Spunti Per Una Rilettura Critica Delle Honorantie Civitatis Papie.

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ALMA MATER STUDIORUM - UNIVERSITA' DI BOLOGNA SCUOLA DI LETTERE E BENI CULTURALI Corso di laurea in STORIA Spunti per una rilettura critica delle Honorantie civitatis Papie Tesi di laurea in Istituzioni e Società Medievali Relatore Prof: Bruno Andreolli Presentata da: Guido Gioria Sessione seconda Anno accademico 2013-2014

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Honorantie civitatis Papie, a XI century italian medieval document

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ALMA MATER STUDIORUM - UNIVERSITA' DI BOLOGNA

SCUOLA DI LETTERE E BENI CULTURALI

Corso di laurea in

STORIA

Spunti per una rilettura critica delle Honorantie c ivitatis Papie

Tesi di laurea in

Istituzioni e Società Medievali

Relatore Prof: Bruno Andreolli

Presentata da: Guido Gioria

Sessione seconda

Anno accademico

2013-2014

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1

Indice dei contenuti

Introduzione……………………………………………………………………. 2

Capitolo 1: Le Honorantie civitatis Papie

1.1 I contenuti dell’opera…………………………………….………………… 4

1.2 Struttura del testo e cronologie …………………………………………… 17

1.3 Gli autori e l’opera di redazione …………………………………………. 22

1.4 Laus civitatis o resoconto oggettivo?.......................................................... 26

1.5 Il dibattito storiografico ………………………………………………….. 29

Capitolo 2: Rilievi critici per una riflessione sulle corporazioni altomedievali

2.1 Breve storia degli studi sulle associazioni professionali (VI-XI secolo).... 33

2.2 Officia e ministeria nelle Honorantie civitatis Papie ……….…………… 37

2.3 Il problema della continuità ……………………………………………… 43

Riflessioni conclusive………………………..………………………………. 49

Bibliografia e sitografia……………………………………………………..... 51

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Introduzione

Questo lavoro ha l’obiettivo di analizzare il testo delle Honorantie civitatis Papie, prestando

particolare attenzione al dibattito storiografico che negli anni si è sviluppato intorno a questa

fonte e fornendo un sintetico compendio delle posizioni critiche a riguardo. Il documento,

incentrato sul funzionamento della Camera regis di Pavia tra X e XI secolo, rappresenta una

testimonianza di fondamentale importanza per lo studio di problemi economici e sociali, ma

anche giuridici e istituzionali, nel contesto del Regno italico per il periodo in questione. Si

tratta di una fonte unica nel suo genere, sia per le modalità di redazione e i contenuti in essa

affrontati, sia per il fatto che è giunta a noi in un unico manoscritto. È forse proprio questa

eccentricità rispetto al patrimonio documentale coevo ad avere, paradossalmente, reso

travagliata la storia della ricezione delle Honorantie presso i medievisti. Sin dal momento in

cui ne venne pubblicato il testo, alla fine del XIX secolo, furono infatti soggette ad alterne

fortune, scontando lunghi periodi di totale disinteresse, repentinamente seguiti da qualche

decennio di universale popolarità tra gli studiosi. Alternativamente vennero individuate da

alcuni storici come la chiave di volta per rispondere a innumerevoli problemi irrisolti per i

secoli centrali del Medioevo, da altri invece considerate come un testo “sospetto” e poco

convincente, in virtù della loro complessa stratificazione e dell’eccezionalità nel panorama

italiano a cavallo tra primo e secondo millennio. In periodi più recenti questi opposti

estremismi della ricerca sono stati in genere abbandonati, in favore di ricerche più puntuali e

dalle minori pretese ideologiche. Le Honorantie, dopo l’ultima edizione curata da Brühl e

Violante, sono divenute un serbatoio quasi inesauribile di spunti critici per ricerche particolari

sugli argomenti di ricerca più vari, grazie anche alla grande eterogeneità di argomenti che

caratterizza questa fonte. Questo atteggiamento ha condotto da un lato ad un sicuro

arricchimento e ad una diversificazione dei metodi d’indagine e delle prospettive di studio;

d’altro canto però è rimasta sempre più inevasa la domanda di un’organica analisi delle

Honorantie civitatis Papie come fonte nel suo complesso, richiesta che Brühl e Violante

esprimevano1 già nella Prefazione alla loro edizione. Questo testo, come è ovvio, non può

certo porsi l’obiettivo di raccogliere tale invito; mira tuttavia a fornire spunti di riflessione

critica dopo una breve trattazione del documento e dei suoi contenuti.

Le ultime pagine di questo lavoro sono dedicate alle associazioni professionali altomedievali

di ambito italiano, a partire da come appaiono descritte in alcuni paragrafi del nostro

documento. Si tratta di un breve approfondimento pienamente organico alla riflessione

1 Vedi infra nota 149.

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sviluppata in precedenza sulle Honorantie. In effetti i paragrafi dedicati esplicitamente alla

descrizione e regolamentazione dei lavoratori di professioni artigiane sono stati da sempre

considerati tra i più rilevanti e significativi della fonte pavese, perché rappresentano di fatto

una delle pochissime testimonianze di questo tipo per la storia dell’ordinamento delle arti

nell’alto Medioevo. È da ricordare inoltre che, nonostante la scarsa frequentazione attuale del

tema, una sorta di vera e propria “ossessione delle origini”2 ha coinvolto gli storici della

prima metà del secolo scorso nell’interpretazione di questo argomento, in un atteggiamento

che ha dato vita alla famosa querelle sulla continuità delle associazioni professionali tra basso

Impero e alto Medioevo. In questo frangente le Honorantie civitatis Papie furono, come forse

non è mai più accaduto da allora, al centro della scena.

Nel primo capitolo verrà dunque condotto un riassunto dei contenuti del testo delle

Honorantie, considerato paragrafo per paragrafo; successivamente verranno esaminati i

problemi relativi alla cronologia e alla modalità di redazione dell’opera, all’identificazione

dell’autore, allo scopo e ai destinatari del testo pavese. Infine saranno rapidamente esposte le

posizioni più significative del dibattito storiografico intorno all’interpretazione di una fonte

così ricca di sfaccettature. Il secondo capitolo, dedicato alle associazioni professionali,

presenta inizialmente una breve storia della fortuna di tale tema di ricerca nell’ultimo secolo,

per poi passare ad esaminare più nel dettaglio l’ordinamento delle arti che traspare dalle

Honorantie civitatis Papie e il problema della continuità delle associazioni di lavoratori

nell’alto Medioevo, lasciando ampio spazio ad un resoconto critico dei posizionamenti della

ricerca su questi problemi.

2 Ovviamente il riferimento è a Marc Bloch, Apologia della storia o Mestiere dello storico, Torino, Einaudi,

1998.

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Le Honorantie civitatis Papie

1.1 I contenuti dell’opera

Il testo delle Honorantie civitatis Papie tocca questioni economiche, giuridiche e sociali, dei

secoli X e XI nell’Italia settentrionale, con una notevole attenzione alla descrizione del

funzionamento finanziario della Camera regia, ai traffici commerciali a lungo raggio e

all’importanza centrale della sua sede capitale, Pavia. Ogni tentativo di sintesi dei numerosi

argomenti trattati nel breve documento si scontra con gravi difficoltà e rischia di cadere in

generalizzazioni azzardate o nella vaghezza di definizioni omnicomprensive. Solmi tentò di

compendiare le caratteristiche delle Honorantie, descrivendole come “una luce viva, che ha

rivelato l’ordinamento accentrato delle finanze del Regno italico, i rapporti di traffico del

Regno italico con le regioni dell’Europa settentrionale e con l’Oriente, il sistema monetario

severamente controllato dalla Camera Regia, l’ordinamento delle arti e tutta una serie di

provvidenze fin qui quasi ignorate in materia finanziaria”3. Pur depurata da alcune

interpretazioni errate e rigidità, questa definizione è utile come punto di partenza per

affrontare un’analisi del testo e dei suoi contenuti; mostra, specialmente, come sia vano

tentare di ricondurre ad un’unica e coerente chiave di lettura le molteplici questioni ivi

affrontate. Si è preferito, dati questi presupposti, adottare un punto di vista analitico, senza

alcuna pretesa di completezza o esaustività, trattando i contenuti un paragrafo per volta. In

base ai diversi temi, per comodità di analisi il testo è stato diviso in diciotto paragrafi, un

proemio e un epilogo4.Questa partizione sarà seguita per tutto il corso di questo contributo.

Le Honorantie civitatis Papie si aprono con un prologo5 dai toni elogiativi della città di Pavia,

insistentemente paragonata a Roma, soprattutto tramite il parallelismo instaurato tra

l’incoronazione dell’Imperatore da parte del Papa e quella da parte del vescovo di Pavia del re

d’Italia in San Michele Maggiore6. Dopo la menzione del “regale palatium7” 8 e della sua

3 Arrigo Solmi, L’amministrazione finanziaria del Regno Italico nell’Alto Medioevo, Pavia, Tipografia

cooperativa, 1932, p.VII. 4 Tale sistemazione in paragrafi delle Honorantie è stata proposta da Carlrichard Brühl e Cinzio Violante, Die

“Honorantie civitatis Papie”, Transkription, Edition, Kommentar, Köln-Wien, Bohlau, 1983, pp. 17-27. Qui è ripresa integralmente e senza nessun tipo di variazioni. 5 Ibidem, p.17. Per un commento critico e una ricostruzione delle interpolazioni e aggiunte presenti nel proemio

si rimanda sempre a C.Brühl e C.Violante, op.cit., pp. 28-32. 6 Cfr. Ovidio Capitani, Chiese e monasteri pavesi nel secolo X, in “Atti del 4° Congresso internazionale di studi

sull’alto medioevo”, Spoleto 1969, pp. 107-154. 7 Sul significato di palatium cfr. Carlrichard Brühl, Il “palazzo” nelle città italiane, in La coscienza civica nei

comuni italiani del Duecento (11-14 ottobre 1970), Todi, Centro di studi sulla spiritualità medievale, 1972, pp. 265-268. 8C.Brühl e C.Violante, op.cit., p.17.

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centralità per tutta l’Italia, vengono enumerate le prerogative amministrative dell’antica

Ticinum che “debet enim habere […] comites palatii, […] regem, advocatum et iudices

palatinos”9. Le principali mansioni giudiziarie e amministrative di questi funzionari sono

brevemente menzionate, con particolare riferimento alla giurisdizione che potevano esercitare

su tutta l’Italia. Verso la fine del prologo si esalta la capacità attrattiva dello Studium generale

pavese e si ricordano le numerose canonizzazioni di vescovi e chierici pavesi. Come chiusa è

presente un’invocazione per “omnes, quibus est insitus amor, utilitas et honor regni

Lombardie”10 ad ascoltare di che genere fossero tutti i ministeria e i diritti regali che

spettavano all’amministrazione della camera regia e del palatium.

Con un deciso cambio di tono, il redattore passa poi alla rassegna vera e propria degli iura

regalia che spettavano all’amministrazione pavese. Il primo paragrafo si occupa inizialmente

delle decime sui prodotti d’importazione, vere e proprie tasse doganali che dovevano essere

pagate dagli “intrantes negotiatores in Regnum” 11 alle chiuse12 dell’arco alpino. Segue poi

l’enumerazione di tali stazioni13 secondo un ordine Ovest-Est abbastanza coerente. La

corrispondenza delle chiuse con i percorsi delle strade carovaniere del tempo, segnalata da

Solmi14, è un indizio dell’affidabilità di questo paragrafo. I prodotti sottoposti alla decima

offrono un importante spiraglio di luce per indagare la composizione merceologica delle rotte

commerciali del X secolo. Si parla di schiavi, cavalli, panni di lino e di lana, canapa, stagno e

altri minerali, armi lavorate. Sicuramente tale elenco è a puro titolo esemplificativo15 e non

esaurisce la varietà degli scambi dell’epoca tra i due versanti delle Alpi, indubbiamente

maggiore. Il testo ricorda in seguito l’esenzione dalla decima dei pellegrini diretti a Roma

(“sine ulla adecimatione debent dimitti Romipetis sancti Petri”16) e si chiude con una

minaccia nei confronti di chi non rispetterà l’immunità fiscale garantita a questi ultimi.

Nel secondo paragrafo si affronta la peculiare posizione della “gens vero Anglorum et

9 Ibidem.

10 Ibidem.

11 Ibidem.

12 Sulle chiuse cfr. Emanuela Mollo, Le Chiuse: realtà e rappresentazioni mentali del confine alpino nel

medioevo, in Luoghi di strada nel medioevo. Fra il Po, il mare e le Alpi occidentali, a cura di Giuseppe Sergi, Torino, Scriptorium, 1996, pp. 41-91. 13

Sette delle dieci chiuse nominate in questo paragrafo non presentano problemi di identificazione. Si tratterebbe infatti di: Secusia = Susa, Bardo= Bard, Belinzona = Bellinzona, Clavenna = Chiavenna, Sanctus Petrus de Julio in via de Monte Croce = San Pietro in Carnia (Zuglio, UD), Aquilegiam = Aquileia, Forumjulii = Cividale del Friuli. Balzano, Volerno e Trevile sono state accostate, senza argomenti convincenti, rispettivamente a Bolzano, Volargne (Dolcè, VR) e a Treville (Castelfranco Veneto, TV). Cfr. C.Brühl e C.Violante, op.cit., pp.34-35. 14

A.Solmi, op.cit., pp. 56-68. 15Ivi, p.75. 16

C.Brühl e C.Violante, op.cit., pp.17-19.

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Saxonum” 17 che, a causa di tensioni e violenze sviluppatesi alle chiuse con i ministrales negli

anni precedenti, è stata sollevata dal pagamento della decima. Tale esenzione è

controbilanciata dall’obbligo vincolante di versare alla camera regis e al palatium pavese,

ogni tre anni, dei donativa. Si tratta di cinquanta libbre d’argento, due grandi cani danesi di

pelo lungo o corto, muniti di catena e collare dorati, incisi e smaltati, due scudi, due ottime

lance, e due spade di eccellente fattura da consegnare alla camera regis; al magister camere

invece sono donate due cotte e due libbre d’argento. In cambio di questi prodotti, gli Angli e i

Sassoni avrebbero ricevuto un “sigillum”18, un lasciapassare che li autorizzava a non essere

sottoposti alla decima. È possibile che il testo dell’accordo tra i commercianti anglosassoni e

l’amministrazione pavese presente nelle Honorantie sia un calco di un contratto formale di

datazione controversa. Un’ipotesi di questo genere, già rifiutata da Solmi19, poi sostenuta da

Landogna20, è stata ripresa anche da Brühl e Violante21. L’unico riferimento avanzato, per

individuare il possibile contratto da cui è stato fatto il calco, si rifà a una lettera di Canuto, re

d’Inghilterra e Danimarca, risalente al 1031. In questa missiva il re ricorda come avrebbe

ottenuto, nel 1027, rivolgendosi a Corrado II, l’esenzione per i suoi sudditi dalle imposte

doganali22 secondo regole che rimandano a quanto si ritrova in questo paragrafo. Come

vedremo23, le proposte di datazione delle Honorantie hanno sostanzialmente smentito tale

identificazione. L’intitulatio del re che si trova in questo passo fa propendere piuttosto per un

documento più antico, databile tra il IX e X secolo24.

Molto più breve del precedente, il terzo paragrafo prende in considerazione la posizione dei

mercanti veneti nei confronti dell’amministrazione centrale. Si passano in rassegna gli

obblighi finanziari nei confronti della camera regis, che deve ricevere da questi commercianti

ogni anno cinquanta libbre di denari veneti: questo obbligo rivela l’esistenza di una zecca a

Venezia probabilmente già nel X secolo25.Al magister camere è dovuto un “pallium unum

optimum”26, un mantello di seta. Un’aggiunta sul margine del documento da parte di un

glossatore più tardo27, scivolata col tempo all’interno del corpo del paragrafo, ha dato vita al

17

Ibidem, p.19. 18

Ibidem. 19

A.Solmi, op.cit., pp.14-15. 20

Francesco Landogna, La genesi delle “Honorantie civitatis Papie”, in “Archivio storico lombardo”, XLIX, fasc.III-IV, Milano, 1922, p.301 e pp.325-326. 21

C.Brühl e C.Violante, op.cit., p.37. 22

A.Solmi, op.cit., pp.14-15. 23

Cfr. infra, cap. 1.2. 24

C.Brühl e C.Violante, op.cit., p. 37. 25

Ivi, p.39. 26

Ivi, p.19. 27

Ivi, p. 41.

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famoso e sbigottito giudizio sui veneti “illa gens non arat, non seminat, non vindemiat” 28. Il

pagamento di questo “censum” 29 permetteva ai mercanti di Venezia di vendere e comprare a

Pavia liberamente. L’attestazione di mercanti veneti a Pavia conforta la tesi di collaudate rotte

di commercio fluviale che solcavano la pianura padana fino all’Adriatico e avevano il loro

fulcro centrale proprio nella capitale del regno. Il Po quindi, già nel X secolo, appare una via

del commercio internazionale e un’importante arteria di collegamento tra Occidente e

Oriente30.Tenuto conto che fin dal ‘pactum Liuthprandi’31, risalente al 715/730, si stabilivano

le tasse che i Comacchiesi dovevano pagare sul trasporto della mercanzia presso i porti

fluviali sul Po, e che anche nel IX secolo sono attestati altri pacta32 che vertono su argomenti

simili, non è azzardato proporre una continuità d’utilizzo di questa arteria almeno per i secoli

dall’ottavo all’undicesimo. Prima i Comacchiesi33, poi i Veneziani34 svilupparono un’estesa

penetrazione economica in quest’area punteggiata da numerosi porti fluviali.

Il quarto paragrafo verte ancora sui commercianti veneti, specificando le tasse cui sono

sottoposti sul mercato pavese. Sono tenuti a versare, come dazio commerciale, il 2,5%35 del

valore delle merci scambiate al monastero di San Martino36. Al magister camere spettano, per

ciascun mercante, una libbra di pepe, una di cannella, una di zenzero e una di galanga; a sua

moglie un pettine d’avorio, uno specchio “et paraturam unam”37. È concessa, probabilmente

nel caso in cui la difficoltà di reperimento di questi prodotti fosse stata insormontabile, la

possibilità di pagare in alternativa una tassa di venti “solidos […] Papiensium” 38. Henri

Pirenne, nel suo libro più celebre39, avanzava la tesi che proprio la drastica interruzione del

commercio delle spezie sui mercati occidentali a partire dal secolo VIII, fosse un segno

inequivocabile del perentorio ridimensionamento dei traffici con l’Oriente. Le Honorantie

28

Ivi, p.19. 29

Ibidem. 30

Cinzio Violante, La società milanese nell’età precomunale, Roma- Bari, Laterza, 1974, pp. 3-50. 31

Cfr. Codice diplomatico della Lombardia medievale (secoli VII-XII) , http://cdlm.unipv.it/edizioni/cr/cremona-sicardo/carte/vescovosicardo0730-05-10, ultima consultazione 26/06/2014. 32Un esempio tra tanti è il ‘Pactum Lhotarii’, Monumenta Germaniae Historica, Capitularia regum Francorum II , n.233, pp. 130 sgg. 33

Per un bilancio sul ruolo di Comacchio tra VIII e IX secolo, alla luce di un approccio archeologico cfr. Sauro Gelichi, Diego Calaon, Claudio Negrelli, Elena Grandi, Dal delta del Po alle lagune veneziane: territorio, commerci e insediamento. Ricerche sull’emporio altomedievale di Comacchio, in Eredità culturali dell’Adriatico. Archeologia, storia, lingua e letteratura, a cura di Silvana Collodo e Giovanni Luigi Fontana, Roma, Viella, 2008, p. 175 e segg. 34

C. Violante, op.cit., pp. 6-10. Cfr anche A. Solmi, op.cit., pp. 92-93. 35

La tassa del quadragesimum è attestata anche nei pacta di Ottone I e Ottone II, come segnalato in C. Brühl e C. Violante, op.cit., p.44. 36

Cfr. O. Capitani, op.cit., pp.141-142. 37

Permangono dubbi sull’interpretazione di questa espressione. Cfr. C. Brühl e C. Violante, op.cit., p.45. 38

Ivi , p.19. 39

Henri Pirenne, Maometto e Carlomagno, Bari, Laterza, 1971, pp. 161 sgg.

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forniscono, insieme con altre fonti, una chiara smentita di questa presunta irrimediabile caduta

degli scambi, testimoniando la persistente disponibilità e circolazione di tali merci di lusso

ancora nel X e nell’XI secolo40. Pavia, si rivela dunque un importante centro di raccolta e di

smercio anche per il commercio internazionale che verte su prodotti di pregio e si sviluppa ad

ampio raggio nel Mediterraneo41.

Nel quinto paragrafo si passa a considerare la situazione dei mercanti di Salerno, Gaeta e

Amalfi, con un breve resoconto delle loro attività. Anche in questo caso, parallelamente alla

situazione dei veneti, si accenna al dazio del 2,5% da pagare alla camera regis sulle merci

vendute e comprate e compaiono doni per la moglie del camerarius. A causa delle difficoltà

interpretative dell’ultima parte del paragrafo e della mancata menzione di tributi versati al

camerarius, Brühl e Violante hanno immaginato la possibile scomparsa di una o più righe di

testo42. L’eventualità che questo paragrafo derivasse almeno in parte da una base contrattuale

risalente al X secolo fu affermata con decisione da Landogna che credette di individuarne

anche la datazione all’anno 982, passeggero momento in cui Gaetani, Salernitani e Amalfitani

“seguivano una medesima politica”43 e formavano una sola entità. Un’ipotesi di questo genere

non è da scartare ma allo stato attuale non può essere in nessun modo provata44. La presenza

di mercanti amalfitani e veneziani probabilmente monopolizzava il mercato pavese nel X

secolo45.A differenza di Venezia però, Amalfi intratteneva fruttuosi rapporti commerciali non

tanto con Bisanzio quanto piuttosto con partner del Nord Africa46. In questa situazione la

posizione di Gaeta e Salerno era sicuramente subordinata ma entrambe queste città sono

attestate come importanti nodi del commercio47 nei secoli in questione.

Il sesto paragrafo tratta dei commercianti pavesi. L’attenzione è concentrata in maniera

esclusiva sul “praeceptum” 48 che i capi delle associazioni di mercanti ricevono

dall’imperatore e che permette loro di vendere e comprare ovunque siano, senza subire danni

o ritorsioni di alcun genere. Chiunque dovesse infrangere queste disposizioni viene

condannato al pagamento di mille mancusi d’oro, importo diffuso già a partire dal IX

40

Cfr. C.Violante, op.cit., pp. 30-50. 41

Cfr. Aldo Settia, Pavia carolingia e postcarolingia, in Storia di Pavia, Pavia, a cura della Banca del Monte di Lombardia, 1987, tomo secondo, pp. 114-124, in part. pp. 119-124. 42

C.Brühl e C.Violante, op.cit., pp. 45-46. 43

F.Landogna, op.cit., p.313. 44

Cfr. C.Brühl e C.Violante, op.cit., p.47. 45

A.Solmi, op.cit., pp. 107-109. 46

C.Brühl e C.Violante, op.cit., p.46. 47

A.Solmi, op.cit., pp. 106-107. 48

Ivi, p.19.

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secolo49, da versare alla camera regia. Sembra possibile supporre che il praeceptum in

questione sia un documento imperiale indice di un privilegio, da datarsi “prima del 924 o

dopo il 962”50. Meno convincente la tesi che lo identifica con un lasciapassare o

salvacondotto generale, sostenuta da Mor51.

Con il settimo paragrafo l’attenzione del redattore si sposta dal commercio alle questioni che

riguardano la coniazione della moneta. Si parla di un “ministerium monetae Papiae” 52 che

deve contare nove responsabili, tenuti a sorvegliare e controllare l’operato dei monetieri, sotto

la supervisione del magister camere. In particolare l’opera di supervisione si svolge facendo

in modo che il conio delle monete avvenga senza un peggioramento della lega prevista, che

non può eccedere i 2/12 dell’argento53. Se viene trovato un falsario è sempre compito di

questi responsabili, coadiuvati dal “comite palatii”54, somministrare la pena prevista per chi

non rispetta l’aggio: taglio della mano destra e immediata confisca di tutti i beni a favore della

camera regis. Successivamente il paragrafo si occupa del fictum dovuto dai nove magistri alla

camera regia, dodici libbre di denari pavesi l’anno, e di quello dovuto al conte palatino,

quattro libbre. Si specifica poi una tassa d’entratura nella magistratura dei nove: tre once di

oro fino da versare sempre alla camera regia. Il diritto di battere moneta è uno degli esempi di

regalia tra i meglio documentati, presente anche nel famoso diploma di Federico I del 1158 a

Roncaglia55. Le zecche più importanti nel X secolo erano quelle di Milano, Pavia e Lucca,

senza sottovalutare il ruolo di quella veronese56. Le Honorantie sembrano però tratteggiare

una posizione di preminenza57 per quanto riguarda l’istituto della zecca pavese in questo

periodo, almeno su quella milanese. L’indicazione di nove magistri, rispetto ai quattro58 a

capo dell’organizzazione della zecca di Milano, pare sottendere una centralità maggiore della

capitale del regno in quest’ambito.

L’ottavo paragrafo ricalca lo schema descrittivo del precedente, nonostante sia più breve. Vi

49

Cfr. ad esempio il diploma di Lotario I del 15 gennaio 833. Monumenta Germaniae Historica, Diplomata Lothar I, 11. 50

C.Brühl e C.Violante, op.cit., p.48. 51

Carlo Guido Mor, Gli artigiani nell’alto Medioevo (con particolare riguardo ai riflessi giuspubblicistici), in Artigianato e tecnica nella società dell’alto Medioevo occidentale, XVIII Settimana di studi del Centro italiano di studi sull’alto Medioevo (2-8 aprile 1970), Spoleto 1971, tomo primo, p. 209. 52

C.Brühl e C.Violante, op.cit., p.21. 53

A.Solmi, op.cit., p.117. 54

C.Brühl e C.Violante, op.cit., p.21. 55

Monumenta Germaniae Historica, Diplomata Friedrich I, 237, p.29. 56

Cfr. Roberto Sabatino Lopez, Moneta e monetieri nell’Italia barbarica, in: Moneta e scambi nell’alto medioevo, VIII Settimana di studi del Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, Spoleto, 1961, p.84. 57

Riguardo al ruolo di primo piano della zecca di Pavia all’epoca e per brevi accenni alla storia monetaria del periodo a cavallo tra X e XI secolo cfr. anche Carlo M. Cipolla, Le avventure della lira, Bologna, il Mulino, 2001, pp. 23-30. 58

C.Brühl e C.Violante, op.cit., p.21.

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si tratta l’ordinamento della zecca milanese. Qui, come detto, i magistri a capo del

funzionamento della zecca sono quattro. Sono deputati a coniare monete dello stesso valore

dei denari pavesi e a provvedere al cambio secondo l’aggio stabilito. La pena prevista per un

falsario è la medesima di quella descritta nel paragrafo sette. L’ultima riga menziona una tassa

annua che i responsabili della zecca devono versare al magister camere di Pavia, quantificata

in dodici libbre di “denariorum bonorum Mediolanensium” 59. Si intuisce chiaramente dalle

Honorantie il carattere di monopolio cui è sottoposta la monetazione. Il redattore di questo

paragrafo ignora la cessione del diritto di monetazione all’arcivescovo di Milano Manasse,

avvenuto intorno al 950 con un diploma di re Lotario II60, descrivendo una subordinazione

completa dei monetieri milanesi alla camera regis e l’obbligo al pagamento di un fictum

annuo al palatium di Pavia. Secondo Brühl e Violante non si tratta di dimenticanza ma di una

precisa volontà del redattore, deciso a esaltare le glorie pavesi, anche se non più attuali61. La

possibilità che i denari milanesi e quelli pavesi in quest’epoca avessero lo stesso valore è

molto remota. Molto più probabile è il reiterarsi dell’atteggiamento nostalgico del redattore

anche su questo punto. Si può affermare per certo invece, che nel 1013 le due monete

avessero valori diversi62.

Il nono paragrafo è probabilmente il più oscuro63 e discusso di tutte le Honorantie. Parla dei

cercatori d’oro nei fiumi64 dell’Italia settentrionale (in maggioranza affluenti del Po), e dei

loro obblighi verso la camera regia di Pavia. Sono presenti due elenchi dei corsi d’acqua65

lungo i quali si esercita l’attività di questi cercatori d’oro; l’identificazione di tali fiumi venne

sostanzialmente portata a termine, pur tra qualche incertezza già da Landogna66, che riuscì a

59

Ibidem. 60

Cfr. A.Solmi, op.cit., p.120. 61

C.Brühl e C.Violante, op.cit., pp.79-84. 62

Ivi, p.52. Il riferimento all’anno 1013 è dovuto al privilegio di Enrico II per il monastero di Sant’Abbondio a Como, in cui i denari milanesi valgono meno dei pavesi. Cfr. Monumenta Germaniae Historica, Diplomata Heinrich II, 275, p. 325. 63

Si veda ad esempio il commento di Landogna a riguardo: ‘Codesto capitolo resta sempre, per me, un enigma’ in F. Landogna, op.cit., p. 316. 64

Cfr. C. Brühl e C. Violante, op.cit., p.21. I fiumi nominati nel paragrafo sono: Padus, Ticinus, Dorica, Sicida, Stura, Minor Stura, flumen Orco, Amalone et Amaloncello, Duria, Elavum, Urba, Sarvus, Sesedia, Burmia, Agonia, Ticinus a Lacu Maiori ubi intrat in Padum. Il secondo elenco comprende: Abdua, Oglus, Mentius, Sarno, Atese, Brenta, Trebia. 65Sui fiumi auriferi nell’alto Medioevo si veda Bruno Andreolli, Gestione e misurazione dell’acqua nell’alto Medioevo, in “L’acqua nei secoli altomedievali”, atti della LV Settimana di studi del Centro Italiano di Studi sull’alto Medioevo (Spoleto, 12-17 Aprile 2007), Spoleto, 2008, tomo primo, pp. 429-465. In particolare pp. 458-462. 66

F. Landogna, op.cit., pp. 316-318.

Page 12: Spunti Per Una Rilettura Critica Delle Honorantie Civitatis Papie.

11

sciogliere i dubbi più rilevanti. Attualmente67 la ricerca della corrispondenza tra i nomi del

documento e i corsi d’acqua in questione sembra un problema a grandi linee risolto68. Spinosa

è invece l’interpretazione dei doveri fiscali dei cercatori di pagliuzze d’oro, e la loro

possibilità o meno di vendere quanto raccolto. Tutto ruota intorno all’interpretazione della

parola Sacramentum; intesa da Solmi e altri con il significato di “giuramento”69, ha condotto a

credere che i lavatores auri non potessero consegnare l’oro raccolto ad altri se non alla

camera regia. Una teoria più recente70 ha riconosciuto a Sacramentum un senso diverso,

vicino a quello di associazione giurata o corporazione. In questo caso il passo prevedrebbe

che parte dell’oro vada al camerarius come tassa, parte sia venduto proprio al Sacramentum a

una tariffa fissa. Emerge con chiarezza da queste righe il carattere di regalia e forse di

monopolio della raccolta dell’oro nei fiumi del regno. Può creare alcuni dubbi il fatto che

nella famosa Constitutio de regalibus del 115871 non sia menzionato da Federico I un simile

ius regalium sulle sabbie aurifere. Da più parti72 si è tentato di aggirare quest’apparente

lacuna, immaginando che il termine argentariae potesse riferirsi non solo ai metalli e ai

minerali estratti dalle miniere ma anche all’oro raccolto nei fiumi.

Con il decimo paragrafo l’attenzione si sposta sulle arti e i mestieri. La prima a essere presa in

considerazione è l’attività dei pescatori. Questi devono avere un magister a capo della

corporazione e versare un tributo annuo per nave di due denari. Il totale delle imbarcazioni

pavesi secondo le Honorantie a quest’epoca è di sessanta. I denari della tassa, raccolti dal

capo dell’associazione dei pescatori, erano impiegati per rifornire di pesce ogni venerdì il

magister camere; quando il re era a Pavia erano spesi anche per l’approvvigionamento suo e

della corte. Le navi erano naturalmente imbarcazioni per uso fluviale, che pescavano

probabilmente nel Ticino e nel Po come suggerisce Solmi73. Interessante è anche la menzione

del venerdì come giorno prescelto per la consegna del pesce al magister camere, chiaro indice

della centralità che l’alimentazione di magro e l’astinenza dalla carne, in giorni stabiliti

secondo il calendario ecclesiastico, avevano assunto per la società nel X secolo. Queste

67

Oltre al Po, i fiumi nominati dovrebbero essere i seguenti: Ticino, Agogna, Sesia, Cervo, Elvo, Dora Baltea, Orco, Malone, Stura di Demonte, Stura di Lanzo, Dora Riparia, Bormida e Orba. Quelli del secondo elenco: Adda, Oglio, Mincio, Sorna, Adige. Cfr. C.Brühl e C.Violante, op.cit., pp. 58-60. 68

Ivi, pp. 54-55. 69

A.Solmi, op.cit., p.131. 70

C.Brühl e C.Violante, op.cit., p. 56-57. 71

Monumenta Germaniae Historica, Diplomata Friedrich I, 237, p.29. 72

Inizialmente A.Solmi, op.cit., pp. 155-156. Teoria ripresa poi da Gennaro Maria Monti, Le corporazioni nell’evo antico e nell’ alto medioevo, Bari, Laterza, 1934, p. 175. Infine C.Brühl e C.Violante, op.cit., p. 55. 73

A.Solmi, op.cit., p.144.

Page 13: Spunti Per Una Rilettura Critica Delle Honorantie Civitatis Papie.

12

mutazioni del gusto influenzavano anche le attività economiche74.

L’undicesimo paragrafo si occupa dei conciatori di pelli. Questi sono riuniti in associazione,

composta da dodici cuoiai propriamente detti e da dodici iuniores75. Hanno l’obbligo di

confezionare ogni anno dodici ottime pelli di cuoio, una per maestro, e consegnarle alla

camera regis. Non è permesso in Pavia a nessun altro uomo confezionare pelli di cuoio, dato

che quest’attività artigianale è stata evidentemente concessa dal re come un monopolio. Chi

dovesse infrangere tale disposizione incorrerà in una multa elevata di cento solidi pavesi. È

prevista una tassa d’entratura nella corporazione, in maniera simile a quanto avviene per i

responsabili della zecca pavese76. L’importo del tributo per un nuovo ingresso nel novero dei

cuoiai è ripartito in parti uguali tra la camera regia e tutti gli altri membri dell’associazione

professionale.

Il dodicesimo paragrafo tratta dei barcaioli e risulta, per contenuti, legato al paragrafo dieci,

cui forse sarebbe dovuto succedere77. A capo dell’associazione figurano due magistri sotto il

controllo del camerario; il fatto che i pescatori ne avessero uno e i conciatori di pelli ne

fossero sprovvisti, con tutta probabilità depone a favore della maggiore importanza

economica dei nauteri. L’impegno fondamentale dei due uomini a capo dei barcaioli è

approntare, quando il re si trova a Pavia, due grandi navi, una per lui e una per la regina.

Queste imbarcazioni saranno anche provviste di coperture in legno per proteggere le alte

personalità dalla pioggia o dal sole78. Anche i gubernatores, cioè i capitani, devono mettere a

disposizione una nave, dalla quale, precedendo i regnanti, guidavano la rotta79. L’ultima riga

cita, per la prima e unica volta80 nelle Honorantie, un impegno della camera regia: si tratta di

un pagamento ricevuto dai barcaioli quotidianamente per i servizi prestati. A causa della

decisiva funzione di rifornimento annonario per l’Impero Romano, le associazioni di nauteri

erano già regolamentate in quell’epoca81. Attestate a Pavia nel IV secolo82, fanno parte delle

74

Massimo Montanari, La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 98-103. 75

Per l’interpretazione di ‘iuniores’ cfr. C. Brühl e C. Violante, op.cit., p.62. 76

Cfr. supra, p. 9. 77

C.Brühl e C.Violante, op.cit., p.62. 78

Ivi, p.63. 79

Il significato del passo è controverso. Così interpreta A.Settia, op.cit., p.122, rifacendosi a Gina Fasoli, Navigazione fluviale. Porti e navi sul Po, in La navigazione mediterranea nell'alto medioevo, XXV Settimana di studi del Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, Spoleto 1978, tomo secondo, p. 602. A.Solmi, op.cit., p.145, aveva tradotto diversamente. 80

C.Brühl e C.Violante, op.cit., p.64. 81

Cfr. Lellia Cracco Ruggini, Le associazioni professionali nel mondo romano-bizantino, in Artigianato e tecnica nella società dell’alto Medioevo occidentale, XVIII Settimana di studi del Centro italiano di studi sull’alto Medioevo (2-8 aprile 1970), Spoleto 1971, tomo primo, pp. 59-193. 82

C.Brühl e C.Violante, op.cit., p.63.

Page 14: Spunti Per Una Rilettura Critica Delle Honorantie Civitatis Papie.

13

regalìe citate nel diploma83 di Federico I del 1158.

Il tredicesimo paragrafo è dedicato all’attività dei produttori di sapone. Si tratta di uno dei più

corti delle Honorantie, l’unico in cui il tempo usato sia al passato e non al presente, forse a

causa di un rielaboratore84. Il censo pagato dai saponai alla camera regia ogni anno consiste in

cento libbre di sapone, dieci sono quelle riservate al camerario. Anche qui, come nel caso dei

conciatori, è esplicitamente chiarito il regime di monopolio sotto il quale operano tali artigiani

e il conseguente divieto per altri uomini di produrre sapone a Pavia. Il parallelismo con il

paragrafo undici è ancora più evidente quando si noti che entrambe le associazioni di

lavoratori non dispongono di alcun magister a capo della corporazione, a differenza di quanto

avviene per i monetieri, barcaioli e pescatori.

Il quattordicesimo paragrafo segna una svolta rispetto ai precedenti poiché tratta di un caso

particolare di diritto privato; la sua presenza nelle Honorantie è giustificabile tenendo conto

che la pratica ivi regolamentata comportava un’entrata per la camera regis85.Secondo il testo,

le donne sprovviste di un tutore del loro mundio e che fossero sufficientemente ricche, nel

caso in cui volessero prendere marito, dovevano rivolgersi al magister camere per ottenere di

diventare proprietarie del mundio e dunque selpmundie86. A questo punto era loro permesso

sposarsi secondo il diritto di appartenenza. Questa concessione era pagata con un tributo di

uno scudo e una lancia di ottima fattura, da consegnare al magister camere. Manca

stranamente l’importo dovuto alla camera regia, anche se Brühl e Violante hanno supposto la

caduta di almeno una riga87. La composizione del tributo ricalca da vicino una parte dei doni

che nel paragrafo 2 erano dovuti dagli Anglosassoni. La precisazione “secundum suam

legem” 88 non è oziosa: ancora nel X secolo, pur se il diritto longobardo prevaleva largamente

nel Nord Italia, erano diffusi casi di uomini sottoposti a quello romano o salico89. Non è da

scordare infatti che era il principio della personalità del diritto a vigere.

Nel quindicesimo paragrafo non figurano entrate della camera regia, bensì obblighi e doveri

del magister camere e del re nei confronti della cattedrale di Pavia, San Siro, e della chiesa di

San Michele Maggiore. Il magister camere ha il compito di versare tre volte all’anno, in

occasione delle feste di Pentecoste, Pasqua e Natale, un tributo di una libbra di denari in olio.

83

Monumenta Germaniae Historica, Diplomata Friedrich I, 237, p.29. 84

C.Brühl e C.Violante, op.cit., p. 64. 85

Ivi, p. 65. 86Sul mundio cfr. Ennio Cortese, Il Diritto nella Storia Medievale. L’alto medioevo, Roma, 1995, Il cigno Galileo Galilei, pp. 146-148. 87C.Brühl e C.Violante, op.cit., p. 65. 88Ivi, p. 23. 89Ivi, p. 66.

Page 15: Spunti Per Una Rilettura Critica Delle Honorantie Civitatis Papie.

14

Tale versamento è necessario al funzionamento e all’illuminazione di una grata d’ottone sulla

quale sono poste delle luci, sita nella cattedrale. Successivamente vengono nominati i doni

ricevuti, sempre in occasione delle tre feste già menzionate, dai dodici mansionarii, chierici di

basso rango90. Si tratta di un abito di lana e un paio di stivali a Natale, un mantello a Pasqua e

delle scarpe per la Pentecoste. Gli obblighi del re si concentrano durante le feste di

incoronazione, quando entra in processione nella cattedrale; la riga che li specificava in

dettaglio è andata perduta. Anche i mansionarii di San Michele Maggiore devono ricevere i

medesimi doni di quelli di San Siro.

Il sedicesimo paragrafo si presenta frammentario e gravemente interpolato, cosa che inficia la

piena comprensione del testo. Tratta in maniera generale dei ministeria, del loro statuto

privilegiato e delle pene che spettano a chi infrangerà le disposizioni e le prerogative della

camera regia. Inizialmente viene ribadito il carattere di monopolio esclusivo dei ministeria,

esteso però a tutti quelli descritti indistintamente e non solo ai cuoiai e ai saponai. Chi non

rispettasse tale situazione dovrà pagare una multa alla camera regis. Si parla poi di uno

speciale privilegio riservato ai commercianti pavesi, la possibilità cioè di presentare per primi

i propri prodotti sul mercato e iniziare una contrattazione in regime di concorrenza limitata,

senza che nessun altro mercante possa interferire in merito o inserirsi nella trattativa. Questo

regime privilegiato era probabilmente circoscritto al mercato pavese91. Anche qui, per chi non

rispetta tale disposizione, è contemplata una multa. È espresso infine il divieto, per gli

appartenenti ai ministeria, di “costituire aut facere ullum placitum”92 se non alla presenza del

re o del magister camere. In chiusura viene ricordata una decima dovuta per tutti i ministeri

alla camera regia, forse come beneficio di monopolio e probabilmente di attestazione più

tarda93. Di questa tassa una percentuale spetta al re che ne ottiene i due terzi. Il resto

appartiene alla regina. I due regnanti avevano infatti contabilità nettamente separate.

L’accenno al divieto di tenere placiti sembra voler scongiurare la tendenza, forse diffusa tra i

componenti dei ministeria, al ricorso ad una giustizia autogestita, come suggeriscono Brühl e

Violante94. Inconsueta è l’attestazione del magister camere autorizzato a presiedere l’assise

giudiziaria, invece della canonica presenza di un comes palatii. Probabilmente le dispute che

nascevano in questi casi vertevano su ambiti di competenza specifica del magister95.

90Ivi, p. 67. 91

Questo passo è stato variamente interpretato da A.Solmi, op.cit., pp. 81-82, C.G.Mor, op.cit., p. 209. Qui si segue la linea tracciata in C.Brühl e C.Violante, op.cit., p. 69. 92

C.Brühl e C.Violante, op.cit, p.25. 93

Ivi, p. 70. 94

Ivi, p. 69. 95

Ibidem.

Page 16: Spunti Per Una Rilettura Critica Delle Honorantie Civitatis Papie.

15

Netta è la frattura che separa i paragrafi 17 e 18 da quelli precedenti. L’analisi delle entrate

della camera regia è qui completamente abbandonata, per lasciare il posto ad un breve

resoconto sulla storia dell’amministrazione del palatium pavese e l’operato dei magistri

camere che si sono succeduti. La breve narrazione è imperniata sul periodo che va dal 940 al

1020 circa96. Nel diciassettesimo paragrafo sono elencati rapidamente i responsabili

dell’amministrazione della camera regia e il loro periodo di governo sulle finanze del

palatium pavese. In apertura compare l’ammonimento “hoc sciatis”, presagio di una scrittura

ben lontana da uno stile secco e asciutto. Per primo è nominato Gisulfus che avrebbe tenuto le

redini della camera “in tempore Ugonis regis et filii eius Lotharii regis, virum Adele, et in

tempore secundi Berengarii regis et in tempore primi Ottonis imperatoris”. La durata della

sua carica è dunque collocabile a grandi linee tra il 935 e il 975, visto che poco dopo il

documento ci informa del fatto che sopravvisse, di poco, alla morte di Ottone I nel 973. Gli

successe il figlio Ayraldus il cui decesso è probabilmente da datare intorno al 98897; subentrò

poi nella carica Agisulfus a sua volta figlio di Ayraldus. Il redattore di questo paragrafo

esprime chiaramente il suo apprezzamento per l’operato di questi responsabili. Li qualifica

come ricchi e onorabili, accennando ripetutamente al fatto che tennero il loro magistero con

abilità, rispettosi delle tradizioni amministrative.

Nel diciottesimo paragrafo il tono del testo diviene accusatorio e disilluso; l’autore si scaglia

violentemente contro la condotta degli ultimi responsabili della camera regia, a suo dire

motivo esclusivo della rovina completa in cui versa. Essenzialmente è la vendita dei

ministeria e quindi la dispersione delle prerogative fiscali ed economiche dell’istituto pavese

ad essere stigmatizzata con acredine. Il principale colpevole di questa deriva, disprezzato e

ripetutamente accusato, è individuato senza incertezze in Giovanni Filagato98, “ille diabolus

[…] verus apostata […] et hereticus” 99, che fu consigliere dell’Imperatrice Teofane quando

Ottone III era ancora troppo giovane per governare da solo, e divenne magister camere

intorno al 988 circa100. Sembra trasparire da queste righe un chiaro progetto di riforma della

gestione della camera da parte dell’imperatrice Teofane, che tentò di metterlo in atto durante

il periodo della sua reggenza. Per riuscire in questo intento nominò come capo

dell’amministrazione proprio Giovanni Filagato, che probabilmente cercò di dare vita ad una

gestione più accentrata ed efficiente degli introiti, forse con l’inserimento di un tributo fisso 96

Ivi, p. 81. 97

Ivi , p.71. 98

Cfr. Treccani.it, Enciclopedia dei Papi, http://www.treccani.it/enciclopedia/antipapa-giovanni-xvi_(Enciclopedia_dei_Papi)/ , (ultima consultazione 4/7/2014) 99

C.Brühl e C.Violante, op.cit., p.25. 100

Treccani.it, Enciclopedia dei Papi, cit.

Page 17: Spunti Per Una Rilettura Critica Delle Honorantie Civitatis Papie.

16

comune a tutti i ministeria101. Ad affiancare il consigliere dell’Imperatrice in questo compito

vennero chiamati Siccus e Nanus, certamente alte personalità dell’Impero102 con competenze

finanziarie. Il nuovo magister camere viene tacciato, dal redattore, d’ignoranza dei più

basilari diritti e profitti dell’istituto di cui è a capo; proprio questa ignoranza lo avrebbe

condotto alla vendita indiscriminata dei ministeria, a ripetute concessioni, alienazioni e alla

loro drammatica dispersione. Le ultime parole del paragrafo sono rivolte all’imperatore

Enrico II, considerato negligente riguardo alle questioni finanziarie del regno, forse per

mancanza di una sicura successione. Al regnante è rivolto uno sfogo amaro in cui si criticano

le numerose vendite dei ministeria, continuate anche durante il suo periodo di regno, e si

auspica sconsolatamente un’azione di governo che ripristini l’antico onore della camera regis.

L’interpretazione di questo passo è molto diversa in Solmi e in Brühl-Violante. Lo storico del

diritto accetta fiduciosamente il resoconto dell’autore e non muove rilievi critici significativi,

avvallando103 sostanzialmente la versione del §18. Spingendosi oltre, Solmi individua anche

uno “scopo pratico” 104 a questo scritto, che immagina destinato alla corte dell’Imperatore e

volto a “frenare la decadenza ormai precipitante della potenza regia” 105. Molto meno

ottimisti si rivelano su questo punto Brühl e Violante. Criticando serratamente tale posizione,

evidenziano ripetutamente il carattere parziale e partigiano del redattore in §18, segnalando le

numerose incongruenze, esagerazioni e calunnie a cui si abbandona106.Sono negati con

decisione di conseguenza anche un qualsiasi scopo, se non uno sfogo liberatorio, e la presenza

di un qualunque destinatario107.

Il documento termina con un epilogo che ricorda da vicino lo stile del proemio. A dominare,

in maniera simile, è il paragone costante di Pavia con Roma, che torna con la stessa

insistenza. Inizialmente si ricorda il legame tra i vescovi pavesi e il Papa, che deve benedirli e

consacrarli. Successivamente l’attenzione si sposta su San Siro, patrono di Pavia, di cui

vengono citati alcuni miracoli principali. Continua poi il parallelismo con Roma tramite la

citazione dei dottori della Chiesa legati alle due città: San Gregorio e Sant’Agostino. È

nominato in seguito il vescovo Pietro III, Papa per un breve periodo con il nome di Giovanni

101

Cfr. § 16 Honorantie. 102

C.Brühl e C.Violante, op.cit., p.73. cercarono anche di fornirne un’identificazione. A.Solmi, op.cit., p. 201. riteneva invece non fossero altro che ‘nomignoli’. 103

A.Solmi, op.cit., pp. 200-204. 104

Ivi, p.12. 105

Ibidem. 106

C.Brühl e C.Violante, op.cit., pp. 71-75. 107

Ivi, p.75.

Page 18: Spunti Per Una Rilettura Critica Delle Honorantie Civitatis Papie.

17

XIV 108.In chiusura compare un’invocazione alla prosperità e salvaguardia della città, fornita

di centoventisette chiese e sedici monasteri “que sunt nocte et die bene vigilata et ad

Dominum deprecata” 109.

1.2 Struttura del testo e cronologie

Le Honorantie civitatis Papie, tradite in un solo manoscritto del XV secolo, di carattere

miscellaneo e composto da 50 fogli110, consistono in sette facciate in tutto, riprodotte nelle

cinque a stampa111 e occupano i folia dal 23 al 26112.

La datazione del manoscritto in 50 fogli al XV secolo è relativamente agevole. Il redattore

infatti fornisce un sicuro terminus post quem con l’indicazione di suo pugno “intorno al

1400”, presente sul testo XIV della fonte113, cioè le Honorantie stesse114. Questa indicazione

cronologica, unita alle riflessioni stilistiche e filologiche sugli altri documenti ivi raccolti,

individua con sicurezza il Quattrocento (e più precisamente la prima metà del secolo), come

momento di composizione dell’opera, senza grandi margini di incertezza. Certamente più

dibattuto e complesso è invece il problema della struttura e della datazione delle Honorantie

vere e proprie, che ha dato luogo a diverse proposte di cronologia, a volte in conflitto tra loro.

Roberto Soriga, affrontando brevemente lo studio della fonte, intuì che il nucleo originario del

documento risaliva “al primo trentennio dell’XI secolo” 115. Precisando ulteriormente la sua

ipotesi arrivò a individuarne la data di composizione nel periodo precedente alla distruzione

del palatium pavese, avvenuta nel 1024. Uno sguardo complessivo al testo gli permetteva poi

di riconoscere numerose interpolazioni tarde e “appariscenti come l’accenno allo studium

generale di Pavia” 116. In base a queste considerazioni, sosteneva Soriga, era certo che molte

108

Treccani.it, Dizionario Biografico degli Italiani, volume 55 (2001), http://www.treccani.it/enciclopedia/papa-giovanni-xiv_(Dizionario-Biografico)/ (ultima consultazione 5/7/2014)

109C.Brühl e C.Violante, op.cit. p. 27. 110Ivi, p.1. Per la datazione del manoscritto al XV secolo cfr. p.4 e p.78. 111

Sebastiano Maggio, Le associazioni professionali nell’Alto Medioevo. Artigiani e commercianti in Italia dal VI all’XI secolo,Catania, CUECM, 1996, p.80. 112

C.Brühl e C.Violante, op.cit, pp. 2-3. 113

Per i riferimenti alle numerazioni dei folia e dei testi contenuti nel manoscritto, il riferimento è sempre all’edizione di C.Brühl e C.Violante, op.cit, pp.1-4. 114Ivi, p.7. 115

Roberto Soriga, Per una nuova edizione delle ‘Honorantie civitatis Papie’, in ‘Bollettino della Società pavese di storia patria’, Pavia 1914, vol. XIV, p. 93. 116

Ibidem.

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18

parti della fonte fossero state oggetto di numerosi rimaneggiamenti successivi alla prima

stesura, databili intorno al XIV secolo117.

Arrigo Solmi propose, per primo, una chiara divisione in due parti del testo delle

Honorantie118. La più antica comprendeva, secondo lo storico pavese, essenzialmente i

diciotto paragrafi che costituiscono il corpo del documento; il proemio e l’epilogo sarebbero

invece ben più recenti e non assimilabili al nucleo centrale. Solmi notava infatti nel prologo e

nella parte finale una scrittura “che ha schietto colorito elogiastico civico”119 e che per la sua

forma si discosta con decisione dallo stile dei paragrafi dove “noi sentiamo che l’esposizione

si fa diversa,più arcaica più precisa e più secca” 120.Entrando più nello specifico erano il

continuo parallelo di Pavia con Roma, le numerose invocazioni formulari, quali ad esempio

“O gloriosa urbs Papia” e l’accenno allo Studium Generale121 a fargli ritenere incompatibile

l’esordio e la chiusa delle Honorantie col resto del testo. Questi indizi indussero lo storico del

diritto a proporre come terminus post quem per proemio e parte finale il 1361, data di

fondazione dello Studium pavese: “L’accenno allo Studium generale,non già aggiunto, ma

pienamente conglobato nella scrittura, ci trasporta ad un’età posteriore al 1364”122.Solmi

arrivò ad ipotizzare che la stessa intitolazione del documento, per esteso “Instituta regalia et

ministeria camere regum Lomgobardorum et honorancie civitatis Papie” 123 fosse da chiarire

in questo modo: Le Honorantie vere e proprie sarebbero state il proemio e l’epilogo124, tutti i

paragrafi centrali invece non sarebbero altro che l’elenco degli “instituta regalia”. Proprio il

momento di redazione di questo elenco è, senza dubbio, la maggior fonte di discordia tra gli

storici. La proposta di Solmi fu di datarne la stesura “fra il 1010 e il 1020 circa” 125.

Essenzialmente tale finestra temporale era individuata grazie a tre considerazioni. Innanzitutto

l’invocazione all’imperatore Enrico II, presente al paragrafo diciotto, imponeva che il

regnante fosse ancora in vita e che l’apostrofe fosse stata scritta quindi prima del 1024, anno

del decesso di Enrico. In secondo luogo la distruzione del palatium di Pavia, avvenuta per

mano della popolazione della città alla morte dell’imperatore nel 1024, sarebbe stato un

evento di tale portata e di tale impatto sui ministeria pavesi che l’autore non avrebbe potuto

scriverne senza menzionarlo. Da ultimo, secondo Solmi, lo scritto non poteva essere

117

Ibidem. 118

A. Solmi, op.cit., pp.9-17. 119

Ibidem p.9. 120

Ibidem p.11. 121

Ibidem p.10. 122

Ibidem pp. 10-11. 123

C.Brühl e C.Violante, op.cit, p.2. 124

A.Solmi, op.cit, p.11. 125

Ivi, p.13.

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19

ricondotto ai primi anni di regno di Enrico II, poiché “si fa esplicito accenno a nuove

dispersioni del patrimonio regio compiute da Enrico stesso, ciò che richiede un certo lasso di

tempo” 126.

L’impostazione dualistica della fonte fu mantenuta immutata anche da Francesco Landogna.

Questi tentò di compiere alcune precisazioni cronologiche e strutturali di rilievo ma accettò

sostanzialmente la partizione proposta da Solmi127, che Landogna definiva “la guida preziosa

che mi ha avviato verso le ricerche” 128, facendo riferimento alla sintetica edizione curata dallo

storico pavese nel 1920129 e chiarendo il debito nei suoi confronti. Poco rilevanti furono le

precisazioni riguardo alla data di composizione della prima e dell’ultima parte; Landogna non

riteneva la menzione di uno Studium generale di Pavia un sicuro appiglio per stabilire un

terminus post quem nel 1364 e si spingeva a ritenere possibile che “la designazione di

‘generale’ sia interpolatizia di fronte ad un testo più antico”130: proponeva quindi di

retrodatare, anche se di poco, il componimento rispetto alla proposta di Solmi. Indubbiamente

maggiori divergenze sorsero tra i due riguardo al nucleo centrale del documento. Compiendo

un’analisi breve ma puntuale, Landogna suppose che il redattore dell’XI secolo avesse potuto

attingere a documenti più antichi, databili al X secolo, e che dunque il suo memoratorium

fosse una vera e propria opera di redazione di più fonti frammentarie del secolo precedente o

di un unico documento composto tra l’883 e il 1000131, cui aveva attinto per la stesura finale

nel terzo decennio dell’XI secolo. Proprio la datazione proposta per la definitiva messa a

punto degli Instituta veri e propri segnava un altro punto di controversia con Solmi. Landogna

contestò la possibilità che l’invocazione a Enrico II fosse rivolta direttamente all’imperatore

vivente, a causa del tono eccessivamente critico con cui l’autore si scagliava contro l’operato

del regnante. Immaginò invece che quella supplica fosse rivolta a Corrado II, successore di

Enrico e incoronato re d’Italia nel 1027132.Attribuì dunque a questa data il momento di

redazione dell’opera. Rigettò inoltre con decisione l’ipotesi che la distruzione del palatium

pavese nel 1024 sarebbe dovuta essere nominata dall’autore se gli Instituta fossero stati scritti

successivamente. Si limitò a chiarire che “il nostro documento che considerava il palatium

come un ente economico e non come un edificio, non aveva ragione di insistere né su quello

126

Ibidem 127

Francesco Landogna, op.cit., p.297. 128

Ivi p.296. 129

Arrigo Solmi, Il testo delle “Honorantie civitatis Papie”, in “Archivio storico lombardo”, XLVII, fasc. III, Milano, 1920, pp. 177-192. 130

F.Landogna, op.cit., p. 298. 131

Ivi, pp. 302-323. 132

Ivi, p.324.

Page 21: Spunti Per Una Rilettura Critica Delle Honorantie Civitatis Papie.

20

né sul posteriore incendio”133.

Riavvicinandosi alle riflessioni di Solmi circa la data di redazione degli Instituta, Pier Silverio

Leicht arrivò ad affermare senza esitazioni che “il documento appartiene al principio del

secolo XI ed è certamente anteriore al 26 marzo 1027, cioè alla coronazione di Corrado II a

imperatore” 134. Attestata al 1026/1027 e quindi successiva alla morte di Enrico II era invece

l’ipotesi di datazione di Hofmeister135.

Il dibattito venne riaperto da Brühl e Violante che proposero una tesi molto più articolata sulla

nascita e sulle differenti cronologie delle Honorantie civitatis Papie. Sposarono senza riserve

l’ipotesi di Solmi per quanto riguarda proemio e chiusa, individuando anch’essi nel

riferimento allo Studium la chiave della datazione post 1361136.Concentrarono poi l’attenzione

sui paragrafi diciassette e diciotto per arrivare ad un’ipotesi di cronologia per gli Instituta.

Non aderirono alle tesi di Landogna in merito, ritenendo decisiva la distruzione del palatium

per fornire un terminus ante quem alla redazione. L’autore del libello, infatti, secondo tale

ricostruzione, non avrebbe potuto omettere un evento di così grande rilevanza nel contesto dei

paragrafi diciassette e diciotto, che tracciano una partigiana e rancorosa137 storia dei

ministeria della Camera regis di Pavia.Il silenzio dell’autore su un evento tanto catastrofico

per l’amministrazione finanziaria non sarebbe giustificabile in altro modo se non retrodatando

gli Instituta “ intorno al 1020”138. Lamentando le lacune della ricerca fino a quel momento,

Brühl e Violante misero in evidenza come fosse indispensabile riflettere sugli Instituta

paragrafo per paragrafo, evitando di postulare una sola data di nascita comune a tutti i diciotto

paragrafi e mettendo in campo un’analisi molto più variegata e flessibile di quella di Solmi,

sulla strada già tracciata in parte da Landogna139.Era ancora possibile pensare, con lo storico

del diritto pavese, che questi paragrafi costituissero “uno scritto che, nella composizione sua,

si presenta logico ed integro dal principio alla fine”?140. L’attenzione dei due storici si

concentrò su una felice intuizione di Landogna141: l’alternanza, a prima vista inspiegabile, per

definire colui che guida la camera regia, dei termini camerarius e magister camere nei diversi

paragrafi del testo, senza che quest’avvicendamento fosse riconducibile a un’effettiva 133

Ivi, p.327. 134

Pier Silverio Leicht, L’origine delle ‘Arti’ nell’Europa Occidentale, in Pier Silverio Leicht “Scritti vari di storia del diritto italiano” vol. I, Milano, Giuffrè, 1943-1948, p.304. 135

Adolf Hofmeister, Instituta Regalia et Ministeria Camerae Regum Longobardorum Honorantie Civitatis Papiae, in Monumenta Germaniae Historica, SS, tomo XXX, parte II, fasc.3, Hannover 1934, pp. 1444-1460. 136

C.Brühl e C.Violante, op.cit., p.77. 137

Ivi, p.81. 138

Ivi, p.79. 139

Ibidem 140

A.Solmi, L’amministrazione finanziaria del Regno Italico nell’Alto Medioevo, cit., p.15. 141

F.Landogna, op.cit., p.301.

Page 22: Spunti Per Una Rilettura Critica Delle Honorantie Civitatis Papie.

21

specializzazione delle funzioni142.La situazione delineata negli ultimi due paragrafi, con i

camerarii sottoposti a un magister camere, fece supporre, vista la data di redazione dei

paragrafi diciassette e diciotto già fornita in precedenza, che la definizione più recente fosse

quella di magister camere, mentre quella più antica, risalente con ogni probabilità al X secolo,

fosse camerarius. Sarebbe quindi facile, a grandi linee, individuare l’età dei singoli paragrafi

seguendo questa spia cronologica143. Per quanto riguarda la struttura degli Instituta, Brühl e

Violante riscontrarono una sostanziale coerenza tematica nei primi tredici paragrafi,

logicamente coesi nonostante una certa confusione nei paragrafi finali. Maggiori problemi

sorgevano dal paragrafo quattordici, “completamente isolato”144, e con quelli dal quindici al

diciotto, stilisticamente e per quanto concerne i contenuti incompatibili coi primi tredici. Con

un’attenzione specificamente rivolta alle incongruenze, omissioni e aggiunte, presenti in

maniera copiosa e distribuite quasi uniformemente in tutti i paragrafi, i due storici arrivarono

ad arricchire di gran lunga le visioni di Solmi e Landogna. Ritennero che non solo gli Instituta

ma ogni singolo paragrafo potesse essere un “compositum”145, costruito a partire da copie di

contratti, brevi memoratoria o diplomi del secolo precedente. La datazione di ogni paragrafo

era dunque quasi impossibile da fornire con una qualche pretesa di precisione, considerato

che, alla luce di quanto andavano sostenendo Brühl e Violante, le Honorantie erano un’opera

molto più complessa e ricca di sfaccettature di quanto si fosse supposto fino a quel

momento146. Qualche certezza in più poteva essere affermata sui paragrafi dal quattordici al

sedici, che vennero considerati composti nello stesso momento e dallo stesso autore, “intorno

al 1000”147.Alla stessa data venne fissata anche la redazione complessiva degli Instituta nella

forma attuale, basata su versioni più antiche148.Venne chiarita anche l’appartenenza degli

ultimi due paragrafi a un’epoca più recente149; erano da intendersi come una sorta di allegato

aggiunto a posteriori.

Le proposte interpretative più recenti organicamente formulate, sulla struttura e la cronologia

delle Honorantie civitatis Papie, rimangono ancora quelle di Brühl e Violante, che risalgono a

più di trent’anni or sono. L’augurio espresso nella prefazione di quell’edizione dai due

studiosi, che la loro pubblicazione e il loro commento fossero “considerati un’opera aperta,

142

C.Brühl e C.Violante, op.cit., p.80. 143

Ivi, p.81. 144

Ibidem 145

Ivi, p.84. 146

Ibidem 147

Ibidem 148

Ibidem 149

Confronta supra, p. 20.

Page 23: Spunti Per Una Rilettura Critica Delle Honorantie Civitatis Papie.

22

ossia una proposizione di idee che attendono di essere corrette e integrate” 150, non è ancora

stato pienamente raccolto dalla comunità degli storici.

1.3 Gli autori e l’opera di redazione del testo

Il problema dell’identificazione degli autori delle Honorantie civitatis Papie è stato oggetto di

ricerche molto meno approfondite rispetto al dibattito sollevatosi intorno alla data di

composizione dell’opera. Spesso chi si è occupato di questo documento ha unicamente potuto

fare congetture e ipotesi, a volte plausibili ma mai del tutto convincenti. Questa carenza di

riflessione è dovuta in gran parte alla mancanza di elementi del testo che fungano da evidenze

critiche e permettano un’identificazione senza tentennamenti o incertezze. Unica sicurezza,

comune a quasi tutti coloro si sono occupati delle Honorantie, è la presenza di (almeno) due

diverse mani nel testo del documento, coerentemente con le proposte di datazione ricordate

nel paragrafo precedente: la prima sarebbe responsabile delle parti risalenti al X e XI secolo,

la seconda invece ben più tarda e appartenente al XIV secolo. Anche se rimangono notevoli le

differenze interpretative nel merito della redazione complessiva dell’opera e sull’effettiva

identità di chi la portò a termine, questa tesi è stata sottoscritta a grandi linee da tutti gli

storici.

L’unica eccezione su questo punto è rappresentata dalla posizione di Soriga. Quest’ultimo

infatti immaginava che uno soltanto fosse l’autore delle Honorantie: il documento nella sua

redazione originale sarebbe stato successivamente ampiamente modificato da “leggiere ma

continue deformazioni […] e da aggiunte posteriori inserite qua e là”151. Queste

manipolazioni sarebbero state dettate principalmente dal desiderio di rimpinguare e meglio

specificare gli onori di Pavia, con un fine prettamente esornativo ed encomiastico152.

Sull’identità dell’autore Soriga non si sbilanciava, ipotizzando tuttavia che potesse trattarsi di

un “ufficiale della Camera regia”153 che rimpiangeva la passata potenza del palatium pavese.

Così si spiegava il “patetico lagno”154 rivolto ad Enrico II e anche le ragioni della minuziosa

redazione di diritti regali e entrate della camera.

150

C.Brühl e C.Violante, op.cit., p.IX. 151

R.Soriga, op.cit., p.93. 152

Ibidem. 153

Ivi, p.94. 154

Ibidem.

Page 24: Spunti Per Una Rilettura Critica Delle Honorantie Civitatis Papie.

23

Nonostante avesse ricordato155 la vicinanza di stile e scrittura dell’autore di prologo ed

epilogo a Opicinus de Canistris156, Solmi non riuscì a determinare la sua identità (“L’altra

parte […] costituita dal proemio e dalle fasi finali della scrittura[…] appartiene ad un autore

[…] ignoto”) 157. Questo anonimo scrittore trecentista si sarebbe, secondo Solmi, ispirato

all’opera di Opicinus de Canistris per redigere una vera e propria operetta che servisse da

cornice introduttiva per gli Instituta e da lode per la città di Pavia. Si tratterebbe dunque di

“una scrittura di getto, che è ispirata all’autore dal rinvenimento dell’antica memoria” 158. In

questo modo un ignoto cittadino pavese, nella seconda metà del XIV secolo, esaltatosi per la

lettura degli antichi privilegi presenti negli Instituta, in un contesto storico ormai

profondamente mutato scrisse prologo ed epilogo delle Honorantie, conferendo così una

patina encomiastica e un tono pressoché uniforme e coerente a tutta la lunga lista di diritti e

privilegi della camera regis. Per quanto riguarda l’autore degli Instituta dell’XI secolo, Solmi

tenne una posizione molto prudente, non dando seguito ad una sua intuizione potenzialmente

proficua. Analizzando159 il paragrafo diciotto infatti, lo storico del diritto avanzò l’ipotesi che

l’autore dell’intero manoscritto dell’XI secolo altri non fosse che Gisulfus il giovane160, figlio

di Ayraldus, ultimo magister camere prima dell’avvento di Giovanni Filagato intorno

all’888161. Senza trarre le debite conclusioni da quest’idea tuttavia, continuò sempre a parlare

di “anonimo autore” 162. L’opera di quest’ultimo, vale a dire gli Instituta, a differenza della

scrittura trecentesca, non avrebbe intenti elogiativi ma si configurerebbe come una redazione

puntuale, oggettiva e affidabile delle entrate del palatium pavese e della camera regia, “una

dimostrazione minuta e singolare di avvenimenti” 163.

Del tutto trascurabile fu il contributo alla discussione su questo punto da parte di Landogna.

Lo studioso di geografia infatti sposò acriticamente la posizione di Solmi, appiattendosi sulle

sue conclusioni in merito all’identità dei due autori ed evitando addirittura di trattare, se non

di sfuggita, questo problema nel suo contributo164.

Hofmeister si limitò a mettere in dubbio la tesi di Solmi di una possibile chiara influenza

155

A.Solmi, L’amministrazione finanziaria del Regno Italico nell’Alto Medioevo, cit., p. 10. 156

Sull’autore del ‘De laudibus civitatis Papie’ cfr. Faustino Gianani, Opicino de Canistris, l'Anonimo ticinese: Cod. vaticano palatino latino 1993, Pavia, EMI, 1996. 157

A.Solmi, L’amministrazione finanziaria del Regno Italico nell’Alto Medioevo, cit., p.9. 158

Ivi, p.10. 159

Ivi, p.201. 160

Cfr. §17 Honorantie. 161

Cfr. supra, p.15. 162

A.Solmi, L’amministrazione finanziaria del Regno Italico nell’Alto Medioevo, cit., p.201. 163

Ivi, p.11. 164

Cfr. F.Landogna, op.cit. dove non viene svolta alcuna riflessione per provare a identificare l’autore dell’opera.

Page 25: Spunti Per Una Rilettura Critica Delle Honorantie Civitatis Papie.

24

stilistica di Opicinus de Canistris sull’anonimo autore trecentesco delle Honorantie. Lo

storico tedesco dichiarava di non propendere per questa interpretazione, poiché non riusciva a

riscontrare una chiara eredità del “De laudibus civitatis Papie” nelle righe del prologo e

dell’epilogo165. Detto questo, non si esprimeva però su una possibile identificazione

dell’autore in questione, limitandosi a collocare la sua attività nella prima metà del XIV

secolo, invece che nella seconda.

L’edizione di Brühl e Violante tentò, per prima, di dare una risposta più precisa al problema

della possibile identità dei due (o più) autori del documento. Nessuna novità rilevante venne

affermata per quanto riguarda l’autore di proemio e epilogo delle Honorantie. L’anonimo

trecentista rimase tale; venne ribadita166 con decisione la sua probabile vicinanza per stile e

temi all’opera di Opicinus de Canistris, al contrario di quanto aveva sostenuto cinquant’anni

prima Hofmeister. Soffermatisi poi a considerare chi fosse l’autore degli Instituta veri e

propri, ripresero l’intuizione di Solmi in merito, cercando di chiarire i motivi che la rendevano

grandemente plausibile. L’identificazione dello scrittore dei diciotto paragrafi con Gisulfus il

giovane derivava essenzialmente da una considerazione attenta del §18. L’acredine e l’odio

personali, conditi da numerose ingiurie nei confronti di Giovanni Filagato e, di riflesso, verso

la greca Teofane, facevano propendere per un uomo direttamente coinvolto in quelle vicende

e a loro contemporaneo, sicuramente fiero oppositore della linea politica dell’imperatrice e del

suo nuovo magister camere. Notevole era poi il richiamo all’ereditarietà167 della carica di

capo della camera regis come un fatto perfettamente naturale, accenno del tutto ignorato dalla

ricerca fino ad allora. Il breve resoconto storico presente negli Instituta taceva inoltre

inspiegabilmente degli eventi compresi tra il 991 e il 1004 circa168. Questo periodo,

successivo alla morte dell’imperatrice Teofane, aveva visto anche la fine della sua influenza

sull’istituto pavese e la destituzione di Giovanni Filagato. Il redattore, in maniera molto

sospetta non ne parlava, passando subito a descrivere le dispersioni dei diritti della camera

compiute sotto il regno di Enrico II. La ricostruzione di Brühl e Violante, partendo da questi

indizi, poteva articolarsi credibilmente come segue169. Nel 991, alla morte di Teofane,

avrebbe preso il controllo dell’amministrazione del palatium pavese l’imperatrice Adelaide170,

come reggente per il nipote Ottone III. Deposto dalla carica Giovanni Filagato, avrebbe in

165

A.Hofmeister, op.cit., p. 1448. 166

C.Brühl e C.Violante, op.cit., p.77. 167

Cfr. §17 Honorantie. 168

C.Brühl e C.Violante, op.cit., p.74. 169

Ibidem 170

Treccani.it, Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 1 (1960), voce a cura di Girolamo Arnaldi, http://www.treccani.it/enciclopedia/imperatrice-adelaide_(Dizionario_Biografico)/

Page 26: Spunti Per Una Rilettura Critica Delle Honorantie Civitatis Papie.

25

seguito nominato magister camere proprio Gisulfus, da lei conosciuto probabilmente cinque

anni prima, segnando con questo gesto una netta cesura con l’operato di chi l’aveva preceduta

e un ritorno ad uno stile tradizionale nella gestione degli introiti della camera regia. Lo stesso

Ottone III avrebbe riconfermato nella carica il figlio di Ayraldus, una volta divenuto

imperatore. La fortuna di Gisulfus si sarebbe bruscamente interrotta quando, nel 1002, decise

forse di schierarsi dalla parte di Arduino d’Ivrea171, eletto re d’Italia in quell’anno. Nel 1004,

con la discesa di Enrico II in Italia e la sconfitta di Arduino, il destino fu segnato anche per

Gisulfus: l’imperatore, inevitabilmente, lo privò della carica. Diventerebbe facile spiegare

quindi il silenzio dell’autore sugli anni dal 991 al 1004, momento culminante della sua

carriera ma conclusisi in modo tanto umiliante e deludente da evitare qualunque tipo di

accenno. I paragrafi che potevano essere sicuramente assegnati per intero alla mano di

Gisulfus vennero quindi identificati con quelli dal quattordici al diciotto172. Gli ultimi due

(§ 17-18) furono visti come un allegato posteriore del redattore, ormai desideroso unicamente

di sfogarsi e calunniare, avendo compreso che per lui non vi erano più concrete possibilità di

tornare a capo dell’amministrazione pavese. Brühl e Violante, volgendo poi lo sguardo agli

altri tredici paragrafi, segnalarono numerosi interventi di rielaborazione sul testo173, secondo

la loro opinione da attribuire ancora a Gisulfus, che sarebbe stato quindi autore anche di una

redazione complessiva del documento intorno al 1020, oltre a colui che aveva scritto gli

ultimi cinque paragrafi degli Instituta nel corso dei venticinque anni precedenti174. Questa

vera e propria opera di revisione generale del memoratorium più antico potrebbe aver dato al

documento le sembianze odierne, escluse naturalmente le aggiunte tarde di prologo ed

epilogo, qualche errore di copiatura e interpolazioni successive. L’opera di rielaborazione di

Gisulfus sui primi tredici paragrafi consistette principalmente in una costante sottolineatura

del ruolo centrale del magister camere e in un richiamo accorato alla tradizione onorevole

dell’istituto della camera regia. “Magni et honorabiles et multum divites” 175 sono infatti tutti i

mercanti pavesi, come anche “nobiles et divites super omnes alios monetarios”176 vengono

definiti da Gisulfus gli uomini a capo della zecca, per evidenziare il grande prestigio di Pavia

e del suo palatium.

171

Treccani.it, Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 4 (1962),voce a cura di Girolamo Arnaldi, http://www.treccani.it/enciclopedia/re-d-italia-arduino_(Dizionario-Biografico)/ 172

C.Brühl e C.Violante, op.cit., p.82 e segg. 173

Ivi, pp. 17-27. A p.13 una legenda chiarisce, anche graficamente, le interpolazioni e le aggiunte di Gisulfus al testo più antico dei primi tredici paragrafi degli Instituta, che sono state trascritte in carattere piccolo. 174

Ibidem. 175

Ivi, p.19. 176

Ivi, p.21.

Page 27: Spunti Per Una Rilettura Critica Delle Honorantie Civitatis Papie.

26

Per quanto riguarda la ricerca degli autori dei primi tredici paragrafi, è invece quasi

impossibile anche solo abbozzare una risposta che vada oltre le congetture, proprio per la

natura composita e frammentaria di questi ultimi, di cui si è già parlato in precedenza177.Ogni

singolo paragrafo potrebbe dunque appartenere a più mani del X secolo ed essere stato scritto

in momenti diversi per ragioni molto lontane tra loro.

1.4 Laus civitatis o resoconto oggettivo?

La complessa stratificazione delle Honorantie civitatis Papie e la loro natura composita hanno

fatto fiorire numerose interpretazioni sul senso complessivo da attribuire a questo peculiare

documento. La sovrapposizione di mani diverse, appartenenti a epoche lontane tra loro, rende

tuttavia inevitabilmente molto arduo ricondurre ad unità i molteplici punti di vista e

intendimenti dei due (o più) redattori. Schematicamente si potrebbe affermare che, nell’analisi

del significato delle Honorantie, la ricerca abbia oscillato tra due posizioni. Da una parte si è

tentato di sottolineare l’attendibilità delle informazioni contenute negli Instituta e la loro

consonanza con i diplomi e le fonti coeve. Dall’altra si è voluto richiamare l’attenzione sul

carattere encomiastico che pervade tutta l’opera, sulle numerose esagerazioni retoriche e sulla

dubbia affidabilità di quanto compare in quelle pagine.

Soriga, per primo, cercò di conciliare questi due diversi punti di vista. Ammise un “senso

evidente di compiacimento civico” 178 in chi aveva scritto il documento ma escluse potesse

trattarsi di una falsificazione completa dei fatti dettata da “vana boria municipale” 179.

L’elenco di prerogative regie gli pareva genuino e originale, solo in parte intaccato nella sua

oggettività da aggiunte posteriori. Riscontrava piuttosto nelle Honorantie l’affacciarsi di una

nascente coscienza civica cittadina, che si sarebbe dispiegata compiutamente solo in epoca

comunale.

Solmi tentò di distinguere più nettamente tra le Honorantie e gli Instituta. Mentre i primi

erano, a suo dire, indubbiamente impregnati di una volontà celebrativa di Pavia e delle sue

glorie passate e potevano essere considerati come un esempio di laus civitatis trecentesca, i

177

Supra, p. 21. 178

R. Soriga, op.cit., p. 94. 179

Ivi, p.93.

Page 28: Spunti Per Una Rilettura Critica Delle Honorantie Civitatis Papie.

27

secondi rappresentavano un elenco oggettivo di ben altra natura180. Questa convinzione spinse

lo storico del diritto, nell’edizione da lui curata, ad accettare quasi parola per parola il testo

dei diciotto paragrafi centrali. Fu proprio la fiducia nella piena imparzialità degli Instituta che

gli consentì addirittura di fare di questa fonte il perno attorno a cui ruotava la sua

ricostruzione dell’amministrazione finanziaria del regno italico nel X e XI secolo181.

Tornò sulla questione, anche se di sfuggita, Gina Fasoli, trattando di coscienza civica

cittadina. Nel suo intervento si mostrò piuttosto riluttante ad accostare le Honorantie a quelle

che definiva senza dubbio laudes civitatum e non semplici descriptiones urbium182 quali ad

esempio il Versum de Mediolano civitate o il Versus de Verona183. Riteneva infatti che il testo

fornisse certamente notizie “preziose” 184 sulla situazione economica di Pavia, ma rifiutava di

avvicinarlo ai componimenti sopra citati o di considerarlo emblema di una rinnovata

coscienza cittadina. Giustificava questa presa di posizione affermando che “[il documento

delle] Honorantie civitatis Papie […] non celebra la città in quanto tale, in quanto

organismo autonomo, ma quale centro amministrativo del regno” 185.

Brühl e Violante non dubitarono mai della natura encomiastica di prologo ed epilogo,

considerandoli sempre figli di un clima culturale ben preciso, risalente al XIV secolo. I temi

affrontati e lo spirito cittadino messo in mostra dall’anonimo autore nel suo elogio di Pavia

sarebbero stati un mediocre tentativo di ripresa ed emulazione dei toni e dei contenuti del “De

laudibus civitatis Papie”186. Legittime perplessità potevano nascere invece sulla natura della

redazione finale degli Instituta da parte di Gisulfus intorno al 1020. È chiaro infatti che non è

possibile concordare con la posizione187 di Solmi, che vedeva nella stesura delle Honorantie

anche la prova di un rinnovato spirito civico e di un anelito indipendentista che pervadeva

tutta l’Italia del Nord, precursore dell’aspirazione alla libertà comunale e addirittura teso a

ribellarsi contro il giogo di imperatori “tedeschi” e dunque percepiti come stranieri. Detto

questo però, la scrittura di Gisulfus va inserita in un contesto storico, quello di inizio XI

secolo, in cui effettivamente un fermento nuovo percorreva le città italiane, una volontà di

autonomia rispetto ad alcune imposizioni imperiali e l’insofferenza verso un istituto percepito

180

Cfr. A. Solmi, L’amministrazione, cit., pp. 9-12. 181

Ivi, pp. VII-XI. 182

Gina Fasoli, La coscienza civica nelle ‘laudes civitatum’, in La coscienza civica nei comuni italiani del Duecento (11-14 ottobre 1970), Todi, Centro di studi sulla spiritualità medievale, 1972, pp. 12-13. 183

Cfr. Giovanni Battista Pighi, Versus de Verona: versum de Mediolano civitate / Edizione critica e commento a cura di Giovanni Battista Pighi, Bologna, N.Zanichelli, 1960. 184

G.Fasoli, La coscienza civica, cit., p. 28. 185

Ibidem. 186

Cfr. supra p. 23. 187

A.Solmi, L’amministrazione cit., p. 187 e segg.

Page 29: Spunti Per Una Rilettura Critica Delle Honorantie Civitatis Papie.

28

come distante montavano. I ripetuti accenni che Brühl e Violante rivolgono alla profonda

pavesità del magister camere sottolineano anche questo atteggiamento di “orgoglio politico

mercantile ed istituzionale” 188 che traspare dal vivo rimpianto delle sue parole ed è

innegabile. Nella redazione finale Gisulfus dunque, rimaneggiando un memoratorium in gran

parte oggettivo, finisce per dar voce a diversi motivi tipici delle successive laudes civitatum di

epoca comunale.

Proprio queste curiose assonanze furono indagate più attentamente da Capitani, che si smarcò

dalla posizione dubbiosa di Fasoli, sostenendo con chiarezza che le Honorantie civitatis

Papie, pur nella loro complessità e peculiarità, potevano essere considerate pervase di intenti

elogiativi nei confronti di Pavia stessa189. Richiamando l’attenzione sul contesto fortemente

antagonista in cui nascevano queste laudes e al loro carattere tutt’altro che locale, cercò di

mostrare come numerosi motivi di polemica antimilanese da parte di Pavia nel Trecento,

fossero già presenti in nuce negli Instituta e si qualificassero come “conservazione di una

memoria storica ben più remota” 190. A conferma di una spiccata dimensione conflittuale tra le

città c’erano le ripetute affermazioni di superiorità di Pavia contenute nelle Honorantie; per

quel che riguarda la consapevolezza del prestigio della propria città, illuminante era il

miscuglio di memoria storica altomedievale, sacralità, ruolo dei vescovi e legame privilegiato

con Roma che si intreccia di continuo nel documento. Fondamentale, nella costruzione di

un’identità cittadina e per gli stilemi delle composizioni elogiative di Pavia era l’onnipresente

antitesi a Milano, già riscontrabile sullo sfondo negli Instituta, secondo Capitani. Questa

verve fortemente polemica si percepiva, a suo dire, in maniera esemplare nel paragrafo ottavo,

dedicato ai monetieri milanesi, puniti, nel caso fossero falsari, più duramente dei corrispettivi

pavesi191. Considerando l’eterogeneità e complessità delle Honorantie civitatis Papie si può

dire che una risposta alla domanda che dà il titolo a questo paragrafo non è possibile. La

grande stratificazione cronologica presente nel testo e la sua natura composita rendono questa

domanda troppo generica e destinata a rimanere inevasa. Se su proemio ed epilogo si possono

probabilmente avere meno incertezze nell’avvicinarli ad un componimento elogiativo del XIV

secolo sui toni di una laus civitatis, affrontando lo studio degli Instituta una strada proficua è

188

Ovidio Capitani, L’immagine urbana nelle fonti narrative altomedievali , in Francesca Bocchi, Rosa Smurra (a cura di), Imago urbis: l’immagine della città nella storia d’Italia, atti del Convegno internazionale (Bologna 5-7 settembre 2001), Roma, Viella, 2003, p.252. 189

Ibidem. 190

Ibidem 191

Ivi, p. 255. Questa argomentazione non sembra però così efficace, dal momento che la pena dell’amputazione della mano destra, unitamente alla confisca dei beni, negli Instituta è prevista oltre che per i falsari milanesi anche per quelli pavesi. Cfr. C.Brühl e C.Violante, op.cit., p. 21 § 7-8.

Page 30: Spunti Per Una Rilettura Critica Delle Honorantie Civitatis Papie.

29

stata tracciata da Capitani. Senza tentare di rispondere in maniera definitiva, si può provare a

indagare le pieghe del testo più antico, cercandovi anticipazioni, stile e contenuti di opere

successive.

1.5 Il dibattito storiografico

Giovanni Vidari, nel 1891192, fu il primo a pubblicare il testo delle Honorantie civitatis

Papie, riscoperte poco prima dal loro proprietario, il conte Luchino dal Verme, nell’archivio

di famiglia. Il documento sperimentò una ricezione piuttosto distratta tra i medievisti

dell’epoca, anche in ambito pavese. Bisognò infatti attendere circa quarant’anni prima che

venisse pubblicata un’edizione193 critica sulla fonte, che provava a studiarla in profondità e

senza conclusioni superficiali. L’importanza del testo delle Honorantie fu quindi sottovalutata

grandemente, tanto che lo si trova citato solo timidamente tra gli storici nei primi anni del XX

secolo194.

A porre rimedio a quest’oblio provvide Solmi che, forse per rimediare alla sua iniziale

colpevole disattenzione nei confronti degli Instituta, pensò di vedere in tale documento un

contributo unico per comprendere non solo gli introiti della Camera regis a cavallo tra X e XI

secolo, ma anche l’intero ordinamento amministrativo del regno a quel tempo e persino nei

secoli precedenti. Lo storico pavese era fermamente convinto della persistenza di fondo del

diritto, delle istituzioni finanziarie, economiche e politiche nelle forme antiche, dalla caduta

dell’Impero romano fino “[al] sorgere dei Comuni; […] [quando] sono già accese le fiaccole

della civiltà nuova” 195. Pensava quindi alle Honorantie come la prova più esplicita e chiara di

questa teoria della continuità. Solmi sminuiva di conseguenza la frattura causata dalle

invasioni barbariche in tutti questi campi, affermando che non avevano intaccato il loro

profondo funzionamento, che era riuscito a resistere immutato. Si spingeva a dire, con

disinvoltura, che “l’ordinamento carolingio […] non è che una continuazione […] delle

istituzioni longobarde e queste non sono alla loro volta che […] una continuazione delle

192

Giovanni Vidari, Frammenti cronistorici dell’agro ticinese, Pavia, Fusi, 1891, 4 voll., pp. 318-323 e 399-405. 193

A. Solmi, L’amministrazione cit. Più di quarant’anni in effetti passarono tra la riscoperta di Vidari del 1891 e la prima compiuta edizione delle Honorantie curata da Solmi nel 1932. 194

Cfr. ‘Bollettino della società pavese di storia patria’ (1901-1936). Consultabile online all’indirizzo http://emeroteca.braidense.it/eva/indice_volumi.php?IDTestata=87&CodScheda=181 (ultima consultazione 2/8/2014). Sporadiche le menzioni delle Honorantie, ad esempio nel volume quarto (1904) e nel settimo (1907). 195

A. Solmi, L’amministrazione cit., p. X.

Page 31: Spunti Per Una Rilettura Critica Delle Honorantie Civitatis Papie.

30

istituzioni dei tempi della decadenza romana” 196. A questa sua convinzione incrollabile si

affiancava l’idea anacronistica di un’identità nazionale in via di definizione nell’Italia del

tempo, che lo conduceva ad immaginare re nazionali come Arduino opposti a dominatori

tedeschi come Enrico II. Le Honorantie, in questa cornice interpretativa, sarebbero state la

dimostrazione della persistenza della “antica civiltà fondat[a] da Roma”197, e al contempo,

una delle prime avvisaglie di un montante spirito di indipendenza italiano dal giogo degli

imperatori stranieri.

A partire da Solmi si accese dunque un lungo dibattito sulla possibilità di utilizzare le

Honorantie come un documento che illuminava non solo alcuni aspetti della vita economica

nel X e XI secolo ma come un vero e proprio paradigma generale per affrontare lo studio di

epoche anche molto precedenti, almeno fino a quella longobarda. L’attenzione, in

quest’operazione, si concentrò specialmente sui paragrafi dal sette al tredici, che vertono

sull’organizzazione dei ministeria e delle arti. Si prestavano infatti più facilmente a

controversie interpretative rispetto ai paragrafi precedenti, dalla cronologia meno discutibile.

Si spiega dunque agevolmente la presa di posizione di Leicht, che inclina con decisione verso

la tesi della continuità, anche se in maniera più moderata di Solmi. Lo storico veneziano,

prestando particolare attenzione al linguaggio delle due fonti, accosta senza problemi le

Honorantie al Capitulare de villis198e sostiene con chiarezza “un’origine franca

dell’ordinamento descritto”199 nel documento pavese. Nella sua tesi gli Instituta

affonderebbero le loro radici nella riorganizzazione economica operata dai carolingi200 anche

se non sarebbe da escludersi qualche affinità con l’organizzazione in officia dei tempi

longobardi201. Monti, rifiutando un utilizzo disinvolto delle Honorantie per periodi storici

molto precedenti, si oppose alle teorie di Leicht, sottolineando come gli Instituta non

potessero essere usati per avvalorare ipotesi di continuità tra le arti. Volle poi rimarcare la

vicinanza del testo pavese “ad un istituto certamente barbarico quale la Regalia”202. Pose

l’accento su questo aspetto anche Mor, che vedeva le Honorantie come una fonte preziosa

“nel ristretto campo regalistico, come espressione di interessi statuali, e quindi

esclusivamente limitat[e] ad essi”203. Lo stesso Cinzio Violante partecipò al dibattito quando,

196

Ivi, pp. IX-X. 197

Ibidem 198

Pier Silverio Leicht, Corporazioni romane e arti medievali, Torino, Einaudi, 1937, p. 102. 199

Ibidem. 200

Ivi, pp. 100-103. 201

Ibidem. 202

G.M. Monti, op.cit., p. 176. 203

C.G. Mor, op.cit., p. 204.

Page 32: Spunti Per Una Rilettura Critica Delle Honorantie Civitatis Papie.

31

pur con motivazioni diverse, ripropose per i ministeria delle Honorantie una cronologia molto

antica, simile a quella individuata a suo tempo da Leicht. Il momento della loro nascita era

posto nella prima metà del IX secolo “per il fatto che in tale periodo erano più vive quelle

esigenze che le determinarono”204.

Queste dispute ovviamente non avevano niente a che fare con la datazione dell’opera ma

mostravano chiaramente i diversi atteggiamenti di fronte all’utilizzo di una fonte controversa

come le Honorantie. Alcuni, più ottimisticamente, la reputavano un testo d’importanza

straordinaria per illuminare l’ordinamento economico italiano tra VI e XI secolo; altri, più

diffidenti, ne ridimensionavano l’importanza o cercavano perlomeno di circoscriverne la

portata temporale.

Consapevoli di questi opposti posizionamenti della ricerca, Brühl e Violante tentarono di

specificare meglio il ruolo degli Instituta regalia e la loro rilevanza nel panorama

storiografico. Inizialmente si scagliarono contro le conclusioni semplicistiche della

storiografia precedente, che aveva cercato di spiegare le Honorantie appoggiandosi ad

argomentazioni rigidamente monocausali. La varietà di temi trattati nei diciotto paragrafi non

riusciva ad essere inquadrata da una teoria che cercasse di ricondurre i motivi redazionali e i

contenuti ad una sola chiave di lettura, quale che fosse205. Altrettanto inammissibile, dal punto

di vista metodologico, era lo sfruttamento degli Instituta come perno per investigare epoche

cronologiche lontane dal periodo a cavallo tra X e XI secolo206: i riferimenti ai longobardi, ai

carolingi o addirittura alla tarda antichità erano ritenuti irrimediabilmente fuorvianti.

Ammisero invece la possibilità di un proficuo confronto tra la maggior parte dei paragrafi

delle Honorantie e le determinazioni degli iura regalia contenute nel diploma di Federico I a

Roncaglia, seguendo la strada già tracciata da Monti207.Le affinità in merito, tra i due

documenti, sono in effetti notevoli208. Per quanto fosse attraente questa corrispondenza, Brühl

e Violante tuttavia si discostarono dalla posizione di Monti, che aveva adombrato

un’interpretazione degli Instituta come puro e semplice elenco di regalìe209.Nella loro analisi

infatti, il documento presentava certamente un buon numero di paragrafi nati forse come

memoratorium di iura regalia, ma in definitiva appariva come una raccolta eterogenea,

204

C. Violante, op.cit., p. 76. 205

C.Brühl e C.Violante, op.cit., p. 89. 206

Ibidem. 207

Cfr. supra, nota 202. 208

C.Brühl e C.Violante, op.cit., p. 89. In effetti a Roncaglia si parla, tra le altre, di ‘vie publice, flumina navigabilia, ripatica, vectigalia que vulgo dicuntur thelonea, monete, navium prestationes, argentarie, piscationum redditus’. Non è difficile un paragone con i paragrafi 1, 4, 5, 6, 7-8, 9, 10, 12 delle Honorantie. 209

G.M. Monti, op.cit., pp. 175-176.

Page 33: Spunti Per Una Rilettura Critica Delle Honorantie Civitatis Papie.

32

costituita anche da copie di contratti, concessioni di monopolio, entrate della camera regia e

addirittura da un caso particolare di diritto privato (§ 14), redatta in questa forma quasi

sicuramente da Gisulfus210.Le Honorantie erano dunque una fonte del tardo X secolo,

peculiare nel suo genere e difficilmente paragonabile ad altre. Era proprio questa sua

eccentricità rispetto al patrimonio documentale conosciuto, secondo Brühl e Violante, a

renderla un documento “sui generis” 211, assolutamente indispensabile e ricco di notizie

preziose per lo studio dell’amministrazione del regno italico tra primo e secondo millennio.

Una fonte unica, “non solo per l’Italia ma anche per tutto l’Occidente” 212.

210

C.Brühl e C.Violante, op.cit., p. 89. 211

Ibidem. 212

Ibidem.

Page 34: Spunti Per Una Rilettura Critica Delle Honorantie Civitatis Papie.

33

Rilievi critici per una riflessione sulle corporazioni altomedievali

2.1 Breve storia degli studi sulle associazioni professionali (VI-XI secolo)

L’interesse per le corporazioni in età altomedievale è stato intermittente tra gli storici. Per

guardare solo agli ultimi cent’anni circa si sono succeduti momenti di grande attenzione a

questo tema, seguiti da periodi di disinteresse conclamato. In definitiva si tratta di un ambito

di studi “tutt’altro che intentato ma soggetto, più di altri, ad alterne fortune”213.Non è

possibile dunque parlare di dimenticanza tout court per questo settore di ricerca, ma è

indubbio che gli studi sulle associazioni professionali siano scarsamente frequentati, talvolta

giudicati addirittura “banali, scontati, non fondamentali per una più approfondita conoscenza

della realtà medievale” 214.A rendere ancora meno attraente lo studio dell’organizzazione del

lavoro nell’alto medioevo concorre anche una documentazione, per questo periodo, molto

scarsa rispetto ai secoli seguenti215.Da ultimo gli orientamenti della storiografia

contemporanea si sono sempre più discostati da puntuali indagini sulle corporazioni, a favore

di altri indirizzi di studio, forse percependo le associazioni artigiane come “un tema […]

vecchio, noioso, vagamente folkloristico, fortemente datato […] [inadatto] a comprendere le

problematiche di punta della ricerca contemporanea” 216.

Se allo stato attuale l’interesse per questi argomenti è marginale, nel secolo passato si possono

individuare invece due grandi periodi di ricerche sulle corporazioni di mestieri tra VI e XI

secolo: una prima fase “a cavallo tra diciannovesimo e ventesimo secolo” 217, seguita da un

secondo ciclo, negli anni Trenta. Indiscussa prevalenza ebbero in questo campo di studi gli

storici del diritto, in entrambe le finestre temporali. Questa preminenza, se da un lato

contribuì a mantenere la storia delle associazioni professionali nell’orizzonte degli interessi

dei medievisti, tuttavia dall’altro condusse spesso il dibattito a fossilizzarsi sulla ricerca

dell’origine del fenomeno corporativo o di una continuità tra collegia tardo antichi e

corporazioni di età comunale, inaridendo altre possibilità di indagine218.

Una prima stagione di vivace interesse si aprì intorno al 1890, per concludersi a ridosso della

prima guerra mondiale. Pur diverse per impostazione metodologica, la maggioranza delle

213

Roberto Greci, Corporazioni e mondo del lavoro nell’Italia padana medievale, Bologna, CLUEB, 1988, p.8. 214

Ivi, p.7. 215

Idem, Le corporazioni. Associazioni di mestiere nell’Italia del Medioevo, in ‘Storia e Dossier’, 99, Firenze, Giunti, 1995, p. 72. 216

Idem, Un ambiguo patrimonio di studi, tra polemiche, inerzie e prospettive, in Corporazioni e mondo del lavoro nell’Italia padana medievale, a cura di Roberto Greci, Bologna, CLUEB, 1988, p.11. 217

S. Maggio, op.cit., p. 9. 218

R. Greci, Un ambiguo patrimonio di studi, tra polemiche, inerzie e prospettive, cit., p. 15.

Page 35: Spunti Per Una Rilettura Critica Delle Honorantie Civitatis Papie.

34

opere sull’argomento nasceva da “ragioni di natura extrascientifica e collegat[e] ad episodi

contemporanei di natura più propriamente politica”219.È chiaro infatti che il movimento di

organizzazione delle masse lavoratrici, consolidatosi in quegli anni con la nascita e il

proliferare di leghe operaie e federazioni di categoria fornisse un motivo più che sufficiente a

destare tra gli storici l’interesse per le corporazioni, anche altomedievali220.Sempre in questo

periodo, e precisamente nel 1891, venne promulgata da Leone XIII l’enciclica Rerum

Novarum, in cui pur non fornendo soluzioni nette e precise riguardo la natura delle

corporazioni da istituire, il Papa ne prospettava tuttavia la formazione, per risolvere i

problemi del mondo del lavoro. Ulteriori coincidenze cronologiche favorirono un rinnovato

interesse critico nei confronti dell’associazionismo medievale. Sempre nel 1891 infatti

Giovanni Vidari221 pubblicò il testo delle Honorantie civitatis Papie che, pur essendo una

fonte preziosa per lo studio del tema corporativo, durante questo primo ciclo di ricerche fu

però sostanzialmente ignorata, anche da storici di area pavese come Solmi. Due anni dopo

veniva pubblicata la prima edizione222 del “Libro dell’eparca”, il codice più importante per lo

studio delle corporazioni nell’Impero bizantino223.

Con un approccio specialistico e concentrato in maniera preponderante sulle origini del

fenomeno, furono soprattutto storici del diritto e dell’economia, in questo ventennio, ad

occuparsi di associazionismo medievale. Tra tutti, per quel che ci interessa in questo breve

resoconto naturalmente spicca Solmi, che già nel 1898224 si occupò del problema della

continuità tra le arti romane e altomedievali. Parallelamente, con interessi meno scientifici225

ma una grande attenzione all’istituto delle corporazioni medievali, anche il mondo cattolico si

interessò alla questione, piegando spesso l’indagine storica a “strumento di consenso” 226 per

fini politici e idealizzando l’oggetto di studio fino a farne “un modello positivo anche per il

presente” 227. Sulla Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie, sotto il

magistero di Giuseppe Toniolo, si concentrarono i contributi più rilevanti. Intorno al 1915

219

Ivi, p. 20. 220

S. Maggio, op.cit., pp. 10-12. 221

Cfr. nota 192. 222

Jules Nicole, Le livre du Préfet ou l’Edit de l’Empereur Leon le Sage sur les corporations de Costantinople, Genève, Georg & C., 1893. 223

Leonardo Daniele, Brevi note introduttive circa l’Eparcik’ n Biblion (“Libro dell’Eparca”) quale prodromo di un “Code du Commerce” nell’Impero Romano d’Oriente, in “Iura Orientalia, Rassegna online di Diritti Orientali Antichi e Moderni”, anno II, 2006, http://www.iuraorientalia.net/IO/IO_02_2006/II_01_daniele.pdf (ultima consultazione 18/08/2014), p.13. 224

Arrigo Solmi, Le associazioni in Italia avanti le origini del comune: saggio di storia economica e giuridica, Modena, Antica tipografia Soliani, 1898. 225

R. Greci, Un ambiguo patrimonio di studi, tra polemiche, inerzie e prospettive, cit., pp. 18-19. 226

Ibidem, p.19. 227

Ivi, p.16.

Page 36: Spunti Per Una Rilettura Critica Delle Honorantie Civitatis Papie.

35

andava scemando l’attenzione per le corporazioni altomedievali. Si era verificato sicuramente

nella comunità scientifica un “consolidamento di interesse” 228 per l’argomento, ma

l’abbandono repentino delle tematiche segnalava anche una scarsa efficacia delle ricerche

tentate fino ad allora nel chiarire la realtà economica e sociale dell’Età di mezzo. Quando

ormai già si stava spegnendo l’eco dei dibattiti sul corporativismo medievale, intervenne nel

1919 Ugo Monneret De Villard a fornire nuovi spunti di riflessione, con un saggio che già dal

titolo229 rifiutava una tesi esclusivamente curtense per l’economia altomedievale e garantiva

nuova linfa alla querelle sulla continuità o meno delle associazioni.

Dopo un decennio circa di oblio fu Solmi a rilanciare il discorso, con un intervento230 in cui

prendeva le distanze dall’impostazione dei suoi precedenti lavori. Ancor più che in passato,

questo secondo ciclo di studi rifioriva principalmente per interessi ideologici più che

strettamente scientifici. Le esperienze corporativiste fasciste sperimentate negli anni Trenta

favorirono, com’era prevedibile, una strumentalizzazione o quantomeno “una gonfiatura di

molti problemi”231. Le necessità politiche interne al fascismo privilegiarono poi

indubbiamente alcuni indirizzi di ricerca rispetto ad altri232. Sono gli stessi storici di quegli

anni a confermare quest’ipotesi, ammettendo che la rinnovata attenzione alle questioni

associative deriva da contingenze storiche recenti. È il caso, ad esempio, di Pier Silverio

Leicht che nella prefazione di un suo volume del 1937 dice: “L’importanza assunta, nei nostri

tempi, dalle unioni sindacali di datori e prenditori di lavoro […] ha richiamato vivamente

l’attenzione generale sui precedenti storici di tali istituti”233. In questi anni il dibattito sulle

corporazioni tornò al centro dell’attenzione dei medievisti e degli storici del diritto,

alimentato anche da accese dispute sulle Honorantie, ora considerate universalmente una

fonte di prima importanza per le questioni economiche dell’alto Medioevo, dopo la nuova

edizione curata da Solmi. Studiosi come Carli, Monti, Leicht, Arias e Solmi si distinsero su

questi argomenti di ricerca in quel periodo, dando vita ad accesi dibattiti che fatalmente

convergevano sempre sul problema dell’origine di tali istituti.

228

Ivi, p. 22. 229

Ugo Monneret De Villard, L’organizzazione industriale dell’Italia longobarda nell’alto medio evo, in “Archivio storico lombardo”, Milano, XLVI (1919), pp. 1-83. 230

Arrigo Solmi, Le corporazioni romane nelle città dell’Italia superiore nell’Alto Medioevo,in “Studi in onore di Pietro Bonfante nel quarantesimo anno d’insegnamento”, vol.IV, Milano, Treves, 1930, pp. 355-375. Questo breve saggio venne inserito, senza modifiche sostanziali, come capitolo VIII del successivo scritto di Solmi, L’amministrazione finanziaria del Regno italico nell’Alto Medio evo, cit. 231

R. Greci, Un ambiguo patrimonio di studi, tra polemiche, inerzie e prospettive, cit., p. 30. 232

Naturalmente il fascismo si schierava per una continuità delle corporazioni dal Basso Impero fino all’età comunale e inclinava verso un approfondimento del rapporto tra queste e l’entità statale. Cfr. R. Greci, Un ambiguo patrimonio di studi, tra polemiche, inerzie e prospettive, cit., pp. 29-31. 233

P.S. Leicht, Corporazioni romane e arti medievali, cit., p.9.

Page 37: Spunti Per Una Rilettura Critica Delle Honorantie Civitatis Papie.

36

Dopo la guerra la situazione mutò radicalmente. Il problema storiografico sulle associazioni

di lavoratori venne ritenuto troppo strettamente legato ai condizionamenti del regime e la

materia percepita come poco interessante. Si inquadra in questo contesto di rigetto il giudizio

di Gabriele Pepe sui medievisti della generazione precedente, definiti “piccolissimi uomini,

che gonfiarono un problema storiografico di una assai mediocre importanza”234. Non

mancarono mai del tutto, anche in quegli anni, contributi rilevanti per gli ambiti di studio che

qui ci interessano. Un nome che può essere ricordato, ad esempio, è quello di Lopez235, che si

occupò approfonditamente dell’associazione dei monetieri nel Medioevo, senza suscitare una

grande eco. Negli anni seguenti anche Cinzio Violante, tra gli altri, fu impegnato nello studio

delle associazioni di lavoratori. Tuttavia, escluse eccezioni tutto sommato sporadiche, il

discorso sulle corporazioni nei primi secoli del Medioevo cadde in un “profondo silenzio”236

che durò per almeno un trentennio. A partire dagli anni Settanta237 si è verificata una timida

riscoperta di questi temi, basata su approcci metodologici molto diversi rispetto a quanto era

avvenuto in passato. “Abbandonate le velleità teoriche” 238 e ridimensionata grandemente

l’importanza del dibattito tra sostenitori e avversatori della continuità tra mondo antico e

epoca medievale per quanto riguarda le associazioni di lavoratori, il tema venne trattato

sempre meno dagli storici del diritto e dell’economia, prestandosi ad indagini più

specialistiche e limitate nel tempo e nello spazio; emerse con chiarezza la natura molteplice

degli approcci possibili allo studio delle corporazioni, campo d’interesse di frontiera, dove

convergono molte e complesse questioni, certamente non soltanto quelle economiche o

giuridiche239. In questo rinnovato panorama240 procedono gli studi degli ultimi anni, con

particolare attenzione all’utilizzo di fonti non normative, alla ricerca di nuove chiavi di lettura

234

Così riportato in Luigi De Rosa, Vent’anni di storiografia economica italiana (1945-1965), in “La storiografia italiana negli ultimi vent’anni”, atti del I Congresso nazionale di scienze storiche, Perugia, (9-13 Ottobre 1967), Milano, 1970, p.878. 235

Roberto Sabatino Lopez, Continuità e adattamento nel medio evo: Un millennio di storia delle associazioni di monetieri nell’Europa meridionale, in “Studi in onore di Gino Luzzatto”, vol.I Milano, Giuffrè, 1949-1950. 236

Antonio Ivan Pini, Città, comuni e corporazioni nel Medioevo italiano, Bologna, CLUEB, 1986, p.226. 237

Indicativi di una rinnovata attenzione verso questi indirizzi di ricerca a partire dagli anni Settanta sono ad esempio gli atti della XVIII Settimana di studio del CISAM, Artigianato e tecnica nella società dell’alto medioevo occidentale, cit., pubblicati nel 1971. Appartengono a questi atti i due saggi sulle corporazioni, di Mor e Cracco Ruggini, già citati in precedenza. 238

R. Greci, Un ambiguo patrimonio di studi, tra polemiche, inerzie e prospettive, in Corporazioni e mondo del lavoro nell’Italia padana medievale, cit., p. 36. 239

In merito a queste considerazioni cfr. Ivi, pp. 36-38. 240

Per una breve bibliografia aggiornata degli studi sull’associazionismo medievale, anche in epoca comunale, cfr. Denise Bezzina, Organizzazione corporativa e artigiani nell’Italia medievale, in “Reti Medievali Rivista”, anno 14, numero 1, (2013), consultabile online (ultima consultazione 2/9/2014), all’indirizzo http://www.rmojs.unina.it/index.php/rm/article/view/391/515.

Page 38: Spunti Per Una Rilettura Critica Delle Honorantie Civitatis Papie.

37

ormai completamente svincolate da vecchie ideologie storiografiche, e allo stretto

collegamento del tema con la storia politica e urbana medievale241.

2.2 Officia e ministeria nelle Honorantie civitatis Papie

Nella grande eterogeneità delle Honorantie civitatis Papie è possibile individuare con buona

approssimazione alcuni nuclei tematici, relativamente coesi e coerenti. I paragrafi dal sette al

tredici242 forniscono un esempio chiaro a riguardo, dal momento che vertono tutti, a vario

titolo, sull’organizzazione dei ministeria, parola che si incontra molto di frequente nel testo

della fonte e perfino nell’intitulatio243.Sembra evidente che con questa espressione nel

documento vengano designate delle associazioni di lavoratori impegnati in attività artigianali

o ad esse affini. Infatti, lasciando da parte il particolare caso dei monetieri pavesi e milanesi, il

testo elenca successivamente collegia di raccoglitori di pagliuzze d’oro, pescatori, conciatori

di pelli, barcaioli e fabbricanti di sapone. Al vertice di alcuni ministeria stanno uno o più

uomini, responsabili dell’attività artigianale e della supervisione sul lavoro e sui lavoratori,

chiamati magistri. Ben nove sono a capo dei monetieri pavesi, quattro per quelli milanesi, due

per i barcaioli, uno per i pescatori, nessuno invece per i cercatori d’oro, i cuoiai e i saponai.

Tutti i ministeria sono poi accomunati ulteriormente dall’obbligo di un versamento, in denaro

o in natura, alla camera regia di Pavia. Questo tributo giustifica la possibilità degli iscritti

all’associazione di esercitare la professione in regime di monopolio244. Definito già da Solmi

“una delle parti di maggior rilievo del testo”245, questo breve elenco di associazioni di

mestiere ha dato vita, specialmente negli anni Trenta, a un vivace dibattito. Numerose furono

le domande a cui si cercò di dare risposta, utilizzando i paragrafi dal sette al tredici delle

Honorantie civitatis Papie come fondamentale punto d’appoggio a sostegno di molteplici

teorie. Si provò a comprendere perché fossero enumerate proprio queste associazioni e non

altre, quali caratteristiche e finalità avessero all’interno del panorama economico di fine X

secolo e le possibili affinità con esperienze corporative di età comunale oppure con altre ad

esse contemporanee ma distanti geograficamente.

241

Cfr. R. Greci, Un ambiguo patrimonio di studi, tra polemiche, inerzie e prospettive, cit., pp. 40-43. 242

Questa partizione per nuclei tematici appartiene a C. Brühl e C. Violante, op.cit. 243

Cfr. nota 123. 244

C. Violante, La società milanese nell’età precomunale, cit., p. 67. 245

A. Solmi, L’amministrazione finanziaria del Regno Italico nell’Alto Medioevo, cit., p. 139.

Page 39: Spunti Per Una Rilettura Critica Delle Honorantie Civitatis Papie.

38

Solmi riteneva che i ministeria nominati nelle Honorantie avessero resistito alla caduta

dell’Impero romano. Il motivo di questa sopravvivenza era dovuto principalmente alla loro

utilità per la vita materiale quotidiana della città e alla loro importanza per la fiscalità della

capitale del Regno246. Correggendo il tiro rispetto ai suoi primi lavori247, lo storico pavese

rivalutava, dopo un’attenta riflessione sul significato delle Honorantie, anche “il sistema

dell’economia urbana, rimasto saldo in Italia”248, nettamente distinto dal sistema curtense.

Sullo sfondo di questo ragionamento c’era sempre la ferma convinzione di Solmi, che

postulava uno strettissimo legame tra l’autorità pubblica cittadina e l’ordinamento dei corpora

di artigiani e lavoratori. Lo storico del diritto non trascurava di riconoscere che anche la

posizione di preminenza politica ed economica di Pavia nei secoli precedenti aveva potuto

avere un peso nella conservazione di tali associazioni di mestieri, bruscamente scomparse,

forse, in altre città del Nord Italia che erano state sottoposte al dominio longobardo249. Il ruolo

di capitale del regno e di importante centro economico e commerciale che Pavia ricopriva

avrebbe reso possibile la preservazione di associazioni corporative.

Regime di monopolio per le arti di pubblica utilità, notevoli “diritti di intervento statale” 250,

completa dipendenza dei mestieri al fisco regio e nomina diretta dei magistri a capo dell’arte

da parte di “rappresentanti dello Stato”251 erano le caratteristiche comuni al sistema

corporativo descritto nelle Honorantie secondo Solmi. L’organizzazione dei ministeria pavesi

a cavallo tra X e XI secolo era avvicinata senza troppe titubanze a quella tratteggiata, nel

“Libro dell’eparca”, per l’Impero Bizantino252. Pur non esprimendosi in maniera definitiva su

questo argomento, sembra che Solmi riconosca alle associazioni descritte negli Instituta una

componente notevole di libertà, per quanto riguarda il diritto ad associarsi da parte degli

artigiani che ne fanno parte e alla loro stessa organizzazione interna253. Rifacendosi poi agli

studi di Monneret De Villard254, Solmi vedeva nell’officina altomedievale il vero trait

d’union tra i collegia del basso Impero e quelli che si sviluppano nei secoli dopo la calata dei

longobardi. Sarebbe stato infatti nell’officina, a suo dire, che il patrimonio di conoscenze

artigiane e le regole dell’arte furono tramandate, fino a favorire un rinnovato spirito

246

Ivi, p. 145. 247

Cfr. soprattutto A. Solmi, Le associazioni in Italia avanti le origini del comune: saggio di storia economica e giuridica, cit. 248

A. Solmi, L’amministrazione finanziaria del Regno Italico nell’Alto Medioevo, cit., p. 147. 249

Ivi, pp. 147-149. 250

Ivi, p. 154. 251

Ivi p. 157. 252

Ibidem. 253

Cfr. Ivi, pp.163-164. A p. 164 si parla chiaramente di ‘organizzazione libera dei mestieri’. 254

U. Monneret De Villard, L’organizzazione industriale dell’Italia longobarda nell’alto medio evo, cit.

Page 40: Spunti Per Una Rilettura Critica Delle Honorantie Civitatis Papie.

39

improntato all’associazionismo255.

Monti avversò con chiarezza le conclusioni di Solmi; riteneva che non fosse convincente

spiegare la menzione di quelle specifiche arti negli Instituta affermando che si trattasse dei

ministeria più indispensabili alla vita materiale e al sostentamento della città. Come faceva

notare, nell’elenco delle Honorantie mancavano del resto mestieri fondamentali come quello

del panettiere, del beccaio o del muratore mentre compariva l’associazione di lavatores auri,

difficilmente considerabile di pubblica utilità256. Non erano stati dunque i bisogni cittadini a

determinare la preservazione di tali corporazioni ma “la loro relazione con i diritti statali, o,

meglio, con le regalie” 257. Quelli nominati negli Instituta sarebbero quindi artigiani addetti a

professioni in regime di monopolio regio, non importa se socialmente o economicamente

necessarie alla vita della città. Il loro stretto legame con il palatium era dettato da motivi

puramente giuridici; secondo Monti erano infatti assimilabili quasi a “officiali regi”258 che

avevano ricevuto in concessione l’esercizio di alcune specifiche regalìe. Viste queste

premesse, secondo lo storico del diritto tutti gli artigiani che ne facevano parte erano di

condizione libera; seccamente negata era invece l’ereditarietà generazionale, trasmessa di

padre in figlio, per quanto riguarda l’obbligo di appartenenza all’associazione di lavoratori.

Dati questi presupposti, le conclusioni che Monti traeva dai paragrafi in questione erano

improntate a grande prudenza nell’interpretare con troppa disinvoltura l’organizzazione dei

mestieri che traspariva dalle Honorantie. L’elenco dei ministeria ivi contenuto era da

considerare come un caso particolare e specifico di regolamentazione di “organizzazioni

speciali statali monopolistiche” 259. Non si poteva assolutamente utilizzare la nostra fonte per

chiarirsi le idee sulla composizione delle arti di fine X secolo, né si poteva affermare che vi si

parlasse di vere e proprie corporazioni260.

Di diversa opinione si mostrò Pier Silverio Leicht, che nel corso dei suoi studi tornò spesso ad

affrontare il problema dei ministeria presenti nelle Honorantie. Partendo da un riscontro

linguistico egli notava infatti una profonda somiglianza nel modo in cui venivano denominate

le associazioni di lavoratori negli Instituta e nei territori d’oltralpe, specialmente in Francia

settentrionale e nella valle del Reno261; ricorreva anche qui di frequente il termine

ministerium, onnipresente nelle Honorantie. Nonostante questa coincidenza terminologica

255

A. Solmi, L’amministrazione finanziaria del Regno Italico nell’Alto Medioevo, cit., p. 164. 256

G. M. Monti, Le corporazioni nell’evo antico e nell’ alto medioevo, cit., pp. 173-174. 257

Ibidem, p. 174. 258

Ivi, p. 176. 259

Ivi, p. 177. 260

Ibidem. 261

P.S. Leicht, Corporazioni romane e arti medievali, cit., p. 96.

Page 41: Spunti Per Una Rilettura Critica Delle Honorantie Civitatis Papie.

40

però, tra le due aree geografiche, nell’utilizzo di questa espressione non c’era

contemporaneità cronologica, dal momento che le attestazioni più antiche di officia e

ministeria oltralpe erano posteriori di almeno un secolo rispetto alla cronologia comunemente

accettata per la prima stesura degli Instituta pavesi (seconda metà del X secolo)262. Reputando

tuttavia questa sfasatura temporale addebitabile semplicemente ad una carenza documentale,

Leicht portò alle estreme conclusioni queste deduzioni, arrivando ad affermare che

l’ordinamento delle arti descritto nelle Honorantie, avvicinabile a quello dei territori

dell’Europa settentrionale, doveva essere nato in un periodo in cui tutti quei territori erano

ancora uniti politicamente: precisamente nell’ultima età carolingia, alla fine del IX secolo263.

Era dunque stata una riforma imperiale ad istituire tali corporazioni, sotto la chiara influenza

bizantina264 e rielaborando forse precedenti esperienze longobarde in pianura padana265.

Questa netta presa di posizione lo conduceva sino a negare ogni patente di eccezionalità

all’organizzazione professionale contenuta nelle Honorantie. L’elenco di arti dei paragrafi dal

sette al tredici sarebbe stato comune in molte altre città franche del tempo266 e anche

nell’Italia settentrionale (Parma, Reggio, Verona, successivamente Bologna)267. Per Leicht gli

Instituta non ricordavano tutti i ministeria presenti nella capitale del regno ma solo alcuni,

visto che indubbiamente il loro numero complessivo era molto superiore. Quelli menzionati

nel memoratorium pavese sarebbero solamente i collegia più strettamente legati, dal punto di

vista finanziario, alla camera regia, mentre “molti altri stavano alle dipendenze d’altra

autorità”268.

Cinzio Violante inserì le sue riflessioni sui ministeria pavesi all’interno di una ricostruzione

storico-economica ambiziosa, che mirava a correggere la negativa communis opinio sulla

presenza e vivacità dei commerci alla fine dell’alto Medioevo. Lo storico pugliese delineava,

per il X e XI secolo, un costante sforzo di riorganizzazione delle professioni artigiane e dei

commercianti e un loro raccogliersi intorno al palatium, al fine di meglio garantire la

continuità dei traffici e l’approvvigionamento urbano in un periodo di grandi cambiamenti269.

262

Ibidem. 263

Ibidem. 264

Pier Silverio Leicht, Ricerche sulle corporazioni professionali in Italia dal secolo V all’ XI, in Pier Silverio Leicht “Scritti vari di storia del diritto italiano”, vol. I, Milano, Giuffrè, 1943-1948, p. 370. 265

Ivi, pp. 370-371. 266

Pier Silverio Leicht, Operai, artigiani, agricoltori in Italia dal secolo VI al XVI, Milano, Giuffrè, 1959, pp. 48-49. 267

Idem, Ricerche sulle corporazioni professionali in Italia dal secolo V all’ XI, cit., pp. 372-373. A p. 373 si legge ‘Misteria cioè ministeria si trovano ugualmente a Parma, a Reggio, a Verona e tutto ci fa credere che si tratti di ricordi della stessa organizzazione’. 268

Ivi, p. 375. 269

Il riferimento naturalmente è a C. Violante, La società milanese nell’età precomunale, cit., pp. 61-87.

Page 42: Spunti Per Una Rilettura Critica Delle Honorantie Civitatis Papie.

41

Le associazioni di mestieri descritte negli Instituta sarebbero state dunque una risposta

innovativa e originale a gravi problemi organizzativi del momento. In base al genere di

ministeria trattati nelle Honorantie, supponeva che fossero deputati “unicamente a

provvedere alla vita del Palatium”270, mentre un rifornimento più capillare veniva forse

garantito da mercanti locali. Criticando le rigide posizioni degli storici del diritto in merito,

Violante sottolineava con decisione la sparizione di obblighi di diritto pubblico nei confronti

dello stato, nell’ambito delle organizzazioni di lavoratori di X e XI secolo; tali associazioni

sarebbero invece imperniate “su un’adesione volontaria, su un libero contratto personale, sul

vincolo del giuramento” 271. In questo contesto la protezione regia o di un signore veniva

ricercata volontariamente e percepita come un necessario sostegno all’attività artigianale, in

un frangente di crisi e riorganizzazione sociale ed economica. Pur diretti e organizzati dalla

camera regia i ministeria pavesi rappresentano, in quest’ottica, l’incontro di due esigenze, una

dal basso e una dall’alto: protezione per gli artigiani e un costante approvvigionamento per la

corte regia272.

Affrontando nuovamente lo studio delle Honorantie qualche anno dopo, in un’opera a quattro

mani con Brühl, Violante mutò posizione sul problema delle funzioni e del ruolo delle

associazioni pavesi. Dopo aver sostenuto infatti che l’obiettivo di tali corporazioni fosse

rivolto principalmente a provvedere al rifornimento della corte regia273, rigettò questa

convinzione. Sembrava infatti impossibile che nell’elenco degli Instituta, se davvero i

ministeria citati sono accomunati dal fatto di essere indispensabili all’approvvigionamento del

palatium, mancassero accenni a professioni come il maniscalco, il panettiere o il macellaio,

indubbiamente rilevanti per la vita della corte274. I due storici inclinavano invece con

decisione per la tesi di Monti sulle regalìe, pur non sposandola in toto. Era certamente

proponibile un confronto proficuo tra le professioni ricordate dalla nostra fonte e il diploma di

Federico I a Roncaglia nel 1158: molte coincidenze terminologiche275 testimoniavano a

favore di questo parallelismo. Non erano però riducibili a questo paragone i paragrafi undici e

tredici, che trattano dei conciatori di pelli e dei saponai; entrambe queste attività non

compaiono infatti nel documento del XII secolo e ogni tentativo di ricondurle all’ambito del

diritto regalistico sembra una forzatura evidente276.

270

Ivi, p. 69. 271

Ivi, p. 73. 272

Ivi, p. 76. 273

Vedi supra, nota 269. 274

C. Brühl e C. Violante, op.cit., p. 88. 275

Ivi, p. 89. 276

Ibidem.

Page 43: Spunti Per Una Rilettura Critica Delle Honorantie Civitatis Papie.

42

Una breve riflessione a parte meritano i negotiatores, commercianti pavesi che non paiono

rientrare a pieno titolo tra le associazioni professionali qui trattate, anche se la ricerca è stata a

lungo in dubbio se considerarli alla stregua di un ministerium, almeno nell’organizzazione se

non formalmente. La mancanza di un versamento in denaro o natura alla camera regia, la

difformità del paragrafo rispetto a quelli seguenti, la brevità e oscurità del passo in questione

rendono difficile schierarsi per una posizione o per l’altra. Solmi tuttavia non nutre troppi

dubbi a riguardo, interpretando estensivamente il significato di “praeceptum” 277 che compare

al paragrafo sei e accettando alla lettera l’espressione “magistri negotiatorum” 278 come

testimonianze di un regime di monopolio vigente e di un’organizzazione strutturata di

commercianti279. Monti da parte sua non annoverava i commercianti pavesi tra le corporazioni

ma li riteneva uomini liberi, senza vincoli associativi 280. Leicht torna invece a parlare di

associazioni di mercanti, accostandole senza dubbio agli altri mestieri nella sua

interpretazione delle Honorantie281. Lo stesso Violante, nella sua opera più famosa, considera

i negotiatores degli Instituta un ministerium come gli altri282, salvo poi manifestarsi scettico

nell’edizione delle Honorantie curata con Bruhl, al punto di proporre i paragrafi dal sette al

tredici (escludendo di fatto i negotiatores del §6) come un nucleo tematico unitario e

imperniato sui ministeria. Qui si è preferito non inserire i mercanti nel novero delle

corporazioni, ritenendo piuttosto che la posizione dei negotiatores descritta nelle Honorantie

sia del tutto eccezionale, imputabile forse alla presenza della corte e della camera regia nella

città di Pavia, e che dunque non rispecchi un’associazione strutturata283.

277

Cfr. Honorantie §6. Per l’interpretazione di ‘praeceptum’ vedi nota 48. 278

Ibidem. 279

A. Solmi, L’amministrazione finanziaria del Regno Italico nell’Alto Medioevo, cit., pp. 91-109. 280

G. M. Monti, Le corporazioni nell’evo antico e nell’ alto medioevo, cit., p. 184. 281

Cfr. ad esempio P. S. Leicht, Operai, artigiani, agricoltori in Italia dal secolo VI al XVI, cit., p. 48 in cui parlando dei ministeria pavesi il primo ad essere nominato è proprio quello dei mercanti. 282

C. Violante, op.cit., pp. 67-70. 283

Si tratta della posizione già sostenuta da Ivan Antonio Pini, op.cit., p. 242. Pini ricorda anche che non risultano per l’alto Medioevo altre attestazioni di ministeria di mercanti nelle altre città italiane.

Page 44: Spunti Per Una Rilettura Critica Delle Honorantie Civitatis Papie.

43

2.3 Il problema della continuità

Le Honorantie civitatis Papie furono largamente studiate soprattutto negli anni Trenta del

secolo scorso, come una fonte decisiva all’interno di un dibattito che, in quegli anni, teneva la

scena storiografica come uno dei più rilevanti: la discussione sulla continuità o meno delle

associazioni professionali di lavoratori, dall’età basso imperiale sino al sorgere delle

corporazioni comunali284. Argomento principe all’interno del dibattito tra storici del diritto

con interessi rivolti al Medioevo, il problema della continuità divideva i medievisti dell’epoca

tra sostenitori di un sostanziale procrastinarsi delle istituzioni romane fino almeno all’XI

secolo e convinti assertori di una irriducibilità delle esperienze associative altomedievali a

quelle dei collegia di IV e V secolo. I paragrafi degli Instituta che vertono sui ministeria, in

questo contesto, vennero spesso usati come testimonianza decisiva, a favore di una o dell’altra

posizione.

Ancora una volta fu Solmi ad inserire la fonte delle Honorantie compiutamente all’interno del

dibattito sulla continuità. Precedentemente lo storico pavese aveva già trattato la questione,

ipotizzando che una continuazione delle antiche forme associative tardoromane in Italia fosse

ammissibile solo per i territori sotto il controllo dei bizantini, ma non in quelli longobardi,

sconvolti dalle invasioni285. Ora, pubblicando l’edizione delle Honorantie, la sua opinione

mutava. Questa inversione di rotta appare evidente quando si legge che “La nuova

testimonianza delle Honorantie pavesi viene […] a dimostrare che quella persistenza dei

vincoli corporativi delle arti […] si trova anche nelle città sottoposte al dominio longobardo

e costituisce uno dei legati principali dell’antica organizzazione romana delle città, rimasta

salda”286. Proseguendo nella sua analisi, Solmi riscontrava nell’organizzazione dei ministeria

pavesi dei principi giuridici conformi a quelli del diritto romano che prevedevano un

complesso di privilegi (honor) e una serie di doveri (officium) per gli appartenenti alle

associazioni287. Nonostante queste premesse però, la posizione di Solmi sulla vexata quaestio

della continuità non può essere considerata un’ingenua adesione alla teoria dell’assoluta

conservazione degli istituti romani fino all’XI secolo e oltre. Con un’oscillazione evidente

infatti lo storico pavese, nelle stesse pagine in cui sembrava sposare in pieno la tesi

continuista, allo stesso tempo la rifiutava288. Ricordava il vincolo coattivo proprio delle

284

Vedi supra gli accenni ripetuti al paragrafo 2.1 285

A. Solmi, Le associazioni in Italia avanti le origini del Comune, cit., p.112 e segg. 286

Idem, L’amministrazione finanziaria del Regno italico nell’alto medioevo, cit., p. 147. 287

Ivi, p. 161. 288

Ibidem. Vedi anche ivi pp. 161-162 dove Solmi afferma ‘bisogna guardarsi dal concludere […] con un’affermazione generica, che sarebbe ingiustificata, sulla continuità della corporazione romana nell’alto

Page 45: Spunti Per Una Rilettura Critica Delle Honorantie Civitatis Papie.

44

corporazioni tardo antiche, assente nei ministeria pavesi e la difficile situazione delle città

italiane nel VI e VII secolo, che aveva forse condotto a una sparizione della maggior parte

degli antichi legami corporativi289. Sottolineava, in maniera contraddittoria, le profonde

trasformazioni economiche e sociali di quel periodo e la decadenza delle antiche

corporazioni290. In definitiva, anche se appare evidente che la scoperta delle Honorantie abbia

influenzato le convinzioni di Solmi, spingendolo verso l’adozione di una prospettiva

continuista, rimase sempre presente nei suoi studi sull’argomento una resistenza ad accettare

completamente questa tesi, un dissidio interno che lo condusse fino a tenere una posizione del

tutto ondivaga a riguardo291.

Ben più coerente fu la linea tenuta da Monti che, richiamandosi esplicitamente agli studi di

Gioacchino Volpe292, negava con decisione ogni possibilità di un paragone tra i collegia

tardoantichi e le forme associative altomedievali che si riscontravano nelle Honorantie. La

documentazione era infatti ritenuta “non convincente” 293 da Monti, che reputava fuorviante

anche l’insistito richiamo, soprattutto da parte di Leicht, al famoso Edictum pistense294

dell’864, come primo esperimento organizzativo delle arti nelle modalità che si ritrovano poi

negli Instituta295. Constatando la scarsità delle fonti per il periodo altomedievale su questo

argomento, giudicava infatti più saggio astenersi da ipotesi pur “seducent[i] e

notevolissim[e]”296 ma non suffragate da precisi riscontri documentali. Era chiaro poi, anche

ad uno sguardo sommario, che le professioni annoverate tra i ministeria pavesi non

corrispondevano a quelle più frequenti tra i collegia del basso impero; in secondo luogo il

carattere distintivo degli artigiani nelle Honorantie è la loro condizione di uomini liberi, che

volontariamente aderiscono alla corporazione, dato che contrasta nettamente con

l’ordinamento coattivo di età romana. Monti, allo stesso modo, si rifiutava di considerare

medio evo, e sul vincolo diretto e immediato fra corporazione romana e le istituzioni corporative dell’età comunale’. 289

Ivi, p. 163. 290

Ibidem. 291

Tutto il capitolo VIII dell’Amministrazione finanziaria del regno italico nell’Alto medioevo, cit., si regge su una costante oscillazione tra le due posizioni, semplicemente giustapposte una all’altra. 292

Il riferimento più frequente è a Gioacchino Volpe, Medio Evo italiano, Firenze, Vallecchi, 1923. 293

G.M. Monti, Le corporazioni nell’evo antico e nell’ alto medioevo, cit., p.172. 294

Monumenta Germaniae Historica, Capitularia regnum Francorum, II, n. 273, p. 310. Consultabile online all’indirizzo http://www.dmgh.de/de/fs1/object/display/bsb00000821_00346.html? sortIndex=020%3A030%3 A0002%3A010%3A00%3A00&contextSort=sortKey&contextType=scan&contextOrder=descending&context=pistense 295

Il richiamo all’Edictum Pistense poteva sembrare pertinente soltanto nell’impalcatura teorica di Leicht, che considerava strettamente legati i destini dei ministeria di area francese e quelli dell’Italia settentrionale. Mor, op.cit., p. 200 sottolinea come in realtà la validità di questo capitolare non sia in alcun modo estendibile anche ai territori padani. 296

G.M. Monti, Le corporazioni nell’evo antico e nell’ alto medioevo, cit., p. 180. Il riferimento è alla tesi continuista di Leicht.

Page 46: Spunti Per Una Rilettura Critica Delle Honorantie Civitatis Papie.

45

l’organizzazione corporativa delle arti nei Comuni dell’Italia settentrionale come una

filiazione diretta delle associazioni professionali presenti nei documenti dei secoli precedenti.

Solo la rinnovata centralità dei poli urbani e il fiorire dell’artigianato cittadino avrebbero

posto le basi per la nascita di vere e proprie corporazioni297, libere da vincoli regalistici,

pienamente autonome, volte a tutelare gli interessi professionali e a disciplinare la

produzione298. I precedenti altomedievali non potevano in alcun modo ergersi a credibili

precursori delle associazioni che nascono in Italia settentrionale a partire dal XII secolo. In

quest’ottica i ministeria di Pavia non potevano dirsi nemmeno corporazioni a pieno titolo:

erano solamente associazioni di artigiani esercenti un monopolio statale, forse organizzati in

consorzi dal carattere stabile299.

Grande fortuna ebbe la posizione di Leicht sul problema della continuità, tanto che, almeno

fino agli anni Ottanta300 del secolo scorso, poteva essere considerata a buon titolo come

l’impostazione più largamente accettata tra chi si occupava di tali questioni. Tentando di

conciliare gli opposti schieramenti della ricerca, lo storico veneziano si proponeva come

sostenitore di una sorta di “continuità nella trasformazione” 301. Inizialmente operava una

distinzione tra la situazione dei collegia nei territori italiani sotto il controllo bizantino e in

quelli che erano stati conquistati dai longobardi. Nei primi la tradizione corporativa si era

mantenuta, pur con alcune variazioni di rilievo rispetto alla norma bassoimperiale; in

particolare sarebbe cessata “l’ereditarietà, e almeno in parte, il vincolo dei beni” 302 a

testimonianza di un legame meno rigido con le istituzioni statali. In questa ricostruzione un

ruolo importante giocavano due testimonianze in particolare, decisive secondo Leicht per

confermare la teoria di una continuità di fondo: la lettera303 del 599 di Gregorio Magno sull’

ars dei saponai di Napoli e la cosiddetta Summa Perusina304. Per questi territori non era

possibile dunque per Leicht dubitare che il sistema romano fosse continuato, pur con qualche

attenuazione, almeno fino all’ottavo secolo305. Nell’area di influenza longobarda si era avuta

297

Ivi, pp. 183-185. Si legge infatti alle pagine 184-185 ‘in Italia è solo nel XII secolo che nei Comuni italiani da poco sorti […] si ebbero le Corporazioni’. 298

Ivi, p. 211. 299

Ivi, p. 198. 300

Cfr. in proposito l’opinione sulla duratura fortuna critica della tesi di Leicht, espressa da Ivan Antonio Pini in Città, comuni e corporazioni nel Medioevo italiano, cit., p. 226. 301

Ivi, p. 225. 302

P. S. Leicht, Corporazioni romane e arti medievali, cit., p. 70. 303

Monumenta Germaniae Historica, Epistulae, Gregorii I Papae Registrum epistolarum, liber IX, pp. 118-119, online http://www.dmgh.de/de/fs1/object/display/bsb00000536_00162.html?sortIndex= 040%3A010% 3A0002 %3A010%3A00%3A00 304

Federico Patetta, Adnotationes Codicum domini Justiniani, in “Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano”, XII, Roma, Pasqualucci, 1900. 305

P. S. Leicht, Corporazioni romane e arti medievali, cit., p. 82.

Page 47: Spunti Per Una Rilettura Critica Delle Honorantie Civitatis Papie.

46

invece una decadenza degli istituti romani, messi in crisi dallo sconvolgimento delle invasioni

e dal ridimensionamento dei poli urbani; tuttavia questi ultimi avevano conservato una quota

di lavoratori liberi e indipendenti che continuarono a mantenere una rilevanza significativa, al

punto di sconfessare ogni tentativo di spiegazione esclusivamente curtense per l’economia di

area padana in quei secoli306. L’azione riformatrice dei sovrani carolingi avrebbe in seguito

restaurato le associazioni secondo il modello che si incontra ad esempio nelle Honorantie

civitatis Papie. L’ispirazione sarebbe giunta forse dall’organizzazione bizantina oppure da

non meglio identificati precedenti officia longobardi, che a loro volta forse costituivano un

pallido richiamo dei collegia romani307. Questa convinta difesa della continuità era estesa

anche al rapporto, che Leicht considerava molto stretto, tra le corporazioni di epoca comunale

e i ministeria altomedievali308. La maggioranza delle arti che si incontrano nei comuni italiani

nel XII e XIII secolo, secondo lo storico del diritto, sarebbe una diretta evoluzione delle

forme associative di epoca precedente, nonostante col passare del tempo il vincolo con

l’autorità pubblica sia andato affievolendosi309. Il variare di scopi, finalità e attribuzioni non

inficiava la sostanziale organicità di questa evoluzione, che non poteva essere messa in

dubbio310. Solo in determinati frangenti, con uno sviluppo diverso città per città, Leicht

ammetteva l’originale fondazione di corporazioni nuove, sorte accanto alle trasformazioni

degli antichi ministeria. “Nel periodo di gravi disordini che segna […] il tramonto del potere

del conte o del vescovo” 311 si aprirono infatti gli spiragli per infrangere i privilegi di

monopolio e di dipendenza dall’autorità pubblica, consentendo lo sviluppo di esperienze

corporative fortemente innovative e svincolate da quelle tradizionali.

Atteggiamento molto diffidente nei confronti di questa diffusa “communis opinio”312 della

ricerca manifestarono Brühl e Violante. Mostrandosi nettamente avversi ad ogni teoria che

puntasse a sottolineare gli elementi di continuità tra le associazioni di artigiani in ambito

altomedievale, difesero accanitamente l’eccentricità delle Honorantie civitatis Papie rispetto

alle fonti coeve313. Sottolinearono l’assoluta peculiarità dei diciotto paragrafi degli Instituta,

cercando di screditare la tendenza a fare della fonte un riferimento paradigmatico e

universalmente valido per chiunque trattasse questioni economiche e sociali per i secoli

306

Ivi, pp. 91-94. 307

Ivi, pp. 96-102. 308

Per l’esame di questo problema cfr. ivi, pp. 109-120. 309

Ibidem, p. 117. 310

Ibidem. 311

Ivi, p. 129. 312

C. Brühl e C. Violante, op.cit., p. 87. 313

Cfr. Ivi, p. 89.

Page 48: Spunti Per Una Rilettura Critica Delle Honorantie Civitatis Papie.

47

centrali del medioevo in Italia. Così facendo negavano la liceità di ogni possibile confronto

con le corporazioni di altre epoche, precedenti o anteriori al X secolo, privilegiando un’analisi

puntuale e circostanziata. Di fatto evitavano di entrare pienamente nel dibattito tra continuisti

e negatori della continuità poiché ritenevano prioritario porre l’accento sulle particolari

caratteristiche del documento e sulla sua intrinseca complessità, altrimenti impoverita dalle

logiche di un dibattito così impostato314.

Riprendendo molte conclusioni di Leicht, Ivan Antonio Pini cercò di fornire nuove prove a

sostegno di una possibile storia della continuità delle associazioni corporative tra VI e XI

secolo. La tesi fondamentale al centro della sua ricerca traspare chiaramente dalle sue stesse

parole quando dichiara di voler “dimostrare come certe professioni legate alla stessa

esistenza della città […] non siano mai state abbandonate a loro stesse dal potere pubblico,

ma abbiano subito un costante controllo, cosa che fa presupporre, per l’età altomedievale,

anche una qualche forma associativa gravata in quanto tale di ben precisi obblighi pubblici

[…] [come] quello dell’esercizio del mestiere in regime di monopolio” 315. Le professioni a cui

si riferiva erano essenzialmente quelle dedicate all’annona cittadina, corporazioni che dall’età

di Costantino in poi, fanno quasi parte della burocrazia statale, visto lo stretto controllo

esercitato su di loro316. Portando fino alle estreme conseguenze le osservazioni di Leicht sui

ministeria, Pini si spingeva a supporre che in età longobarda vi fosse stata una continuità

diretta317 con i collegia romani, che avrebbe costituito il trait d’union tra le esperienze

bassoimperiali e le arti comunali, sorte quando ormai il sistema di ministeria e officia andava

sfaldandosi nell’XI secolo. Le Honorantie fornivano inoltre a Pini lo spunto per proporre

un’interpretazione innovativa di tale ordinamento: officia sarebbero state tutte le corporazioni

di addetti al vettovagliamento della città, (sostanzialmente assenti nel documento pavese,

come avevano già segnalato gli avversatori della continuità); ministeria invece

esclusivamente le associazioni che avevano attinenza con le regalìe e dipendevano dalla

camera regia318. In qualunque modo fosse effettivamente strutturato, tale sistema corporativo,

nato con i longobardi, sarebbe entrato in crisi già nel corso del X secolo, come testimoniato

dai confusi accenni del paragrafo diciotto degli Instituta, per poi lasciare spazio alle nuove

314

Vedi Ibidem, pp. 86-89. 315

I. A. Pini, op.cit., p. 227. 316

Ivi, p. 232. 317

Pini in realtà confessa la mancanza di ‘testimonianze dirette’ a favore di quest’ipotesi ma indica elementi di età successiva che rendono grandemente plausibile una persistenza delle forme associative romane anche in età longobarda. Si tratta dei termini usati per indicare i capi delle arti veronesi (‘gastaldiones’), e dell’assoluta mancanza di tracce di un sistema avvicinabile a quello delle Honorantie fuori dai territori un tempo soggetti ai longobardi. Cfr. Ivi, pp. 237-238 318

Ivi, p. 240.

Page 49: Spunti Per Una Rilettura Critica Delle Honorantie Civitatis Papie.

48

esperienze corporative comunali. Soltanto nel caso delle associazioni degli addetti al

vettovagliamento e ai trasporti, rimaste quasi ininterrottamente sotto il controllo statale, è

plausibile intravedere, secondo Pini, una soluzione di continuità nel passaggio tra XI e XII

secolo319.

319

Ivi, pp. 242-243.

Page 50: Spunti Per Una Rilettura Critica Delle Honorantie Civitatis Papie.

49

Riflessioni conclusive

Nel presente contributo si è cercato di svolgere una sintetica rilettura critica delle Honorantie

civitatis Papie, mettendo a confronto le diverse interpretazioni della ricerca sul valore e il

significato di questa fonte oltre al puro interesse informativo, che pure non è trascurabile. È

prevalsa, in queste pagine, la convinzione che fosse preferibile dal punto di vista

epistemologico ordinare e mettere in relazione tra loro gli opposti orientamenti d’indagine per

meglio comprenderne punti di forza e punti di debolezza, senza voler prendere a tutti i costi

posizione a favore di uno o dell’altro schieramento. Decisivo, negli obiettivi di questa tesi, è

stato il costante richiamo ad una proficua riconsiderazione delle Honorantie come documento

fondamentale per indagare i secoli X e XI, da molteplici punti di vista. A parte gli ovvi

richiami alla storia economica e sociale, sono da sottolineare con forza le numerose

convergenze tematiche che si riscontrano nei pochi paragrafi degli Instituta e che li rendono

una testimonianza peculiare e difficilmente eludibile per chi a vario titolo si occupi del

Regnum italiae. Le rotte commerciali, l’organizzazione delle chiuse e dei passi montani, la

varietà della composizione merceologica presente sui mercati italiani, la monetazione, le

professioni artigiane, il funzionamento del palatium pavese sono solo alcuni tra i temi più

appariscenti che affiorano tra le righe, ma indubbiamente non esauriscono i motivi d’indagine

di un documento che si giova di ogni rilettura. Proprio in ragione di questa poliedricità è più

che mai auspicabile un lavoro integrativo rispetto all’ultima edizione dell’opera, che, pur

rimanendo di fatto l’unica completa trattazione delle Honorantie che risponda ai criteri di

un’edizione critica, risale ormai a più di trent’anni fa.

Ugualmente urgente è anche una ripresa del discorso sulle associazioni professionali

altomedievali, questione che ha occupato le ultime pagine di questo lavoro. È certo infatti che

il dibattito intorno a questo tema di ricerca sia stato penalizzato dal diffondersi di nuovi

orientamenti storiografici e dalla pesante eredità di collusione con la storiografia fascista. Lo

schematismo a volte eccessivo degli storici del diritto, padroni assoluti della materia fino al

dopoguerra, ha di fatto ridotto i motivi di interesse di questo argomento alla questione della

continuità o meno con gli istituti romani, rendendo ancor meno attraente questo campo

d’indagine. Si è voluto tuttavia richiamare l’attenzione su questi ordinamenti corporativi, che

rimangono nel loro profondo funzionamento ancora tutti da indagare, proprio nella

convinzione che rappresentino un terreno fertile per studi futuri, anche se le fonti a

disposizione su questi argomenti sono generalmente scarse e lacunose. Lo studio della

diffusione di tali associazioni, i loro scopi, la natura e gli obblighi degli appartenenti, i legami

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che intrattenevano con l’autorità pubblica e il regime privilegiato in cui operavano sulle

piazze cittadine potrà forse illuminare in parte anche alcuni capitoli di storia urbana e delle

istituzioni nell’Italia del X e XI secolo. Certamente inadeguato appare invece un approccio

che riduca l’interesse del discorso sui ministeria all’antichità della loro origine e alla

vischiosità dei loro ordinamenti nel corso dell’alto Medioevo. Così facendo infatti, si rischia

di costruire schemi ideologici che, calati sulla realtà sociale di un fenomeno storico, ne

impediscono un’analisi attenta alle sfumature e risultano rigidamente dogmatici.

In definitiva sono quasi sterminati sono i campi d’indagine che si aprono a chi voglia

occuparsi delle Honorantie civitatis Papie, sia che si voglia analizzarne il testo con una

prospettiva filologica, sia che si rivolga l’attenzione più specificamente ai contenuti dei suoi

paragrafi con un interesse storico. Il sostanziale isolamento in cui versa, dal momento che non

esistono di fatto altre fonti avvicinabili al documento pavese nel panorama del X secolo

italiano, non deve impedire di studiare più in profondità gli spunti che emergono numerosi

dalle sue pagine. Le Honorantie civitatis Papie, con la loro profonda carica di novità, rivelano

tutta la fragilità delle prove ex silentio, e ci inducono, se attentamente studiate, a riconsiderare

seriamente prospettive e teorie che si pensavano da tempo consolidate.

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