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COME ALLA CORTE DI FEDERICO II OVVERO

PARLANDO E RIPARLANDO DI SCIENZA

DAI GENI ALLA TERAPIA: NUOVI FARMACI ANTITUMORALI 9 di Massimo Santoro PLATONE E L’AMBIGUO POTERE DEL PHARMAKON 11 di Lidia Palumbo MODELLI ANIMALI PER LA SPERIMENTAZIONE DI NUOVE TERAPIE: IL CONTRIBUTO DI “PIPPO” 13 di Giuseppe Borzacchiello PASSIONE PER LA SOLUZIONE 15 di Daniela Corda FARMACI BIOTECH: CROCE E DELIZIA DI UN MERCATO IN RAPIDA EVOLUZIONE… 17 di Manlio Del Giudice

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Le scoperte della biologia e della genetica hanno aperto nuove strade per la cura del cancro

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Gli articoli degli incontri si trovano al sito

www.comeallacorte.unina.it

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Massimo Santoro

Massimo Santoro nasce a Napoli il 28 luglio 1961; si laurea in

Medicina e Chirugia nel 1986 e consegue il Dottorato di ricerca nel

1992. È stato ricercatore del Consiglio Nazionale per le Ricerche

(CNR) presso l’Istituto di Endocrinologia e Oncologia Sperimentale

“G. Salvatore”; dal 2002 è professore di Patologia Generale della

Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università’ “Federico II”, dove

lavora presso il Dipartimento di Biologia e Patologia Cellulare e

Molecolare “L. Califano”. Ha lavorato negli Stati Uniti presso il

National Cancer Institute, National Institutes of Health (NIH) di

Bethesda (Md). È autore di circa 220 pubblicazioni scientifiche su riviste internazionali ed ha ricevuto

premi quali quello “Guido Venosta” della Fondazione Italiana per la Ricerca sul Cancro (2000), l’European

Journal of Endocrinology Prize (2005), il Life of Science Award del Memorial Sloan Kettering (NY, USA)

(2007) ed il Merck Prize dell’European Thyroid Association (ETA) (2010). Massimo Santoro è componente

dell’Editorial board di alcune riviste scientifiche quali Journal of Biological Chemistry, Endocrine Related

Cancer, Thyroid e Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism, del Comitato Scientifico

dell’Associazione Italiana Ricerca sul Cancro (AIRC) e dell’International Thyroid Oncology Group (ITOG).

La sua attività di ricerca è focalizzata allo studio delle lesioni molecolari che causano il carcinoma della

tiroide. In particolare, ha contribuito all’identificazione dell’oncogène RET/PTC nel carcinoma papillifero

della tiroide e allo studio delle mutazioni di RET nel carcinoma midollare tiroideo. Egli, negli ultimi anni, si

è occupato dell’identificazione di farmaci in grado di interferire con il funzionamento di specifiche proteine

responsabili del cancro della tiroide.

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COME ALLA CORTE DI FEDERICO II Dai geni alla terapia: nuovi farmaci antitumorali

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DAI GENI ALLA TERAPIA: NUOVI FARMACI ANTITUMORALI Massimo Santoro Professore di Patologia generale Università degli Studi di Napoli Federico II

Il cancro è caratterizzato dalla crescita

non regolata di un gruppo di cellule, in grado

non solo di alterare la struttura del tessuto da

cui originano ma anche di disseminarsi

all’interno dell’organismo dando origine a

metastasi. Già all’inizio del XX secolo, il biologo

tedesco Theodor H. Boveri nel trattato “The

origin of malignant tumors”, osservando al

microscopio la moltiplicazione cellulare, aveva

ipotizzato che il cancro fosse legato all’errata

distribuzione dei cromosomi tra cellula madre e

cellule figlie e che fosse quindi causato da

alterazioni del patrimonio genetico.

Successivamente, gli studi effettuati da

Francis Peyton Rous, premio Nobel nel 1966, sui

virus oncògeni, capaci di alterare il

funzionamento di specifici geni nelle cellule

infettate, stimolò l’inizio di un’intensa attività di

ricerca diretta a scoprire tali geni e le loro

alterazioni nelle cellule tumorali. Questi studi

chiarirono l’esistenza di geni, detti oncogèni,

che, se alterati (mutati), causavano il cancro;

scoperta per la quale Harold Varmus e Mike

Bishop hanno ricevuto il premio Nobel nel 1989.

Da quel momento, enormi sforzi sono stati

compiuti per comprendere i meccanismi con i

quali gli oncogèni sono in grado di alterare il

comportamento delle cellule a tal punto da

trasformarle in cellule cancerose. Numerose

neoplasie umane sono state associate a

mutazioni di oncogèni specifici. Ad esempio il

gene ABL è frequentemente alterato nella

leucemia mieloide cronica, RAS nel cancro del

pancreas, EGFR nell’adenocarcinoma del

polmone, BRAF nel melanoma, e RET nel cancro

familiare della tiroide. A partire dal 2001,

l’identificazione dell’intero set di geni che

compongono il patrimonio genetico (genoma)

dell’uomo, ci ha fatto comprendere come

esistano circa 400 differenti geni che possono

essere mutati nei tumori. Oggi sappiamo che

accanto agli oncogèni, che se mutati favoriscono

i tumori, esiste anche una seconda categoria di

geni che, al contrario, proteggono le cellule dalla

trasformazione cancerosa e che per questo

motivo sono detti geni oncosoppressori. Queste

conoscenze non sono rimaste confinate tra le

mura dei laboratori di ricerca. Esse hanno

consentito l’individuazione di nuovi farmaci

diretti in maniera selettiva a intercettare i

meccanismi alla base dello sviluppo dei tumori.

Nonostante questi straordinari progressi, però,

la strada da percorrere è ancora ardua; le cellule

cancerose riescono spesso ad adattarsi alla

terapia, sviluppando meccanismi di resistenza

che le rendono capaci di riprendere a crescere.

La prossima frontiera sarà quella di scoprire tali

meccanismi di resistenza ed identificare

strategie capaci di bloccarli.

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PLATONE E L’AMBIGUO POTERE DEL PHARMAKON Lidia Palumbo Professoressa di Storia della filosofia antica Università degli Studi di Napoli Federico II

Nella lingua greca il pharmakon può

essere una medicina o un veleno, una droga che

uccide o un rimedio che salva; e nella lingua di

Platone esso è sempre, necessariamente, tutte e

due le cose. Nella lingua di Platone , che, anche

per questa circostanza, è la lingua filosofica per

eccellenza, quando compare un pharmakon,

esso, pur significando un rimedio, evoca sempre,

immancabilmente, anche un veleno: un veleno

che prenderà forma, magari, in un altro luogo e

in un altro tempo, ma che abita quello stesso,

unico e ambiguo, segno linguistico: a significare

l’inscindibile complessità del mondo, lo spessore

delle cose, la contraddittorietà della natura loro.

Il filosofo nutrì sempre un profondo

sospetto nei confronti di ta pharmaka: anche

quelli usati a scopi terapeutici, con buone

intenzioni, sono strutturalmente pericolosi. Non

esiste rimedio inoffensivo, non si dà alcun

pharmakon semplicemente benefico. E ciò per

varie ragioni: il fatto di essere curativa – infatti

– non impedisce ad una sostanza di essere

dolorosa, e il doloroso benefico è in qualche

modo la marca della malattia, ma anche della

guarigione, è la cifra del pharmakon, che è

anche, in un certo senso, antidoto di se stesso.

Esso partecipa, per così dire, del bene e del

male, del gradevole e dello sgradevole. Ma non è

solo a questo livello che si configura la natura

ancipite del pharmakon.

Al di là del dolore che causa in nome del

piacere che promette, il pharmakon può essere

nocivo perché forza la natura. Come il frutto

che si agita davanti ad un animale affamato per

indurlo a camminare , il pharmakon agisce per

seduzione: induce ad un movimento innaturale,

fa uscire i viventi (e le invisibili particelle di cui

essi sono composti) dalle loro vie abituali, devia

i loro percorsi normali e apre così allo spazio

della magia e del sortilegio. Tra i movimenti –

insegna il Timeo – il migliore è il movimento

naturale, quello che, spontaneamente, dal di

dentro, “nasce per azione sua propria”. Quando

è possibile – perciò – non si devono irritare le

malattie con l’impiego di depurazioni

farmaceutiche, perché intervenire

innaturalmente su un processo, modificandolo,

serve solo a spostare il male, moltiplicandone gli

effetti negativi. Tutto dipende dal punto di vista

dal quale si guarda alle cose, perché esiste

anche una vita della malattia, un suo corso

naturale, che può essere pericoloso

interrompere.

In Platone il pharmakon non è un

oggetto, ma l’operazione di un oggetto che

interviene in un sistema modificandolo. In

questa prospettiva esso, che può essere

apportatore di vita o di morte, sta lì, nel testo

filosofico, ad indicare la condizione

intrinsecamente contraddittoria in cui vivono gli

enti sensibili con la loro natura non essenziale

ma contestuale, non assoluta ma relazionale. Ci

sono farmaci del corpo e farmaci dell’anima e il

più importante di questi ultimi è la parola vera,

che per Platone può essere somministrata solo

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dal filosofo, unico terapeuta dell’invisibile. Essa è

in grado di trasformare l’anima che l’accoglie,

come ogni farmaco prescritto dal medico modifi-

ca, necessariamente trasformandolo, il corpo del

paziente.

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MODELLI ANIMALI PER LA SPERIMENTAZIONE DI NUOVE TERAPIE: IL CONTRIBUTO DI “PIPPO” Giuseppe Borzacchiello Professore di Oncologia veterinaria Università degli Studi di Napoli Federico II

Da sempre lo studio di un fenomeno

complesso quale il cancro si avvale dell’utilizzo di

modelli animali. Tra questi un ruolo importante

rivestono le neoplasie spontanee degli animali

domestici, in particolare quelle canine. Infatti,

molti aspetti epidemiologici, morfologici, genetici

e di comportamento biologico sono comuni tra

tumori umani e canini. Inoltre, le più recenti

scoperte indicano che alcune “alterazioni

geniche” che si verificano nel cancro sono più

comuni a linee cellulari umane e canine piuttosto

che a quelle murine sebbene queste siano più

frequentemente utilizzate. Per questi motivi,

alcune neoplasie spontanee della specie canina

(ad esempio il carcinoma della vescica urinaria,

l’osteosarcoma) sono utilizzati da tempo per lo

studio comparativo delle analoghe forme

tumorali dell’uomo. Ma da qualche anno c’è una

novità che ha conquistato anche le prime pagine

di importanti quotidiani americani: le più grandi

multinazionali del farmaco hanno deciso di

arruolare cani affetti da neoplasie spontanee per

sperimentare l’efficacia di nuovi farmaci

antineoplastici! Un importante cambio di pro-

spettiva sull’“uso” dei modelli canini: da

strumento per approfondire la biologia dei

tumori a pazienti su cui testare nuovi farmaci. I

vantaggi sono notevoli: le neoplasie del cane

sono spontanee e non indotte sperimental-

mente; si riducono i tempi per la verifica

dell’efficacia del farmaco; alcune forme tumorali,

rare nell’uomo, sono molto comuni nei cani.

Infine, i nuovi chemioterapici, se efficaci,

possono utilizzarsi anche in terapia oncologica

veterinaria. Tutto ciò non fa altro che

sottolineare, ancora una volta, l’importanza dei

modelli animali di neoplasia spontanea per la

ricerca oncologica di base ed applicata.

E a questo proposito come non ricordare

l’importante contributo dato da alcune neoplasie

animali indotte da papillomavirus per la

comprensione dei meccanismi eziopatogenetici

delle analoghe neoplasie umane (carcinoma

della cervice uterina) e lo sviluppo di vaccini. Ma

gli animali possono dare un contributo attivo

anche nella diagnostica oncologica. Infatti, i

nostri fedeli amici a quattrozampe possono

aiutarci nella diagnosi di alcuni tumori dell’uomo.

Come? Grazie al loro finissimo olfatto. Infatti, i

cani cosiddetti “sniffers” sono animali addestrati

a riconoscere le alterazioni di odore delle urine di

persone affette da carcinoma della vescica o

prostatico. E proprio in questi giorni è stato

pubblicato uno studio che dimostra la capacità

dei Labrador nel fiutare la presenza del cancro

del colon nell'espirato e in campioni fecali delle

persone affette, con un livello di accuratezza

molto elevato anche nei primi stadi della

malattia.

Insomma, da ausilio nella diagnosi a

paziente utile per la sperimentazione. È proprio

vero, anche in oncologia “Pippo” si rivela un

nostro fedele alleato.

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PASSIONE PER LA SOLUZIONE Daniela Corda Direttore Istituto di Biochimica delle Proteine Consiglio Nazionale delle Ricerche

Se si chiede a molti dei miei colleghi più

o meno giovani perché ad un certo punto hanno

deciso di dedicarsi alla ricerca biomedica, si

scopre che la scintilla è quasi sempre scaturita

dal desiderio, diventato rapidamente sfida, di

affrontare una malattia, capirla, curarla. La cura

di un tumore primeggia nella lista delle

aspirazioni di molti di noi. Del resto chi non è

stato testimone del dolore di una persona cara,

di un amico toccati da questo male? Non si parla

ed opera quindi in astratto, ma si guarda al

quotidiano, alle gioie ed ai dolori che

caratterizzano la nostra vita.

La ricerca biomedica, lo studio delle

varie malattie che affliggono l’uomo, non è

dunque un esercizio per persone chiuse nei

laboratori (come troppo spesso vengono descritti

i ricercatori), lontane dalla “vita reale”,

appassionate all’infinitamente piccolo ed

all’ignoto. Non è un gioco. La ricerca è una sfida

quotidiana fatta da persone che vogliono

capire/scoprire, che sono pronte ad affrontare

mille frustrazioni per arrivare a dare un

contributo al sapere come strumento che può

migliorare la vita dell’uomo.

Spesso il lavoro scientifico si affronta fra

mille difficoltà, ma per fortuna la scintilla iniziale

non si spegne. Si parla di vocazione per la

ricerca: in un certo senso è vero, per saper dare,

bisogna essere generosi e non risparmiarsi. Tale

spirito può essere interpretato come vocazione.

Una vocazione gioiosa, che coinvolge la mente!

Certamente, molte curiosità le abbiamo

tutti: si può dire che c’è un ricercatore in ognuno

di noi. Bisogna far emergere questa giusta

tensione al sapere, e far sì che coloro che

vogliono intraprendere questo mestiere e che

potrebbero essere colti dalla scintilla, vengano

incoraggiati ed aiutati ad iniziare. Gli esempi di

italiani eccellenti non mancano, certamente in

tutti i campi del sapere e delle arti: in scienza

(biologia e medicina in particolare) abbiamo una

lunga lista di nomi eccellenti, senza dover

sempre scomodare Galileo o Leonardo!

È auspicabile che sempre più la società,

ed in particolare i giovani, vengano messi a

contatto con le realtà sane e vincenti del paese,

che si presentino le varie opportunità di carriera

nei vari settori, senza dimenticare la ricerca

fondamentale.

Ormai la divulgazione scientifica

funziona, tutti sappiamo cos’è un gene, una

proteina, una cellula; sappiamo che se questi

componenti si “guastano” ci portano a delle

malattie che ormai riusciamo spesso a curare

perché abbiamo capito quale meccanismo o

“pezzo” è fuori posto o avariato. Quello che non

diciamo abbastanza alle nostre nuove

generazioni è che dobbiamo essere in tanti per

capire sempre di più, far avanzare la conoscenza

e metterla al servizio dell’uomo. Le occasioni

perché un giovane possa capire che la sua

strada è nella scienza, nella ricerca devono

venire dalla scuola, dall’Università, dai mezzi di

comunicazione. Si rischia altrimenti di perdere

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un potenziale enorme. Mettiamo anche questo

elemento nella valutazione della competitività

nazionale, ma dobbiamo agire, con il sostegno

economico e culturale, con l’esempio, l’apprez-

zamento, la dedizione, non continuando solo a

ripetere che la ricerca è importante!

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FARMACI BIOTECH: CROCE E DELIZIA DI UN MERCATO IN RAPIDA EVOLUZIONE… Manlio Del Giudice Professore di Management delle Imprese Biotech Seconda Università degli Studi di Napoli

I farmaci biotecnologici rappresentano

un settore rilevante ed in forte espansione. E

come in tutti i mercati the customer is king, così

oggi i farmaci biotech vengono progettati a

tavolino dai ricercatori e tarati in base alle

esigenze del paziente. Non più composti

generici, ma farmaci a target, in grado di colpire

una determinata molecola e di operare solo in

una precisa zona dell`organismo. Complici,

certamente, gli avanzamenti nel campo della

genomica che hanno cambiato radicalmente il

processo innovativo, abbattendo i costi di

produzione e conducendo verso forme di

medicina “personalizzata”.

All’interno di questo scenario, le imprese

biofarmaceutiche hanno dovuto imparare a

modificare rapidamente strutture di produzione

e modelli competitivi, adattandosi ad una

crescente differenziazione di prodotto e a

mercati, per loro natura, di piccole dimensioni:

natura non facit saltus, avrebbe detto Virgilio.

Ma con oltre ottanta biofarmaci sul mercato ed

almeno cinquecento in fase di sperimentazione

clinica, con trattamenti personalizzati per

specifici genotipi ed un processo di R&S

caratterizzato da forti spillover di conoscenza, le

scelte strategiche diventano poche. Certo, pesa

anche il ruolo egemone svolto sinora da Big

Pharma nel condizionare i mercati e la ricerca:

secondo il Global Forum for Health Research

meno del 10 % della spesa mondiale per la

ricerca medica è dedicato ai problemi che

affliggono il 90% più povero della popolazione

mondiale. E mentre le prime dieci multinazionali

farmaceutiche controllano il 40% del mercato,

scegliendo di conseguenza come “investire” o

imponendo il costo dei brevetti dalla California a

Timor Leste, passando per l’Europa, si sgretola

l’ultimo luogo comune tra le pagine di uno studio

dell’Università del Quebec: le Big Pharma a stelle

e strisce fino a qualche anno fa spendevano in

promozione quasi il doppio che in R&S. Ma

qualcosa sta cambiando: l’industria farmaceutica

ha attraversato profondi mutamenti strutturali

nell’ultimo trentennio che hanno spostato il locus

dell’innovazione dai laboratori delle imprese di

grandi dimensioni alla rete di collaborazioni

flessibili tra organizzazioni dotate di competenze

complementari.

Ciononostante, tenuto conto dei

passaggi dal laboratorio all`uso terapeutico,

attraverso varie linee di ricerca, tecnologie e trial

di verifica, non è possibile ancora parlare di

farmaci biotech “economici” in senso stretto.

Sebbene investimenti in R&S e strategie

aziendali vadano sempre più verso la riduzione

del costo unitario di sviluppo del farmaco

biotech. E se alcune Regioni in affanno sui conti

hanno tagliato su queste voci di spesa, sono i

pazienti a far quadrato: curare un malato costa

ancora molto allo Stato, ma tenerlo ricoverato

costa ancora di più. Rassicura che nei prossimi

anni comincerà la partita dei farmaci biosimilari?

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Entro il 2015, secondo Assogenerici, perderanno

il brevetto 45 farmaci biotech con vendite di 50

miliardi di dollari. E si stima che grazie alla

progressiva introduzione dei biosimilari, nei

prossimi 10 anni il risparmio per il sistema

sanitario italiano potrebbe salire a 200 milioni di

euro annui nel 2015 e raggiungere i 500 milioni

di euro annui nel 2020. Conti alla mano, le

aziende sanitarie risparmierebbero il 3/4% sulla

spesa complessiva per i farmaci. Nel 1700

Voltaire scrisse che l'arte della medicina consiste

nel divertire il paziente mentre la natura cura la

malattia; certo il filosofo francese non

immaginava che il primo prodotto ad ottenere

l’autorizzazione all’immissione in commercio di

molte imprese biotecnologiche sarebbe stato un

orphan drug…

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