancanza di mezzi di comunicazione nei varî mercati di consu-mo marcisce sul posto e la gente non ne riesce a salvare e utilizzare che la solacorteccia. Secca allegria che lega meravigliosamente con quella dei balestrucci cherigano indefessi l’aria tra le rocche dei camini. Sull’ora più fresca finalmente anche

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PeschiciA. Baldini 221

le famiglie della borghesia tiran su gli storini dipinti e comparendo colle sèggiole sulpoggiuolo si assidono in ordinata mostra.»

«Il bel paese che voi mi dipingete!»«Scendiamo alla marina, signore. Verdi, allegri, lucenti d’agrumi s’affacciano

uno dopo l’altro sul mare deserto i colli del buon lavoro e deliziosi viottoli vi siperdon fra mezzo salendo. Su pei colli si vedono qua e là fitte incannucciate difen-dere i giardini dai crudi venti del nord, e dietro l’incannucciate, gli alberi punteg-giati d’oro e caldi di sole sorridono come donne dietro il ventaglio. Però sulla stradalitorale che il mare lambisce fanno miglior difesa contro i venti e il sale lunghe muraarcate che pel tesoro ombroso e profumato che celano al nostro sguardo possonocon una certa insistenza far pensare anche alle bianche mura di un harem. Vi dicoche di notte, alla viva luce delle stelle, quando un’arietta vagante porta in giro me-scolati odori di pino e d’arancio e nel silenzio cullato dal mare fa cigolare un fanaleche rabesca d’ombre strane quel muro di clausura, vien davvero la voglia di dargli lascalata… I paesi costieri scoprono i lumi un dell’altro protesi sul vuoto mare evedono alterne accendersi e spegnersi le luci dei fari. Davvero non so in qual altropaese d’Italia possa esserci un silenzio così alto. Il treno più vicino si ferma a settantachilometri. I pazienti coltivatori dormono in pace nelle loro villette in cima ai collie dimenticando la frutta andata a male per anni e anni nei fossi ascoltano in sognoil fischio lontano della ferrovia che il sottosegretario deputato del luogo ha promes-so in questi giorni alla nobile terra del Gargano.»

[Tratto da Italia di Bonincontro, ANTONIO BALDINI, Sansoni 1940]

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PARTE XIII

Monte Sant’Angelo

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Leandro Alberti (Bologna 1479 - 1553). Frate domenicano, a seguito di unlungo viaggio compiuto al servizio del generale dell’ordine Francesco Silvestrida Ferrara pubblicò la vastissima opera Descrittione di tutta Italia nella qualesi contiene il sito di essa, l’origine e la signoria delle città et de’ Castelli,risalente all’anno 1550. Da questa è tratta la Descrittione del Monte SantoAngelo, prosa che si rivelò un utile strumento per chi - qualche anno dopo -riprese a battere i lunghi sentieri della fede della Via Sacra Langobardoruum.

Seguitando poi il lito ritrovasi la città di Manfredonia posta sopra la sassosa rupedel golfo del mare del monte Gargano, che riguarda al Settentrione. Fu edificataquesta città di Manfredi Ré, figliolo di Federico II. Imperatore nell’anno 1200. dache prese la nostra fragil carne il figliol di Dio, e la nominò dal suo nome Manfre-donia, che avanti era detta porto di Capitanata, secondo Pondolfo Collenuccio nel4. lib. dell’hist. del regno. Et la fece detta Manfredo essendo roinato Ciponte, etrasferico il seggio archiepiscopale quivi da Siponte, avvenga che si nomini essoArcivescovo Sipontino. Ella è assai civile, e di popolo ben piena. Appresso al lito sivede una fortissima Rocca, la quale gli anni passati essendo venuto in questi luoghiOdetto di Lautreco Capitano di Francesco primo Ré di Francia per racquistare ilRegno con gran numero di soldati, e havendo aquistato molti luoghi di Puglia nonpuotè mai però haverla ne meno la città, anzi sempre costantissimamente simantenennero nella fede di Carlo V. Imper. Fuori della città al lito si vede unartificioso Molo per sicurezza delle navi che quivi vengono con le mercantie. Quivisi veggono alquanti scaglioni di pietra per scendere dal Molo alle navi. In uno de iquali, sono fomate le forme de i piedi della Signora Bona già figliuola di GiovanGaleazzo Sforza Duca di Milano, e d’Isabella d’Aragona sua consorte Duchessa diBarri, ove si fermò (dovendo scendere alle navi per passare il mare Adriatico, eandare in Polonia per consorte di Sigismondo Ré) per chiedere perdono, e buona

Descrittione del Monte Santo Angelo

Leandro Alberti

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Verso Sud226 D. Grittani

licentia con lagrime alla sua madre. Et oltra le dette forme, così è scritto nel sasso.Quì si fermò la Reina di Polonia, quando chiese venia, e licentia à Madama Isabellasua madre Duchessa di Milano, e di Barri. Furono alcuni che dissero che fosseedificata questa città, ove era Apeneste. Ma invero assai di lunga si ingannano co-storo; imperò ch’egliè dipinto da Tolomeo Apeneste (come dimostrerò) di là daSiponte, secondo la sua misura, e non di quà. Et non li bastando questo errore,dipoi entrano in uno maggiore (non ricordandosi haver detto che quivi fosseApeneste) dicendo più avanti vi fosse Vibarno citato da Tolomeo, e posto ne iMediterranei de i Pugliesi Daunij; imperò che Manfredonia è appresso il lito delmare. Seguitando pure il lito da un miglio, appare sopra la sassosa rupe, alle radicidel monte Gargano la roinata città di Siponte, nominata Sipontum da Plinio, Stra-bone, Pomponio Mela, e da Tolomeo, ma i Greci Sepiuntem lo addimandano,overo Sypie come dice Mela; e Silio Italico nell’ottavo libro lo dice Sipum, e littoraSipus. Fu addimandato dai Greci Sepiuntem per li pesci sepij gettati alla riva del litodall’onde marine, che ivi si veggono in grande abbondanza, come etiandio insino alpresente appareno. La fu nominata Sipa, e fu edificata de Diomede (come vuoleStrabone) discosto da Salapia 150. stadij, cioè circa venti miglia. Ora giace rovinata,ma pur si vedono tali vestigi d’edifici, che facilmente si può dare sententia, che fossenobile, e magnifica città. Vi si vede altresì la chiesa maggiore quasi tutta in piedi,ove era stato dato principio ad una sontuosa cappella di pietre quadrate, che poirimase così. Appresso il lito (sotto però gli edifici sfasciati) vi è una bella Fontana dichiare acque che abbondantemente trascorrono alla Marina. Et questa Fontanasoccorreva à i bisogni della città. Molte volte ne fa mentione Livio di questa città,tra i quali è nell’ottavo libro, e nel trentesimoquinto, ove scrive che Spurio PostumioConsole fece intendere al Senato, come caminando intorno a ciascun lito del mardell’Italia, havea ritrovato abbandonate due Colonie, cioè Siponte lungo il lito delmare supero, e Bussento appresso il mare infero. La onde il Senato creò tre huominiche conducessero à quei luoghi habitatori, cioè L. Scribonio Libo, M. Titio, Gn.Bebio Panfilo. Et nel 34. havea dimostrato come la fosse dedutta colonia da i trehuomini, cioè da D. Giunio Bruto, M. Bebio Panfilo e M. Elvio, e che fu partito ilpaese, che già era degli Irpini. Fu molto felice essa città insino a’ tempi de’ Saracini,che soggiugarono tutta Puglia, e habitarono insino a i tempi di Carlo Magno, ondene furono poi scacciati. Ma avanti che si partissero di questi luoghi, prima saccheg-giarono questa città, e uccisero tutto il popolo, e così la lasciarono abbandonata, etportarono con loro tutte le ricchezze di essa nell’Africa. Così dicono alcuni, descri-vendo la roina di quella. Ma altri scrivono che ella talmente fu guasta dalle civilifattioni, che intravennero fra i cittadini: e altri narrano essere divenuta quella àtanta calamità per li grandi terre moti. Forse che sono concorse tutte tre queste cose

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Descrittione del Monte Santo AngeloL. Alberti 227

à condurla à tanta roina, come hora si trova. Fu Arcivescovo di questa città ne’nostri giorni Niccolò Perotto da Sassoferrato, huomo bene intelligente, non sola-mente di lettere latine, ma altresì Grece, come dimostrano l’opere da lui lasciate.Parimente fu Arcivescovo di essa Giovan Maria di Monte, meritevolmente Cardi-nale della chiesa Romana, uomo di singolar prudentia, et di buone lettere ornato. Ilquale fu poi creato sommo Pontefice nell’anno di nostra salute 1550. a gli 8. diFebraro, e coronato a i 24. del detto con grandissima pompa; e fecesi nominareGiulio III. Più avanti passando pur lungo il lito, vedesi il luogo ove era Apenestetotalmente roinata, della quale altra memoria non ritrovo, eccetto quella fatta daTolomeo. Poscia ritrovasi Monte Gargano. Et per essere una curiosa descrittionequesta di detto Monte, a me par di narrarla tutta di mano in mano; ancor che nonosservi l’ordine, perché comincierò dal lito, che sarebbe cosa difficile di ridurla a talordine.

Descrittione del Monte Santo Angelo

Questo monte è dimandato Gargano da gli antichi scrittori, tra i quali è Strabo-ne, Plinio, Pomponio Mela, Verg. nel II lib. quando dice. Victor Gargani condebatIapygis. Et Lucano nel 5. Apulus Adriacas exit Garganus in undas. Et Oratio, nel 2.de i Carmini dice Querceta Gargani laborent, e Silio Italico nel 8. lib. e in moltialtri luoghi, e Livio, e Tolo. con altri assai scrittori, e parimente Faccio degli Ubertinel cap. I del 3. lib. Dittamondo quando dice. Simile modo quando ei fu noto /Monte Gargano, la dove Sant’Agnolo / In fin’ a lui non mi parv’ire in voto. / Conquell’istudio che fa la tela il ragnolo / ci studiavamo per quel camin alpestro. / Epassavamo hor questo hor quel rigagnolo.

Avanti che più oltre io entri alla descrittione di questo monte, voglio avisar à ilettori, com’è stata fatta memoria di esso monte da quegli autori antichi che furonoinnanzi che mai S. Michele Arcangelo vi si dimostrasse, come narrano l’historie. Laonde chiaramente si vede esser favola quella che si legge nell’apparitione di S. Mi-chele, che’l detto monte acquistasse il nome da Gargano huomo ricco, il qualehavea grand’armenti d’animali, e che volendo saetare il bue da lui fuggito, fosse eglidalla saeta (che tornò à dietro) ferito; Imperò che di monte centinaia d’anni egli èricordato esso monte Gargano da gli antichi scrittori, avanti che fosse dettaapparitione di S. Michele. Lasciando questa regione, entrerò alla descrittione diesso monte. È questo monte Gargano molt’alto, e evvi faticosa via da poterli salire.Nel qual sono alquante piacevoli selve, ma benché in più luoghi sia privo d’alberi,nondimeno vi si raccogliono molte specie di sanevoli erbe per l’infermità. Dal lato

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Verso Sud228 D. Grittani

che risguarda al mare (come etiandio dimostra Str.) si distende un braccio di monteverso l’oriente, lungo 320. stadij, o siano da 40. miglia. Nasce questo alto montedall’Appellino, dalle cui radici esce una schiena molto alta, 2. miglia larga e 20.lunga. La quale passata, comincia il monte alzarsi a poco a poco, e così facendo escemolto alto, grande e largo, ben però fruttifero. Entra poi tanto nella marina, chequella gli circonda le radici che finiscono alla pianura da 200. miglia, avvenga chePlinio dica 134. Egli è in molti luoghi precipitoso, dal lato, che risguarda al mare,ove manda fuori quel braccio avanti descritto, secondo il riporto di Str. Pensò Dio-mede di far una fossa per spartire esso braccio dal resto del monte, acciò ch’entran-dovi, l’acque marine, ne risultasse un’isola, ma non poté esequire il suo disegno,essendo sforzato a ritornare alla patria, ove si morì. Sono in questo monte alquantiluoghi da descrivere. Et prima veggonsi alquanti Laghi da pescare. Tra i quali vi è illago di Varrano, che gira intorno 30. miglia, ove sono alquante castella cioè Caprino,Cognato, Iscitella, e nella faccia dell’antidetto braccio di monte, la città di Bestiacosì dal volgo nominata in vece di Vesta, imperò che quivi ne’ tempi antichi era iltempio dedicato a Vesta (secondo il Razano). Quindi a 10. miglia vedesi Vesticecastello, et passato tutta la piegatura di detto braccio, la città di Rode, qual nominaStr. Ureum (ch’era picciola ne’ suoi tempi) e Pomp. Mela, Uris, ma credo, sia cor-rotto il lib. et voglia dire, Uryas. Et Pli. nomina i cittadini di essa, Irini. Ma il dottoBarbaro nelle correttioni Pliniane dice, ch’è guasto il li. di Pli. e ch’l vuol dire Hyrini,adducendo in testimonio Tolo. Eustathio, e Erodoto, che dicono che fosse Hyriauna Colonia della Giapigia. Vero è, che Tolo accordandosi con Dionisio Afro, lanomina Hyriun, e non Hyria, come dice il Barbaro. Secondo però alcuni si doverebbenominare dal volgo Rore, e non Rode, perché quivi scende dal Cielo tanta tempe-rata rugiada, che fa produrre i campi con gli alberi buoni, e saporiti frutti. Daquesta città si partì Alessandro Papa III. con 13. Galee dategli da Guglielmo Normanoper varcare a Vinegia a pacificarsi con Federico Barbarossa Imperatore, come narraBiondo nell’historie. Termina a questo promontorio il Seno Ionio, e comincial’Adriatrico, secondo Tolomeo (avvenga che altri dicano detto Golfo Ionio finire aBrindisi, secondo ch’è detto disopra). Disegna Hierio Tolomeo nel golfo Adriatico,ov’egli comincia. Par che questo monte Gargano con alcuni altri luoghi vicini sideono nominare Giapigia, della quale opinione par che fosse Verg. quando disse.Victor Gargani condebat Iapygis arces. Sì come dichiara Servio dicendo, esser laGiapigia parte di Puglia, ov’è il monte Gargano. Per hora altro non dirò di questaGiapigia, imperò che riservo più in giù à favellarne. Seguitando il camino lungo illito del mare, ritrovansi alcuni luoghi di poco affare, e per tanto li lascierò senz’altramentione. Di riscontro à questi luoghi, vedesi nel mare S. Maria di Tremite, giàdette l’Isole di Diomede, delle quali nella descrittione dell’Isole attenenti all’Italia

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Descrittione del Monte Santo AngeloL. Alberti 229

ne parlerò. Più avanti pur seguitando il lito, ritrovasi la foce del fiume Fiterno, horaFortore, appresso il lago di Lesina, come si dimostrerà più avanti. Havendo descrittii luoghi littorali posti alle radici del monte Gargano (hora di S. Angelo nominato)passerò alla descrittione de i luoghi posti fra quello. Ritrovasi primieramente incima di detto monte il castello di S. Angelo così è nominato dalla devotissimaspelonca consecrata all’Arcangelo San Michele, della quale presto ne parlerò. Giaceadunque questo castello sopra il monte, et sopra l’alta rupe, che risguarda al mareove è fabricata Manfredonia sei miglia discosto. Egli è ben’habitato, et è forte luogo,ove lungo tempo dimorarono i Saracini, a dispetto de’ Christiani, per essere il luogoforte di natura, e abondevole delle cose necessarie per il loro vivere, che si cavano diquei luoghi del monte. Insino ad oggidì si vedono le sepolture nel sasso cavate,secondo i loro malvagi riti, e profane cerimonie. Vi si raccogliono le cose per ilvivere de’ mortali, et fra l’altre, buoni vini vermigli. Quivi si vede la devotissimaSpelunca, et sacrato Tempio dedicato a San Michele Arcangelo, la quale fu ritrovata(manifestandola il S. Angelo) nell’anno della gratia 586. a gli otto di Maggio essen-do Pontefice Romano Gelasio, e Imperatore Zenone, et Arcivescovo di SiponteLorenzo, per essere stato ferito il servo di Gargona dalla propria saetta, c’havea tirataal bue del padrone, ch’era avanti la foce di detta spelunca. Io ritrovo gran differentiadell’anno che fu ritrovata questa spelunca, conciosia cosa che Giacomo FilippoPelanegra dica che fu nel 536. da che il figliuolo di Dio s’incarnò, tenendo il seggiodi Pietro Gelasio, e l’Imperio Zenone. et Sigisberto dimostra che fu questa cosal’anno secondo di Gelasio 2. et il 17. di Zenone, dell’avenimento di Christo 492.onde ritrovo che vi sarebbe differenza di 44 anni tra questi dui. Imperò che ilPelanegra vi darebbe 44. anni piu che Sigisberto. Et perciò credo che’l sia in errore,perché nel 536. era Papa Giovanni secondo, et Imperatore Giustiniano primo.Talmente è disposta essa spelunca, come scrive Giacomo Filippo Pelanegra Troiano,in un suo libracciuolo, che mi fu dato da i Venerandi sacerdoti i quali servono aquesto luogo, essendovi io andato nel 1525. È un luogo, non da humano artificio.e ingegno, ma da essa natura Angelica cavata a posta dentro un vivo sassonell’antedetto monte, ove si comincia ad entrare da cima per una porta di marmograndissima, da i Signori del Regno fabricata, posta al Mezo giorno. Et in quella sidiscende continuamente per 55. gradi verso il Settentrione. Et se le spesse fenestre,con artefatte, nel rotto sasso, non illuminassero le marmoree scale, ivi non si potriagire comodamente senza lume artificiale. Nel fine de i quali, si ritrova un Cimiterioin piano scoperto, ove sono molte cappelle, e sepolture. Fra queste, avanti che sientri nella santa grotta, a man sinistra, se ne vede una bella con l’insegne de i Puderichigentil’huomini Napolitani, anticamente signori del luogo. Appresso questa Capella,per un’altra porta lavorata di arteficioso metallo, s’entra nella santa spelonca, Né

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Verso Sud230 D. Grittani

avanti che’l sole esca dell’onde del sottoposto mare Adriatico, e che copra le spalledel monte, ivi è lecito a persona entrare. questo uscio guarda all’Occaso. A mandestra si vede la maravigliosa Grotta, casa del santissimo Arcangelo Michele distesaverso l’Oriente, tutta d’un pezzo, e viva pietra, sempre puro humore distillante:horrida, bassa, e oscura: Credo non ad altro fine, e ornamento fatta che per la salutedell’anime nostre. Nel mezzo trovasi un picciolo Coro, ove si saglie per quattrogradi. Ma come ti avicinerai al sacro altare dell’Angelo poco più in alto, e elevato, òvogli ò nò, sei costretto di venerare detto luogo, ivi si vede il pargoletto Altareconsacrato dal santo Angelo vestito di un’altro sopr’altare manualmente fatto, ovesi celebra le più parte le quotidiane messe. Né questo luogo è aperto à tutte lepersone. Indi non poco discosto è un Fonte picciolo di divin liquore, semprescaturiente, che gli huomini della Città usano quasi in tutte le infirmità, per sanissimamedicina. Da man sinistra sono più altri altari, capelle, e altri luoghi secreti da dirmessa. Et tra gli altri vi sono due altri altari, che furono fatti dal S. Angelo. Vi sonoanco quei luoghi di sopra da orare, non fatti apposta, ma produtti dalla natura inesso sasso, per invitar i mortali à contemplatione, e penitentia. Il suolo della speluncaè di bianco, e di rosso marmo dipinto. Dalla parte di fuore, cioè disopra dellaGrotta, è un verde, e folto boschetto, d’altissimi alberi ottuso carco, et vestito. Soprai rami, de i quali pende grandissima quantità di pietre d’ogni sorte, che su per ilmonte alcuni pelegrini portano al collo per loro voti, et divotioni, et ivi poi l’appicanocon le sue orationi. Egli è certamente cosa maravigliosa a veder questo boschettoconciosia cosa che per molto spatio di questo monte, non si vede alcun’albero. Laonde par più tosto miracolo, che cosa naturale a vedere tanti alberi, et così grossi nelvivo sasso radicati. Fummi narrato (essendo quivi) che ne’ tempi di Carlo ottavo Redi Francia, il qual soggiugò il Reame, nel 1494. fu tagliato uno de’ detti alberi da unFrancese, il che fatto divinamente ne rimase morto. Etiandio nella detta speloncavidi una bella Croce di chiaro cristallo, lunga circa un palmo, e mezo, la qualesecondo quei venerandi sacerdoti, fu quivi ritrovata essendo conosciuta miracolosa-mente la detta spelunca. Ritrovasi poi nel mezzo di questo Monte, ove è la bellapianura con vaghi prati, il castello di S. Giovanni Ritordo, ove ciascun’anno nelgiorno di santo Onofro a gli undici di Giugno si raunano i vicini popoli, e havendoben considerato la qualità de i raccolti del grano, orzo, e d’altre biade, di communparere tassano il pretio a tutte le biave; la qual tassa non può trapassare alcuno. Ne’lati di questo monte veggonsi in più luoghi vestigi d’antichi edifici, che lascierò peresser abbandonati. Vero è, che alle radici del detto, da mezo giorno appresso lapianura fra S. Severo, e Manfredonia, si scorge San Vito assai sufficiente castello diedifici, ma però abbandonato, per la moltitudine delle serpi, che vi sono, e di con-tinuo l’abbondano. Et ciò non dee parere impossibile, perché anco Solino nel 7.

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Descrittione del Monte Santo AngeloL. Alberti 231

capo. narra come fossero roinate molte habitationi da i Serpenti, e massimamentenell’antica Calabria, le quali Serpi sono nominate Chersedri. Pur da questo lato,che risguarda al Meriggio nel principio del monte antidetto, vi è Arignano castello;e seguitando pur le radici di quello, piegandosi però all’Occidente, ove comincia lavia da salire sopra detto monte d’Arignano, tre miglia discosto, e dal Mare cinque,si scopre Santo Alicandro castello, e più avanti altrettanto, et due dalla radice deldetto, Precina, assai honorevole castello, e di popolo assai ben pieno. Quivi si vedeun magnifico Palagio fatto da Federico II. Imperatore per cagione, che cacciandoegli in questi luoghi, doppo molte fatiche conquistò un gran cinghiale quivi, e vifece ordinare una bella cena, ove vi fu presente esso con tutti i suoi baroni. Il chefatto volse che in questo luogo a memoria di detta cosa si facesse un castello, e chese nominasse Apricena dal Cinghiale preso, e mangiato nella cena. Ben’è vero, chenon sapendo il volgo la cagione di tal nome, e etiandio, non sapendolo isprimere, lodomandarono prima Pricena, poi Precina, e alfine, Procina, in vece d’Apricena.Poscia essendo fabricato, lo consignò detto Federico ed alcuni soldati vecchi, chehavea condotto seco in Sicilia, per loro riposo. Così scrive Razano. Più avanticaminando sei miglia verso l’Occidente, si scopre Torre maggiore castello, quattromiglia vicino al fiume Fortore. Poscia dopo altrettanto verso il Meriggio, vedesi SanSevero dal Monte di S. Angelo similmente quattro miglia lontano. Egliè questocastello molto, ricco, nobile, civile, e pieno di popolo; e è tanto opulento che nonha invidia ad alcun’altro di questa Regione. Secondo Strabone nel sesto libro eranonel territorio Daunio (benché dica il corrotto libro Sannio) circa un picciolo colleaddimandato Driono due Tempij, uno de i quali apparea nella cima del dettocollicello, consacrato à Calcante, ove sacrificavano quelli, che circavano haver rispo-sta da lui, dormendo la notte sopra la pelle d’un Montone negro in terra istesa,l’altro Tempio era dedidato a Podalirio, e fabricato alle radici del detto collicello,cento stdij, ò siano dodici miglia, e mezo dal mar discosto. Usciva di questo Tempioun ruscelletto d’acqua giovevole à tutte l’infirmità de gli animali, Io credo che taiTempii non fossero molto discosti da questi luoghi, vicini al monte di S. Angelo.

Descritto il Monte Gargano, ò di S. Angelo co i luoghi posti alle radici di essoentrerò nella larga pianura di questa Regione, hora Capitinata detta.

[Tratto da Descrittione di tutta Italia nella quale si contiene il sito di essa, l’origine e la signoria delle città etde’ Castelli, LEANDRO ALBERTI, 1550]

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Arthur Miller (New York 1915-2000). Scrittore americano tra gli autori piùrappresentativi del nostro tempo. Secondo marito di Norma Jean Baker (alsecolo Marilyn Monroe), in seguito al discusso suicidio della quale scrisse Dopola caduta (1963), opera che per il chiaro contenuto autobiografico gli valsenumerose critiche ma anche la definitiva affermazione come drammaturgo.Tra i suoi testi teatrali più conosciuti Morte di un commesso viaggiatore(1949) e Uno sguardo dal ponte (1955).Apparso per la prima volta sulla rivista Harpers’s Magazine nel marzo del1951, il racconto Monte Sant’Angelo fa parte della raccolta I dont’ need youany more (The Viking Press, New York 1967). Fu scritto in occasione di unviaggio che Arthur Miller compì in Italia nel 1948, allorquando si recò nelleregioni meridionali del paese accompagnato dal suo amico italo-americanoVincent Longhi.

L’autista, ch’era rimasto in perfetto silenzio per quasi un’ora, traversando la ver-de, monotona piana di Foggia, disse d’un tratto qualcosa. Appello, dal sedile poste-riore, si chinò in avanti chiedendogli cosa avesse detto. «Quello là davanti è MonteSant’Angelo». Appello abbassò la testa per guardare attraverso il parabrezza dellapiccola Fiat rumorosa. Poi diede di gomito a Bernstein, che si svegliò risentito.«Eccolo lassù il paese» disse Appello. Il risentimento di Bernstein svanì, e anche luisi piegò in avanti. Stettero entrambi così per diversi minuti, guardando quel paeseche gli sembrava situato in un modo così buffo, più buffo ancora di quelli cheavevano visto nelle quattro settimane che avevano passato viaggiando per il paese inlungo e in largo. Sembrava una minuscola vecchia signora che si fosse appollaiatasul tetto per paura dei ladri.

La piana davanti a loro restava piatta come una tavola ancora per qualche centi-naio di metri. Poi s’innalzava una montagnola, squadrata e rigida come una colon-

Monte Sant’Angelo

Arthur Miller

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Verso Sud234 D. Grittani

na, restringendosi verso la sommità. E lassù, ormai, appena visibile, era accovacciatoil paese; per un momento fu celato da bianche nuvole, poi ricomparve, minuscoloe sicuro come un porto su un’alta costiera al confine del mare. A quella distanzanon si scorgeva alcuna strada, nessuna via d’accesso sul fianco della colonna.

«Quelli che l’hanno costruito dovevano avere una tremenda paura di qualcosa»disse Bernstein, stringendosi il soprabito addosso. «Come faranno a salire lassù,ammesso che qualcuno ci salga!».

Appello, in italiano, domandò all’autista notizie del paese. E quello, che c’erastato una volta in vita sua e che non conosceva nessun altro che ci fosse stato –benché risiedesse a Lucera, non molto lontano di lì – rispose, con una cert’ariadivertita, che presto avrebbero visto quanto di rado qualcuno salisse a Monte San-t’Angelo. «I somari che incontreremo scapperanno o si metteranno a scalciare»disse «e quando entreremo in paese tutti verranno fuori a guardarci. Sono lontanis-simi da tutto. Sembrano tutti fratelli, lassù. Non conoscono quasi niente di niente.»Si mise a ridere.

«Che cosa dice il nostro collega di Princeton?» disse Bernstein.L’autista aveva i capelli tagliati a spazzola, il naso all’insù, una rossa faccia roton-

da e gli occhi azzurri. L’automobile era sua, e benché quando stava con i piedi interra parlasse come qualunque altro italiano, seduto al volante con due americanidietro aveva per tutto ciò che lo circondava un atteggiamento quanto mai divertitoe superiore. Appello, dopo che ebbe tradotto le sue parole a Bernstein, gli domandòquanto ci sarebbe voluto per arrivare fin lassù. «Forse tre quarti d’ora… Quanto civuole a fare la salita» precisò.

Bernstein e Appello si appoggiarono allo schienale e osservarono l’avvicinarsidella montagnola. I suoi fianchi, ora si vedeva, erano di una pietra bianca sbriciola-ta. A questa distanza ravvicinata sembrava che un qualche enorme, mostruosomartello le avesse dato un colpo terribile fendendone la struttura in milioni dicrepe. Adesso avevano cominciato a salire per una strada di pietre rotte, taglienti.

«È una strada romana» disse l’autista. Sapeva quanto apprezzano gli americanitutto ciò che è romano. Poi aggiunse: «L’automobile, però, è milanese». Lui e Ap-pello si misero a ridere.

Una polvere bianca cominciava a penetrare nella macchina. Al loro fianco, l’abissostava diventando minaccioso. La strada non aveva alcun parapetto, e ogni centinaiodi metri v’era un tornante. Gli sportelli della Fiat tentennavano. Una bianca, finis-sima polvere si posava sui loro vestiti, sulle loro ciglia. Cominciarono a tossire.Quando si riebbero, Bernstein disse: «Tanto per farmene un’idea, vecchio mio,vuoi per favore spiegarmi in tutte lettere perché diavolo ci arrampichiamo su que-sto blocco di polvere?»

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Monte Sant’AngeloA. Miller 235

Appello si mise a ridere e gli misurò scherzosamente un pugno.«Senza scherzi» disse Bernstein, cercando di sorridere.«Voglio vedere questa mia zia, ecco tutto» disse Appello, serio.«Sei proprio pazzo. Devi avere una sorta di complesso ancestrale. Da quando

siamo in questo paese non abbiamo fatto che andare in cerca dei tuoi parenti.»«Accidenti, sono finalmente qui, e voglio vedere tutti i posti da cui provengo. Ti

rendi conto che due miei antenati sono sepolti nella cripta di quella chiesa lassù?Dal millecento o giù di lì».

«Oh, è questo il posto dei due monaci?»«Proprio questo. I due fratelli Appello. Furono tra i fondatori di quella chiesa. È

famosissima, quella chiesa. Si dice che San Michele abbia fatto un’apparizione, qui,o qualcosa del genere».

«Chi avrebbe immaginato che un giorno avrei conosciuto qualcuno con deimonaci tra i suoi antenati. Però, continuo a credere che tu sia un po’ tocco, a questoproposito.»

«Dunque, tu non senti proprio niente, non hai nessuna curiosità per i tuoiantenati? Non ti piacerebbe tornare in Austria, patria d’origine della tua famiglia, evedere i posti dove vivevano i tuoi vecchi? E magari ritrovare una famiglia imparen-tata con te, o qualcosa del genere?»

Bernstein per un po’ non rispose. Non sapeva esattamente che cosa provava, e sidomandò vagamente se non avesse continuato a vessare l’amico per un fondo d’in-vidia. Quando erano stati in quel tribunale di provincia dov’erano appesi i ritrattidel nonno e del bisnonno di Appello, entrambi eminenti magistrati; quando aveva-no passato quella serata a Lucera, dove il nome Appello era indice di onorabilità edistinzione, e dove il suo amico Vinny aveva avuto quell’accoglienza così calorosain quanto era un Appello… in tutti quei momenti Bernstein si era sentito tagliatofuori, e in certo modo, defraudato di qualcosa. Al principio si era detto che tantaagitazione era puerile, ma poi, accorgendosi che un fatto dopo l’altro, un cimeliodopo l’altro, riecheggiavano il nome di Appello, a poco a poco aveva cominciato asentire il suo amico combinarsi con la storia di quel paese, e gli era parso che ciòrendesse Vinny più forte, e anche, in certo modo, meno morto, quando sarebbevenuta per lui l’ora di morire.

«Io non ho parenti, in Europa, per quel che ne so» disse a Vinny. «E se ne avessiavuti, ormai sarebbero stati spazzati via tutti.»

«È per questo che ti dispiacciono queste mie ricerche?» replicò Vinny.«Non dico che mi dispiacciano» disse Bernstein, con un sorriso forzato. Avrebbe

voluto potersi aprire come si apriva Vinny; gli avrebbe dato forza, gli avrebbe datoun senso di benessere, pensò. Guardavano in giù verso la piana, e parlavano poco.

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Verso Sud236 D. Grittani

La polvere aveva schiarito le nere sopracciglia di Appello. Per un attimo Appellopensò che si rassomigliavano. Erano alti entrambi più di un metro e ottanta, brunie larghi di spalle. Bernstein era più slanciato, addirittura scarno, e dalle braccialunghe. Quelle di Appello erano più forti, e lui stava un po’ curvo, come se nonvolesse apparire alto. Ma i loro occhi erano diversi. Appello aveva un’aria un po’asiatica, negli occhi, che erano nerissimi, diretti e, per le donne, appassionati. Quel-li di Bernstein, più che guardare, fissavano; lui trovava pericoloso che si potesseroscandagliare gli occhi, e per questo, spesso li distoglieva, li abbassava; sembravaesservi un che di difensivo, nei suoi occhi, di crudele e gentile nel tempo stesso.

Avevano simpatia l’uno per l’altro, non tanto per delle ragioni precise quantoper delle possibilità, era come se entrambi sentissero di essere opposti. Ed eranoattirati dai reciproci difetti. Con Bernstein accanto, Appello si sentiva distolto dallasua irresponsabile sensualità, e in questo viaggio Bernstein aveva spesso il piacere ela pena di non dover più rinnegare sé stesso. La macchina superò un tornantestrettissimo sollevando una nuvola di polvere, e d’un tratto si trovarono dinanzi lastrada principale del paese. Non c’era nessuno in vista. Ciò che aveva predettol’autista si era dimostrato vero… nei pochi fazzoletti d’erba che avevano incontratosalendo, i somari si erano messi a scalpitare, e dei pastori con ispidi baffi, neriberretti in testa, e lunghi e neri mantelli, li avevano guardati con la silenziosa atten-zione di coloro che conducono una vita remota. Ma qui in paese non c’era nessuno.L’auto risalì la strada principale, che ora si faceva piana, e d’un tratto furono circon-dati da persone che uscivano dalle porte, infilandosi la giacca, mettendosi il berret-to. Sembravano stranamente uguali, e più irlandesi che italiani.

I due scesero dalla Fiat e controllarono il bagaglio legato sul tetto della vettura.Appello parlava ridendo con la gente, che continuava a domandare come mai fossearrivato fin lassù, che cosa aveva da vendere, che cosa voleva comprare, finché luidisse chiaramente ch’era venuto soltanto per cercare sua zia. Quando disse il nome,gli uomini (le donne erano rimaste in casa e guardavano dalle finestre) non diederosegno di conoscerla, finché un vecchio con un paio di sandali di corda e un berrettinoa maglia da pattinatore si fece avanti e disse che lui quella donna se la ricordava. Sivoltò, e Appello e Bernstein lo seguirono per la strada principale, seguiti a loro voltada un codazzo di forse un centinaio di uomini.

«Come mai nessuno la conosce?» domandò Bernstein.«È una vedova. Immagino che starà quasi sempre in casa. Gli uomini della

famiglia morirono una ventina d’anni fa. Suo marito era l’ultimo Appello in questopaese. Le donne non contano molto qui; scommetto che questo vecchio si è ricor-dato il nome perché conosceva suo marito, non lei.»

Il vento forte e costante soffiava attraverso il paese spazzando le sue pietre bian-

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Monte Sant’AngeloA. Miller 237

che. Il sole era fresco come un limone, il cielo di un azzurro puro, e le nubi cosìvicine che le loro chiglie sembravano affondare nella strada accanto. I due america-ni cominciarono a camminare con la gioia di tutto questo nei loro lunghi passi.Arrivarono a una casa di pietra a due piani, e percorsero un buio corridoio e bussa-rono. La guida era rimasta rispettosamente sul marciapiede.

Per alcuni momenti, nell’interno non s’udì alcun rumore. Poi vi fu un frusciare,a brevi tratti, come di un topo che corresse, si fermasse, si guardasse attorno, ripren-desse a correre. Appello bussò di nuovo. La maniglia girò, e la porta si aprì per unospiraglio. Una piccola donna pallida, non troppo vecchia, teneva la porta apertasolo quel tanto che permetteva di mostrare la faccia. Sembrava molto agitata.

«Eh?» disse.«Sono Vincenzo Giorgio.»«Eh?» ripeté lei.«Vincenzo Giorgio Appello».La mano scivolò via dalla maniglia, e la donna fece un passo indietro. Appello,

col suo sorriso cordiale, entrò, seguito da Bernstein, e chiuse la porta. Una finestralasciava che il sole inondasse la stanza, che era tuttavia fredda come una pietra. Ladonna era a bocca aperta, le mani congiunte come in preghiera, le dita puntateverso Vinny. Tutta ritirata in sé stessa, come sul punto di inginocchiarsi, non riusci-va a parlare.

Vinny le si accostò, la toccò sulla spalla ossuta, la fece sedere su una sedia. Anchelui e Bernstein sedettero. Cominciò a parlare della loro parentela, fece il nome diuomini e di donne; alcuni erano morti, di altri lei aveva sentito parlare ma non liaveva mai visti in vita sua. Parlava, finalmente, ma Appello non riusciva a capire checosa dicesse. D’un tratto uscì di corsa dalla stanza:

«Credo mi abbia preso per un fantasma o qualcosa del genere. Mio zio dicevache non aveva più visto nessuno della famiglia da venti o venticinque anni. Scom-metto che non crede ci sia rimasto più nessuno.»

Ritornò con una bottiglia che aveva nel fondo due dita di vino. Ignorò Bernsteine diede la bottiglia ad Appello. Lui bevve. Era aceto. Poi lei cominciò a singhiozzare,e continuava a tergersi le lacrime dagli occhi per poter vedere Appello. Non riuscivamai a finire una frase, e Appello continuava a chiederle che cosa voleva dire. Nonfaceva che correre da una parte all’altra della stanza. Il ritmo delle sue partenze e deisuoi ritorni alla sedia stava diventando così ossessivo che Appello alzò la voce e leordinò di sedersi.

«Non sono un fantasma, zietta. Sono venuto fin quei dall’America…». Si fer-mò. Dallo sguardo trasecolato, spaventato, che c’era negli occhi della zia era chiaroche lei non l’aveva affatto creduto un fantasma, ma che le riusciva altrettanto scon-

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Verso Sud238 D. Grittani

volgente il fatto che, quando nessuno veniva mai a trovarla da Lucera, uno avessepotuto pensare a lei dall’America, un posto che esisteva, sì, come esisteva il cielo,ma, per lei, proprio allo stesso modo. Non c’era alcuna possibilità di intrattenereuna conversazione con lei.

Alla fine se ne andarono, senza che lei fosse riuscita a dire una frase coerente,tranne una benedizione, ch’era il suo modo di esprimere il suo sollievo che Appellose ne andasse, poiché nonostante l’indicibile gioia di aver visto con i suoi occhi unparente del marito, un tale fatto era troppo terribile per le sue implicazioni, e per laresponsabilità che a lei ne derivava di fargli una degna accoglienza.

S’incamminarono in direzione della chiesa. Bernstein non era riuscito a direnemmeno una parola. L’emozione di quella donna, così pura, così violenta, cosìselvaggia, l’aveva impressionato. Gettando un’occhiata su Appello, si stupì nel ve-dere che il suo amico aveva tratto dall’episodio nient’altro che una sorta di calmasoddisfazione, come se sua zia si fosse comportata nel modo più normale. Ricordòconfusamente che da ragazzo era andato a far visita a una sua zia al Bronx, unaparente che non era in relazione con la sua famiglia e non l’aveva mai visto. Siricordò di come l’avesse forzato a mangiare, gli avesse fatto ganascino, e gli avessesorriso ogni volta che lui alzava gli occhi a guardarla. Ma sentì che non v’era nulla diquest’intensità, in quell’incontro, né ve ne sarebbe stata nemmeno se ora, al prossi-mo angolo, avesse dovuto incontrare una donna che avesse detto di essere sua pa-rente. Tutt’al più avrebbe provato il desiderio di piantarla lì e andarsene, anche seera sempre andato d’accordo con i suoi parenti, né li aveva mai snobbati. Mentreentravano nella chiesa si disse che c’era una parte di lui che non era in circuito contutto il resto, ma il fatto che se ne sentisse turbato lo sconcertava, e anche gli susci-tava una certa irritazione verso Appello che ora stava domandando al prete dov’era-no le tombe degli Appello. Scesero nella cripta, il cui pavimento di pietra era qua elà coperto d’acqua. Lungo le pareti e ai lati di tortuosi corridoi che si diramavano dauna sala centrale a volte, v’erano delle tombe così antiche, con iscrizioni così con-sunte, da essere per la maggior parte illeggibili anche con l’aiuto di una candela. Ilprete ricordava vagamente una nicchia degli Appello ma non aveva idea di dovefosse. Vinny passava da una cripta all’altra con la candela che aveva comprato dalprete. Bernstein rimase ad aspettarlo all’imboccatura del corridoio, piegando il col-lo per evitare di toccare il soffitto col cappello. Appello si curvava anche più delsolito, sembrava lui stesso un monaco, o un archeologo, una figura che scomparivaa poco a poco nella lunga oscurità dei tempi in cerca del suo nome su una pietra.Non riuscì a trovarlo. Avevano i piedi tutti bagnati. Dopo mezz’ora uscirono dallachiesa, e appena fuori dovettero difendersi da una turba di ragazzini che vendevanosudicie cartoline religiose che il vento gli strappava continuamente dalle mani.

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Monte Sant’AngeloA. Miller 239

«Sono sicuro che ci sia» diceva Appello tutto eccitato. «Ma tu non te la sentirestidi fare una ricerca a fondo, vero?» disse in tono speranzoso.

«Mi seccherebbe prendermi una polmonite» disse Bernstein. Erano arrivati alfondo di una strada secondaria. Fuori di alcune botteghe erano appesi a testa all’in-giù degli agnelli, le zampe rigide protese sopra il marciapiede. Bernstein strinse lazampa a uno, e a beneficio di Vinny immaginò una scena alla Chaplin in cui unmonsignore lo incontrasse in questa via, facesse per stringergli la mano, e si sentissenel palmo una fredda zampa d’agnello: la faccia mortificata che avrebbe fatto. Infondo alla via guardarono il cielo infinito e, dall’alto dell’abisso, l’Italia.

«Magari saranno scesi a cavallo giù per questa montagna, con l’armatura addos-so… gli Appello» disse Vinny, in tono rapito.

«Sì. È probabile» disse Bernstein. La visione di Appello con l’armatura gli spazzòvia ogni desiderio di prendere in giro l’amico. Si sentì solo, desolato, come gli aridifianchi gessosi di questa colonna rotta in cima alla quale si trovava. Sicuramentenella sua famiglia non v’era stato nessun cavaliere.

Ricordava i racconti di suo padre, del suo paese in Europa, la tinozza pienad’acqua dove tutti attingevano, lo scemo del villaggio, il barone del posto. Eccotutto quello che gliene restava, e nessun motivo di orgoglio, nessun motivo di orgo-glio in tutto questo, niente. E del resto, io sono americano, si disse. Però in questonon v’era la forza, l’intensità della passione di Appello. Guardò il profilo dell’amicoe sentì il calore di quello sguardo sull’Italia, e si domandò se qualche americano sifosse mai sentito così negli Stati Uniti. Mai in vita sua aveva sentito con tantaacutezza che il passato poteva essere così popolato, così pullulante di generazioni,come un’ora fa dalla zia di Vinny. Una tinozza d’acqua, uno scemo di villaggio, unbarone poco lontano… Tutto questo non aveva niente a che fare con lui; provòcome un senso di vuoto e si domandò vagamente divertito se era questo che sentivaun bambino scoprendo che i genitori che l’avevano allevato non erano i suoi verigenitori, e che era entrato nella sua casa non dal calore ma dalla strada, da un luogopubblico e disordinato…

Cercarono e trovarono un ristorante dove far colazione. Era la margine oppostodella città e sovrastava il precipizio. Dentro, era uno solo, immenso locale conquindici o venti tavoli; sulla parete di fondo v’era una fila di finestre che si affaccia-vano sulla piana sottostante. Sedettero a un tavolo e aspettarono che comparissequalcuno. Nel locale faceva freddo. Sentivano il vento imperversare contro i vetridelle finestre, eppure le nubi che passavano a livello dell’occhio si muovevano conserena lentezza. Una ragazza, la figlia del padrone, arrivò dalla cucina, e Appello lestava domandando che cosa c’era da mangiare, quando la porta si aprì ed entrò unuomo.

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Guardandolo, Bernstein provò un’improvvisa impressione di familiarità di cuinon seppe trovare la ragione. La faccia era quella di un siciliano, rotonda, scuracome la terra, gli zigomi alti, la mascella ampia. Fu lì lì per mettersi a ridere forte,poiché d’un tratto gli era venuta l’idea che sarebbe riuscito a parlare con quest’uo-mo in italiano, e quando la cameriera se ne fu andata, lo disse a Vinny, il quale simise a sua volta a osservare l’uomo.

Sentendo i loro sguardi, l’uomo li guardò con un’allegra smorfia del volto edisse: «Buongiorno».

«Buongiorno» rispose Bernstein attraverso i quattro tavoli che li separavano; epoi, a Vinny: «Come mai ho questa sensazione, nei suoi confronti?».

«Come diavolo vuoi che lo sappia?» disse Vinny, lieto di poter condividere oracon l’amico un argomento di comune interesse.

Si misero a osservare l’uomo, il quale, evidentemente, veniva spesso a mangiarelì. Aveva già posato il cappello su una sedia, la giacca su un’altra, il panciotto su unaterza. Sembrava volesse farsi dei suoi capi di vestiario altrettanti compagni di tavola.Era alle soglie della mezza età, ma molto rugoso in faccia. E per i due americanic’era qualcosa di strano nel suo abbigliamento. La sua giacca avrebbe potuto portar-la un uomo del luogo; era nera, stretta, spiegazzata, e coperta di povere. I calzonierano marrone scuro, molto pesanti, come quelli di un contadino, e le scarpe, dicuoio spesso, avevano la punta volta all’insù. Ma portava un cappello nero – insoli-to da quelle parti, dove tutti portavano il berretto – e la cravatta. Si pulì le maniprima di allentarne il nodo; era una cravatta di seta a strisce gialle e azzurre, un tipodi cravatta certamente non in vendita da quelle parti, e che nessuno fra quella genteavrebbe portato. E c’era uno sguardo nei suoi occhi che non era lo sguardo intentodel campagnolo, né aveva l’innocenza degli altri uomini che li avevano guardatinelle strade di questo paese.

La cameriera tornò con due piatti di agnello per gli americani. Dal suo tavolol’uomo gettò uno sguardo interessato alla carne e agli stranieri. Bernstein diedeun’occhiata nel proprio piatto e disse: «C’è un pelo.»

Vinny richiamò la ragazza che stava già dirigendosi verso il nuovo venuto, e leindicò il pelo.

«Ma è un pelo d’agnello» spiegò lei con semplicità.Loro dissero: «Oh» e finsero di cominciare a tagliare quella carne leggermente

rosea.«Dovrebbe vergognarsi, signore, a ordinare carne, oggi.»L’uomo pareva divertito, ma non si capiva bene se era anche un pochino offeso.«E perché no?» disse Vinny.«Oggi è venerdì, signore» disse l’uomo, e sorrise con comprensione.

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«Ah, è vero» disse Vinny, benché lo sapesse benissimo.«Dammi del pesce» disse l’uomo alla ragazza, e le domandò, con familiarità,

notizie della madre, che in quei giorni era malata.Bernstein non era riuscito a staccare gli occhi dall’uomo. Non riusciva a man-

giare quella carne, e se ne stava lì a masticare del pane, provando un crescenteimpulso di avvicinarsi a quell’uomo e parlargli. Gli sembrava tutta una pazzia. Ilpaese, le nubi nelle strade, l’aria fina, tutto stava diventando come un’allucinazione.Lui conosceva quell’uomo. Era sicuro di conoscerlo. E chiaramente era impossibi-le. Eppure, contro questa impossibilità si ergeva una sorta di cieca certezza: che seavesse osato avrebbe potuto mettersi a parlare correntemente in italiano con quel-l’uomo. Da quando aveva lasciato l’America, quello era il primo momento in cuinon aveva provato il disagio di viaggiare, di sentirsi un viaggiatore. Ora si sentiva aposto come Vinny, gli parve. Riuscì a immaginare l’interno della cucina, ebbe un’im-magine chiarissima di come doveva essere la faccia della cuoca, e il posto doveappendeva un certo grembiale sporco.

«Che cosa ti succede?» gli domandò Appello.«Perché?»«Lo guardi in un modo!»«Ho voglia di parlargli.»«E perché non gli parli?» disse Vinny, sorridendo.«Non so l’italiano, lo sai benissimo».«Be’, gli parlerò io. Che cosa vuoi che gli dica?»«Vinny…» cominciò Bernstein, ma s’interruppe.«Cosa?» disse Appello, avvicinando la testa alla sua e guardando la tovaglia.«Fallo parlare. Di qualunque cosa. Forza.»Vinny, gustando la strana emozione dell’amico, guardò verso l’uomo, che ora

stava mangiando, diligente, e con immensa soddisfazione. «Scusi, signore.»L’uomo alzò la testa.«Io sono un italiano d’America. Vorrei parlarle. Siamo forestieri, qui.»L’uomo, masticando con delizia, annuì col suo sorriso cordiale, divertito, e ag-

giustò meglio la sua giacca appesa allo schienale della sedia lì vicino.«Lei è di queste parti?»«Sì, di poco lontano.»«Come vanno le cose, qui?»«Lei di che cosa si occupa, se non sono indiscreto?»L’uomo aveva finito di mangiare. Bevve un’ultima, lunga sorsata del suo vino, si

alzò e cominciò a rivestirsi; si strinse di nuovo il nodo della cravatta. Quando cammi-nava lo faceva con una lenta e ampia falcata, come se ogni passo fosse da conservare.

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«Vendo stoffe, qui, alla gente, e ai negozi, se così si possono chiamare» disse.Andò al suo fagotto posato su un tavolo e cominciò a disfarlo.

«Vende stoffe» disse Vinny a Bernstein.Le guance di Bernstein cominciarono ad arrossarsi. Di lì dov’era seduto poteva

scorgere l’ampio dorso dell’uomo, leggermente curvo sopra il suo fagotto. Vedeva lemani dell’uomo occupate a disfare il nodo, e appena l’angolo del suo occhio sini-stro. Ora l’uomo stava togliendo la carta che avvolgeva due pezze di stoffa; nespianò con cura le grinze sopra il tavolo. Era come se quella carta marrone fosse delcuoio prezioso che non dovesse screpolarsi o stazzonarsi malamente. La camerieravenne fuori dalla cucina con un’enorme pagnotta rotonda di almeno mezzo metrodi diametro. Gliela diede, e lui la mise in cima alla pila di pezze, e un’ombra disorriso increspò le labbra di Bernstein. Ora l’uomo riavvolgeva con attenzione lacarta. Rifece il fagotto, lo chiuse con un laccio e lo riannodò, e Bernstein emise unapiccola risata, una risata di sollievo.

Vinny lo guardò, già sorridendo, pronto a ridere con lui, ma sconcertato. «Chec’è?» disse.

Bernstein trasse un sospiro. C’era un che di trionfante, una nuova aria di sicu-rezza e di superiorità nella sua faccia e nella sua voce. «È un israelita, Vinny» disse.

Vinny si voltò a guardare l’uomo. «Perché?»«Per il modo in cui ha fatto quel fagotto. È esattamente il modo in cui faceva un

fagotto mio padre… e mio nonno. Tutta la nostra storia è far fagotto e andar via.Nessun altro sa essere così tenero e delicato nel fare i fagotti. Solo un israelita salegare un fagotto così. Chiedigli come si chiama.»

Vinny era molto divertito. «Signore» chiamò con quella cordialità che la suanatura riservava ai membri di una famiglia, di qualunque famiglia.

L’uomo, ficcando l’estremità del legaccio entro l’orlo della carta, si volse verso diloro col suo sorriso cortese.

«Posso chiederle come si chiama, signore?»«Come mi chiamo? Mauro di Benedetto.»«Mauro di Benedetto. Già» rise Vinny, guardando Bernstein. «Come a dire

Morris of the Blessed.»«Digli che io sono israelita» disse Bernstein, gli occhi carichi di un’intensa ani-

mazione.«Il mio amico qui è israelita» disse Vinny all’uomo, che ora si stava caricando il

fagotto sulle spalle.«Eh?» fece l’uomo, confuso dalla loro improvvisa vivacità. Stava lì, con un sorri-

so vacuo, cortese, come domandandosi se in tutto questo non vi fosse un qualchesottile sottinteso americano ch’egli avrebbe dovuto afferrare, pronto a condividere

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l’umore degli altri.«Giudeo, il mio amico.»«Giudeo?» ripeté, mentre il desiderio di stare allo scherzo lo faceva continuare a

sorridere.Di fronte alla sua persistente incomprensione Vinny esitò. «Giudeo. Il popolo

della Bibbia» disse.«Oh, sì, sì!» L’uomo annui, sollevato, ora, di non essere stato colto in peccato

d’ignoranza. «Ebreo» corresse. E accennò affabilmente a Bernstein, un po’ imbaraz-zato, incerto sul da farsi.

«Ha capito che cosa gli hai detto?» domandò Bernstein.«Sì, ha detto “ebreo”, ma non sembra averci dato peso. Signore,» disse, rivolgen-

dosi all’uomo, «perché non beve un bicchiere con noi? Venga a sedersi qui.»«Grazie, signore,» rispose l’altro in tono grato «ma devo essere a casa per il tra-

monto e sono già un po’ in ritardo.» Vinny tradusse, e Bernstein gli disse di doman-dargli perché doveva essere a casa per il tramonto.

L’uomo a quanto parve non se l’era mai domandato. Scrollò le spalle, rise, edisse: «Non so. Per tutta la vita sono tornato a casa per l’ora di cena, il venerdì sera,e mi piace arrivare prima del tramonto. Dev’essere un fatto di abitudine, immagi-no; mio padre… Vedete, ho una strada segnata. Prima la facevo con mio padre,come lui l’aveva fatta con suo padre. Siamo conosciuti, qui, da molte generazioni. Emio padre il venerdì sera è sempre tornato a casa prima del tramonto. È un’abitudi-ne di famiglia, immagino.»

«Il Sabbath comincia al tramonto del venerdì» disse Bernstein, quando Vinnyebbe tradotto. «E porta anche a casa il pane fresco per il Sabbath. È un ebreo, tidico. Domandaglielo, per piacere.»

«Scusi, signore» sorrise Vinny. «Il mio amico vorrebbe sapere se anche lei èebreo.»

L’uomo alzò le sue folte sopracciglia non solo per la sorpresa, ma come se sisentisse in certo modo onorato del fatto che gli si attribuisse qualcosa di esotico.«Io?» disse.

«Non intendo dire americano», disse Vinny, pensando d’interpretare il signifi-cato dello sguardo che l’uomo aveva gettato, volgendosi di colpo, su Bernstein,«ebreo» ripeté.

L’uomo scosse la testa, come dispiaciuto di non poter compiacere Vinny. «No»disse. Era pronto per andarsene ma voleva continuare quella conversazione, che eraevidentemente la più interessante che gli fosse capitato di fare da settimane. «Sonocattolici, gli ebrei?»

«Mi domanda se gli ebrei sono cattolici» disse Vinny.

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Bernstein si appoggiò all’indietro, gli occhi pieni di sconcertato stupore. Vinnyrispose all’uomo, che di nuovo guardò Bernstein, ansioso di capire più a fondo lastranezza di quella cosa, ma la sua missione lo richiamava altrove. Augurò lorobuona fortuna e si congedò. Andò alla porta della cucina e ad alta voce ringraziò laragazza, dicendole che la pagnotta gli avrebbe riscaldato la schiena per tutta la disce-sa verso la pianura, quindi aprì la porta e uscì nel vento e nel sole, volgendo ancoraun cenno di saluto a loro due.

Tornando verso la macchina continuarono a ripetersi il loro stupore, e Bernsteinraccontò di nuovo come suo padre confezionava i fagotti. «Forse non lo sa, di essereebreo, ma come può non sapere che cosa sono gli ebrei?» disse.

«Be’, ti ricordi mia zia, a Lucera?» disse Vinny. «È una maestra di scuola, e mi hadomandato se tu credevi in Gesù Cristo. Non ne sapeva assolutamente un’acca. Iocredo che i pochi che hanno sentito parlare degli ebrei, in questi paesetti, credonoche siano una qualche setta di cristiani. Una volta conoscevo un vecchio italianoche credeva che tutti i negri fossero ebrei, e che gli ebrei bianchi fossero solo deiconvertiti.»

«Ma il suo nome…»«“Benedetto” è anche un nome italiano. Ma “Mauro” non l’ho mai sentito.

“Mauro” è senz’altro di antica origine.»«Ma con un nome simile, è possibile che non si sia mai domandato…»«Non è detto. A New York, il nome “Salvatore” diventa “Sam”. Gli italiani sono

famosi per storpiare i nomi; il nome non vuol dire mai molto. Vincenzo diventaEnzo, oppure Vinny, o addirittura Chico. Nessuno si chiederebbe di dove vieneMauro, o qualunque altro nome. Chiaramente quell’uomo è ebreo, ma sono sicuroche non lo sa. Hai visto anche tu, no, com’era sconcertato?»

«Ma, Dio mio, portare a casa una pagnotta per il Sabbath!» rise Bernstein, sba-lordito e incredulo, scuotendo il capo.

Arrivarono alla macchina, e Bernstein aveva già posato la mano sulla maniglia,quando si arrestò volgendosi a Vinny. Aveva un’aria accalorata, le palpebre un po’gonfie. «È ancora presto… Se vuoi che torniamo alla chiesa, ti accompagno. Puoidare un’altra occhiata.»

Vinny cominciò a sorridere, e poi si misero a ridere tutti e due. Vinny gli diedeuna pacca sulla schiena, e poi lo afferrò a una spalla, come volesse abbracciarlo.«Accidenti, scommetto che ora comincia a divertirti, questo viaggio!»

Mentre camminavano di buon passo verso la chiesa, la conversazione vertevasempre sullo stesso punto. Bernstein disse: «Non so perché, ma mi interessa. Nonsolo si comporta come un ebreo, ma come un ebreo ortodosso. E nemmeno se neaccorge… Non riesco proprio a capirlo».

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«Hai un’aria tutta diversa, lo sai?» disse Vinny.«Perché?»«Mi puoi credere.»«Sai una cosa curiosa?» disse Bernstein, piano, come entravano nella chiesa e

scendevano nella cripta. «Mi sento… a mio agio, qui. Non so come dire.»Cercavano di evitare le pozzanghere, guardavano entro cappelle, aprivano por-

te, in cerca del prete. Finalmente apparve, da non si sa dove, e Appello comprò dalui un’altra candela e scomparve nelle ombre dei corridoi fiancheggiati da sepol-cri…

Bernstein rimase lì… Tutto era bagnato, gocciolante, lì attorno. Ampia, dietrodi lui, saliva la scala di pietra, i gradini consunti da milioni di piedi. Dalle narici gliuscivano sbuffi di vapore. Non v’era nulla da guardare, nient’altro che buio. Buio,umidità, angustia, un ingresso per l’inferno. Ogni tanto, lontanissimo, gli giungeval’eco di un passo, di un altro, poi silenzio. Non si muoveva, cercava dentro di sél’origine di un’estasi che non s’era mai sognato esistesse nella sua natura; vedevaquell’uomo cortese scendere giù per la montagna, camminare attraverso la piana,per strade segnate a lui da generazioni di uomini, un viandante senza nome cheportava a casa una pagnotta ancora calda il venerdì sera… e inginocchiarsi in unachiesa la domenica. C’era in questo un’ironia che non avrebbe saputo descrivere. Etuttavia provava una sorta d’orgoglio. Di che cosa dovesse essere orgoglioso nonavrebbe saputo dire; forse era soltanto perché sotto l’insensato impulso della storiaun ebreo era segretamente sopravvissuto, spogliato della sua coscienza, ma presoper sempre in quell’inaudita impudenza di osservare il Sabbath in un paese cattoli-co, sì che la sua stessa inconsapevolezza finiva per essere una prova, una prova mutacome una pietra, di un passato ancora vivo. Un passato per me, pensò Bernstein,attonito nel constatare quanta importanza ciò avesse per lui, quando in realtà nonaveva mai avuto una religione, e nemmeno, ora se ne accorgeva, una storia.

Scorse la forma di Vinny che si avvicinava per l’angusto corridoio, la fiammadella candela appiattita dalla fredda corrente d’aria. Sentì che avrebbe guardatoVinny negli occhi, in modo diverso, ora; la sua condiscendenza era svanita, e conessa anche un certo imbarazzo. Si sentì più libero, in certo modo alla pari col suoamico… e com’era curioso, pensò, che prima si fosse sentito in certo modo superio-re a lui. D’un tratto, Vinny era ormai vicino, vide che la sua vita era stata coperta dauna sorta d’inconsapevole vergogna.

«L’ho trovata! È laggiù!» Vinny rideva come un ragazzo, indicando il fondo delcorridoio.

«Magnifico!» disse Bernstein. «Mi fa piacere, Vinny.»Stavano entrambi un po’ curvi sotto il soffitto basso e umido, la voce esalava

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dalle loro bocche in echeggianti sussurri. Vinny rimase zitto per un istante, coglien-do la contenuta felicità di Bernstein e scorse in essa la prova che la sua ricerca nonera stata un sentimento meschino. Alzò la candela per vedere meglio la faccia diBernstein, poi rise, prese Bernstein per un polso e lo guidò verso la scalinata chesaliva alla superficie. A Bernstein non era mai piaciuto che qualcuno lo tenesseafferrato, ma nel tocco di questa mano nel buio, stranamente, non v’era alcunaimplicazione di un’odiosa debolezza.

Camminarono fianco a fianco giù per la strada ripida. Il paese era di nuovodeserto. L’aria odorava di carbone di legna e di olio d’oliva. Qualche pallida stellaera apparsa nel cielo. Le botteghe erano tutte chiuse. Bernstein pensò a Mauro diBenedetto che scendeva per la strada sassosa e serpeggiante, affrettandosi per arriva-re prima del calar del sole.

[Tratto da I dont’ need you any more, ARTHUR MILLER, The Viking Press, New York 1967; apparso per laprima volta sulla rivista Harpers’s Magazine nel marzo del 1951; tradotto in italiano da Bruno Fonzi per leedizioni Rizzoli nel 1970]

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[...] E così, battendo i denti, giungemmo alfine nella città del Gargano, che deveall’Arcangelo la sua origine e il suo nome. Essa ci appariva, come se si tenesse arram-picata al raso cocuzzolo del promontorio, in mezzo ad una solitudine grandiosa, colmare di sotto: un ammasso di bizzarre case imbiancate, sulle quali s’innalzanofumaiuoli innumerevoli delle più strane forme; e il tutto dominato da un’alta escura torre. Le case poggiano sulla noda roccia: alcune seguono a scaglioni il digradardelle rupi, e folti arbusti di quercia fan loro corona.

Nell’entrare in città, sbattuti dal vento e awolti in un turbinìo di polvere, noipotemmo immaginarci di esser come arrivati alla dimora di esseri favolosi. La po-polazione maschile sembrava esser tutta fuori, in istrada, ed aveva aria di una mol-titudine di demonii che andassero su e giù taciturni. Ciascuno di quegli uomini,causa il gran freddo, s’era imbacuccato nel suo oscuro pastrano, e tirato su il cap-puccio. A vederli così tutt’insieme si sarebbero presi per una grande riunione dicappuccini o d’incappati. E così mutoli s’aggiravano a caso; mentre le campane delsantuario, che ancora non vedevamo, suonavano a distesa.

E del santuario andavamo impazienti in cerca, dopoché in una sudicia cànovadi vino, che aveva qualcosa di un covo di malfattori, ci fummo alquanto riscaldati.La via che conduce alla cappella, passa per la piccola piazza della città. Ivi, su di unacolonna, sorge una figura in marmo dell’Arcangelo, lavoro che viene attribuito aMichelangelo. Da un de’ lati s’innalza una grossa e nera torre a due piani, bellacostruzione di Giordano da Monte Sant’Angelo, l’architetto di Carlo d’Angiò. Lapiazza rigurgitava di gente. Frotte di pellegrini facevan ressa alla porta del santuario,dove, nella grotta, la messa era sul punto di cominciare. Il vento fischiava violentissnnointorno e al di sopra di noi. Una banderuola in ferro, attaccata alla croce del campa-nile, un San Michele girante, scricchiolava e strideva in modo da mettere ribrezzo.Come fra il gridìo e lo strepito di spiriti elementari, noi ci awiammo a scendere nelmisterioso regno delle ombre.

La grotta giace profonda nel seno di una rupe, le cui pareti sono nascoste da’

La Montagna dell’Arcangelo

FERDINAND GREGOROVIUS

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sacri edifizii, e nella sommità è un vecchio arbusto di quercia, a’ cui rami i pellegrinison soliti appender pietre.

Per scendere giù ai santuarii nella caverna si entra per una porta gotica, poggiatasu due colonne da ciascun de’ lati. Nel mezzo dell’arco acuto siede la Madonna colBambino, tra San Pietro e San Paolo, gruppo in marmo eseguito con molta nobiltàdi sentimento. L’epigrafe, ond’è fregiata, in cambio d’invitare il pellegrino ad entra-re, sembra fatta apposta per incutergli terrore ed allontanarlo, quasi fosse qui pro-prio la Santa Sanctorum d’Iside: Terribilis Est Locus Iste, Hic Domus Dei Est EtPorta Coeli. La porta conduce ad una spaziosa scala discendente, in pietra di cin-quanta gradini, al basso della quale si apre una seconda porta gotica. Poiché avem-mo varcato la soglia della prima ci vedemmo dinanzi la grande scala, tagliata nellapietra viva, coperta di archi gotici, fiocamente illuminata dalla luce del giorno, chevi penetra pe’ fori lasciati dalla roccia stessa.

Attraversammo prima parecchie stanze, gremite di rivenduglioli di mille gingillitutti relativi all’Arcangelo: amuleti, medaglie, corone del rosario, rami di pino, con-chiglie a mucchi, immagini rozzissime, e specialmente statuette rappresentanti SanMichele; insomma, una fiera a buon mercato. Lungo le pareti, sopra tavole ed assi,codeste statuette eran disposte a centinaia e delle più svariate grandezze. Sono dimarmo friabile del Gargano e fatte di pezzi: ali, capo, corona, scudo, spada, ancheil piedistallo di legno giallo, si possono staccare pezzo a pezzo, e riporli in unacassetta. Questo modo tenni io per portarmi felicemente a casa il mio San Michele,che mi sta ora dinanzi sano e salvo.

Non avevamo fatto la scala, che una torma di sciancati, di storpii, di pitocchi cifu intorno, levando alte grida, e impedendoci l’andare oltre. Finalmente ad unoscaccino riuscì aprirci il cammino, offrendosi pure a servirci da mentore in quelmondo sotterraneo.

Nello scendere avevamo notato in più luoghi su’ gradini e sulle pareti della scalal’impronta incisa di mani e di piedi, ciò che destò in noi un senso di orrore. Orasapemmo, che sono segni per antica tradizione impressi da’ pellegrini. Così pure lepareti, come nelle catacombe di Roma, si veggono tutte imbrattate e scarabbochiatede’ loro nomi.

Per la porta da basso entrammo quindi in una piccola corte quadrata, e quirivedemmo di nuovo la luce del giorno. Questo è il più antico cimitero de’ pellegri-ni. Alle pareti sono addossate alcune tombe; ma niuna di esse va più in su del secoloXV.

L’atrio mette alla chiesa, la quale è situata in lungo innanzi alla santa grotta. Vi sientra dal lato orientale della corte, per una porta in stile romano, con imposte dibronzo che il ricco amalfitano Pantaleone fece costruire, nel 1076, a Costantinopoli.

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La Montagna dell’ArcangeloF. Gregorovius 249

Sopra ventiquattro tavole contengono figure lavorate in niello in istile assai primi-tivo e ingenuo, ma piene di espressione, le quali rappresentano tutte apparizioni diangeli: la cacciata dal paradiso de’ primi progenitori, gli angeli in presenza di Abramoe Giacobbe, di Daniele e Zaccaria, la liberazione di San Pietro dal carcere, e scenesimiglianti, sino all’apparizione di San Michele innanzi al vescovo Lorenzo in Si-ponto. Sulla porta si leggono le parole leggendarie che l’Arcangelo avrebbe dette aquel prelato: Ubi saxa pand untur, ibi peccata homimun d imittuntur. E poscia:Haec est domus specialis, in qua noxialis quaeque actio d il uitur.

La chiesa fu edificata sotto il primo Angioino. Non ha che una sola navata,ardito lavoro di architettura gotica, per metà tagliato nella roccia. A sinistra è illu-minata dalla luce del giorno, e da questo lato è pure il coro con i suoi banchi e stalliin legno pe’ canonici. A destra si apre l’accesso alla Sacta Sanctorum, alla famosa emiracolosa grotta, al punto centrale del culto dell’Arcangelo in tutto l’occidente.L’apertura ha quaranta piedi di larghezza e sedici di massima altezza. Mentre erava-mo lì dinnanzi, una strana, una indescrivibile scena ci si offrì allo sguardo, quasifıaba la cui azione si svolgesse nelle visceri di una montagna incantata e illuminata.Se Dante avesse potuto assistervi, n’avrebbe, di certo, fatto tesoro nella Divina Com-media. Folte schiere di pellegrini, che circondati da incerta e fıoca luce parevanospiriti, gremivano la scala di marmo, che dalla chiesa mette su alla grotta. Si pigia-vano e spingevano per salire, o stavan fermi, o anche ginocchioni. Nell’oscuro fon-do della spelonca, sull’altare coperto di porpora, ardevano candele, che irradiavanola bianca figura dell’Arcangelo, il quale pareva battesse le ali. Un sacerdote con unchiericozzo si muovevano in qua e in là, innanzi all’altare, compiendo fantasticiinchini e genuflessioni. I preti in chiesa cantavano con stentorea voce, e di laggiùvenivano pure a ondate gli accordi dell’organo. Le ombrose volte della chiesa, disopra la gola oscura della caverna, il baglior tremolante che ne pioveva fuora, lasolennità de’ canti e de’ suoni, quella calca di gente silenziosa, mutola: tutta questavita misteriosa e sotterranea produceva un’impressione che non si lascia esprimerecon parole. Si sarebbe potuto credere che fosse nient’altro che un sogno.

Il prete dell’altare aveva appunto dato principio alla messa; epperò noi eravamoperitosi a spingerci più in là. Ma lo scaccino, che ci accompagnava, c’invitò a tener-gli dietro. Con modi sgarbati e grossolani, senza riguardo di sorta, come se si fossestati nella baracca del saltimbanco, ci fece largo tra la fitta moltitudine. Superata lascala, ci fece penetrare sin presso al jerofante, e lì, quasi dietro all’altare, dovemmorimanere.

Veramente, lo stare colà non era per noi poco penoso. Ci eravamo cacciati, quasıınvasori, in quel luogo, dove si compivano misteri che non ci riguardavano; e ciòsenza nostra intenzione. Del resto, potemmo presto farci accorti che quella tolle-

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ranza senza limiti, comunissima in quale che siasi chiesa d’Italia, per cui l’elementoprofano può, come meglio gli pare e piace, andare e venire e aggirarsi nella dimoradel santo, anche qui era ammessa ed esercitata. Dall’altare, è vero, il prete ci volgevatratto tratto un’occhiata curiosa, investigatrice: ma si vedeva pure, che, più che conun rimprovero, l’accompagnava con un sorriso fuggitivo.

La grotta era piena zeppa di pellegrini. Uomini e donne, che ci stavano vicini, oimmersi nelle loro divozioni o intenti a fare le loro sacre gesticolazioni, non ciguardavano che con piena indifferenza. Infine, se pure qualche scrupolo ancora innoi rimaneva, venne a liberarcene l’incredibile ingenuità del nostro scaccino. Mal-grado della sua condizione officiale di custode del tempio, egli riguardava tantopoco il Granduca celeste come un essere che bisognasse trattare col dovuto rispetto,che trovò affatto naturale l’accendere ad uno de’ candelieri, che ardevano sull’altarestesso, un moccolo attaccato ad una canna, e con esso illuminare in qua e in là, daldi dietro, la figura dell’Arcangelo, onde noi avessimo agio di vederla in modo piùspiccato. E tutto questo nel momento appunto, che a due passi da noi il canonicocompiva il sacrifizio della messa innanzi alla figura dell’Arcangelo! E non valsero anulla i nostri segni di rifiuto, ché egli non vi badò. Certo, la sconcia azione nonpotette sfuggire al gran sacerdote dell’Arcangelo; ma il fatto è che nessuno se nemostrò sorpreso!

Così presso com’ero, io osservavo la scena meravigliosa con la stessa intensacuriosità, con la quale Erodoto e Plutarco assistettero un tempo ai misteri in Egitto,nella Siria e nella Grecia. Spettacolo più singolare non avevo mai visto in mia vita!Come quadro, illuminato alla maniera di Honthorst, avrebbe rappresentato il su-blime del fantastico. Noi stavamo nella più riposta profondità della spelonca, dallacui negra volta trapelavano e cadevano su noi gocce d’acqua. Intorno intorno pelle-grini genuflessi ed oranti. Dinanzi a noi l’altare illuminato con sopra la figura del-l’Arcangelo. Poi il prete e il chiericozzo che cantavano, intercalando il canto coninchini e riverenze. Più in là, in fondo, vedevamo la scala, letteralrnente coperta didevoti, e sulla oscura massa che formavano, e anche oltre nella chiesa, scorrevaleggiero e tremolante il barlume delle candele.

Quando pensai che questo culto per un essere creato dalla fantasia, o addiritturaper un fantoccio, venne celebrato identicamente, sempre nella stessa cappella, pertredici secoli; ch’anzi per la sua origine semitica, superando il nascimento stesso delCristianesimo, va a perdersi nella notte de’ secoli remoti; non devo negare chel’impressione in me fu grande. Questo Arcangelo, prima di assumere la figura cheora ha, è trapassato per una serie di miti cosmogonici. E la stessa figura presente haper sé una storia ignota. Forse l’effigie di San Michele è qui, su questo altare, sin dalVI secolo. A1 tempo della persecuzione iconoclasta bizantina sarà stata abbattuta; e

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La Montagna dell’ArcangeloF. Gregorovius 251

poscia nel secolo VIII rimessa su di nuovo. Tale qual è oggi, è un lavoro della finedella Rinascenza una statua di marmo, alta forse tre piedi. L’Arcangelo è coperto dicorazza, con un’alta corona sulla chioma inanellata le ampie ali distese, nella destrala spada, sulla sinistra lo scudo, e di sopra alla corazza una clamide che cade all’in-dietro.

Tuttoché armato così marzialmente, pure, al pari di tutti gli angeli, San Michelefa un’impressione infantile E tutto il culto per lui riveste il carattere medesimo: unabambinería messa su per baloccarsi. I misteri nella grotta del Gargano non hannoin verità nulla in sé di orrido o di spaventevole Essi non sono che una fiaba fantasti-ca, come quella dei Castello d’Arturo, di Dororoschen, del Venusberg e delKyffllauser: soltanto una fiaba elevata sino all’idealità religiosa. I fedeli qui conve-nuti a pregare, non parevano dominati né agitati da tetre immagini. Solo una vec-chia donna che era accanto a noi, dava qualche segno di movimenti convulsivisenza posa s’assestava violenti pugni al petto, mentre una giovane, che le stava vici-no, aveva in cambio ogni ragione di trattarsi con dolcezza e riguardo.

Io credo che tutti questi pellegrini sotto l’immagine dell’Arcangelo alato non sirappresentino che un essere celeste, amorevolmente disposto, un salvatore e unpatrono, e soprattutto un genio tutelare. Egli siede presso il trono di Dio, e ladimora sua è la luce. Che cosa è qui la grotta tenebrosa Stando alla ingenua creden-za del pellegrino, è il simbolo della terra o del mondo umano, nel quale è piovutodall’alto un raggio del divino. Ma, anche quaggiù, nella caverna, il pensiero deldevoto pellegrino va cercando il suo genio non nelle spaventose tenebre delle cata-combe, bensì nelle regioni eteree. E a lui s’offre un’immagine bella e graziosa che lorallegra e solleva, e cui non si mescola alcuna rappresentazione del deforme e nullache ricordi il tormento, gli affanni e la morte.

Gli angeli o i genii sono le uniche figure non nate a soffrire che i miti cristianiabbian create o, per dir meglio, ricevute dalle antiche religioni dell’oriente. Essesono la più attraente delle creazioni poetiche della cosmogonia asiatica. Nessunacredenza più dolce e più tenera di quella in un angelo tutelare, che vada svolazzan-do sul sentiero dell’uomo errabondo. E la figura stessa di San Michele non ha altrosignificato, ancoraché la sua lotta con i titani, ribelli del ciclo, gli dia l’impronta diErcole. Il culto di lui non ha in sé niente di quella ributtante materialità dellereliquie e di un magico feticismo, compagna indivisibile dell’adorazione de’ santi.Invece è e rimane sempre il culto del buon genio e della luce; un culto più umano,per lo meno più ideale di quello che onora gli altari de’ molti martiri della Chiesa.Senza dubbio, sapienti come Pitagora e Socrate, poeti come Milton e Klopstocknon gli avrebbero rifiutata la loro adesione.

La vista del grazioso genio non può disporre il pellegrino che ad impressioni e

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sentimenti miti. Questi, non legandosi a nulla di determinatamente dommatico,non stando in relazione con alcun fatto della storia ecclesiastica, si risolvono infondo tutti in puri concetti universali. Quelle rappresentazioni che la cavalleria nelmedio evo si formò di San Michele, come del cavaliere celeste, come del debellatoredegli infedeli e degli altri nemici della Chiesa, sono venute meno. Solo una propa-ganda tutta partigiana ha potuto ora tentare di voler fare dell’Arcangelo il granmaresciallo della rivincita per i disastri toccati nel 1870 alla Francia e al Papato. Lapossanza di lui sarebbe destinata ad annientare le conquiste germaniche ed espelleredal profanato Quirinale il novello Eliodoro. Impresa, per verità, ardua anche pelbuon Arcangelo d’Avranches, ché in fatto di scienza di guerra egli dev’essere rima-sto un po’indietr,o rispetto alle esigenze del tempo! E chi sa pure, se codesta impre-sa, che gli si vuole addossare, egli sia in fine disposto a riguardarla come una missio-ne in servizio del principio della luce? Con la sua fine ironia il geniale Kaulbach hadipinto il San Michele tedesco sotto l’effigie appunto dell’Arcangelo, coperto peròil capo dell’elmo prussiano e in atto di sgominare, qual vittorioso riformatore, lepotenze tenebrose del 1870.

Questo intanto è da tenere per sicuro, che l’Arcangelo italiano sul Gargano nonsarà mai per sguainare la spada contro Vittorio Emanuele. Per gl’intenti dellegittimismo e della propaganda gesuitica egli non è accessibile al fanatismo e DonCarlos ed Enrico V hanno poco a sperare da lui. Allorché gl’Italiani entrarono nelsuo Castel Sant’Angelo, egli non pensò punto a trar fuori la spada e salvare ilDominum Temporale. In cose di religione nessuna nazione fu ed è più facilmenteaccensibile della francese, di che son prova le sue molte e spaventevoli guerre direligione: gli Albigesi, gli Ugonotti, la notte di San Bartolomeo, le Dragonades e viadi seguito. Nessuna al contrario lo è tanto poco quanto l’italiana. Processioni, comequelle che oggi in Francia si veggono andare in giro, nessuna potenza sacerdotale,neppure il comando espresso del Papa, potrebbe in Italia riuscire ad organizzarne, evolesse il Santo Padre condurle egli stesso in persona al Gargano, a Loreto o a SanNicola di Bari.

Quando fui a visitare quest’ultimo santuario, anch’esso assai famoso, anch’essouno de’ più frequentati pellegrinaggi nel mezzogiorno d’Italia, entrato nella sacrestia,vidi pendere dalle pareti l’uno rimpetto all’altro, nel migliore buon accordo delmondo, i ritratti di Pio IX e Vittorio Emanuele. Il re delle Due Sicilie è per antichis-sima tradizione canonico nella chiesa di San Nicola di Bari. La ecclesiastica dignitàè stata, come prima, senza difficoltà trasmessa anche all’usurpatore. Il clero nell’Ita-lia Meridionale seppe in ogni tempo accomodarsi ai fatti politici compiuti. Qualesia la dinastia regnante nel paese, a lui è in fondo indifferente. L’essenziale è statosempre che lo si lasciasse valere e non si portasse la mano all’esercizio del suo culto.

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Oggi come pel passato il clero mantiene quasi illimitato l’antico dominio sullacoscienza delle moltitudini. Le mutazioni quivi occorse hanno avuto carattere pu-ramente politico e nessuno morale. Una inveterata maniera di vivere secondo anti-quate abitudini ereditarie vi dura e vi si serba intatta, sostenuta da una superstizionemillenaria; e a niuno è dato preconizzare il come e il quando il culto degli antichisantuarii italiani abbia a cadere estinto. L’unico cangiamento subito da’ misteri delGargano consiste nel numero assottigliatosi degli oblatori di offerte e nell’esserespariti dalla lista de’ pellegrini e visitatori i nomi d’imperatori e di altri grandi epotenti della terra. Ma anche ciò potrebbe forse non essere che un fenomeno moltotransitorio. Niuno assicura non possa venire il giorno che un papa 0 un re buoncattolico non abbia di nuovo a fare la sua comparsa sul Gargano.

La messa era finita e la grotta andava sfollandosi. Allora potemmo osservarla anostro agio. Presso l’altare è una pila, che pe’ pellegrini che vi attingono, è una verafonte benedetta. Le si leva accanto una vecchia figura dell’Arcangelo: ed è in unapietra l’impronta di una sua pedata, l’unica reliquia che si abbia di lui. Vedemmoanche una vecchia cattedra in marmo con una effigie di San Michele ed un’anticafigura di San Giacomo, il cui tempio a Campostella gareggiava nel medio evo conquesto del Gargano. Il pavimento della grotta non è di pietra naturale, ma copertodi marmo bianco e rosso.

Poiché fummo usciti fuori dall’antro a rivedere le stelle, la procella s’era calmata;e noi andammo un po’ in giro per la città di Sant’Angelo. Originariamente essa noncomprendeva che ospedali pe’ pellegrini, de’ quali alcuni rimangono ancora oggi.Già nell’XI secolo era diventata un ragguardevole luogo fortificato, e insieme contutto il paese del Gargano formò il centro di un feudo regio, del quale grandisignori portarono il titolo. I diritti che vi erano annessi, furono chiamati: I’onore diMonte Sant’Angelo. Federico II ne investì per testamento l’amato figliuolo suo,Manfredi.

La città conta oggi più di 10.000 abitanti. Le sue case tinte a bianco, ornatepressoché tutte di una piccola nicchia con entro la figura dell’Arcangelo, sono delpiù bizzarro stile: la maggior parte a un sol piano, con scale di pietra scoperte, cheper un uscio a volta menano su di una terrazza. La facciata d’ordinario forma unquadrato, dove la porta d’ingresso serve al tempo stesso di finestra. All’internoriboccano di sudiciume. Non una che avesse aspetto alquanto bello e pulito; eppuredi persone ricche non dev’essere difetto in Sant’Angelo. Ci fu raccontato che tengo-no sepolti sottoterra mucchi d’oro e d’argento, e che traggono la vita più miserabileche possa immaginarsi; mentre mandano poi i figliuoli a studiare a Napoli.

Dove la città verso l’interno della montagna si termina, si può gettare uno sguar-do sulla grandezza selvaggia e deserta del Gargano. Negre foreste di pini e di querce

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vanno così avvallandosi fra i profondi burroni. Pure quasi da ogni parte sono pezzidi terreno disposti a terrazzi ove vegetano viti ed olivi.

E più in fondo vi sono anche campi di biade, ed orti innaffiati da sorgive che nelmonte non mancano.

Dall’anno 1860 al 1869, questa regione montuosa, al pari degli Abruzzi, bruli-cava di briganti: oggi è stata purgata di siffatto malore. Il Governo è intento acongiungere insieme tutti i paesi del Gargano con una rete di strade e di fili telegra-fici; il che forse è il mezzo più sicuro per prowedere l’appartato mondo alpestre dielementi di più alta coltura.

Con un certo tal quale desio spingemmo l’occhio entro gli ascosi recessi dellemontagne e delle valli a noi sconosciute: il poterle percorrere a cavallo dovrebb’essereun vero gusto. Ma con maggior desiderio ancora guardavo io quell’ammasso dirupi selvagge, che dal lato d’oriente va a sprofondarsi nel mare. Colà sotto è Viesti,la remota, la perduta dal mondo. La sua solitudine dev’essere un incanto; ma a noinon fu dato visitarla. Da Sant’Angelo ci parve meglio tornarcene a Manfredonia,lieti di aver potuto felicemente compiere il nostro pellegrinaggio alla sede dell’Ar-cangelo sul Gargano.

[Testo di FERDINAND GREGOROVIUS tratto da Viaggiatori tedeschi in Puglia nel Settecento, a cura di Teodo-ro Scamardi, Schena, Fasano 1990]

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Corrado Alvaro (San Luca di Calabria 1895 - Roma 1956). Scrittore, redat-tore del quotidiano La Stampa, la sua prima consistente prova narrativa risalea Gente di Aspromonte (1930) a cui faranno seguito Misteri e avventure(1930), Vent’anni (1930), L’uomo è forte (1938), Ultimo diario (1959) eTutto è accaduto (1961). Con ogni probabilità Alvaro visitò il Gargano nel1940, lasciandoci nelle pagine che compongono il racconto Monte Sant’Ange-lo uno struggente ricordo di quel viaggio.

Vi sono popoli che hanno un talento istintivo e storico per l’architettura. E sicapisce per quelli che hanno da celebrare una potenza e da attestare una forza. Mas’immagina difficilmente un gruppo di pastori e di contadini che porti una preoc-cupazione architettonica nella sua abitazione, nel suo forno, nel suo rifugio di mon-tagna. Da Manfredonia a Monte S. Angelo, si va prima per un pendio sul mare, dipoche case sparse tra i campi di olivi e di mandorli, di olivi e di pini d’aleppo. Lamontagna è una pietraia deserta là davanti, e si misura dove e come il vento latormenta. In una piega del terreno, in una ruga, in una valle, dove il vento nonarriva, qualche albero si leva, una macchia verde descrive la sua pace. Ma salendoper la strada bianca, quello che era il deserto appare un bastione di pietrame, e nonqui soltanto, ma su tutti i poggi e i monti intorno; alla fine, sull’intero promonto-rio. Tutto quello che si scorge, dalle valli asciutte alle cime, è una immane opera dimuri a secco che sostengono le terrazze degli olivi, dei mandorli, delle vigne, delgrano. Un movimento a spirale avvolge monte dietro monte, i viottoli serpeggiantie le strade tortuose rifanno un movimento concorde; il mare che sembra levarsiinclinato sulla linea dell’orizzonte, è rigato allo stesso modo dalle correnti: tutto èsullo stesso disegno, simile all’avvolgersi di certe conchiglie. Sulla cima di qualchepoggio sta come un fossile un edificio bianco. Si capisce d’essere capitati entroun’opera tra le più ingegnose degli uomini e, come succede, si pensa alla natura di

Monte Sant’Angelo

Corrado Alvaro

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questi uomini. Una tale opera dei campi è stata compiuta in settant’anni, da quan-do il Gargano finì di essere un feudo regio coi suoi boschi profondi dell’interno. Illavoro parla per gli abitanti. Come lo scatenarsi d’una girandola, questo vorticediventa sempre più grandioso e più complicato a mano a mano che si risale ilmonte. Poche volte la fatica umana dà uno sbigottimento simile. Una donna, nel-l’autobus, con due occhi di fuoco di notte, posa per un attimo lo sguardo su di voi.Non vi guarderà mai più. Tutto qui è molto importante. A un certo punto, l’occhiosi abitua a discernere nient’altro che questa immane pazienza. Qua e là nelle valli,spuntano certi enormi comignoli, e non se ne scorge l’abitazione. Si scorge bensì laporta incardinata nel masso. La vigna è ancora nuda, i mandorli già verdi conqualche vecchio fiocco fiorito, colore della polvere, gli ulivi alleggeriti sono gracili;ma non c’è traccia d’uomo se non questi enormi camini dalla forma di torri, dicampanili, di lanterne, di vecchi casolari, bianchi come la pietra, e un filo di fumoannunzia che qualcuno è vivo là sotto, chiuso come un minatore. Tutta la terraattorno è lavorata come una miniera. In fondo alla valle, una borgata è disposta inriga su quattro o cinque file, seguendo il disegno delle terrazze che la sovrastano perla montagna, tinta di bianco come tutta la pietra che si vede. Un lembo di terramiracolosamente in piano, arriva verde di grano proprio fino alla striscia del mareturchino. Gli stessi comignoli che si sono veduti prima, annunziano la città diMonte Sant’Angelo, prendono forma sopra al ciglio roccioso del monte, figuranocome le cuspidi di una lontana città turrita e bianca; si scorgono poi i tetti, le casebasse disposte in riga sulla cima, che coprono il monte come un tetto, della stessaforma, e spioventi come gli embrici d’un tetto, e, sopra, questi comignoli sproposi-tati, a torrione, a elmo, a turbante; se una città moderna dovesse avere i suoi comi-gnoli delle proporzioni di questi, in rapporto all’altezza degli edifici, si dovrebbepresentare con camini della grandezza delle Torri di Bologna o del campanile diPisa. Questi camini dicono tutto: il vento che tira, il freddo d’inverno, la bisognadel pane. Da una casa esce un tale con un’asse sulla testa, e sopra ci sono due pani didieci o dodici chili ciascuno, quanto basta a una famiglia di cinque o sei persone, diqui, per due giorni. Non avevo mai veduto un pane di questa posta.

A parte la donna dell’autobus, con gli occhi di fuoco di notte, non ho vedutoqui altre donne, fuori, se non vecchie. Una scritta all’ingresso della città avverte chequi si tocca il quaranta per mille della natalità, la quota più alta d’Italia, a quantopare. Ci si accorge subito di trovarsi fra gente dura e gelosa, quella cioè che hacostruito l’enorme monumento dei bastione delle sue montagne. Tanto dura, cheneppure il matrimonio accade senza dramma.

L’uomo ha spesso bisogno di un atto di forza anche in ciò. Che un contrastoqualunque coi parenti della sua bella si faccia strada, che lo prenda un dubbio sui

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Monte Sant’AngeloC. Alvaro 257

sentimenti della donna amata, e l’uomo, che fino a quel giorno non è riuscito aparlare alla sua sospirata se non stando sulla soglia della porta, con la madre mutatestimone, e la fanciulla rifugiata ai piedi del letto, quest’uomo spalleggiato dai suoicompagni si presenta nella casa di lei, in un’ora in cui ella è sola con la madre, equando i suoi compagni con l’inganno o con la forza hanno condotto fuori lavecchia, egli si chiude la porta alle spalle e diventa signore dell’amata. A ogni de-nunzia di colpi di questo genere, e dei ratti in campagna, o nel corso d’una festa, icarabinieri sanno che tutto finirà col pranzo di nozze. Spesso, per la povera condi-zione degli sposi che non possono redigere lunghe note di beni e di oggetti dicorredo da far leggere solennemente per bocca del notaio davanti al vicinato, e dafar portare alle comari nelle canestre, il ratto è buonissimo rimedio che dispensa datante malagevoli formalità. Pensano gli amici a preparare una lauta cena ai duefuggiaschi, e un buon letto. La mattina dopo, le madri dei due sposi per amore e perforza, vanno a informarsi se tutto sia andato bene. Il letto è molto alto, le assi sonosostenute da due alti trespoli, e per salirvi ci vuole una scaletta o una sedia, anche alprete e al medico quando sarà l’ora.

Quella del ratto è una vecchia usanza illirica. È noto che di là, sull’altra spondadell’Adriatico, il rituale del matrimonio comporta anche un ratto simulato, a caval-lo, prima della celebrazione. Qui è rimasto l’uso nel suo vigore primitivo. Il rattopuò capitare anche a una donna sorda al richiamo dell’amante, e che per avventuraami un altro. Tutto finirà ugualmente col matrimonio; ma con quale cuore? E sitratta proprio d’un richiamo d’amore, al modo degli uccelli e delle fiere, un sibilosordo come dei grilli d’estate, cui la donna, se vuol rispondere, si affaccia dietro ivetri o sulla porta, a cui corre, se è fuori, strisciando lungo il muro fino alla porta dicasa sua. E poi i figli, le grandi famiglie che servono per il lavoro della montagna,dove sono di pietra anche gli ammostatoi, dove sono scavate nella roccia le gabbieper i torchi, dove i pani sono grandi come la luna piena, dove il vento è chiamatolucifero, e suscita nei crudi inverni i racconti delle streghe, dove si lavora fino asettant’anni e si campa spesso fino a cento, dove gli uomini ripetono sempre lamedesima storia e nascono forti, crescono intraprendenti contadini pastori e arti-giani, negati a ogni forma d’industria, ma per quello che sanno fare ricercati intutto il Tavoliere, per un buon grande pane sicuro, e che neppure nell’emigrazionescordano le loro attitudini, rimanendo carpentieri, muratori e imprenditori di lavo-ri stradali e di costruzioni. Hanno il genio dell’architettura come in altri, non piùmolti, paesi d’Italia; e davanti alla loro città costruita mirabilmente sullo scrimolodel monte e su due valli, ci si può chiedere se, per avventura, tante invenzionipreziose d’architettura, non soltanto popolare, non vanno proposte a modello d’unamoderna architettura povera di idee e pretenziosa, come è quella che ci propone

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stabilimenti balneari e palagi tutti del medesimo stile. Non esiste da noi un docu-mento che metta sotto gli occhi l’arte di costruire una casa come fanno qui, a Ischia,a Positano, e in pochi altri luoghi, e che rappresenta la forma attraverso cui anni edanni si raccomandano alla considerazione dei posteri. Arte di fare scale, passaggi,portici, di risolvere problemi di pendenze, di prospettive, di variarle infinitamente.Arte di legare gli uomini ai loro luoghi.

È tanta la vocazione di questi di Monte Sant’Angelo, che essi chiamano pagliaianche certi rifugi di montagna costruiti di pietra a forma di capanna. I loro avi dellapreistoria abitavano qui in caverne che si vedono ancora, adattate già mirabilmentead abitazione. Appena il romanico glorioso fece illustre la Puglia, questi montanaritrasportarono sulle loro abitazioni il modello delle facciate di quelle chiese, quadra-te e rettangolari, e adattandole, in modo che la più moderata casuccia ha questoegregio frontespizio. In molti luoghi, è ancora la caverna primitiva sormontata daun comignolo e chiusa da una di queste facciate. Ed è una caverna il famoso santua-rio di S. Michele Arcangelo che pare sia apparso qui per la prima volta alla adorazio-ne dei fedeli, prendendo il posto di Apollo che qui aveva un tempio. Poiché eglilasciò l’impronta del suo piede nudo, i pellegrini di tutta la regione e delle regionivicine tracciano sui muri e sulle scale del santuario l’impronta della loro mano e delloro nome.

Le impronte di quei piedi e di quelle mani sono come una lunga eco dellesessantamila persone che passano qui ogni anno.

Il sagrestano del tempio, sotto la grotta umida ed enorme che si apre nella chie-sa, mi offre una reliquia. Una scheggia del masso. Ancora pietra, la pietra.

[Tratto da Itinerario italiano, CORRADO ALVARO, Bompiani, Milano 1941]

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Ora ci appare Montesantangelo. Le sue case, per le porte sormontate dalla fine-stra a balconcino, a questa distanza le diresti una greca che coroni il monte.

Arrivati a Montesantangelo, correte a vedere la cosiddetta tomba di Rotari.Un’architettura degna di Ispahan! È un monumento misterioso. All’esterno s’alzacome una mole che faccia da testa al monte, e pure portando i segni netti d’un’artemolto avanzata, non riesce nel suo ritmo a dissimulare non so quale violenza caoti-ca della natura ancora vergine.

Misterioso monumento! Il suo nome la dichiara Tomba di Re Rotari longobardo.Ma, pare, perché si lesse male una scritta che diceva «Rodelgrimi». Quante volte idotti ce l’hanno data a bere, leggendo male! Il popolo la chiama la Tomba di SanPietro perché attigua alla chiesa di questo nome. Chi la ritiene un campanile, chiun “sontuoso tipico battistero del XII secolo”, chi tomba e torre di vedetta da prin-cipio e poi battistero e chiesa…

Possono avere tutti ragione. Ma come pensa il prof. Giovanni Tancredi chevuole essermi guida gentile e che questo monumento ha studiato con amore intutti i suoi particolari, mettendone alcuni egli stessi in luce, quanto alla data dicostruzione si dovrebbe risalire alla prima metà del XII secolo. Quanto all’esseretomba, anche a non credere agli esametri incisi che dicono:

Incola Montani Parmensis Prole PaganiEt Montis Natus Rodelgrimi VocitatusHanc Fieri Tumbam Jusserunt Hi Duo PulchramVale a dire:Un abitatore del monte di origine parmense, Pagano,Ed uno nativo di Monte, chiamato Rodelgrimi,Fecero fare questa bella tomba.Perché andare a immaginare che tumba, volendo dire volta o cupola, non po-

trebbe essere una tomba? Tomba la dice il popolo, tomba la dichiarava la leggendadotta. E tomba sia, per il fortunato visitatore che in essa si sprofonda.

La Tomba di Rotari

Giuseppe Ungaretti

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Verso Sud260 D. Grittani

Vita trionfante

Il suo colore interno è d’un rosa secco. Un colore che verso l’alto diventa d’unaaccalorata luce diffusa.

Si ha veramente l’impressione d’essere scesi in una profondità di tomba, circon-dati da visioni infernali, come quel potente groviglio che rappresenta l’avarizia tor-mentata. Ma alzando gli occhi in questo luogo di sogno, ecco un primo conforto:fra l’accidia e la lussuria, ecco la maternità, ecco la vita trionfante! Teniamo gli occhialti, seguiamo gli spazi che salendo prendono a gradi una forma più raccolta, arri-viamo alla sommità, lassù, lassù – l’occhio si fa piccolo per arrivare a vedere – evedremo un’aria soprannaturale, contenuta come in un guscio d’uovo trasparenteche una freschezza illumina…

Molto probabilmente questa tomba sarà anche un battistero. Non è il battesi-mo un sacramento dei morti alla grazia? E non li risuscita?

E sembra che ora possano essere sfidate tutte le pesanti leggi che tengono i nostripassi giù. Si è veramente morti alla materia, è veramente un nascere allo spirito.Non conta più il nostro peso a questo punto dell’aggirante salita. Conta una felicitàritmica, conta una divina precisione, è superato e oltrepassato l’inutile, conta lagrazia. Com’è pura i quest’aria di sogno, la giovine maternità…

[Tratto da Deserto e dopo, GIUSEPPE UNGARETTI, Mondadori, Milano 1961]

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San Michele del Gargano, il 1 aprile 1934

L’angelo nella caverna

Dall’alto, così muoversi a perdita d’occhio, non avevo mai visto il grano giova-ne. Soggiace appena al suo alito in fiore; ma è un alito immenso, un alito di felicitàfinalmente palese, davvero da terra risorta. Un alito di Pasqua, davvero di terrafinalmente di luce. E non lo definisce luce la sua incertezza stessa? Quell’essereancora il tremito d’un calore libero da poco lungo lo stelo dalla zolla, d’un caloreche ancora tralasciare non può, nello scorrere oltre la tenerezza dell’erba, qualcheombra di violenza segreta?

Calando dai monti portato all’infinito in palma di mano, è stamani il Tavoliered’una freschezza e d’una felicità…

Ma ecco che una rivolta della strada ce lo nasconde.Pasqua! Li sentite gli agnellini? Siamo nel paese del grano e delle greggi.Un giorno un’idea, e conteneva in sé fuse tante altre forme, da una proda bizan-

tina prese il volo e, chiamatasi San Michele Arcangelo, venne a posarsi su questomonte. Gli sono venute dietro tutte quelle case bianche che vedete, che s’arrampi-cano l’una dietro l’altra piene di 20.000 Cristiani, sormontate da fitti comignolilunghi lunghi, che formano una strana roccia con mille feritoine per farci il nido.

Gli è venuto dietro quel campanile angioino che alza – all’angolo d’un piazzale,chiuso dentro un’inferriata, ma non è feroce – i suoi 25 metri, come un enormecero pasquale, imitando il poderoso e grazioso slancio delle torri ottagonali di Ca-stel del Monte. Ha persino un portale della medesima breccia picchiettata di san-gue del monumento svevo.

Dal quinto secolo in qua, gli è venuta dietro questa città di Montesantangelo,brulicante a 900 metri sul Gargano.

Il suddetto piazzale – noi diremmo corte; atrio esterno, direbbe il saccente: culonne,

Pasqua

Giuseppe Ungaretti

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Verso Sud262 D. Grittani

dice meglio di tutti la gente di qui, perché una volta c’era un elce secolare nelmezzo. La culonne è fatta per li sammecalere - da San Michele – venditori ai lorobanchi di statue del loro santo, da essi stessi lavorate in alabastro che pare allume.Sono due dinastie di artigiani: gli Iasio e i Parla, e dal tempo dei Re aragonesi hannoil privilegio di fare e vendere le statue.

Circolano anche nella culonne gridi cristallini di montanine: offrono li mazzaredde,e con li mazzaredde ciuffi di pino di Aleppo e nastri e tutto l’occorrente perché ilpellegrino non se ne torni a casa senza il suo bordone. Potrà acquistare anche scheg-ge di calcare da portarsi al collo o da attaccarsi al cappello, e se avesse fame, lifascinedde, l’ostia chiene, li pupratidde, carrube, croccanti, ciambelle di cacio…

Apparve in origine l’angelo all’uomo, dicono, impugnando una spada di soleche ci chiuse l’Eden. Gli angeli furono da allora le stelle, inaccessibili misure cheguidavano i passi erranti nel deserto. Compresa la stella che condusse alla grotta iMagi, furono nature pure, assoluta fissità, segnali sicuri, operai adibiti all’eternacreazione del mondo, api mediatrici fra la divina potenza e l’umano fallire, vaghez-za o terribilità balenanti da uno stato di beatitudine perduto, bramato, promesso.

Erano i numeri dello strologare caldeo, e già erano i messi biblici che balenandogli occhi umani non disdegnavano prendere sembianze umane. E noi, dalle partinostre, pronti non eravamo già a togliere le ali a Mercurio; a Ercole, il drago e laforza; a Apollo, la perfezione d’un corpo che dirada la notte – per cedere a Micheleogni cosa e farne, quando avrà da piombare sugli idoli, una famigliare immagine?

Qui per la prima volta apparve chiaro in Occidente che il Cristianesimo potevavantarsi d’avere schiacciato il drago, il quale era tutte le altre fedi: esse avevanodovuto trasmettere all’Angelo ogni loro speculazione e ogni loro seduzione. L’appa-rizione garganica abbagliò tutta l’Europa. Perché stupirsi che i Normanni, tornan-do dai Luoghi Santi, salissero il Monte per acclamarla? E perché quindi stupirsi chesino dal settimo secolo, a imitazione di questo San Michele di Puglia, il San Miche-le a Pericolo del Mare sul Monte Tomba nella Neustria, trovasse in un sasso druidicorifugio, stringendo tra i due santuari mistico patto di guerrieri?

In un angolo della culonne, fra l’incrociarsi dei gridi, c’è un parlottare che soloqualcuno ode. È Melo da Bari che nel 1016 chiede ai Normanni d’aiutarlo a caccia-re i Bizantini dalla sua Patria. Ah! Qui è nata una cosa da nulla: il Regno delle DueSicilie, un avvenimento che darà per quasi mille anni un giro diverso alla storiad’Italia e alla storia d’Europa e alla Storia.

In fondo alla culonne c’è una facciata con due archi che aprono un porticonell’ombra, dove una fata con uno spillo dev’essersi gingillata a ricavare figure efogliame per due portali ogivali.

Entriamo. Dentro buio ai lati indoviniamo i laboratori delle due tribù de li

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PasquaG. Ungaretti 263

sammecalere: rappresentano la prima, quattro paia di baffoni scurissimi. Una scali-nata ruzzola giù. Udiamo:

Scala sante, pietra sante,Padre, figliuole e spirite sante…È il lamento di persone che fanno la scala in ginocchio. Pastori che incomincia-

no a giungere prima di tornare ai loro monti, per ringraziare l’Angelo della buonasvernagione?

Come Santa Maria Maggiore di Siponto è la chiesa dei pescatori, questa è lachiesa dei pastori. S’è già detto: ogni apparizione d’angeli ci riporta prima di tuttoall’infanzia del mondo: patriarchi, armenti, stelle, solitudine, smarrimento…: pa-stori…

Non sono più tante migliaia come ai tempi del pascolo forzoso nel Tavoliere;ma quando saranno quassù in gran numero nella prima ottava del prossimo mag-gio, si vedrà che sono ancora molti, per fortuna nostra. Una nazione che ha ancoradi questi cuori semplici, non invecchierà mai.

La scala va giù, va di qua, va di là, trova un raggiolino di sole, lo perde; s’incon-trano nella penombra a ogni pianerottolo: porte murate, altari, tombe… In fondoalla scala, finalmente ci siamo. C’è una porta, entriamo: eccoci tornati in pienogiorno in un cortile; su s’affaccia una ringhiera; a sinistra, al nostro fianco, dellearcate chiuse da cancelli: altre tombe, un vero cimitero. In fondo, la facciata con lasua mirabile porta di bronzo eseguita “da mano greca per Pantaleone Amalfitano”nella “regal città di Costantinopoli”, nel 1076. Sono, dal punto di vista dell’arte, iltesoro del santuario. Nei 23 riquadri dei 24 che formano le due imposte – nel 24°c’è un’iscrizione – appaiono figure bislunghe delle quali il bulino ha inciso il con-torno, fatto risaltare da un filo d’argento premuto nel cavo. Alle estremità di ognicontorno intarsiato e dentro uno sparpagliamento di piastrine d’argento intagliate,s’irrigidiscono piedi, mani e facce. È un giocherellare sottile e goffo di lucettinesopra una piatta e dura tenebra: non resta di solito molto di più d’una grandetradizione giunta all’ultimo ieratismo della sua decadenza; ma qui è giunta, nel suotremolare, a quella smemoratezza senile che annuncia la primitività.

Entriamo. Attraversiamo una navata gotica. C’inoltriamo. Ci rinveniamo poiaffondati nell’antro. Il luogo è umido, e in mezzo all’oscurità a poco a poco si rivelauna statua corazzata d’oro, attorniata da un tremolare di lucette di candele. È l’An-gelo! Vicino a me, aguzzando gli occhi, e per via della corazza di latta che portano,vedo che ci sono alcuni bimbi. Stanno in ginocchio con l’elmo di latta in mano, egiocherellano con la spada di latta.

Mi fermo dove l’oscurità è più densa. Ecco, sono bene a contatto ora dellanatura cruda. Caverna: luogo d’armenti, e d’angeli dunque: luogo d’apparizioni e

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Verso Sud264 D. Grittani

d’oracoli. Ma forse c’è anche stato in questo cuore della terra un uomo anteriore aiterrori, vicino alla sua origine divina: profetico fantasma di sé, del suo penoso inci-vilirsi.

Fantasma, dice un poeta, ed è, nella sua cieca sottomissione a certe contingenzed’ora e di luogo, l’immagine finita d’un tormento che può darsi sia eterno. Puòdarsi che una vita umana spesa bene, altro non sia se non un’aspirazione a lasciare disé simile immagine. Angeli o fantasmi; ma per chi cerca il valore religioso dell’arte,per chi ci crede, quale prova questo tendere a esprimersi dell’uomo in tale modoche, per effetto di poesia, la sua presenza, dipendente da una brevità di vita e da unvariare, permanga sciolta dalla sua vita, e da un luogo e da un’ora. Per gli uni, nonessendo loro ancora negata la grazia incantevole, ci sono sempre gli angeli; per glialtri che possono essere solo uomini di buona volontà e conoscere solo la graziamilitante, prevarrà l’uomo, quell’uomo che, sulla tela che sogna immortale, nonvorrà stampare se non il proprio fantasma. È quest’ultimo il modo della pietà del-l’uomo verso l’uomo: ma, in chi lo pratichi, c’è una fermezza e un’audacia, non soquale grande fondamento morale; c’è, in questo cercare la storia in sé stessi, cercan-do un barlume nella notte del proprio bruciare, quasi ricuperata la originale virtùumana.

Uscimmo. Già era sera.La sera dei paesi è data dalle donne che vengono sulla porta di casa, dalla piazza

che s’affolla d’uomini, dai ragazzi che s’agitano di più senza che s’oda più il lorochiasso, dall’attesa d’un avvenimento che è, in questo nascere di primavera, giàtutto nell’aria, anche più che nei cuori. Ora di rapimento. Ora di tono petrarchesco:Passa la nave mia colma d’oblio…

L’unico modo di rompere il silenzio è di chiudere gli occhi. E m’è rimasta nelpensier la luce…

[Tratto da Deserto e dopo, GIUSEPPE UNGARETTI, Mondadori, Milano 1961]

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PARTE XIV

San Giovanni Rotondo

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Graham Greene (Berkhampstead 1904 - 1991). Scrittore inglese tra i più ap-prezzati al mondo, autore dal profondo senso religioso (la sua conversione alcattolicesimo influenzò tutta la produzione letteraria), compì nel 1949 un lun-go viaggio a San Giovanni Rotondo, spinto dalla curiosità di conoscere il cosid-detto “frate dalle stimmate”. Di questo viaggio riferì in una intervista rilasciataa John Cornwell, pubblicata sul settimanale L’Espresso il 19 novembre 1989.

GRAHAM GREENE: «Nel 1949 andai ad una messa celebrata da Padre Pio inItalia, nella penisola del Gargano. Vi andai per curiosità. Avevo sentito parlare dellesue stimmate. Il Vaticano non lo gradiva. Un monsignore che venne a farmi visitaa Roma, disse: “Oh, quella santa frode”. Ma Padre Pio è stato visitato da medici diogni credo… ebrei, protestanti, cattolici e senza fede. Aveva quelle ferite sulle manie sui piedi della grandezza di una moneta, e visto che non poteva celebrare messacon i guanti, tirava giù le maniche per cercare di nasconderle. Aveva una simpaticafaccia da contadino ed era un po’ pesante. Ero stato avvisato che le sue messe eranolunghissime, così mi recai, di primo mattino, a quella delle 5.30, in compagniadella mia amica di quel periodo. Celebrò il rito in latino e mi era parso che fosseropassati trentacinque minuti. Una volta fuori dalla chiesa guardai l’orologio e con-statai che era passata un’ora e mezzo o due ore. E così che sono arrivato ad avere unminimo di fede in quel mistero. Perché era successo qualcosa di straordinario».

JOHN CORNWELL - Mi accorgo che Greene resta per un po’ trasognato, ma gli chiedougualmente se crede davvero che Dio intervenga nelle vicende umane in forma miraco-losa. Con un leggero sorriso scrolla le spalle e dice:

GRAHAM GREENE: «Beh, non so. Ho la sensazione di un mistero. C’è qualchecosa di inspiegabile nella vita umana e questo è una circostanza importante, perchéle persone comunque non crederanno a tutte le spiegazioni date dalla Chiesa… Ècurioso, ma nel mio portafoglio conservo una fotografia di Padre Pio».

Quelle due fotografie di Padre Pio

Graham Greene

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Verso Sud268 D. Grittani

JOHN CORNWELL - Greene tira fuori dalla tasca dei pantaloni un bel consumatoportafogli e ne toglie due piccole fotografie. Nel porgermele mi pare di constatare in luiun leggero senso d’imbarazzo, come se lui, la quintessenza dell’uomo britannico, fossestato sorpreso nel compiere un gesto di stravaganza romana. Una delle foto rappresentaPadre Pio sorridente, l’altra lo ritrae mentre adora l’ostia durante la messa.

GRAHAM GREENE: «Non so perché conservo queste fotografie nel portafoglio -dice. Le ho infilate lì e non le ho mai tolte».

[Da un’intervista rilasciata da GRAHAM GREENE a John Cornwell, pubblicata sul settimanale L’Espresso,Roma 19 novembre 1989]

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Nella colonna del dare posso scrivere anche questa: d’esserci entrato per uno afare scappar la pazienza a un santo. In una colle altre occasioni mancate potròallineare anche l’incontro andato a male col famoso padre Pio da Pietrelcina, altri-menti detto il «Santo del Gargàno».

Per quel che tocca me personalmente dico subito che avrei preferito non esseredella partita e tirar di lungo col grosso della spedizione, che nel suo programma nonaveva creduto d’includere visita di sorta ad alcun santo; ma il mio parere contandoper uno e nell’automobile che mi portava essendoci altri quattro risoluti di sincerarsia ogni modo delle stímmate di padre Pio, convenne ch’io facessi il piacer dei quattro.

Mentirei se dicessi che le ragioni che mi sconsigliavano dall’andare fossero in-nanzi agli occhi della mia mente gran fatto chiare e lampanti; ma comprendevo peristinto come una visita fatta con quella fretta e in quelle condizioni di spirito doves-se rientrare per l’appunto nella categoria delle cose che non si fanno; e perciò,salendo al Convento dei Minori Cappuccini di San Giovanni Rotondo, il vecchiomònito «scherza coi fanti» mi rimbombava nella testa.

Andando incontro al santo con questa cattiva coscienza era forse giusto ch’iofossi punito; e il santo cominciò col farmi mediocre impressione.

Se veramente ci fosse un Paradiso dove in eterno si dovesse veder risplenderenella corona eccelsa dei Beati e dei Santi anche la luce di questo padre Pio conosciu-to di persona il giorno tale, ora tale, loco tale, in compagnia de’ tali e tali amici, –che pena mai di rimorso, che figura barbina, che confusione, che vergogna verrebbein eterno ad esser la nostra di non avergli reso, mentr’era in noi di farlo, quegli onorie usato quelle attenzioni e dimostrato quella compunzione che drittamente si con-venivano alla persona d’un tanto Avvocato!

(Scusa magra sarebbe addurre che la Suprema Sacra Congregazione del SantoUffizio abbia già negato una volta di riconoscere qualsiasi carattere soprannaturaleai fatti attribuiti a padre Pio; scusa magra, una volta che lui fosse veramente assuntonei Ranghi di Lassù).

San Giovanni Rotondo

ANTONIO BALDINI

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Verso Sud270 D. Grittani

Già dal modo come entrammo di furia, sull’ora più calda del pomeriggio, arma-ti di bastoni, binocoli e carte topografiche, con le sopravvesti in disordine, gli oc-chiali verdi e gialli rialzati sopra la visiera del berretto, le barbe imbiancate di polve-re, le fronti rigate di sudore, gli occhi imbambolati dalla luce, dovemmo al certosembrare o una pattuglia scampata per miracolo dall’esplosione d’una fossa petriera,o meglio ancora degli attori truccati a metà che cercassero l’impresario per basto-narlo. Vedendoci entrare, il converso ch’era dietro a spazzar l’andito a terreno, s’ap-poggiò esterrefatto al muro.

«Dov’è padre Pio?» chiese Adone Nosari con un tono che non ammetteva replica.«A quest’ora è in Cappella: in fondo, a sinistra.»Seduto in uno stallo del Coro, di lato alla finestra che dava sulla valle, c’era tutto

solo un fraticello che a sentirci entrare volse ridente verso noi una faccia gialla dipoca luce ma con due occhietti interrogativi. Pregava? dormiva? conversava cogliangioli? Noi ci facemmo avanti con inchini, subito cercandogli le mani per vederviimpressi i segni della passione di Cristo: ma un paio di mezziguanti di lana colormarrone gliele copriva fino alla prima falange delle dita, che teneva posate in puntadella panchetta. «È lei padre Pio?» chiese Nosari senza cerimonie. Il fraticello fececenno di sì, sorridendo e guardandoci uno per uno, con quegli occhietti interroga-tivi di sotto una fronte quadrata di coscritto: e poi con un fil di voce ci chiese dondevenivamo e dove eravamo diretti. Si capiva che il fatto di vederci così impolverati equel nostro mezz’arnese da viaggio potesse toccare la sua riposata immaginazione.Gli dicemmo che venivamo da Roma, via Foggia. Quel nome di Roma, buttato lìcon una certa intenzione, non parve interessarlo affatto. «Da Foggia? e quantotempo ci avete messo?» Tutto questo detto con una vocina sottile, come se ci con-fessasse, e con un’espressione esagerata di meraviglia, come se Foggia fosse in capoal mondo. Poi volle sapere con chi e perché eravamo venuti sul Gargàno: ma tuttoquesto ce lo domandava col tono assente e manierato del maestro elementare cheparla con uomini che già furono suoi scolari con le stesse inflessioni di voce ditrent’anni prima.

Nosari si sentì in obbligo di metter sùbito in chiaro il perché della nostra visita,e dette fuoco alle prime due tòpiche: esser noi dei giornalisti (e lo sciagurato feceanche colla mano il gesto dello scrivere) e volerci assicurare coi nostri occhi dei segniimpressi sulle mani del padre.

Padre Pio, senza farsi cadere quel sorriso dalle labbra, ma allungandoci di sottoin su certe occhiatine pietose e disarmate: «Oh non si può!» disse col suo vocinosenza timbro, di grillo parlante. Seguì un silenzio imbarazzatissimo durante il qualeci guardammo in viso e ciascuno poté conoscere per la vista degli altri che aspettopoco simpatico e rassicurante s’avesse tutti, mascherati di polvere a quel modo.

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San Giovanni RotondoA. Baldini 271

Qualcuno di noi dette un’occhiata alla porta socchiusa alle spalle e Nosari, convoce più insinuante (ci mancò poco non strizzasse l’occhio) insistette: «Sia buono:ce le faccia vedere solo un pochino» e con due dita faceva l’atto di chi scosta unguanto sul dorso della mano. (Dire a un Santo: Sia buono!). Abbuiato, padre Piotornò a ripetere che non si poteva.

«È il Vaticano, è Roma che non vuole?»«Non posso parlare. Perché mi domandate?»«E le ha anche ai piedi?»«Ho detto che non posso parlare.»«E… le fanno male? le dànno fastidio?» (Chiedere a un Santo se le stímate gli

diano fastidio! Le nostre stesse facce, in giro, a quest’uscita, presero un’espressionestirata di cartapesta). «E ha sempre dei “fenomeni”? Ha operato dei miracoli ancheultimamente?»

Una volta deciso di vuotare il sacco delle domande, il capotruppa aveva persoogni pudore. Giornalisti! Il povero frate si dimenava sullo stallo e una insofferenzadi momento in momento più viva gli si dipingeva sulla faccia: guardava ora noi orala porta alle nostre spalle, non si capiva bene se per suggerirci d’uscire o pel timoreche qualcuno del Convento venisse a spiare la figura che gli facevamo fare.

Io me lo studiavo a trenta centimetri di distanza, nel bianco e nel nero degliocchi, per decidere fra me se quello potesse essere davvero un santo: o anche solo unmezzo santo. Ma quali punti di riferimento poteva avere la mia osservazione perleggergli nel cuore e giudicare della santità o meno di quel poveretto? Stava perperdere la pazienza, questo si capiva benissimo. Ma dov’è scritto che i santi nondebbano mai perdere la pazienza? Io pensavo, puerilmente, che in una congiunturasimile un vero santo avrebbe trovato la parola da trattenerci o mandarci via colcuore dolcificato e molle come una pèsca giulebbata. Invece partimmo di lì nonsaprei dire se più mortificati, inquieti o beffardi e padre Pio, nell’atto di vedercipartire, non si fidò nemmeno di darci la mano per segno di saluto.

Pel corridoio del Convento, mentre uscivamo dalla Cappella, ecco che comeper caso s’aperse una porta e v’apparve un pieno di frati che evidentemente ci aspet-tavano al varco per conoscere le nostre impressioni e forse anche, come parve da’primi motti, per metterci qualche pulce nell’orecchio. Naturalmente ci guardam-mo dal dare a quei fratozzi troppa soddisfazione: anzi ci mostrammo molto conten-ti della visita fatta a padre Pio, e vantammo senza risparmio la sua modestia ediscrezione. C’informammo così se facesse ancora dei miracoli e operasse delle gua-rigioni. Allora fu bello vedere come tutti nel quadro di quella porticina avrebberovoluto dir la loro, frati colla barba a punta, frati colla barba a corona, frati con tantodi pancia e tanto di cordone: ma all’infuori d’un sempliciotto entusiasta, che, per la

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Verso Sud272 D. Grittani

gloria dell’Ordine, si capiva che ci avrebbe fatto molto volentieri intendere chemiracoli a San Giovanni se ne facevan sempre, tutti gli altri fratozzi fecero del loromeglio per farci capire, a forza di reticenze, di sguardi evasivi, di facce compunte, dimani aperte in alto, di parole messe là senza olio né aceto, a forza di «non so», «nonrisulterebbe», «io non c’ero», «io son venuto dopo», come tutti nel Convento tenes-sero dalla parte del Santo Uffizio contro il povero orante in Cappella.

Nessuno è un grand’uomo pel suo cameriere. Figurarsi se un frate è disposto ariconoscere un santo proprio nel suo vicino di cella!

Fatto si è che superato l’ingorgo di quei Cappuccini assiepati al varco del coridoio,ed usciti all’aria aperta, la figura del povero padre Pio mi parve di già lontanissimae in una luce, che se non era più quella del miracolo, era già un poco quella delmartirio.

[Tratto da Italia di Bonincontro, ANTONIO BALDINI, Sansoni 1940]

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PARTE XV

Il Gargano

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Egidio Mattielli (Stroncone, Terni 1631 - 1712). Umile e dotto sacerdote,autore delle opere Umbria serafica e Viaggio nelle Puglie, testi di grande valo-re religioso e storiografico. Il suo viaggio in Capitanata, voluto dal MinistroGenerale dei Frati Francescani, durò dal 17 maggio al 22 giugno 1683, perio-do che fu sufficiente a Mattielli per redigere una approfondita analisi sullo statodelle comunità francescane allora presenti sul territorio. La rivelazione dei pre-ziosi testi di Egidio Mattielli si deve allo storico Tommaso Nardella, che per laprima volta li pubblicò nella Rassegna di Studi Dauni nel 1976.

Alli 31, hore otto partii da Stignano con il [Padre Francesco delle] Coppe com-pagno et altro laico, per S. Giovanni in Lamis 4 miglia distante. Caminassimo tremiglia per una selva su per la costa del monte e trovassimo S. Marco. Terrapopolatissima dell’Abbatia di S. Giovanni in Lamis, che l’ha in commenda il cardi-nale Pignattelli.

Poi un miglio più su trovassimo il convento di S. Giovanni posto in un poggioin cima del monte dell’Angiolo e quasi in mezzo a detto monte, poi che da qui aProcina che sta nell’estremità di esso sono 15 miglia verso tramontana et alla primaspelonca che sta nell’estremità a mezzo giorno sono altre 15 miglia.

Questo fu antico monastero et abbatia ricchissima de’ Teutonici [sic] sicchéerano padroni di S. Marco e di molte altre Terre per questo contorno, battevanomoneta, havevano vassalli in mare et erano potentissimi. Ma mancati questi etoccupate le terre da molti baroni restò l’abbatia con la terra di S. Marco in commendadelli monasteri secolari et hoggi l’ottiene l’E.mo Pignattelli che gli rende tre milascudi annui d’entrata. La fabbrica di questa chiesa è antica e piuttosto a forma dirocca o fortezza che di convento con muraglie rosse.

La chiesa è stata modernata da frati con una bella volta, ad essa si ascende conuna scala bella nuova di molti scalini. Ha l’altare maggiore d’intaglio indorato

Il Gargano in una relazione per visita canonica di fine Seicento

Egidio Mattielli

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riguardevole con la statua di S. Matteo (da cui oggi si chiama per quel che diremo).Ha altri tre altari… quello di S. Giovanni comprende malamente l’organo e poi doidel Crocifisso e della Concettione. Il coro di noce bellissimo ma per andarvi biso-gna passare per tutta la chiesa entrandovisi da piedi per una porticella picciola cheentra nel cortile. Avanti la porta maggiore della chiesa è una piazzetta bella et aquesta di fuori si ascende per la scala detta. Ha ancor campanile con buone campa-ne. Dal cortile si entra in stanze buone che sono cinque e poi si ascende ad alto,dove sono altri doi dormitori, ma poco ordinati, con molte stanze, e il noviziatochiuso che ha diece celle. L’officine sono quasi sotterranee ma però luminose peressere posto in alto il convento, quale ha horti e selve ma non in clausura, eccettoun pezzo, che si comincia adesso.

V’è il molino da schiena, tre cisterne et un pozzo, la conserva di neve e li parchiper l’animali. Hoggi il convento si chiama di S. Matteo perché vi fu portato undente di questo S. Apostolo da Salerno, lo diede un cardinale commendatario, chesi conserva in sagristia in un ostensorio d’argento et è in gran devotione appressotutta la Puglia per li continui miracoli che fa e le gratie che se ne ricevono, massimeper l’infermità degli animali de’ quali abbonda la Puglia: cavalle, pecore, vaccine,porci e tutti che toccati con l’oglio della lampada che arde avanti all’altare di essoSanto guariscono subito e ciò si vede ogni giorno, poi che vi conducono spesso lemassaie intiere a toccargli e vanno sani.

Li più lontani, cioè dell’Abruzzo, Puglia alta, di Bari di Terra di Lavoro che nonpossono condurgli, mandano a pigliare un frate con cavalli e lo portano ove bisognae questo (sia sacerdote, chierico, laico o tertiario) mette un poco d’oglio in unaconca d’acqua con la quale asperge le mandrie intiere e guariscono subito com’èstato verificato da persone degne di fede che lo vedono giornalmente non solo frati,ma preti, baroni e cavallieri.

Per ciò il convento è commodissimo, che da tutta la Puglia riceve grosse limosinein specie tutti li segnano un polledro indistintamente e quando ha tre anni lo con-segnano ai frati; così li vitelli et ogni volta che s’infermano li bestiami; onde alla fieradi Foggia dove si vanno a pigliare et il Sindico Apostolico li vende si riportano ognianno molte centinaia di scudi. Il convento tiene 12 cavalli per servitio de’ frati esono belli, ha mandre di porci, pecore. Si calcola che habbia più di tre mila scudid’annue limosine, poi che nessuno ardisce negarli anzi tutti la danno copiosa peramore e timore di S. Matteo. (Oglio della lampada il quale oltre all’animali sanaindistintamente tutte le persone morse da cane rabbioso).

Tiene dieci novitii chierici, 4 o 6 laici, 6 tertiari, sacerdoti quanti pare al provin-ciale. Il dì di S. Marco li frati vanno alla Terra e fuori d’essa il guardiano si para conpiviale, li ministri con tonicelle, cotte et alla porta della Terra sono ricevuti dal

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Il Gargano in una relazione per visita canonica di fine SeicentoE. Mattielli 277

Vicario generale, da canonici, clero e tutto popolo; vanno processionalmente pre-cedendo a tutti il guardiano con li frati parati et esso fa portare il pastorale da unchierico con cotta e con esso canta messa solenne nella Colleggiata e poi ritornanoa casa.

Questo pastorale è di rame indorato, assai antico, e si stima quell’istesso cheusava l’abbate teutonico. Il dì di S. Giovanni Battista il clero e il popolo tutto vannoal convento processionalmente e sono ricevuti con la croce da’ frati; il Vicario gene-rale canta la messa e mangiano in convento. Il Vicario generale presente è donGirolamo Perna, è di Gravina, canonico di Venosa, venne a visitarmi con grancomitiva di preti e gentilhuomini. Esso governa per il cardinale abbate in temporalee spirituale; il cardinale abbate pro tempore dà ottanta ducati l’anno al convento.

Alli 2, la mattina a hore otto, partii con li miei compagni fra Diego da S. Severoet il padre Antonino da S. Giovanni per S. Leonardo, tredici miglia distante.

Caminassimo per il monte Gargano quattro miglia sino a S. Giovanni Roton-do, Terra grossa del marchese Caccaniglia [recte: Canaviglia].

V’è di fuori un bel convento de’ Cappuccini, uno de’ Conventuali et un mona-stero di 40 monache claresse. Inde scendessimo tre miglia alla comunità di S. Gio-vanni ove ci rinfrescassimo. Quivi è un oliveto grande assai totalmente inculto.

(Molte piscine frequenti della Puglia).Doppo un’hora ripigliassimo il camino per il piano di Puglia et, fate sei miglia,

giungessimo a S. Leonardo che sta in sito elevato alquanto in quella pianura.Questa fu antica abbatia de’ Teutonici et hoggi l’ha in commenda il Cardinale

Carlo Barberini et ne ha venti mila scudi d’entrata, consistenti in grani, biade, granmassarie di cavalli, vaccine et animali minuti. Questo mantiene li frati dandogli 50ducati, cento barili di vino di settanta carafe, che sono venti boccali nostrali et 50tomoli di grano, carta di legna, 5 tomoli di sale, castrati, vaccine, porci et tutto ciòche vogliono onde con questo e con le cerche è convento opulentissimo. Il conven-to o abbatia ha forma di castello con muraglia merlata e baluardi. Ha una solaporta, dentro v’è l’hostaria che la fanno li Abruzzesi in tempo d’inverno che vitengono le pecore, v’ha hospidale mantenuto dal Cardinale che vi tiene doi ministriassistenti et il convento che ha forma di palazzo antico nel salone del quale il Cardi-nale Caetano fece un bel dormitorio con otto o dieci stanze comode e per altroappartamento stanno l’ufficine alte. A basso sono stalle, conserve con una piazza atre cisterne.

La Chiesa è antichissima a doi navate, divise da tre archi grandi di pietra. Laporta maggiore è di bellissime pietre con rilievi bassi et statue alla grande. (Cupola,campanile, 3 campane). Ha 4 altari et il coro soprano. In essa chiesa sono alcuniriguardevoli depositi de’ principali cavallieri Teutonici ecc…

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Verso Sud278 D. Grittani

La chiesa piena di voti in specie di catene, ferri, manette è di gran devotione pertutta la Puglia. V’è una reliquia notabile di S. Leonardo e la testa di S. Donatomartire. Quivi trovassimo il p. provinciale. Mangiassimo et posassimo et poi a 22hore assieme con lui partissimo per Manfredonia camminando sei miglia per ilpiano… un miglio distante della città vedessimo il sito dell’antica Siponto dellaquale rimangono pochi segni di ruina et la cattedrale antica, stata rinovata et consa-crata l’anni passati dal Cardinale Fra Vincenzo Maria Orsini.

Giungessimo finalmente alle 24 a Manfredonia, città bagnata dal Mare Adriati-co; è bislonga, in piano, con molte strade tutte dritte e corrispondenti.

Si vede che è stata ricca e bella con palazzi superbi: ma per il sacco datogli daiTurchi più volte e miseramente nel 1620, per il teremoto del 1639 e 1643 per lapestilenza et per altri sinistri accidenti sta poco in ordine. È cinta adesso di buonis-sime muraglie et terrapieni, baluardi di cannoni con fossi interni et da levante versoil mare ha una fortezza et città della munitissima et tenuta con gelosia. Al tramon-tare del sole si chiudono le porte né s’aprono che doppo levato il sole. Il nostroconvento stava fuori un terzo di miglio in buon sito alla marina: ma perché fu ilprimo saccheggiato dai Turchi e per il terremoto che lo guastò fu pigliato questo del1645; è stato lasciato diruto e se ne fabbrica uno nuovo entro la città vicino allafortezza. Sono fatti già doi dormitori et uno è bellissimo et contengono 15 stanzehabitabili; l’officine sono tutte ragguardevoli. La chiesa che adesso è picciola ma siha da ingrandire è dedicata a Santa Maria delle Grazie. È disegnato un bellissimochiostro. È città reggia, v’è il preside e castellano spagnoli. Nella chiesa sono cinquealtari e vi sono lì esposti di alcuni presidi spagnoli.

Alli 3 di giugno martedì il padre provinciale volle condurmi con li compagnialla Spelonca di S. Michele Arcangelo. Venne anco il reverendo padre guardianoSalvatore di Foggia. Uscissimo al levare del sole passando vicino al mare sotto lafortezza. Caminassimo tre miglia per il piano; poscia arrivassimo al convento de’Carmelitani Scalzi fuori della città dove entrassimo poi per una strada che gira tremiglia, adagiata [costruita] da Don Pietro d’Aragona, viceré. Giungessimo ad undi-ci hore e ci fermassimo al convento de’ Carmelitani Scalzi fuori della città doveentrassimo poie per una dritta via ma con molta bella vista [giungessimo] alla Basi-lica che sta nel fine della città. Si scendono 60 scalini assai larghi a’ lati de’ quali sonalcune cappellete. Si giunge all’atrio piano avanti la basilica, nel quale sono alcunidepositi dell’arcivescovo e poi per 4 scalini si entra nella basilica che ha le porte dibronzo mandate già da Costantinopoli. La basilica è stretta, all’entrare della porta èl’altare di San Lucia nel quale è impresso un Tau da S. Francesco; alla sinistra è ilbanco ove si segnano le messe; sopra il coro, più sù la sagristia et in faccia alla portal’altare del Santissimo.

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Il Gargano in una relazione per visita canonica di fine SeicentoE. Mattielli 279

La chiesa in tutto sarà longa 50 piedi, a la destra sopra l’altare di Santa Lucia stala sacra spelonca. Infine sta l’altarino sopra il quale apparì l’Arcangelo e vi lasciò ilvesteggio del piede, il pallio e la Croce. Detto altarino è coperto d’altro altare dimarmo, e solo per un fenestrino con porta d’argento si mostra un tantino, se nepuò vedere la strangulazione. Sopra questo sta la statua di S. Michele fatta daMichel’Angiolo Buonarrota. L’altare ha il palliotto di argento, la scalinata di treordini fatta da Don Pietro d’Aragona, il parapetto dietro tutto d’argento e unsuperbissimo e gran baldacchino d’argento del Re Filippo IV [recte: Carlo II], so-stenuto da sei mazze d’argento et dodici candelieri. Avanti l’altare ardono novelampade. Altari nove stanno davanti alla santa grotta. Sette avanti al Santissimo edoi o tre altari gran quantità di ceri e dentro la grotta sono altri quattro altarini nonmolto ben tenuti, ma però [a] tutti si dice messa.

Al lato dell’evangelio è il pozzo di 60 carafe che se ben si cava [acqua] mai mancané cresce. La basilica ha quattro dignitari, arcipreti, arcidiacono, doi primiceri, do-dici canonici e quattro prebendati. Le dignità portavano le mitre ma gli sono statelevate. Fui ricevuto con urbanità grande da quei signori et in specie dal reverendissimosignor Don Carlo Gambadoro primicerio, nipote del reverendissimo Giovanni chemi servì con belli paramenti e con calice d’oro.

Celebrassimo il segretario et io all’altare di S. Michele per la comunità di Stronconeet il compagno si comunicò. Ci furono mostrate tutte le reliquie e cose notabili ecc.Et io gli dissi che credevo et era fama per il mondo che la basilica fusse megliotenuta. Ci diede il Gambadoro doi crocette e molte pietre della santa grotta ecc.

Et il provinciale cinque statuette picciole et una più grande e tre medaglie di S.Michele benedetto al suo altare.

S. Angiolo è del prencipe Ierace Grimaldi, genovese.Tornassimo a pranzo alli Carmelitani. Nel chiostro havendo il padre provinciale

provveduto ecc. Fussimo regalati di pasticci et di selvaggine et di vini che vi sonnobilissimi dal signor primicerio Gambadoro e dall’abate dei padri Celestini che civoleva in monastero. Mangiassimo, posassimo, ritornassimo altra volta al santuarioet partendo alle 22 hore giungessimo all’Ave Maria a Manfredonia, aspettati da doireligiosi et doi soldati che dovevano chiudere.

Alli 4 venerdì visitai il Santissimo e li frati ecc. Il convento ha 25 ducati dallacittà. Ha poche questue. Campa con messe. La città è amorevole ma povera. Èarcivescovo monsignore Moscetta cavalliere napolitano prete Tiberio.

Fuori della città si lavoro il salnitro. La chiesa metropolitana è bellissima rinovatadall’Eminentissimo Orsini. Adesso è ripiena di suppellettili. Ha quattro dignità edodici canonici come il Monte Gargano. Vi sono Domenicani, Celestini,Conventuali et nostri dentro et doi monasteri di monache dentro, fuori li Cappuc-

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Verso Sud280 D. Grittani

cini. Fui a riverire il castellano della fortezza che è un cavaliere spagnolo moltocortese et devotissimo della religione. Il convento ha sei cisterne vecchie et doinuovi che per anno non hanno acqua. Avanti al convento sono quattro cisterne delpubblico che spesso patisce d’acqua et bisogna pigliarla a Monte Gargano.

Vi sono alcune sorgenti, ma sono salmastre che servono soltanto per lavare.

[Testo di Egidio Mattielli tratto dalla Rassegna di Studi Dauni, Foggia 1976]

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Consalvo Di Taranto (Deliceto 1874 - 1944). Storiografo, poeta e scrittore,autore di opere importanti come La Capitanata nel 1848 (1910), La Capita-nata al tempo dei Normanni e degli Svevi (1925, recentemente ristampatadalle Edizioni del Rosone, Foggia 1994) e L’infante di Spagna Carlo di Bor-bone prima della conquista del regno (1928).

Te, mio Gargano, cantod’Italia aspro sperone proteso in Adria,te, nuda fortezza titanacoronata di frassini e querce,che il primo sole dall’onde tremulod’oro sorgendo nel nimbo croceoavvolto, saluta.Te, mio Gargano, in fiamme d’incendiocanto, se dietro, vette più ardueil sole calando s’ascondenel tramontodi porpora e fioriamor del sole, Gargano fulgido,amor del cielo lieto nei secoli,amor della terra olezzantedi silvestre serpillo e di timo.Ancor le grotte, gli antri di misticapenombra effusi, Calcante invocanoministro ai tuoi riti, pazientepresso all’aria infiorata la nera

Al Gargano

Consalvo Di Taranto

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vittima attende, perché su morbidapelle ancora calda segga l’interpretede’ sogni e ne scerna il secretocinto il capo di quercia e di alloro.Ma l’età nova fuga le pallideombre de’ vati di luce fulgidainnonda la sacra spelonca,e corusco l’Arcangelo appareGargano, esulta di nuova gloria!Sei divenuto sede degli Angeli,la dolce dimora che accoglied’ogni lido le genti plorantiNon so, Gargano, l’età novissimaquale prepari nova a te gloria.I figli che edùchi alla patriale tue balze sporgenti sul marecontro al nemico voglion d’Italiairte d’acciaro che dritto fulminiComunque, il lieto sorriso cerulosplenderà sempre, gargano nobile,di diva dolcezza negli occhidei leggiadri ricciuti tuoi bimbi;e la soave pace di misticagioia compresa, che nelle verginipensose dal volto trasparecirconfusa dai raggi che il solemolle diffonde, splenderà fulgidaserena, avvolta nel baglior roseod’un mito tramonto che languecome in nimbo di gloria immortale.

[Poesia tratta da Canti della Daunia, CONSALVO DI TARANTO, Tipografia Conti, Matera 1924]

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Da parecchio tempo mi ero impegnato a visitare il Gargano e a venire in SanMarco in Lamis per rinnovare ricordi di Bologna con un mio compagno di Univer-sità, che è di San Marco, e che in Gargano e in Capitanata è uomo di conto e difacoltà, un «galantuomo», come si dice qui.

E l’altro giorno mi presi la corriera automobile a Foggia, per venire a ritrovarequesto mio compagno, addottorato in lettere a Bologna, Giustiniano Serrilli, cheda quindici anni non rivedevo. Del paese in cui l’avrei ritrovato non avevo notizia,e intanto riguardavo, attraverso la pianura verdissima e un po’ strinata dai freddi diquesta rigidissima annata, quella parte della Capitanata che si stende, piana fra lepiane, da Foggia, capitale delle lane e delle granaglie, al Gargano, che mi cresceva,macchiato di neve in cima e d’oliveti al piede, innanzi agli occhi di miglio in miglio.

Al piede del Gargano la pianura ondeggia e si avvalla, dando a rivederescopertamente d’essere stata fondo di mare quando il Gargano era non so se un’iso-la o un promontorio di quella terra d’Adria, che i geologi ci fan credere affondatafra Italia e Balcania.

Superate le prime pendici, cominciano gli avvallamenti, le creste e le spezzaturedei dorsali, che fanno di queste terre un corso e ricorso di valli, un labirinto.

Ed ecco aprirsi, dopo rigogliosi oliveti, sul bordo inaspettato di una desertapendice di sassi e di mandorli che paiono stanchi d’aspettar tanto, quest’anno, laprimavera, uno sprofondo aprico ed ameno, e il paese di San Marco in Lamis.

Allo sbarco dalla corriera trovo l’amico, e saliamo nella sua casa patriarcale, efesteggiamo ben presto i nostri ricordi.

Bella cosa era una volta far lo studente a Bologna. La fierezza delle tradizioni, eun certo amor dottorale, – Balanzone è la maschera bolognese – affezionavanoall’Università i cittadini, più di quel che in oggi non consenta la vita odierna. L’oste-ria s’apriva allo studente, come il salotto patrizio accoglieva il professore. E l’eccel-lenza delle biblioteche attirava forse né più né meno che la premura delle affittaca-mere; le ragazze bolognesi non erano troppo più avare di favori, che non lo fossero

In Gargano

Riccardo Bacchelli

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Verso Sud284 D. Grittani

di dottrina le illustri lezioni. Così gli studenti accorrevano da molte parti, ma spe-cialmente dal litorale adriatico, fin dal Friuli e fin dalla Calabria. Dalla Puglia poierano moltissimi.

Ho detto accorrevano, perché ora non so se l’Università sia più così fiorente: melo auguro. Essa in allora eccelleva, oltre che nelle discipline legali, nelle scienzecliniche e sperimentali ed esatte, e nella filologia. L’amico Serrilli mi ricorda i suoistudi in materia di trattati di vita cortese nel Cinquecento, e di glottologia. Vario edolce ingegno, buon filologo e buon letterato, uomo arguto, non risparmiava, enon risparmia, certe ridicolezze di alcuni accademici d’allora; e già ci facciamo lebelle risate. Io gli ricordo l’olio, che si faceva venire da questa sua casa, dove adessomi ospita. Egli aveva ben ragione di disdegnare quel cosiddetto Chianti e quelsedicente olio d’oliva, che diffamano la Toscana e la Liguria. E ci riunivamo nellasua camera di studente a mangiar le insalatine condite col sapido suo olio casalingo,di quello che sa d’oliva e che non piace a quelli che non s’intendono. La camera erain via Zamboni, via della Università e classica via degli studenti.

«Risentirai di quell’olio a tavola stasera» mi dice il compagno facendomi vedere leschede per la bibliografia di un suo lavoro sui dialetti d’Italia. «Anzi, sappi che horicostruito ed ampliato per molte centinaia di ceppi oliveti e vigneti di mia proprietà.»

Egli infatti, rientrato nel suo paese e restituitosi alla terra con passione, nontralascia la lettura né degli studi, per quanto abbia rinunciato alla carriera, – anziforse per questo ad essi più affezionato, – ed esercita con passione ereditaria lacoltivazione dei campi. Per sano affetto della sua terra, è richiesto e lascia desideriodi sé dove si occupa della cosa pubblica.

Io lo ascolto e guardo la sua prospera e lieta e atticciata figura di umanista ab-bronzato dal sole; e penso che se maggior numero d’italiani sapesse serbarsi così,alacre negli studi e nelle opere, colto e curioso senza spaesarsi, un certo stampod’uomo tutto nostrano e di civiltà italiana sarebbe più lontano di quel che non siada diventare pio ricordo d’una nostra eccellenza e grandezza.

Intanto è venuta sera, e le strade di San Marco sono affollate di abitanti che festeg-giano la fine della domenica. È un bello spettacolo questa folla di contadini urbani perabitazione e per gentilezza. L’amico Don Giustiniano, primaria notabilità del paese edella regione, deve rispondere a decine e decine di «buona sera», rispettosi e cordiali.

E troviamo anche un giovanotto che ha letto il mio Diavolo al Pontelungo, e chealla mia domanda se si sia divertito, risponde: «Abbastanza.»

Non sorrida il maligno lettore. Abbastanza vuol dire: «A mia soddisfazione» edè sinonimo di «assai», non già di «così così». Ed è un modo sobrio e robusto questoche mette nella propria soddisfazione un criterio di giusta, non modesta né smoda-ta, esigenza e lode.

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In GarganoR. Bacchelli 285

E io dirò che la rusticale e civile cittadina di San Marco, mi piace «abbastanza».Sulla cresta della collina prossima v’è un passo, un piccolo giogo, dove San

Marco da un lato e dall’altro il paese di Rignano appaiono come i due piatti di unabilancia. E quel giogo, che sarebbe sul fulcro, si chiama appunto La Bilancia.

Rignano è paese aereo, posto sullo sperone che più si sporge e più vista di Tavo-liere vanta alla parte di terra del Gargano. Vi andai la mattina seguente, e le vieesigue e scoscese per entro la stipata e salda struttura sorgente dal sasso, mi fecerosbucare sopra l’aperto, nella parte esterna del paese a picco. Sotto di me la Capita-nata e il fondo marino, qua e là paludoso, che cinge il Gargano e dove poltrisce iltorrente Candelaro, stavan sotto una nebbia lieve ed umida, che pareva la feconditàstessa stesa sui campi e su le verdi germinazioni. L’aria, che su quella rocca è sempremossa, e che quest’anno pareva che non volesse più disinvernare, si intorpidivadolcemente di quell’umido sentore di fecondità pigra e candida.

A Rignano c’è anche un bell’organo di chiesa, un quadro interessante d’animepurganti riscattate per intercessione di fedeli del Carmine oranti alla Madonna, eun bel portale del decaduto palazzotto dei marchesi di Rignano.

Non intendo di scoprire una scuola garganica, per carità, ma mi sono accortoche v’è in questa regione, come spesso in regioni appartate, un’aria, un fare degliuomini e delle opere loro, che è stile: e lo stile è proprio di ciò che basta a sé stesso.

«Abbastanza», come diceva il giovanotto di San Marco in Lamis.

Monte Sant’Angelo

Passata la verde piana e l’acqua gialla del pantano mezzo bonificato di Sant’Egidio,la melanconia di Val Carbonara, triste nei ricordi della squallida fillossera che di-strusse i suoi celebrati vigneti, conduce dietro la costa precipite e sotto i denti dellacresta del Monte degli Angeli, aspro contro cielo. Si sale arditamente a ridosso delmonte, e all’ultimo svolto si è sotto, d’improvviso, al castello normanno ingentilitoda bastioni aragonesi.

Il Monte degli Angeli, ultimo dosso della prima catena garganica, è come unaman dritta che sia posata in piano col pollice verso settentrione, poiché all’ingrossoil massiccio garganico va a ponente a levante, e le altre dita aperte e curve verso ilmare. Infatti a settentrione c’è la ripida valle; davanti ramificano gravine franose econtrafforti affilati, mentre da mezzodì, come fa il dorso esterno della mano, ilMonte s’arrotonda più dolcemente verso la pianura di Manfredonia.

Nel punto in cui s’articola il dito indice, il paese, anzi proprio la grotta sullaquale sorge la Basilica, incide il dosso del Monte degli Angeli. La cittadina di Mon-

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Verso Sud286 D. Grittani

te Sant’Angelo s’apre sul lato più aprico ed agiato; dal castello e dalla Basilica siposson numerare, come da un’aerea spia del Gargano, quante mai cime vedono ilsantuario. Venti passi cambiano la veduta del mondo, che da una parte è tuttomonti, dall’altra tutto pianura e mare.

Solo per la scelta del luogo, arte di generazioni come la creazione della lingua,Monte Sant’Angelo è un capolavoro in un paese, l’Italia, che di tali capolavorisovrabbonda. Ma non è arte soltanto, poiché qui concorse e precedette all’arte econ l’arte uno dei più antichi e venerati miracoli della cristianità: cioè l’apparizionedell’Arcangelo Michele ai pastori e poi al vescovo di Siponto, Lorenzo Maiorano,nella grotta, che apparve in visione mutata in chiesa angelica.

Dunque la scelta seguì la fede illuminata, e l’arte toccò i fondi e le punte di quelche al tempo della sociologia si chiamava la «psiche popolare», e che noi ci conten-teremo di chiamare, più umanamente, la religione.

Così l’istinto del muratore garganico e la sapienza degli architetti di Re CarloPrimo d’Angiò, fra i quali nel campanile son ricordati singolarmente i frati Giordanoe Maraldo, proprio di Monte Sant’Angelo, s’unirono in quel che si potrebbe dirgrado eroico, seguendo le parole tramandate, dal 491, che l’Arcangelo disse al ve-scovo, annunciandogli d’essersi scelta e fabbricata e consacrata da sé a sé stesso lasua sovrumana basilica i quella grotta. Parole che si leggono sulla porta sinistra dellafacciata della scala, accanto a quelle di destra: «Terribilis est locus iste. Hic domus Deiest et porta Coeli». La visione fu nell’anno di Cristo 491.

La scala, coperta d’alti archi ogivali, severi e puri, è nobile e profonda. D’arco inarco e di gradino in gradino, operai ed architetti hanno sentita, ornata, venerata latraccia del sentiero formato di greppo in greppo fino alla grotta dai piedi dei pastorie dei primi pellegrini. Quel che si dice un sentiero da capre, e l’opera di pietra, cheè quanto mai ardita, dotta e superba, gli tien dietro con umiltà somma, come a cosasanta, e ne ricava il suo più singolare stile.

Volendo sforzare il concetto, verrebbe fatto di dire che questi mistici costruttoriabbiano inteso di umiliare, in tali fastigi, le origini babeliche dell’architettura, ma ilfatto è che solo una natura semplicemente adorata come visibile intenzione divinapoteva ispirare un partito ingegnoso così semplice e naturale.

E le volte e le ogive angioine sono fedeli e piene di preghiera, come le devozionich’esse accolgono dei pellegrini oranti. Credo che pochi altri luoghi possano farintendere così sul vivo quel che furono dei fatti come quello delle Crociate. La scalae la Basilica, che è una delle quattro palatine di regia giurisdizione e come tale sifregia della croce sabauda, erede di tante dinastie, sono gloria e impronta di ReCarlo Primo, forte, austero ed anche arcigno e spietato regnante, alta mente politi-ca e guerriera; anche fratello di San Luigi di Francia, crociato con lui e per la vita.

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In GarganoR. Bacchelli 287

Monte Sant’Angelo poi era una devozione dei crociati, che venivano in Puglia pergli imbarchi.

In fondo alla scala si ritrova l’aria nel cortiletto, sul quale s’apre la Basilica dallabella porta bizantina. I pellegrini toccano e baciano, arrivati qui, come per implorarl’entrata, gli eleganti anelli della porta, lustrati da tante mani. Sull’arco risponde alleinscrizioni severe dell’atrio una promessa di indulgenza: «Dove s’apriranno i sassi, làsaran rimessi i peccati degli uomini».

Quando ho visitato io la Basilica, non era l’epoca dei pellegrinaggi, che hanluogo specialmente nel mese di Maria; e fu meglio, perché assistere da spettatorealle scene di fervore e di furore mistico che riempiono la Basilica, mi avrebbe messoprobabilmente in uno stato di curiosità, forse di diffidenza; e discorrerne fredda-mente ora mi sembrerebbe dilettantesco. Se le mie impressioni là dentro hanno unmerito, è d’essere serene.

La grotta s’apre a destra della porta; a sinistra c’è il coro e una finestra che dà lucequanta può darne, splendidamente, l’aperto orizzonte sulla profonda valle. In corostavan a dir gli uffizi i canonici. Dietro l’altare, dove splende il piccolo e bianco SanMichele del Sansovino, a cui i pellegrini guardano in ginocchio, implorano, s’atter-rano, si percuotono, rigano anche di sangue il pavimento, la cupa parete dello specoe la potente volta che s’incurva fino a mezza la chiesa, stillavano acqua miracolosa,della quale si beve in un secchiello d’argento, attinta da un pozzetto in fondo allagrotta.

Credo che senza questo stillicidio perpetuo nella semiluce dei ceri e delle lampa-de, né la grotta né la chiesa né la stupenda sedia episcopale né le strane e vigorosescolture remote che paion nate a mezzo dal sasso o in via di tornar sasso, mi avrebberfatto tutta quell’impressione che mi fecero. Coteste gelide goccie spicciate dal buiodell’antro, che fan trasalire, cogliendoci in fronte o sulle mani, son l’ultimo tocco difedeltà al sasso consacrato, e rigano il pavimento così come cadono sulle mensesacre, le quali fanno splendere l’oro ed il candore della liturgia e la sontuosità del-l’apparato e dell’architettura, sul fondo scabro e squallido. C’è la fedeltà, e c’è ilrispetto intatto e religioso, c’è infine in quel così nudo gocciar d’acqua una sprezzaturaultima e potente.

In esso termina, e non può andar più oltre, quello sposarsi in fede dell’arte collanatura, che via via giù per la scala è venuto crescendo. E là finisce ogni anche piùvaga estetica dilettosa in devozione abbandonata ed astratta, in violenza ascetica emistica. Fra cose elette e cose orride, come le piaghe di cera degli ex-voto, nell’operasi legge un pensiero che nulla rifiuta e d’ogni cosa può fare a meno.

Scendendo, non avevo posto mente alle impronte di mani che da secoli i pelle-grini disegnano, graffiscono, scavano nelle pareti, scrivendo poi dentro il contorno

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della mano aperta il proprio nome. Sono centinaia e centinaia, e, dove lo spazio èvenuto meno, sono mani su mani, intricate e sovrapposte. Così l’innumerevolepopolo, venuto a piangere ed ardere nella grotta dove vennero a scioglier voti, alpari di lui, re, imperatori, regine, papi e santi, lascia il suo segno: le mani che servo-no a pregare, a faticare e a peccare.

Risalendo verso l’aperto, riconobbi in quel bisogno di lasciar il segno della manosul punto di tornare, sciolto il voto e l’animo, verso la vita solita, un pensiero daGiudizio Finale, una di quelle espressioni senza parole, una di quelle follie egualitarieprofonde ed oscure, che covano nell’anima delle plebi. E mi parve un bisogno dirifarsi, imponendo quel segno corporale, dell’annullamento umano che regna nellagrotta e nel monumento, tutto fondato sulla verità della morte e sulla certezza delmiracolo.

Sulla piazzetta davanti all’atrio splendeva al sole il campanile ottagonale, bellis-simo, fatto erigere da Re Carlo dai suoi due frati architetti. E ordinò che fosseripreso uguale, forma e ogni dimensione, dai torrioni di Castel del Monte. Qualesarà stato il pensiero, poiché credo che un pensiero avesse certamente, nel far copia-re una parte della più insigne opera sveva, del più grandioso castello di FedericoSecondo? Come mai volle accostare la gloria di Federico con la gloria di Carlo inMonte Sant’Angelo; il profano castello dell’eresiarca imperiale col cattolico edificiodel vicario della Chiesa? La Puglia era piena di distruzioni d’opere sveve, e di ucci-sioni di ghibellini; Re Carlo non era contento se, anche dove rifaceva, prima nonaveva distrutto ciò ch’era svevo. Così le mura di Manfredonia anzi, fin del nomeegli era mistico e spietato odiatore; e quando saliva il Monte a pregare e a vedere ilavori, guardando la sottoposta città e il porto in ricostruzione, ripensava che fin dalnome aveva voluto toglierle via Manfredi. Infatti tentò di farla chiamare NuovaSiponto, e non gli riuscì, per una di quelle riottose e segrete pietà umane, chevivono nell’anima della gente.

Ma l’Angioino senza pietà né del nome di Manfredi né del sangue di Corradino,intese, se il mio immaginare qui non diventi sogno, di riprendere quel torrionesvevo come insegna ed affermazione di regno. Non solo rinunciando ma dannandol’impero ghibellino quale l’aveva pensato Federico, con quel torrione egli intese diproclamarsi erede degli Svevi in quanto erano stati re legittimi del retaggio di Ro-berto Guiscardo. Forse pensava Monte Sant’Angelo come il luogo della consacra-zione e dell’unzione regale, come la Reims della sua nuova dinastia nel Regno anti-co, mentre di Napoli voleva farne la Parigi.

Il campanile era finito da poco, e Carlo pensava di muovere alla conquista del-l’Impero d’Oriente, quando accadde quel che al vincitore di Benevento, all’uccisoredegli Svevi, venne a rammentare ch’era sempre facilissimo conquistare il Regno,

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difficilissimo sempre tenerlo. A Benevento gliel’aveva dato la diserzione dei puglie-si, ed ora glielo minacciava, antica e grave vicenda, la sedizione dei siciliani a Paler-mo coi Vespri. Il campanile, monumento della sperata continuità regale nel luogodove l’Arcangelo aveva significato la grazia di Dio, era finito da poco, e il re «dalmaschio naso», che anche Dante, con tutte le sue collere ghibelline e cogli amoriimperiali, pone in Purgatorio mentre su Federico calò il sasso eterno dell’arca deglieretici; il Re Carlo, invecchiato e prossimo a morir di stanchezza in Foggia, salendoancora a Monte Sant’Angelo poteva vedere nel porto di Manfredonia parti dellaflotta apprestata invano per l’Oriente, o resti, dopo che gliel’ebbe bruciata Ruggerodi Lauria. Poteva anche ripensare le conseguenze del suo guelfo e francese avervoluto influire e dominare l’elezione papale, che gli aveva fatta avversa la Chiesa,non meno di quel che l’avesse fatta ostile a Federico la guerra aperta ghibellina.

A pochi passi di distanza c’era, come c’è, la delicata fronte della chiesa di SantaMaria Maggiore, innalzata dalla pia Imperatrice, dalla smonacata per forza, dallacaritatevole, che difese i siciliani della sua dote normanna contro la feroce tiranniadel marito Arrigo. Si ricordava Re Carlo che «la gran Costanza» aveva affidato ilpiccolo Federico, morendo, alla tutela del Papa, quasi per conciliare i due poteri,forse presaga, invano, che avrebbero sempre lottato nel Regno?

Risentiva i difetti grandi della sua dominazione straniera e dei suoi rapaci fran-cesi, della conquista sempre fresca di un regno politicamente vecchio già tanto. E lamalaria gli distruggeva le guarnigioni, mentre gli aragonesi s’impadronivano delmare. Egli pregava: «Signore, poiché mi hai fatto salire tant’altro rapidamente, fache almeno la discesa sia lenta».

Quest’immaginazione mi occupò in modo, che non seppi fare abbastanza at-tenzione al curiosissimo edificio detto, per errore insulso, Tomba di Rotari, e che ilpopolo, perdendo i termini come un poeta invasato, chiama addirittura Tomba diSan Pietro. Ma le due strade lunghe e serpeggianti, candide sul grigio sasso, verso ledue conche rigogliose di Manfredonia e di Mattinata, verdi di frumento, cupe distupendi, doviziosi oliveti, mi condussero verso una nuova meraviglia. Poco si leggesulle pendici del monte di lontano o dalla cima, ma coll’approssimarsi vi si scorgequel che han fatto in quello sterminato frastaglio di valli e di lavine queste genti e lalor fame di terra. È tutto un correre e ricorrere di muretti a secco; ogni palmo diterra fertile è sostenuto, ogni greppo cercato e frugato. La terra lavorata «a coppola»,recata dalle donne coi cestelli preziosamente, nutre magri frumenti e mandorliesercitati dal vento, e qua e là modesti olivi. Ma come l’amano queste famiglie, che,in più del lavoro, fanno ogni giorno miglia e miglia di monte per recarvisi, o, neitempi di stagione buona, vivono in cavernette della roccia! C’è qualcosa dell’amordifficile e da lontano nella loro fame di terra.

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I mandorli nell’annata rigida e tardiva non s’arrischiavano a fiorire, e stavanotimidi, nudi, al sole limpido sui monti, sul mare, sui boschi garganici e sul Tavolie-re; sulla fatica e sulla speranza degli uomini, che hanno imposto su queste ripe illoro lavoro, come i pellegrini han segnato di mani gremite le pareti della santa scala.

Sentii dire che il disboscamento, relativamente recente, non fu utile pensiero, edè cosa che si sa; le colture granarie e olearie lassù non sono le più opportune, hosaputo; ma non avevo animo a pensare all’economia, come non l’ebbi dentro lagrotta a pensare ai concetti della mia filosofia razionale.

Strade e paesi

La strada che risale fra mandorli doviziosissimi, e che lungo le coste di MonteJacotenente, fra i boschi di querce rade e poi giù per le pendici del Chanconcello fravallate di lecci dall’ombria notturna e dalla lucente foglia, conduce a Vieste, è unbeneficio della guerra. Fu compiuta per certe necessità dalla Regia Marina, la qualesento dire che la facesse anche progettare da ingegneri incaricati.

Se così è veramente, non c’è che da rallegrarsi colle attitudini stradali della RegiaMarina. Specialmente nella prima parte, a mezza costa del Jacotenente e, prima,nell’uscir fuori dalle conche di Matinata e di Mattinatella, la strada si svolge e salecon una maestosa ampiezza, con agevole e forte struttura, che ad ogni girar di spallal’offrono già percorsa e la promettono innanzi all’occhio ammirato, con piacere diarchitettura vera ed espressa.

Ed è una buona strada, sulla quale possono sbizzarrirsi gli automobilisti; se imuli dei carbonai e i cavalli riottosi e non avvezzi dei carrettieri, non gli si parindavanti in qualche svolto. Nel qual caso il severo e chiuso volto del montanarogarganico esprimerà con disdegno d’ogni parola tutte le maledizioni e i malaugurii,onde procedere ornata nel suo cammino la polverosa e spetezzante civiltà meccani-ca.

Erma, solenne, accompagnata dalla vista del mare, va la strada fra selve, selvettee prati. Tutto era, quando vi passavo, ancor strinato dall’inverno, e le quercie brusivanocolle lor foglie secche al vento. Solo le prime voci degli uccelli annunciavano laprimavera. Sulle cime e negli anfratti la neve persisteva, scintillando il sole senzaforza su di essa, come una rigida minaccia.

Ma su Vieste che si protende, che s’adagia sopra il declino d’uno scoglio nelmare, bianca, moresca e marina, simile nell’indolenza a una bella creatura spossatavoluttuosamente dal bagno, che si sia sdraiata sul letto dello scoglio per prendere ilsole facendosi baciar i piedi dal mare, su Vieste dal nome leggiero e gentile comel’esistenza d’un primo bacio socchiuso, il sole è già vivo, la luce, se non il calore, è

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già estiva. Il mare è in tutto il grande incitatore di precoci primizie.Due grandi golfi e due spiaggie fuggenti, lunate, si aprono a levante e a ponente

di Vieste. A mare le sta la rada breve, dove si tirano in secco le paranze, e un brevescoglio vicino le alza davanti la torricella del fanale. Dietro sonnecchia il castello, colsemaforo e le antenne da segnali al posto dei cannoni sugli spalti.

Il piroscafo bisettimanale delle Tremiti radeva l’isolotto del fanale, e animò,come sanno animar la stesa del mare i battelli, la gentilezza deserta delle onde pri-maverili. Dalla parte delle scogliere, sui golfi, volavano, o si posavano con quei loroatti impacciati e possenti quando s’acquattano sull’acqua o se ne rilevano, stormi digabbiani. Alcune massaie versarono in mare cestelli d’immondizie, e i rauchi volatorivi s’avventarono, facendoci godere la più bella giostra e schermaglia e ronda di voli,che si potesse desiderare. Fremevano al vento fresco le lunghe braccia, le graciliimpalcature e i cordami delle gran reti a bilancia, che si sporgono sull’Adriaticopescoso dalle rupi nelle vicinanze d’ogni paese della riviera garganica. E dappertut-to vi sono gabbiani, come, dappertutto, la storia racconta terremoti e rovine disaraceni, di pirati dalmati, di turchi bestiali in questi paesetti, ai quali oggi il maredà tanta pace quanta già diede guerra nei tempi andati.

Ma la maggior dolcezza della costiera è da Pèschici a Rodi, che si guardano dilontano, candide sulle loro due rupi alte ai capi della spiaggia piena d’amenità.

Pèschici era il paese poverissimo, senz’acqua, affastellato sullo scoglio, dove pareancor timoroso. La gente viveva in parte in caverne scavate dentro la roccia tenera,e, da quel che si vedeva dentro gli usci delle casupole anguste e luride, quelli chestavano in caverne non stavan peggio. Veramente a Pèschici la miseria stringeva ilcuore, e vi si conosceva la mancanza di molte cose di prima necessità. Ebbene,Pèschici ha nome d’essere il paese che dà le più belle ragazze del Gargano. Io nonpotrei giudicarne, perché la bella giornata le aveva condotte ai campi sui lavori, e ingenere le ragazze sono tenute molto strette e in ritegno. Ma fui informato da alcunigiovanotti buoni conoscitori, e il fatto mi piacque molto, prima per senso di giusti-zia, poiché era equo compenso della povera Pèschici, ricca solo d’una vista superbamarina; poi per il bellissimo sberleffo che questo fenomeno faceva all’igiene, dellaquale io sono nemico, dato che forse farà scemar le epidemie (se è vero), ma di certosparge e cresce all’infinito per il mondo il fastidio dei paurosi, dei fissati, dei saccentie intromettenti, risanatori, educatori, rigeneratori, eugenisti, e simili salutisti ficcanasi.

Che nel più povero e sporco paese nascessero le più belle ragazze, quanto mipiacque! E devon esser belle assai, giudicando da quel che ho potuto scorgere pas-sando.

Ornate di collane e orecchini maiuscoli di vecchia filigrana, velate col fazzolettoo collo scialle, laboriose e riposate, salde donne sono le garganiche; contente dei

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loro uomini, contenti questi di loro: gran principio di ordine e di civiltà. L’impres-sione era confermata poi dalla quantità e dalla salute dei bambini, che formicolava-no per le strade.

Passato Pèschici, attraversai l’ultimo lembo della grande pineta che veste il mon-te e la costa in quel punto; e poi cominciano gli aranceti di Rodi. Ma, voltando amonte, presi la strada che conduce a Vico, entratura alla regione dei grandi boschiinterni. E da Vico andai a Ischitella, aprica e ben murata, dove un Pinto, Principed’Ischitella, elevò ai primi del Settecento un palazzo di castigata grazia mirabile; eapprofittai d’un lento tramonto aureo ed argentino per scendere coll’automobile aCarpino, bianca sul gran piano verde, e a Cagnano, mentre il Monte d’Elio incupivacontro il cielo crepuscolare, e la vasta palude pigra del lago di Varano trascolorava.Questo lago, e l’altro di Lesina, diffondevano la malaria in questa parte del Garga-no, fertile e pur bellissima. Nei prati e nei seminati, più cupi, nelle roccie e neimonti, nel color del mare e degli uliveti pallidi, c’era una gravità, una melanconia,che ben si sposava e si rivelava coll’ora cadente, come per contro a Mattinata s’erarivelata e sposata fin nel nome del paese l’ora sorgente del giorno: era il colore dellacosta settentrionale e occidentale, di contro al colore orientale e di mezzodì dell’al-tra costa.

Dalla regione dei due laghi, dove i tentativi di bonifica e di prosciugamentosono una storia lunga ed ardua, tornavamo verso Rodi. Ora nel Varano, che fu based’idrovolanti durante la guerra e che potrebbe esser porto superbo, si tenevanoaperte due foci per uso delle barche e per renderlo salino e risanarlo e impedir lamalaria. Ma quando era palude d’acqua dolce, era pescoso, specialmente di capitonicelebratissimi.

Uno della comitiva, un ghiottone, fece la riflessione, dolente molto, che se nevanno i capitoli dal lago. Sua unica scusa poteva essere che la malaria la conoscevaper averla avuta, e maligna.

Ma che non son capaci di sfidare i golosi?

Colloquio con uno che un giorno sarà forse sugli altari

San Marco in Lamis, se non nacque, si ingrandì come ospizio di pellegrinilongobardi, i quali si recavano per la via di San Severo (l’altra è quella di Manfredo-nia) a venerare la grotta e l’impronta dell’Arcangelo Michele sul famoso MonteSant’Angelo. E un storico tedesco, il Gotheim, fa l’ipotesi che questa devozionelongobardica sia la forma cattolica assunta presso i convertiti di Teodolinda dalculto pagano del guerriero Odino. E questo potrebbe anche dimostrare una delleragioni per le quali i longobardi si sono fusi così bene coi latini; se è vero, come è

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vero, che una delle più spiccate e delle più belle attitudini italiane nel gran trapassofu quella che salvò nel cattolicesimo popolare tanta e così poetica parte del paganesimo,e specialmente del più umano, che fu quello rustico. Lungo questa via, che per unincerto seguito di valli carsiche e lungo le pendici di terraferma del Gargano condu-ce fin dietro la parte interna e dirupata del Monte degli Angeli, dove la aggrediscecon ardite svolte; quel che a San Giovanni Rotondo si vuol che fosse, ribattezzato inChiesa di San Giovanni, il tempio rotondo di Giano, dio della pace, poco saprebbedire, ma c’è la tradizione, e una quantità di ètimi, veri o favolosi, la testimoniano.

Quel dio italico, dio delle porte e d’ogni entrata e d’ogni cosa che s’inizia, e delcominciar del giorno e del capodanno, protettore d’ogni opera che gli fosse consa-crata sul principiarla, e dio di pace, fu dunque molto onorato in queste valli; e sispiega. Mi immagino che i contadini lo invocassero per le semine, e che gli consa-crassero, sull’aprire, il solco degli aratri, gli innesti, le piantagioni, le opere delle lorostagioni varie e immutabili. L’agricoltura è arte di speranze fiduciose e di molti inizi,perciò molto augurale nelle sue devozioni, e Giano non si onorava solo qui; ma quisi trova, lungo queste valli, un Jancuglia, ossia Jani Culla, un Rignano, ossia Ara Jani,uno Stignano, ossia Ostium Jani, e Pirgiano, ossia Castello di Giano. San Giovanni,dove la tradizione pone il tempio, è nel centro della regione in costiera, dalla parte diterra, dove le selve furon dapprima vinte, dove si stabilì primamente l’agricoltura,dove si rifugiavano gli esuli cacciati dalle città distrutte del piano, e dove le memorieriposarono e si trasmisero, col sangue e coi costumi, più intatte, difese e separatedalle insidie e dalle tentazioni del mare, dai saraceni e dai turchi, e dai pirati.

Lungo questa via, a Stignano, a San Marco e a San Giovanni, vi sono oggi deiconventi francescani, ai quali si svolge e si sofferma la devozione dei pellegrini,mentre gli abitanti dei paesi li visitano con quelle feste che tengon vive, nelle ricor-renze sacre, le cerimonie di propiziazione del paganesimo ingenuo campagnolo.

Così nel santuario di Monte Sant’Angelo si mostra, poco distante dall’altare checopre l’orma dell’Arcangelo, il segno a T che lasciò nella roccia San Francesco,quando vi arrivò in pellegrinaggio, e non voleva entrare per umiltà, e s’appoggiòcolla faccia alla roccia vicino all’entratura, e la segnò così colle orbite e col naso,mentre pregava chiuso contro il sasso.

Noi non crediamo ai miracoli, troppo si sa. Resta a comprendere il miracolo peril quale le turbe, ignoranti di Odino e di Giano, abbiano con una leggenda chiaritacosì sicuramente tanta storia, unendo in due segni sul sasso il culto angelico dellaChiesa primitiva con quello che gli storici chiamano «il moto francescano».

Parliamo solo di storia, come a me conviene, e riconosciamo che le favole e leallucinazioni dei caprai d’Abruzzo e dei contadini del Tavoliere sanno trovar termi-ni molto ma molto più espressivi che non gli storici.

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Alcuni di questi conventi furono in origine benedettini e cistercensi, e oggi sonofrancescani, come quello di San Matteo, o abbandonati, come quello di Stignanocadente. Altri sono dei cappuccini; e questi nella loro rozza semplicità sbiancata,ricordano vivamente; ma Stignano cadente dà l’immagine di quel che fu il passag-gio di guerre e di pestilenze e di carestie.

In un convento di San Benedetto non manca mai un cortile con un bel pozzonel mezzo. E c’è, elegantissimo fra l’erbaccia, a Stignano; c’è nel cortile austero edalpestre di San Matteo, il quale domina dall’alto, severo e forte e bastionato, fra leroccie, la valle, che accoglie in basso, il viandante, soavemente fra colli leni ed olivi,col sagrato sereno e la piana fronte della chiesa di Stignano.

Quando vi fui, aveva smesso di piovere da pochi giorni, e c’era ancor la muffafresca nel refettorio, poiché l’acqua trapela dai tetti e franano pezzi ed angoli dimuro nei corridoi quadrati, dove le esigue finestre aprono viste amenissime sul-l’apertura della valle nel piano. Muffa, tristezza, rovina e minaccia di rovine: fuori ilsole di marzo brilla, come se vi fosse piovuto di fresco, sugli olivi e sul frumentoverde. In uno dei due chiostri un ignoto, un pittore forse di quelli che hanno riem-pito di ex-voto un corridoio di San Matteo, ha affrescate le lunette colle storie dellavita di San Francesco. Sono pitture del genere popolaresco, nelle quali un’ingenuaaudacia o una scorrezione timida possono conferire molta forza e carattere figurati-vo. In Gargano se ne vedono molte, e, attorno ai suoi numerosi ed antichi santuarimiracolosi, colla fede si è stabilita una certa unità e continuità di tradizione pittori-ca particolare. Quanti ne stanno infracidando sulle pareti bianche e umide! Ceri-gnola ha molta e speciale devozione per San Matteo, ed essendo città di grandiarmenti e di commercio di ciuchi e di cavalli, vi ha mandato molte storie di pericolie di miracolati con bestie da tiro e da sella. Ma pare che il tempo migliore perquest’arte sia stato nel secolo scorso, quando la diminuita bravura dei pittori el’esempio della fotografia indussero, così mi è parso, gli artisti a sforzare certe qua-lità di evidenza, che nell’arte istintiva ed ignara toccano, collo sforzo appunto, valo-ri di stile popolaresco. Scende da queste raccolte di vignette un senso fra penoso econsolato della pena e del pericolo quotidiano. Oggi si tende a mandar la fotografiain abito delle feste, con iscrizioni narrative. Non si salva più niente, salvo l’intenzio-ne dei fedeli. I Padri cortesissimi ed accoglienti di San Matteo mi indicarono dallaloro stupenda loggia una sorgiva, dove i pagani venivano a bagnar d’acque sacre aGiano le bestie ammalate. Il popolo, poiché nel convento si venera un dente di SanMatteo, ha favoleggiato che l’Evangelista abbia fatto il viaggio che stavo facendo io,e mostra la pietra dove, inginocchiandosi egli per bere, sarebbe rimasta l’impronta.

Io andavo a visitare un cappuccino del convento di San Giovanni Rotondo,Padre Pio, del quale i giornali hanno discorso già più di una volta, e che porta le

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stimmate come San Francesco. La sua fama di santo va lontana e chiama moltagente, quantunque, mi fu assicurato da persone degne di fede, egli, obbediente aisuperiori, cerchi di non aumentarla. Avviandomi al convento, che sorge solitariocoi suoi cipressi e il bianco recinto in una stesa di magre erbe e di sassi, io mi tenevoin una disposizione equanime, non prevenuta dalla incredulità e neanche da quellavoglia di meraviglie, che è quanto ci resta della fede antica nei miracoli. Insomma,ero disposto a rispettar un fatto ed a scrutare un uomo senza vana curiosità, mafermamente. So bene quanto si possano spiegare scientificamente simili fatti, e sobenissimo quanto non si spieghino scientificamente lo spirito umano, la storia equel che si chiama vocazione.

Dopo visto e parlato con questo cappuccino, non so se ho discorso con unsanto, e di ciò se mai dovrà liberare a tempo suo la Chiesa, ma so di aver trovato unuomo il quale, per quanto ha mostrato a me in un’ora di colloquio agevole e sereno,porta l’insegna di ciò che deve percuotere più di ogni altro mistero la sua coscienzadi fedele, o per lo meno costituire la più possente ed insidiosa tentazione d’ognipeccato dello spirito, con una chiara fierezza negli occhi, e con dignità modesta difrate e di sacerdote.

Lo trovammo che stava facendosi rifare la tonsura da un fraticello, e la macchinada radere, visibilmente disaffilata, gli dava notevoli strappi ai capelli. Per qualcheminuto egli, che ci voltava le spalle, non si addiede della nostra presenza; e sottostavaalla fastidiosa operazione, a spalle tonde, rispondendo con affettuosa condiscen-denza alle facezie del frate barbiere, che lo rimproverava di curar poco il taglio deicapelli. Quando s’accorse di noi, non mutò atteggiamento né umore.

Padre Pio porta i mezzi guanti per celare le stimmate, e svia la conversazione sequalcuno gliene fa parola. Discorremmo del più e del meno, scherzando anche, enon capii se nel parlare d’argomenti seri egli si esprimesse con giustizia e criterio,come faceva, per naturale buon discernimento e per esercizio di studio. Diceva cosefini con parole illetterate, di solida semplicità insolita. Così, discorrendo di un suodetrattore invelenito, si espresse con risoluzione e fermezza, con una severa carità,che mi dissero molto sulla saldezza convinta dell’animo suo. Questa nasceva da unnon so che di più spontaneo e nativo della umiltà ascetica e degli esercizi spirituali,che avevano contribuito a fortificarla.

Parlando d’una ritrattazione del detrattore (pare, assai violento e velenoso), edicendosi che costui pareva dire e fare sul serio nel pentirsi, il frate disse: «Questo lospero per lui; per me non ne ho bisogno». Delle stimmate e dei miracoli non sidiscorse, quasi ci fossero usciti di mente. E questo, per quel che ne posso dir io concriterio naturale, mi fece al ripensarci più disposto alla meraviglia ed al rispettoinsieme.

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Tale è stato il mio incontro con uno che un giorno sarà forse sugli altari, e chevive nella valle che fu di Giano, ed è oggi francescana, in Gargano.

Le isole delle acque verdi

Il piroscafo che fa servizio, mare permettendo, due volte la settimana, per leTremiti, dà fondo davanti ad ogni rada dei paesi costieri da Manfredonia a Rodi,sollecitando colla sirena i barcaiuoli.

Li sollecita specialmente il sabato mattina, perché in quel giorno il piroscafoEpiro rientra a Bari, sua sede, dove l’equipaggio passa la sera di sabato e la domenicain famiglia. Non gli si può far carico d’aver fretta; non si può far torto ai barcaiuolidi stare all’orario; e allora, dopo mattutine zufolate, che sveglian tutti gli echi dellepinete sopra San Menaio, e delle rupi di Pèschici, e delle rade ampie di Vieste,avvengono sotto bordo bellissime contestazioni in lingua pugliese, che mi paremolto adatta a distinguere, sottilizzare, disputare e pungere, tanto nei baresi dell’Epiroquanto nei rivieraschi delle barche. Sola differenza l’accento, che è netto e sobrioquello dei garganici, quanto quello dei baresi è vocalizzante e spampanato.

Intanto passeggieri e carico s’imbarcano e sbarcano e la partenza rasserena icontendenti. Ma questo succede al ritorno. L’arrivo alle Tremiti avviene per l’ora deltramonto.

È noto che fin dai tempi dei Borboni esse furono adibite a luogo di relegazionee confino. Sul piroscafo Epiro s’incontran sempre dei coatti in traduzione, ai quali,come son tolte durante la navigazione le manette, è resa un po’ di quella confidenzache il popolo non nega a coloro che, purgando essi la pena del malfatto, non ènostro compito giudicare. Cordialità e confidenza lontanissime da ogni umanitarismosentimentale di qualunque sorte; che provengono, più che da ispirazione, dalle«opere della misericordia»; e che il popolo nostro, profondo nella rettitudine delsuo buon senso, ricava da un antico e sanissimo concetto della colpa purgata.

Quando, come capita, il coatto, ex-carcerato o magari ex-galeotto, sia un giovia-le compare, e il mare sia calmo, allora fra massaie, mercanti di pesce e contadini chepopolano generalmente la Terza dell’epiro, e coatti benevolmente sorvegliati, senzaconfidenze per altro!, dai carabinieri, allora il gioviale coatto è capace di farsi ildivertimento della traversata.

Quando poi riprende le manette all’arrivo, cambia faccia e non è più lo stessouomo, si conosce, né per sé né per gli altri. Io non ho mai ricevute le manette (è unacosa che può benissimo capitare), ma tutti mi dicono, quelli che le han provate, cheper capire bisogna provare.

Mi ricordo che all’imbarco un ammanettato scivolò sui gradini del modo di

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In GarganoR. Bacchelli 297

Rodi, e battè duramente, senza potersi aiutare colle mani, l’osso sacro sul calce-struzzo.

Era un giovinastro pieno di sangue. Se fosse stato libero, chi sa qual impetod’imprecazioni avrebbe avuto il suo sfogo. Invece si rialzò più presto che poté,guardò il gradino dove aveva battuto, non lievemente, e gli vidi la faccia di colui chedeve sempre tacere, di quello che il torto è sempre suo: faccia di protervia invilita.Dopo un paio d’ore scarse di traversata, si palesa attorno alle Tremiti, già ben chiaree rilevate sull’orizzonte, il fatto per cui su tutta la costa si dice appunto, per direandar coatto: esser mandato alle acque verdi. San Nicola, San Dòmino e Cappera-ra, cogli scogli del Cretaccio e della Vecchia, il gruppo principale di quell’unicoarcipelago della costa italiana in Adriatico, si offrono allo sguardo unite e raccolteattorno al seno d’acqua che fa golfo e porto naturale fra San Dòmino, San Nicola eil Cretaccio. Di lontano paiono anzi una sola schiena collinosa. A tutte le ore delgiorno, ma sopra tutto quando il sole tramonta, e all’occhio di chi vi naviga dalevante, le acque intorno e davanti le Tremiti appaiono verdi, non del verde che sivede sul mare alla superficie specialmente all’alba, ma d’un singolare verde, che parvenuto dal fondo. Tutto lo spessore del mare par che sia verde; i colori del tramonto,vittoriosi e cangianti in cielo e sui monti del Gargano a poppavia e sulla costa Italiae sul lontano Appennino, quando è chiaro, e sul mare ovunque sia negli altri punti,lì di prua sulle acque delle isole perdono la partita, spariscono in quel colore dismeraldo, che di tutti gli splendori del tramonto, lungi da smorzarsi, prende foga,lucentezza, profondità, quasi che se ne nutra.

Su quell’acque posano, radono, volteggiano stormi numerosissimi di gabbiani,che, nel venir meno del sole e nello scomporsi crepuscolare della luce in color,paiono neri.

Sono i compagni di Diomede, poiché quando l’eroe, che sarebbe stato il primodei greci se lo scettro non fosse stato di Agamennone e la gloria di Achille, venne acompiere il suo fato in Apulia, i compagni lo seppellirono in queste isole, e furonmutati dagli dèi in gabbiani, che le amano e che non le abbandonarono più.

È una di quelle leggende che sapevan trovare i greci, ma, se ti capiti l’occasione,lettore mio, non perderla di visitare le isole Tremiti; e mi ringrazierai.

È buona regola, nel visitare i paesi, far in modo che resti voglia di tornarci.Siccome il piroscafo arriva per l’ora del crepuscolo e riparte innanzi l’alba, possoben dire d’averla seguita questa regola; e che mi sia rimasta voglia di tornarci sispiega.

Tanto più, se vi dico che l’isola di San Nicola è una sorprendente e solenne cosa.Figuratevi una scogliera ardita tutta cinta di fortificazioni assai ben conservate. Sisale per un sentiero e per alcune scale difese da muri e da ridotte, e comandate dagli

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Verso Sud298 D. Grittani

spalti del gran castello. In pochi luoghi ho sentito che cosa fosse un «bello e fortearnese» di guerra, come laggiù. Era un’abbazia benedettina, e dicesi che i frati ci sitrovassero così bene e animosamente a battagliar coi mori, coi saraceni e coi dalmatiscorridori del mare, che finirono per farsi molto più guerrieri che monaci, tanto chenel duecento il papa li sostituì coi cistercensi. A questi seguirono i canonici lateranensi,che respinsero nel 1567 la flotta di Solimano II. Dentro la cerchia prima dellemura, in un ripiano, c’è lo squallido villaggio delle caserme, che dànno alloggio apian terreno agli abitanti borghesi dell’isola, pescatori, commercianti, appaltatori, eal primo piano ai coatti. I quali passeggiavano negli spiazzi, chiacchierando.

Io badavo a salire in fretta al corpo centrale della fortezza, dov’è il convento e lachiesa. E giunsi appena in tempo per ammirare cogli ultimi bagliori del giorno quellimpido e prezioso esemplare di architettura del primo Rinascimento, che è la fac-ciata di Santa Maria. Non mi rincresce della breve luce, perché questa brevità ditempo aggiunta alla sorpresa dispose l’animo mio ad accogliere con una specie diappetito festoso e tripudiante la ricca gentilezza e grazia toscana di quel portale edella facciata.

Vi si scorgono i segni di cannonate inglesi durante le guerre napoleoniche. Dopo,San Nicola ha subìto qualche tentativo di aeroplani austriaci; e ora una pace stu-penda scendeva colla notte sull’isola monastica e guerriera. Il parroco fu tanto cor-tese da aprirmi la chiesa, e visitai il bellissimo e fastoso pavimento a mosaico, alcuneopere insigni di legno e di pittura, e la mummia del Beato Tobia, protettore deipescatori tremitani, a cui essi attribuiscono la grazia particolare di non perdersenemai uno in mare; tutto a lume di candela, come pure i refettori, i dormitori e ilunghi corridoi dei frati, dove ha sede la direzione della colonia penale.

In un torrione di Carlo II d’Angiò – poiché in questa fortezza han lavorato, sipuò dire, tutte le dinastie del Regno – certi coatti bandisti si esercitavano e provava-no musica. Tornati che fummo sullo spiazzo fra le caserme, era l’ora della ritirata, esentii parlare il patrio dialetto. Eran certi bolognesi, ladri ed allegri, mi fu detto, iquali si rivolgevano motti «che il tacere è bello». Ebbi la tentazione, lo confesso, didire: «O bolognesi, io sono della vostra terra», ma poi mi trattenni per varie ragioni,ed anche perché non mi facesser suonare dietro le spalle nel buio qualcuno di queipatrii motti e suoni sconci.

All’ospitalità nei paesi garganici non è dato né permesso sottrarsi, e il signorSantoro, isolano di San Nicola, mi diede da cena e mi fece graditissima compagniafino alla mezzanotte e all’imbarco, raccontando qual è la strana vita dei coatti e deiborghesi nella colonia (San Domino è coltivata dai coatti ed assai fertile), e parlan-domi dei suoi figli pescatori ed abilissimi nuotatori. Aggiungasi che il vino delleTremiti, dono del sasso e del mare, è ottimo e secco: la serata passò in un lampo.

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In GarganoR. Bacchelli 299

Mi destò assai per tempo la sirena, che sollecitava i barcaiuoli di Rodi; e poidall’alba a mezzogiorno, ora dell’arrivo a Manfredonia, mi godetti la costa. Fino aVieste l’ho già descritta; da Vieste, dove volge, a Manfredonia, è tutta impervia edeserta. Non si vede segno d’uomo fuor che le torri di guardia antiche e in rovinache si seguono, visibili una dall’altra, di capo in capo, in modo da passarsi l’allarmeai tempi che furono.

La costa dirupata dal mare e dai terremoti è tutta un seguito meraviglioso dicaverne e di altissimi archi naturali, scavati in una roccia bianca d’un caldo biancoregiallino sul mare azzurro cupo, sul quale giocavano il vento, il sole, la scia e gliultimi gabbiani, che ci seguirono fin sulla bocca del porto di Manfredonia.

Le arance dell’Unità Italiana

Si dice che sia tanto soave l’odor degli aranceti sul lido di Rodi Garganico, da farvenir le lacrime agli occhi quando è il tempo della fioritura.

Gli aranceti e i limoneti riempiono tutte le vallette e vestono ogni dosso diquella costiera, dove affiorano, a nutrirli, molte polle d’acqua gaia. A difenderedagli strapazzi del vento boreale le fioriture delicate ed il frutto greve, i coltivatorihan tirato su, con scienza accorta e paziente, spalliere e filari e siepi di leccio e dialloro. Così, coi densi fogliami, onore della virtù militare e poetica, i coltivatorisviano le infilate, rompono i mulinelli e i golfi, disfano insomma i perniciosi giuo-chi del vento. Colla pesca, l’agrumeto è il primo guadagno del paese.

Poco prima della guerra, sarà, mentre racconto, un quindici anni, il trabaccolochiamato Unità Italiana era il più nuovo di quanti n’aveva la spiaggia. Anzi il pa-drone non l’aveva ancor pagato. Navigava così per mare col pensiero dei debiti abordo.

Veramente il trabaccolo, dipinto di nero con una fascia bianca, era un battelloda stimarsene, calafato e padrone; e già nelle burrasche dell’inverno aveva fatto duevolte buona prova di qualità nautiche. In quanto a qualità veliere, era dei più velocie dei più utili e maneggevoli. Per questo, costava anche il suo prezzo, diceva ilcalafato quando dava una capata sulla spiaggia per covarsi il credito, come nonfossero bastate le cambiali!

Ai primi di aprile, il padrone caricò arance per la Dalmazia, e stivò l’UnitàItaliana fin che ce ne poté uno. Poi fece in coperta una fila di cassette e di cesti, e,non contento, imbarcò pure non so quanti sacchi di buccia d’arancio.

Occorre infatti sapere che la buccia d’arancio serve per cavarne essenza; e ledistillerie di Dalmazia ne comprano. Guadagno piccolo, ma il guadagno si misurasul bisogno dei bisognosi e non sulle sazietà degli abbondanti.

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Verso Sud300 D. Grittani

Insomma, il padrone aveva fatto un carico tale, che sul ponto dell’Unità spariva-no gli uomini dell’equipaggio: un fratello del padrone, giovine, un vecchio marina-io, un figlio mozzo. Non è da credere, perché la barca si chiamasse Unità Italiana,che il padrone fosse liberale, cosa di cui aveva un’idea vaghissima, o libero pensatore,cosa di cui non aveva nemmeno l’idea. Insomma, col nome di Unità Italiana egliera del tutto alieno ed ignaro di toccar la questione del potere temporale e delpatrimonio di San Pietro. Queste erano questioni che riguardavano il Papa di Romae il parroco di Rodi: quanto a lui, era devoto della Madonna della Libera, e avevabattezzata la sua barca patriotticamente, per un riflesso dei giornali del tempo diTripoli. Anzi per quella guerra era stato richiamato, e non è escluso che il concettodell’unità italiana gli fosse nato ascoltando qualche regolamentare «scuola morale»tenuta dagli ufficiali all’equipaggio, durante le lunghe crociere e gli ancoraggi nellerade di Derna o di Tobruc.

La Madonna della Libera arrivò a Rodi sulle onde, e si posò sopra un sasso, ilquale si conserva sotto l’altare, scampando ai turchi, dice il latino dell’iscrizione. Èuna bella immagine bizantina e, forse, invece di turchi, si trattò, come per il solitofu di queste immagini recate in Italia dal mare, della greca persecuzione degliiconoclasti, quando l’imperatore Leone Isaurico volle dare il suo esempio anche luidi ciò che producono principi temporali in vena di teologare.

Turchi o greci, la Madonna ha la sua chiesa sull’entrata di Rodi dalla parte diponente, venendo dal lago Varano; chiesa «a divozione dei navigatori» dove gli ex-voto appesi dietro l’altare a decine, dipingono grazie ricevute in mare, e che s’in-grandisce e si adorna per offerte e lasciti di rodiotti paesani o fortunati in Americae non immemori.

L’«Unità Italiana» recava a bordo, fissata sulla ruota di prua e protetta da unvetro, un’immagine benedetta della Madonna, e padrone ed equipaggio la rispetta-vano più che potevano, anche col tempo buono. Con quello cattivo, poi, l’invoca-vano con gran fede.

E bisogno ne ebbe, quella volta che salpò col carico d’arance, il padrone, quan-do fu sotto Lissa. Avevan fatto ottima traversata, e la notte, quando cadde il vento,era così calma, che si addormentò anche il timoniere sul trabaccolo colmo, odorosodi catrame fresco e di buccia d’arancio. La luna in cielo terzo e cristallino, illumina-va la groppa dell’isola a proravia. Le vele pendevano.

Dormivano da un paio d’ore, perché, quando il vento li destò, la luna s’avviava altramonto; un turbine boreale si scagliò sull’Unità Italiana. Le vele fecero uno schian-to solo, e sparirono; il mare fremeva tenuto giù dal vento, e le due furie dell’aria edell’acqua ogni tanto levavano una schiuma volante di polvere d’acqua. Il trabaccolo,spinto al largo, camminava fra una nube di tal polvere d’acqua. Il trabaccolo, spinto

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In GarganoR. Bacchelli 301

al largo, camminava fra una nube di tal polvere: pareva che non toccasse acqua, o chefosse nel ribollio di una cascata. Il timoniere aveva preso un colpo di barra nel costa-to, quando il vento aveva girata la barca al largo con quelle maniere che sono soltantosue, e piangeva le sue costole. La luna al tramonto guardava la perdita di quegliuomini. Il colpo di vento smise com’era venuto. Il trabaccolo si fermò, come seavesse ritrovata acqua sotto la chiglia; si rivide Lissa fatta piccola e lontana, e il restodell’equipaggio uscì a guardare i danni, dolorosi sopra tutti il padrone e il fratello.

E non sapevano ancora quel che li attendeva, perché si combinarono due tem-peste di vento contrastanti, e per tutt’il giorno, senza vele, rotto alla fine anche iltimone, furono spinti e ricacciati dal largo alle isole e dalle isole al largo, aggirati,sconquassati, sbalzati sopra un mare rabbioso e accanito. Il vento vorticoso, pienodi rèmoli, aveva sgombrato e spogliato la coperta, pulita. E primi naturalmenteeran partiti i sacchi delle buccie d’arancio, volatili.

L’equipaggio, ricordando gli ex-voto, non aveva altro aiuto che quello d’invoca-re la Madonna della Libera, quando a notte il vento si decise, e si buttò in una grantempesta spiegata di bora. Persero di vista la terra, e il mare ingrossato, dopo d’avertentato di smantellare il fasciame coi colpi brevi, cominciò a lavorare coi colpilunghi ed alti per vedere di rovesciare l’Unità Italiana. Ma il trabaccolo aveva mo-strato quanto era saldo, e ora faceva vedere come era ben equilibrato.

Sull’alba li accostò un vapore, che poté mandare una scialuppa e gettare uncavo. Ma quando si trattò d’imbarcarsi nella scialuppa, il padrone volle dall’ufficialel’assicurazione che il vapore avrebbe preso a rimorchio l’«Unità Italiana». Altrimen-ti non si sarebbe mosso dal bordo; e il fratello, che era suo socio e vedeva la rovinacomune nella perdita del trabaccolo nuovo e da pagare, fece l’atto di ributtarsi abordo dell’«Unità» anche lui. Il capitano del vapore, un postale abbastanza grosso elussuoso, non capiva quel che stessero a perder tempo in discorsi, e bestemmiavadietro i vetri del binoccolo, mentre scialuppa e trabaccolo ballavano a contrattem-po sulle onde. Pareva che il tempo volesse migliorare.

L’ufficiale finalmente non credette di far male promettendo e giurando, congrandi urli a quel testardo, che l’«Unità» sarebbe stata rimorchiata fino a Bari, pros-simo scalo. Allora il padrone, traballando nei colpi di mare, andò a prua, si volse allaMadonna, e le disse: – Lascio la barca e il carico a Voi e al vostro aiuto –.

E a bordo, incurante totalmente della stizza del comandante, lui e il suo sparutoe bagnato e affamato equipaggio volevano far la guardia al cavo. Quei pochi passeg-geri che non soffrivano mal di mare, il vennero a vedere, e volevano farsi raccontarela traversia, ma cavarono poche parole. Allora si levarono la voglia di fotografare ilgruppo dei salvati. L’impaccio e la noia erano accresciuti dal fatto di non aver indos-so nemmeno gli abito loro proprii, che erano ad asciugare.

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Intanto il padrone fu chiamato dal comandante per le notizie da mettere sulgiornale di bordo, e il mare si rimise a infuriare. La rotta del vapore si trovava adessere proprio nel filo del vento, e ogni tanto un colpo di mare buttava l’UnitàItaliana a sbattere contro la poppa del vapore.

Bisognò che si rassegnasse anche il padrone; fu tagliato il cavo del rimorchio, e iltrabaccolo fu visto ancora per dieci minuti beccheggiante in balia delle onde, levan-do su la prua come se avesse cercato l’aria prima d’inabissarsi.

I due fratelli non dissero una parola.Fin allora non avevan voluto mangiare, ora che il sacrificio era fatto e che alme-

no da mangiare avevan gratis, ne approfittarono per il giorno di digiuno passato, eper quelli venturi. Poi dormirono fino a Bari sulla loro miseria.

A Bari presero il treno, e avevan pure scherzato con certi conoscenti incontratialla capitaneria del porto, che li fece fornir di biglietti dalla questura per il rimpa-trio. In treno poi c’era un piacevole suonatore di mandolino, e le ore passaronoveloci. Soltanto arrivando colla diligenza in vista delle case bianche di Rodi, risenti-rono la loro disgrazia; peggio quando ogni cosa e il calafato li condussero a ripensa-re d’aver perduta la barca e di doverla pagare.

La mattina dopo per tempo, – fra tutto eran passati tre giorni – il padrone sentebussare all’uscio, e un vocio per la strada. Chiamavan lui a gran voce; rimpiangevache non l’avesser lasciato dormire, perché il dispiacere faceva come le botte e cresce-va maturando; ecco, ad apertura d’uscio, gli invasero la casa. Allora credette disognare e di non essersi svegliato. L’Unità Italiana aveva navigato verso Rodi da sésola, e s’era venuta ad arenare quella stessa notte sul greto dalla parte di ponente.Due pescatori l’avevan scoperta, a poche centinaia di metri dal paese. Rodi è sullarupe, tutto fatto a scale, ma il padrone non toccò un gradino, e volò più che nonscendesse.

Oggi un ex-voto nella chiesa della Madonna della Libera mostra l’Unità azzuccatasul greto, e quando il trabaccolo, ormai vecchio d’onorata età, non è in navigazione,si può ancor vedere, nero con fascia bianca, ancorato in rada o al secco sulla spiaggiadi Rodi Garganico.

Fu potuta ricuperar sana, per quanto maltrattata, anche buona parte del carico,che fu messo in vendita sulla spiaggia, dove tutti convennero a mangiar delle arancedel miracolo.

[Tratto dagli articoli apparsi sul quotidiano La Stampa nella primavera del 1929; contenuti nella raccoltadi racconti L’Italia per terra e per mare, RICCARDO BACCHELLI, Rizzoli, Milano 1952, tranne il brano Le arancedell’Unità Italiana]

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Il Gargano è il monte più vario che si possa immaginare. Ha nel suo cuore laForesta Umbra, con faggi e cerri che hanno 50 metri d’altezza e un fusto d’unabracciata di 5 metri, e l’età di Matusalemme; con abeti, aceri, tassi; con un rigoglio,un colore, l’idea che le stagioni si siano incantate in sull’ora di sera; con caprioli,lepri, volpi che vi scappano di fra i piedi; con ogni gorgheggio, gemito, pigolìod’uccelli…

Ma queste pendici che vanno giù verso Manfredonia sono tutto sasso. Salendoda questo lato verso Montesantangelo la vegetazione è tutt’altro che facile. Ma que-sta è la giornata degli spettacoli commoventi. Giù, vedete, si estende a perdita d’oc-chio la pianura: terra, terra. E con tanta terra a due passi, guardate questi montana-ri: vanno a cercare la loro terra avara col cucchiaino; e quando trovano nel sasso uninterstizio: giù quel granellino di terra. Sono arrivati così, conquistando un milli-metro dopo l’altro, a rendere fruttuoso anche questo versante, e ora è tutto diviso aterrazze che fanno l’effetto di snodarsi sul suo dorso come lentissimi bruchi.

Mi dice uno che sta zappando: «Avresti dovuto vedere quest’estate! Il nostrograno era alto così! Il più bello di tutta la Capitanata!»

Mi dava del tu, davvero era un Antico!

Conquista del sasso

Giuseppe Ungaretti

[Tratto da Deserto e dopo, GIUSEPPE UNGARETTI, Mondadori, Milano 1961]

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L’autore dello splendido romanzo Il cafone all’inferno (Einaudi 1955), puntodi riferimento di ogni movimento poetico pugliese degli anni Settanta (a talproposito corre d’obbligo citare l’antologia Poeti di Puglia e Basilicata, Adria-tica Editrice da lui curata), compie nelle pagine de La Foresta Umbra un giroattorno a quell’universo naturale che sembra appartenergli nella vita primaancora che nella letteratura.

La cosa più bella della Foresta è il vivaio Giacomelli, dietro all’albergo, pressouno straccio di pineta, con qua e là un misto capriccioso di lecci, di castagni, dicipressi. Io guardavo quella novità senza saper andare innanzi, allorché il mio ac-compagnatore mi disse: «Tutto sarà spoglio tra breve, l’inverno di verde non restache qualche abete dietro l’albergo, pochi tassi, qualche vialetto di “busso” e gliagrifogli che pungono le mani.

Aprimmo un cancelletto: lo spiazzo, di non più che un ettaro quadrato, scende-va a vari ripiani con aiuole ben ordinate di piantine, ognuna col suo cartello: pinonero, castagno, ornello, pino bianco, abete, cipresso a felci per villa, cipresso percimiteri.

Al ritorno entriamo nella casuccia del capo vivaista: subito la contadina ci favedere che i suoi marmocchi non sono più sporchi, come poco fa: «Bisogna lavargliogni mezz’ora». Ma più che altro le balza il cuore di gioia, ché possiede finalmenteuna casa, non lì, non quella catapecchia che è fredda, ma giù, a Vico. «È fatta coinostri sacrifici, risparmiando cinquemila lire al mese.» Non devon essere molte lefamiglie di lavoratori in questa condizione! Anche il marito ne è assai contento,sebbene avvezzo a parlar poco è come impacciato. Il suo compito è di mettere interra da quaranta a cinquantamila piante all’anno; la zona di rimboschimento è aJacotenente, a sette chilometri di qui,e lui ne fa quindi-venti ettari all’anno. Anchelui avrebbe il suo orario di lavoro, sulla carta, sette od otto ore; in realtà si trova

La Foresta Umbra

TOMMASO FIORE

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all’opera più di dodici ore al giorno, deve rimaner sempre a disposizione di chicomanda, tacere e ubbidire.

Invece per tutto quello spazio non si vede la gioia di u fiore, nemmeno ungarofano, appena in un vaso il solito basilico fogliuto. La donna si scusa: «Non sonoappassiontata di fiori, nemmeno a Vico ho fiori. Mio cognato mi avea offerto dalieassai grandi e belle, tutti veniamo qui a strapparle, senza nemmen chiedere permes-so. Allora io mi sono accattivata dal dispetto: non ne pianto più.

Poi aggiunse: «Non sapete? È proibito tener fiori qui.»«Davvero? È proibito allevar fiori sul terreno del vivaio» speiga il marito. Povera

foresta!Finalmente raggiungono contrada Signor Marchi, dove si scorge al lavoro nien-

temeno che un unico carbonaio, con moglie e figlia. Come mai? La stagione con èquesta ed io ormai disperavo di veder carbonai all’opera.

Di regola si lavora solo da settembre a metà giugno, lo appresi l’anno scorso aMonte. Vi sono a Monte non meno di settecento carbonai, tutti alla dipendenzad’impresari, ma non ne impiegano che due o trecento. A cottimo, lavorando gior-no e notte, si arriva a ricavar 470 lire a quintale; il cottimista può produrre sino a unquintale e mezzo e dunque valore di 700 lire, sempre lavorando giorno e notte. Agiornata invece si hanno ottocento lire.

«Magro compenso» esclama l’operaio e mi addita la moglie e la figlia che lavora-no con lui, dormono con lui in quelle impossibili baracche.

«Quasi come gl’Indiani, i paria dell’India! Se la ditta ti mette le marche, prendi227 lire al giorno di disoccupazione, più ottanta per i bambini, ma solo i giorniferiali. Altri mettono insieme il loro lavoro, due o tre persone, e si avvicendano perandar al paese, a cambiarsi. Sei stato in India?»

«Sì, tre anni, ho visto con gli occhi miei. Non stiamo meglio di quelli là.»In quel momento a poca distanza verso la strada, s’ode uno sbattere, un trepestio,

il guaito di un cane: accorriamo tutti, primo il carbonaio. La povera bestiola giace aterra, senza forza, vicino a lei un serpentello verde, un guardapassi, morto ormai,con la schiena spezzata. Gli occhi del cagnuolo, attraverso il folto pelo. Poi d’im-provviso scatta su, corre alla baracca, a pochi passi, subito ne ritorna con qualcosa inmano, mentre noi siam rimasti lì costernati, senza saper che fare. Lui invece, eccolodi nuovo in ginocchio, con la sinistra afferra il cane per il muso, lo rovescia, e con ladestra incide con la lametta sulla ferita, a croce. Il sangue spiccia dal petto, la poverabestia è salva.

Di sera, dopo cena, a starsene all’aperto, sull’orlo della strada, il cielo è così bassosul nostro capo che pare tutto una via lattea. Vedremo lampeggiar gli occhi diqualche lupo, attraversando una radura? Qualche schioppettata darà uno strappo al

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La Foresta UmbraT. Fiore 307

silenzio immobile... No, gli operai-contadini se ne stanno tranquilli (non mancaqualcuna delle loro donne), sdraiati per terra o poggiandosi a un panchetto, comese facessero parte dell’immobilità senza tempo del bosco e delle cose...

È facile che la conversazione cominci dalle bestie.«Oggi i lupi son spariti dalla Foresta Umbra, sono stati completamente distrut-

ti, come meritavano; li ha ammmazzati col veleno la Forestale.»«E le volpi?»«Se non lo sapete, la volpe è amica e comare della lepre. Dunque allorché comare

volpe s’incontra in comare lepre, la prima cosa si mette a scappare, come avessepaura, finge di allontanarsi, non vuol disturbare la sua comarella.

Allora la lepre resta lì a guardare come stupita, offesa di quelle maniere di comarevolpe, finché l3altra, che le è madrina, quasi è costretta a fermarsi e si volge, tornaindietro. Allora tutt’e due si salutano e si abbracciano da vere comari, e così sidanno a giocar insieme, si rovesciano per terra, si rotolano, si stringono di sotto e disopra oora l’una ora l’altra, finché coglie la volpe il momento e afferra la comarellasempliciotta alla gola, l’ha uccisa d’un colpo e per prima cosa si beve quel sangue, sitoglie la sete. Qualche volta sul più bello ecco il cacciatore arrivare, ammazza lavolpe e si prende la lepre, la vittima e la falsa traditrice.»

«Ma ora volpi non se ne vedono più, quasi, nella Foresta: quelli della penna alcappello preparano loro buoni bocconi. Allorché muore un ciuco, quella carne oravien destinata alle volpi, come già una volta ai lupi. Ne fanno polpette avvelenate:ho visto io mettere il velene nella carne, con i guanti. Restano stecchite dopo unminuto.»

«E i cacciatori? Non è proibita la caccia?»«Sì, nella Foresta, ma i caprioli si spingono fuori del bosco, per mangiare; l’erba

di fuori è più saporita. E allora... »«Qui tra gli alberi nessuno li distrurba; arrivano dinanzi a noi, rimpetto alla

casa, pascolano tranquillamente a gruppi di tre o quattro. I ragazzi scendono inmezzo a loro e non hanno paura.»

Colui che ha parlato da ultimo con la sua voce dolce è un bel pezzo di giovane;soffre di postumi di pleurite, che si è buscata soldato in Africa; basta una minacciadi maltempo per abbatterlo. È proprio lui che è stato alla mensa degli Americani econferma che erano migliori degl’Inglesi, più democratici.

«Ma la politica è un’altra cosa - dice uno si sa.»E tutti si trovano d’accordo.«Mi ha detto compare Pasquale, il fornaio di Monte, che un giorno, camminan-

do per la vasta campagna della Russia, era priogioniero, scorse un cespuglio, l’unicodella pianura, e si mise a frugarvi dentro.

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Verso Sud308 D. Grittani

C’era, sotto, un pezzo di legno, su cui una testa di morte era stata intagliata, edinsieme un piccolo volume. Sulla copertina era scritto: «I nostri pronipoti, leggen-do la storia, troveranno che i loro padri hanno ucciso gente senza nemmeno cono-scerla. Uccidete il mostro della guerra!»

«Hai visto tu il libro?»«No, ma lo posso vedere quando voglio. Ora, ogni volta che il fornaio m’incon-

tra, mi ripete: Compare, i nostri pronipoti, leggendo la storia... »Il cielo sembra curvarsi su di noi, le costellazioni stan ferme, grondano di luce.

Uno alza la mano e fa segno alla puddara...

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Joseph Tusiani (San Marco in Lamis 1924). Senza dubbio fra le personalitàculturali più illustri della Capitanata. Docente di Letteratura Italiana pressol’Università di New York, traduttore dall’italiano all’americano di Michelangelo,Machiavelli, Tasso e Boccaccio, autore di romanzi, saggi nonché curatore dinumerose antologie di poesia italiana. Nonostante il suo impegno letterarioabbia assunto dimensioni ormai planetarie - Tusiani è di continuo chiamato atenere lezioni e conferenze in tutte le università del mondo - il “professoresanmarchese” non perde occasione per rinvigorire il proprio legame con il luogonatìo, a cui ha dedicato numerosi componimenti dal sapore nostalgico ma distraordinaria intensità.

Terra natale, io non ho mai sofferto,io non ho pianto e non son mai partito,se alla mesta pupilla,che ti ritrova, tu sei bella ancorae sei materna. Forse per selvaggimari avanzò la sola mia paura;forse per venti e valli e per sereilluni procedé, sempre sgomento,il mio pensier solitario;ma l’anima, qual sangue tra le vene,passò per le tue radici eternamentee l’uomo restò bimbo e fu sereno.Serena, sí, tu sei, mia terra grande,or che sí vergine e vasto l’azzurrosopra di te tangibile s’espande

M’ascolti tu, mia terra?(Ode al Gargano)

JOSEPH TUSIANI

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Verso Sud310 D. Grittani

e ti chiama sua terra;e l’onda a te rifluisce, scontentadelle raggiunte distanze infinite,ed ecco canta e ti chiama sua madre.Qui mi son io fermato, su quest’erbache sempre rigermoglia,e con l’orecchio trepido ho seguitonel fiottar del mio sangue il lieve, arcanocrescere della fogliae 1’appressar del tuono di lontano.E quando poi crosciò sui sassi stridulatutta la pioggia improvvisa, il tuo voltoho visto asperso e splendered’umida meraviglia,chetando nelle tue sacre speloncheil mio terrore fino al nuovo sole.Ecco il sole è già parte di te, partedi me, sí basso che quasi ci toccacon l’ultimo suo dir melodioso.E sta su quella roccia a brucar l’erbaimporporata la capra (e ci pareche mangi il sole), e su questo declivo,che sente il fresco favellar del mare,sta presso il gregge il pastorel silente,lieto di regger sull’aperta manoun cielo d’oro e per la prima volta -fatto da te, sua madre, madre nostra -un vestito di raggi.E son campane lontane e campanivicini, ed è la sera,questa cosa tranquillache inumidisce la nostra pupillaall’improvviso e ci fa te guardarepensosamente prima della notte.Quando la notte è grigia, ed il grillo ed iosembriamo i soli spiriti viventisotto un ciel ch’or si apre or si discopreall’occhio malinconico assonnato,

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M’ascolti tu, mia terra?J. Tusiani 311

l’ultimo fil di ristoppia che bruciaesala una fragranza di frumentofiore. Ah no, veglia lontano e cantauna fiaba di vita un vecchio, e ascoltaun pastorello, e dè religionequesto silenzio della giovinezzaal detto del profeta. Il mare tace,anch’esso ad ascoltare, e ancora un poco il vecchio canta, e sulla stessa pietra,che serve da giaciglio,nella mobile notte sono immotiil bianco capo e i lievi ricci biondi.Ora il silenzio gli abissi profondicolma, e la notte l’attonito cuoreche veglia. E vegli tu. Terra d’amore,anche sul mio pensiero.Io so che sotto il rigido tuo cigliotrema perl figlio il tuo pianto di ieri,il tuo pianto del sole. E so che dentroil tuo marmoreo cuore è la speranzadi nuov’erbe e d’uccelli e di pastori,è la stessa preghiera che non manchidomani il dolce volo e la pasturaad ogni tua novella creatura.Madre, io ti canto la lode notturnaancora, e tu m’ascolta,come udivi una volta il mio canto di maggio!Io son tornato dai mari lontani,e se pur sembri in allegrezza spentoogni anno amaro, non potrà nessunoannullare il passato e ricondurreal seme antico il già perfetto fiore.Era sí lieve, ai miei dí, questa pianta,ch’io con mano piccina ne scotevotutta per me la brina;ed ora è tronco, e la mano robustatocca a scorza e non più nuoce ai rami.Ma in quest’albero forte scorre ancora

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Verso Sud312 D. Grittani

l’umore del tuo grembo immacolato.Immacolato io mi sento tuttora(eppur m’han fatto rude gli anni e il male)come si fosse fermato il mio giornoalla sua prima aurorasenza il declino alla sua prima sera.E costumi ho vedutodiversi e gente diversa e, per vivere,anch’io quasi ho dovutoscordare i tuoi linguaggi e i tuoi silenzie le tue selve fiere ed incorrotte.E ho imparato a dormir la mia nottesenza i tuoi cieli, per sentirmi prontoa correre affannato, il dí seguente,allo stesso tramonto.E qui correvan liberi e velocii tuoi venti, e sui greppi e dentro ai solchisaltellavano le lepri e nascevan viole.Tu non conosci il mondo sotto il sole,o severa montagnache amo. Or, di noi due,io non so dire chi più sappia e valga:io, che ho appreso il soffrire de’ fratelli,o tu, che sotto la pioggia che bagnae rode, all’alba nuova ancora possiedil’innocenza di ieri.Io non lo so, perché sapere il maleè forse un po’ dimenticate il bene.Ma certo vive senza l’uomo il fiore,e l’uomo è triste senza un fiore almeno.Tua la grandezza soltanto, se, al senoimmune ritornati,si soffre di non essere più frammentovivo di te, come il boccio dormentebeato, e come quei pastori avvintiin un unico sonnoquasi dolore e amorestretti per sempre in un’intensa vita.

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M’ascolti tu, mia terra?J. Tusiani 313

M’ascolti tu, mia terra? All’infinitatenebra (a me sembra infinita, eterna)il grillo ancora inviail suo messaggio antico, ed alla lunaesce a guizzar la serpe, e sul pantanocanta la vecchia vicenda la rana,ed or si sente nascer sulla viauna canzone; è il carrettier che torna.In questo mondo innocuo e tranquillo,in pace sí sovrana,forse son io soltantoche parlo a te questo linguaggio strano,questo amarissimo inutile pianto.Io so che tu m’ascolti. Ha roso il ventoe portato nell’ondaun masso di tua roccia, e sette invernihan gravato i tuoi fianchi seppellendonelle nevi i tuoi fiori e sette aprilihan ferito di gioia il tuo grembo,ed hai sofferto lacerazionid’uomo e schianto di nembo.Eppur sei buona ancora e sei materna.E tutto perdoni,mia terra, e il tuo silenzio è più che voceal fior che, nato nell’idea eterna,questa notte, fra breve la corollaaprirà sulla zollastupita, a me che, giunto qui per millegestazioni amare, qui rinascoe dico all’ure: «O mistero di gloriadove nascere è bello io sono nato!»Uomini e cose, udite! Il fiore è natoe il fiore brama il sole, e vuol l’infantela vita. Aspetta il vento giù la velaspiegata e ad esser bella attende il raggiola rugiada ch’esiste e non si svelaancora. Io sento che è segno d’auroraquesto brusio tra le cime, quest’alito

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Verso Sud314 D. Grittani

sopra la vetta più grande, su tuttele vette. Io ti conosco,fremer di cento cerri, canto d’arpatimida e tinnula, or che ogni sognosembra finire in colore, e il coloresembra mutarsi in cuored’iomo. Correte, accorrete alla festadel monte che si dora,della foresta che bella si destaal giomo! È tardi già: quel che fu oroè croco, e cresce già sopra la crostaglabra un filo di bianchissimo crespo,e in un mar di candore la notte è naufragata,e in tutta questa luce il mio dolore.

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Alfonso Gatto (Salerno 1909 - 1976). Tra le numerose testimonianze letterarielasciate quale “futura memoria” delle pietre del Gargano, figura anche la brevema bellissima Ex voto dell’indimenticato poeta Alfonso Gatto. Una prosa cheprima apparve nella raccolta Carlomagno nella grotta (Mondadori 1962,silloge ripubblicata col titolo Napoli N. N., Vallecchi 1974) e che poi venneinclusa nel famoso Diario Pugliese.

Da Vieste a Manfredonia la strada sale e scende tra foreste d’ombra e orizzontidi luce, in una solitudine quasi assoluta rotta ogni tanto dalla presenza di un bosca-iolo o dallo strombettare di una vecchia macchina di funzionari. Il mare s’affacciada ogni parte, è una piazza azzurra che ruota sotto il piede del promontorio. Si vedeil Gargano levarsi con forza dal litorale soffiato giù giù sino alla bianca cattedrale diTrani: la sua altezza è intensa da quella soglia. Mattinata, nella valle, è più felice delsuo nome. Montagne fitte fitte di muretti, a gironi verso il cielo, e, nei ripiani,contadini che battono il grano, gli uni sugli altri come nei quadri dei primitivi. Lepiccole case di Monte Sant’Angelo, uguali, allineate sui gradoni della roccia: il tetto,il balcone, la porta: una stanza sopra una sotto. Gli arcangeli degli ex-voto uscendodalle nuvole si fermano a parlare. Ma il duro del paese è nel santuario scavato colfreddo dei marmi dentro la roccia. La stiva è carica di voti e di candele, tentenna nelbuio ove salmodiano i ciechi.

Ex voto

Alfonso Gatto

[Tratto da Carlomagno nella grotta, ALFONSO GATTO, Mondadori 1962]

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Roberto Roversi (Bologna 1923). Al poeta emiliano, fondatore assieme a Fran-cesco Leonetti e Pier Paolo Pasolini della celebre rivista letteraria Officina,l’occasione di un viaggio in Capitanata si presentò nel 1961, allorquando incompagnia dei registi Carlo Di Carlo e Aldo D’Angelo raggiunse l’entroterragarganico per realizzare un documentario cinematografico. A fare da “guida” aRoberto Roversi si prestò il prof. Pasquale Soccio, che non mancò di mostrareall’autore del Motore del Duemila (canzone portata alla popolarità da LucioDalla) gli incantevoli tratti di montagna ispiratori di Gargano sessantuno.

In un brogliaccio del ‘61 trovo queste varie indicazioni molto dirette e moltosommarie, che qua trascrivo lasciandole nella loro onesta e ingenua tempestività:oggi parto da solo per il Gargano dove troverò la troupe di Di Carlo per girare i duedocumentari. È un agosto molto caldo e molto sereno, un cielo tutto spianato mamordicchiato da piccoli fori di colore più accentuato, chiazze di azzurro peregrino,come semi intravisti nel corpo polposo e rosso del cocomero. Sono in Abruzzo datempo, dove sto bene; naturalmente. Qui i rumori arrivano portati sul movimentocauto e aggraziato, ma con una aggressività in controluce, dell’aria. Soprattutto ilpassaggio dei treni, così vicino al mare, è un teatro continuo; fischiano come nelTexas. Il breve viaggio di trasferimento è stato tranquillo e abbastanza solitario, perniente avventuroso. L’asfalto si attaccava alle gomme dell’Appia, che sbuffava comeun cavallo intimorito indaffarato intorno (non ancora dentro) alle sabbie mobili. Adestra e a sinistra della strada, spesso vicina al mare e con cespi di gerani crocchiantiai lati, i contadini accendevano falò per bruciare le stoppie e fumi bianchissimi,spessi come un nebbione bolognese, s’alzavano a coprire ogni cosa. A occhi chiusi sientrava nel nulla, nel limbo di Dante o nel cuore del mondo, ed era emozionanteogni volta uscirne fuori e toccare o sfiorare di nuovo pietre e foglie.

Il Gargano mi piace. È così silenzioso o, meglio, è così solitario. Non una terra

Gargano sessantuno

Roberto Roversi

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Verso Sud318 D. Grittani

abbandonata ma una terra ancora da scoprire. Strade sempre in curva sfiorano pen-dii pieni di olivi contorti scuri e risucchiati come le mani dello zio Rigo; e il verdescuro, quel verde scuro, ha una solennità da poema greco, intimorisce. Quasi chefossero lì ancora a tutela di tombe di guerrieri oppure di splendidi adolescenti toccatida una sorte infausta o di donne caute e attente, vissute nell’attesa e nella pazienza.Spesso si incontrano greggi che avanzano lentissime ingombrando la strada e le pro-de. E i pozzi davanti alle piccole masserie, gli asini che aspettano vicini ai muri,immobili, trapassati ogni tanto da brividi improvvisi per scacciare le mosche. Pecore,asini, ulivi e l’acqua raccolta tutelata difesa con il sentimento delle pietre perchéneanche un goccio vada perduto; l’impressione immediata di una parsimonia attiva,di un obbligo di attenzione e di cautela per sottrarre ogni cosa, ogni piccolo bene, aigiri e ai tiri abbastanza perversi della sorte. Aggiungo che, muovendomi, percepiscoil senso di una continua salita verso l’alto, un costante progredire in su ma gradevole,abbastanza armonico, senza strappi e senza paura; specie perché è un continuo sno-darsi di curve da purgatorio dantesco e certamente, ripeto almeno per me, con ilsentimento di una progressione liberatrice, per la conquista di un po’ più di luce, diun po’ più di spazio a vantaggio della sorpresa del cuore. Per liberarlo dai chiodi dellaterra. Non trovo altre spiegazioni. Ma poi anche i cani. I cani ci sono, ad ogni svolta,ad ogni porta, a tutti i pozzi, fra le gambe di tutti gli asini. Abbaiano poco ma è subitochiaro che sono lì a vigilare con una indifferenza astutissima, simulano il sonno conil muso fra le zampe e invece seguono ogni movimento intorno, con occhi lucidi neiquali si riflettono come in uno schermo atti voli persone, passi. Perfino le voci sem-brano passare attraverso quegli occhi. Scattano all’improvviso in piedi con una rapi-dità e una agilità – e una furia – da pantera; quando con l’intelligenza dell’esperienzadeducono che è necessario intervenire o prevenire… Ci muoviamo spesso, adesso,fra boschi spettacolosi, e così imponenti. Ho imparato lì dentro perfino a decifrarealcune voci, ma tutto è come bisbigliato quasi che passasse attraverso il fiato di unaltro. I rumori o i suoni rapidi leggeri e vaganti sono cento ma nessuno infatti ègridato. La foresta è rispettosa del silenzio e a me pare che stia attenta ad ascoltare séstessa. La foresta vigila e guarda; aspetta. Non lascia niente al caso. Gli alberi, cosìgrossi e alti che sembrano perdersi nel vuoto, mi danno la sensazione che adagio, masenza fatica, tutti insieme si mettano in movimento strisciando le ultime foglie, quel-le più leggere fresche trasparenti, contro il cielo. La forma delle nuvole mi ricorda iquadri dei veneziani, i grandi del Cinquecento, che con nubi o in grangia e colore econ tempeste annunciate o in atto avevano un conto aperto e rapporti diretti. Nuvo-le grandi, gonfie di un latte giovane, che trasmigrano in fretta come uccelli di passo.Alle volte hanno il bordo affumicato quasi che trascinandosi così un poco affannoseavessero strisciato sulla terra, sugli alberi, o sul dorso di una montagna.

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Gargano sessantunoR. Roversi 319

Nei paesi non siamo ancora entrati, dato l’oggetto delle nostre riprese. Ma sia-mo spesso al lago di Varano e al lago di Lesina. Fra i canneti della riva, al primoapproccio, mi a colpito un canotto ormeggiato, in completa solitudine, ma frescodi vernice e con una solidissima gomena, che aveva a prua, tutta dipinta di rosso,una mitragliatrice ruotante della prima guerra mondiale, per la caccia delle anatre.Dicono: ne cadono a decine per volta. In una battuta anche due trecento. Unmacello. Sul bordo del lago i pescatori vivono all’estate in capanne immerse fra icanneti, come in un paesaggio africano perso nel sogno. Tanto che si potrebbeimmaginare che si muovano intorno, attenti ma tranquilli, i leoni. Così vicino almare! I pescatori, allineati sulle chiuse, afferrano i cefali con le mani. Ieri sera hannoacceso un fuoco preparandoli per noi. Ciò che mi colpisce è la straordinaria com-postezza del loro comportamento. Niente di volgare o di approssimato, con l’abitu-dine al rispetto di regole antiche che sono ormai, così mi sembra, educazione delsangue. Hanno capanne con interni poveri, essenziali, ma fra gli oggetti d’uso,quasi sempre, ecco un bicchiere, una ciotola, un sasso, una immagine di secolarefattura che la terra ha riconsegnato perché potessero continuare a collegarsi con lapropria storia; e le proprie storie. Sono sempre più coinvolto con il passare deigiorni in questa educazione, cultura rituale (non espansa ma abbastanza cauta nellasciarsi visitare) che mi sfiora ma che tuttavia sento che mi aiuta passo dopo passoa crescere, ad allargare e completare i dati della mia comprensione generale. Ancheil pane, per esempio, con quelle forme e soprattutto con quell’odore d’albero bru-ciato all’aria aperta, vicino al mare, farina e foglie… Poi l’altro giorno ho avutoun’altra esperienza, di persone e di situazione, emozionante. Ho conosciuto il prof.Soccio nella sua casa di campagna, in un posto isolato alto sul mare. È una personache mi fa soggezione e nello stesso tempo induce ad aprirti, a corrispondere, a nonfrapporre intermittenze nel piacere anzi nella necessità di comunicare; e di conti-nuare a farlo. Questa capacità naturale, che è rara, di sciogliere lacci e barriere perlasciare corso all’ordine delle parole e delle emozioni, correlate ai vari problemi, èproprio dei veri maestri. Sono passate alcune ore che non saprò e non potrò dimen-ticare. Per noi, che avevamo trascorsa la giornata sotto il sole per le interminabili etalvolta tediosissime riprese ha stappato una bottiglia del 1898, un vino nero im-peccabile – che si spandeva nel palato, sollecitandolo, come fa l’ombra sulla terraquando è portata da una nube. È un atto che ci lega emozionalmente alla percezio-ne reale del tempo, alla scansione dei moti della storia; e non credo sia troppoingenuamente retorico se uno come me, obbligatoriamente cittadino, e di una cittàconficcata nella schiena solida e polputa di una pianura senza mare, pensa (anzi,direi, può sentire dentro al pensiero) che un tale vino era già nella bisaccia deisoldati di Roma. Dalle mie parti invece la storia è solo da museo, catalogazione di

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Verso Sud320 D. Grittani

oggetti e di dati. Con il prof. Soccio si può parlare di tutto. Passavano le ore inquesto modo, è arrivata la notte profonda, con un cielo tanto scuro che sembravailluminato; in giardino, con la campagna intorno – io, Di Carlo, il professore e unsuo giovane parente – seduti, a me è precipitato addosso come l’irruzione improv-visa di un vulcano senza fuoco il sentimento anzi la sensazione reale dell’infinitodilatato sopra di noi nel palpito di tutte le luci del cielo; e quella altrettanto e forseanche più emozionante, conturbante, del silenzio totale; completo. Il mondo eravivo ma in quel momento niente si muoveva; la natura era lì eppure sembravatrattenersi per non intaccare la perfezione di quel momento indicibile – che potevaripetersi sera dietro sera. Era come se la terra, anche la terra, aspettasse qualcheevento particolare e inglobasse inghiottendo rapidamente ogni sia pure piccolofruscio – avida di quel momento di assoluta sospensione. Infatti, era tanto il silen-zio che si aspettava qualcosa. Si muoveva perfino sulle nostre braccia, sul collo comeun fiato trasparente delle cose. Era qualcosa di inesplicabile che questa terra conser-vava e dunque difendeva a segno della propria sovranità, della propria cultura; edella propria storia. Durò a lungo, per me. E io ho finito per accasciarmi quieta-mente nel sonno, per entrare a piedi nel regno dei sogni magici – dove non c’è piùuna fine per la vita dell’uomo.

Devo questo spaccato di meraviglia al prof. Soccio, uomo di studio che nondimenticherò. Sono ripartito dal Gargano muovendo poi da S. Giovanni Rotondo,che è un paese tutto bianco e molto grande. Dove c’è padre Pio. Grandi palazzi e unmuoversi di tanta gente. Mentre mi allontanavo girando le curve, e da lontano,calando la sera era tutto illuminato come una città del nord. Con abbondanza diluci terrestre, che il buio non beve. Pensavo ai pescatori, che a quell’ora non aveva-no acceso ancora le loro lampade, o le avevano già spente. E al prof. Soccio che,forse, era già seduto nel suo piccolo giardino a contemplare la notte. Portavo conme due forme di pane…

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Anna Maria Ortese (Roma 1914 - Rapallo 1998). Narratrice e giornalista,nata in una famiglia molto povera, Anna Maria Ortese si distinse nel panora-ma letterario italiano ormai quarantenne grazie a Il mare non bagna Napoli(1953). Poi fu la volta di Poveri e semplici (1964) e del suo primo romanzoL’iguana (1965) che però non riscosse la fortuna che invece avrebbe meritato.Seguì la tormentata opera Il porto di Toledo (1975), quindi un lunghissimosilenzio narrativo rotto soltanto da Il cardillo innamorato (1993). La prosache qui riportiamo fa parte invece della bellissima raccolta di impressioni diviaggio dal titolo La lente scura (1991).

Il Gargano mi ha offerto un tale numero di sorprese, in due giorni, che ancoraadesso ne serbo l’immagine di un paese stregato. Qui, la bellezza celeste delle cose,ha isolato e perduto gli uomini. In alcuni momenti, sembra non vi sia altro chebeatitudine, subito dopo avvertite la presenza di un nero sconforto. Dopo le selvag-ge impressioni della sera precedente, fra la spiaggia e gli antri domestici di Peschici,e una lunga notte trascorsa nella locanda di Rodi, minacciata da presso dal vento edal mare, che in quell’incertezza del buio esasperavano la loro potenza, non credettia me stessa, quando la mattina dopo, aprendo le imposte, vidi davanti alla casa unmare liscio e celeste e grande, che nella luce nuovissima del giorno brillava con lastessa freschezza, faceva sentire la stessa voce favolosa dei mari apparsi a Omeronella sua Iliade.

Sotto la finestra, certi pescatori, seduti su uno scalino, alcuni fumando, chiac-chieravano. Ai loro piedi, grovigli di reti molli e intricate come chiome, e cestinianche neri, dove guizzava ancora, silenzioso e fulgente, il pesce azzurro e rosato. Lastagione era finita, sulla spiaggia non si vede altro. Andai in cerca del fotografo, eseppi che la sua ardimentosa «topolino» stava poco bene, e in attesa che il meccani-co la aiutasse a riprendere le forze, decidemmo di dare un’occhiata a Rodi. Facem-

Oltre l’isola dei coatti qualcuno ha chiamato

Anna Maria Ortese

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Verso Sud322 D. Grittani

mo una strada sola, tutta rampe, quella che dalla piazzetta di Rodi porta al mare,credo si chiami via Ferrucci.

Da tutt’intorno, cominciava ad affacciarsi gente, apparivano busti nelle finestrepiccolissime, come mezze figure in una cornice chiara. C’era molta infanzia, sedutaper terra, come in tutta Italia, bambini vestiti alla meglio, coi cenci dei grandi,creature la cui esistenza è affidata, come quella dei fiori selvatici, alla bontà del cielo,alla clemenza dei venti, bambini protetti da ben poche cose, al mondo, salvi percaso, cresciuti per puro miracolo. Mentre le donne parlavano e ci raccontavano laloro vita e il numero dei figli, con una specie di gentile lamento, vedemmo venire suda una rampa bianchissima sul fondo turchino del mare, un fraticello minuto, dipoco più di cinque anni.

Levava un piedino dopo l’altro, nell’impaccio della tonaca, difendendosi con unamanina lo sguardo. La sua testina brillava al sole, come una pallida arancia, e piùpallide erano, quando le scorgemmo, le sue guance, le labbra. Era Tonino Fontanarosa,che questo inverno è stato malato e la sua mamma gli ha fato un saio, per voto, maancora non è sanato. Vedendoci, sorrise appena e aggrottò le sopracciglia. I suoi chiariocchi erano tutti arrossati, e a mala pena sopportava la luce del sole, ma circa questoparticolare, nessuno seppe dirci niente, se non «malato... malato... ». Il fotografo fecescattare molte volte l’obiettivo, e tutti erano molto contenti, ora, sia Libera Altomare,che nella sua vita era stata sempre messa da un lato, sia Colajanni Maria, che sedutasulle scale andava pulendo la verdura, sia Russo Concetta, ch’è molto stimata fra tuttiperché possiede un paio di occhiali, sia Lina di Lelle, ch’è una graziosa ragazza, e altri.

E tornò, a ritroso, il paesaggio della sera prima. Ecco Peschici sotto il sole. Que-sta volta entriamo diritti in paese, abbagliati da una luce ardente, che accorcia oelimina ogni ombra. Non c’è che bianco e azzurro. Sembra una favola. La macchi-na rimane in bilico tra una strada e un marciapiede che si rassomigliano tanto daconfondersi, circondata dai soliti cacciatori di lampadine, e noi ne usciamo storditi,ma ansiosi di conoscere finalmente Peschici.

Dopo due minuti di strada, eravamo sicuri di aver raggiunto uno dei posti piùsquisiti del mondo. Forse, era il punto più alto della collina. Alla nostra sinistra,non era che un ricamo bianco, con appena qualche nota di azzurro e di rosso, datadai fiori e dall’erba, trama nivea di case, terrazze, scalette, balconi. In fondo a tuttoil cobalto assoluto del mare. Donne e bambine uscivano ogni tanto dalle case,vestite di nero e raramente di chiaro, come sembra usi in tutta la Puglia, portandosul capo, con cura paziente, grandi latte per la benzina, e si dirigevano verso unpozzo bianchissimo, situato dove la stradetta terminava, contro la grande luce delmare. Tutta Peschici, ci dissero qua e là, era piena di quei pozzi. Solo dieci caseerano provvedute di un elementare servizio igienico, e in quanto alle fontane non

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Oltre l’isola dei coatti qualcuno ha chiamatoA.M. Ortese 323

davano acqua per qualche ora. Ce lo dissero, quelli che stavano seduti sulle porte,uomini e donne, con un sorriso curioso: dove la vergogna era diventata divertimen-to, e l’ira un sorriso e una sassata. In non vedevo la Puglia da moltissimi anni, e orami andavo lentamente ricordando ch’era stata sempre così, un’esistenza sprovvedu-ta e ferice, un sole tremendo e una terra dimenticata, dove il livello di vita nellecampagne era poco più su di quello animale. Non eravamo che a poche centinaia dichilometri da Roma, col suo Governo, le Ambiasciate, i miliardi profusi come lelampade elettriche, e qui cadeva l’ombra delle caverne.

La signora Lucrezia Falco, ex presidente delle Dame cattoliche, e ora, insieme asuo marito, l’ex maresciallo dei carabinieri Vincenzo Massa, proprietaria della lo-canda dove ci fermammo a mangiare, non dava però molta importanza a tuttoquesto. Anadando e venendo dalla cucina, invasa dal fumo della legna ci parlòinvece delle altre benemerenze di Peschici: tre chiese, di cui una in campagna, unasilo retto dalle suore, alcuni locali scolastici per le elementari, un piccolo presidiocon un brigadiere e due carabinieri, un regolare servizio di Finanza, con due o treappuntati e qualche guardia, un ambulatorio per gli incidenti minimi, mentre perun pronto soccorso più serio bisognava recarsi a Foggia o a S. Severo. Ci parlòsoprattutto, quasi religiosamente, dei quattro o cinque grandi proprietari di terre diPeschici: Della Torre, Martucci, Vigilante, Martella. A ciascuno di questi nomi, lavoce le si addolciva, gli occhi mandavano reverenti lampi.

La luce del giorno era giunta a quel punto che pare stia ferma, in uno splendorecaldo, e un po’ triste, che dà sangue alle rocce e al cielo, ed è il momento preciso checomincia a mancare. Erano le cinque del pomeriggio, e lasciata la macchina sulbordo della strada, camminavamo con gli occhi alle porticine oscure delle grotte. Ilchiarore del tramonto doveva entrare là dentro, attraverso l’esile trama delle tende,assai bello, come una luce di speranza e insieme di morte. Molti ragazzi ci seguiva-no, come sempre, viluppo di granchi e di uccelli. Erano neri, vivissimi, e fra tuttispiccava la testa stranamente aggressiva, rapata, di Maria di Mele. Sotto la strada, sistendeva quieto, senza una sola cresta, il mare. Là in fondo, molto lontano, c’eranole Isole Tremiti, con la loro colonia di coatti. «Bellu giovane, fammi la fotografia!»,gridava continuamente, in quella gran pace, la voce metallica e dura di Maria diMele. Essa era poco più grande di un gatto, ma intere generazioni di pirati fremeva-no in lei. Ripeteva il suo grido ogni cinque secondi, con uno scatto dove trapelavasempre più viva la meraviglia e l’ira di non essere obbedita. Non le bastano le lam-padine, ne aveva già ottenute due o tre, lasciandosi sui compagni e strappandoleloro a colpi di unghia, voleva la fotografia; nei suoi occhi nerissimi e lucidi di vola-tile, appariva il vigore e il tremito di un coltello. «Bellu giovane, fammi la fotografia!».Il mio compagno di viaggio non le dava troppo retta, andava invece guardando su,

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Verso Sud324 D. Grittani

alle porte che si aprivano nella roccia. Si affacciò, a una di quelle, una donna con unbimbo in braccio, e subito, spaventata, si ritrasse: non così in fretta che il sole che sispegneva di fronte, nel mare, non le mettesse un baleno sui denti.

Ci accostammo a un’altra porta, e qui, dopo qualche titubante, carbonelli Mattea,moglie di un bracciante, acconsentì a farci entrare. Era una donna giovane, un po’sciupata, con un sorriso sincero. Alzò appena una mano come a dire «tutto qui», elasciò che guardassimo. C’era la miseria, in quell’antro, ma tutto era in ordine, quie-to, pulito: il letto sotto la bassa volta di roccia, per gli sposi e i due bambini, il tavolocon i ritratti, i cestini e gli utensili di cucina attaccati in giro, i fasci di legna, gli abitie la roba da rammendare accantonati in un angolo. La voce della donna, quandoparlò, era incerta come il sorriso. Non si lamentò del suo alloggio. Disse soltanto disperarne, in seguito, un altro, «di vera pietra, più grande». Questo misurava forse tremetri, era stretto e umido. «E come lo paghereste?», io dissi. Essa si confuse. Ammiseche suo marito guadagnava quattrocento lire al giorno solo per tre mesi l’anno.

Riudivamo dalla strada, sempre più accesa e insistente, la voce di Maria di Mele,che implorava e comandava una fotografia. Fosse l’ora, o le cose che avevamo viste,cominciava a farci paura quell’esserino. Lasciando la moglie del Carbonelli, e men-tre riscendevamo pensierosi la scaletta, pregai il fotografo di accontentarla. Essacominciò a saltargli intorno, con l’inquietudine di un lupo, allarmata e orgogliosainsieme. Per calmarla, mentre il fotografo andava innestando una lampadina, lechiesi di ripetermi il suo nome e cognome, e mi accinsi a scriverlo in un taccuino.

Non ho mai visto un cambiamento più repentino e straordinario in una fisio-nomia. Da adulto e cattivo, quel viso si rifece infantile, tenero. I lineamenti sidistesero; gli occhi piccoli e foschi si allargarono e risero. Una grande, una meravi-gliosa risata di gioia. Poi, guardando i compagni, guardando le rocce, e la gentech’era affacciata alle rocce e guardando l’aria e il mare, e come bevendo e godendoimprovvisamente di tutto, cominciò a gridare: «Mi ha scritta e mi basta, mi ha scrittae mi basta, mi ha scritta e mi basta.»

Il fotografo aveva scattato qualche fotografia, ma essa era già corsa via. La ritro-vammo più tardi nella macchina, seduta accanto alla guida, con gli occhietti buoni,ma fieri e felici come quelli di una signora: con una faceva dietro i vetri, ai compa-gni che la guardavano estatici, vaghi segni di saluto. Fu forza farla scendere a terra.Non ci odiava più, pensava. L’avevamo scritta, legata a qualche cosa, a qualcuno:oltre tutto quel mare, oltre l’isola dei coatti, oltre i boschi e le pietraie di questaterra, qualcuno aveva chiamato il suo nome, a cui la sua infanzia era cara, le avevafatto intravedere l’approdo a una civiltà, un giorno, una vita.

[Tratto da La lente scura. Racconti di viaggio, ANNA MARIA ORTESE, Marcos y Marcos, Milano 1991]

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PARTE XVI

Isole Tremiti

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Émile Bertaux (Fontenay-sous-Bois 1869 - Parigi 1917). Storico dell’arte, do-cente all’Università di Lione, tra le sue opere vanno citate Le tour du monde(1899), L’art dans l’Italie méridionale (1904) e Donatello (1910).

Da Rodi vedevo l’arcipelago delle Tremiti stagliarsi sull’orizzonte del mare e nonpotevo resistere alla tentazione di recarmici per guardare da vicino le isole che, colGargano e il Tavoliere, un tempo hanno dato vita al regno fantastico di Diomede.Molti ricordi storici mi spingevano là. Se non potevo sperare di scoprire la tomba diGiulia, nipote i Augusto, che morì esiliata in questo scoglio sperduto, contavo ditrovare alcune rovine dell’abbazia che, al tempo della potenza benedettina, fu unMonte Cassino in mare aperto. Noleggiai dunque una barca di pescatori in unabella mattinata e un buon vento di scirocco. Il viaggio fu accidentato. I marinari,prudenti come i compagni di Ulisse, evitarono di lasciarsi trascinare dal vento con-trario, diritto sulle isole. Seguendo l’usanza antica, costeggiarono la montagna finoalla punta che separa le due lagune di Lesina e di Varano, e che dista da Tremiti nonpiù di venti miglia marine. Ma a mezzogiorno cadde la calma, che i marinai del-l’Adriatico chiamano la «bonaccia morta». Dopo avere appreso in poche ore tutte lebestemmie che un pescatore del Gargano può proferire contro i Santi e Cristo inpersona, quando è scontento di loro, arrivata la sera, gettammo l’ancora dinanzi allaspiaggia deserta di Varano e dormimmo, né bene né male, nella barca stessa, sotto lavela. L’indomani prima dell’alba, il vento di terra ci trascinò al largo e alle undici delmattino, più di venti quattro ore dalla partenza da Rodi, sbarcavo finalmente allapiccola «marina» dell’isola di San Nicola. Carabinieri e guardiaciurme, armati finoai denti, ci aspettavano sulla spiaggia: quest’isola, infatti, come l’Elba e una dellePonza, oggi funge da bagno penale. Tiro dalla tasca l’autorizzazione ufficiale a visi-tare le prigioni e le caserme, che mi era stata concessa, con la più perfetta cortesia,dal governo italiano, e, sotto buona scorta, mi incammino per sentieri coperti,

Le Isole Tremiti

Émile Bertaux

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Verso Sud328 D. Grittani

oltrepassando postierle fiancheggiate da torri e percorrendo tutto un dedalo difortificazioni del XVI secolo. Il direttore della prigione mi riceve molto amabil-mente, mi invita a pranzo e mi fa preparare una stanza. Un pomeriggio e un’interamattinata sono appena sufficienti per esaminare attentamente il terreno e le costru-zioni. Le Tremiti sono tre: l’isola di San Nicola, cinta dalle costruzioni dell’abbaziafortificata, oggi trasformata in luogo di detenzione; l’isola di San Domino, intera-mente boscosa o coltivata, dove i benedettini facevano un eccellente vino che serveancora alla messa del buon prete dell’isola vicina, e di cui io posso, conoscendolo,vantare l’aroma e il bouquet. L’isola Caprara, molto più piccola delle altre due, èarida e deserta. Dall’alto del faro dell’isola di San Nicola si scorge ad est Pianosa,dove, con una buona vista, si possono distinguere due capanne di pescatori. Piùlontano ancora, proprio in mezzo all’Adriatico, è Pelagosa che non appartiene piùall’Italia. Da pochi anni, l’Austria ha in possesso quest’isola deserta, come res nullius:il che provocò le proteste violente del deputato Carlo Imbriani, il terribile ragazzodell’irredentismo. Ho potuto, nel corso di un viaggio a bordo del Sénégal, passare amezzo miglio da Pelagosa. Quest’isola è un sorella delle Tremiti, così perfettamenteidentica alle isole italiane, da sembrare uscita dallo stesso blocco di calcare. Dellastessa formazione sono le grandi isole dalmate, di cui la più vicina è Lagosta. Si devedire però che le Tremiti, con la foresta di San Domino e la faccia pelata di Caprara,sembrano un piccolo Gargano con le sue due regioni, una arida, l’altra verdeggiante,che un cataclisma avrebbe mandato in pezzi. E nel vedere le pareti frantumate diqueste isole, che sembrano essere state violentemente separate, si è presi dall’eviden-za di questa ipotesi, messa in luce da Suess: la montagna italica e le isole vicinehanno fatto parte di un grande continente adriatico, un giorno crollato, come leisole dalmate.

L’abbazia, così arditamente costruita su questi scogli, che sembrano pronti essistessi a sprofondarsi in un terremoto, non ha conservato costruzioni anteriori allafine del secolo XVI. Solo la chiesa contiene pezzi considerevoli di un pavimentoistoriato del XII secolo e un magnifico retablo veneziano di legno scolpito e dorato.La faccia, decorata con buone sculture, porta i buchi delle palle di cannone che nel1809 la flotta austro-russa lanciò contro il battaglione cisalpino che difendeva l’iso-la, in nome di Napoleone. Già, nel XVI secolo, la superba fortezza dei benedettini,allora in possesso dei Regolari Lateranensi, aveva resistito coraggiosamente all’at-tacco dei vascelli turchi, comandati dal pascia Pialy. Quando volli lasciare l’isola, ilvento si era alzato, e, per ritrovare la terra ferma, dovetti prendere una barca dipescatori dell’isola di San Nicola e far rotta per Termoli. La bora aspra e freddasollevò la barca leggera; le onde alte spumeggiavano e sbattevano contro la bordatu-ra. Un branco di delfini apparve sulla nostra scia e ci sfidò alla corsa. Allora io mi

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Le Isole TremitiE. Bertaux 329

ritenni fuori del nostro secolo in questo battellino, simile a quelli che avevano por-tato verso la montagna cinta di nuvole, i pirati ellenici o illirici, in mezzo ai familiaridelfini che ascoltavano la musica delle isole greche popolate di poeti, e che avevanotrasportato sui flutti dell’arcipelago il cantore di Lesbo. I gabbiano che sfioravano labarca, lanciandoci un grido di richiamo, non erano i compagni di Diomede cheZeus, dopo la morte dell’eroe, trasformò in uccelli marini? Così mi lasciavo andaresul filo dei ricordi classici, quando un marinaio si mise a intonare una canzonecontrastante col ritmo lento e doloroso dei canti dei montanari del Gargano. Unnome mi colpì: «Caserio!». E capii, ascoltando altre prole che suonavano strana-mente sulla bocca di questi uomini semplici: «Sociale», «l’Internazionale»… Unaltro marinaio, trascinato dall’esempio, prese a cantare l’«Inno dei lavoratori». Quelliche avevano portato questi canti di nuove battaglie nell’isola di Diomede, di GiuliaAugusta e dei monaci di San Benedetto, erano gli ottocento uomini di ogni nazio-ne, di ogni sorte, che il capriccio di un ministro dittatore aveva riunito su quest’iso-la, in cui dovevano trovare, secondo un amabile eufemismo, il domicilio forzato,domicilio coatto. Gli isolani di Tremiti cantavano al mare le canzoni sovversivedegli «anarchici» di Crispi.

[Tratto da Le tour du monde, tomo IV, giugno 1899, traduzione di Antonio Motta]

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PARTE XVII

Poesie

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Sebbene l’archivio del Vittoriale parli di un incontro tra Padre Pio e il poetaabruzzese, è davvero difficile stabilire se nell’agosto del 1924 i due grandi per-sonaggi storici si siano davvero incontrati. Certa è invece questa appassionatamissiva che il vate inviò al frate delle stimmate, invitandolo a fargli visita «nelsuo eremo».

Mio fratello,so da quante favole mondane, o stupide o perfide, si è offuscato l’ardore verace

del mio spirito. E per ciò m’è testimonianza della tua purità e del tuo acume diVeggente l’aver tu consentito a visitarmi nel mio Eremo, l’aver tu consentito a uncolloquio fraterni con colui che non cessa di cercare coraggiosamente sé medesimo.

Caterina la Senese mi ha insegnato a “gustare” le anime. Già conosco il pregiodella tua anima, Padre Pio. E son certo che Francesco ci sorriderà come quandodall’inconsueto innesto prevedeva il fiore e il frutto inconsueti.

Ave.Pax e bonum malum et paxGabriele D’Annunzio

Lettera a Padre Pio da Pietrelcina

Gabriele D’Annunzio

[Lettera indirizzata a Padre Pio in San Francesco, pubblicata su Il Vittoriale del 28 novembre 1924]

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Elio Filippo Accrocca (Cori, Latina 1923 - Roma 1997). Poeta e critico d’arte,insegnò per alcuni anni all’Accademia di Belle Arti di Foggia. Tra le sue operepiù significative Reliqua umana (Scheiwiller 1955), Ritorno a Portonaccio(Mondadori 1959) e Siamo non siamo (Rusconi 1974).

L’indomito segno toglie la maschera agli «oggetti»che tu assapori dentro, senza inganni,mescolati nel gesto che riaffiorada remote radici: volti umaniincisi dall’iperboleche sa il raccolto stento della vita.Mani da pesa ove si culla il fiatodei figli, come donod’un mistero svelato,hanno solchi di terra, arata febbrenel possesso del nulla...Ma lo zoccolo dei tuoi cavallis’impenna come furiascagliata controvento ed è l’attritodel ferro sulla pietra. Una scintillariaccende il fuoco delle cattedraliesposte sopra il grano.Spazio e rabbia maturano parolecome fionde per il nuovo alfabeto...

Tavoliere controvento

Elio Filippo Accrocca

[Poesia tratta da Siamo non siamo, ELIO FILIPPO ACCROCCA, Rusconi, Milano 1974]

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Cristanziano Serricchio (Monte Sant’Angelo 1922). Tra le voci più originalidella nuova poesia pugliese, più volte segnalato dal Premio Internazionale Eu-genio Montale, di Cristanziano Serricchio vanno citate le sillogi poetiche L’oc-chio di Noè (Rebellato 1960), Stele Daunie (Lacaita 1976), Poesie 1978-1992 (Editori Associati 1993) e la più recente Polena (Tracce 1997).

Dal pattume dei secoli frantumi di vicendesetacci, e cossi taglienti come griditramutati in onde larghe di gabbianiche antichi miti ammucchiano nel mare.Non danno più vita gli innumerevoliuteri scavati nella roccia: vi si attorce il ficocon amare radici e il ramarro snidala vipera gonfia d’accecante veleno.Le parole sono ancora pietre rotolate fra i dirupidel tempo, spettrali teste a pinnacolosui tondi coperti delle tombe-cullesenza nome o nenia che s’alzi dopo l’alba.Il linguaggio del neolitico daunocome il mio il tuo di sempre e di domaniha lo stile geometrico della ceramicadipinta a bande rosse e nere,ma fesso come il vaso frammentarionel terriccio che setacci sotto l’alta estatee l’insopportabile cicala nell’etera luce.

[Poesia tratta da Stele Daunie, CRISTANZIANO SERRICCHIO, Lacaita, Manduria 1976]

Dal pattume dei secoli...

Cristanziano Serricchio

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Giacomo Strizzi (Alberona 1888 - Torino 1961). Della romantica poesia dia-lettale di Giacomo Strizzi, caso quasi unico nel panorama letterario italiano, sisono occupati tra gli altri Eugenio Montale, Tommaso Fiore, Pier Paolo Pasolinie Francesco Piccolo. Tra le sue raccolte poetiche più conosciute Fattarédde equatrétte (Il nuovo Belli 1959).

Juste a sante Mattéie,muccecate u quatrated’o cacciune ‘rrajate,

ndo delirie d’a fréve,com’a n’aspeda-surde,pe ‘ntéerre ze sturcéve.

Cercènne, a pòvra mamme,stujarle, pe nu pizzed’u maccature, a vócche,

iisse sgregnave: - Arràssete,oie, ma’ ncóre te mòccheche! -

Sante Mattéie

Giacomo Strizzi

[Poesia tratta da Fattarédde e quatrétte, GIACOMO STRIZZI, Il nuovo Belli, Roma 1959]

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Tra gli autori che questa antologia si onora di ospitare figura anche MariaLuisa Spaziani, la celebre poetessa torinese la cui vita è ormai indissolubilmentelegata a quella del grande Eugenio Montale. Difatti, continuamente invitata aconferire sulla figura poetica del Premio Nobel genovese, dev’essere capitato chedi transito per la Puglia la Spaziani non abbia opposto resistenza al suo istintocreativo, dando così vita ai versi qui riportati.

Cinquanta minuti d’aereo nel tratto Roma-Brindisidanno assurdi complessi nei confronti di Orazio.Lui sobbalzava a ogni ciottolo, beveva a ogni taverna,se fosse morto per strada sarebbe ancora là.

Noi corriamo corriamo ma il diavolo sghignazzaperché sa, vecchio saggio, la vera verità.I gesti e i movimenti si annullano a vicendae i trentamila giorni sfumano, a Thule o qua.

Viaggio in Puglia

Maria Luisa Spaziani

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Salvatore Quasimodo (Siracusa 1901 - Napoli 1968). Ovvio annoverare ilPremio Nobel del 1959 tra i maggiori poeti della letteratura contemporanea.Durante un viaggio verso Milano, dove Quasimodo insegnava presso il Conser-vatorio Giuseppe Verdi, il poeta siciliano fu costretto a sostare per alcune ore inPuglia a causa di un’anomalia al locomotore del treno su cui viaggiava. Lapoetica immobilità del panorama, fissata attraverso il finestrino, gli suggerì iversi da tutti conosciuti col titolo di Lamento per il Sud.

Oh, il Sud è stanco di trascinare mortiin riva alle paludi di malaria,è stanco di solitudine, stanco di catene,è stanco della luce della sua boccadelle bestemmie di tutte le razzeche hanno urlato morte con l’eco dei suoi pozziche hanno bevuto il sangue del suo cuore.

Per questo i suoi fanciulli tornano sui monti,costringono i cavalli sotto coltri di stelle,mangiano fiori d’acacia lungo le pistenuovamente rosse, ancora rosse, ancora rosse.Più nessuno mi porterà nel Sud.E questa sera carica d’invernoè ancora nostra, e qui ripeto a teil mio assurdo contrappuntodi dolcezze e di fuoriun lamento d’amore senza amore.

Lamento per il Sud

Salvatore Quasimodo

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Da Foggiaa Lucera correndocon i suoi fari inquieta....................................

Da Foggia a Lucera correndo...

GIUSEPPE UNGARETTI

[Poesia tratta da Un grido e paesaggi, GIUSEPPE UNGARETTI, Mondadori, Milano 1952]

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Luciano Luisi (Livorno 1924). Nato da padre pugliese, Luciano Luisi ha con-servato di questa regione (e della Capitanata in particolare) un ricordo moltovivo. Critico d’arte e letteratura, nonché egli stesso pregevole poeta, Luisi peralcuni anni ha insegnato all’Accademia di Belle Arti di Foggia, curando lepubblicazioni di molte case editrici locali ed elevando notevolmente il dibattitoculturale foggiano dei primi anni Ottanta.

Ha sapore di menta quest’ariache allontana l’azzurro dalle pietre.La prima ombra inventauna precaria tenerezza in te.

(Tra i pini dell’Ardenzaperdersi in questo fiatoche ha dilatato il cielo e riconducei sogni a una pervenza!)

Al tuo paesel’estate è una campanache chiama ad una festa.Ma qui, sulle strade di polvere,le viole non fioriscono, qui battele pietre il passo duro dei soldatia cammini a cercare una freschezzacon una inquieta nostalgia di prati.Cammini sui confinidella piazza, cammini verso il mare

Segnorina pugliese

Luciano Luisi

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Verso Sud348 D. Grittani

tra gli archi ove s’impigliail vento della sera e ti protendiall’inasprito volo dei gabbiani.(Forse la vita è oltre, ove non giungel’ombra di queste guglie, ove finisceun tempo e un altro s’apre all’imprevistoe un evento è li domni, da tentare).

Ma basta un cenno e torni senza pena,e dici parole d’amore.(vengono vannogli stessi soldati,non hanno nome, non sanno come ti chiami).

Tornial giardinetto della statua equestre(il mare è sugli scogli a disperare),costretta come un albero alla terra,ma dal tuo cuore saleuno svolo di sogni sulla piazza.

Ora la bocca che conosce il fiatodi mille solitudini si placanel fuoco innocuo d’una sigaretta.(Anche fumare è accendere nell3ariaun segno vivo, una bandiera umanadi speranza, se da lontano stridel’ultima ruota in fuga lungo i Fossi).

Tu sorridi a chi passa:meno vuota è la notte.

[Poesia tratta da Un pugno di tempo, LUCIANO LUISI, Guanda, Parma 1967]

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Michele Urrasio (Lucera 1937). Poeta raffinato, persona schiva e riservata, hafirmato opere che hanno suscitato l’interesse di Giorgio Bárberi Squarotti eMario Sansone. La poesia riportata in questa sede è tratta da una delle raccoltepiù significative del poeta lucerino, cioè L’infinita pazienza (con prefazioneproprio di G.B. Squarotti, Edizioni del Rosone 1992).

Stringe l’inverno delle nostre fugheil campanile a picco sul Tavoliere riarso.Lungo la balza scoscesa rotolarono- a brani - i sogni che si illuserodi saperci uomini sicurinel perimetro del mondo sconfinato.Dalle gole dell’Est un ventoimpietoso disperdeva le nostre attese.

Stringe l’inverno...

Michele Urrasio

[Poesia tratta da L’infinita Pazienza, MICHELE URRASIO, Edizioni del Rosone, Foggia 1992]

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Dormi, dormi, dormidormi almeno tu che puoi dormire.Io penso a te, tu non pensare a me.Tu pensa ad un cavallino d’argento,tu pensa ad un treninoche con i fari accesi ti diverte,tu pensa ad una mano che t’accarezza.Io penso a te,tu non pensare a me.

Dedicata alla mamma

ANDREA PAZIENZA

[Poesia tratta da Paz, ANDREA PAZIENZA, scritti, disegni, fumetti a cura di Vincenzo Mollica, EinaudiStile Libero, Torino 1997]

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Raffaele Lepore (Foggia 1923 - 1989). Poeta dialettale iniziatore della lungatradizione dei componimenti in vernacolo foggiano, autore di molte commedierappresentate con fortuna anche in città dell’Italia settentrionale. Di RaffaeleLepore abbiamo scelto - ci auguriamo in sintonia con la sua ironia - la lirica Ipellegrine d’Incurnate, che affronta con un certo disincanto l’aspetto amenodella religiosità.

Scennèvene all’appide ’i pellegrine’a caruvane indère, ’a cendenare,d’Abbruzze, da ’u Gargane, d’Appennine:gènde de tutt’età, ck’a vèra fède.N’ôme ck’a Croce jève annand’ annande,n’âte ck’u cambanille jève arrète;na voce ’ndunàve: «Viva Maria!»,’u core respunnève tutt’anzîme:«Maria sempre evviva!» e ’a latanijecundenuave sèmbe, ’nze fermave!Gènde ca jève scàveze, chiagnève,suffrève, pregàve, nen se stangàve!Quann’ arruvave annand’ o Sanduàrie,fatte ’i trè gire atturn’ atturne ’a Chise,ck’i denucchie pe ’ndérre e i vrazze alàriesta génde lucculàve, e qualchèdunetrasènne inde, sèmbe ’ngenucchiates’avvecenave, lènga strascenùnefin’a l’altare andò stève ’a Madonne;cercave ’a grazie e i lacreme sengère

I pellegrine d’Incurnate

Raffaele Lepore

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Verso Sud354 D. Grittani

cadèvene pe ’ndèrre tonne tonne.Ditte i raziune, e avute ’u sègne ’mbronded’o prèvete, cke l’uglie d’a Madonne,’i pellegrine èrene già prondep’ascì a gruppe oppure ’a specciulate.Finalmènte ind’o vósche se magnave:na merènne purtàte ind’a mappàte.Ma prime de turnà, è bangarèlleognune jève pe purtà ’u recûrde:’u cavallucce, ’a ’ndrite ck’i nucèlle,’a medagliozze, ’a pupe de cartone,i pènne gialle e rosce p’u cavalle,na zènne de cupète, o nu pallone.... ’A Croce annande e ’u cambanîlle arrète,pegghiave a vie de Fogge ’a cumbagnije:n’Avemmarie... nu mùzzeche ’a cupète.

[Poesia tratta da Quann’ère uaglione, RAFFAELE LEPORE, Foggia 1967; ristampa a cura dell’AssociazioneCittadina Foggia Viva, Foggia 1997]

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PARTE XVIII

Citazioni

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«Foggia è la città più brutta del mondo, assieme a Calcutta nelle Indie e a La Pazin Bolivia».

Alberto Moravia

[Dichiarazione rilasciata durante una conferenza tenutasi a Foggia, presso il Cine Teatro Ariston, neldicembre del 1971. A questa dichiarazione seguì nei primi anni Ottanta un elzeviro pubblicato dal Corrieredella Sera a firma di Giorgio Manganelli, il quale conveniva con Cesare Brandi circa le molte bellezze dellaCapitanata e condannava, invece, apertamente le incaute affermazioni di Moravia]

«Ma con tutti i posti che ci sono al mondo guarda dove mi è venuto a portare.Nella rada di Foggia, perché la pianura concilia la riflessione intellettuale».

Vittorio Gassman

[Brano tratto dal testo dello spettacolo teatrale Camper, di Vittorio Gassman, con Vittorio Gassman,Alessandro Gassman e Sabrina Knaflitz. Testo pubblicato dalla Longanesi, Milano 1994]

«Antò Lu Purk, priogioniero nel buio dello scompartimento respirava male, alabbra dischiuse. Stava sognando una festa di genitori e figli all’interno di un centrosociale occupato. A Foggia città».

Silvia Ballestra

[Brano tratto dal racconto intitolato Dams, sogni a Foggia, contenuto nella raccolta di racconti Comple-anno dell’Iguana, Transeuropa, Ancona 1991]

«Questa piazza di Lucera soddisfava l’austerità e la bellezza che cercavamo. Perquesto abbiamo deciso di girare qui questo film».

Massimo Troisi

[Dichiarazione rilasciata durante un’intervista concessa sul set del film Le vie del Signore sono finite, aprile1987]

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Verso Sud358 D. Grittani

(...) A Rodi Garganico fecero indigestione di anguille, a Vieste di carrubbe. APolignano furono derubati del timone dentro le grotte Palazzesi. A Brindisi trova-rono un vaglia della famiglia, a Torre Chianca furono derubati del pagliolo e feceroindigestione di frutta.

Piero Chiara

[Brano tratto dal romanzo Il piatto piange, Mondadori, Milano 1962]

(...) Il monte Gargano già si allontana, di un azzurro poco più che intenso delcielo. Si distingue ancora il profilo da cittadella crociata di Monte Sant’Angelo e lafalcatura luminosa, celeste, del golfo di Manfredonia.

Lalla Romano

[Brano tratto da Diario di Grecia, Einaudi, Torino 1974]

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AA. VV., Narratori di Puglia e Basilicata, acura di M. SANSONE - S. PAOLO, Mursia,Milano 1966.

AA.VV., Poeti dauni contemporanei, a curadi C. SERRICCHIO - A. MOTTA - C. SIANI,Editrice Apulia, Foggia 1977.

AA.VV., Viaggiatori antichi e moderni in ter-ra di Bari e Foggia, Edizioni del Baricentro,Bari 1992.AA.VV., Mascagni ritrovato 1863/1945 l’uo-mo, il musicista, Casa Musica Sonzogno,Milano 1995.

AA.VV., La Capitanata, Rassegna di vita edi studi a cura della Biblioteca Provincialedi Foggia, Provincia di Foggia, A. XXXII-XXXIII 1995/1996 n.s. 3 - 4.

A. CASIGLIO, I confini territoriali del “Mo-nasterium Terrae Maioris”, Atti del 12° con-vegno nazionale sulla Preistoria - Protosto-ria - Storia delle Daunia, Archeoclub D’Ita-lia, Tipografia Dotoli, San Severo 1990.

A. CECERE a cura di, Viaggiatori inglesi inPuglia nel Settecento, Schena, Fasano 1991.

M. HEERRMANN-A. SEMERARO a cura di,Viaggiatori in Puglia dalle origini alla fineOttocento, Schena, Fasano 1991.

M. MARCONE, Le pietre si muovono, Mur-sia, Milano 1989.

A. MOTTA a cura di, In viaggio per le terre

dell’Arcangelo, Comunità Montana del Gar-gano, Tip. Calderini, Bologna 1991.

A. MOTTA a cura di, In viaggio per la Ma-gna Capitana, poeti, scrittori e viaggiatori traOtto e Novencento in Capitanata, Bastogi,Foggia 1994.

A. MOTTA a cura di, La terra dell’Ofanto,Piero Lacaita Editore, Roma-Bari-Mandu-ria 1998.R. NIGRO, Viaggio in Puglia, Laterza, Bari1991.

A. PAZIENZA, Paz, scritti, disegni, fumetti acura di VINCENZO MOLLICA, Einaudi “StileLibero”, Torino 1997.G. PIOVENE, Viaggio in Italia, Mondadori,Milano 1965.

C. PRENCIPE DI DONNA a cura di, Carteggidi Nicola Zingarelli, Società Dauna di Cul-tura, Foggia 1979.T. SCAMARDI a cura di, Viaggiatori tedeschiin Puglia nel Settecento, Schena, Fasano1990.

T. SCAMARDI a cura di, Viaggiatori tedeschiin Puglia nell’Ottocento, Schena, Fasano1992.

P. SOCCIO, Omaggio a Foggia, Adda Edito-re, Bari 1974.

M. URRASIO, L’infinita pazienza, Edizionidel Rosone, Foggia 1992.

Bibliografia

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Accrocca, Elio Filippo 335Alberti, Leandro 225Alvaro, Corrado 255Augias, Corrado 7Bacchelli, Riccardo 137, 283Baldini, Antonio 217, 269Ballestra, Silvia 357Bennato, Eugenio 103Bertaux, Émile 327Brooke, Jocelyn 75Casiglio, Antonio 109Cassieri, Giuseppe 209Chiara, Piero 353D’Annunzio, Gabriele 333De Sanctis, Francesco 151Di Lascia, Mariateresa 157Di Taranto, Consalvo 281Douglas, Norman 179Fiore, Tommaso 305Fraccacreta, Umberto 107Gassman, Vittorio 357Gatto, Alfonso 315Giordano, Umberto 85Greene, Graham 267Gregorovius, Ferdinand 121, 247Kantorowicz, Ernesto 71Lenormant, François 35, 39Lepore, Raffaele 353Lilli, Virgilio 203Luisi, Aldo 19Luisi, Luciano 347Marcone, Maria 67

Mascagni, Pietro 175Mattielli, Egidio 275Miller, Arthur 233Montale, Eugenio 77, 83Moravia, Alberto 357Nigro, Raffaele 55Northall, John 17Ortese, Anna Maria 321Parzanese, Pietro Paolo 161Pazienza, Andrea 117, 351Piovene, Guido 89Pratolini, Vasco 65Quasimodo, Salvatore 343Romano, Lalla 358Roversi, Roberto 317Saint Non, Abbé de 29Sansone, Mario 7Schubring, Paolo 45Serricchio, Cristanziano 337Sinisgalli, Leonardo 199Spaziani, Maria Luisa 341Stolberg, Friedrich Leopold 169Soccio, Pasquale 101Strizzi, Giacomo 339Tommasini, Justus 167Troisi, Massimo 357Tusiani, Joseph 309Ungaretti, Giuseppe 53, 87, 141, 145,191, 195, 259, 261, 303, 345,Urrasio, Michele 349Zingarelli, Nicola 173

Indice alfabetico degli autori

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Finito di stamparenel mese di ottobre 2000 presso

il Centrografico Francescano. Foggiaper conto di

Claudio Grenzi Editore

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testi diElio Filippo AccroccaLeandro AlbertiCorrado AlvaroCorrado AugiasRiccardo BacchelliAntonio BaldiniSilvia BallestraEugenio BennatoÉmile BertauxJocelyn BrookeAntonio CasiglioGiuseppe CassieriPiero ChiaraGabriele D’AnnunzioFrancesco De SanctisMariateresa Di LasciaConsalvo Di TarantoNorman DouglasTommaso FioreUmberto FraccacretaVittorio GassmanAlfonso GattoUmberto GiordanoGraham GreeneFerdinand GregoroviusErnesto KantorowiczFrançois LenormantRaffaele LeporeVirgilio LilliAldo LuisiLuciano Luisi

La pianura s’aprecome un mare.Vorrei qui vederlonel suo sfogo immenso,ondeggiare coll’alitotormentoso del favoniosopra il granoimpazzito.

Giuseppe Ungaretti

Maria MarconePietro MascagniEgidio MattielliArthur MillerEugenio MontaleAlberto MoraviaRaffaele NigroJohn NorthallAnna Maria OrtesePietro Paolo ParzaneseAndrea PazienzaGuido PioveneVasco PratoliniSalvatore QuasimodoLalla RomanoRoberto RoversiAbbé de Saint NonMario SansonePaolo SchubringCristanziano SerricchioLeonardo SinisgalliMaria Luisa SpazianiFriedrich Leopold StolbergPasquale SoccioGiacomo StrizziJustus TommasiniMassimo TroisiJoseph TusianiGiuseppe UngarettiMichele UrrasioNicola Zingarelli

Verso Suda cura di Davide Grittani

1

Terzo millennioCollana di studidella Provincia di Foggia

ISBN 88-8431-034-2

Edizione fuori commercio riservata alla Provincia di Foggia