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SULLA POLEMICA AN I IC ARTESIANA DI GIAMBATTISTA VICO I. Fu Vincenzo Cuoco, nel primo Ottocento, a sollevare nella critica l’immagine di un Vico solitario e isolato, chiuso nel cerchio dell’indegna trascuranza, un’immagine che persisteva a lungo sboccando in interpretazioni che vedevano l’opera di Vico tutto sommato inutile, perchè apparsa fuori tempo ossia troppo presto, e rimasta ignota o giunta a notizia quando non poteva più insegnare molto. Per questo tante delle più belle pagine scritte su Vico - da quelle di Michelet e di Cattaneo fino a quelle di Croce, di Ernst Cassirer e, recentemento, di Isahia Berlin, hanno il tono di voler scoprire o meglio riscoprire un filosofo rimasto a lungo quasi sconosciuto per l’incompresione dei contemporanei e dei posteri. La situazione oggi è profondamente mutata. Il gran numero e l’importanza delle ricerche su Vico in Italia e in tutto il mondo hanno evidenziato il valore europeo del pensiero vichiano. È cambiata anche la rappresentazione generale di Vico. Dopo gli studi di De Giovanni e di Mastellone, e soprattutto dopo il libro di Nicola Badaloni - che hanno proposto e chiarito, in modo convincente, il legame intimo di Vico con i principali problemi filosofici del suo tempo - non ha molto senso continuare a discorrere del „precursore solitario” o delle innovazioni divinatrici”, anche se non pochi, come Paolo Rossi, sono giustamente persuasi della realtà di quella solitudine e della presenza delle molte innovazioni. Eppure, proprio dall’autore stesso, nelle pagine dell’ Autobiografìa, composta nel 1725 in piena maturità, abbiamo il ritratto di un solitario, in perenne contrasto con l’ambiente della cultura napoletana e con le correnti principali della filosofia europea, il quale „non solo viveva da straniero nella sua patria, ma anche sconosciuto”. Questa Vita che, per forza e validità espressiva, può essere paragonata solo al libro di un Cellini e di un Alfieri, va letta come documento prezioso non tanto delle vicende biografiche, quanto piuttosto della formazione spirituale del Nostro. Infatti, è curioso notare lo sforzo di Vico di mettere il lettore davanti alla sua vita tutta indirizzata verso un unico fine, cioè verso l’elaborazione della Scienza Nuova in cui questa vita trova culmine e compimento, perchè come lui dice „da quest’opera io mi sento aver vestito un nuovo uomo e provo rintuzzati - 237 -

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SULLA POLEMICA AN I IC ARTESIANA DI GIAMBATTISTA VICO

I.

Fu Vincenzo Cuoco, nel primo Ottocento, a sollevare nella critica l’immagine di un Vico solitario e isolato, chiuso nel cerchio dell’indegna trascuranza, un’immagine che persisteva a lungo sboccando in interpretazioni che vedevano l’opera di Vico tutto sommato inutile, perchè apparsa fuori tempo ossia troppo presto, e rimasta ignota o giunta a notizia quando non poteva più insegnare molto. Per questo tante delle più belle pagine scritte su Vico - da quelle di Michelet e di Cattaneo fino a quelle di Croce, di Ernst Cassirer e, recentemento, di Isahia Berlin, hanno il tono di voler scoprire o meglio riscoprire un filosofo rimasto a lungo quasi sconosciuto per l’incompresione dei contemporanei e dei posteri. La situazione oggi è profondamente mutata. Il gran numero e l’importanza delle ricerche su Vico in Italia e in tutto il mondo hanno evidenziato il valore europeo del pensiero vichiano. È cambiata anche la rappresentazione generale di Vico. Dopo gli studi di De Giovanni e di Mastellone, e soprattutto dopo il libro di Nicola Badaloni - che hanno proposto e chiarito, in modo convincente, il legame intimo di Vico con i principali problemi filosofici del suo tempo - non ha molto senso continuare a discorrere del „precursore solitario” o delle innovazioni divinatrici”, anche se non pochi, come Paolo Rossi, sono giustamente persuasi della realtà di quella solitudine e della presenza delle molte innovazioni.

Eppure, proprio dall’autore stesso, nelle pagine dell’ Autobiografìa, composta nel 1725 in piena maturità, abbiamo il ritratto di un solitario, in perenne contrasto con l’ambiente della cultura napoletana e con le correnti principali della filosofia europea, il quale „non solo viveva da straniero nella sua patria, ma anche sconosciuto”. Questa Vita che, per forza e validità espressiva, può essere paragonata solo al libro di un Cellini e di un Alfieri, va letta come documento prezioso non tanto delle vicende biografiche, quanto piuttosto della formazione spirituale del Nostro. Infatti, è curioso notare lo sforzo di Vico di mettere il lettore davanti alla sua vita tutta indirizzata verso un unico fine, cioè verso l’elaborazione della Scienza Nuova in cui questa vita trova culmine e compimento, perchè come lui dice „da quest’opera io mi sento aver vestito un nuovo uomo e provo rintuzzati

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quegli stimoli di più lamentarmi della mia avversa fortuna”. Di conseguenza non sembra casuale che Vico insista tanto sul carattere autonomo della sua formazione intellettuale appena accennando alle scuole dei gesuiti da lui frequentate e presentandosi invece come autodidatta che „deve tutte le sue deboli opere d'ingegno a se medesimo”.

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Nel 1699 Vico viene nominato professore di eloquenza presso l'università di Napoli. Nell'occasione dell'apertura dell'anno accademico, fra il 1699 e il 1706, pronuncia in latino le sei Orazioni inaugurali, a cui aggiunge una settima prolusione, certamente di maggior importanza, dal titolo De nostri temporis studiomm ratione, pubblicate nel 1708. È del 1710 il suo ampio trattato initolato De antiquissima italorum sapientia ex linguae latinae originibus emenda, su cui una delle riviste culturali più importanti del tempo, il veneziano „Giornale de'letterati d'Italia” apre un dibattito efficace indicando, nel discorso vichiano, alcune argomentazioni da chiarire e da approfondire, mentre le riflessioni, di Vico in questione escono sulle pagine delle sue due Risposte*} Con questi scritti si delineano l'orientamento speculativo e là 1 base di alcune delle convinzioni filosofiche di Vico con al centro,la polemica anticartesiana e la tesi del veruni ipsiirn factum. Ma prima dj vedere questi problemi non sarà inutile, spero, ricordare brevemente là situazione culturale italiana del tempo. r v ;Y r

A cavallo tra il secolo XVlì è quello successivo l'Italia trascorre un periodo di ascesa lenta ma decisa dal punto di vista culturale. La sapienza, e specialmente le discipline storico-giuridiche, strettamente collegate con il progrèsso delle scienze naturali, „escono dai chiostri” (per usare l'espressione felice di Giannone), e affrontano i problemi che nascono dallo studio della realtà. Nella società italiana si svolgono profonde trasformazioni politiche, economiche e intellettuali caratterizzate dalla rinnovata presa di contatto del paese con l'Europa. Conseguentemente, da parte degli intellettuali italiani si sente sempre di più il bisogno di conoscere le nuove idee che s’ irradiano, prima di tutto da Parigi, nel continente e diventarne partecipi. Si fanno frequenti le discussioni sul metodo, di Bacone e di Cartesio, sull'atomismo di Gassendi, sulle teorie politiche di Hobbes, sull''empirismo di Locke, sul determinismo di Spinoza, sulle teorie giuridiche di Grozio e di

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Selden. Si forma l'Arcadia cha dall'ultimo decennio del Seicento domina, per più di un mezzo secolo, le sorti della letteratura e della poesia italiana esercitando un influsso rilevante anche sulla cultura ungherese. I mezzi d'informazione e di diffusione del sapere vanno allargandosi, su tutta la Penisola vedono la luce diverse pubblicazioni periodiche: dal „Giornale dei letterati” di Roma, dalla veneziana „Galleria di Minerva” al „Giornale de'letterati d'Italia” edito a Venezia da Apostolo Zeno, mentre la storiografia italiana ritrova la sua gloria nelle opere di Muratori e di Giannone.

Napoli recupera sempre più la sua importanza culturale dalla seconda metà del Seicento. Le diverse accademie (Accademia dei Lincei, Accademia degli Investiganti, Accademia dei Medinaceli, Accademia degli Oziosi ecc.) svolgono un'attività notevole transformando la città in una vera e propria roccaforte del nuovo pensiero scientifico. Specialmente gli investiganti (Tommaso Cornelio, Leonardo di Capua, Francesco d'Andrea ecc.) godono di un'eccellente autorità che, riproponendo nei termini della teoria atomistica il rapporto esperienza-verità, tema cruciale della tarda filosofia scientifica rinascimentale, contribuiscono in modo decisiva alla diffusione del pensiero cartesiano che s'inserisce senza difficoltà nell'ambiente filosofico napoletano trovandosi in continuità concettuale con la scuola di Campanella. Cosi un dotto francese, Michel Germain, poteva affermare nel 1586: „Descartes a les plus beaux esprits de Naples pour spectateurs. Ils sont avides des ouvrages faits pour sa défense et pour éclaircir sa doctrine”. Non è un caso che la prima polemica italiana tra discepoli e avversari di Descartes sia nata a Napoli: eruditi, scienziati, giuristi parteciparono nell'opera di rinnovamento. Vico s'inserisce pienamente in questa polemica ponendosi su una posizione che è ben presumibile dal fatto che il suo De Antiquissima porta la dedica a Paolo Mattia Doria, uno degli avversari più convinti di Descartes.

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In primo luogo nelle sei Orazioni inaugurali e nel De Ratione la polemica anticartesiana si presenta come la critica del razionalismo inteso alla maniera di Cartesio e dei cartesiani a cui si congiunge la difesa della tradizione degli studi classico-umanistici. In questi scritti, in nome dell'articolata verità del mondo dell’uomo, si forma la convinzione sull’ impossibilità di ricostruire con un unico metodo.

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quello matematico, tutto il sapere umano. L’appello di Vico è preciso: se i modelli della matematica e della fisica - come vuole Cartesio - si pongono come esclusivi, essi esercitano grave danno alla totalità del sapere:

”Ma il più grave danno del nostro metodo (geometrico) - scrive nel De Rat-ione - è che, mentre ci occupiamo molto assiduamente di scienze naturali, trascuriamo la morale, specialmente quella parte che si occupa dell'indole dell'animo nostro e delle sue tendenze alla vita civile e all'eloquenza, alla casistica delle virtù e dei vizi, ai costumi, per ogni età, sesso, condizione, fortuna, stirpe, stato, e di quell'arte del corpo, più di ogni altra diffìcile: perciò per noi se ne sta trascurata e incolta la compiutissima e nobilissima dottrina dello stato.”

Nel De Rat-ione la critica di Vico coglie in pieno toccando il presupposto fondamentale del razionalismo in vigore nella sua epoca: il ragionamento deduttivo della scienza cartesiana, in quanto puramente logico, non può essere semplicemente trasferito al campo delle cose non esistendo una semplice corrispondenza tra la realtà oggettiva e la struttura formale delle scienze fìsiche. Secondo un'affermazione acuta di Croce „dove il filosofo francese stimava di aver fornito tutto quanto si potesse richiedere per la scienza più vigorosa, il Vico osserva che, posta l'esigenza alla quale s'intendeva soddisfare, in realtà, col metodo proposto, si era ottenuto ben poco o addirittura nulla.”

Ma attenzione, Vico assume una posizione assai differenziata nei confronti di Descartes e si guarda bene dal chiamare tout court false le dottrine cartesiane, e specialmente la parte più valida di quelle, la gnoseologia („Questa sorte di confutare non è biasimare l'analisi di Renato, ma più tosto farle giustizia; e così l'appruovo nella ragione che ha, la disappruovo in quella che si vuole usurpare”). Così mentre Vico rifiuta energicamente Yassoìutizzazione del metodo cartesiano, sente l'opportunità di utilizzarlo, in certi contesti, pure nell'ultima stesura della Scienza Nuova ( 1744)

l temi della polemica anticartesiana si specificano ulteriormente nel De Antiquissima e nelle due Risposte. Qui si sviluppa anzitutto la critica al „cogito„ che Vico elabora riprendendo argomentazioni scettiche tratte forse da Gassendi, autore delle obiezioni più ampie e articolate a Descartes in chiave scettico-empirista. Vico, al quale

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manca il momento cartesiano del dubbio, della sospensione totale di ogni verità e certezza, si concentra comprensibilmente sulla critica del concetto di evidenza in Descartes. La sua intenzione speculativa non è negare il „cogito” cartesiano e in esso il criterio di certezza, ma affermarne l'insufficienza: „lo scettico negherà che dalla coscienza del pensare si acquisti scienza dell'essere; egli sostiene infatti che la scienza è la conoscenza delle cause da cui nasce la cosa” - sottolinea Vico nel De Antiquissima. Gli scettici non negano infatti la certezza del proprio essere, della propria esistenza, di cui il pensiero è uno dei tanti segni, ma negano la possibilità che dall'immediata costatazione del mio pensare (coscienza) possa essere tratta una scienza; lo scettico ignora le cause del pensiero, il modo del suo formarsi, la natura del soggetto pensante, tanto meno dalla costatazione del proprio pensare portà raggiungere una scienza dell'ente.

„Confuto non già l'analisi con la quale Cartesio perviene al suo primo vero - ribadisce nella seconda Risposta - Io l'appruovo, è l'appruovo tanto [...] Ma dico che quel cogito è segno indubitato del mio essere; ma non essendo cagion del mio essere, non m'induce scienza dell'essere”.

Quindi Vico non fa che degradare la filosofia cartesiana da verità complete a verità frammentarie: da scienza a coscienza.

In conclusione possiamo affermare che la polemica anticartesiana mette in primo piano una problematica cruciale per il pensiero di Vico: infatti, se l'errore di fondo di Descartes è, secondo Vico, di aver collocato il criterio di verità nell'idea chiara e distinta, risulta necessaria l'elaborazione di un nuovo criterio di verità che sarà ritrovato invece nella conversione” del vero e del fatto („verum et factum reciprocantur, seu, [...] convertuntur”). In questo modo la polemica anticartesiana e la tesi su verum ipsum factum (che ha precedenti cospicui nella tradizione empirica del Seicento) si dirigono verso l'elaborazione del primum verum su cui, per il Nostro, bisogna fondare il vero sapere, cioè la scienza perfetta. Questo primo vero in Vico - da porre al posto del cogito cartesiano - è il Dio cristiano, biblico, preso nel senso filosofico, che offre la base onto-teologica di tutto il pensiero vichiano, è quel criterio assoluto di cui Vico, e in questo bisogna vedere una sua novità indiscussa, elabora un principio generale gnoseologico. Dalle varie definizioni che si fanno nella Scienza Nuova sulla storia come scienza possiamo'concludere che la

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filosofia vichiana, la cui intenzione finale sembra essere l'elaborazione di una filosofia sulla storia come coscienza collettiva della società, non raggiunge, in pieno, questo suo scopo e non lo fa, non a caso, in quanto non vuole, perchè non può togliere dal sistema concettuale il primo vero, privandolo della base onto-teologica. Una volta constatati tali limiti concettualmente necessari del pensiero vichiano, va sottolineato l'impegno notevole di Vico nell'aprire ampio spazio al factum , cioè el concreto diventando non solo maestro degno di un Croce, ma rappresentando, nella sua filosofia, l'ottica del concreto come metodo fruttuoso nello studio della storia.

BibliografìaVICO G.B.: Opere filosofiche, a cura di Paolo Cristofolini, Sansoni Firenze, 1971.BADALONI N.: Introduzione a G.B. Vico, Feltrinelli Milano, 1961. CROCE B.: La filosofia di G.B. Vico. Laterza Bari, 1991.RUSSI P.: Introduzione alla ,,Scienza Nuova”, Rizzoli Milano, 1977. SEMERARI G.: "La polemica anticartesiana di G.B. Vico”, in: Omaggio a Vico, Morano Napoli, 1968, pp. 195-232.LÒWITH L.: Vicos Grundsatz: veruni et factum convertuntur. Scine theologische Prdmisse und deren sakulare Konsequenzen, in: Sitzungberichte der Heidelberger Akademie der Wissenschaften, Philisophisch-historische Klasse, 1. Abhandlung Heidelberg 1968, pp. 5-38.ÒRDOGH E.: A tórténeìem mint tudomóny, avagy észrevételek a tórténelem tudornò ; lyossàgóró I Giambattista Vico gondolkodósàban, in: „Magyar Filozófìai Szenile”, 1993/3-4 pp. 1-21.

Università degli Studi ’ József Attila” di Szeged

ÈVA ÒRDOGH

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