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2/2015 26 RITORNARE AI FATTI. LA MATERIA DEL CONTENDERE QUALE NODO NARRATIVO DEL ROMANZO GIUDIZIARIO Andreana Esposito 1. Il dialogo necessario che non c’è. – 2. La narrazione europea: la materia del contendere. – 2.1. I nodi rilevanti: la legalità come prevedibilità. – 2.2. I nodi rilevanti: il ritorno ai fatti. – 2.3. Fine del capitolo europeo. – 3. La continuazione della narrazione: il capitolo scritto dalla Corte di cassazione. – 3.1. I fatti. – 3.2. I piani paralleli che non si incontrano mai. – 4. Un esercizio di stile non perfettamente riuscito. ABSTRACT Prendendo spunto da una recente sentenza della Corte di cassazione (Sez. II, 21 aprile 2015 n. 34147, Perego), che censura la sentenza della Corte EDU nel caso Contrada, l’Autrice disegna un possibile percorso di sviluppo dialogico e corale del diritto, risultante anche dall’incontro tra giudici nazionali e giudici sovranazionali. SOMMARIO I principi

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I grandi temi del diritto e del processo penale

RITORNARE AI FATTI. LA MATERIA DEL CONTENDERE

QUALE NODO NARRATIVO DEL ROMANZO GIUDIZIARIO

Andreana Esposito

1. Il dialogo necessario che non c’è. – 2. La narrazione europea: la materia del contendere. – 2.1. I nodi rilevanti: la legalità come prevedibilità. – 2.2. I nodi rilevanti: il ritorno ai fatti. – 2.3. Fine del capitolo europeo. – 3. La continuazione della narrazione: il capitolo scritto dalla Corte di cassazione. – 3.1. I fatti. – 3.2. I piani paralleli che non si incontrano mai. – 4. Un esercizio di stile non perfettamente riuscito.

AbstrAct

Prendendo spunto da una recente sentenza della Corte di cassazione (Sez. II, 21 aprile 2015 n. 34147, Perego), che censura la sentenza della Corte EDU nel caso Contrada, l’Autrice disegna un possibile percorso di sviluppo dialogico e corale del diritto, risultante anche dall’incontro tra giudici nazionali e giudici sovranazionali.

sommArio

I principi

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Il dialogo necessario che non c’è. Una recente sentenza della Corte di cassazione1, che ha sfiorato il tema dell’interpretazione

giuridica delle sentenze della Corte europea dei diritti umani, contribuisce a ulteriormente intrecciare quella finzione narrativa che vuole le corti nazionali e quelle sovranazionali dialogare tra loro.

Nel difficile processo “immaginativo” del diritto oggi sempre più reticolare e non ordinato, sono molteplici i momenti “interpretativi” che si realizzano intorno ai differenti “nodi” della rete giuridica seguendo modalità diverse a seconda della trama in cui si collocano. Senza poter qui riproporre l’ampio dibattito sviluppatosi sul tema della complessità delle fonti e dei conseguenti mutamenti del tessuto normativo2, anche penale, è sufficiente, ai fini che interessano in questa sede, rimarcare come nell ’era giuridica postnazionale – caratterizzata da cambiamenti qualitativi e quantitativi3 – anche il ruolo del giudice è oggetto di profonda modificazione. Posto di fronte a uno strumentario giuridico variegato e sempre più impreciso, il giudice, nazionale o sovranazionale che sia, ha sempre più una funzione marcatamente normativa di costruzione del diritto: interpretazione del testo giuridico con l’obiettivo di risolvere problemi pratici, la cui soluzione – frammento di un processo aperto di produzione normativa – è destinata a collocarsi ben oltre il singolo caso concreto da risolvere.

Una delle immagini più affascinanti – perché in grado di “rapire” il lettore, rischiando tuttavia di ingannarlo – utilizzata per descrivere questo processo è quello del romanzo a catena (chain novel) descritto da Dworkin4: i singoli interventi giurisprudenziali sono i diversi capitoli di uno stesso romanzo, scritto da più romanzieri, in cui la coerenza narrativa dovrebbe essere assicurata dall’essere la decisione del giudice la ragionevole prosecuzione di una pagina già scritta. Ogni giudice dovrebbe essere in buona misura vincolato – secondo una vincolatività morbida – dai brani già scritti, perché dovrebbe proseguirli rispettandone lo stile, i contesti, le regole “narrative”, e tuttavia egli aggiunge qualcosa di creativo che si incorpora nel romanzo in costruzione5. Ogni sentenza si inserisce in un processo di riproduzione, di creazione e quindi di sviluppo della trama normativa. E ogni giudice è al tempo stesso lettore – sperabilmente avido e curioso – e scrittore.

La figura del romanzo a catena rischia, tuttavia, di essere fuorviante – e soprattutto difficilmente riproducibile nella realtà – se si immagina uno sviluppo lineare e senza fratture. Invero, nella pratica giudiziaria difficilmente può aversi un’evoluzione normativa, uno svolgimento del racconto, perfettamente armonioso, senza strappi e del tutto lineare, e ciò in quanto la narrazione è il prodotto non solo di “scambi reciproci e (di) reciproco arricchimento, ma anche (di) approssimazione, (di) sconfessione e (di) ripensamenti”6. Che il romanzo normativo possa contenere anche capitoli imprevisti, divagazioni letterarie inaspettate, svolte repentine, ritorni improvvisi di tracce narrative apparentemente abbandonate, è circostanza quasi necessaria legata alla particolarità e alla concretezza del caso, alla ricchezza e alla varietà dei contesti fattuali.

Quella descritta è ovviamente una visione fisiologica dello sviluppo normativo, in cui i diversi coautori manifestino un atteggiamento culturale di appartenenza a uno stesso

1 Si tratta di Cass., sez. II pen., 21.04.2014 n. 34147, dep. il 7.08.2015.2 La bibliografia in materia è oramai molto ampia, senza alcuna pretesa di esaustività: in particolare con riguardo alle modifiche indotte dall’apertura degli ordinamenti nazionali a quelli sovranazionali, cfr. Donini, Europeismo giudiziario e scienza penale. Dalla dogmatica classica alla giurisprudenza–fonte, Giuffrè, 2011, pp. 43 e ss.; Manes, Metodi e limiti dell ’interpretazione conforme alle fonti sovranazionali in materia penale, in Dir. pen. cont., 9 luglio 2012, anche in Archivio penale n. 1/2012; sulla de-gerarchizzazioine delle fonti, cfr. Paliero, Il diritto liquido. Pensieri post-demasiani sulla dialettica delle fonti penali, in Riv. it. dir. proc. pen., 2014, pp. 1099 e ss.; al di fuori della penalistica, cfr. Zaccaria, La comprensione del diritto, Laterza, 2012; Vogliotti, Tra fatto e diritto. Oltre la modernità giuridica. Giuffrè, 2007 e di recente, Il risveglio della coscienza ermeneutica nella penalistica contemporanea, in Rivista di filosofia del diritto, 2015, pp. 89–106.3 Cfr. Manes, Metodi e limiti, cit., p. 2.4 Dworkin, A Matter of Principle, Harvard University Press, 1985, p. 158 e Law’s Empire, Harvard University Press, 1986, pp. 230 e ss; e anche La chaîne du droit, in Droit et societé. Revue internationale de théorie du droit et de la sociologie juridique, 1985 n. 1, pp. 51–79. In realtà molte sono le immagini che si presterebbero a rappresentare il cambiamento del diritto a seguito del mutamento del paradigma entro cui agisce, si pensi così alla rapsodia richiamata da Vogliotti, La “rhapsodie”: fécondité d’une métaphore littéraire pour repenser l ’écriture juridique contemporaire, in Revue interdisciplinare d’études juridiques, 2001, pp. 156 e ss. O ancora, lo spartito che non viene mai suonato, immagine evocata da Luzzati, L’interpretazione e il legislatore. Saggio sulla certezza del diritto, Giuffrè, 1999, p. 318.5 Cfr. Viola, Identità e comunità: il senso morale della politica, Vita e pensiero, 1999, pp. 152–153.6 Così, Di Giovine, L’interpretazione nel diritto penale: tra creatività e vincolo della legge, Giuffrè, 2006, p. 67.

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spazio giuridico e di collaborazione e di cooperazione alla scrittura corale7. Quindi, anche in una prospettiva di armoniosa compartecipazione, quell’immagine deve essere precisata, ipotizzando una sua scrittura fortemente non sequenziale che si avvalga anche di un ipertesto8, comprensivo di tanti diversi nodi narrativi, così da consentire una lettura e una scrittura non lineare ma reticolare con una navigazione pluridirezionale e aperta agli imprevisti dei singoli casi concreti9.

Anche in questa visione attualizzata del romanzo a catena, tuttavia, l’operazione di sviluppo narrativo/normativo cui è chiamato il giudice/narratore – in una visione dinamica e dialogica del diritto – deve tenere in debito conto non solo le pagine già scritte, in modo da assicurare una loro prevedibile prosecuzione, ma, soprattutto, deve utilizzare e condividere un sistema di metodi e di principi ordinatori comuni a tutti gli altri partecipanti. In altri termini, continuando la metafora di Dworkin, il romanzo normativo si compone di tanti capitoli – e paragrafi –, in cui si procede a una scrittura non necessariamente sequenziale, le cui parti sono collegate fra loro in modo reticolare attraverso nodi significativi, fatti di variazioni e anche di ripensamenti, e alla cui composizione partecipano diversi autori, che dovrebbero condividere – in un clima di cooperazione basata sul rispetto, sulla fiducia e sulla reciproca comprensione – metodi e principi.

Osservando, invece, le continue e serrate schermaglie prodotte dagli inediti duellanti dell’arena giudiziaria10, ciò che sembra spesso realizzarsi è l’abbandono della scrittura corale di un testo narrativo, preferendosi la solipsistica redazione di un testo argomentativo, con cui convincere i destinatari della bontà della propria tesi, screditando, minimizzando, obliterando quanto già scritto nelle pagine precedenti, talvolta anche procedendo, forzatamente, per semplificazioni e malintesi teorici11. Al posto di un allargamento progressivo di orizzonti, anche normativi, fondato sul senso di leale appartenenza, si ha una restrizione del campo visivo, limitato, nuovamente, all’interno dei propri confini culturali e territoriali.

In sostanza, anziché aversi una narrazione congiunta del diritto, si assiste, molte volte, a tante narrazioni dissociate, con cui prendere le distanze da altri autori del diritto.

In questo contesto si colloca la sentenza cd. “Infinito “ della Cassazione, da cui prende origine questa nota, in cui l’oggetto della narrazione dissociata dei giudici – nazionali e sovranazionali – è stata la nota vicenda dell’evoluzione giurisprudenziale del cd. concorso esterno in associazione mafiosa, del quale da ultimo si era interessata la Corte di Strasburgo, con la sentenza del 14 aprile 2015, resa nel cd. caso Contrada.

Chiamata a pronunciarsi sulla eventuale rilevanza di una questione di legittimità costituzionale sollevata dalle parti, la Corte di cassazione – sconfessando in poche battute pagine e pagine di ermeneutica giuridica e mostrando un disinteresse forte per le regole disciplinanti i rapporti con la giurisdizione europea, nonché una presa di distanza netta dai suoi canoni interpretativi – ha inteso “bacchettare” la Corte di Strasburgo per la sua “giuridicamente inesatta”, se presa nella sua assolutezza, ricostruzione “presuntivamente” giurisprudenziale della tipicità del concorso esterno in associazione mafiosa.

Tuttavia la decisione dei supremi giudici, nei passi che interessano, nasce viziata da alcuni fraintendimenti concettuali che non hanno consentito loro una chiara individuazione di quella che era la materia del contendere e che li hanno poi condotti a una ricostruzione “inesatta” già sul

7 Sulle possibili cause dell’assenza di appartenenza culturale a una stessa visione del diritto, cfr. Esposito V., La preminenza del diritto nel processo. Il giusto processo: diritto delle parti o dovere del giudice, in questa Rivista, 24 ottobre 2014.8 È evidente che la non sequenzialità non sia una caratteristica esclusiva dell’ipertesto; anche i tradizionali testi presentano molti livelli di lettura ottenuti attraverso le note a piè di pagine, i riferimenti incrociati, gli indici, le citazioni i riferimenti bibliografici. Il richiamo all’iper-testo, che rappresenta senz’altro un modo di scrittura, la cui natura non sequenziale è immediata, ha allora unicamente lo scopo di rendere particolarmente forte l’immagine di una non linearità del discorso giuridico. 9 Così Ost, Dalla piramide alla rete un nuovo paradigma per la scienza giuridica? in Vogliotti (a cura di) Saggi sulla globalizzazione normativa e il pluralismo normativo, 2013, Giuffrè, p. 37. In questo stesso testo, l’autore pone bene in chiaro quali siano i limiti (anche di percezione) del passaggio da un paradigma (sociale e giuridico) ad un altro e come, al tempo stesso, non si tratti mai di una trasformazione radicale, pp. 38 e ss.10 Possono leggersi, quale esempio di schermaglie, quelle sentenze della nostra Corte costituzionale indicative di un rigido ancoraggio a una insuperabile visione gerarchica delle fonti: così, da ultimo, la sentenza n. 49 del 2015. Parla di steccati più o meno robusti sovente eretti dalla nostra Corte costituzionale, formalmente, a difesa della nostra Costituzione, Viganò, La Consulta e la tela di Penelope, in Dir. pen. cont., 30 marzo 2015, per indicare l’atteggiamento molto spesso di chiusura e di diffidenza che caratterizza, il rapporto della nostra Corte costituzionale con la Corte di Strasburgo; così sempre Viganò, Convenzione europea dei diritti dell ’uomo e resistenze nazionalistiche: Corte costituzionale italiana e Corte di Strasburgo tra “guerra” e “dialogo”, in Dir. pen. cont., 14 luglio 2014.11 Parla di strategie difensive contro l ’invadenza del diritto di Strasburgo, per indicare una certa evoluzione della giurisprudenza costituzionale, Viganò, Convenzione europea, cit. p. 6. Con riferimento alla sentenza n. 49 del 2015 della Corte costituzionale, nota un esasperato patriottismo costituzionale, Ruggeri, Fissati nuovi paletti dalla Consulta a riguardo del rilievo della CEDU in ambito interno, in Dir. pen. cont., 2 aprile 2015.

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piano della comprensione testuale – oltre che, a parere di chi scrive, del tutto ultronea rispetto alla soluzione della questione prospettata – delle affermazioni fatte dalla Corte europea nel caso Contrada.

Nella (facile) soluzione della questione che era stata loro prospettata, altro avrebbe dovuto essere l’approccio dei supremi giudici, se avessero conosciuto e condiviso la prospettiva di muoversi oramai in uno spazio giuridico comune, caratterizzato da una deterritorializzazione, da un conseguente “svaporamento” dei confini e distinto da un processo osmotico di produzione del diritto.

Scopo di questo esercizio di lettura di testi giurisprudenziali è provare a scrivere, tenendo conto del passato, quale avrebbe potuto essere lo sviluppo narrativo (uno dei possibili sviluppi) in tema di concorso esterno in associazione mafiosa, alla luce degli elementi di fatto e di diritto sottoposti ai giudici nazionali, partendo dalla individuazione di quale fosse la materia del contendere portata dinnanzi alla Corte europea nel caso Contrada, nella consapevolezza che lo svolgersi del diritto è spesso disordinato e che diversi quadri di disaccordi e di strutturali dissonanze12 possono sempre essere tracciati.

Tale impostazione è chiaramente indicativa di una scelta riduttiva di analisi delle sentenze indicate. Non è mia intenzione, in particolare, affrontare i tanti problemi, soprattutto di carattere sistemico, che la decisione della Corte europea presenta. Non mi sfugge, tuttavia, la macchinosità della traduzione (volendo continuare a usare terminologia letteraria) dei risultati della sentenza nel nostro ordinamento o la difficoltà di collocare – anche attraverso una loro frammentazione – le argomentazioni europee, caratterizzate da un linguaggio fluido e dalla natura porosa del suo diritto, nel rigido discorso dommatico del diritto penale13.

Lascerò sullo sfondo questi e altri elementi di complessità, per provare a tratteggiare, invece, una mappa ideale su cui disegnare i tanti nodi da sciogliere per la scrittura dialogica e corale di un discorso giuridico pratico volto alla soluzione di una singola questione prospettata

12 Così, Zaccaria, Comprensione del diritto, non sul diritto, in Rivisto di filosofia del diritto, 2015, p. 122.13 Su questi, e altri aspetti critici, della sentenza della Corte europea, cfr. Di Giovine, Antiformalismo interpretativo: il pollo di Russel e la stabilizzazione del precedente giudiziario, in Dir. pen. cont., 12 giugno 2015; Palazzo, Legalità fra Law in the books e Law in action, ivi, 13 gennaio 2016, Pulitanò, Paradossi della legalità. Fra Strasburgo, ermeneutica e riserva di legge, ivi, 13 luglio 2015. L’esecuzione della sentenza (divenuta definitiva il 14 settembre 2016 dopo il rigetto da parte della Grande Camera – comitato di filtraggio – del ricorso presentato dal Governo italiano) non sembra avere una unica strada tracciata, diversi potendo essere a livello teorico gli strumenti attivabili. Una sua cor-retta attuazione richiede, in ogni caso, la rimozione del giudicato formatosi a seguito della sentenza della Corte di Cassazione dell’8 gennaio 2008, senza la necessità di una nuova attività procedimentale. La decisione europea, infatti, ha rilevato la violazione di un diritto sostanziale che avendo acclarato l’illegittimità dell’intero accertamento, inevitabilmente, si ripercuote sulla validità dell’esito processuale – e ciò diver-samente da quanto accade in caso di violazione di una garanzia procedurale che invalida lo svolgimento processuale più che il suo esito. In vero, affermando – sulla base di una ricognizione delle interpretazioni e applicazioni giurisprudenziali del combinato disposto di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p – che la pena (rectius: la punibilità a titolo di concorso esterno) non era prevedibile per il ricorrente in quanto l’evoluzione giurisprudenziale che aveva delineato i confini del concorso esterno in associazione mafiosa non era stata fino a quel momento chiara e lineare, la Corte europea ha, implicitamente, ritenuto invalida la condanna - mettendone in discussione l’affermazione di responsabilità lì contenuta – imposta al dott. Contrada, condanna la cui rimozione è rimessa ai giudici nazionali. Tuttavia, diversamente da quanto accade in seguito a una affermazione europea di violazione di una regola processuale da cui deriva l’obbligo per le autorità nazionali di rifare il processo rispettando le garanzie e i diritti convenzionali – senza, ovviamente, che vi sia alcuna indicazione prestabilita quanto all’esito del nuovo procedimento – , nel caso di violazione di un diritto sostanziale, con una innegabile riduzione della discrezionalità dell’autorità giudiziaria italiana deputata a dare attuazione alla sentenza europea, si determina un vincolo per lo Stato condannato quanto all’esito della procedura di attuazione di quanto inficiato in sede europea. Come è noto, diversi sono stati i percorsi intrapresi dai giudici italiani: dall’incidente di esecuzione ai sensi dell’art. 670 c.p.p. al ricorso straor-dinario ex art. 625 bis c.p.p. fino alla cd. “revisione europea” di cui alla sentenza n. 113 del 2011 della Corte costituzionale. A questi può aggiun-gersi, pur non essendo mai stato applicato in sede di conformazione a una decisione europea, l’incidente di esecuzione di cui all’art. 673 c.p.p. (sulla possibilità, sia pure impervia, di azionare tale strumento per eseguire la sentenze resa nel caso Contrada, Maiello, Consulta e CEDU riconoscono la matrice giurisprudenziale del concorso esterno, in Diritto penale e processo, 8/2015, pp.1019 e ss.). Nel caso concreto sembra sicura-mente da escludere la percorribilità sia dell’incidente di esecuzione di cui all’art. 670 c.p.p. (perché non in grado di rimuovere il giudicato) sia della revisione “europea” (e questo non tanto perché tale strumento si presti in primo luogo a rimediare a violazioni processuali – attinenti in particolar modo l’attività probatoria – ma soprattutto perché pare rimedio eccessivamente complesso e non necessario per la mera rimozione di una condanna “invalidata”). Probabilmente, difficoltà ermeneutiche (legate sia alla lettera della legge che a quanto affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 230 del 2012) e ragioni di economicità processuali, sembrano far preferire all’incidente di esecuzione di cui all’art. 673 c.p.p., il ricorso straordinario di cui all’art. 625 c.p.p. Quanto alla traducibilità della violazione accertata dalla Corte europea nel linguaggio del nostro diritto penale sembra potersi dire che due sono gli aspetti che emergono. Da un lato – sotto un profilo oggettivo – la sussistenza di una ipotesi di retroattività occulta, per cui a una fattispecie incriminatrice viene dato un ambito applicativo più ampio, in modo da ricomprendere nella sua tipicità fatti fino a quel momento non puniti a quel titolo. Indubbiamente la portata innovativa nel nostro ordinamento di tale affermazione è quella che dovrebbe portare il giudice nazionale – nella fase della sua attuazione – a una equiparazione tra evoluzione giurisprudenziale imprevedibile e sfavorevole e modifica in pejus legislativa. Altro profilo che viene in rilievo è di tipo soggettivo, richiedendo la legalità convenzionale – incentrata sul concetto di prevedibilità – la neces-sità di una effettiva possibilità di conoscenza del precetto penale, così ponendosi sul piano della colpevolezza.

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ai giudici italiani.

La narrazione europea: la materia del contendere. Nella comunicazione del ricorso al Governo italiano14, la Corte europea poneva la seguente

domanda: i fatti per i quali il ricorrente è stato condannato costituivano reato secondo il diritto nazionale al momento in cui furono commessi, ai sensi dell’art. 7 della Convenzione?

Se effettivamente la sentenza della Corte europea avesse partecipato di una scrittura “non sequenziale”, i termini evidenziati dal grassetto (fatti, reato, diritto, art. 7) sarebbero stati i nodi (ipertestuali) contenenti da un lato i dati fattuali caratterizzanti il caso concreto e dall’altro i dati concettuali sviluppati dalla precedente giurisprudenza europea, i dati, cioè, di cui servirsi per procedere nella narrazione del romanzo, che potremmo intitolare “Le mirabolanti avventure di una fattispecie criminosa nel corso di uno squarcio di secolo: il concorso esterno in associazione mafiosa”. Per cui, cliccando sui singoli nodi, il lettore/giudice avrebbe avuto contezza delle acquisizioni raggiunte a Strasburgo nella definizione del concetto autonomo reato/materia penale15, del significato del termine diritto, e della portata applicativa del principio di legalità europeo. Solo dopo aver navigato tra i diversi collegamenti, il giudice narratore avrebbe potuto continuare a scrivere la tendenzialmente infinita saga in materia. Vediamoli (alcuni di) questi collegamenti.

I nodi rilevanti: la legalità come prevedibilità. Un primo nodo da districare per la corretta comprensione della sentenza europea è

certamente quello concernente l’elaborazione del concetto di legalità europea, come è noto fondata sull’idea di prevedibilità.

La domanda formulata dai giudici europei tendeva, infatti, evidentemente a valutare la prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie (rectius: della punibilità ai sensi del combinato disposto ai sensi degli artt. 110 e 416-bis c.p. e non quindi, come pure è stato osservato, della rilevanza tout court penale dei fatti) per la realizzazione dei fatti oggetto di imputazione a carico del ricorrente.

Valorizzando da sempre il perfezionamento creativo della legge che si attua nel contraddittorio del processo, la Corte EDU riconosce al giudice un ruolo fondamentale nella precisazione dell’esatta portata del precetto penale16. La norma la cui conoscibilità ci interessa (e le cui conseguenze devono essere prevedibili) è anche per la giurisprudenza europea il risultato dell’insieme di due dati, il dato legislativo – di per sé incapace di assicurare precisione assoluta, e quindi certezza – e il dato interpretativo fornito dai giudici. Questi due dati difficilmente sono esaminati disgiuntamente dalla Corte europea. La prevedibilità è un criterio qualitativo che deve informare sia l’attività di formulazione della prescrizione legale da parte del legislatore, sia la sua messa in atto da parte dell’interprete, che a quella formulazione, in definitiva, contribuisce. Interessata, quindi, a una legalità raggiunta (vale a dire alla qualità del risultato definitorio ottenuto dalla giurisprudenza nell’applicazione di una disposizione legislativa), l’attenzione della Corte europea è posta in particolare agli aspetti sostanziali del diritto o, per dirla in altri termini, alla qualità del diritto della cui prevedibilità si tratta. È chiaro che un diritto che abbia un elevato livello qualitativo in termini di precisione, di chiarezza e di linearità del suo sviluppo, presenta un grado accettabile di prevedibilità. Laddove, una formulazione imprecisa (dovuta a una cattiva descrizione normativa o una oscillante e contraddittoria applicazione giurisprudenziale – magari pur in presenza di una

14 Comunicazione al Governo italiano del 7 novembre 2013, Contrada c. Italia, in www.hudoc.echr.coe.int.15 Nel caso in esame non era, ovviamente, in discussione la natura penale della fattispecie, pertanto non si tratta di aspetto di cui si darà conto nel testo. 16 Sulla nozione europea di legalità, tra gli altri, Scoletta, La legalità penale nel sistema europeo dei diritti fondamentali, in Paliero–Viganò, (a cura di) Europa e diritto penale, Giuffrè, 2013, pp. 195 e ss.; Di Giovine, Come la legalità europea sta riscrivendo quella nazionale. Dal primato delle leggi a quello dell ’interpretazione, in questa Rivista trimestrale, 1, 2013, pp. 159 e ss.; Zagrebelsky V., La Convenzione europea dei diritti dell ’uomo e il principio di legalità nella materia penale, in Manes–Zagrebelsky (a cura di), La Convenzione europea dei diritti dell ’uomo nell ’or-dinamento penale italiano, Giuffrè, 2011, pp. 69 e ss.

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limpida descrizione legale) – ben potrà determinare un deficit di prevedibilità e quindi di legalità.

Nel caso in esame, notano i giudici sovranazionali, la formulazione del delitto di concorso esterno in associazione mafiosa – nella definizione che è stata adoperata in relazione a Bruno Contrada e quale punto di sintesi operato dall’insieme dei due formanti, legislativo e giurisprudenziale – è stata la risultante di una molteplicità di interventi giurisprudenziali di tenore e di contenuti diversi così da non poter seguire la posizione del governo secondo cui all’epoca della commissione dei fatti la giurisprudenza interna in materia non era in nessun modo contraddittoria17.

Dalla navigazione nell’ipertesto emerge, in sintesi, che il test di legalità effettuato dalla Corte europea ha quale oggetto il dato normativo come applicato dalle giurisdizioni nazionali. Il che significa che nel caso Contrada l’oggetto della cui prevedibilità la Corte si è interessata è stato il risultato definitorio (quale cristallizzatosi al momento dei fatti) raggiunto dalla giurisprudenza nazionale in applicazione del combinato disposto di cui agli art. 110 e 416-bis c.p.18. E invero, precisa la Corte nella sentenza del 14 aprile (par. 64): la questione che si pone (…) è quella di sapere se, all ’epoca dei fatti imputati al ricorrente, la legge applicabile definisse chiaramente il reato di concorso esterno in associazione mafioso. Vi è pertanto la necessità di esaminare se, a partire dal testo delle pertinenti disposizioni e con l ’aiuto dell ’interpretazione fornita dai tribunali interni, il ricorrente avrebbe potuto conoscere le conseguenze penali dei suoi atti. Quindi, i giudici europei sono pur sempre partiti dalla lettera della legge per verificare se l’interpretazione giurisprudenziale e, di conseguenza, la sua applicazione nel processo che vedeva Contrata imputato, avessero avuto un ragionevole e prevedibile sviluppo.

Prevedibilità concreta dell’esito giudiziario, quindi, perché riferita a quei fatti, a quanto accaduto in quel processo. Non prevedibilità astratta concernente lo sviluppo legale e l’ammissibilità giuridica (generica) del concorso esterno nei delitti associativi. E ciò emerge svolgendo il successivo nodo.

I nodi rilevanti: il ritorno ai fatti. L’altro nodo da sciogliere riguarda gli elementi fattuali posti alla base della decisione dei

giudici europei. E ciò per la ovvia considerazione che la regola giuridica che essi hanno poi enunciato si è formata su quella porzione di esperienza che ha riguardato la vicenda giudiziaria di Bruno Contrada. È quindi ai fatti processuali di Contrada che bisogna tornare.

A Bruno Contrada era contestato di aver realizzato specifiche condotte di favoreggiamento a vantaggio di soggetti mafiosi a lui noti come tali ratione officii (…) di agevolazione della latitanza di mafiosi (…), di comunicazione di notizie su programmate indagini di p.g. a carico di appartenenti a Cosa nostra19.

Si trattava, quindi, di comportamenti tendenti a fornire informazioni confidenziali relative a indagini in corso a esponenti della cosca Cosa Nostra. In particolare, i giudici di merito individuavano nove episodi o serie di vicende che andavano dalla agevolazione dell’allontanamento dall’Italia del mafioso palermitano John Gambino nell’ottobre del 1979 alla presunta intimidazione alla sig.ra Ziino del febbraio del 1988. I fatti sarebbero stati

17 Così al par. 70 della sentenza.18 Un breve passaggio della sentenza del 14 aprile contro l’Italia esplicita chiaramente questo concetto: il suo compito (della Corte) è limitato alla verifica della compatibilità con la Convenzione degli effetti di tali interpretazioni (par. 61); e poco oltre (par. 62): la Corte deve assicurare che il risultato raggiunto dalle giurisdizionali nazionali competenti fosse conforme con l ’articolo 7 della Convenzione. Forse in questo caso, anche in mancanza di navigazione nell’ipertesto della sentenza, una sua più attenta lettura sarebbe stata sufficiente ai giudici di cassazione per una migliore argomentazione anche critica.19 Così, Cass., sez. VI, 10 maggio 2007 n. 542/08, Ced Cass., n. 238241-3, pag. 5. Invero, non senza rilevanti imprecisioni, nella sentenza europea così è sintetizzato il capo di accusa nei confronti di Bruno Contrada (par. 6): il ricorrente, tra il 1979 e il 1988, in qualità dapprima di funzionario di polizia e quindi di capo di gabinetto dell ’alto commissario per la lotta contro la mafia e direttore aggiunto dei servizi segreti civili (SISDE), aveva sistematicamente contribuito alle attività e alla realizzazione dei fini criminali dell ’associazione di tipo mafioso denominata “Cosa nostra” (quell’avverbio sistematicamente, assente nei capi di imputazione quali si leggono nelle sentenze italiane avrebbe probabilmente de-terminato la possibilità – soprattutto in termini di maggiore semplicità probatoria – di colorare diversamente i fatti addebitati al Contrata). Continuando la lettura, e meglio riportando i dati processuali, poi si legge (sempre al par. 6): Secondo il tribunale, il ricorrente aveva fornito ai membri della commissione provinciale di Palermo della indicata associazione informazioni confidenziali riguardanti le investigazioni e le operazioni di polizia in corso, di cui gli stessi membri, come altri appartenenti all ’associazione, erano oggetto.

2.2.

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compiuti tra il 1979 e il 198820.Ciò che i giudici europei hanno verificato è come quei fatti venivano puniti in quegli anni

dal diritto nazionale; quale era, in definitiva, la veste legale data a quei comportamenti nei tribunali (e non solo dalla suprema corte) italiani.

Il risultato della verifica – secondo la Corte EDU – è stato di non conformità alla previsione di cui all’art. 7 della Convenzione, in quanto la fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa – negli anni in cui erano stati commessi i fatti addebitati al ricorrente – non era sufficientemente chiara e prevedibile dal ricorrente (par. 75). Per giungere a tale conclusione, i giudici europei non hanno – e questo si legge nella trama di tutto lo svolgimento della loro narrazione giuridica – operato una valutazione di prevedibilità in astratto dello sviluppo giurisprudenziale. La prevedibilità di cui si tratta non fa, cioè, riferimento a un rapporto tra le definizioni giurisprudenziali poste a priori in confronto. Al contrario, il concetto di prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie si delinea in questa sentenza, coerentemente con i precedenti della Corte europea, come prevedibilità in concreto. Ciò che la Corte ha indagato è se al momento della realizzazione dei fatti contestati fosse prevedibile quella data applicazione pratica del diritto per il destinatario di una data contestazione.

Si è quindi guardato a quanto scritto dalle corti nazionali che, nell’effettuare il giudizio di sussunzione del fatto concreto (risalente al periodo degli anni ’79–’88) nella fattispecie astratta, data dal combinato disposto di cui agli artt. 110 e 416-bis , per stabilirne la tipicità, hanno:

- da un lato, dato conto della presenza di posizioni contrastanti in giurisprudenza quanto alla compatibilità del concorso eventuale con il reato di associazione mafiosa21;

- dall’altro, utilizzato lo schema legale costruito dalle Sezioni Unite a partire dalla sentenza

20 Come emerge dagli atti processuali, gli elementi a carico di Bruno Contrada erano assunti mediante la deposizione di più collaboratori di giustizia, già appartenenti all’associazione Cosa Nostra con ruoli anche rilevanti, portatori di dati conoscitivi di valenza accusatoria (chiamate in reità o in correità) nei confronti dell’imputato. In particolare erano stati escussi i collaboratori Tommaso Buscetta, Gaspare Mutolo, Giuseppe Marchese, Rosario Spatola, Francesco Marino Mannoia, Salvatore Cancemì, Pietro Scavuzzo, Maurizio Pìrrone, Gaetano Costa, Gioacchino Pennino, Antonino Giuffrè. L’indagine dibattimentale dei giudici di Palermo consentiva di individuare, come riportato, nove episodi o serie di vicende addebitati al ricorrente, che si collocano in un lasso temporale che inizia nel 1979 e si conclude nel 1988. Gli episodi, come di seguito esposti dalla Suprema Corte nella sentenza depositata l’8 gennaio 2008, sono così individuabili:- c.d. vicenda Gentile (perquisizione eseguita il 12.4.1980 presso l ’abitazione del latitante Salvatore Inzerillo, diretta dal funzionario della Squadra

Mobile palermitana Renato Gentile, che riceve moniti o richiami dal Contrada, resosi interprete delle doglianze dei soggetti perquisiti per l ’irruenza attuativa dell ’intervento investigativo);

- operazione di polizia eseguita il 5.5.1980 con l ’arresto di indagati di mafia in flagranza del reato permanente di associazione per delinquere, da cui il questore di Palermo Vincenzo Immordino estromette il Contrada (cui in origine era stato affidato l ’incarico di preparare un rapporto che preludesse alla detta operazione), segnalandone agli organi superiori il contegno di sostanziale inerzia investigativa;

- agevolazione dell ’ allontanamento dall ’Italia (Palermo) del mafioso americano John Gambino nel contesto (ottobre 1979) del simulato sequestro di persona del banchiere Michele Sindona poco tempo dopo l ’uccisione dell ’ avv. Giorgio Ambrosoli e del dottor Boris Giuliano (luglio 1979);

- rapporti critici dell ’imputato con il dottor Giuliano nell ’ultimo periodo di vita di quest’ultimo anche in riferimento ad un incontro che il Giuliano avrebbe avuto con l ’avv. Ambrosoli poco prima che questi fosse ucciso, asseverante il comune spettro di indagini ed accertamenti da entrambi rispet-tivamente condotti;

- favorito rinnovo del porto di pistola ad Alessandro Vanni Calvello indagato per associazione mafiosa;- contrasti interpersonali tra l ’imputato e i funzionari di polizia Cassarà, Montano e Montalbano;- conversazione e susseguente incontro (7.10.1983) dell ’imputato con Antonino Salvo indagato per associazione mafiosa e per l ’omicidio del giudice

Rocco Chinnici;- vicenda della signora Gilda Ziino, vedova dell ’ing. Roberto Parisi, vittima di omicidio mafioso avvenuto il 23.2.1985, in relazione agli incon-

tri-colloqui avuti dall ’imputato con la donna il 23.2.1985 (appena ucciso il marito) e il 7.2.1988 (subito dopo la testimonianza resa dalla donna al giudice istruttore Giovanni Falcone);

- agevolazione (12.4.1984) della fuga da Palermo e dall ’Italia di Oliviero Tognoli indagato per fatti di riciclaggio di denaro di origine mafiosa, raggiunto da fermo di p.g.

21 Cfr. parr. 7 e 66 della sentenza, in cui la Corte riporta, quali parti pertinenti della sentenza del tribunale di Palermo quelle di seguito indicate: Sulla questione (configurabilità in relazione al delitto di associazione, per sua struttura necessariamente plurisoggettivo, del concorso eventuale da parte di soggetti terzi (…) si sono delineati diversi orientamenti che sinteticamente sono riconducibili a tre differenti indirizzi:1) quello di coloro che negano decisamente la configurabilità nel nostro sistema del concorso esterno nel reato associativo, (…);2) quello di coloro che pur ammettendo in punto di diritto la ipotizzabilità di un concorso eventuale nei delitti associativi, si sforzano di delimitarne

l’ambito di operatività (…);3) quello di coloro che ammettono la configurabilità nel nostro ordinamento del concorso esterno nel reato associativo (…).

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Demitry del 199422.Sulla base di queste circostanze, tratte fondamentalmente dall’analisi delle carte processuali,

la Corte europea arriva alla conclusione che il ricorrente non avrebbe potuto conoscere la pena in cui sarebbe incorso per la responsabilità penale derivante dagli atti da lui compiuti. Come dire: all’epoca dei fatti, non era prevedibile per il ricorrente la punibilità di quei fatti a titolo di concorso esterno in associazione mafiosa.

Fine del capitolo europeo. Il capitolo narrato dai giudici europei ha, in definitiva, trattato dell’evoluzione

giurisprudenziale subita da un dato testo legislativo23 (dato dal combinato disposto di cui agli artt. 110 e 416-bis c.p.) in modo da valutarne la qualità della sua formulazione e la prevedibilità delle sue conseguenze applicative rispetto a un particolare contesto fattuale (accadimento dei fatti anni 1979 – 1988). La conclusione cui quei giudici sono giunti è che il diritto applicabile, a causa della sua cattiva formulazione – cui grandemente aveva contribuito la giurisprudenza –

22 Cfr. par. 72 della sentenza, in cui la Corte europea nota come la Corte di appello di Palermo, nella sua sentenza del 26 aprile 2006, pronun-ciandosi sull ’applicabilità della legge penale in materia di concorso esterno in associazione mafiosa, si basa sulle sentenze Demitry (…), Mannino (…), Carnevale (…) e Mannino (…), tutte successive ai fatti addebitati al ricorrente.In effetti, leggendo la sentenza del tribunale di Palermo, emerge chiaramente come la tipicità tracciata dalle Sezioni Unite del 1994 sia stata usata per dare veste legale ai fatti addebitati a Contrada. Così ricordano i giudici del merito, la cd. Demitry distingue tra partecipe e concorrente esterno (cfr. Tribunale di Palermo, sez. V, sentenza n. 338 del 5 aprile 1996, pp. 119 e ss.) nei seguenti termini:Il partecipe è colui che “entra nell ’associazione e ne diventa parte”, ciò significa che, con riferimento all ’elemento materiale, perché una condotta possa ritenersi aderente al tipo previsto dall ’art. 416-bis c.p. deve rispecchiare un grado di compenetrazione del soggetto con l ’organismo criminale, tale da potersi sostenere che egli, appunto, faccia parte di esso e quindi vi sia stabilmente incardinato con determinati compiti, continui, anche per settori di competenza, e da un punto di vista soggettivo, che il soggetto abbia, sia la volontà di fare stabilmente parte dell ’associazione, sia la volontà di contribuire alla realizzazione dei suoi fini. Il concorrente eventuale è, invece, il soggetto che “on vuole far parte dell ’associazione e che l ’associazione non chiama a far parte ma al quale si rivolge sia, ad esempio, per colmare temporanei vuoti in un determinato ruolo, sia, soprattutto.... nel momento in cui la “fisiologia” dell ’associazione entra in fibrillazione, attraversa una fase patologica, che per essere superata, esige il contributo temporaneo, limitato di un esterno....Certo, anche in questo caso potrebbe risultare che l ’associazione ha assegnato ad un associato il ruolo di aiutarla a superare i momenti patologici della sua vita.....Ma resta il fatto che....lo spazio proprio del concorso eventuale materiale appare essere quello dell ’emergenza nella vita dell ’associazione o, quanto meno, non lo spazio della normalità occupabile da uno degli associati...In coerenza con tale definizione di concorrente eventuale segue che egli non potrà avere “quella parte del dolo che ha il partecipe e che consiste nella vo-lontà di fare parte dell ’associazione, nella volontà di porre in essere la condotta propria del partecipe, sicché resta del dolo, la volontà di contribuire alla realizzazione dei fini dell ’associazione, volontà che può ben essere propria di chi contribuisce con azione atipica alla realizzazione della condotta tipica“.In altri termini il concorrente eventuale, pur consapevole di agevolare con il proprio contributo l ’associazione, “può disinteressarsi della strategia com-plessiva di quest’ultima e degli obiettivi che la stessa si propone di conseguire”.La fattispecie astratta la cui tipicità è riscontrata nei fatti sottoposti alla loro attenzione è quindi così ricostruita:Il discrimine tra la figura del partecipante e quella del concorrente deve, principalmente, essere individuato in un dato oggettivo attinente alla diversa compenetrazione del soggetto nella struttura organizzativa dell ’associazione criminale in oggetto: mentre il partecipe “entra a far parte” di tale struttu-ra, rivestendo un preciso “status” al suo interno, con conseguente attribuzione di compiti tendenzialmente stabili e conseguente accettazione di regole di obbedienza ovvero di poteri di dare ordini agli altri adepti, il concorrente eventuale rimane estraneo alla predetta struttura, pur assumendo attivamente e consapevolmente un comportamento causalmente idoneo a fornire un contributo alla vita dell ’ente associativo. Da un punto di vista soggettivo il discri-mine tra concorso e partecipazione va, unicamente, ricercato in quella parte del dolo che consiste nella “volontà di fare parte dell ’associazione” requisito positivamente necessario per il partecipe e da escludere per il concorrente eventuale.Il concorrente eventuale può agire sia con dolo specifico, sia con dolo generico ma è necessario che in ogni caso egli si rappresenti che la sua condotta con-tribuisce causalmente al mantenimento in vita o al rafforzamento dell ’organizzazione.23 I giudici europei hanno, infatti, concentrato la loro attenzione (mi sembra coerentemente con il divieto di analogia, che pure è parte della legalità europea – e non solo) sulle elaborazioni giurisprudenziali che si sono avute nello svolgimento del combinato disposto di cui agli artt. 110 e 416-bis c.p.. Le argomentazioni del governo tese a dimostrare la sussistenza già all’epoca dei fatti della tipicità degli stessi – richiamando quella giurisprudenza che a partire dagli anni sessanta aveva ammesso il concorso esterno nel diverso delitto associativo della banda armata – non sono state ritenute pertinenti, perché evidentemente estranea al tema oggetto di verifica.

2.3.

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non aveva reso prevedibile al ricorrente la sua applicazione a fatti a lui ascritti24.

La continuazione della narrazione: il capitolo scritto dalla Corte di cassazione.

Dalla lettura della sentenza della Corte di cassazione emerge che la difesa di alcuni imputati aveva sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 110 e 416-bis c.p. per contrasto con l’art. 25, comma 2, della Costituzione e con l’art. 117 della Costituzione con parametro interposto l’art. 7 della CEDU per violazione del principio di legalità. Se si intende correttamente la rapida sintesi effettuata dai supremi giudici, i difensori fondavano il ricorso sulla – non può sapersi se malintesa – ricostruzione del concorso esterno nei reati associativi come istituto di creazione giurisprudenziale, effettuata nella sentenza della Corte Edu nel caso Contrada.

Il quesito posto alla Corte – così come riportato nel testo della sentenza25 – sembrava allora alludere alla possibilità di utilizzare le acquisizioni giurisprudenziali raggiunte a Strasburgo per porre il dubbio sulla legittimità della incriminazione a carico degli odierni imputati.

Nel rigettare il motivo, la Cassazione, dopo aver tacciato di “inesattezza giuridica” la soluzione della Corte europea, svolge una lunga motivazione, che si snoda attraverso l’analisi di posizioni dottrinarie e giurisprudenziali, volta a dimostrare la matrice legislativa del concorso esterno in associazione mafiosa. Nella sua decisione, il giudice italiano prende quindi nettamente le distanze dalla Corte di Strasburgo.

Al contrario, in una prospettiva di condivisione della produzione del diritto, nella soluzione del quesito propostogli, il giudice/lettore e quindi narratore avrebbe dovuto operare un’attenta lettura del testo (e dell’ipertesto) del capitolo redatto dai giudici europei, per trovare in esso la trama narrativa da proseguire, come detto non necessariamente in modo lineare e senza fratture, ma, tuttavia, partendo dalla comprensione dei presupposti di fatto e di diritto su cui quella narrazione si era basata. Il testo scritto dai giudici europei avrebbe dovuto servire da testo di riflessione, trattato quindi, non come un argomento giuridico vincolante nei contenuti, ma come un argomento letterario – in grado di sollecitare il lettore a sviluppi ulteriori, perché di descrizione di circostanze rilevanti per la decisione, anche del giudice nazionale – da cui riprendere l’ordito e serbare memoria degli snodi narrativi in modo, poi, da proseguire nel processo di costruzione del diritto.

Nel testo elaborato dai giudici italiani non vi è traccia di comprensione di quella trama narrativa, che al contrario viene evidentemente fraintesa.

Vediamo perché.

24 Forse non è inopportuno sottolineare come in nessun passaggio della sentenza europea si affermi la irrilevanza penale dei fatti addebitati a Contrada. Non era questa la materia del contendere. Non era una generica illiceità penale del fatto a interessare la Corte europea. Così come non lo era, tra gli altri, nella decisione del 22 novembre 1995, – la cui conclusione non è da me del tutto condivisa per l’allargamento della base legale (e sociale) sui cui la valutazione di legalità è stata fondata dalla corte sovranazionale, e sul punto mi sia consentito rinviare al mio Legalità come prevedibilità, in Rassegna di diritto pubblico, 1-2/2009, pp. 138 e ss. – resa nel caso S.W. c. Regno Unito, in cui la Corte si chiese se la condanna per marital rape fosse prevedibile dal ricorrente. E si diede una risposta positiva: quella colorazione penale dei fatti, in base a dati non solo giuridici ma anche relativi a intervenuti mutamenti sociali, era uno sviluppo, lineare e coerente, della legge e in quanto tale prevedibile dal condannato. Non è mai l’astratta punibilità di un fatto a qualunque titolo, la sua mera rilevanza penale quale che sia la fattispecie astratta concretamente utilizzata a fondamento della condanna a interessare i giudici europei. Conseguentemente, anche nel caso Contrada, la sua eventuale punibilità a titolo di altro reato (partecipazione nel reato di associazione mafiosa, rivelazione di segreti di ufficio, favoreggiamento aggravato, aiuto e assistenza agli associati, corruzione, ipotesi tutte, forse astrattamente configurabili ma mai oggetto di contestazione al ricor-rente – in nessuno stadio del procedimento che lo ha interessato – e quindi mai sottoposte alla tensione probatoria, forse più ardua di quella necessaria per dimostrare il concorso esterno) non è rientrata, correttamente, nella valutazione dei giudici europei.25 Cfr. sentenza a pag. 49. Se la sintesi operata dal giudice è pienamente rispondente al motivo dedotto dalle parti, un dubbio solleva quella che sembra essere una parificazione tra il portato dei concetti di legalità interna (ai sensi dell’art. 25 Cost.) e di legalità europea (l’art. 7 CEDU). Come è noto, il sistema convenzionale non conosce la riserva di legge e la legalità, come detto, è ricostruita, in modo pragmatica-mente dinamico, sulla prevedibilità dell ’esito giudiziario. Tale diversità di impostazioni potrebbe portare a ritenere un risultato giurisprudenziale conforme alla Convenzione e tuttavia in violazione della riserva di legge (così nel caso in esame, a dare per giuridicamente corretti i dubbi della difesa, se veramente, cioè, la corte europea avesse stigmatizzato tout court – cosa che si è visto non essere stato – la fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa come nata al di fuori della riserva di legge, questa considerazione da sola non sarebbe stata sufficiente ad af-fermare la violazione dell’art. 7 della CEDU). Non può tuttavia essere sottaciuto il dato che – almeno scorrendo le tante sentenze della Corte europea, e non solo contro il nostro Paese – quel sistema così proteso verso un’idea di legalità sostanziale spesso riesca a garantire un livello di tutela agli individui maggiore di quello accordato dalle giurisdizioni nazionali ancorate alla riserva di legge; così Di Giovine, Antiformalismo interpretativo, cit., p. 3.

3.

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I fatti. I ricorrenti, la cui difesa aveva sollevato questioni di legittimità costituzionale, invocando,

come visto, la giurisprudenza di Strasburgo, erano Ivano Perego e Carlo Chiriaco.L’originaria imputazione di associazione a delinquere di stampo mafioso, era, per Perego,

mutata in concorso esterno in associazione dalla Corte di appello di Milano pur rimanendo sostanzialmente inalterati i fatti ascrittigli26. In particolare gli veniva addebitato di aver favorito l ’ingresso nella società di Strangio (capo e organizzatore dell’associazione di stampo mafioso denominata “Lombardia”), quale amministratore delle società del Gruppo Perego; di aver richiesto l ’intervento di quest’ ultimo per indurre imprenditori concorrenti a ritirare le offerte; di intrattenere rapporti privilegiati sia con esponenti politici che con pubblici dipendenti, al fine di ottenere, anche a mezzo di regalie ed elargizioni di somme di denaro, l ’aggiudicazione di commesse pubbliche, sia in generale affinché la PEREGO fosse favorita nei rapporti con la pubblica amministrazione; di dare direttive ai dipendenti e di organizzare lo smaltimento illecito di rifiuti, anche tossici, derivanti da bonifiche e demolizioni di edifici in discariche abusive.

Imputato (e condannato) sin dal primo grado di concorso eventuale nel sodalizio criminoso di stampo mafioso denominato “Lombardia” era invece Chiriaco, che, in particolare, era chiamato a rispondere perché, (…) con la piena consapevolezza di favorire il sodalizio criminoso, contribuiva con condotte costanti e reiterate nel tempo al mantenimento in vita e al rafforzamento della capacità operativa dell ’associazione mafiosa. In particolare, quale direttore sanitario della ASL di Pavia, Carlo Antonio Chiriaco costituiva elemento di raccordo tra alti esponenti della ‘ndrangheta lombarda (…) e alcuni esponenti politici; favoriva gli interessi economici della ‘ndrangheta garantendo appalti pubblici e proponendo varie iniziative immobiliari; si prestava a riciclare denaro provento di attività illecite degli associati; procurava voti della ‘ndrangheta a favore di candidati in occasione di competizioni elettorali comunali e regionali; forniva protezione a imprese amiche e compiva atti di ritorsione nei confronti di imprese “nemiche”; si metteva a disposizione per ogni esigenza sanitaria degli esponenti della ‘ndrangheta e dei loro familiari.

I fatti sarebbero avvenuti da una data imprecisata sino ad oggi permanente.La tipologia di condotte sembra, in definitiva, così potersi riassumere: le condotte

addebitate al Perego erano finalizzate a ottenere dei vantaggi per la società (definita preda e strumento di interessi mafiosi dal GIP del Tribunale di Milano nell’ordinanza di applicazione di misura cautelare del 6 luglio 2010) di cui egli era amministratore delegato; quelle addebitate a Chiriaco erano finalizzate ad agevolare gli interessi e i partecipi dell’associazione criminosa. Se i fatti storici concernenti le condotte tenute dall’ex direttore della ASL di Pavia, dott. Chiriaco, sembrano, già in base alla sola lettura della sentenza della Cassazione, effettivamente sovrapponibili a quelli addebitati a Contrada, rientrando in un medesimo tipo legale; lo stesso non può dirsi anche per le condotte attribuite al Perego, sia per la diversità della sua posizione rivestita (trattandosi di un privato imprenditore e non di una figura del settore pubblico in grado di agevolare, direttamente o indirettamente, la compagine criminale) sia per la finalità e la materialità delle condotte stesse tese prevalentemente ad avvantaggiare la società di cui Perego era amministratore delegato – trasformata in impresa criminale. In ogni caso, anche a voler riportare i fatti ascritti a Perego nello stesso tipo legale, dato non indifferente ai nostri fini è quello cronologico: dalla lettura degli atti processuali i fatti in questione, con una certa approssimazione, possono dirsi realizzati in un arco temporale che comincia a decorrere dalla seconda metà della prima decade del secolo corrente.

Si tratta cioè di fatti che potrebbero collocarsi a partire dal 2008 (circa 20 anni dopo la fine dei fatti addebitati a Bruno Contrada).

Il solo dato cronologico sarebbe, allora, stato sufficiente alla Corte di cassazione, operando un importante distinguishing, per ritenere non trasportabili alle vicende sottoposte al suo esame le acquisizioni giurisprudenziali raggiunte dalla Corte europea nel caso Contrada. La Corte di Strasburgo, come detto, si era limitata a fotografare la situazione di oscillazione giurisprudenziale esistente al momento dei fatti ascritti al capo del SISDE e a derivare da ciò l’impossibilità di usare quella stabilizzazione normativa raggiunta (a suo dire) con la

26 Singolare come anche con riferimento ad altro motivo di ricorso, concernente la riqualificazione del fatto da partecipazione a concorso eventuale operata direttamente in sentenza dal giudice di appello né la difesa (a quello che si legge nella decisione della Corte di cassazione), né la sentenza approfondiscano il tema alla luce della giurisprudenza europea che più volte si è pronunciata sul punto.

3.1.

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sentenza a SSUU, Demitry del 1994 per affermarne la responsabilità penale per concorso esterno in associazione mafiosa. Quindi, poiché i fatti contestati ai diversi ricorrenti erano di molto successivi alla sentenza delle Sezioni unite, quell’acquisizione giurisprudenziale europea non era, già su questo primo piano, utilizzabile per la risoluzione della questione sottoposta all’attenzione dei giudici nazionali.

La Corte nazionale, se avesse voluto porsi in un processo corale di scrittura del diritto anziché rivendicare una politica giudiziaria isolazionista e marcatamente individualista, avrebbe potuto concludere per la manifesta irrilevanza della questione in quanto la regola di giudizio estraibile da quella decisione europea (vale a dire: l ’oscillazione giurisprudenziale, precedente la sentenza a SSUU n. 16 del 5 ottobre 1994, rendeva il diritto applicabile non lineare, discontinuo e contraddittorio in violazione all ’art. 7 della CEDU) non era chiaramente adoperabile nel caso sottoposto alla sua attenzione.

Questo sarebbe stato invero solo uno dei possibili sviluppi narrativi da far derivare da quella decisione. Altri, che comunque avrebbero portato agli stessi risultati giuridici, attraverso però una coerente e cooperativa argomentazione, avrebbero potuto aversi.

Su questi dirò di seguito, dopo aver esplorato il prosieguo del racconto nazionale.

I piani paralleli che non si incontrano mai. La Corte di cassazione è, invero, voluta andare molto più a fondo nella risoluzione del

quesito, ampliando i confini del suo intervento. Nel volere dimostrare l’erroneità del giudizio della Corte europea, preso nella sua assolutezza, mi pare, tuttavia, che i giudici italiani siano caduti in una fallace ricostruzione27, – e non solo di quanto statuito a livello sovranazionale – determinata da una probabile incomprensione della materia del contendere risolta dai giudici europei.

Primo tassello dell’argomentazione del giudice italiano è l’asserzione della matrice normativa dell ’incriminazione di concorso esterno nel reato di associazione mafiosa (e come poteva essere altrimenti!) che trova la propria cornice edittale nelle disposizioni di cui agli artt. 110 e 416-bis c.p.. A sostegno di tale assunto (ovviamente incontestabile) viene richiamata la sentenza n. 48 del 2015 della Corte costituzionale (a dire del giudice supremo “in aperta contraddizione di quanto detto a Strasburgo”) che, a leggere compiutamente il passaggio interessante il nostro tema, sembra, invece, non smentire affatto il punto principale dell’argomentazione della giurisdizione europea sulle oscillazioni giurisprudenziali. Si legge, infatti, nella decisione costituzionale: “È noto come tale figura – scaturente dalla combinazione tra la norma incriminatrice di cui all ’art. 416-bis cod. pen. e la disposizione generale in tema di concorso eventuale nel reato di cui all ’art. 110 cod. pen. – sia stata (e, per vari profili, resti) al centro di un amplissimo dibattito giurisprudenziale e dottrinale, scandito da reiterati interventi delle sezioni

27 La Suprema Corte nell’introdurre le affermazioni giurisprudenziali della Corte europea nella materia di interesse alla risoluzione del caso, opera una ricostruzione dell’attività ermeneutica della giurisdizione europea frutto di un equivoco dovuto, probabilmente, alla poca frequen-tazione dei percorsi giurisprudenziali europei. A parte il riferimento improprio a un “regolamento esecutivo” (con ciò intendendosi probabil-mente il Regolamento – di organizzazione – della Corte), la sentenza scrive, con granitica certezza, che la Corte di Strasburgo non accoglie il principio jura novit curia, ma rimette al principio dispositivo la ricostruzione del quadro normativo e dei relativi orientamenti giurisprudenziali di volta in volta rilevanti. Viene così individuato un principio (dispositivo) valido non per la soluzione delle questioni prospettate, ma per la individuazione del diritto applicato nella giurisdizione interna. Con questo, volendo indicare quasi una sorta di “pigrizia” della Corte dei diritti nell’avvalersi, per la ricostruzione dell’inquadramento normativo interno, unicamente alle allegazioni delle parti. Non è così. L’analisi della giurisprudenza di Strasburgo, certo non facile vista la peculiarità dell’aspetto procedurale individuato dal giudice nazionale, mostra come i giudici europei non sono vincolati a quanto prospettato dalle parti con riferimento al diritto e alla giurisprudenza nazionale “applicabile”, ben potendo in piena autonomia individuare istituti o prassi giurisprudenziali non indicati dalle parti. Ciò è reso, oggi ancora più evidente dal “nuovo” formulario da sottomettere, compilato in ogni sua parte, alla Corte europea in cui non è più presente il capitolo dedicato al “di-ritto interno applicabile”. Valga come precedente, tra le tante, una decisione contro l’Italia, ricorrente sempre Bruno Contrada (Corte EDU, Contrada c. Italia (n. 2) dell’11 febbraio 2014) in cui la Corte rigettava una sua doglianza – sulla presunta imparzialità del presidente della Corte di Appello di Palermo – sulla base di un argomento di diritto interno non sollevato, ovviamente, dalla parte ricorrente ma neanche dal Governo italiano.Sotto altro aspetto, che il principio iura novit curia appartenga all’armamentario giuridico della Corte europea, per la soluzione delle questioni prospettate, emerge, tra le altre, da una nota decisione contro l’Italia, sentenza del 24 febbraio 1998, Botta c. Italia, in cui i giudici europei, invocando proprio quel principio e sottolineando come il motivo di ricorso originariamente presentato dalle ricorrenti relativo all’art. 10 della CEDU presentasse una connessione con quanto argomentabile in base all’art. 8 della Convenzione, concludevano per una violazione di tale ultima disposizione, sebbene la sua violazione non fosse stata prospettata nel ricorso introduttivo.

3.2.

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unite della Corte di cassazione”28.Anche la trasfigurazione operata sul testo costituzionale è chiaro indice di come sia

sfuggito al giudice italiano che l’esistenza di un testo legale in materia non è mai stata negata dalla Corte europea che, lo si è visto, rimarca come sia necessario partire dalla lettera della legge per valutarne, in termini di prevedibilità, i suoi sviluppi concreti.

Piena coincidenza quindi sul punto tra due Corti su tre.La seconda tessera nel lungo e ultroneo ragionamento della Suprema Corte pone

l’argomentazione su di un piano parallelo – di astrazione normativa – rispetto a quello su cui ha operato la Corte di Strasburgo. Per confutare l’affermazione – in cui presupposti culturali non sono evidentemente condivisi – della Corte europea, i giudici della Cassazione operano un lungo excursus in cui danno conto di quanto detto dalla dottrina e dalla giurisprudenza in tema di configurabilità (evidentemente su di un piano di astrazione normativa) del concorso eventuale nelle fattispecie plurisoggettive necessarie (tutte, e quindi non solo limitate a quelle di associazione mafiosa). Tra l’altro così operando, la Corte suprema ha comunque dato atto dell’esistenza di un certo dinamismo interpretativo in letteratura e, soprattutto, in giurisprudenza (richiamando sentenze della Cassazione tutte successive alla sentenza Demitry del 199429), volto, a esempio, alla precisazione di canoni, astrattamente ineccepibili, ma che in concreto possono risultare di nebulosa applicazione30 o, anche, al chiarimento degli esatti confini di demarcazione delle condotte del concorrente necessario e del concorrente eventuale nell’associazione criminale31.

Sotto questo profilo, l’incomprensione o il rifiuto della trama narrativa della sentenza europea da parte dei giudici italiani è evidente. La ricostruzione normativa della figura di concorso esterno, cui certo – e questo il giudice italiano non può negarlo, sebbene lo faccia probabilmente in modo inconscio – ha contributo anche la giurisprudenza (nel ragionamento della Corte di cassazione anche il formante dottrinario è richiamato ai fini della individuazione degli esatti confini del disegno normativo, della generale ammissibilità del concorso eventuale nei reati associativi), è operata unicamente su un piano astratto. Mai il risultato definitorio è rapportato a fatti storici concreti. Mai il discorso giuridico assume una dimensione pratica. Mai i fatti ascritti ai ricorrenti sono sussunti nella fattispecie incriminatrice della cui stabile formulazione si discute. Mai la trama giudiziaria è filtrata attraverso la specificità delle situazioni concrete. La narrazione giudiziaria è stata posta su un altro piano, parallelo a quello della Corte EDU, in cui si è dato conto degli interventi interpretativi giurisprudenziali – negando loro, in una concezione chiaramente onnilegislativa e neoilluministica, ogni valenza anche solo latamente creativa – senza mai operare una mediazione tra la regola giuridica così affermata e i fatti presi in esame. Tale piano non aveva alcun interesse per il giudice nazionale teso come era a dimostrare che il concorso esterno in associazioni di tipo mafioso non è istituto di (non consentita, perché in violazione del principio di legalità) creazione giurisprudenziale, ma è incriminato in forza della generale (…) funzione incriminatrice dell ’art. 110 (…).

Tra l’altro, non può non segnalarsi come il giudice nazionale, nel dar conto unicamente degli interventi giurisprudenziali successivi alla sentenza delle Sezioni unite del 1994, prosegue – ovviamente del tutto involontariamente – il racconto europeo sulla storia giurisprudenziale di questa figura criminosa: riprende il discorso esattamente lì dove si era fermata la Corte dei diritti. Ricorda, infatti, come la giurisprudenza sia oramai ferma nell ’ammettere la configurabilità del concorso esterno, dando atto, quindi, che c’è stato un tempo in cui quella fermezza/stabilizzazione giudiziaria non c’era. Sotto traccia è, comunque, evidente una pervicace negazione di ogni ruolo concorrente e costitutivo del diritto giurisprudenziale CEDU, che viene obliterato senza però essere mai realmente affrontato e con ragionamento criticato o superato.

28 La sentenza della Corte costituzionale, inserendosi nel solco di una sua consolidata giurisprudenza, ha ravvisato un’ulteriore ipotesi di inco-stituzionalità dell’art. 275 c.p.p. nella parte in cui questo fissa un automatismo nell’applicazione della misura cautelare detentiva.29 Nelle 11 pagine dedicate a rispondere alla questione di costituzionalità, sono richiamate le seguenti sentenze: SSUU n. 16 del 5 ottobre 1994, Demitry; SSUU n. 30 del 14 dicembre 1995, Mannino; SSUU n. 2237 del 21 maggio 2003, Carnevale; SSUU sentenza n. 33748 del 20 settembre 2005, Mannino; sez. II n. 18797 del 20 aprile 2012; sez. VI n. 49757 del 27 novembre 2012; sez. VI n. 16958 del 16 aprile 2014; sez. II n. 53675 del 10 dicembre 2014.30 Così la sentenza in commento a p. 53.31 Così la sentenza in commento a p. 56.

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Un esercizio di stile non perfettamente riuscito. Riprendendo l’immagine del romanzo a catena di Dworkin, nel nostro romanzo sulla

mirabolante vita, legislativa e giurisprudenziale, del concorso esterno in associazione mafiosa, il capitolo scritto dalla seconda sezione della Corte di cassazione potrebbe essere archiviato come un esercizio di stile non riuscito. Una variazione giuridica sul tema, che avrebbe potuto essere una prosecuzione della narrazione da una prospettiva diversa, variazione tuttavia che si è rilevata errata nei presupposti e fondata su equivoci e incomprensioni anche di tipo culturale.

In realtà, l’immaginazione del giudice narratore, che avesse voluto utilizzare l ’argomento fornito dalla Corte europea, anche per superarlo o per negarlo – giocando però con le stesse regole – avrebbe potuto individuare diversi sbocchi narrativi.

Così, se ci fosse stata una condivisione culturale, se la mentalità32 della Corte europea fosse stata presa sul serio dai giudici della nostra Corte di legittimità, il rigetto del motivo di ricorso, nel caso quanto rilevato in precedenza sulla diversità del dato cronologico dei fatti storici in contestazione non fosse stato ritenuto esatto o sufficiente, avrebbe potuto essere argomentato, evidenziando, anche sulla base delle affermazioni della Corte costituzionale sul punto, l’impossibilità di attribuire un valore vincolante al singolo precedente della Corte EDU. Certo, tale argomento sarebbe stato debole e aperto a diverse osservazioni, alcune tese a rimarcare la difficoltà di individuare criteri validi per stabilire un grado accettabilità di certezza del diritto convenzionale per un suo uso come precedente vincolante33. Ma almeno un tale fondamento avrebbe significato riconoscere alla Corte europea uno status di narratore di uno spazio giuridico condiviso.

O, diversamente, si sarebbe potuta sezionare la regola giuridica di origine europea per dimostrarne la sua non traducibilità per la risoluzione del caso concreto, o anche, per dimostrarne la sua fallacia rispetto alle categorie (evidentemente ritenute non permeabili) del sistema nazionale. Non però fondando questa intraducibilità o fallacia su letture disattenti, su malintesi dettati da un chiaro rifiuto di appartenenza e di condivisione.

O ancora, riprendendo il canovaccio europeo, si sarebbe potuto affermare – come poi in qualche modo è stato detto – che la continuazione della storia del concorso “esterno” non è stata più segnata da contraddizioni, ripensamenti, repentini pentimenti; che il discorso giurisprudenziale è proseguito in modo chiarificatore, di necessario e coerente adattamento alle circostanze concrete dei singoli fatti storici. Insomma, si sarebbe potuto affermare – ponendosi nel solco segnato dalla giurisprudenza europea – che successivamente alla sentenza Demitry (magari spostando un po’ più in avanti la stabilizzazione giurisprudenziale della figura criminosa in esame, in modo da continuare nell’opera di sistematizzazione dell’istituto in parola, che, come è noto, anche dopo quell’intervento delle sezioni unite ha subito ulteriori scosse di assestamento), la formulazione del diritto applicabile era stata sufficientemente precisa, chiara e lineare, in modo da consentire ai ricorrenti di capire quali potessero essere le conseguenze concrete dei loro comportamenti. Così dopo aver effettuato un giudizio di tipicità tra i fatti ascritti ai ricorrenti (individuando con maggior precisione e cura il tipo legale in cui inquadrare le condotte ascritte al Perego) e le descrizioni normative, quali formatesi a partire e successivamente alla decisione resa nel caso Demitry dalle Sezioni unite della Cassazione nel 1994 si sarebbe potuto concludere che gli stessi erano prevedibilmente punibili a titolo di concorso esterno al momento della loro commissione.

La sentenza di Strasburgo avrebbe potuto (e dovuto) essere considerata, allora, come un

32 Così Di Giovine, Antiformalismo interpretativo, cit. p. 16.33 Tra l’altro, il “facile” rigetto dell’istanza del Governo volta a ottenere un intervento della Grande Camera è indicativo che la decisione resa del caso Contrada è espressione di una consolidata giurisprudenza della Corte europea. In effetti, i principi applicati per la risoluzione del caso in esame sono, invero, ampiamente ricorrenti in quella sede e la natura casistica del procedere giuridico dei giudici europei, a mio parere, (e, volendo, diversamente da quanto talvolta è possibile riscontrare nel ragionamento della Corte dei diritti eccessivamente disperso nei tanti frammenti dei singoli casi) non era da ostacolo alla prevedibilità della sentenza. Non condivido, pertanto, quanto di recente scritto (Leache, La sentenza della Corte EDU nel caso Contrada e l ’attuazione nell ’ordinamento interno del principio di legalità convenzionale, in Cass. Pen. 12/2015, p. 4622) sulla difficoltà di considerare questa sentenza quale “espressione di diritto consolidato” vista il mancato intervento della Grande Ca-mera. Vale forse la pena di ricordare come lo strumento del rinvio alla GC non è ordinario mezzo di impugnazione, costituendo al contrario rimedio eccezionale attuabile solo nei casi in cui la questione oggetto del ricorso sollevi problemi gravi relativi all’interpretazione o all’applica-zione della Convenzione o dei suoi Protocolli “o comunque ponga una questione grave di carattere generale (art. 43, par. 1 della Convenzione). E pertanto il rigetto operato dal cd. comitato di filtraggio è, di tutta evidenza, sintomatico dell’esistenza di un preciso e consolidato orienta-mento giurisprudenziale europeo sul punto: nessun questione grave relativa all ’interpretazione o all ’applicazione del testo convenzionale si pone.

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paradigma stilistico di ragionamento che è contestuale senza essere relativistico, un paradigma da cui altri giudici possono ricavare prescrizioni concrete, potenzialmente generalizzabili, anche attraverso un discorso comparativo, tale cioè da evolversi in uno scambio con altri giudici/narratori le cui osservazioni mettano in dubbio, sottopongano a critica, mettano a confronto o semplicemente integrino quelle di altri giudici.

Tutto ciò avrebbe però significato accettare une metodo flessibile di costruzione del diritto attraverso un dialogo, anche su posizioni contrapposte, con i giudici di Strasburgo. Avrebbe necessitato, come detto, di una condivisione culturale sui principi e sui metodi di una narrazione congiunta del diritto. Condivisione, evidentemente, mancante.