Sicurezza o libertà? Mediatizzazione e uso politico dell'insicurezza diffusa

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Università degli studi di Modena e Reggio Emilia Facoltà di Scienze della Comunicazione e dell’Economia Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione a.a. 2008/2009 Tesi di laurea Sicurezza o libertà? Mediatizzazione e uso politico dell’insicurezza diffusa Relatore: Prof. Andrea Rapini Laureando: Emiliano Martinelli

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Università degli studi di Modena e Reggio Emilia

Facoltà di Scienze della Comunicazione e dell’Economia

Corso di Laurea inScienze della Comunicazione

a.a. 2008/2009

Tesi di laureaSicurezza o libertà?

Mediatizzazione e uso politico dell’insicurezza diffusa

Relatore: Prof. Andrea Rapini

Laureando: Emiliano Martinelli

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Ringraziamenti

Desidero ringraziare, in ordine sparso: la mia compagna Silvia Basini per la pazienza e per aver degnamente sopportato la condizione stressante del mio lavoro, la mia famiglia per il supporto che non è mai venuto a mancare, il prof. Andrea Rapini per la disponibilità, i preziosissimi suggerimenti e per avermi aperto gli occhi sul giusto modo di affrontare alcune questioni, infine i fratelli e le sorelle del Laboratorio Aq16 per darmi sempre nuovi stimoli e incanalare positivamente la mia rabbia.

Dedico questo lavoro a quelli che stanno ai margini della società e a quelli che trovano giusto ribellarsi, in nome della libertà

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Indice

Ringraziamenti......................................................................p.5

I. L’epopea sicuritaria: origini e sviluppi da una sponda all’altra dell’Atlantico..........................................................p.9

Introduzione (p.9) – 1.1 War on crime (p17) – 1.2 La trasformazione da Stato Sociale a Stato Penale (p.29) – 1.3 Europa e Italia come banchi di prova (e di tenuta) dei nuovi paradigmi sicuritari (p.36) – Conclusioni (p.41)

II. Comunicazione, sistema politico e cittadini................................................................................p.43

Introduzione (p.43) – 2.1 Il campo della comunicazione politica (p.45) – 2.2 Modelli della comunicazione politica (p.47) – 2.3 Sistema dei media e sistema politico (p.49) – 2.4 Sistema dei media e cittadini (p.52) – Conclusioni (p.55)

III. Reggio Emilia: da città dell’accoglienza a città della paura?..................................................................................p.57

Introduzione (p.57) – 3.1 La sicurezza paga nelle urne? (p.58) – 3.2 Reggio Emilia è davvero un nuovo Bronx? (p.66) - 3.3 Profili criminali (p.72) – Conclusioni (p.76)

Bibliografia..........................................................................p.81

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CAPITOLO 1L’epopea sicuritaria: origini e sviluppi da una

sponda all’altra dell’Atlantico

Introduzione

«Emergenza sicurezza. Pronte misure drastiche dall’esecutivo», «Tolleranza zero verso stupratori e immigrati clandestini», «Recintato il parco dello spaccio, soddisfazione dei residenti». Questi sono soltanto esempi a titolo indicativo di decine e decine di titoli che ci capita di scorgere ogni giorno leggendo i quotidiani.Se ci guardassimo bene indietro, se facessimo ricerche tra gli archivi dei quotidiani o recuperassimo i servizi dei notiziari televisivi, ci renderemmo conto che fino a qualche tempo fa in Italia, fino grossomodo alla fine degli anni Ottanta, i problemi ai quali venivano riservati gli spazi maggiori nelle politiche di newsmaking, erano prevalentemente di tipo politico, sociale, economico.Ora il clima è diverso: assistiamo ogni giorno ad uno stillicidio mediatico sull’insicurezza diffusa, sui problemi della microcriminalità, il tutto corredato da interviste ai cittadini su quanto si sentano insicuri a passeggiare nelle proprie città.Fanno parte dell’esperienza quotidiani di ciascuno di noi servizi nei telegiornali e intere pagine dei quotidiani sulle misure di sicurezza predisposte da questo o quel governo o dalle amministrazioni locali, dalle sempre più fantasiose ordinanze dei sindaci delle grandi città fino ad arrivare ai più piccoli comuni, il tutto condito con una salsa di compiacimento e plauso dei cittadini per il ristabilimento dell’ordine in zone degradate.I fatti di cronaca nera sembrano ormai gli unici per i quali valga la pena di spendere pagine e pagine di approfondimenti catastrofistici.Certo, si può tranquillamente obiettare che la cronaca nera esiste da quando esiste la carta stampata, ed è sicuramente vero.

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Ma perché da qualche anno a questa parte il tema della sicurezza domina le pagine dei quotidiani e i servizi dei telegiornali? Perché abbiamo avuto un’impennata della percezione dei pericoli che ci circondano (o che ci potrebbero circondare)?Se guardiamo con attenzione alle statistiche sulla criminalità non vediamo aumenti dei tassi di delittuosità così marcati da giustificare un tale allarmismo. E nel corso di questo capitolo lo vedremo ancora meglio.Citando Zygmunt Bauman possiamo concordare sul fatto che

ogni epoca della storia si è differenziata dalle altre per aver conosciuto forme particolari di paura; o piuttosto, ogni epoca ha dato un nome di propria invenzione ad angosce conosciute da sempre1

e possiamo tranquillamente affermare che anche la nostra epoca ha le proprie peculiarità in questo senso.In un mondo che mai come ora sta conoscendo nuovi scenari di instabilità a livello planetario (terrorismo internazionale, crisi finanziaria, mutamenti climatici) e a livello individuale (precarizzazione del mercato del lavoro, desocializzazione del salario), ecco che si delinea una società che ha un estremo bisogno di forme di rassicurazione materiale e simbolica.Quale miglior rassicurazione allora che la concentrazione verso i “nemici interni”, quelli più vicini e immediatamente percepibili come minacce alla nostra incolumità e a quella dei nostri cari?Qual è la soluzione più semplice se non pensare alla propria esistenza come una quotidiana lotta per la sopravvivenza fisica, minacciata da orde barbariche pronte ad assalirci e a darci la caccia per puro divertimento o per due soldi?Il rischio è sempre stato una componente dell’agire umano, dall’economia alla vita sociale quotidiana, la differenza sta nel fatto che oggi minacce come la microcriminalità e la violenza urbana, che in ogni società e in ogni tempo sono state presenti seppur con

1 Zygmunt Bauman, La società dell’incertezza, Bologna, Il Mulino, 1999, pag.99

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intensità e tassi di incidenza diversi, sono trattate dai mass-media con toni a dir poco catastrofistici.Di fronte all’emergere di nuovi rischi ancora non conosciuti (si pensi ai cambiamenti climatici, al terrorismo internazionale, alle mutazioni genetiche, alle pandemie virali, alle prospettive nefaste causate dalla crisi economica globale, ecc…) chi detiene il potere legittima se stesso reinventandosi problematiche già conosciute attraverso linguaggi, stili e forme nuove, declinando così vecchi problemi in nuovi termini, allo scopo di esercitare quello che in sociologia viene comunemente detto “controllo sociale”.Queste tesi potrebbero sembrare rivelatrici di un approccio catastrofista, o peggio ancora, mi si passi il termine, complottista, ma non è così.Indagare sulle nuove forme dell’insicurezza sociale equivale a chiedersi perché, di fronte ad emergenze che sembrano puramente mediatiche, si risponde con un agire politico che di mediatico ha ben poco, ripercuotendosi immediatamente sulle vite dei cittadini.Ma non voglio andare oltre in questa introduzione, sperando che le ipotesi qui accennate possano avere riscontro nelle pagine che seguono.Nel corso di questo capitolo esporrò lo “stato dell’arte” delle ricerche nel campo dell’insicurezza sociale e delle politiche che ne conseguono.Sono diverse le prospettive attraverso le quali gli studiosi che più si sono concentrati su questo tipo di problematiche hanno analizzato il problema.Mi concentro su tre autori in particolare che mi sembrano fondamentali per capire l’oggetto di studio di questa tesi, Loïc Wacquant, David Garland e Jonathan Simon. Di questi autori ho apprezzato particolarmente la critica radicale, nei termini di rapporto tra politiche sicuritarie e democrazia, che apportano alla visione attualmente dominante delle politiche criminologiche e della devianza dei paesi occidentali. Seppur con sfumature differenti tutti e tre questi autori denunciano i pericoli che questo tipo di politiche penali e ordine di pubblico rappresentano alla struttura democratica

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degli stati occidentali, talvolta alla luce dei cambiamenti economico-sociali derivati dall’avvento e dallo sviluppo dell’orientamento cosiddetto neoliberista.Loïc Wacquant, studioso francese, allievo di Pierre Bourdieu e docente all’università di Berkeley in California, propone di combinare l’analisi materialista di stampo marxista-engelsiana (che propone di studiare l’insorgenza del discorso sicuritario alla luce dei radicali e moderni cambiamenti dei sistemi di produzione capitalista) e l’analisi dei simboli, mutuata da Émile Durkheim e Pierre Bourdieu (volta a determinare come lo Stato adotta simboli, linguaggi e metodi di persuasione per tracciare e determinare i confini della realtà)2.Wacquant vede un legame strutturale tra il sistema di produzione postfordista, e dunque del neoliberismo, e la nascita di uno “stato penale” che sorgerebbe dalla ceneri dello stato sociale.L’autore riassume le caratteristiche di questo cambiamento nel sistema economico e del lavoro: precarizzazione del lavoro, desocializzazione del salario, intensificazione dello sfruttamento nei confronti dei settori più marginali e dequalificati della forza lavoro, espansione della povertà nelle inner cities statunitensi.L’ipertrofia del sistema carcerario e l’ascesa del nuovo stato penale viene dunque letta alla luce di questi cambiamenti, come un paradigma di governo delle popolazioni urbane povere e delle minoranze razziali (da qui il titolo del testo “Punire i poveri”).Proprio sull’aspetto razziale delle nuove politiche delle pena americane si concentra Wacquant, che spiega come l’emergenza criminalità si sia sviluppata definitivamente come reazione alle lotte per i diritti civili che hanno infiammato i ghetti urbani per un decennio tra la metà degli anni ’60 e la metà degli anni ’70.

2 Loïc Wacquant, Parola d’ordine: tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società neoliberale, Milano, Feltrinelli, 2000; Loïc Wacquant, Punire i poveri. Il nuovo governo dell’insicurezza sociale, Roma, DeriveApprodi, 2006

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In un testo pubblicato nel 20013 (e tradotto per la prima volta in Italia nel 2004), David Garland, attuale docente di sociologia presso la New York University School of Law, adotta una prospettiva “culturalista”, che mette in relazione i cambiamenti in materia di politica della pena e della sanzione enfatizzando la dimensione sociale delle devianze. Un altro interessante aspetto osservato da Garland è dato dalla correlazione tra l’attuale costruzioni sociali delle devianze (e di conseguenza il loro trattamento) e i complicati processi di trasformazione culturale osservabili nelle società occidentali contemporanee. Queste trasformazioni (disgregamento del valore della famiglia, stili di vita non conformisti, flessibilizzazione del lavoro, ecc…) creerebbero, secondo l’ipotesi di Garland, una situazione di percezione dell’insicurezza diffusa e un orientamento dei governi rispetto alle politiche della pena di tipo anti-welfarista.Questi orientamenti anti-welfaristi sarebbero riconducibili da un lato alla rottura del compromesso politico e, soprattutto, fiscale sul quale si reggeva lo stato sociale, dall’altro da un’insoddisfazione diffusa nei confronti di quelle strategie tipiche dell’assistenzialismo dello stato, causata a sua volta da un aumento dei tassi di criminalità registrata proprio negli anni di massimo sviluppo del trattamento sociale delle devianze.Per questa serie di ragioni i saperi criminologici e le tecnologie rivolte al trattamento e al recupero dei criminali sono stati ampiamente riconsiderati in un’ottica penalista.I fattori così considerati creerebbero una nuova “cultura del controllo” (dalla quale, appunto, il titolo del libro) che declina il crimine come un fenomeno normale – con il quale, cioè siamo costretti a fare i conti nella quotidianità – e al contempo mostruoso. Si svilupperebbe così una sorta di “criminologia della vita quotidiana” (aspetto normale della criminalità) che pervaderebbe ogni aspetto del vivere civile e sociale e una “criminologia dell’altro” dai caratteri fortemente neo-autoritari (aspetto mostruoso della criminalità).

3 David Garland, La cultura del controllo, Milano, Il Saggiatore, 2004

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Le tecniche che derivano da questa “criminologia della vita quotidiana”, per esempio i sistemi di videosorveglianza, i metal detector nei luoghi pubblici o le gated communities residenziali, svolgono la funzione di controllo sociale discreto, ma continuo, inserito nell’ordinato fluire delle esistenze delle persone in quanto produttori e consumatori.Questo primo aspetto delle nuove politiche sicuritarie abituerebbero il cittadino, secondo l’autore, a considerare la criminalità come un rischio endemico, come il traffico o le malattie.Le politiche che derivano dalla “criminologia dell’altro”, sembrano entrare in contraddizione con i dettami neoliberali di alleggerimento dello Stato, mostrando apertamente il volto severo e punitivo della legge. Secondo Garland il principio che ispira queste politiche penali non è più la riabilitazione, bensì la vendetta nei confronti di chi commette il crimine.I linguaggi che supportano questo tipo di pratiche esibiscono, come è facile immaginare, i tratti tipici dei discorsi neo-autoritari, quali la ristabilizzazione dell’ordine e della difesa della società minacciata dal male. Garland prende dunque in esame alcuni delle tecniche penali che si rifanno alla “criminologia dell’altro”: la reintroduzione in alcuni stati della pena di morte anche per i malati psichiatrici, la reintroduzione dei lavori forzati, la pubblicazione di elenchi con i nominativi degli ex detenuti per reati sessuali, il three strikes and you’re out4, ecc.Garland conclude, in accordo con l’approccio “culturalista” del quale è fautore, che tale insieme di politiche hanno un significato fortemente simbolico: da un lato tendono a offrire una rassicurazione ai cittadini e dall’altro vanno in controtendenza rispetto ai dettami neoliberali di cui sopra. Per questo motivo Garland rifiuta una lettura causale, al contrario ad esempio di Loïc Wacquant, del rapporto tra nuove politiche sicuritarie e processi di ristrutturazione capitalista in senso neoliberale.

4 Misura legislativa che impone ai giudici statali di condannare a un periodo obbligatorio e prolungato di carcere persone che siano state condannate per un reato penale grave in tre o più distinte occasioni.

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Un terzo tipo di approccio è quello riconducibile a Jonathan Simon, situato a un livello distante a entrambi gli altri due approcci. Simon, infatti, compie un’accurata analisi sociologica, giuridica e politica delle razionalità di governo consolidatesi negli Stati Uniti dall’assunzione di centralità della questione criminale nell’opinione pubblica e nel discorso politico.L’ipotesi di Simon è di un governo attraverso la criminalità analizzato attraverso i differenti piani dei processi di governo (in senso foucaultiano di “condotta di condotta”) consolidatisi dopo l’acquisizione di centralità della questione criminale. Citando direttamente Simon:

Quando governiamo attraverso la criminalità, rendiamo il crimine e le forme di sapere a esso storicamente associate – diritto penale, letteratura popolare sulla criminalità, criminologia – disponibili al di là del loro limitato ambito d’origine, facendone uno strumento efficace con il quale interpretare e inquadrare tutte le forme di azione sociale come questioni di governance.5

Il testo di Simon ripercorre le tappe fondamentali dello sviluppo di questo governo attraverso la criminalità, passando in rassegna alcuni momenti fondamentali per la storia dei discorsi politici6 (cita ad esempio le cicliche guerre alla criminalità di Nixon, Reagan, Bush padre, fino alla war on terror di Bush figlio). Questi processi discorsivi porterebbero, secondo l’ipotesi di Simon, a individuare nuove pratiche di governance i cui scopi ultimi sarebbero l’individuazione e la neutralizzazione del rischio criminale.

5 Jonathan Simon, Il governo della paura. Guerra alla criminalità e democrazia in America, Milano, Cortina Raffaello, 2008, pag. 226 Ancora una volta il riferimento a Michel Foucault è evidente, Simon considera il discorso politico come atto linguistico, capace di descrivere (e prescrivere) la realtà, dando luogo a pratiche, tecniche e razionalità di governo.

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Simon analizza poi i diversi ambiti di applicazione di questo paradigma di governance: potere esecutivo, giurisprudenza, famiglie, scuole, luoghi di lavoro.Dal lato del potere esecutivo, ad esempio, queste pratiche politiche creerebbero un modello di autorità e di rappresentanza che l’autore definisce “complesso accusatorio”, nel quale la leadership politica si configura come estensione e diretta emanazione della “pubblica accusa”; ognuno di queste cariche politiche, in questo contesto, deve quotidianamente ricercare e segnalare le fonti di rischio criminale e una volta individuate commissionare (e quando non è possibile, invocare) sanzioni adeguate.Dall’altro lato, quello del cittadino comune, emerge la tendenza a considerare, e dunque a considerarsi, una vittima: la vittima del crimine è diventata il modello principale di cittadino.Questo fa si che il bene della vittima (e dunque per estensione del cittadino) porti al concetto di pena come vendetta, che deve essere dura e degradante, per ottenere quella forma simbolica di rassicurazione della popolazione già descritta da David Garland.In questo contesto, e grazie soprattutto all’ascesa del modello di “complesso accusatorio”, viene quasi naturale constatare come la funzione che dovrebbe essere propria dei tutori della legge, la funzione “giudicante”, è costantemente sotto attacco: infatti, ricorda Simon, nelle cicliche guerre alla criminalità, l’autonomia dei giudici è sempre stata attaccata duramente. I giudici vengono considerati, all’interno del discorso politico sicuritario, come “complici” dei criminali e lassisti in virtù del loro ruolo istituzionale, ovvero quello di soppesare la ragioni della vittima e del presunto criminale. Le legislazioni three strikes7 e i minimi di pena obbligatori, ad esempio, sono espressione della volontà di limitare l’autonomia dei giudici e delle corti di giustizia statunitensi.Il quadro tracciato da Simon è quindi quello di una svolta punitiva considerata non soltanto come episodio storico circoscritto, bensì come processo sociale, politico e istituzionale capace di

7 Vedi nota n. 4, infra

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un’autopoiesi teoricamente infinita attraverso le relazioni quotidiane tra gli individui.

Passerò dunque in rassegna prima il contesto storico nel quale si sono sviluppate queste nuove tendenze in termini di politiche della pena, ovvero negli Stati Uniti nella a cavallo tra la fine degli Sessanta e la metà degli anni Settanta, in seguito cercherò di approfondire alcuni elementi-chiave di queste nuove strategie sicuritarie. Il tutto cercando di utilizzare i tre approcci precedentemente citati al fine di cogliere gli elementi che mi sembrano più salienti della svolta punitiva americana e confrontarli con quelli che si riversano sulla società e la politica italiana, vero focus di questo testo. Bisogna infatti ricordare che tutti e tre gli autori presi in esame svolgono un’analisi approfondita del sistema penale e politico statunitense, che rappresenta i tratti di un’incubatrice del discorso sicuritario poi tramandatosi nella maggior parte dei sistemi occidentali, ma al contempo presenta alcune differenze strutturali e culturali con i modelli europeo ed italiano.Un paragrafo a parte sarà poi destinato a quello che con De Giorgi possiamo chiamare paradigma attuariale della criminologia penale, che vede lo svilupparsi di correnti di pensiero criminologico che danno vita ad uno Stato sempre meno sociale e sempre più penale.Concluderò il capitolo con uno sguardo più approfondito verso la realtà italiana, prendendo quello che mi sembra il caso paradigmatico di declinazione del discorso sicuritario nei nostri territori: il caso della criminalizzazione mediatica dei migranti irregolari.

1.1 War on crime: politiche di controllo e criminalizzazione della società americana

Dalla metà degli anni ’70 negli Stati Uniti è nata una nuova emergenza: la criminalità, specialmente quella di strada e quella

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percepita come problema che potrebbe toccare, con buona probabilità, indistintamente ciascuno dei membri della middle class.

Il contesto storico nel quale nasce questa emergenza criminalità negli Stati Uniti è il periodo immediatamente successivo alle rivolte razziali degli afroamericani dei ghetti per l’ottenimento dei diritti civili. È anche il periodo nel quale entra in crisi il modello del New Deal, nel quale sembra insomma vacillare la capacità del governo federale nel mantenere una gestione economica che negli anni Cinquanta e Sessanta causò un incremento del benessere. Questi due elementi possono dare, secondo la lettura di Jonathan Simon, una chiave di lettura in senso storico dell’emersione del problema.Per quanto riguarda il primo di questi fattori, si assistette, negli anni a cavallo tra il 1950 e il 1970 ad importanti sviluppi riguardanti la segregazione razziale negli Stati Uniti. I movimenti per i diritti civili delle minoranze afroamericani ottennero importanti vittorie presso la Corte Suprema e il Congresso, vittorie concretizzatesi poi con l’emanazione del Civil Rights Act del 1964. Alcuni studiosi8 individuano proprio nella questione razziale la lacuna più importante del New Deal: infatti il presidente Franklin D. Roosevelt aveva deliberatamente escluso gli afroamericani dalla principali protezioni sociali del nuovo corso americano (questo per non inimicarsi le correnti democratiche del Sud, sicuro bacino di voti, per le quali la questione razziale era ancora un tabù). Lo stesso presidente Lyndon B. Johnson, succeduto a Kennedy dopo l’assassinio di Dallas del 1963, si schierò a favore del movimento per i diritti civili promettendo di impegnarsi per realizzarne il programma. Bisogna ricordare, tuttavia, che buona parte dei politici statunitensi guardavano con sospetto, quando non addirittura tentarono di ostacolare esplicitamente, i progressi ottenuti dal movimento per i diritti civili. Infatti i primi a strumentalizzare la criminalità, dandole i connotati di una prerogativa degli

8 Ad esempio Katherine Beckett, Making crime pay: law and order in contemporary American politics, New York, Oxford University Press, 1997

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afroamericani, furono politici bianchi del Sud in cerca di argomenti più validi per contrastare il movimento afroamericano, di quanto fossero le ragioni segregazioniste.L’incendiaria campagna elettorale di Barry Goldwater, candidato repubblicano per le presidenziali del 1964, incentrata sui temi dell’anticomunismo e della guerra alla criminalità ne è un esempio lampante.Se le conseguenze del movimento contro la segregazione razziale contribuiscono a fare emergere la criminalità come stato emergenziale, è la crisi del modello del New Deal a fare da scenario allo sviluppo delle “emergenze criminali”.Il New Deal fu, sinteticamente, quella serie di misure statali predisposte dal presidente Roosevelt per risollevare gli Stati Uniti dalla crisi finanziaria del 1929. L’intervento statale nell’economia con la realizzazione di importanti infrastrutture, la creazione di un welfare state in grado di sostenere i lavoratori che persero il lavoro, e una serie di misure che permisero di rilanciare l’economia in stagnazione, furono il cardine degli interventi della presidenza Roosevelt.Questo modello entra in crisi con l’avvicinarsi agli anni Settanta, in concomitanza con l’emergere del problema criminalità come uno dei più importanti problemi che la politica avrebbe dovuto affrontare.Così abbiamo un forte depotenziamento dello stato sociale, causato secondo Wacquant da una reazione ai movimenti progressisti degli anni Sessanta.L’ipotesi di Simon9 è che la nascita dell’emergenza criminalità sia da leggere all’interno di questi due fenomeni storici, come risposta dei politici a questi avvenimenti che rischiavano, di fatto, di rendere ingovernabile il paese.

Dopo la sua nascita, dunque, la nuova emergenza criminalità viene poi sempre più frequentemente spettacolarizzata ed esaltata dai mass media, così come gli interventi di war on crime delle classi dirigenti del paese.

9 Jonathan Simon, Il governo della paura, cit.

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La mediatizzazione della criminalità (e dei relativi provvedimenti per contrastarla) ha una duplice funzione: da un lato è funzionale ad accrescere la percezione di insicurezza delle classi medie americane che si sentono così costantemente minacciate e sotto assedio; dall’altro emerge la faccia severa e punitiva dei governi contro i criminali così come quella protettiva e paternale verso le “vittime”.Si tratta di quello che Wacquant definisce come “pornografia penale”, ovvero quel processo per cui il crimine e le azioni sicuritarie devono essere mostrati, esibiti e ritualizzati, al pari degli amplessi nelle produzioni pornografiche.Assistiamo così ai roboanti proclami dei tutori dell’ordine, agli inseguimenti in diretta televisiva, alle dichiarazioni di tolleranza zero, alle continue lodi alle forze dell’ordine e ai biasimi nei confronti dei giudici (ormai ultimo baluardo del trattamento sociale delle devianze) definiti lassisti e quasi “complici” dei criminali.La sicurezza e la guerra alla criminalità sono state il leitmotiv delle campagne elettorali da Nixon in avanti, di volta in volta declinate in base a quella che viene percepita come la minaccia presente più pericolosa; nel mondo del presente il tema principe risulta essere, ovviamente, la war on terror inaugurata dall’amministrazione di George W. Bush.I tratti distintivi di queste nuove politiche sicuritarie sembrano essere comuni a tutte le esperienze del genere sia negli Stati Uniti che in Europa10; in primo luogo esse attaccano frontalmente il crimine, considerato soltanto come devianza immorale e spostando il focus dalle cause che lo creano alle persone che lo commettono: così il “criminale” è un deviante irrecuperabile (lo vedremo meglio quando parleremo del paradigma attuariale del trattamento delle devianze) la cui unica prospettiva deve essere il carcere, pena il disordine sociale e l’insicurezza generalizzata. Ancora, è ben visibile il proliferare di dispositivi di controllo inimmaginabili fino a pochi anni fa: telecamere per la videosorveglianza, comitati di quartiere (le italiane “ronde”,

10 Questa affermazione trova il suo fondamento nell’analisi di Wacquant sul “Fac-simile europeo”, contenuta in Loïc Wacquant, Punire i poveri, cit.

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recentemente entrate prepotentemente nel dibattito politico), profiling genetico dei criminali, maggior potere e risorse alle forze dell’ordine, centri di detenzione specializzati, test antidroga nelle scuole, ecc…Un altro tratto distintivo di queste politiche è il fatto di suddividere nei discorsi politici (intesi nel senso tramandatoci da Foucault come atti linguistici, capaci di segmentare e ridefinire la realtà) i cittadini-vittime, quelli buoni per intenderci, dai cittadini-criminali, dei quali si può già intuire un profilo base: neri, provenienti dai quartieri popolari in declino, tossicodipendenti e via dicendo.Di conseguenza il carcere non è più visto come passaggio penale verso il reinserimento in società, al contrario, l’amministrazione carceraria è ormai considerata soltanto una contabilità di flussi in entrata e uscita e dei relativi costi di gestione.Questo tipo di politiche sono sostenute ed alimentate da una rete di discorsi pubblici allarmisti e catastrofisti, tesi a tracciare una descrizione dei centri urbani come “zone di guerra” (non a caso il lessico militare è quello prediletto dai mass media nel trattare i problemi della criminalità e della sicurezza) e l’intervento dei tutori dell’ordine come il pugno di ferro del potere senza il quale non vi sarebbe risoluzione dei conflitti; i rimedi proposti sono drastici ma al contempo semplicistici, generalizzano le questioni sociali della devianza e appiattiscono i livelli di problematicità insiti nel trattare un tema tanto delicato, quanto complesso come la criminalità.Ultimo tratto distintivo, e in parte conseguenza diretta di quelli trattati poco sopra, è il rafforzamento delle reti poliziesche, l’incremento vertiginoso delle popolazioni carcerarie e la volontà di accelerare i tempi della giustizia.Questa serie di pratiche politiche trovano l’appoggio indiscriminato di tutti gli schieramenti politici, quasi a sottolineare che non vi è altra via d’uscita, se non le politiche sicuritarie, alla presunta emergenza criminalità.Ora, se si analizzano le statistiche criminali del periodo nel quale questi discorsi si sviluppano, non ci sono tassi di crescita della

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criminalità tali da giustificare il proliferare di questo tipo di misure di controllo sociale11.Riporto due dati che mi sembrano i più rilevanti per capire la portata di quello che da trent’anni a questa parte sta succedendo negli Stati Uniti.Il primo di questi dati riguarda il numero di persone sottoposte a qualche tipo di misura penale (carcere, libertà vigilata, libertà condizionale): se nel 1980 il totale di queste persone era di circa 1 milioni e 842 mila, nel 1995 sono diventate 5 milioni e 343 mila, con un aumento del 190% in quindici anni.12

L’altro dato fondamentale riguarda i tassi di criminalità registrati nel periodo 1975-1995: il tasso nazionale di omicidi è rimasto stabile (8 casi ogni 100.000 abitanti), i furti con aggressione oscillavano tra i 200 e 250 casi su 100.000 abitanti (questi dati non rivelano una tendenza all’aumento né alla diminuzione), il tasso di vittime di lesione è rimasto stabile al valore di 30 casi su 100.000 abitanti, la frequenza della violenze si è abbassata da 12 a 9 su 100.000. I crimini contro la proprietà sono nettamente calati, scendendo dai 550 su 100.000 abitanti del 1975 a meno di 300 vent’anni dopo.13

Questi dati testimoniano che l’insorgenza e lo sviluppo del discorso sicuritario non sono in alcun modo collegati ad un aumento della criminalità. Va ricordato, infatti, che le principali misure legislative orientate alla war on crime, in particolare il modello New York del sindaco Rudolph Giuliani, vengono attuate dopo il 1994, quando, come abbiamo visto, la criminalità era già in netto calo da oltre vent’anni, per di più manifestando una concreta tendenza a un’ulteriore diminuzione.

11 Si vedano, ad esempio, le statistiche del Bureau of Justice Statistics del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti d’America (www.ojp.usdoj.gov/bjs)12 Bureau of Justice Statistics, Correctional populations in the United States 1995, Washington, Governement Printing Office, 199713 Bureau of Justice Statistics, Criminal victimization in the United States 1975-1995, Washington, U.S. Governement printing office, 1997

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I dati così presentati fanno legittimamente pensare che questi processi siano allora effettivamente utili a qualche cosa d’altro.Se, infatti, andiamo a vedere, con una semplificazione estrema, quello che sul piano materiale e simbolico si sta sviluppando con l’ascesa dei nuovi paradigmi neoliberisti del mercato e della società possiamo intravedere una possibile spiegazione dell’insorgenza del discorso sicuritario.Partendo dal piano prettamente simbolico, vediamo come nella società teorizzata dai massimi esponenti del neoliberismo, del quale l’America è punta di diamante, lo Stato deve avere un ruolo sempre più marginale all’interno del panorama politico-economico e sociale.Gli interventi statali devono essere ridotti ai minimi termini, non interferire con i processi economici se non in termini normativi, lo Stato deve diventare uno stato “leggero”, sempre meno presente e visibile, il suo ruolo deve essere relegato a quello di mero supervisore di processi autopoietici che vivono già di vita propria.Lo Stato verrebbe così a perdere quella funzione di autorità superiore che tradizionalmente aveva acquisito nelle democrazie occidentali, perde in ultima analisi le sue funzioni proprie, perde di potere e autorità.Ecco allora che uno Stato forte contro il crimine e le devianze riafferma la propria autorità in ambito sociale, restituendoci un’immagine che legittima e controbilancia l’amputazione del braccio economico statale dettata dall’avvento del neoliberismo.Sempre rimanendo sul piano simbolico, la progressiva erosione di valori quali la famiglia patriarcale, il lavoro stabile e continuativo, lo stesso indebolimento dello stato-nazione hanno contribuito a delegittimare il sistema di strategie di governo dei problemi sociali legate al welfare, dunque anche della stessa devianza. Lo stesso welfare è ormai percepito dai cittadini statunitensi come un sistema assistenzialista inutile, sprecone e che “premia chi non se lo merita”.Questo ha fatto sì che la criminalità non fosse più percepita come un qualcosa da arginare riabilitando i devianti, bensì un qualcosa da eliminare con politiche repressive dure e inflessibili. Queste politiche hanno un alto valore simbolico, dunque, perché, come detto in

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precedenza, riaffermano un valore autoritario dello Stato, in controtendenza rispetto ai dettami neoliberisti.14

Passando sinteticamente al piano prettamente materialistico non possiamo che soffermarci sui profondi cambiamenti che hanno investito il mondo dell’economia, tipicamente negli aspetti della flessibilizzazione e precarizzazione del lavoro che il nuovo ordine economico è venuto a creare.Secondo Wacquant

l’irresistibile ascesa dello stato penale americano non contraddice certo il progetto neoliberale di deregolamentazione e snellimento del settore pubblico, anzi si potrebbe dire che ne rappresenta il negativo – in senso fotografico, rilevatore ma “al contrario” – in quanto esprime una politica di criminalizzazione della misera funzionale all’imposizione della condizione salariale precaria e sottopagata come obbligo di cittadinanza e alla concomitante riformulazione dei programmi sociali in senso punitivo.15

Per lo studioso francese, così come ad esempio per l’italiano Alessandro De Giorgi16, esiste un nesso “verticale” di causalità tra politiche della pena e nuovo ordine economico neoliberista (o postfordista nel lessico di De Giorgi).Questa causalità e data dalla sostituzione dello stato sociale (welfare) con uno stato penale teso a inserire forzatamente i cittadini più poveri nel sistema di produzione capitalista del lavoro salariato flessibile e desocializzato (workfare).Questi processi altro non fanno se non contribuire ad un

governo della vasta popolazione urbana, povera e in larga maggioranza non bianca, resa economicamente superflua dalla crisi del modello di

14 David Garland, La cultura del controllo, cit.15 Loïc Wacquant, Parola d’ordine: tolleranza zero, cit., 2000, pag. 7016 Alessandro De Giorgi, Zero tolleranza. Strategie e pratiche della società di controllo,Roma, Derive Approdi, 2000; oppure in: Alessandro De Giorgi, Il governo dell’eccedenza. Postfordismo e controllo della moltitudine, Verona, Ombre Corte, 2002

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produzione fordista e socialmente vulnerabile dalla distruzione delle residue protezioni sociali a questo associate.17

Si delineerebbe dunque un complesso sistema commercial-carcerario-assistenziale, secondo la stessa definizione di Wacquant, il cui compito è di triplice valenza: da un lato deve sorvegliare le popolazioni povere che non vogliono rientrare nei nuovi modelli di produzione lavorativa postfordisti, dall’altro deve soggiogare queste stesse classi povere e infine punire e neutralizzare chi devia dal nuovo ordine economico-sociale.Probabilmente l’intuizione più azzeccata di Wacquant consiste nel mettere l’accento sulle connotazioni razziali e di classe del sistema penale, che replicano in toto le disuguaglianze sociali della popolazione urbana.Ad oggi oltre 2 milioni di persone su 275 milioni di cittadini statunitensi sono in carcere, e il numero aumenta se consideriamo i cittadini sottoposti a un qualche tipo di tutela penale (probation, parole, ecc…) il numero aumenta a oltre 6 milioni. Questo significa che oltre il 2% della popolazione statunitense è sotto l’egida del controllo penale.Questa ipertrofia denota, come sottolineato da Wacquant, una dimensione razzista e classista del sistema penale: infatti, statistiche del 1995 dicono che su 22 milioni di neri maggiorenni, 767mila erano in prigione, 999mila in libertà vigilata e 325 rilasciati sulla parola. Oltre il 60% della popolazione carceraria è composta da minoranze etniche e i dati su questo punto si sprecano.Wacquant arriva addirittura a sostenere che la prigione è diventata ormai un sostituto del ghetto, infatti, secondo lo studioso francese

il ghetto funge da prigione etno-razziale: chiude in gabbia, per così dire, un gruppo privo d’onore e riduce drasticamente le possibilità di vita dei suoi

17 Alessando De Giorgi, Prefazione in: Jonathan Simon, Il governo della paura, cit.

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membri per garantire al gruppo dominante che risiede nei paraggi la “monopolizzazione dei beni e delle opportunità materiali e spirituali”.18

Un carcere, a sua volta, serve a tenere sotto controllo una popolazione denigrata, funge da “preservativo urbano” contro l’infamia che provocherebbe il venire a contatto con la popolazione colpevole di aver commesso un crimine.Il ghetto servirebbe anche ad «agevolare lo sfruttamento economico della categoria segregata»19, così come la prigione che costringe la popolazione carceraria ai lavori forzati e al successivo reinserimento negli strati più bassi del nuovo lavoro salariato precario.Non bisogna poi dimenticare, altre conseguenze, prettamente economiche, dell’insorgenza del discorso sicuritario e della persecuzione delle politiche di zero tolerance e war on crime sviluppatesi negli Stati Uniti negli ultimi trent’anni.Da un lato l’industria carceraria americana produce una tale quantità di ricchezza, stimata intorno ai 20 miliardi di dollari all’anno, che si compone di oltre 100 imprese edili che si occupano esclusivamente di costruzione e manutenzione di prigioni, le carceri private sono oltre 160 in continua espansione. Questi pochi dati soltanto per rendere l’idea della mole di affari del “Correctional Business”: ovviamente politiche della pena sempre più severe comportano ancora maggiori ricchezze per gli operatori dell’economia carceraria.Dall’altro lato la marcata diffusione del senso di insicurezza tra i cittadini della middle class ha fatto sì che si sia sviluppato un florido e redditizio mercato della sicurezza privata, nuova branca del business dell’insicurezza sociale; non è un caso che proprio negli Stati Uniti in questi ultimi trent’anni siano cresciute a dismisura le spese per la sicurezza privata, dalle guardie armate per sorvegliare le imprese o gli accessi alle gated communities (interi quartieri i cui accessi sono sbarrati per i non residenti), fino agli impianti di videosorveglianza privati. Solo per riportare alcuni dati a supporto di queste affermazioni, si pensi che nel solo anno 1990, negli Stati Uniti

18 Loïc Wacquant, Punire i poveri, cit., pag. 21019 Ibidem, pag. 210

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sono stato spesi oltre 52 miliardi di dollari in sicurezza privata, contro i 30 miliardi spesi per le forze di polizia federali; più di 10.000 compagnie di private security impiegano 1 milione e 500 mila guardie, circa il triplo rispetto ai 554 mila uomini delle forze dell’ordine federali e locali.20

Una conseguenza culturale importante dello sviluppo e attuazione delle politiche sicuritarie consiste nella cosiddetta “vittimizzazione del cittadino”.Negli USA, il cittadino non è più visto come un attore sociale nel senso classico del termine: il cittadino ora è una potenziale vittima di un crimine, seguendo Simon:

La democrazia americana è minacciata anche dall’emergere della vittima del crimine come modello dominante del cittadino in quanto rappresentante della gente comune, i cui bisogni e le cui capacità definiscono la missione del governo rappresentativo. Una serie di nuove forme di conoscenza porta adesso la “verità” delle vittime all’interno del sistema penale e al di là di questo. Le verità di queste vittime sono potenti, e spesso travolgono il significato emotivo di altre questioni. Esse minano le forme di solidarietà e di responsabilità necessarie alle istituzioni democratiche.21

L’esame di questi autori delinea dunque il quadro di un’America che si riscopre in qualche misura razzista e classista, insicura e dominata da un discorso politico dai caratteri fortemente neo-autoritari, nel quale le ragioni dell’economia neoliberale hanno la meglio rispetto a quelle sociali e del welfare-state.Le conseguenze, delineate efficacemente da Jonathan Simon, di questo Governo attraverso la criminalità, sulla democrazia sono enormi:

20 Nils Christie, Il business penitenziario. La via occidentale al Gulag, Milano, Elèuthera, 199621 Jonathan Simon, Il governo della paura, cit., pag. 9

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che si individui il valore della democrazia americana nelle sue caratteristiche di libertà o di uguaglianza, il governo attraverso la criminalità ha prodotto effetti negativi.22

In primo luogo la trasformazione dal cosiddetto “stato sociale” allo “stato penale” a causa delle ingenti risorse finanziare tolte al sistema welfaristico e dirottate verso il sistema punitivo e penale; inoltre il distaccamento dai principi neoliberali di uno stato “leggero” in favore di uno stato forte e autoritario.L’ipertrofia del sistema penale e la sua connotazione razziale sono anch’esse parte delle conseguenze della war on crime tanto decantata da questo o da quel governo.

Per la prima volta dall’abolizione della schiavitù, un gruppo definito di americani vive, su basi più o meno permanenti, in una condizione giuridica di non-libertà – in virtù di una singola condanna all’ergastolo, di ripetute incarcerazioni, oppure delle conseguenze a lungo termine di una condanna penale; non solo, ma tra questi una sconcertante percentuale discende da quegli schiavi liberati.23

Tutto ciò poi, e questo è il dato forse più importante, non ha prodotto alcun tipo di risultato in termini di riduzione dei tassi di criminalità o di percezione dell’insicurezza tra i cittadini: come si evince dai dati riportati precedentemente, la criminalità negli Stati Uniti è in netto e continuo calo dalla metà degli anni Settanta ad oggi. L’unico risultato conseguito è stato quello di stigmatizzare una popolazione già vessata dalla povertà.Anche la middle class, come già accennato prima, subisce conseguenze importanti: con la “vittimizzazione dei cittadini” essi si sentono assediati e vivono in un continuo stato di tensione emotiva e di paura dell’altro; non a caso numerose ricerche testimoniano come decisioni importanti della vita famigliare, come ad esempio dove mandare i figli a scuola o dove lavorare, sono prese in base al rischio percepito.22 Ibidem, pag. 723 Ibidem, pag. 8

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Inoltre, sempre a proposito delle gated communities e della privatizzazione della sicurezza

un’insistenza così pesante sulla fortificazione rende queste comunità ancora più dipendenti da una polizia aggressiva e dallo stato penale per la tutela delle norme di civiltà. Infatti, il nuovo ambiente securizzato tende ad alimentare alcune routine circoscritte, ma quando si presentano situazioni inedite, esso tende a creare ciò che gli economisti chiamano (in modo appropriato, nel nostro caso) “dilemma del prigioniero”: vale a dire un gioco in cui i giocatori non possono collaborare, e possono avere la meglio solo se si fanno predatori per primi. L’ultimo che resta fuori perde.24

1.2 La trasformazione da Stato Sociale a Stato Penale: excursus storico sul trattamento delle devianze e sul controllo sociale.

Quando, nella maggior parte degli studi criminologici effettuati prima dell’avvento dei nuovi paradigmi sicuritari, si studia il rapporto tra devianza e controllo sociale, si tende a mantenere un nesso causale con una doppia direzione: da un lato viene ricercata una causa della devianza (che può essere la situazione sociale, la malvagità individuale, povertà, ecc…). Dall’altro lato si pensa che il controllo sociale sia una conseguenza della devianza, per cui “chi devia sottoposto a controllo sociale”.Tuttavia, già la sociologia classica aveva rigettato la logica causale per i processi sociologici, vedendo questi processi non come semplici rapporti causa-effetto, ma come situazioni che scaturiscono da un’innumerevole serie di fattori correlati tra di loro. La criminologia, al contrario, sembra essere rimasta ferma, fino circa alla metà degli anni Ottanta, a questo tipo di luoghi comuni.25

24 Ibidem, pag. 925 In verità esistono numerose correnti critiche della criminologia che rigettarono a tempo debito il nesso causale dei processi sociali, come ad esempio le labelling theory (teorie dell’etichettamento) che vedono la

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Inoltre, una dimensione importante del controllo sociale è quella temporale: infatti i suoi dispositivi sono sempre proiettati nel futuro, tendono a voler neutralizzare comportamenti possibili nell’arco temporale successivo a quello della propria messa in opera.Ora, se l’idea intuitiva di controllo sociale è sicuramente immediata, non è tale la sua definizione in termini scientifici; numerosi sociologi hanno dato le più svariate definizioni del termine, e tutte peraltro con un’accezione differente.Quella che mi sembra più azzeccata, rispetto al discorso che stiamo trattando, è quella di Alessandro De Giorgi (di chiara ispirazione foucaultiana), contenuta in un saggio il cui tema principale è proprio il controllo sociale:

Il controllo sociale è senza dubbio definibile come un insieme di funzioni attribuite a certi apparati o a certe strutture storicamente determinate, la cui caratteristiche mutano nello spazio e nel tempo. Queste funzioni, in una lettura molto semplificata, consistono nel ridurre le possibilità di comportamento di un individuo, determinando quindi vincoli, dispositivi di scoperta dell’infrazione e di punizione.26

La criminologia recente ha subito un brusco cambiamento per quanto concerne lo studio e la prevenzione delle devianze: negli anni a cavallo fra il 1960 e il 1980 la devianza, come dicevamo, era sostanzialmente concepita come l’effetto di una o più cause (di volta in volta psicologiche, sociali, ecc…). Le varie teorie si differenziavano soltanto per l’attribuzione della preminenza delle cause a fattori individuali o sociali.Ciò che senz’altro ci lasciano questo tipo di teorie è il fatto di sostenere la possibilità di un intervento di eliminazione delle cause che fanno scaturire il comportamento deviante come risoluzione di

devianza come il prodotto di un complicato processo di definizioni da parte degli altri individui o della collettività. Per una rassegna delle principali teorie criminologiche si veda: Augusto Balloni, Criminologia in prospettiva, Bologna, Clueb, 1983 oppure il più recente Dario Melossi, Stato, controllo sociale, devianza, Milano, Bruno Mondadori, 200226 Alessandro De Giorgi, Zero tolleranza, cit., pag. 23

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questo tipo di problematiche. Ancora, le diverse teorie, dibattevano se non fosse meglio modificare i contesti sociali all’interno dei quali avvenivano i comportamenti devianti, oppure trasformare gli individui affinché venisse neutralizzata la propria carica deviante.Si assiste, in pratica, alla diffusione del “modello correzionale”, un modello per il quale la penalità, che rimaneva comunque necessaria per sanzionare i comportamenti criminali, avrebbe dovuto mantenere una funzione dominante: quella riabilitativa.E questo divenne presto il paradigma dominante sia in criminologia, quanto in politica.Infatti, per quanto concerne le politiche di welfare, esse tendevano alla diminuzione della popolazione delle istituzioni totali (carceri, manicomi, ecc…) e al trattamento dei devianti all’interno di altre istituzioni, come la famiglia, il servizio sociale, il lavoro e via dicendo.

La diffusione di queste politiche produce, da un lato, una considerevole riduzione della popolazione carceraria, che in Italia (ma anche negli Stati Uniti) conosce i suoi minimi storici nei primissimi anni Settanta; dall’altro, un allargamento di fatto delle reti del controllo, nel senso che sempre più individui sono soggetti a qualche forma di trattamento, di gestione da parte di istituzioni o strutture dell’assistenza sociale, dell’intervento comunitario, della libertà vigilata.27

Con il finire degli anni Settanta, il modello correzionale entra in crisi, essenzialmente per due ordini di ragioni: da un lato questo tipo di modello sembra non funzionare, dall’altro la società viene investita da una crisi delle finanze statali che comporta una drastica riduzione delle spese sociali, in barba al modello keynesiano fino ad allora dominante.Sul perché questo modello sembra non funzionare, la spiegazione è molto semplice: gli unici parametri adottati dalle istituzioni statali per valutare il buon funzionamento o meno di queste strategie, risultavano essere i tassi di recidiva. In base a questi dati, la cui

27 Alessandro De Giorgi, Zero tolleranza, cit., corsivo mio.

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pecca era tuttavia quella di non tenere conto degli innumerevoli mutamenti sociali che stavano investendo le società occidentali in quegli anni, la criminalità non solo non era diminuita, per giunta aumentavano i crimini di strada e il conseguente senso di insicurezza sociale percepito.La crisi delle finanze statali ha dato il colpo di grazia definitivo a questo modello: a fronte della crisi si sviluppano infatti politiche di drastica riduzione dei fondi destinati ai servizi sociali e più in generale alle politiche di welfare, di conseguenza si preferisce finanziare soltanto gli interventi immediati e repressivi nei confronti della criminalità.Si sviluppa allora una nuova scuola di criminologi28 che abbandona del tutto il paradigma causale (l’eziologia) della devianza. Per questi studiosi il criminale è un individuo, dotato di normali capacità intellettive, che decide razionalmente di compiere un atto deviante. Le condizioni sociali, lo status economico, il contesto nel quale il soggetto agisce non hanno di colpo più alcuna importanza. Una conseguenza più che scontata di questo nuovo tipo di approccio è data dal fatto che se prima si ricorreva alla pena a scopo riabilitativo, ora la pena ha valore deterrente e intimidatorio.29

Questo nuova ondata di teorie si basa semplicemente sull’analisi costi-benefici tipica del mondo economico. Una strategia è valida se comporta costi bassi e guadagni (in termini di abbassamento dei tassi di criminalità) elevati.

28 Si vedano ad esempio: Ernest Van Den Haag, Punishing criminals, New York, Basic Books, 1975 e James Q.Wilson, Thinking about crime, New York, Vintage, 1977 (tra l’altro quest’ultimo è stato anche consigliere del presidente degli USA Ronald Reagan)29 “…i malvagi esistono. La sola cosa che si può fare è separarli dagli innocenti. E molti, che non si trovano né in una categoria né nell’altra, ma che, in disparte, osservano e fanno calcolo delle proprie opportunità, soppesano attentamente la nostra reazione alla malvagità come un segnale di ciò che essi potrebbero, con profitto, intraprendere. Noi non abbiamo considerato con la dovuta attenzione i malvagi, ci siamo presi beffa degli innocenti e abbiamo incoraggiato i calcolatori” Ernest Van Den Haag, Punishing criminals, cit., pag.240

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Gli stessi istituti preposti alla verifica dei risultati, non guardano più soltanto ai livelli di criminalità, ma anche ai costi sostenuti.Ora, come nota giustamente De Giorgi, considerare il delinquente come homo economicus, razionale, che soppesa rischi e profitti della sua attività criminale equivale a far sì che

le politiche punitive [siano] tanto più efficaci, quanto meno chi ne è destinatario dispone di risorse di potere. Ciò che nell’ottica della criminalità imprenditoriale costituisce solo un costo aggiuntivo dell’attività d’impresa, da punto di vista del microcriminale di strada è invece un danno grave. […] questa teoria si rivolge comunque alla criminalità dei deboli piuttosto che a quella dei potenti. 30

La pena diventa quindi il modo attraverso il quale chi detiene il potere di punire lo esercita allo scopo di eliminare il soggetto dallo contesto sociale; questo tipo di sanzione viene legittimata dal fatto che il soggetto artefice di un comportamento criminale merita il castigo.La funzione riabilitativa è definitivamente scomparsa.Questo per quanto riguarda la punizione del soggetto che avviene in seguito ad un comportamento criminale.Ma a ben vedere, queste teorie, affrontano anche il nodo della prevenzione del crimine in special modo, della violenza urbana.La teoria più in voga su questo tema è senz’altro quella ereditata dalla coppia di tutori dell’ordine e fautori della zero tolerance rappresentata da Rudolph Giuliani (sindaco di New York tra il 1994 e il 2001) e il commissario del New York Police Department Bill Bratton.La coppia Giuliani-Bratton ha applicato appieno, nella New York dei loro mandati, il concetto di zero tolerance: controlli severi ad ogni angolo della strada, superpoteri alla polizia, controllo delle gangs, tutela del decoro urbano e via dicendo.La broken windows theory è stata la “bibbia” dei fautori della tolleranza zero: questa teoria - più che una teoria è in verità un

30 Alessandro De Giorgi, Zero tolleranza, cit., pag. 32

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semplice articolo su una rivista scritto da uno scienziato della politica e da un criminologo statunitensi, George L. Kelling e il già citato James Q. Wilson - avanza l’ipotesi che eliminare il degrado urbano in una città sia la chiave di volta per eliminare la vera e propria criminalità.31

Secondo gli autori, un territorio sporco, degradato, disordinato (la metafora della “finestra rotta” è così spiegata) contribuisce ad aumentare la criminalità, questo a causa di un sentimento di percezione di lontananza delle autorità che si instaurerebbe nelle persone che vivono nell’ambiente degradato.Per questa ragione gli interventi della polizia newyorkese, durante l’amministrazione Giuliani-Bratton, che più rappresentarono il “modello New York” furono diretti all’eliminazione dei comportamenti di “devianza non criminale”, come ad esempio il lavaggio dei vetri delle vetture ai semafori, i graffiti, il barbonaggio, l’elemosina e via dicendo.I dati sulla criminalità sembrerebbero aver dato ragione alla coppia Bratton-Giuliani32, ma in verità ad un’attenta lettura, gli stessi dati dimostrano che la criminalità a New York era già in netto calo da almeno tre anni prima dell’applicazione dei precetti della tolleranza zero. Inoltre, non solo a New York, ma in tutti gli Stati Uniti, anche nelle città e negli stati in cui non è stata applicata la teoria delle finestre rotte e la tolleranza zero, la criminalità è diminuita, il che fa pensare più a una regressione fisiologica dei crimini che ai miracoli della zero tolerance. Inoltre, risulta difficile immaginare come, date le risorse a disposizione della polizia del NYPD, possano essere stati applicati 31 La broken windows theory è apparsa la prima volta in forma di articolo sulla rivista “Monthly Rewiew” del marzo 1982. Si può visionare l’articolo originale dall’archivio della rivista ( http://www.theatlantic.com/doc/198203/broken-windows )32 Complessivamente nel periodo 1994-1996 i reati denunciati a New Yok sono calati del 30%, mentre gli omicidi sarebbero diminuiti addirittura del 40%. Allo stesso tempo il 73% degli abitanti di New York si dichiarano soddisfatti dell’operato della polizia e dicono di sentirsi più sicuri, dato che supera del 32% la media nazionale.

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alla lettera i precetti della zero tolerance e della broken windows theory; ora, è senz’altro veritiero che la polizia newyorkese abbia riorientato i propri obiettivi verso l’ottica di tutelare l’ambiente fisico dal degrado, cosa che prima non era deputata a fare, ma il rapporto causa-effetto così come presentato dagli apologeti della tolleranza zero non è dimostrabile. Infatti è più probabile che la polizia abbia potuto orientare la propria attenzione verso il disordine proprio perché i crimini di strada erano già in netto calo dai periodi precedenti. In definitiva, sembra più probabile che non siano i precetti della zero tolerance ad aver ridotto la criminalità, bensì la riduzione (già in atto) della criminalità ad aver permesso l’applicazione della tolleranza zero.Per verificare il funzionamento dell’applicazione della tolleranza zero e della “finestra rotta”, bisognerebbe confermare tre ipotesi: 1) che nella New York di Giuliani-Bratton si siano realmente applicate queste disposizioni, 2) che il calo della criminalità si sia verificato esattamente in corrispondenza dell’applicazione di questo orientamento e 3) che il calo della criminalità si sia verificato soltanto a New York. Come abbiamo visto nessuna delle tre ipotesi può essere confermata.Tuttavia, uno sguardo al dibattito politico italiano attuale, soprattutto per quanto riguarda le talvolta stravaganti ordinanze delle amministrazioni comunali sparse sui territori in merito alle strategie di contenimento della criminalità e del degrado, dà l’idea di quanto la portata di questo tipo di teorie si rifletta anche sulla nostra società, pur essendosi ormai consolidata come fallimento in altre parti del mondo.Le stesse parole di Jack Maple, braccio destro di Bratton presso il NYPD, riportate fedelmente da Wacquant, dimostrano come la teoria delle finestre rotte sia soltanto un’invenzione politico-mediatica tesa ad aumentare la percezione di sicurezza e di vicinanza delle autorità verso la popolazione:

“[In seguito a numerosi] reportage che registrano un sensibile calo della criminalità violenta a New York, molti ne hanno attribuito il merito alla nozione della “finestra rotta”, secondo la quale i malviventi avrebbero

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improvvisamente ritrovato la retta via perché respiravano un’aria di civiltà. Non è così che funziona. Gli stupratori e gli assassini non si spostano verso un'altra città quando si accorgono che nella metropolitana scompaiano i graffiti. Lo squeegeman [il lavavetri] qualunque non si mette ad accettare omicidi su commissione quando percepisce una maggiore tolleranza per la sua attività. Chiedere l’elemosina non apre la strada agli assassini. […] La politica di “qualità della vita” riduce il crimine perché consente di catturare i delinquenti quando non sono all’opera, come quando un esercito attacca gli aerei del nemico prima ancora del decollo” (Jack Maple) .33

1.3 Europa e Italia come banchi di prova (e di tenuta) dei nuovi paradigmi sicuritari.

Sarebbe forse sorpreso Jack Maple nel leggere i quotidiani e ascoltare le notizie dei telegiornali italiani ed europei. Quelle teorie e prassi che egli stesso ha bollato come “inutili”, sono oggi all’ordine del giorno nelle agende politiche degli amministratori locali e dei governi dei principali paesi europei, con l’Italia a fare da capofila.Non a caso, i leitmotiv dei quotidiani e dei telegiornali nazionali, caratteristica comune a quasi tutti i paesi europei, non perdono occasione per tracciare mappe catastrofiste delle violenze urbane, accomunano bullismo da cortile di scuola, scippatori, omicidi e migranti clandestini in un unico calderone mediatico sensazionalista, attento allo scoop, al retroscena e spettacolare. La “pornografia sicuritaria” citata in precedenza è, in Europa, la punta di diamante del giornalismo di cronaca.Venendo al caso italiano, si può notare, in perfetta armonia con le tendenze degli altri paesi europei34, che gli effetti di questo tipo di trattamento delle notizie di cronaca nera si riflette (con i meccanismi 33 Jack Maple e Chris Mitchell, The crime figher: how you can make your community crime-free, New York, Broadway Books, 1999 pp.154-155 cit. in: Loïc Wacquant, Punire i poveri, cit., pag.26034 Come, ancora una volta, evidenziato da Loïc Wacquant nel capitolo “Fac-simile europeo” di Punire i poveri,cit., pp.241-282

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che vedremo in parte anche nel capitolo successivo) pesantemente sull’agenda e sul discorso dei politici.Questo fa sì che ad oggi esista un super-schieramento ideologico che abbraccia l’intero arco parlamentare (ricordiamo che i partiti di estrema sinistra parlamentare, gli unici che si sono opposti insieme ai movimenti sociali e sindacali all’implementazione di queste politiche sicuritarie, sono usciti dal Parlamento con le elezioni politiche del 2008) dedito alla promozione e al sostegno delle politiche di zero tolerance, seppur con sfumature differenti.35

Tutto questo clamore suscitato dalla presunta emergenza criminalità in Italia è contraddetto nei numeri da un’importante inchiesta di una serie di istituzioni internazionali preposte allo studio della vittimizzazione nei vari paesi europei (ICVS, International Crime Victimization Survey).Questo studio36 mostra come i livelli di criminalità, o meglio, la percentuale di persone che sono state vittime di un crimine in Italia sia in costante diminuzione dal 1992 ad oggi: infatti se nel 1992 la percentuale di persone vittime di uno tra i 10 crimini considerati più comuni era di oltre il 20%, il valore si è attestato stabilmente intorno al 12% nel 2004.I livelli di criminalità nel nostro paese sono sotto la media della maggioranza degli altri paesi europei, ad esclusione di Spagna, Ungheria, Portogallo, Francia, Austria, Grecia.La percentuale di popolazione vittima di un reato37 in Italia nel 2004 è intorno al 12%, quando la media europea si attesta intorno al 15%.

35 Sulla svolta punitiva degli schieramenti progressisti europei: per il caso italiano di rinnovamento della sinistra in materia penale è utile citare Salvatore Verde, Massima sicurezza. Dal carcere speciale allo stato penale, Roma, Odradek, 2002.36 L’ultima inchiesta, datata 2004, è disponibile in versione integrale al sito http://www.europeansafetyobservatory.eu/downloads/EUICS_The%20Burden%20of%20Crime%20in%20the%20EU.pdf37 I reati presi in considerazione dall’indagine ICVS citata sono: furti di veicoli, rapine, furti, truffe, violenze sessuali, atti di violenza, frodi. Ho citato questa indagine perché incentrata proprio sul modello della vittima come esempio di cittadino.

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Questi dati, seppur parziali, testimoniano come i roboanti proclami sul disastro della sicurezza in Italia perpetuati costantemente da mass media e politici, sembrino infondati.Al pari degli Stati Uniti, vera mecca per i manager dell’ordine pubblico nostrani, è probabile che il modello della tolleranza zero, non porti significativi miglioramenti sul piano della riduzione della criminalità, o, per lo meno, non ne sia una causa diretta.Come abbiamo visto in precedenza, infatti, il “modello New York” tanto decantato anche dai politici italiani, lascia aperti innumerevoli dubbi sulla sua efficacia, a detta degli stessi suoi promotori ed esecutori.Il caso che mi sembra paradigmatico rispetto allo sviluppo e attuazione di queste politiche in Italia al giorno d’oggi è quello del controllo sulle popolazioni migranti.Partendo dai dati a nostra disposizione38 vediamo come la percentuale della popolazione immigrata residente in Europa sia pari al 6,2% sul totale dei residenti, mentre il dato italiano si attesta intorno al 6.5%, quindi senza particolari differenze rispetto al dato europeo.Già questo dovrebbe far pensare alle quotidiane esagerazioni dei politici italiani (in special modo degli esponenti della Lega Nord) sul presunto “stato d’assedio” nel quale si troverebbe il nostro paese.Ora, i processi, le cause e le trasformazioni dei flussi dell’immigrazione sono molto complessi e non è questa la sede per una disamina completa di questo tipo di dinamiche, certo è che il sentore di un’esagerazione mediatica ad opera di una certa parte politica, soprattutto nei toni dei propri discorsi, rispetto al tema dell’immigrazione è molto forte.Un altro dato interessante riguarda il fatto che oltre 6 italiani su 10 pensano che la presenza degli immigrati in Italia sia la causa di un aumento della criminalità.39

38 Di cui il “Dossier statistico 2009” a cura di Caritas/Migrantes rappresenta forse la fonte più completa e aggiornata 39 Dati confermati dalle ricerche di Transcrime (centro inter-universitario di studio sulla criminalità transazionale dell’Università di Trento e della

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Questo dato, che rappresenta un sentore comune, seppur supportato da alcuni studi statistici, tra cui quello commissionato dal Ministero dell’Interno curato da Marzio Barbagli40, ci fa capire come il tema dell’immigrazione sia percepito in stretta correlazione con il tema della criminalità.Infatti, una lettura parziale dei dati statistici ci consegna un’immagine di un rapporto sproporzionato tra le percentuali degli stranieri residenti, e delle stime sulla presenza di irregolari, (6,5%) e le percentuali di crimini commessi da stranieri rispetto al totale dei crimini commessi (33,4%).Ora, esistono numerosi studi a tal proposito che rigettano in toto l’ipotesi che l’immigrazione sia di per sé la causa di un aumento della criminalità.41 Una ricerca in particolare, commissionata nel 2008 dalla Banca d’Italia, basata sulle statistiche del Ministero dell’Interno dal 1990 al 2003, testimonia “l’assenza di una relazione causale diretta tra immigrazione e crimine”.42

Secondo Melossi43 è in atto un processo di etichettamento o di stigma fondato ad estendere agli immigrati la stessa considerazione che un tempo veniva riservata ai poveri.

Cattolica di Milano), di Ismu-Eurisko, di Makno per il Ministero dell’Interno e della Demos con la Coop.40 Si vedano a proposito: Marzio Barbagli, Immigrazione e sicurezza in Italia, Bologna, Il Mulino, 2008 e Marzio Barbagli (a cura di), Rapporto sulla criminalità in Italia, 2008 (scaricabile dal sito http://www.interno.it/mininterno/export/sites/default/it/assets/files/14/0900_rapporto_criminalita.pdf )41Per esempio gli studi di Dario Melossi (uno su tutti Dario Melossi, Il giurista, il sociologo e la “criminalizzazione” dei migranti: cosa significa etichetta mento oggi?, in: Subordinazione informale e criminalizzazione dei migranti. Studi sulla questione criminale, III, 3/208, 9-23) sono un esempio di un approccio moderno alle labelling theory criminologiche.42 Paolo Bonanno e Paolo Pinotti, “Do immigrants cause crime?” in: Paris School of Economics Working Paper N. 2008-0543 Dario Melossi, Il giurista, il sociologo e la criminalizzazione” dei migranti: cosa significa etichettamento oggi?, cit.

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Certo è che il tasso di presenza dei migranti nelle carceri italiane è incredibilmente sovra-rappresentato rispetto all’incidenza sulla popolazione: gli immigrati rappresentano il 37% dell’intera popolazione carceraria italiana, contro una percentuale di residenti del 6,5% sul totale.Viene dunque da chiedersi se esiste o no un parallelismo o meno tra la connotazione razziale delle carceri americane così come evidenziata da Loïc Wacquant e le carceri italiane.Viene naturale chiedersi, insomma, perché

in Italia, in Europa e negli Stati Uniti il carcere è sempre più nero. 44

Le politiche restrittive sull’immigrazione, ricordiamo non da ultima l’introduzione del “reato di clandestinità” già giudicato anticostituzionale da diverse sentenze, fanno sì che si crei un abbondante numero di persone che vengono stigmatizzate a prescindere dal fatto che esse abbiano compiuto o meno un reato.Per capire la portata di questo tipo di provvedimento legislativo, il reato di clandestinità, basta riportare che, dalla sua entrata in vigore, pochi mesi or sono, oltre il 20% sul totale della popolazione carceraria di origine straniera si trova in carcere per aver contravvenuto a questo provvedimento.45

Questo da un lato tende ovviamente a favorire l’entrata di queste persone nelle economie illegali di strada come uniche fonti di reddito e di sopravvivenza, dall’altro crea ampi margini di sfruttamento economico per chi decide comunque di impegnarsi in un’attività lavorativa “sommersa”, quella del lavoro nero. Il migrante è spesso costretto a lavorare “in nero”, per pochi spiccioli e con margini di ricattabilità enormi: se ci si ribella allo sfruttamento, ecco pronta l’espulsione o, dall’emanazione del Pacchetto Sicurezza, il carcere per immigrazione clandestina.Il tutto, ovviamente, accompagnato da una sorta di processo mediatico continuo nei confronti delle popolazioni migranti. L’idea

44 Alessandro De Giorgi, Zero tolleranza, cit., pag. 5045 Fonte: Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria

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di base sembra essere quella di enfatizzare da un lato i crimini quando commessi da immigrati, dall’altro sottolineare i casi di integrazione dell’immigrato con reportage e servizi speciali, per mostrare “quanto è bravo questo immigrato” (che è un caso isolato, a differenza della maggior parte dei suoi conterranei).È forte dunque il dubbio che la creazione di questo “nemico interno” sia decisamente funzionale a distogliere l’opinione pubblica dai reali problemi della società e della politica.

Oltre alla questione migrante, sicuramente più articolata e complessa di come è stata trattata in questo testo, ma che serve dare spunti di riflessione e non ad una trattazione completa del tema, nuove normative sicuritarie hanno investito gli altri strati della società.La recente approvazione del “Pacchetto Sicurezza” ha in sé tutte le caratteristiche della propaganda mediatico-politica delle parole d’ordine della zero tolerance.Nonostante questo tipo di norme si sia dimostrato di dubbia utilità negli Stati Uniti ecco che con quasi vent’anni di ritardo si tenta una loro applicazione alla legislazione italiana.Quindi vediamo possibilità di sanzioni pesanti per chi sporca i luoghi pubblici con graffiti o prodotti fisiologici, la possibilità di sperimentare la “sicurezza partecipata” (le cosiddette ronde), viene punito l’accattonaggio, sono aggravate le pene per furti e rapine, e così via.

Conclusioni

Possiamo allora affermare che, ancora una volta, i temi e le azioni di governo, e più in generale della politica, tendono ancora a non tener conto delle migliaia di pagine spese in studi sociologici, statistici e criminologici sull’impatto negativo dei nuovi paradigmi sicuritari sulla democrazia.

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Il teatrino morale scatenato di volta in volta dagli episodi di violenza urbana, piuttosto che dal rumeno che ubriaco alla guida investe e uccide una ragazza, o dai drammi famigliari, è all’ordine del giorno, si sprecano le interviste ai leader politici che infiammano le piazze (mediatiche) chiedendo maggior severità e repressione.I periodici pullulano di inchieste sulle “zone proibite della città” o sulle “mappe della criminalità”, mischiando sensazionalismo e moralismo.Dappertutto, dai bar di quartiere al Parlamento, si sentono ripetere i soliti discorsi su quanto siano inadeguate le politiche lassiste e garantiste della magistratura, sull’indignazione e insicurezza dei cittadini perbene di fronte all’ondata criminale e così via.Abbiamo visto come le emergenze mediatiche impattano sull’agenda politica e come la politica assorbe queste questioni facendone un proprio cavallo di battaglia teso ad aumentare, sul piano simbolico, l’autorità dello Stato in un momento di crisi della forma-stato stessa scaturita dai dettami neoliberali.Il populismo che stravince dentro alle cabine elettorali è la chiave di volta di questi processi demistificatori e semplicisti, verso i quali sembra ormai legittimo il sospetto di loro utilizzo “altro” rispetto all’aumento della sicurezza urbana nelle nostre città.Sembra che la politica adotti la strategia “legge e ordine” come meccanismo di semplificazione delle problematiche, di ben altra portata, scaturite dall’avvento dei paradigmi postfordisti prima e dalla crisi finanziaria planetaria oggi.Detto questo non posso che auspicare un cambiamento di rotta negli anni che si susseguiranno al nuovo scenario globale che ci si prospetta davanti, qualora la crisi venga superata. Già il nuovo corso della politica statunitense, dopo quasi 10 anni di populismo autoritario targato Bush jr., lascia aperti margini di cambiamento, verso un approccio alla criminalità, alla devianza e più in generale alla politica, serio e preciso nell’analizzare i cambiamenti sociali ed economici della popolazione e che non si serva di feticci quali i “nemici interni” e le presunte emergenze criminalità per legittimare l’estensione delle pratiche di dominio sulle classi meno abbienti.

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CAPITOLO 2Comunicazione, sistema politico e cittadini

Introduzione

La società moderna, quella per intenderci nata dopo la Rivoluzione Industriale, è stata da molti definita come la società dell’informazione. Se in precedenza il ruolo delle comunicazioni era essenzialmente circoscritto ad uno spazio dialogico tra élite politiche e sociali, al giorno d’oggi rappresenta la possibilità di connettere strati differenti delle popolazioni, annullare le distanze fisiche, abbattere i limiti temporali dei flussi di informazione.Si pensi soltanto al ruolo decisivo che ha avuto la televisione italiana nel processo di alfabetizzazione delle classi sociali inferiori, o alla moderna funzione di Internet come strumento che permette (virtualmente) di connettere luoghi fisicamente lontanissimi attraverso, appunto, i flussi di informazione.Questi esempi solo per rendere l’idea della potenza del sistema dei media nella nostra società.I rapporti tra mass-media, sistema politico e cittadino rientrano nell’analisi complessa del filone della “comunicazione politica”.Se si vuole indagare il contesto entro il quale le nuove tendenze sicuritarie si inseriscono e se, come è mia intenzione, vogliamo sviluppare un ragionamento intorno alla drammatizzazione della criminalità e al perché assistiamo a una sempre più marcata creazione dell’insicurezza tra i cittadini, non si può non affrontare seppure in modo sintetico il nodo dei rapporti tra il sistema delle comunicazioni e il sistema politico, nonché il rapporto tra questi e i cittadini.Proprio perché queste nuove tendenze sono amplificate e ampiamente trattate dai quotidiani e dalle televisioni, credo sia necessario fermarsi un momento a riflettere sul ruolo delle

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comunicazioni nel contesto politico istituzionale e, soprattutto, sui suoi effetti nella popolazione.Dopo aver definito i concetti di comunicazione politica e aver presentato attori e modelli della comunicazione politica, andrò ad esaminare i rapporti e i flussi comunicativi che permettono a questi attori di interagire all’interno dello spazio pubblico (mediatizzato).Infine esaminerò le ultime tendenze nel campo della comunicazione politica, per tracciare una panoramica più moderna e immediatamente riscontrabile del ruolo dell’informazione sugli altri due sistemi.Questo capitolo vuole essere una sorta di ponte che collega la parte specificatamente teorica affrontata nel capitolo precedente, che è andata ad esaminare la nascita di concetti come zero tolerance e le nuove politiche di trattamento delle devianze alla luce dei cambiamenti sociali ed economici avvenuti nel mondo occidentale negli ultimi 30 anni, con il capitolo di ricerca empirica sulla città di Reggio Emilia, città sotto questo aspetto particolare per due motivi: da un lato vediamo come quella da sempre definita come “fortezza rossa”, esempio del buon governo della sinistra, sia assediata dalla minaccia Lega Nord, che fa della retorica populista e sicuritaria il proprio cavallo di battaglia.Dall’altro lato notiamo la tendenza, da parte degli amministratori di centrosinistra, ad abbracciare le logiche della tolleranza zero a fronte della minaccia di un’insicurezza (e quindi di un giudizio elettorale negativo nei confronti del governo della città) percepita diffusamente dai cittadini. Intendo questo breve capitolo, dunque, come inquadramento teorico-pratico della ricerca che presenterò nella terza parte di questo testo, come una sintetica traccia utile a definire le linee guida del lavoro empirico successivo, ossia utile a cogliere appieno, anche se in estrema sintesi, i meccanismi che regolano la comunicazione politica.

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2.1 Il campo della comunicazione politica

A questo proposito è utile iniziare con alcune definizioni dei tre attori principali di qualsiasi modello della comunicazione politica: sistema politico, sistema dei media e cittadini, infatti, sono soggetti le cui differenti modalità di intreccio vanno a configurare diversi aspetti del problema che si vuole trattare in questo testo.Lo sviluppo del concetto di comunicazione politica (le cui caratteristiche di interdisciplinarità lo rendono ancora un concetto dagli incerti confini) deriva dall’evoluzione e dalla trasformazione di quel modello di sfera pubblica borghese, nell’accezione di Jurgen Habermas, che vede nel pubblico dei cittadini il depositario delle strutture e dei processi della democrazia, riconoscendo nel modello della polis greca l’ideale di partecipazione del pubblico alla sfera politica democratica.Un primo fondamentale tratto del concetto di comunicazione politica va dunque ricercato nella profondità del suo legame con la democrazia.Gli esperimenti totalitari o dittatoriali, così come i regni, i principati o le monarchie, non possono dunque essere considerati come sistemi al cui interno viene sviluppata una vera e propria comunicazione politica, poiché prevedono un modello di pubblico senza voce, inerme di fronte alle scelte del leader.Ora, numerose critiche possono essere mosse alla concezione habermasiana di sfera pubblica borghese che presuppone un pubblico di cittadini ben informati, culturalmente attivi, critici e partecipanti a pieno titolo nell’esperienza politica democratica, cosa che sembra ovvio non essere, ma possiamo mantenere valido il concetto come strumento euristico.46

Mi sembra altresì ragionevole rigettare le pessimistiche critiche, pervenute soprattutto dalla scuola francofortese, che vedono il cittadino inerme di fronte alla potenza manipolatrice dei mass media (vedi ad esempio le teorie ipodermiche della comunicazione

46 Jürgen Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Bari, Laterza, 2008 (prima ed. originale del 1962)

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massificata), così come le teorie lazarsfieldiane sugli effetti limitati dei media che non colgono appieno le dinamiche di influenza/ricezione dei media sul pubblico. Credo essere più centrata un’analisi che vede nel sistema dei media un attore importante della comunicazione politica, un mediatore non neutrale della dialettica tra politica e cittadini, in grado di trasformare quello che storicamente (prendendo l’agorà greca come esempio paradigmatico) era lo spazio pubblico, in spazio pubblico mediatizzato.All’interno dello spazio pubblico mediatizzato

i media vengono ad occupare il ruolo di perno della comunicazione ascendente e discendente tra il pubblico dei cittadini e sistema della politica […]. Lo spazio pubblico dei mass media non esaurisce, tuttavia, lo spazio pubblico perché esiste un territorio, quello della “società civile” al cui interno nascono sensibilità verso issues (per esempio la pace, il nucleare, il terzo mondo, il femminismo e le questioni etniche), si sviluppa un dibattito tra intellettuali, piccoli gruppi, viene raccolto e diffuso da associazioni e da una stampa specializzata, si trasforma lentamente in movimenti e nuove subculture e finalmente raggiunge per mezzo dei mass media l’opinione pubblica più ampia, interessando lo spazio pubblico generale.47

Abbiamo dunque circoscritto il campo di azione della comunicazione politica ad un limitato e ben preciso contesto, lo spazio pubblico mediatizzato.A tal proposito, prima di vedere quali sono i due principali modelli teorici della comunicazione politica, conviene definire sinteticamente gli attori che in questi modelli agiscono e interagiscono:

1) Sistema politico: per sistema politico in generale si intende quell’insieme di istituzioni politiche che costituiscono lo scheletro della vita politica di un paese. Per il caso italiano dunque parliamo di membri del sistema politico quando ci riferiamo al parlamento, al governo, al presidente della repubblica, la magistratura, enti questi che solitamente producono comunicazione istituzionale.

47 Gianpietro Mazzoleni, La comunicazione politica, Bologna, Il Mulino, 2004, pag. 19

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Ma non trascuriamo nemmeno i partiti, i sindacati, i movimenti sociali e di base, i single issue movements, e via dicendo che rientrano anch’essi a pieno titolo nel sistema politico, ma che producono un altro tipo di comunicazione: quella “politico-partitica”.

2) Sistema dei media: quando parliamo di sistema dei media ci riferiamo a tutte quelle istituzioni mediali che svolgono attività di produzione e distribuzione del sapere (informazioni, idee, cultura).48

Ovviamente rientrano in questa categoria i mass media tradizionali, i nuovi media (come Internet e le nuove infrastrutture informatico - comunicative), i periodici, i quotidiani di partito, ecc.

3) Cittadini: rientrano in questa categoria tutte le persone che risiedono nel paese, questa categoria è forse la più problematica da definirsi perché estremamente disomogenea, il che fa emergere notevoli difficoltà quando si tratta di definire un concetto come quello di opinione pubblica49.

2.2 Modelli della comunicazione politica

I due principali modelli della comunicazione sono quello «pubblicistico-dialogico» e quello «mediatico». Il primo, oggi ormai contraddetto dalle evidenze empiriche sul concetto di comunicazione politica, vede i tre attori principali in un continuo scambio dialettico e dialogico tra di loro: esistono essenzialmente quattro spazi di comunicazione: a) tra sistema politico e sistema dei media, b) tra sistema dei media e cittadini, c) tra sistema politico e cittadini e d) lo spazio politico mediatizzato che risulta dall’interazione tra tutti e tre questi sistemi.48 Denis McQuail, Sociologia dei media, IV ed. aggiornata, Bologna, Il Mulino, 200149 Per una panoramica dei principali contributi teorici sul tema: Stefano Cristante, L’onda anonima, Roma, Meltemi, 2004

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Questo modello risulta, dicevamo, contraddetto dai fatti, in favore del secondo tipo di modello che vede ogni scambio comunicativo tra sistema politico e cittadini inserito all’interno del sistema dei media il che tiene conto dell’ormai comprovato peso specifico maggiore dei media rispetto agli altri due attori (l’avvento della televisione è un esempio emblematico a riguardo).Il modello «mediatico» dunque tiene conto della concettualizzazione, già fatta in precedenza, di spazio pubblico mediatizzato, ossia del fatto che i media sono il veicolo principale del dibattito politico. Secondo alcuni, addirittura, l’arena politica corrisponde in toto al sistema dei media, non ci sono altri spazi di dialettica politica.

Tengo a precisare che questi tipi di modelli, riflettono una concezione, derivata chiaramente dalla teoria dei sistemi sociali di Niklas Luhmann50, che sembrerebbe vedere ognuno di questi sistemi e le relazioni che creano tra di essi come perfettamente equilibrati e omogenei al loro interno. Ovviamente si tratta di una concezione teoricamente limpida e formalmente ineccepibile, salvo poi non corrispondere esattamente a ciò che accade nella realtà.Lo stesso Luhmann denuncia questo rischio, prevedendo comunque la possibilità di conflitti all’interno degli stessi sistemi e confermando come le situazioni di equilibrio sono fortemente instabili e mutevoli.51

Ci resta dunque da vedere in che modo si articolano i rapporti tra questi tre attori politici e, soprattutto, quali sono le nuove tendenze in fatto di comunicazione politica (mediatizzata).Per articolare un discorso esauriente sulle nuove politiche sicuritarie parto dall’ipotesi, immediatamente riscontrabile nel senso comune, che siano i mass media ad amplificare le voci degli attori politici che

50 La teoria dei sistemi sociali di Luhmann è presente in tutta la sua opera, possiamo citare, come maggiormente pertinente al tema che stiamo trattando: Niklas Luhmann, La realtà dei mass media, Milano, Franco Angeli, 200051 Niklas Luhmann, La realtà dei mass media, cit.

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tendono a creare allarmismi sulle (vere o presunte) emergenze-sicurezza/ordine pubblico.Per fare ciò credo che soffermarsi sui rapporti tra sistema dei media e sistema politico (in entrambe le direzioni dei flussi comunicativi) e tra sistema dei media e cittadini (nei termini di ricezione/influenza) sia sufficiente per dare una base teorica alla presentazione dei risultati della ricerca condotta sulla città di Reggio Emilia.Decido consapevolmente di tralasciare il discorso del rapporto diretto tra sistema politico e cittadini perché facilmente concepibile come flusso comunicativo che in una direzione è rappresentato dalle comunicazioni istituzionali, dalla propaganda e dalle campagne elettorali, mentre dall’altro consiste essenzialmente nel voto come mezzo di partecipazione dei cittadini alla politica. Per un’esauriente trattazione di questo, come degli altri temi presenti in questo capitolo, rimando ancora all’esauriente testo di Mazzoleni. 52

2.3 Sistema dei media e sistema politico (ovvero gli effetti sistemici della mediatizzazione della politica)

Il processo, oramai ampiamente riconosciuto dalla comunità scientifica, della cosiddetta «mediatizzazione della politica», ovvero l’interdipendenza del sistema politico e del sistema dei media nei termini di reciproco scambio e di costante ricerca di equilibrio tra politica e «fourth branch of governement»53, è una diretta conseguenza della potenza dei media anche come istituzione che si sostituisce alle tradizionali agenzie di socializzazione (chiesa, scuola, partiti). 52 Giampiero Mazzoleni, La comunicazione politica, cit.53 Concetto efficacemente spiegato in: Timothy E. Cook, Governing with the news, Chicago, Chicago University Press, 1998, oppure in: Bartholomew J. Sparrow, Uncertain guardians, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1999

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Dobbiamo dunque ricercare l’origine della mediatizzazione della politica nella mediatizzazione della società: è un processo ormai normale quello che si verifica nelle società a capitalismo avanzato, dove persino alcune relazioni sociali sono mediatizzate (si pensi all’utilizzo in continua espansione dei social networks o delle chat-lines).Abbiamo volutamente parlato di interdipendenza del sistema politico e del sistema dei media: infatti, ad oggi, nessuno dei due sistemi è riuscito (o ha avuto l’intenzione di) sopraffare l’altro; il sistema politico ha bisogno del sistema dei media per veicolare le proprie informazioni non meno di quanto il sistema dei media ha bisogno di un sistema politico che produca informazioni politiche da veicolare.Niklas Luhmann identifica il potere nella comunicazione come «facoltà di influenzare la selezione dei simboli e degli atti» all’interno delle interazioni sociali54, intendendo la comunicazione del sistema politico al sistema dei media come espressione di un rapporto di potere con il quale il sistema politico intende influenzare il sistema dei media attraverso processi di regolamentazione (leggi mirate a governare i media), media e news management (tentato condizionamento delle attività dei media).Al contempo il sistema dei media si protegge da queste influenze con i processi di mediatizzazione (imposizione del linguaggio dei media ai linguaggi della politica), watch dogging (media come “cani da guardia” nei confronti del sistema politico e a favore delle istanze dei cittadini).Seguendo ancora Mazzoleni55 possiamo suddividere gli effetti sistemici del sistema dei media sul sistema politico (e viceversa) in due categorie:

1) Effetti mediatici e 2) effetti politici.

Per quanto concerne la prima categoria possiamo elencare sinteticamente questo tipo di effetti in spettacolarizzazione, agenda

54 Niklas Luhmann, Potere e complessità sociale, Milano, Il Saggiatore, 197955 Giampiero Mazzoleni, La comunicazione politica, cit.

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setting/agenda building e frammentazione dell’informazione politica.Parlando di spettacolarizzazione della politica, possiamo già intuitivamente capire di cosa si tratta, ovvero di una drammatizzazione della retorica, dei simboli, dei linguaggi e dei riti della politica, sempre sotto l’occhio vigile dei media (soprattutto della televisione).La frammentazione dell’informazione politica si riferisce al fenomeno di impoverimento del discorso politico in virtù delle esigenze dei media: si pensi ad esempio ad un comune telegiornale, difficilmente si riesce a comprendere appieno un discorso politico, alle volte anche molto complesso, tramite servizi di 60-120 secondi. La frammentazione dell’informazione politica comporta un impoverimento e “banalizzazione” della politica agli occhi degli spettatori/lettori.L’effetto forse più interessante per quel che riguarda il fenomeno di deriva sicuritaria che stiamo cercando di analizzare consiste senz’altro nella costruzione dell’agenda politica. I mass media influenzano in maniera decisiva quanti e quali temi verranno trattati dal sistema politico e saranno a loro volta al centro del dibattito pubblico.I politici sono così obbligati a fare dichiarazioni, interventi sui temi scottanti dell’agenda costruita dal sistema dei media. Nel nostro caso, i direttori di quotidiani e telegiornali sanno bene che il trattamento di eclatanti casi di cronaca nera, di presunti allarmi criminalità, possono fare impennare le vendite dei propri prodotti mediali; sono questioni che entrano nell’intimo dei cittadini che si vedono così costretti a confrontarsi con le proprie paure più recondite, quelle che entrano nel recinto della propria vita privata e della propria incolumità percepita.I politici e gli amministratori devono necessariamente intervenire sui dibattiti intorno alla sicurezza e, quasi sempre, intervengono richiedendo o promettendo di attuare misure drastiche di contrasto alla criminalità, sottolineando bene ai cittadini-elettori che questo può avere un costo anche sull’esercizio delle libertà individuali.

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Il linguaggio politico (inteso in senso foucaultiano come sistema di pratiche linguistiche che contribuiscono alla costruzione sociale della realtà) viene così centrato sui temi dettati dai media, con toni allarmistici, spettacolari e drammatizzanti.

Per quanto concerne, invece, l’altra tipologia di effetti che il sistema dei media ha sul sistema politico (i cosiddetti effetti politici), possiamo definirla come quell’insieme di effetti che si ripercuotono sulle interazioni tra le componenti del sistema politico stesso.Essi sono consistono essenzialmente in tre processi: leaderizzazione, personalizzazione e selezione delle élite.La personalizzazione e la leaderizzazione della politica sono due facce della stessa medaglia: la logica dei media prevede un interesse maggiore alle gesta di un personaggio o di un leader piuttosto al noioso discorso politico. L’insieme di questi due effetti produce alcune delle sfumature più evidenti del populismo, fenomeno importantissimo della realtà politica italiana dal post-tangentopoli ad oggi.Il sistema premia i candidati più carismatici, telegenici e dalla battuta pronta, rispetto a politici magari più preparati, ma con scarsa personalità e poca attitudine al mondo dello spettacolo.

2.4 Sistema dei media e cittadini (ovvero gli effetti psicosociali della mediatizzazione della politica)

Se vogliamo, per concludere, tracciare un percorso completo sulla comunicazione politica non possiamo tralasciare gli effetti della mediatizzazione della politica sul cittadino-elettore.Proprio perché, nelle democrazie, è il cittadino che funge da depositario e garante delle regole democratiche, attraverso la rappresentanza, è necessario indagare al fine di cogliere questo tipo di effetti, rimanendo in equilibrio tra le teorie pessimistiche che vedono nei media un potente manipolatore (a sua volta manipolato

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dalle élite politiche) dei cittadini e le teorie, come ad esempio quelle di Lazarsfield, che predicano gli effetti minimi (di rinforzo di predisposizioni già esistenti) dei media sui cittadini.56

Nei modelli della comunicazione politica visti in precedenza, il cittadino-elettore ha un peso nettamente minore rispetto a sistema politico e sistema dei media, ma questo non significa comunque negare in toto l’importante ruolo che svolge all’interno dello spazio politico mediatizzato.Infatti, è generalmente il “popolo” che elegge i politici che gestiranno poi il potere, ed è lo stesso “popolo” che legittima, sceglie e dà fiducia ai media attraverso il consumo di prodotti mediali.Nella scienza politica moderna, poi, si parla giustamente di “crisi della rappresentanza”, concetto che meriterebbe un adeguato approfondimento, per il quale possiamo comunque rimandare ad un saggio di Giovanni Sartori che traccia le linee guida del dibattito sulla rappresentanza.57

Gli effetti più importanti dei media sul cittadino sono riassumibili in: effetti sulla socializzazione politica, effetti sulla conoscenza politica ed effetti sulla partecipazione politica.Per quanto riguarda il primo tipo di effetti, è innanzitutto necessario definire il concetto di socializzazione politica, come quel processo attraverso il quale i bambini apprendono le norme valoriali e comportamentali rispetto alla politica.I mass media, in questo senso, rivestono un ruolo importante: abbiamo già detto che nella fase sociale e politica nella quale ci 56 Per quanto riguarda il primo tipo di teorie sugli effetti dei media (teorie ipodermiche) si veda: Charles Wright Mills, Power, politics and people, New York, Oxford University Press, 1967. Per il secondo tipo di teorie (degli effetti minimi) si veda: Paul F. Lazarsfeld et al., The people’s choice: the media in a political campaign, New York, Columbia University Press, 1944; oppure: Paul F. Lazarsfeld e Elihu Katz, L’influenza personale nelle comunicazioni di massa, Torino, Eri, 1968. Per una esauriente panoramica sulle teorie di sociologia della comunicazione: Sara Bencivenga, Teorie delle comunicazioni di massa, Roma-Bari, Laterza, 200357 Giovanni Sartori, Elementi di teoria politica, Bologna, Il Mulino, 1995

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troviamo, essi si sostituiscono sempre più alle tradizionali agenzie di socializzazione primaria (chiesa, scuola, partiti, ecc...) e ovviamente questo avviene anche nell’ambito della socializzazione politica.Dai mass media i bambini e gli adolescenti ricevono un “imprinting” importante soprattutto riguardo ai toni e alle modalità di fare politica (la dinamica urlata del talk show, per intenderci) piuttosto che sulle issues vere e proprie.Il secondo tipo di effetti, quello che concerne la conoscenza politica, è forse quello che ci interessa maggiormente. Donatella Campus, in uno studio dal titolo «L’elettore pigro»58, ci rivela come l’elettore non sia quel prototipo di homo economicus che le democrazie liberali esaltano, bensì sia un soggetto che viene a conoscenza delle problematiche e delle tematiche politiche attraverso “scorciatoie informative”, tipiche della mediatizzazione della politica vista in precedenza.Il cittadino moderno dunque riceve stimoli incompleti e parziali e soltanto a partire da questi forma la propria conoscenza politica.A questo tipo di conoscenza concorre senz’altro l’attuale crisi che sta attraversando la forma-partito: negli anni di massima espressione della potenza dei partiti, il cittadino era maggiormente informato (attraverso il partito nel quale militava, seppur con differenti intensità), mentre oggi si parla di un cittadino che sceglie le “informazioni pratiche” che gli servono maggiormente in un determinato momento59 e che derivano da un ambiente informativo ampio e diversificato.

Il cittadino è dunque sottoposto ad una serie potenzialmente infinita di flussi informazione (non solo i media, ma anche le relazioni personali, la famiglia, ecc... anche se sicuramente i mass media sono l’ente che contribuisce maggiormente alla formazione degli orientamenti politici) tra i quali deve “scegliere” quelli che ritiene

58 Donatella Campus, L’elettore pigro, Bologna, Il Mulino, 200059 Pippa Norris, A virtuous circle. Political communications in postindustrial societies, Cambridge, Cambridge University Press, 2000

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maggiormente utili ai fini della propria sopravvivenza sociale e della propria conoscenza politica.

Conclusioni

Abbiamo visto, in modo sintetico e non del tutto esauriente, le principali questioni che stimolano le riflessioni degli studiosi della comunicazione politica.Come questo filone di studi si leghi all’insorgenza dell’epopea sicuritaria appare abbastanza evidente.Il cittadino ed il sistema politico sono sottoposti ad un flusso pressoché continuo di informazioni di carattere emergenziale sui temi caldi della sicurezza urbana.La cronaca nera, gli stupri, le rapine, gli episodi di violenza urbana in genere sono uno dei prodotti più vendibili all’interno dell’industria dei prodotti mediali.Questo tipo di informazioni prende al cuore del cittadino che si sente assediato da innumerevoli fonti di pericolo (vedremo nel capitolo successivo che, in particolare sull’esempio di Reggio Emilia, gli stereotipi che vanno per la maggiore sono sui migranti) che minano la propria tranquillità e la possibilità, ad esempio, di uscire la sera, passeggiare per le vie del centro storico, pena la sicura aggressione da parte del “solito” extracomunitario che, alla meglio, vuole spacciare la propria dose di stupefacenti o, al peggio, ti punta il coltello alla gola per pochi spiccioli.Allo stesso tempo questa serie di stimoli è colta come efficace strumento di propaganda per le formazioni politiche, ma anche dai comitati di quartiere e da varie realtà dell’associazionismo sociale, che fanno del populismo il proprio cavallo di battaglia politico.

Possiamo definire, sinteticamente, il populismo come quella tendenza ad una retorica politica che esalta le virtù del popolo in contrapposizione alle élites e che viene usata strumentalmente a fini

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politici. Il politologo Marco Tarchi, ricostruisce la storia del populismo italiano individuando i periodi di maggior influenza di questa pratica retorica nei momenti di maggior sfiducia della gente comune nei confronti dei politici (seconda guerra mondiale e tangentopoli/crisi della prima Repubblica). Tarchi si sofferma poi in particolare sui due partiti politici più “schiettamente populisti”, ovvero il Partito dell’Uomo Qualunque e la Lega Nord.60

In questo senso i dati relativi alle elezioni amministrative del 2009 ne sono un esempio che non esito a definire paradigmatico. La Lega Nord, forza politica espressione del populismo moderno, ha quasi quintuplicato i voti ricevuti per l’elezione del consiglio comunale, passando da un 3,64% del 2004 al 15,99% del 2009.L’altra faccia della medaglia consiste nel fatto che, per non affondare sotto i colpi del populismo sicuritario, anche le formazioni politiche e sociali che da sempre hanno cercato di riportare il dibattito sulla sicurezza urbana entro limiti di serietà e di realtà (dati alla mano), sono costrette a perseguire politiche di zero tolerance e di invocazione di maggior severità, pena la costante perdita di consenso.Viene tracciato dunque un profilo inquietante, una spirale della quale non si intravede la fine, dove la tolleranza zero richiama ancora minor tolleranza e dove a suon di ordinanze, leggi, e proclami politici si crea il rischio di una limitazione importante e difficilmente reversibile delle libertà democratiche ed individuali dei cittadini.

60 Marco Tarchi, L’Italia populista. Dal qualunquismo ai girotondi, Bologna, Il Mulino, 2003

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CAPITOLO 3Reggio Emilia: da città dell’accoglienza a città

della paura?

Introduzione

Questo capitolo vuole cercare di fare luce sui processi politici e mediatici visti nei capitoli precedenti, rapportando gli approcci illustrati alla situazione di Reggio Emilia.La scelta di Reggio Emilia è data, oltre ovviamente dal suo essere la città nella quale vivo, dal fatto che ravviso nella situazione locale alcune particolarità rispetto al quadro emerso negli Stati Uniti prima e in Italia poi in merito alle politiche per la sicurezza urbana.Da un lato assistiamo ogni giorno ad uno stillicidio mediatico (la “pornografia penale” di Wacquant) che declina la criminalità ad un livello emergenziale, con particolare insistenza sugli immigrati.Dall’altro lato la situazione politica locale presenta alcune particolarità in merito a questo tema: come abbiamo visto negli Stati Uniti sono in particolare i conservatori a calcare la mano sulla retorica sicuritaria, seguiti a ruota dai democratici che si trovano costretti ad adeguarsi a questo tipo di discorso politico (e di condotta di governo). A Reggio Emilia, storica “città rossa” governata per oltre 60 anni dalla stessa parte politica, il centro-sinistra si trova ad affrontare i discorsi sicuritari perché minacciata a destra dalla sorprendente avanzata della Lega Nord che, come vedremo, fa della retorica emergenziale sull’insicurezza diffusa il proprio cavallo di battaglia politico.In questo quadro assistiamo ad un discorso politico delle forze di governo sicuramente moderato nei toni, ma che di fatto nelle pratiche di amministrazione della città fa propria la retorica sicuritaria.

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La domanda che viene posta allora è: in che modo i discorsi politici, visti attraverso il filtro dei media, sulla sicurezza urbana possono influire sugli equilibri politici della città?Al contempo, al pari degli Stati Uniti, sono le persone socialmente ed economicamente disagiate ad essere le vittime di queste politiche; nel caso di Reggio Emilia mi sembra emblematico il caso dei migranti. Perennemente sottoposte ad un processo di etichettamento negativo ad opera dei mass media, finiscono per diventare le vere vittime delle misure anti-criminalità?

Condurrò dunque una breve ricerca per verificare queste ipotesi, partendo da una lettura approfondita dei due quotidiani locali a maggior tiratura (“La Gazzetta di Reggio” e “Il Resto del Carlino edizione di Reggio”) per capire come e soprattutto in che misura le retoriche sicuritarie attraversano il sistema dei mass media, il sistema politico e che effetti portano sulle libertà dei cittadini. Per quanto concerne la verifica della prima ipotesi, ho gettato uno sguardo sulle ultime tre campagne elettorali per le elezioni amministrative, ho selezionato gli articoli dei due quotidiani in esame per i 30 giorni precedenti ogni elezione (1999, 2004, 2009), svolgendo alcune analisi che presenterò nel paragrafo successivo.Per verificare la seconda ipotesi ho scelto di campionare casualmente alcuni articoli di cronaca, tra il 2002 e il 2009, e verificare in quanti di questi articoli il protagonista era un immigrato.

3.1 La sicurezza paga nelle urne?

Il primo aspetto che mi preme affrontare consiste nel verificare se esiste o meno un nesso relazionale tra i discorsi politici, l’atteggiamento dei mass media nei confronti del tema della sicurezza urbana e i risultati delle elezioni amministrative. Questa esigenza nasce dall’interesse particolare nel cercare di dare una

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possibile spiegazione all’exploit elettorale della Lega Nord alle comunali del 2009, proprio alla luce dei processi visti in precedenza.Come ho rilevato da un’attenta lettura dei quotidiani, sono proprio le tematiche sicuritarie ad aver avuto il ruolo principale nella campagna elettorale (almeno quella vista attraverso l’occhio dei media locali) del partito di Bossi a Reggio Emilia e questo fatto potrebbe contribuire61 alla spiegazione del massiccio spostamento di voti a favore proprio della Lega Nord, che sicuramente rappresenta l’evento più interessante ai fini della nostra indagine.Oltre a questo ho verificato un aumento della rilevanza dei temi della sicurezza anche per le altre forze politiche: se nella campagna elettorale del 1999 erano i temi economici e dello sviluppo urbano a dominare la scena politica locale, nel 2004 e ancor più nel 2009 è stato il tentativo di dare risposte alla paura della criminalità ad assumere un’importanza crescente tra i temi affrontati dai partiti.62

Questo fenomeno può essere spiegato a partire da alcune indagini sulla vittimizzazione, curate dalla Regione Emilia-Romagna, che indicano come la criminalità, dal 2003 ad oggi, sia la maggior preoccupazione dei cittadini; prima di questa data, infatti, erano la disoccupazione e i problemi legati al reddito a preoccupare maggiormente le persone.63

61 Ovviamente non si può trattare di un nesso causale diretto, ma con tutta probabilità l’aver costruito il proprio discorso politico mantenendo la centralità sui temi della sicurezza urbana potrebbe essere stato rilevante ai fini dell’exploit della Lega Nord alle amministrative 200962 La sicurezza non diventa l’unico tema delle ultime due campagne elettorali, ma sicuramente riveste un ruolo di accresciuta importanza attribuitagli dai partiti. Fanno eccezione in questo senso le liste di estrema sinistra (Partito della Rifondazione Comunista, Partito dei Comunisti Italiani) e nel 2009 la Lista 5 Stelle che declinano la criminalità non tanto come problema di ordine pubblico da arginare con politiche repressive, bensì come problema di ordine sociale, da limitare con politiche di accoglienza e integrazione.63 Regione Emilia-Romagna, Servizio Promozione e sviluppo per le politiche della sicurezza e della polizia locale, Politiche e problemi della sicurezza in Emilia Romagna. XIII rapporto annuale 2009, Bologna, 2010

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Per questo motivo la paura della criminalità e le politiche sulla sicurezza diventano centrali ai fini della competizione elettorale; qualsiasi partito che avesse voluto presentare una lista per concorrere all’elezione in consiglio comunale, non ha potuto più tralasciare questo tema nella propria campagna elettorale.La peculiarità della lista della Lega Nord consiste nel tipo di proposte in merito alle politiche sicuritarie: organizzazione di una “sicurezza partecipata” (le cosiddette ronde), la dotazione di armi alla Polizia Municipale, maggiori controlli sulle attività commerciali gestite da stranieri (call-center, alimentari e ristoranti kebab), maggiori poteri al Sindaco e contrasto inflessibile all’immigrazione.

La ricerca, per delimitare il campo di indagine, è stata riferita soltanto alle pagine dei quotidiani riguardanti il Comune di Reggio Emilia, tralasciando per fattori di semplicità le pagine della cronaca della provincia.I periodi presi in esame sono:

1) dal 10/05/1999 al 16/06/1999 (vittoria di Antonella Spaggiari - DS)

2) dal 10/05/2004 al 16/06/2004 (vittoria di Graziano Delrio - ULIVO)

3) dal 03/05/2009 al 10/06/2009 (vittoria di Graziano Delrio – PD)

Dopo aver conteggiato gli articoli delle pagine locali, sono stati suddivisi in 4 categorie:

1) Articoli di politica locale;2) Articoli riguardanti la sicurezza e l'ordine pubblico;3) Articoli riguardanti sicurezza e ordine pubblico rientrati nel

dibattito politico/elettorale;4) Altri articoli

(serie storica)

60

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E' bene ora fare una precisazione metodologica: nella seconda categoria (articoli di sicurezza e ordine pubblico) ho volutamente tralasciato quelle notizie di cronaca che non raggiungono il lettore creando un senso di insicurezza, ma in un certo modo rimangono “distanti” dalla sfera individuale, ovvero storie di violenza privata, familiare, malasanità, incidenti stradali, mentre ho monitorato gli articoli riguardanti microcriminalità, furti, scippi, rapine, violenza urbana, turbativa dell'ordine pubblico, spaccio e uso di sostanze stupefacenti. Questa scelta trova il suo fondamento in diverse indagini64 sulla vittimizzazione in Emilia Romagna, che testimoniano come i reati contro il patrimonio e i reati violenti siano quelli percepiti dai cittadini come i più pericolosi e frequenti.Ancora, nella 3° categoria (articoli riguardanti sicurezza/ordine pubblico nel dibattito politico) sono stati inseriti sia articoli nei quali un esponente politico, sindacale, clericale o di un'associazione di categoria è intervenuto a commentare un fatto di cronaca, sia commenti politici sul tema della sicurezza.Per capire se esiste o meno un’aumentata importanza del tema della sicurezza nel dibattito politico locale, possiamo partire con l’analizzare i dati quantitativi a disposizione dopo la lettura dei quotidiani e il relativo conteggio e categorizzazione degli articoli.Il primo procedimento che sembra utile allo scopo consiste nel vedere in che misura, nel corso delle diverse campagne elettorali, aumenta o diminuisce il numero di interventi politici a mezzo stampa sul tema della sicurezza.Si nota, a tal proposito, un aumento costante della percentuale di articoli che riguardano le politiche sicuritarie rapportati al totale degli articoli che trattano di politica e di campagna elettorale.Infatti se prendiamo a riferimento “La Gazzetta di Reggio” vediamo che la percentuale di articoli relativi a interventi politici sul tema sicurezza è rispettivamente: il 15% del totale nel 1999, il 31% nel 2004 e il 34% nel 2009.

64 Regione Emilia-Romagna, Servizio Promozione e sviluppo per le politiche della sicurezza e della polizia locale, Politiche e problemi della sicurezza in Emilia Romagna. XII rapporto annuale 2006

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Fa eccezione in questo caso la campagna elettorale 2004 vista da “Il Resto del Carlino”, infatti notiamo un calo della percentuale di questo tipo di articoli in quell’anno (20% contro un 27% e un 28% rispettivamente per gli anni 1999 e 2009). (cfr. Tab.1 e Fig.1)

Tab. 1 – Percentuale articoli sulle politiche per la sicurezza / tot. articoli politica

Il Resto del Carlino Reggio

La Gazzetta di Reggio

1999 27% 15%2004 20% 31%2009 28% 34%

Fig. 1 – Grafico percentuale articoli sulle politiche per la sicurezza / tot. articoli politica

Andamento medie articoli sicurezza+politica / tot. art. politica

0%

10%

20%

30%

40%

1999 2004 2009

Anni di riferimento

Il Resto del Carlino ReggioLa Gazzetta di Reggio

Notiamo lo stesso tipo di andamento per quanto riguarda la media aritmetica degli articoli presi in esame. (cfr. Tab.2 e Fig.2)

62

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Tab. 2 – N° medio articoli su politiche per la sicurezza

Il Resto del Carlino Reggio

La Gazzetta di Reggio

1999 2,03 1,08

2004 1,32 2,29

2009 2,03 3,10

Fig. 2 – N° medio articoli su politiche per la sicurezzaN° medio articoli sicurezza+politica per testata nel

tempo

-

0,501,00

1,502,00

2,503,00

3,50

Il Resto del Carlino Reggio La Gazzetta di Reggio

199920042009

Il dato sicuramente fondamentale rimane comunque una tendenza all’aumento del numero di articoli, dello spazio e del risalto dato a interventi di personaggi politici sul tema della sicurezza, dato questo che può essere un indizio dell’ipotesi che si cerca di dimostrare.

Ora, per capire se esiste o meno una relazione tra l’atteggiamento dei mass media, in campagna elettorale, rispetto al tema della sicurezza e la loro influenza in ambito politico, è bene presentare una sintesi dei dati delle ultime tre tornate elettorali (cfr. Tab. 4), che sono quelle che ho preso a riferimento per analizzare i quotidiani locali in merito a questi problemi. Nella tabella sono presentati i risultati per

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l’elezione diretta del Sindaco delle tre liste principali (Centro-sinistra, Centro-destra e Lega Nord) suddivisi per lista e per anno.65

Tab. 4 – Percentuali voti di lista per elezione del sindaco, elezioni comunali 1999, 2004, 2009

Ovviamente il dato che salta all’occhio riguarda la percentuale di voti validi assegnati alla Lega Nord nell’anno 2009, in questa tornata elettorale il partito di Bossi ha quasi sestuplicato i voti rispetto alle elezioni precedenti; il numero di voti per il centro-sinistra rimane sostanzialmente invariato nelle elezioni del 1999 e del 2004 e registra un calo di oltre 10 punti percentuali in quelle del 2009, mentre il centro-destra fa registrare un netto calo tra il 1999 e il 2004, rimanendo poi su questi ultimi valori nelle ultime elezioni.Anche il grafico che segue (cfr. Fig.4) rende ancor più l’idea della portata di questo cambiamento negli equilibri politici della città di Reggio Emilia

65 I dati elettorali sono tratti dalla Banca Dati Elettorale, un progetto della Prefettura, della Provincia e del Comune di Reggio Emilia (http://elezioni.provincia.re.it/)

Centro-sinistra

Centro-destra

Lega Nord

1999 62,28% 26,20% 3,98%2004 63,24% 12,71% 3,58%2009 52,45% 14,78% 18,24%

64

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Fig. 4 – Grafico andamento elettorale per le tre liste principali per l’elezione del Sindaco

Andamento elettorale per le tre liste principali per l’elezione del Sindaco

0,00%10,00%20,00%30,00%40,00%50,00%60,00%70,00%

1999 2004 2009

Anno

% v

oti v

alid

i

Centro-sinistraCentro-destraLega Nord

Come sottolineato in precedenza, non possiamo ovviamente inferire un nesso causale tra l’aumento della centralità del tema della sicurezza urbana sui quotidiani locali e questi nuovi equilibri politici cittadini, possiamo però notare una correlazione.A ulteriore conferma della possibilità di una correlazione di questo tipo, è possibile citare ancora dagli studi della Regione Emilia-Romagna sulla vittimizzazione dei cittadini, che vedono nella paura della microcriminalità la maggior causa di insicurezza collettiva. Infatti questi dati confermano come, dal 1999 ad oggi, si è verificato un costante aumento della rilevanza attribuita al fenomeno della microcriminalità all’interno del panorama delle problematiche maggiormente percepite come importanti. La microcriminalità e la sicurezza urbana sono dal 2003 ad oggi la prima preoccupazione dei cittadini emiliano-romagnoli.66

66 Serie storica indagini sulla percezione dell’insicurezza a cura della Regione Emilia-Romagna, Servizio Promozione e sviluppo per le politiche della sicurezza e della polizia locale scaricabile da: http://www.regione.emilia-

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3.2 Reggio Emilia è davvero un nuovo Bronx? La criminalizzazione dei migranti sui quotidiani locali.

Un paragrafo a parte merita, a mio parere, un approfondimento: dall’analisi che ho svolto tramite la lettura dei quotidiani locali emerge un dato fondamentale, quello relativo alla criminalizzazione dei cittadini migranti. Infatti, come vedremo, le pagine della stampa locale sono costantemente infarcite di stereotipi sulle popolazioni provenienti da altri paesi, in particolare dai paesi non appartenenti all’Unione Europea, e tendono a dare un’immagine dei migranti come una popolazione più soggetta a compiere crimini e che comporta un rischio per la sicurezza urbana.Come già ricordato (cfr. par.1.3, cap.1, infra), il problema dell’immigrazione investe tutto il territorio italiano e Reggio Emilia non fa eccezione.Sempre più spesso i crimini compiuti da cittadini migranti sono enfatizzati e sovrarappresentati nei quotidiani locali.Ora, la città di Reggio Emilia è una delle città con i più alti tassi di immigrazione, gli stranieri residenti sono (a dicembre 2008) pari all’11,4% sul totale della popolazione, ma la cifra aumenta con le stime riguardanti la popolazione immigrata irregolare (che parlano di una cifra compresa tra le 15.000 e le 20.000 persone)67, salendo fino al 15,5% circa.68 Di questi, il 48,9% sono donne e il 25,8% minori.Le nazionalità maggiormente rappresentate sono Albania, Marocco e Cina, rispettivamente al 15,1%, al 13,3% e al 11,5% sul totale degli immigrati residenti.69

romagna.it/wcm/sicurezza/sezioni/strumenti_di_lavoro/statistiche/dati_percezione.htm67Fonte: indagine de Il Sole 24 Ore 27.05.200968 Dati Istat, contenuti nel Dossier statistico 2009 di Caritas/Migrantes, cit.69 Dati demografici Istat ( http://demo.istat.it/ ), tutti i dati demografici riportati in questo paragrafo sono tratti dai database e dalle tavole pubblicate dall’Istituto Nazionale di Statistica.

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Il fenomeno migratorio, almeno quello in proporzioni tali da essere considerato altamente rilevante ai fini della nostra indagine, è un fenomeno abbastanza recente a Reggio Emilia.Infatti abbiamo, prima del 2002, un’immigrazione già importante, ma sicuramente moderata, con percentuali di immigrati residenti che si attestano intorno al 5%. Dal 2002 al 2007 assistiamo invece ad un aumento vertiginoso del fenomeno, calcolato intorno al 159,4% in soli sei anni. Per di più, soltanto tra il 2007 e il 2008 abbiamo un ulteriore aumento del 13,4%.Proprio in corrispondenza di questo aumento dell’immigrazione si nota la tendenza dei quotidiani ad occuparsi del tema, legandolo costantemente ai problemi di ordine pubblico, di criminalità e di sicurezza.Questa affermazione trova le sue fondamenta nell’analisi svolta dal sottoscritto sulle principali testate locali (“La Gazzetta di Reggio” e “Il Resto del Carlino edizione di Reggio Emilia”) in merito proprio al problema della criminalizzazione dei migranti che passa attraverso i media e il sistema politico. Ho scelto queste due testate perché rappresentano le maggiori in città per tiratura e copie vendute.70

Il metodo seguito è il seguente: ho campionato in modo casuale 6 copie di ogni quotidiano per ogni anno, in un periodo compreso tra il 2002 e il 2009, per un totale di 8 anni, quindi in totale 96 edizioni dei suddetti quotidiani, 48 copie de “La Gazzetta di Reggio” e altrettante de “Il Resto del Carlino”. Questa scelta è dettata, come abbiamo visto poco sopra, dall’individuazione di questo periodo come il più rilevante rispetto ai flussi migratori nella città di Reggio Emilia.Per ogni testata, ovviamente, ho selezionato le stesse edizioni (gli stessi giorni di pubblicazione) di modo che le notizie trattate fossero circa le stesse per entrambe. Questo procedimento mi pare garantisca un sufficiente tasso di casualità nella raccolta dei dati, casualità necessaria per capire un processo che, presumibilmente, ha picchi di valori differenti e non equamente distribuiti. Banalmente, non sempre accadono fatti di cronaca criminale e altrettanta variabilità è da tenere in considerazione per le decisioni dei direttori editoriali di

70 Dai dati Audipress 2008 ( http://www.audipress.it )

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pubblicare alcune notizie, per cui è necessario un campionamento casuale, i cui risultati di analisi possano essere sufficientemente generalizzati.Da queste edizioni selezionate ho letto e contato gli articoli della cronaca cittadina. Ho tralasciato per motivi di semplicità la pagine riguardanti la Provincia, per concentrarmi maggiormente sul fenomeno del Comune di Reggio.Da questi articoli di cronaca ho poi ulteriormente selezionato quelli in cui spiccava la figura di uno o più migranti coinvolti in atti criminosi.La mia intenzione è quella di verificare se esista o meno una sovrarappresentazione (rispetto ovviamente ai dati ufficiali sulla criminalità in città) ad opera dei media, nei confronti dei cittadini migranti autori di un crimine.Ho dunque selezionato dalle due testate scelte gli articoli di cronaca, per un totale di 464 articoli: in media oltre il 51% di questi articoli vedono come protagonista della vicenda criminosa raccontata una persona proveniente da un paese differente dall’Italia (cfr. Tab.5).

Tab. 5 – Valori assoluti articoli di cronaca selezionati e articoli di cronaca riguardanti uno o più immigratiAnno N°

articoli di

cronaca

N° articoli su

migranti

% art. cronaca su migranti/tot.

art. cronaca

2002 50 16 32%2003 42 16 38%2004 58 19 33%2005 60 24 40%2006 58 31 53%2007 59 35 59%2008 68 50 74%2009 69 47 68%

Totali 464 238 51%

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Oltre a ciò, analizzando la serie temporale della percentuale di articoli di cronaca nera che coinvolgono cittadini migranti, vediamo come questo valore aumenta vertiginosamente con il passare del tempo, se nel 2002, infatti, il numero totale di articoli in questione era di 16 articoli (32%), nel 2008 raggiunge il picco massimo di 50 articoli (74%), registrando solo un lieve calo nell’ultimo anni preso in esame (cfr. Fig.5).

Fig. 5 – Grafico serie temporale % articoli di cronaca che riguardano migranti

% articoli cronaca nei quali viene citato un migrante su totale degli articoli di cronaca

32%38% 33%

40%

53%59%

74%68%

0%

20%

40%

60%

80%

2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009

Anno

% articoli cronaca cit.migranti/tot.cronaca

Questi dati preliminari dovrebbero già far riflettere in primo luogo sull’aumentata attenzione dei media locali agli avvenimenti di cronaca nera, quindi legati alla problematica della sicurezza urbana, e in secondo luogo alla centralità riservata dai giornalisti agli episodi che vedono come protagonisti negativi, quindi come criminali, gli immigrati.Ora, appurato questo, si tratta di verificare se esistano o meno delle corrispondenze tra l’aumento degli episodi di cronaca legati agli immigrati, così come riportato dai quotidiani, e le statistiche sui crimini commessi dagli stranieri a Reggio Emilia.Per fare questo, ovviamente, è necessario porre l’attenzione alle statistiche criminali.

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È bene però fare una precisazione: i dati a disposizione, ricavati dalle banche dati dell’Istituto Nazionale di Statistica, sono di duplice natura; da un lato abbiamo i dati relativi ai delitti penali denunciati dalle forze dell’ordine all’Autorità Giudiziaria, dall’altro i delitti per i quali l’Autorità Giudiziaria ha iniziato l’azione penale.Che differenza c’è tra le due categorie e come possiamo interpretare i dati al fine della nostra indagine? Notiamo preliminarmente che il numero del primo tipo di delitti è decisamente più elevato rispetto a quelli del secondo tipo. Questo è facilmente comprensibile poiché non tutti i reati, o sarebbe meglio a questo punto dire i presunti reati, accertati dalle forze dell’ordine finiscono in un’aula di tribunale; capita spesso (circa nel 50% dei casi) che il giudice per le indagini preliminari chiuda il caso prima del primo appello in caso di non sussistenza del reato.Inoltre l’Istat mette a disposizione i dati relativi alle denunce delle forze dell’ordine fino al 2007, mentre i dati riguardanti i reati che finiscono effettivamente a processo sono disponibili fino all’anno 2005. Anche questo aspetto risulta di facile interpretazione: i tempi che intercorrono tra una denuncia e il rispettivo processo possono essere anche molto lunghi.C’è quindi la necessità di trovare una sintesi per questi dati di natura così diversa; il procedimento che mi sembra possa semplificare questo inconveniente consiste nel calcolare la media della variazione tra delitti denunciati e delitti per i quali viene aperto il procedimento penale e applicare questa variazione standard ai dati sui delitti denunciati alle forze dell’ordine negli anni 2006 e 2007, ovvero per gli anni nei quali non sono disponibili i dati sui procedimenti. In questo modo otteniamo una misura, seppur meno attendibile di quella reale, sul numero di reati che i giudici per le indagini preliminari hanno valutato come passibili di procedimento, che quindi hanno verosimilmente più significato al fine di indagare il reale tasso di criminalità della città di Reggio Emilia.Dopo questa precisazione metodologica, andiamo ad analizzare i dati effettivi della criminalità degli immigrati nella città di Reggio

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Emilia, per verificare l’esistenza o meno di una corrispondenza con il quadro tracciato dai quotidiani locali.Come si evince dalla Tab.6, i delitti penali registrati dall’Autorità Giudiziaria e compiuti sul territorio reggiano, passano dai 6.951 del 2002 agli oltre 10.000 del 200771, facendo dunque registrare un aumento di 46 punti percentuali in 5 anni; la percentuale delle persone straniere denunciate, sempre per reati penali, è in media del 36% sul totale delle denunce.

Tab. 6 – Criminalità a Reggio Emilia e % di stranieri denunciati all’Autorità GiudiziariaAnno Tot. delitti

denunciati% stranieri denunciati

2002 6.951 28%2003 7.539 35%2004 7.220 35%2005 9.948 40%2006 9.130 35%2007 10.156 41%Totali 50.944 36%

Ora possiamo confrontare i dati visti in precedenza sullo spazio dato dai quotidiani locali alle notizie di cronaca che hanno come protagonista (negativo) un immigrato (cfr. Tab.5) con questi ultimi dati sulla criminalità a Reggio Emilia.È sufficiente notare la differenza di oltre 20 punti percentuali tra il valore dell’indice di esposizione mediatica dei migranti e il tasso di criminalità degli immigrati per confermare l’ipotesi di una sovraesposizione dei migranti che delinquono sui media locali.

71 Come già accennato, il 2007 è l’ultimo anno per il quale sono disponibili i dati Istat

71

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3.3 Profili criminali: caratterizzazione dei migranti sui quotidiani locali e nel discorso politico

Un altro aspetto utile a capire l’impatto che i media possono avere, in termini di definizione di categorie concettuali che circoscrivono un fenomeno complesso come quello della criminalità degli stranieri, riguarda le caratterizzazioni prevalenti che adottano i media nel descrivere gli immigrati che compiono un reato.Come abbiamo visto nel capitolo precedente, il linguaggio dei media (così come il linguaggio politico) è in grado di costruire degli stereotipi sociali in grado di penetrare nelle culture nelle quali vengono perpetuati, fino ad essere interiorizzati e assunti come categorie di giudizio per gli avvenimenti che si presentano agli occhi delle persone.72

Risulta allora utile, in quest’ottica, analizzare il tipo di caratterizzazione che prevale nel linguaggio negli articoli di cronaca dei due quotidiani presi in esame, quando si tratta di descrivere l’immigrato che ha compiuto un determinato reato.Dalla lettura degli articoli selezionati emergono sostanzialmente quattro categorie di connotazione prevalente: ci sono articoli nei quali viene sottolineato lo status di irregolarità del migrante come centrale ai fini della descrizione del criminale (clandestinità), articoli nei quali il tratto prevalente è quello relativo allo status sociale e alle condizioni economiche (povertà/disagio), articoli nei quali si utilizza la religione praticata, tipicamente quella islamica, come etichetta per il migrante e, infine, articoli nei quali la caratterizzazione è neutra.Come possiamo vedere dalla Fig. 6, nel 69% di questi articoli viene utilizzata la prima categoria, quella relativa allo status di clandestino del migrante in oggetto, nel 10% degli articoli esaminati il tratto prevalente riguarda la situazione di disagio economico e sociale dell’autore del crimine, nel 18% abbiamo una sostanziale neutralità nelle descrizioni. Rimane un residuale 3% di articoli nei quali lo status di criminale viene associato alla religione praticata: quella islamica nella totalità dei casi.72 Walter Lippmann, L’opinione pubblica, Roma, Donzelli Editore, 1995

72

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Fig.6 - Tratti prevalenti di connotazione dei migranti coinvolti in episodi di cronaca

TRATTI PREVALENTI DI CONNOTAZIONE DEI MIGRANTI COINVOLTI IN EPISODI DI CRONACA

69%

10%

3%

18%

ClandestinitàPovertà/disagioReligioneConnotazione neutrale

Il quadro che emerge da quest’ultima analisi presenta alcuni fattori a mio parere rilevanti: in primo luogo è evidente la tendenza a considerare l’immigrato clandestino tendenzialmente un criminale. Sentire (o nel nostro caso leggere) la parola “clandestino”, comporta immediatamente l’associazione con un’immagine della persona che si ricollega a sua volta alla criminalità e al senso di insicurezza percepito. Questo aspetto si lega a pieno titolo con le nuovi disposizioni di sanzione e criminalizzazione degli irregolari contenute nel cosiddetto Pacchetto Sicurezza (Legge 24 luglio 2008, n. 125) recentemente entrato in vigore, che contiene una disposizione che punisce severamente l’ingresso illegale in territorio italiano, nonché introduce il reato di clandestinità.Mi preme ovviamente ricordare che questo tipo di processi di etichettamento negativo (e delle sue conseguenze legislative) si abbattono anche su persone che non hanno commesso alcun reato contro la proprietà piuttosto che la persone, se non, appunto, il non avere il permesso di soggiorno.In secondo luogo è possibile notare una tendenza al considerare le variabili sociali, in questo caso disagio o povertà, come poco rilevanti per il senso comune nello spiegare i fenomeni criminali,

73

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mentre abbiamo visto che esse rivestono un ruolo fondamentale a questo fine.73

Abbiamo dunque tracciato un quadro che sicuramente non esaurisce le questioni di immensa complessità del tema in questione, ma che può dare spunti di riflessione in merito alla potenza dei mass media nell’etichettare e stigmatizzare una popolazione già vessata da enormi problematiche sociali e politiche, come quella dei migranti.

Non solo i mass media, ma anche il sistema politico contribuisce a costruire discorsi (ancora una volta in senso foucaultiano) che tendono a declinare il problema immigrazione come problema di sicurezza e ordine pubblico. Infatti da un’ulteriore analisi, sempre incentrata sugli articoli pubblicati sui due quotidiani presi in considerazione in precedenza, viene confermata questa tendenza.Per effettuare una disamina di questo problema, ho considerato gli articoli pubblicati durante le ultime tre campagne elettorali per l’elezione del Sindaco e del Consiglio Comunale della città di Reggio Emilia.74

Ora, quello che ci interessa in questo paragrafo è capire quanto sia presente il tema dell’immigrazione rapportato alle problematiche di sicurezza urbana nei discorsi dei politici in un periodo sensibile come la campagna elettorale.Per fare ciò, ho selezionato, dalla terza categoria di articoli citata in precedenza (articoli riguardanti sicurezza e ordine pubblico rientrati nel dibattito politico/elettorale), quelli nei quali un esponente politico legava il tema sicurezza al tema immigrazione, più precisamente quelli nei quali l’esponente politico metteva al primo posto l’immigrazione come problema prioritario per quanto riguarda il più vasto problema della sicurezza urbana.

73 Cito ancora una volta Loïc Wacquant, Punire i poveri, cit. per il fondamentale contributo nell’illustrare lo sviluppo dei think tanks sicuritari alla luce dei cambiamenti nelle politiche di assistenzialismo sociale degli stati occidentali.74 Gli articoli presi in esame sono gli stessi utilizzati per l’analisi incentrata sulle tematiche sicuritarie del paragrafo precedente

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I risultati emersi (cfr. Tab.7) sono abbastanza eloquenti: su un totale di 432 articoli esaminati, 236 contenevano interventi di politici in campagna elettorale tesi a tracciare un’immagine dell’immigrazione come emergenza per la sicurezza dei cittadini. In media il 55% degli interventi politici delle campagne elettorali in tema di sicurezza dal 1999 ad oggi vertevano sul problema immigrazione.

Tab. 7 – Criminalizzazione dei migranti nel discorso politico sulla sicurezza Anno campagna elettorale

articoli politici su sicurezza

N° articoli politici sicurezza +immigrazione

% articoli politici sicurezza+immigrazione

1999 96 23 24%2004 136 68 50%2009 200 145 73%Tot. 432 236 55%

Come già è evidente dalla tabella la dimensione temporale di questo fenomeno ci può dare ulteriori informazioni su questo fenomeno: abbiamo un aumento costante dell’incidenza del discorso sull’immigrazione come problema di sicurezza; da tema importante per i politici locali, diventa un tema che acquista una centralità assoluta nelle ultime due campagne elettorali (cfr. Fig. 7).

Fig.7 – Grafico livelli di criminalizzazione dei migranti nel discorso politico sulla sicurezza

Criminalizzazione migranti nel discorso politico sulla sicurezza

27%

74%51%

22%

71%

49%

0%

20%

40%

60%

80%

1999 2004 2009Anno campagna elettorale

% in

terv

enti

polit

ici s

u si

cure

zza

e im

mig

razi

one

Gazzettadi Reggio

Il RestodelCarlinoReggio

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Il dato fondamentale che emerge da queste analisi è sicuramente l’importanza attribuita dagli attori politici al tema dell’immigrazione, che sempre più viene declinato come mero problema di criminalità e sempre meno come problematica sociale, in perfetta armonia con le disposizioni legislative, e i discorsi politici nazionali, tese ad alimentare un’immagine dello straniero come potenziale criminale piuttosto che come risorsa per l’economia e per lo scambio culturale.

Questa serie di dinamiche (sovraesposizione e caratterizzazione mediatica del migrante negli articoli di cronaca e utilizzo dell’immigrazione come problema di sicurezza nel discorso politico) contribuiscono, con i processi illustrati nel secondo capitolo di questo testo, a creare nei cittadini una serie di pregiudizi e di atteggiamenti verso gli immigrati, che potrebbero avere una certa influenza sulle decisioni di voto.Infatti, oltre il 51% degli emiliano romagnoli pensa che gli immigrati approfittino degli aiuti dello stato sociale e oltre il 75% pensa che la presenza di stranieri contribuisca molto o abbastanza ad aumentare i livelli di criminalità sul territorio.75

Conclusioni

Queste brevi analisi ci consegnano un’immagine di Reggio Emilia che va in perfetta tendenza con i dettami delle nuove sperimentazioni sicuritarie importate dagli Stati Uniti e applicate al contesto italiano.76

75Regione Emilia-Romagna, Servizio Promozione e sviluppo per le politiche della sicurezza e della polizia locale, Politiche e problemi della sicurezza in Emilia Romagna. XII rapporto annuale 2006, cit.76 Cfr. cap.1 della presente tesi di laurea

76

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Da un lato abbiamo la tendenza da parte del sistema politico ad amplificare il problema della criminalità e dell’insicurezza percepita dai cittadini.Dall’altro il sistema dei media, nel dar voce ai candidati e nella normale pratica di newsmaking, contribuisce a descrivere una situazione emergenziale che sembra non essere confermata dai dati sulla criminalità.Il cittadino si trova così costantemente bombardato da notizie di cronaca nera tesi ad aumentare il livello di insicurezza percepita e da interventi politici che promettono il ristabilimento dell’assioma “legge e ordine”.D’altronde creare paura fra i cittadini li rende facilmente più governabili: tutti sappiamo che affinché sia garantita maggior sicurezza dobbiamo rinunciare ad alcune libertà; maggiore è il livello di controllo sociale esercitato, maggiormente la popolazione è grata di quelle forme di rassicurazione materiale e simbolica che vengono attribuite a chi governa il territorio.In questo senso viene spiegata la mutua esclusività del rapporto tra sicurezza e libertà, come sottolineato dal titolo del presente lavoro.Per le forze che stanno all’opposizione (che a Reggio Emilia sono le forze del centro-destra e della Lega Nord), invece, i leitmotiv sicuritari sono terreno di scontro politico aspro nonché motivo di continuo attacco al governo cittadino, accusato di non fare abbastanza, di essere troppo tollerante nei confronti dei delinquenti, soprattutto se immgirati, e via dicendo.Due sono, a mio parere, le conseguenze più gravi: la prima sta nel fatto che le logiche sicuritarie sono ormai interiorizzate da buona parte dei cittadini, e questo è un chiaro effetto delle campagne mediatiche a riguardo77.D’altro canto le stesse logiche sono promosse, in pieno accordo bipartisan, da tutti i partiti politici che abbiano lo scopo di concorrere

77 Rimando ancora una volta alle indagini della Regione Emila-Romagna sulla vittimizzazione: Regione Emilia-Romagna, Servizio Promozione e sviluppo per le politice della sicurezza e della polizia locale, Politiche e problemi della sicurezza in Emilia Romagna, cit.

77

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alle elezioni: non inserire nei propri programmi elettorali misure in qualche modo riconducibili alla zero tolerance, comporta lacune incolmabili, che sempre più sovente danno luogo a clamorose débâcles nelle urne.Nello spiegare, in ottica psicosociale, il grande successo della Lega Nord nelle ultime elezioni, Piergiorgio Corbetta e Nicoletta Cavazza scrivono:

gli elettori percepiscono una minaccia incombente, alle porte, ma ancora fuori dalla propria comunità, sentendo che è ancora possibile fare qualcosa per difendere il proprio territorio. Quando diventa sentimento collettivo, l’insicurezza promuove la chiusura delle comunità a tutto ciò che è altro, esterno, diverso. […] L’insistenza sulla pericolosità del mondo e sulla precarietà delle condizioni di tutti amplifica le preoccupazioni e le ansie, rendendole sempre meno facilmente gestibili con gli ordinari strumenti culturali.78

Questi fattori (insistenza dei mass media sulla cronaca nera, discorsi dei politici ed effetti sui cittadini) possono contribuire a dare una spiegazione e una cornice agli effetti della comunicazione politica sulla sicurezza, così come rilevato dalle analisi svolte finora.

Ovviamente, sul piano del governo effettivo della città questi effetti hanno prodotto conseguenze importanti. Negli ultimi anni abbiamo notato un continuo proliferare di ordinanze che rientrano appieno nelle logiche sicuritarie viste in precedenza.Dalle ordinanze per la chiusura anticipata dei ristoranti kebab gestiti da immigrati alle norme cosiddette “anti-accattoni” (divieto di elemosinare), dal divieto di tenere manifestazioni politiche in centro storico per tutto il fine settimana alle retate e ai controlli massicci e spettacolarizzati nei quartieri con più alta densità di immigrati (via Roma e la zona della stazione ferroviaria solo per citare i due esempi saliti alla ribalta delle cronache cittadine).

78 Piergiorgio Corbetta e Nicoletta Cavazza, Quando la difesa del territorio diventa voto, Bologna, Rivista Il Mulino n° 3, maggio-giugno 2008

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Nell’anno 2002, anno nel quale sono iniziati i lavori per gli impianti di videosorveglianza cittadini, il Comune ha speso oltre 4 milioni di euro per implementare questo servizio, facendo di Reggio Emilia la città con il più alto numero di telecamere in Italia (1 ogni 600 abitanti).79

Assistiamo insomma ogni giorno all’applicazione, anche i questi territori, dei precetti e delle applicazioni della zero tolerance descritti nel capitolo 1, corredata dal supporto dei media locali ad influire sull’agenda politica e a declinare la criminalità (e soprattutto l’immigrazione), in termini di emergenza.A mio parere la criminalità a Reggio Emilia, dati alla mano, è rimasta a livelli comunque accettabili o se non altro non così marcatamente allarmanti quali quelli descritti dai mass media.Quello a cui mi pare di assistere è una drammatizzazione ed esasperazione di un problema che sì va controllato ed arginato, ma senza promuovere dispositivi di controllo sociale così marcatamente populisti né tantomeno limitando a tal punto alcune libertà fondamentali dei cittadini.Lavorare sul tema della sicurezza implica un’analisi e uno studio che esula dalla semplice gestione della criminalità e dell’ordine pubblico; sui rischi insiti nell’approccio attualmente dominante sono state spese migliaia di pagine dagli scienziati sociali e politici, ma nonostante questo i governi delle città continuano sulla rotta tracciata.Agire sulla sicurezza equivale a chiedersi anche che tipo di società si vuole costruire attraverso la pubblica amministrazione: stiamo assistendo ad una deriva che porta la città a chiudersi a riccio per la paura della criminalità e al contempo mette ai margini chi è ritenuto più soggetto a creare problemi per la sicurezza.Credo, per concludere, che non vi sia maggior sicurezza se non quella dei diritti: promuovere politiche di inclusione e di cittadinanza dei migranti, cercare soluzioni contro la povertà e il disagio sociale, attivarsi per contrastare la precarizzazione del mercato del lavoro e della diffusione della povertà sono pratiche che, se ben condotte,

79 Delibera di Giunta n° 395/2002

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penso possano apportare notevoli miglioramenti ai problemi della sicurezza.

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