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NESSUNO G ENERA SE NON È GENERATO Mostra a cura della Fraternità San Carlo Testi di Jonah Lynch Luca Montini Paolo Paganini Emanuele Rampa Davide Tonini Grafica di Isabella Manucci Foto di Roberto Masi Alla scoperta del PADRE in Omero, Dante, Tolkien

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NESSUNO GENERA

SE NON È GENERATO

Mostra a cura della Fraternità San Carlo

Testi diJonah LynchLuca MontiniPaolo PaganiniEmanuele RampaDavide Tonini

Grafica diIsabella Manucci

Foto diRoberto Masi

Alla scoperta del PADRE in Omero, Dante, Tolkien

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SE NON È GENERATONESSUNO GENERA

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Alla sera, quando mio papà tornava dal lavoro, andavamo insieme in una piccola stradina vicino a casa. Lui mi aiutava a salire sulla bici, che era troppo grossa, con la sbarra “da donna”. Eravamo poveri, bisognava accettare quello che c’era. Avevo sette anni, e la felicità più immensa immaginabile era poter andare in bici. Salivo, mani sul manubrio, sguardo teso verso il fondo della stradina, in piedi sui pedali. Con una mano sul manubrio e una sulla sella, mio papà teneva tutto fer-mo. “Pronti?” “Andiamo!” rispondevo. E si partiva, papà di corsa, io a pedalare. All’inizio mi sorreggevano due mani di papà, poi solo una, poi libero e... schianto! Andavo avanti pochi metri prima di inclinare irrimediabilmente a lato. Tutto un graffio, le ginocchia sbucciate, tornavamo a casa. Ma la sera dopo, andavamo di nuovo a provare.

Ogni sera andavo più lontano prima di perdere il controllo. Alla fine di una setti-mana, le mie mani hanno cominciato a reagire nel modo giusto, e col peso con-trobilanciavo la tendenza a cadere. “Papà! Ce l’ho fatta, ce l’ho fatta!” Sentivo che la bici mi obbediva.

In fondo alla stradina, ultima sbucciatura delle ginocchia: do-vevo ancora imparare a frenare...Oggi quando ripenso a quelle sere, vedo la scena da un altro punto di vista. Non più in sella, il vento nei capelli e la libertà nel cuore, ma dall’inizio della stradina, là dove era finita la corsa di papà. Mi vedo con i suoi occhi, e immagino il mo-mento in cui stacca la mano dalla sella, mentre me ne vado da lui, ogni sera un po’ più lontano. Mi guardo mentre papà mi lascia andare, mi lascia volare. E mi commuovo al pensie-ro del suo dolore al vedermi schiantare ogni sera. Fa male a chi ama, veder soffrire l’amato. Ma a volte è necessario.

Per me, quel gesto di sostenere e lasciare andare è l’immagine più chiara che ho della paternità. È ciò che mi ha fatto diventare uomo. Senza la mano che mi sosteneva, non sarei potuto partire. Ma avevo anche bisogno che ad un certo punto, mi lasciasse.

Ho imparato a vivere perché lui mi ha protetto dai pericoli trop-po grandi, ma non dagli altri rischi che dovevo affrontare da solo. Il suo compito era di guardarmi lottare, accogliermi con le mie ferite e fallimenti, darmi il coraggio di riprovare ancora. E infine, gioire della libertà che raggiungevo.

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SE NON È GENERATONESSUNO GENERA

Ognuno di noi riceve un’eredità da suo padre. Il cognome, l’aspetto fisico, il modo di parlare e di pensare, magari alcuni interessi e pas-sioni. Da bambini la prima volta che il papà è stato lontano di casa per più giorni abbiamo pianto.Per molti di noi, il padre è stato colui che ci ha guidato nelle prime efondamentali esperienze di vita: imparare ad andare in bicicletta, il primo giorno di scuola, le prime partite di calcio, accettare una scon-fitta o una delusione. La sua presenza ci ha permesso di superare la paura e la timidezza.Nella vita capita poi di incontrare grandi uomini, stelle che brillano davanti a noi. Sorpresi, ci ritroviamo descritti nei testi di una canzone, per poi scoprire che quel cantante ha una storia simile alla nostra. Oppure incontriamo un pittore, che sa suscitare in noi sentimenti epensieri che fino ad un attimo prima non conoscevamo. Questi, come anche un fratello maggiore, un amico, un anziano, possono essere quella guida e quel padre che ci accompagna nel diventare uomini.

Occorre accettare una sfida: avere un padre significa appartenere ad una persona, essergli legata. E non sempre questo rapporto sarà esaltante, a volte potrà essere faticoso e doloroso. Eppure è l’unica strada per diventare uomini liberi e capaci di affrontare il mondo. I grandi della letteratura ne hanno parlato da sempre. Di questo vogliamo raccontarvi.

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Chi di noi ha scelto di nascere? E chi può darsi la vita da solo?Se c’è una cosa che accomuna tutti gli uomini, questa è l’essere figli.

Prima ancora di essere studenti o insegnanti, calciatori o musicisti; prima di essere padri o madri,

siamo figli.

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«Mai ho un premio uguale al tuo, quando i Greci devastano qualche popolosa città dei Troiani: la più parte della dura battaglia la compiono le mie mani; però, quando si arriva a spartire, il tuo premio è molto più grande, ed io me ne vado alle navi con uno piccolo e caro, dopo aver faticato a combattere. Me ne vado;molto meglio tornare a casa con le mie navi; non voglio restare qui senza onore, ad accrescere le tue ricchezze». (I, 163-171)

Questa è l’ira di Achille, che sfoga tutto il suo odio per il re Aga-mennone. Mentre conducono insieme la battaglia contro la cit-tà di Troia, nasce tra loro una contesa a riguardo di donne, potere e onore.

Agamennone è un sovrano arrogante, e prende più bottino di Achille, che però è più forte di lui in bat-taglia. Con odio nel cuore, Achille si isola dal resto dell’esercito greco insieme ad un pic-colo gruppo di fedelissimi. Nella sangui-nosa battaglia, molti eroi cadono da un lato e dall’altro. I Troiani, guidati dal fortissimo Ettore, prendono vantaggio sui greci. Vedendo l’andamento della battaglia, il re Agamennone capi-sce che non riuscirà a conquistare Troia senza l’aiuto di Achille.

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Gli offre doni ricchissimi per riparare al loro litigio.Ma Achille è ancora furente: «Odiosi mi sono i tuoi doni!». (IX, 378)

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I Troiani intanto continuano ad avanzare. Arrivano alle navi dei greci e cominciano ad incendiarle. Achille è ancora immobile nella sua tenda, quando Patroclo, l’uni-co amico rimasto sempre al suo fianco, lo supplica di scendere in guerra.Di nuovo Achille rifiuta. Patroclo invece decide di combattere:

Patroclo infuse in tutti il terrore. Li scacciò dalle navi e spense il fuoco fiammeggiante... e i Troiani fuggirono. (XVI, 291; 293-294)

Ma proprio mentre il pericolo sembra scampato, avviene il peggio. Ettore, il miglior soldato dei Troiani, scende in campo e si scaglia contro Patroclo:

Allora Ettore, quando vide il magnanimo Patrocloripiegare ferito dal bronzo acuto, gli venne vicinoattraverso le file, e lo ferì con la lancia al bassoventre, e il bronzo passò da parte a parte. Cadde con grande fragore e afflisse il cuore dei Greci. (XVI, 818-822)

La notizia giunge ad Achille, e l’infinito dolore per la morte del suo amico diventa subito desiderio di vendetta e di morte. Esce dall’ac-campamento con spledide armi, fa fuggire tutti i Troiani, ne ammazza a decine. Infine giunge al loro condottiero:

«Ettore, tu credevi, quando spogliasti Patroclo,d’essere al sicuro e non contavi per niente me che ero lontano; sciocco! Lontano, ma difensoremolto più forte, restavo indietro io accanto alle navi, io che ti ho tolto la vita; cani ed uccelli ti sbraneranno orrendamente». (XXII, 331-336)

Achille uccide Ettore per vendicarsi della morte di Patroclo.

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Con la morte del loro condottiero, i Troiani sono destinati a perdere. Ma ad Achille non interessa più la battaglia, vorrebbe solo riavere Patroclo.

Achille piangeva ricordando il suo amico e non lo prendeva il sonno che tutto doma, si rivoltava di qua e di là, ripensando con nostalgia alla forza e al furore di Patroclo, e quantepene aveva dipanato e patito con luinelle guerre degli uomini e sulleonde rischiose; ricordando tutto questo piangeva a dirotto, ora steso sul fianco, altre volte supino, o prono, e talvolta si alzava in piedi evagabondava sulla riva del mare.Non gli sfuggiva l’appariredell’aurora sul mare e sulla spiaggia:allora aggiogava al carro i cavalliveloci e legava Ettore dietro pertrascinarlo. Dopo averlo trascinatotre volte attorno alla tomba di Patroclo, tornava a riposare nella tenda, lasciandolo steso a faccia in giù nella polvere. (XXIV, 3-18)

Achille non trova pace. Continua a sfigurare il cadavere di Ettore, nel vano tentativo di placare la propria ira.

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“Abbi compassione di me, pensando a tuo padre”: queste parole feriscono Achille, aprono una breccia nel suo cuore. Egli rialza Priamo e gli restituisce il cadavere di Ettore, ordinando di ripulirlo e ricoprendolo di tutti gli onori. La memoria di suo padre, consegnatagli da un altro padre, placa l’immenso dolore che lo tormentava fino a poco prima. Il guerriero furioso e vendicativo mostra così un nuovo volto, più umano. L’amore di un padre per il figlio apre anche il cuore più indurito.

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Avviene poi qualcosa di eccezionale. Nella tenda di Achille entra il vecchio Priamo, sovrano di Troia e padre di Ettore. Anche questi non trovava pace dal giorno della morte del figlio. Si reca da Achille per supplicare la restituzione della salma. Gli si fa vicino, si umilia, addirittura bacia le mani del guerriero. Poi dice:

«Ricordati di tuo padre, Achille pari agli dei, che ha la mia età,sull’odiosa soglia della vecchiaia, e forse gli stanno addosso le popolazioni vicine e lo tormentano, perché non c’è nessuno a difenderlo dalla sciagura. Ma almeno lui può gioire nell’animo, sapendo che tu sei vivo, e tutti i giorni sperare di rivedere suo figlio di ritorno da Troia. Io sono infelicissimo, ho dato vita a nobili figli nella vasta Troia, e non mi è rimasto nessuno. Alla più parte il violento Ares ha tolto la vita: quello che per me era il solo, che difendeva la città e la sua gente, ora me l’hai ucciso mentre lottava per la sua patria, Ettore.Per lui vengo alle navi dei Greci, a riscattarlo da te, e porto un immenso riscatto. Abbi rispetto verso gli dei, Achille, e compassione di me, pensando a tuo padre. Io merito pietà maggiore, io che ho osato quello che non ha osato nessun altro mortale, portare alla bocca le mani dell’uomo che ha ucciso mio figlio».

Così disse, e suscitò nell’altro il desiderio di pianto per suo padre. Prese la mano del vecchio e la scostò dolcemente: entrambi ricordavano, l’uno Ettore sterminatore, e piangeva fitto rannicchiato ai piedi di Achille; Achille piangeva quando suo padre e quando Patroclo, il loro pianto si levava attraverso le stanze. (XXIV, 486-494; 498-512)

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L’Odissea è la storia di un uomo che vuole tornare a casa.Un uomo astuto, che ingannò il ciclope, sfuggì dai giganti e ascoltò il canto delle sirene.Ha viaggiato tutta la vita e ora gli tocca fare il viaggio più lungo: quello del ritorno.

«Voglio e spero ogni giorno di giungere a casa». (V, 219-220)

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Infine salpa per la sua terra, Itaca.

Da vent’anni è assentee tutti credono che ormai sia morto.La sua casa è ora governatadall’unico figlio, Telemaco, chesua moglie Penelope partorìappena dopo la sua partenza.

Ulisse non ha mai visto il figlio.

Da quattro anni, la situazione in casa è diventata invivibile.Vedendo che non tornava il marito, molti nobili hanno cominciato a chiedere la mano di Penelope. Il ventenne Telemaco non sopporta che questi pretendenti banchettinoogni giorno in casa sua e nedivorino le ricchezze, ma nonha la forza per imporsi.

Così il giovane decide di partire alla ricerca di notizie del padre, il solo che possa ristabilire l’ordine e la giustizia.

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Nel frattempo Ulisse è finalmente giunto sulla spiaggia di Itaca. Brucia dal desiderio di rivedere la moglie e il figlio. Ma se si presentasse a casa subito, i pretendenti gli farebbero fare una brutta fine. Cosa fare? Con l’aiuto di Atena, diventa irriconoscibile, travestito da mendicante. Poi, seguendo il consi-glio della dea, va dal porcaro,

«che è guardiano dei tuoi porci e sempre ti vuol bene,e ha a cuore tuo figlio e la saggia Penelope.Là rimani mentre io vado a Spartaper chiamare Telemaco, tuo figlio, o Ulisse». (XIII, 405-406; 411-412)

Il fedele servitore non riconosce il suo padrone,ma lo ospita ugualmente nel casolare.Pochi giorni dopo, anche Telemaco arriva.Il padre non lo ha mai visto, quindi nonpuò riconoscerlo. Ma è il saluto delporcaro che lo fa sussultare: chiama Telemaco per nome.

Il desiderio del padre verso il figlio e del figlio verso il padre è come la forza nascosta di una calamita,e attira i due l’uno verso l’altro anche a loro insaputa.

Ulisse è per la prima voltafaccia a faccia con suo figlio: si alza, lo ascolta, si siede.

La presenza del figlio domina tutto. Il silenzio di Ulisse è colmo di emozioni, di gratitudine, di gioia. Non c’è spazio per alcuna parola.

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Il porcaro invita Telemaco ad ospitare il mendicante nella propria casa poiché il casolare è indegno. Ma Telemaco non è padrone a casa sua. Non può nul-la contro il potere dei pretendenti che si sono impadroniti della sua dimora. Allora Ulisse, affranto da tanta debolezza, si rivolge al figlio:

«Oh, fossi io giovane come te, e con lo stesso animo che ho, o fossi io figlio dell’insigne Ulisse!Se poi, essendo io solo, fossi sopraffatto dal loro numero,vorrei piuttosto essere morto, massacrato nella mia casa,che vedere continuamente queste azioni vergognose». (XVI, 99-100; 105-107)

Queste non sono le parole che uno straniero rivolge ad un giovane, ma che un padre rivolge al proprio figlio. Ulisse, con tutto il suo ardore, si mette nei panni di Telemaco e gli mostra quella via che la sua vita gli ha rivelato come l’unica degna di essere vissuta: combattere per ciò che si ama. Risponde Telemaco:

«Ma sì, certo, ospite, ti parlerò con molta schiettezza.Un solo figlio Archisio generò, Laerte,e del solo Ulisse questi fu il padre, e Ulisse, mio padre,me solo lasciò in casa e di me non poté godere.E così ora in casa sono innumerevoli nemici». (XVI, 112; 117-121)

Telemaco non può rimanere inerte: ignora l’identità di colui che parla, ma non la paternità di quelle parole. Così, per la prima volta, manifesta la vera causa della sua debolezza: l’assenza del padre. L’origine di tutti i mali che avvolgono la casa è identificata con questa assenza. Sospira:

«Se ai mortali fosse concesso di prendersi da sé ogni cosa, prima di tutto ci prenderemo il giorno del ritorno di mio padre». (XVI, 148-149)

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Ad un certo punto, Ulisse e Telemaco restano soli nel casolare. Atena allora toglie i vestiti da mendicante a Ulisse, rivestendolo di un manto regale. Occorre una lunga attesa per riconoscere chi si cerca da sempre. Ma infine, Ulisse rivela la sua identità al figlio:

«Io sono tuo padre, per il quale tu piangie soffri molti dolori, subendo offese dagli uomini».Così disse, e baciò il figlio. (XVI, 188-190)

L’abbraccio tra i due è intenso ma breve. Una preoccupazione alberga nei loro cuori: la casa è occupata dai pretendenti.

«Io sono venuto qui per suggerimento di Atena, perché potessimo organizzare l’uccisione dei nostri nemici». (XVI, 233-234)

Queste poche parole sono una rivoluzione alle orecchie di Telemaco. La presenza del padre ribalta la sua posizione. Era orfano, ora è figlio. I suoi nemici sono ora i loro nemici. Coloro di fronte ai quali prima fuggiva, si appresta adesso a combatterli.

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Solo, impaurito, perso in mezzo a una foresta buia e piena di pericoli: così si trova Dante. È uno dei politici più potenti di Firenze, eppurenon è felice. Prova ad uscire da questa foresta, ad andare verso un monte illuminato dal sole, simbolo della felicità. Ma tre belve feroci gli sbarrano la strada. Proprio nel momento peggiore, quando sta arretrando tristemente nelle tenebre, appare una persona in lontananza:

Dante non sa chi sia, ma grida con tutto il fiato che ha in corpo:“abbi pietà di me, aiutami ad uscire da questa foresta buia e spaventosa!”.Il misterioso personaggio si scoprirà essere Virgilio, il poeta preferito di Dante. Dopo essersi presentato, chiede: «Perché ritorni a tanta noia?perché non sali il dilettoso montech’è principio e cagion di tutta gioia?». (Inf. I, 76-78)

Virgilio spiega che non è possibile accedere al montedirettamente, ma occorre prendere un’altra strada. Per una meta così alta e importante non può esserci un cammino breve e facile. Ma Dante non è più solo. Ha trovato una guida esperta, che accetta di accompagnarlo nel cammino dalla selva oscura al colle illuminato dal sole.Per questo può ora esclamare senza più paura: «Poeta, io ti richeggioper quello Dio che tu non conoscesti,a ciò ch’io fugga questo male e peggio, che tu mi meni là dov’ or dicesti,sì ch’io veggia la porta di san Pietroe color cui tu fai cotanto mesti». Allor si mosse, e io li tenni dietro. (Inf. I, 130-136)

Quando vidi costui nel gran diserto,«Miserere di me», gridai a lui,«qual che tu sii, od ombra od omo certo!». (Inf. I, 64-66)

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Inizialmente, Dante ha paura di non riuscire ad intraprendere il viaggio, che solo personaggi illustri hanno intrapreso. Si domanda:

«Ma io, perché venirvi? o chi ‘l concede? Io non Enëa, io non Paulo sono; me degno a ciò né io né altri ‘l crede». (Inf. II, 31-33)

Ma Virgilio lo invita a guardare come stanno veramente le cose. Racconta di essere stato inviato dalla Madonna, da Santa Lucia edall’amata Beatrice, tre grandi donne preoccupate per lui. Tutto il Paradiso si è mosso per aiutare proprio lui, Dante.

«Dunque: che è? perché, perché restai,perché tanta viltà nel core allette,perché ardire e franchezza non hai?» (Inf. II, 121-123)

Grazie all’aiuto di Virgilio, Dante può sconfiggere la paura. Certo di quelloche il suo maestro gli ha raccontato e della sua presenza accanto a lui,pieno di coraggio esclama:

«Or va, ch’un sol volere è d’ambedue:tu duca, tu segnore e tu maestro». (Inf. II, 139-140)

Da questa iniziale titubanza, il rapporto fra i due poeti crescerà sempre più. Spesso Dante si rivolgerà a Virgilio chiamandolo duca, signore e maestro.E strada facendo, la paternità di Virgilio si svelerà in tutta la sua ricchezza. Come, per esempio, quando combatte contro Cerbero per proteggere Dante:

Cerbero, era crudele e diversa,con tre gole caninamente latra sovra la gente che quivi è sommersa. Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,e ‘l ventre largo, e unghiate le mani;graa li spirti ed iscoia ed isquatra. ... Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,le bocche aperse e mostrocci le sanne;non aveva membro che tenesse fermo. E ‘l duca mio distese le sue spanne,prese la terra e con piene le pugnala gittò dentro a le bramose canne. (Inf. VI, 13-18, 22-27)

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Strada facendo, incontrano altri grandi uomini, altri “padri” di Dante, persino all’Inferno. Per esempio, Brunetto Latini, cui riconosce grandi virtù nonostante la sua dannazione: «la cara e buona imagine paterna di voi quando nel mondo ad ora ad ora m’insegnavate come l’uom s’etterna». (Inf. XV, 83-85)

Tanto lo stima il “figlio” Dante, che chiude il canto dicendo che Brunettoparve di costoro quelli che vince, non colui che perde. (Inf. XV, 123-124)

Come un piccolo bambino, Dante continuamente chiede spiegazioni aVirgilio. Continuamente domanda: “Chi è questo o quello? Perché si trovaqui? Com’è possibile questo?”.

«Maestro, che è quel ch’i’ odo?e che gent’ è che par nel duol sì vinta?». (Inf. III, 32-33)

«Omé, maestro, che è quel ch’i’ veggio?». (Inf. XXI, 127)

«Com’esser puote ch’un ben, distribuitoin più posseditor, faccia più ricchidi sé che se da pochi è posseduto?». (Purg. XV, 61-63)

Queste spiegazioni diventano il luogo in cui Virgilio pian piano insegna aDante la strada alla felicità. E mentre si avvicinano alla meta, vediamo che oltre a dimostrarsi saggio, forte, e intelligente, Virgilio ha anche un finesenso dell’umorismo. Quando Dante scopre che ha delle lettere stampate in fronte, Allor fec’io come color che vanno con cosa in capo non da lor saputa, se non che ‘ cenni altrui sospecciar fanno; per che la mano ad accertar s’aiuta, ... a che guardando, il mio duca sorrise. (Purg. XII, 127-130; 136)

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La titubanza dell’inizio si ripresenta anche altre volte. Nel camminoverso la maturità, le antiche paure di “ciò che pensa la gente”possono ritornare a fiaccare le forze. Proprio allora si scopreancora il bisogno di un padre:

«Perché l’animo tuo tanto s’impiglia», disse il maestro, «che l’andare allenti? che ti fa ciò che quivi si pispiglia? Vien dietro a me, e lascia dir le genti:sta come torre ferma, che non crolla già mai la cima per soffiar di venti; ...» Che potea io ridir, se non «lo vegno?». (Purg. V, 10-15; 19)

Insieme hanno varcato la porta dell’Inferno, sono discesi nel suo profondo, hanno visto la miseria dei dannati. Insieme hanno superato le insidie dei dia-voli e dei mostri infernali. Insieme hanno scalato la ripida montagna del Purgato-rio, attraverso un sentiero non sempre facile da trovare.Ora, infine, si trovano sulla cima del monte, dove si trova la porta da cui si acce-de al Paradiso. Virgilio ha mantenuto la sua promessa: ha condotto Dante aldilettoso monte ch’è principio e cagion di tutta gioia. (Inf I, 78)

Tra i due il rapporto è cresciuto, è diventato intenso e pieno d’affetto. Virgilio è diventato per Dante così importante da essere chiamato lo dolce padre mio. (Purg. XXVII, 52)

Da una parte si avverte l’immensa gioia di Dante, pellegrino ormai giunto alla sua meta. D’altra parte è palese il dolore per il distacco imminente tra i due compagni di viaggio, che porta Virgilio a pronunciare un ultimo, commosso discorso: in me ficcò Virgilio li occhi suoi, e disse: «Il temporal foco e l’etterno veduto hai, figlio; e se’ venuto in parte dov’ io per me più oltre non discerno». (Purg. XXVII, 126-129)

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Virgilio ha fatto tutto ciò che poteva fare. Ora è addolorato di dover abbandonare il proprio “figlio”, eppure lo invita a proseguire senza di lui. La sua grandezza sta nel riconoscere il suo limite. Egli vuole così bene a Dante da accettare distaccarsi da lui, per permettere a questi di proseguire il suo cammino.

«Tratto t’ho qui con ingegno e con arte;lo tuo piacere omai prendi per duce;fuor se’ de l’erte vie, fuor se’ de l’arte... Non aspettar mio dir più né mio cenno;libero, dritto e sano è tuo arbitrio,e fallo fora non fare a suo senno: per ch’io te sovra te corono e mitrio». (Purg. XXVII, 130-132; 139-142)

Lungo il viaggio Dante è diventato un uomo.La sua libertà è ora forte e sicura. Nel cammino insieme a Virgilio, egli ha imparato a non farsi ingannare dalle apparenze, dal

ben che non fa l’uom felice (Purg. XVII, 133)

e a seguire solo ciò che lo può soddisfare veramente.Ora che conosce cosa sia il vero piacere, può camminare sicuro.

In questa scena vediamo il coronamento di ogni paternitàumana. Nessun padre è all’altezza dei desideri del figlio. Il padre naturale di Dante lo ha fatto crescere, ma non abbastanza. Anche Virgilio lo ha fatto crescere, ma ad un certo punto anche lui si deve allontanare.In definitiva, la paternità si compie consegnando il figlio al vero Padre, il fine di tutti i disii. (Par. XXXIII, 46)

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IL SIGNORE DEGLI ANELLI 16

IL SIGNORE

DEGLI ANELLIDopo le grandi epiche che lodavano la grandezza della figura paterna, la letteratura del Novecento ha messo in evidenza piuttosto la sua fragilità. Il padre è un uomo imperfetto, complesso. Eppure è cercato, desiderato, amato come sempre. T

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Nel suo capolavoro, Il Signore degli anelli, fra i libri più letti della letteratura mondiale dell’ultimo secolo, Tolkien racconta un grande scontro fra le forze del Bene e del Male. Protagonisti, oltre ai classici cavalieri, grandi dame ed eserciti, sono degli individui alti come bambini e pressoché ignari di tutto ciò che li circonda: gli Hobbit. Quattro di loro saranno chiamati a compiere una missione di vitale importanza per le sorti della guerra. Frodo, Sam, Merry e Pipino dovranno tentare di distruggere un anello che racchiude in sé la pienezza delle forze oscure.

Gandalf è lo Stregone che guida la spedizione. Il suo personaggio è di difficile definizione. In lui saltano subito all’occhio il carattere deciso e il modo di fare diretto e graffiante. Non reprime la sua natura incandescente, come quando se la prende con Pipino, che gettando un sasso in un pozzo ha rivelato agli orchi la presenza del gruppo: «Idiota! E ora sta fermo e zitto». (p. 405)

Altre volte, proprio Gandalf insegna ai suoi piccoli compagni delle cosebellissime, come quando Frodo scopre che suo zio Bilbo, pur avendone lapossibilità, non ha ucciso Gollum, un essere viscido e pericoloso che insegue ilgruppo e cerca di rubare l’anello:Frodo: «Che peccato che Bilbo non abbia trafitto con la sua spada quella vile e ignobile creatura quando ne ebbe l’occasione!». Gandalf: «Peccato? Ma fu la Pietà a fermargli la mano. Pietà e Misericordia; egli non volle colpire senza necessità. Gollum merita la morte, e come! Molti fra i vivi meritano la morte. E parecchi che sono morti avrebbero meritato la vita. Sei tu forse in grado di dargliela? E allora non essere troppo generoso nel distribuire la morte nei tuoi giudizi: sappi che nemmeno i più saggi pos-sono vedere tutte le conseguenze. Il cuore mi dice che prima della fine di questa storia l’aspetta ancora una parte da recitare, malvagia o benigna che sia; e quando l’ora giungerà, la pietà di Bilbo potrebbe cambiare ilcorso di molti destini, e soprattutto del tuo». (p. 99)

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IL SIGNORE DEGLI ANELLI

Gandalf è grande, ma non è perfetto. Non ha il controllo assoluto della situazio-ne, né conosce ogni dettaglio. Commette anche sbagli madornali.

«Fu allora che commisi un grande errore. Sì, Frodo, e non il primo,benché tema proprio che sia il peggiore e il più grave». (p. 97)

Gandalf è fallibile. Il padre non è certo colui che non sbaglia mai: nessuno potrebbe essere così padre. Piuttosto è colui che fa di tutto per lanciare il suo figlio nella vita, aiutandolo a superare i limiti che egli stesso non ha saputo valicare nella propria.Non si sostituisce al figlio. Ad esempio, quando Frodo gli offre l’Anello perché lo porti in vece sua, risponde:

«No! Con quel potere il mio diventerebbe troppo grande e terribile. E su di me l’anello acquisterebbe un potere ancor più spaventoso e diabolico. Non mi tentare! Non desidero eguagliare l’Oscuro Signore. Non oso prenderlo, nemmeno per custodirlo senza adoperarlo. Il desiderio sarebbe irresistibile per le mie forze». (p. 101)

Ciò che non è alla portata di Gandalf sarà realizzato da Frodo, che compirà opere più grandi del suo maestro. Perché il figlio possa essere libero, muoversi, espri-mersi interamente, al padre tocca fare un passo indietro. Si tratta di un nobile gesto che, tuttavia, può facilmente degenerare in una ritirata, piena di disimpe-gno e indifferenza. In questa occasione, ancora una volta, Gandalf si dimostra grande, perché non viene meno né al suo compito di guida, né all’esigenza di lasciar camminare Frodo con le sue gambe. Gandalf fa assieme a lui, preoccupa-to di sostenerne il tentativo, fin tanto che gli è possibile.

«Ed ora», disse lo stregone, voltandosi verso Frodo, «sta a te de-cidere; ma ti sarò sempre accanto per aiutarti». Gli posò la mano sulla spalla. «Ti aiuterò a sostenere questo peso, fin quando toc-cherà a te sopportarlo». (p. 102)

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IL SIGNORE DEGLI ANELLI

Per portare a termine la loro missione i quattro Hobbit superano due assedi, combattono Orchi, Uruk-hai, Nazgul,Uomini Selvaggi, Pirati, Stregoni, e Oscuri Signori.Infine è proprio Gollum, che fu risparmiato dalla pietà di Bilbo,a distruggere per sempre l’Anello del potere.Dopo la vittoria il ritorno a casa è una cavalcata trionfale.Il loro viaggio ripercorre a ritroso quello di andata, in tonomaggiore: incontri con vecchi amici, feste, matrimoni,incoronazioni.Ma tutto è carico di un nuovo significato.

Gandalf cavalca con loro, giungendo al confine della Contea.Ma non lo varca. Sa che ancora un’ultima prova attende i suoiamici. Non anticipa loro niente, dice solo:

«Potreste avere maggior difficoltà di quanto non pensiate. Ma ve la caverete perfettamente». (p.1216)

Come Ulisse al suo ritorno ad Itaca, anche gli Hobbit ritrovanola loro patria invasa da usurpatori. La Contea è statasoggiogata da una banda di uomini spietati, che hanno istituitoun regime dittatoriale. È un brutto affare per degli esseri altipoco più di un metro. «Ed eccoci qui, noi quattro, di nuovo soli, come quando partimmo». (p. 1218)

Gli Hobbit si mettono alla guida della loro gente. Vinta anche l’ultima battaglia, si guardano e notano che ognuno è cresciuto.

Merry e Pipino, che addirittura sono tornati a casa più alti di quando erano partiti, da clandestini imbranati, si scoprono due grandi generali. Sam trova il coraggio di dichiararsi a colei di cui era innamorato. Frodo, che ha imparato il valore della pietà, cerca di evitare spargimenti di sangue inutili e vendette sui prigionieri di guerra.

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Lo stesso Gandalf lo spiega nel modo migliore:

«Sono con voi per il momento,ma presto non lo sarò più.Non vengo con voi nella Contea.Dovete sistemare da soli le sue faccende; è per questo che siete stati allenati.Non avete ancora capito?Il mio tempo è finito: non tocca più a me sistemare le cose,né aiutare gli altri a farlo.E quanto a voi, cari amici miei,non avrete bisogno di aiuto.Siete adulti, ormai. Siete cresciuti molto, fate parte dei grandi, e non temo più nulla per nessuno di voi». (p. 1217)

Qual è il compimento della paternità?

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La paternità è un’esperienza sintetica:essa svela la grandezza ela limitatezza dell’uomo. Laddove non si riconosce un padre, non si diventa padri. E per questonon si è pienamente uomini.Un figlio sarà creativo nella misura in cuiaccoglie il tesoro che riceve. Così Dantesi poggia su Virgilio, e lo supera;Frodo porta a termine l’opera di Gandalf.Nessuno genera se non è generato.Se il padre non comunica con il figlio,è il figlio che deve incessantementecercare il padre, senza dargli pace esenza accettare la sua assenza odistrazione. Anche questo lo vediamonelle domande di Dante: tutta la sua storia di risalita comincia con un grido di aiuto.

Il padre introduce alla vita, che è comenascere una seconda volta.Richiede un sacrificio, a volte una lotta.E nella mischia si scopre che nonesistono padri buoni o cattivi, ma solopadri, e in ciascuno si trovano il bene e il male. “Solo Dio è buono” (cfr. Mc 10,18).

Per diventare adulto, un figlio deveconoscere e perdonare il proprio padre.Finalmente il figlio arriva a comprenderela segreta sofferenza del padre, il sensodi gesti che non aveva mai compreso.Da questo perdono nasce la speranza.

Tutto questo è un’esperienza che si puòvivere già nella giovinezza.Con gli amici, con chi è in difficoltà,puoi già iniziare a dare ciòche hai ricevuto. Ed è un’esperienza bellissima.

Per informazioni:334 [email protected]