Recensioni Poetiche n. 3 2012

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Poetiche rivista di letteratura Vol. 14, n. 36 (3 2012) ISSN 1124-9080 Mucchi Editore

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Niva Lorenzini, Corpo e poesia nel Novecento italiano, Milano, Bruno Mondadori, 2009, pp. 157 - Erminio RissoRoberto Deidier, Il lampo e la notte. Per una poetica del moderno, Palermo, Sellerio 2012, pp. 331 - Rosalba GalvagnoMassimo Pulini, Gli inestimabili. Quando Raffaello e Piero vennero rubati a Urbino, Forlì, Cartacanta Editore 2011, collana I Cantastorie, pp. 192 - Paola SpinozziAa.Vv. Scrittura civile. Studi sull’opera di Dacia Maraini (a cura di Juan Carlos de Miguel), Roma, Giulio Perrone Editore 2010, pp. 397 - Eugenio Morrali

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Poeticherivista di letteratura

Vol. 14, n. 36 (3 2012)

ISSN 1124-9080

Indice

255 Fausto Curi

Struttura del risveglio

263 ElisabEtta CaldEroni

D’Annunzio romano, dandy imperfetto

295 Elvira Ghirlanda

Le biciclette e il mito di Alcina in Giorgio Caproni

325 FEdEriCo FastElli

Il nuovo come apocalisse, ovvero l’avanguardia all’alba della postmodernità

343 andrEa lEttiEri

Pirandello. Il Soffio di un Angelus Novus

365 Juan Carlos dE MiGuEl y Canuto

La strada che conduce a Natalia Ginzburg: il lessico famigliare visto dall’interno

397 Elisa MartínEz Garrido

Sentire il mondo, pensare la realtà. Due scritti politici di Elsa Morante

423 valEntina Maini

Beckett e Rosselli, tra spazi e movimento

453 albErto CoMparini

Appunti per una storia della poesia moderna italiana

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Poetiche - Quid novi? 3 del 2012Poste italiane Spa - Sped. Abbon. Postale - D.L. 353/2003(conv. in L. 27/02/2004 N. 46) art. 1, comma 1 DCB, Modena CPOPrezzo del presente fascicolo € 22,00 i.c. Mucchi Editore

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Poetiche, vol. 14, n. 36 (3 2012), pp. 481-485

Niva Lorenzini, Corpo e poesia nel Nove-cento italiano, Milano, Bruno Mondadori 2009, pp. 157.

Il saggio di Niva Lorenzini, uscito per i tipi di Bruno Mondadori sulla poesia italiana del Novecento e dal titolo molto semanticamente pregnante di Corpo e poesia nel Novecento ita-liano, per certi versi, tira le fila e le somme degli innumerevoli saggi che la studiosa ha riservato alla scrittura in versi; ecco come l’autrice stessa lo presenta: “relegato per secoli ai margini del-la nostra tradizione poetica, il corpo occupa nel Novecento un ruolo centrale. Questo volume in-daga i modi del suo presentarsi, sia come ogget-to di una poesia che parla del corpo, assumen-dola come tema dominante, sia come soggetto di linguaggio, cioè modo di proporsi di una lin-gua-corpo che inaugura inedite modalità percet-tive ed espressive, che forzano i limiti gramma-ticali, lessicali, stilistici di codici preesistenti. In entrambi i casi parlare del corpo comporta chia-mare in causa il rapporto letteratura-realtà, dal momento che il corpo non può essere percepi-to e indagato se non lo si localizza in uno spa-zio e in un tempo definiti, se non lo si considera espressione di una cultura storicamente collo-cata: da questi presupposti la lingua, così come ogni scelta stilistica che intenda rappresentar-lo, non possono prescindere. E non ne può pre-scindere di certo neppure la poesia. E proprio sulla storia del corpo, sul suo diverso propor-si attraverso differenti stagioni e contesti, che si possono misurare le trasformazioni di un oriz-zonte storico, di un’epoca […] Ogni società, ogni epoca, coltivano insomma una propria immagi-ne di corpo così come possiedono una propria lingua.” (p. 1).

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Bisogna sottolineare subito come queste premesse metodologiche trovino poi perfetta re-alizzazione nelle pagine del saggio, dove l’autri-ce analizza i singoli testi ed autori – e non è cosa comune: questo viaggio ermeneutico par-te, e non poteva essere diversamente, dalla fine dell’Ottocento, con il corpo mitizzato dei versi di D’Annunzio dove a dominare è ancora la possi-bilità di amplificare il potere delle parole.

Entriamo, quindi, a pieno titolo nel Nove-cento, con Rebora, dove il corpo con le sue in-certezze e traumi è la spia di un uomo in con-flitto con il proprio tempo. Con L’incendiario di Palazzeschi compare in scena il corpo e insieme al corpo, naturalmente, l’io: un io teatralizzato, ludico, grottesco, l’io del saltimbanco, a cui vie-ne delegato il compito, nell’epoca della moderni-tà, di dire la verità. E la dice, esibendo il proprio corpo morto, facendo il morto, e quindi attraver-so un artificio, una messa in scena.

Un corpo che si fa pietra, refrattario, fred-do, disanimato, quasi come se la parola aves-se il potere di scavarlo, di scolpirlo, è quello che troviamo in Ungaretti, in una poesia che diven-ta appunto il resoconto fedele di un’esperienza personale sì ma capace di farsi resoconto pun-tuale della vita di una intera generazione e di un’epoca della storia.

Sereni, e siamo al momento di passaggio tra primo e secondo Novecento, si pone il problema di dar voce al corpo della realtà: e lo fa attraver-so una matericità che porta ad un realismo che supera l’elegia, forte di un immediato qui e ora. Si realizza quasi un realismo del corpo, raggiun-to attraverso un sapiente uso dei deittici.

Una cruda corporalità, un corpo fatto a pezzi, frammentato, fedele registrazione di una estraneazione, spazio di conflitti e contraddizio-ni di un soggetto che patisce una esclusione, che vive in una non appartenenza, pronta a ri-

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cercare, senza rintracciarla, un’unica possibili-tà di trovare e mantenere un’identità, per quan-to raggelata e bloccata, riempie le pagine di Pier Paolo Pasolini. E solo una Passione che – a pa-rer nostro – si fa Ideologia, un’ideologia della passione, permettono all’autore di provare a te-nere insieme spinte davvero contrastanti, solle-citazioni agli antipodi.

Un corpo in grado di farsi elemento costi-tutivo del testo, atto di lingua, incarnazione, di-venta la cifra essenziale della scrittura di Zan-zotto: un corpo, però, osserva la Lorenzini, “che non si apparenta ad un corpo vissuto, ma che pare sin da subito aprirsi ad un rapporto geolo-gico e cosmico con la natura, sembra predispo-sto a coincidere con un corpo-psiche.” (p. 76). Un corpo frammentato come il soggetto che lo abita.

Nella Rosselli vengono svelati i rapporti tra trauma, patologia dell’esistenza e scrittura cre-ando un nesso quasi diretto, nei suoi versi, tra corporeità fisica e stato del corpo testuale. E così la parola si fa lingua-corpo creando una scrit-tura dove convivono un corpo unito senza frat-ture alla mente, e la materia vive insieme con lo spirito, secondo connessioni squisitamente ar-taudiane. E su questo prende forma il realismo mentale della Rosselli, capace di rendere conto di una identità scissa: per questo abbiamo un realismo di immagini ed evocazioni della mente.

Con Porta la riduzione dell’io produce uno sguardo senza appartenenza, lontano, deloca-lizzato, scisso, appunto. Tutto questo porta ad una sorta di metamorfosi e deformazione, non solo verso il grottesco ma verso una comunica-zione crudele del corpo: recisione violenta, ta-gli, fisionomia multipla sono i tratti essenzia-li di questa scrittura, che ci mostra, senza veli, “frammenti di corporeità dissezionata” (p. 96). E questo sguardo consente alla parola di coglie-

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re una realtà tremenda, raggelata, alienata: tut-to è visto da un occhio tagliato alla Buñuel. La poetica dello sguardo segna l’abolizione del po-eta-io.

Il testo poetico prende la forma di un atto fi-sico in Sanguineti, dove la scrittura è continua-mente attraversata da altri linguaggi. La realtà del testo accetta completamente ogni elemen-to della realtà storica ed effettuale, nulla viene espulso: il realismo duro, dantesco, è il frutto di una calcolatissima messa in scena del cor-po. “L’altra sua maniera riconduce direttamen-te alla corporeità del testo inteso come gesto, e dunque all’energia plastica, fonica, della parola messa in scena e messa in forma da Sanguine-ti” (p. 104), per creare, con una carica eversiva, disordine in un mondo ben rappresentato dalla violenza di un linguaggio fondato su cliché che spersonalizzano. Lacerazione della voce, afasia, autofagocitazione, silenzio che parla attraverso vocalità e fisicità, furia espressiva, sono la ci-fra di un poeta, Sanguineti, che non si sottrarrà mai all’impatto con la storia.

Con il corpo tra miopia e poesia di Magrel-li, e il corpo come protesi e unico mezzo per co-noscere della Biagini si chiude questa indagine sulle scritture in versi del Novecento.

Dato conto di un metodo analitico e dei suoi risultati esegetici, dobbiamo subito rilevare come questi testi siano essenzialmente delle le-zioni, e di questa modalità mantengano proprio l’impianto, apparentemente, per alcuni aspet-ti, molto discorsivo, quasi dialogante con un tu, destinatario privilegiato, lettore collaboratore: in realta proprio questo tratto permette all’au-trice una sorta di erranza della scrittura, di va-gabondaggio tale che i singoli autori, dopo esse-re stati portati in primo piano, analizzati e sve-lati, quasi svaniscono, nel senso che sono trac-ce sensibili dell’avvento della piena modernità e

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ci parlano dell’alienazione e della fine dell’uma-no, al punto che il corpo dilaniato e frammenta-to fa il paio con la crisi dell’io, la fine della sua identità e integrità: la fisicità, per quanto lace-rata, pare fare resistenza contro lo sfaldamento. Ogni residuo di fisicità sembra una chance di recupero di vita autentica, nel senso di non di-sumanata. Ma questi risultati e la struttura del libro ci fanno ormai affermare come, in realtà, siamo di fronte ad un libro con il trucco, con il gioco segreto, dove davvero ogni testo è un test; sfruttando a pieno le movenze tipiche del saggio di studio, dell’indagine con palesi fini didatti-ci, secondo modalità in Italia iperconsolidate, la Lorenzini riesce a presentarci, quasi deresposa-bilizzandosi, lasciando, in apparenza, la parola ai testi, un viaggio profondo nel corpo lacerato della piena modernità. La struttura è fortemen-te allegorica, ma per essere realistica, al pun-to che non solo, attraverso lo sguardo sul corpo più o meno fatto a pezzi, esce il quotidiano vero, ma addirittura il domestico, quello che per esse-re trasmesso e messo su carta costringe l’autore a fare i conti con la propria dimensione dell’io, in tutte le sue sfaccettature, con un senso di ti-midezza della parola e di pudore, quasi interio-re, che sempre esce nel momento in cui si mette a nudo non solo il cuore, ma anche l’anima e le viscere. L’io ne risulta talmente distrutto da ri-sultare quasi afasico, così è il corpo martoriato e fatto a pezzi a prendere la parola, a dare voce ad un discorso, altrettanto frammentato e co-munque privo di qualunque pacifica armonia.

Erminio risso(Università di Genova)

Poetiche, vol. 14, n. 36 (3 2012), pp. 487-495

Roberto Deidier, Il lampo e la notte. Per una poetica del moderno, Palermo, Sellerio 2012, pp. 331.

Roberto Deidier insegna all’università di Palermo, è autore di numerosi studi sulla modernità letteraria e ha curato opere e carteg-gi di Penna, Saba, Montale, Manganelli. Ma non bastano i soli nomi di questi eccelsi rappresen-tanti del nostro Novecento per dare un’idea del-le intense e numerose frequentazioni poetiche e teoriche che egli può vantare nell’ambito della letteratura europea ed extra europea. Basta sfo-gliare questo volume per intravedere la ricchez-za delle letture dei grandi autori della ‘moder-nità’, ma anche di quelli meno noti che egli ha indagato restituendoli alla loro giusta e merita-ta fama. Con la lettura dei suoi poeti e scrittori Deidier intreccia, con uno stile e un’articolazio-ne teorica personalissimi, la lettura dei grandi critici della modernità, sovente poeti essi stessi (come Auden e Brodskij, solo per citarne due). Il poeta e il saggista dunque si interrogano inces-santemente. Numerosi sono i suoi studi pubbli-cati dagli anni Novanta sino ad oggi tra i qua-li: Dall’alto, da lontano. Scritture dell’adolescen-za, della fiaba e dello scorcio nel Novecento ita-liano (2000), un titolo assai suggestivo questo, che indica l’originale prospettiva d’indagine che allinea le scritture dell’adolescenza, della fia-ba e dello scorcio. Il lavoro su Calvino: Le forme del tempo. Miti, fiabe, immaginario di Italo Calvi-no (Sellerio, 2004). La raccolta in volume degli scritti su Penna intitolata Le parole nascoste (Sellerio, 2000), e ancora un lavoro sulla poesia: La fondazione del moderno. Percorsi della poesia occidentale (Carocci, 2001), e sul mito: Persefo-ne. Variazioni sul mito (Marsilio, 2010). Da que-

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sta rapida elencazione emergono chiaramente gli oggetti privilegiati dalla scrittura di Deidier: la poesia occidentale, la modernità letteraria. La poesia innanzi tutto, a cui bisogna aggiungere la saggistica che dalla poesia nasce e si alimenta.

Questa breve perigrafia suggerisce già il particolare profilo del nostro autore, che non si riassume soltanto in quello del critico accade-mico o del professore di letteratura, ma del cri-tico-poeta, o del poeta-critico, che ha della poe-sia, e globalmente della letteratura, un’espe-rienza diretta e creativa.

Il lampo e la notte si avvale, come gran par-te dei libri pubblicati da Sellerio, di un’elegan-te veste tipografica, come si può vedere dalla copertina che riproduce un manifesto pubblici-tario del 1937 dell’aeropittore futurista Cesare Andreoni, nel quale un lampo tricolore si spri-giona da una palla di fuoco (un sole, una luna?) accampata su uno sfondo, un cielo verosimil-mente, che sfuma dal blu chiaro al blu notte. Questo manifesto illustra perfettamente il tito-lo del volume, titolo a sua volta mutuato dall’e-mistichio (Un éclair … puis la nuit! –) di un cele-berrimo sonetto delle Fleurs du mal, intitolato A une passante. Un titolo poetico dunque che da solo lascerebbe in sospeso il lettore se non fosse seguito e spiegato da un preciso sottotito-lo: Per una poetica del moderno. Possiamo allo-ra già anticipare che la poetica del moderno identificata da Roberto Deidier è la poetica del lampo, cioè della luce, e della notte, cioè del-le zone oscure del Soggetto moderno, rischiara-te, secondo la bella immagine forgiata dall’au-tore, da una «luce acherontea», sulla quale tor-neremo.

La categoria del moderno attraversa tutti i capitoli del volume, ne è il leitmotiv e la trama coerente, che intreccia i vari e numerosi sag-gi dedicati a temi forti e ad autori fondamentali

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della modernità specialmente novecentesca ma non solo. Filologia della Weltdichtung è il sag-gio teorico che apre e incornicia, insieme al sag-gio immediatamente successivo, Letterarietà ed esperienza poetica, tutti gli altri scritti raccolti nel volume. A questi primi due seguono tre sag-gi, i tre generi di Euridice, dedicati rispettiva-mente al poema narrativo di José de Espronce-da, Lo studente di Salamanca, uno dei capolavo-ri del romanticismo europeo; al particolare sta-tuto della scrittura di Bufalino nel delicato tran-sito dalla poesia al romanzo. E il terzo genere di Euridice è dedicato a Dèi ed eroi di Vasco Graça Moura, un interessantissimo poeta, che affonda nel mito, ma in modo assolutamente originale e innovativo e che Deidier sollecita a conoscere e ad apprezzare. Quindi, in successione, i sag-gi: Per un’etica della brevità. Lettura dei Silla-bari di Parise; Costruire per simmetrie, sul pen-siero simmetrico di Matte Blanco; Canone del-la poesia, poesia della durata, un lungo e cospi-cuo saggio teorico; Il rospo che ha varcato cen-to lune su Tristan Corbière, «un poeta-funzione» della grande stagione simbolista francese, auto-re dell’unica raccolta di versi Les Amours jau-nes e inserito da Verlaine, fin dal 1884, nella sua celebre antologia dei Poètes maudits; Il rap-porto con le origini. Saba e Ammonizione; Strati-grafie poetiche. Dante, Borges, Eliot; Ritmi della modernità; Il poeta che legge se stesso; Poesia e autocritica. «I libri» di Solmi, nel quale Deidier analizza mirabilmente il testo poetico di Solmi, «I libri» appunto; e infine i due saggi che chiudo-no il volume: Poeti «fuori casa», che mutua il sin-tagma «fuori casa» dal titolo di una raccolta di prose di Montale e, dulcis in fundo, L’avanguar-dia dei classici.

Il primo, come si è detto, fa da cornice teo-rica, da «premessa», a tutto il volume, ne inqua-dra il seducente affresco e il ricchissimo rac-

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conto. Il titolo Filologia della Weltdichtung mima quello di un importante articolo del 1952 di Erich Auerbach: Philologie der Weltliteratur che, sostiene Roberto Deidier, nell’attuale passaggio al globale e alla standardizzazione dei model-li, costituisce, ancora dopo più di mezzo seco-lo, una fondamentale lezione per il critico odier-no, suggerendo una prospettiva di interpreta-zione dinamica della storia, già prefigurata del resto da Goethe. Viene sottolineata inoltre, que-sta volta nella prospettiva della Weltdichtung, l’importanza dell’attività di traduzione, che fa dei traduttori dei veri e propri Autori-Mediato-ri. La specificità del poeta-traduttore è energi-camente rivendicata da Deidier in accordo, sup-pongo, con l’analoga e attuale proposta di con-siderare un vero e proprio genere quello della traduzione d’autore, da distinguere e affianca-re agli altri generi praticati da ciascun autore (si pensi a Montale, Quasimodo, Luzi…). Un’al-tra nozione feconda discussa nel primo saggio, e riproposta anche nei saggi successivi, è quella di «storia interiore» in quanto «storia di un’emo-zione che si traduce in linguaggio, e così facen-do narra un’identità» (p. 14), o ancora riferita «alla filologia come scienza di una “storia inte-riore” e alla poesia come coagulo espressivo di quanto compone quella storia nel suo insieme, come luogo dove convergono pensiero ed emo-zione, secondo quanto riconosciuto da Leopar-di, in un passaggio cruciale dello Zibaldone, il 21 ottobre 1821» (p. 15). Sempre in Filologia della Weltdichtung possiamo leggere un primo commento al già citato sonetto A une passante di Baudelaire «uno dei sonetti più noti dell’Otto-cento, dedicato a una misteriosa passante il cui rapido passaggio, pur nella brevità del momen-to, campisce sul resto della folla anonima in una strada chiassosa di Parigi: “Un lampo … poi la notte”. […]. La poesia moderna assume

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questa condizione [cioè quella dell’«esperienza dell’impossibile incontro» secondo le parole di Antonio Prete] come una precisa modalità per-cettiva, già con Leopardi. Il naufragio dell’infini-to è l’ammissione, “dolce”, di uno sconfinamen-to analogico» (pp. 17-18). A questo punto vie-ne ripreso il motivo del poeta cieco, precedente-mente introdotto, per dedurne l’incisiva metafo-ra dell’accecamento entro la quale inscrivere la modernità: «metafora certamente “suggestiva” di come la parola della poesia scardini i principi della logica aristotelica, attestando una discus-sa etimologia. Lo dimostrano, a vario titolo e su piani diversi, le numerose discese a cui il poeta moderno si costringe, spesso condotte secondo precise modulazioni di una matrice mitologica, in grado di veicolare più generi e di fonderli tra loro: il mito orfico, anzitutto, ancora attivo nel-le scritture del simbolo fin dentro il Novecento, ma declinato più modernamente – e più proble-maticamente rispetto al passato – dalla parte di Euridice. Esemplificata, ormai nel pieno dell’Ot-tocento, proprio dalla passante di Baudelaire, visibile, e inafferrabile, eterno rinvio di una pro-messa nel tempo circolare del mito: […].» (p. 19)

In Letterarietà ed esperienza poetica Dei-dier mira a ridefinire il termine ‘poetico’ e quin-di ‘lirico’ a partire dalla constatazione che la poesia è una lingua fuori dalla lingua comune. Essa si può comparare senz’altro all’architettu-ra, secondo l’antica tradizione che si fa risalire al Proemio alle Poesie di Campanella. «Campa-nella recupera, scrive il nostro critico, già in pie-no barocco quell’essenzialità della parola poe-tica che ne fa diretta filiazione del “Senno” e di “Sofia”». (p. 34)

Dei tre capitoli dedicati ai generi di Euridi-ce, accenno soltanto alla configurazione bufali-niana del novecentesco mito orfico. Nel bel sag-gio incentrato sul delicatissimo passaggio del-

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la scrittura di Gesualdo Bufalino dalla poesia al romanzo, dai versi de L’amaro miele alla Diceria dell’untore, viene individuato il motivo, ma for-se sarebbe più esatto dire il tema, della solitudi-ne, che non solo è «il grande veicolo che agisce di capitolo in capitolo» nel primo romanzo del-lo scrittore siciliano, ma «diventa per Bufalino anche un principio formale: quello in virtù del quale la confessione (o “testimonianza” o “dela-zione”) può essere resa attraverso il linguag-gio sovraletterale della poesia come in quello di una prosa che, nutrendosi del verso, si presenta come un’istanza di secondo grado, come un rac-conto al quadrato: insomma come una ri-scrit-tura. Scelta, quest’ultima, forzatamente antina-turalistica, tutta lirica, di quella liricità che tra-duce sia la “retorica”, sia la “pietà” sfuggite al silenzio del narratore. Ed esse rappresentano, in un gioco delle parti che non deve sorprende-re, rispettivamente il contenuto e l’espressione di una voce estorta a se stessi. […]: il primo ger-me, la prima fonte di scrittura resta, rispetto al romanzo, la scrittura in versi. Diceria dell’unto-re non solo riprende e rielabora sintagmi o sti-lemi che concorrono alla particolare tonalità della prosa bufaliniana […] ma sviluppa quegli embrioni di storie, quelle immagini e quei moti-vi che la sincerità del verso ha condensato nel-la forma breve del componimento poetico, sot-traendoli in prima istanza al fluire narrativo, al contesto di una vicenda» (p. 55, p. 59). Il testo di un grande poeta tedesco, tra i numerosi poeti più o meno cripticamente citati nella Diceria (da Verlaine a Hopkins a Sbarbaro), ha invece ispi-rato il tema orfico sia nel romanzo sia nei versi che ne costituiscono l’avantesto e anche l’ipote-sto. «Se il tema orfico – scrive Deidier – è quel-lo che informa di sé l’intero romanzo, e a sua volta è mutuato dai Congedi e dalle evocazioni di spettri nell’Amaro miele, la fonte di cui poe-

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sie e romanzo conservano tracce sparse ma rile-vanti andrà cercata piuttosto in un altro auto-re ampiamente frequentato dal giovane Bufa-lino: Rilke, il Rilke pintoriano di Orfeo, Euridi-ce, Hermes. Riletto però, in una singolare siner-gia tematica che scorre attraverso il paesaggio desolato degli Ossi montaliani e che riguarda, in primis, il motivo dell’identità, la ricerca, l’af-fermazione del “nome”. È una rete dissemina-ta in ogni pagina, quasi, e del canzoniere e del romanzo» (p. 68).

Un altro contributo, di grande interesse, è Ritmi della modernità, dove il leitmotiv che per-corre l’intero volume – il poeta e la modernità – trova un’icastica definizione, quella di «icona della luce» (p. 212). Bisogna ricordare che l’ar-co temporale nel quale Deidier colloca la sua categoria del moderno va da Leopardi a tutto il Novecento fino ai nostri giorni. In molte pagi-ne del libro ci imbattiamo in un Leopardi fon-datore della modernità che egli trasmette alle generazioni successive di poeti non solo italia-ni, ma anche europei. Questo è un riconosci-mento del poeta dei Canti che mi trova profon-damente solidale. Ora, il poeta moderno che ha in Leopardi il suo primum è esattamente quell’«i-cona di luce» gravida di una tensione volta alla ricerca di una verità abissale, a portare il fuo-co appunto nell’«abisso orrido e immenso», che si apre agli occhi del pastore errante. In questa tensione e in questo gesto il critico individua l’e-stremo ruolo titanico del poeta (p. 212). Per cui il ritmo della modernità non è altro che questa ricerca volta verso il fondo del vero e alla nar-razione di questo impossibile viaggio. Ma que-sto inabissamento fa sì che la luce di cui il poe-ta è portatore sia una luce particolare, una luce acherontea, ambigua, luciferina, come quella del poemetto Une saison en Enfer. Nel corso del-la grande tradizione europea, dalla luce vertica-

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le di Dante attraverso il testimone muto dell’effi-ge solare nella Waste Land, la poesia si fa scan-daglio, strumento e non fine di un percorso di conoscenza. Diviene pertanto il ritmo stesso, la percezione visiva e non più soltanto uditiva, di quel percorso, diviene un «abbaglio dell’istan-te» (p. 213), un «lampo e la notte», per torna-re al titolo del volume e all’emistichio di Bau-delaire. Segue quindi una fine analisi del table-au parisien, arricchita da splendide glosse sul ritmo in Leopardi, Ungaretti, Marina Cvetaeva, Anna Achmatova. Negli ultimi due paragrafi di questo istruttivo saggio, intitolati L’ordine del ritmo e Il dàimon e l’oracolo, ricorrono ancora i nomi di autori che hanno profondamente medi-tato sul ritmo: Hopkins, Auden (forse il poeta-feticcio di Deidier o perlomeno uno dei suoi più amati), Stefan George, il formalista russo Blok, il Nietzsche della Gaia Scienza, il Plutarco dei Dialoghi delfici, Keats e ancora Cveateva.

Il poeta che legge se stesso affronta la cosid-detta dimensione ri-creativa applicata all’opera altrui, attraverso la quale «l’immagine del poe-ta diventa speculare a se stessa, si sdoppia in uno stimolante cortocircuito tra poiesi ed erme-neutica, anche laddove l’attenzione si sposta verso domini esterni: un poeta che commenta un altro poeta è, inevitabilmente, compromes-so dalle proprie istanze di ricerca, dalla propria visione della poesia. In questo senso un’ars poe-tica è condotta a plasmare di nuovo se stessa per prestare la propria consapevolezza, la pro-pria capacità di scavo e di introspezione a un’al-tra ars» (pp. 227-228). Ora tra saggisti autoria-li e plurigenerici e saggisti puri o monogenerici, per non dire dell’altra ormai perenta opposizio-ne tra critici militanti e critici accademici, Dei-dier sembra decisamente schierarsi dalla parte di quello che egli definisce il “racconto del testo”: «“Racconto del testo”, egli scrive, è quanto deri-

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va dalla capacità di restituire nello spazio del-la pagina, al tempo stesso, il percorso dello sca-vo ermeneutico senza perderne il grado di rice-zione emozionale, creando uno stile denso ma anche più felicemente fruibile (ciò che accade di rado nella critica italiana). Gli esempi, pertan-to, andranno ricercati in quegli ambiti dove la saggistica è sempre stata considerata una delle forme dell’attività interpretativa, e dove la figu-ra del critico non appare estraniata dall’aura autoriale che le è consustanziale. Uno di questi ambiti è quello anglosassone, il quale presenta una casistica vasta, dal Dottor Johnson a Mat-thew Arnold, da Edmund Wilson a tutta la lun-ga serie di narratori e poeti che sono stati […] interpreti di prim’ordine: Pound, Eliot, Wystan Hugh Auden; ma anche coloro che, pur collo-candosi in una corrente teorica piuttosto deli-mitata come quella del New Criticism, ne han-no saputo contenere la settorialità, come Robert Penn Warren […].» (pp. 234-23)

Vorrei concludere questa mia rapida tra-versata del volume di Deidier con un’altra bella citazione tratta da Poesia e autocritica. «I libri» di Solmi, dove il nostro critico, dopo aver dialoga-to col saggio di Baudelaire Su Wagner, in cui il poeta francese riflette appunto sulla differenza tra il poeta e il critico, e dopo avere analizzato la poesia «I libri» di Solmi, conclude: «Il linguaggio è il solo luogo dove l’Essere è insieme nomina-to e negato, e «I libri» di Solmi ambirebbero ad essere, umanisticamente, i testimoni di questo doppio, illusorio movimento; anche se in que-sto umanesimo, così dolorosamente consapevo-le eppure mai disperato, non possono che reci-tare, novecentescamente, le parole dell’impossi-bilità e dell’assenza» (p. 260).

Rosalba GalvaGno(Università di Catania)

Poetiche, vol. 14, n. 36 (3 2012), pp. 497-504

Massimo Pulini, Gli inestimabili. Quando Raffaello e Piero vennero rubati a Urbino, Forlì, Cartacanta Editore 2011, collana I Cantastorie, pp. 192.

Due narrazioni si inanellano nei quaran-tasette micro-capitoli de Gli inestimabili, la cui struttura composita sfida la brevità. Accostando l’esposizione meticolosa di una vicenda veramen-te accaduta a squisite descrizioni di opere d’ar-te, Massimo Pulini crea due trame parallele che sembrano dipanarsi autonomamente, poi si rive-lano congiunte. La mimesi è necessaria alla ri-costruzione del fatto storico, l’ekphrasis traspor-ta l’hic et nunc in una dimensione speculativa. Il nucleo della scrittura è l’arte visiva: mentre si preoccupa di comprenderne l’essenza e il farsi in opera umana, l’autore la metamorfosa in storie la cui matrice è evidentemente autobiografica.

Il valore della scrittura ecfrastica di Puli-ni risiede nella creazione di un vasto archivio iconografico ed esperienziale dal quale scaturi-scono molteplici percorsi narrativi. Nell’ekphra-sis egli cerca risposta a una delle domande che in epoca post-moderna qualunque autore, di fronte alla messe di trame già scritte e riscrit-te, deve porsi: “Come iniziare a raccontare?”. Ne Gli inestimabili la descrizione di opere d’arte è sia un modo per dare inizio alla narrazione sia un modo di narrazione, dà origine a una storia e la alimenta. Solo apparentemente la succes-sione di ekphrasis è giustapposta al racconto e sussidiaria al testo: ognuna di esse è un parer-gon abilmente introdotto per delineare un limi-ne attraverso il quale il lettore è condotto fuori da una sola narrazione, verso altre narrazioni.

Ne La coperta del tempo. Dipinti e sculture in letargo (2008), che racchiude quattro libri, il

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racconto in prima persona si concentra sull’ar-te per dire di momenti epifanici. Deposizioni, Il secondo sguardo, La mano nascosta e La parte muta accompagnano il lettore in un lungo viag-gio raccontato in pagine intime, quasi di dia-rio, nelle quali lo scavo nelle vite degli artisti e la traduzione verbale di opere d’arte divengono una forma di lettura del mondo e arrivano ad assumere un valore euristico. Che Pulini abbia riflettuto sulla conoscenza e sulla rappresenta-zione si comprende quando ne Gli Inestimabili sono evocate le indagini capillari e avventuro-se intraprese nel libro precedente: “Adesso so che devo a quella stagione di pensieri e propo-siti, mossi contro lo scempio dei quadri tagliati, il primo spunto alla scrittura de La parte muta, che tratta dell’incompiuto e del frammento. In quelle pagine avevo cercato di scandagliare il fascino indicibile della parzialità, l’enigma ma-gnetico del racconto interrotto” (p. 141). È tal-mente articolata, la rete di incontri, relazioni, pensieri ne La coperta del tempo, da produrre un effetto di vertigine. L’autore chiede al letto-re di avvicinarsi e di entrare in empatia; mante-nere la distanza pregiudicherebbe la compren-sione.

Ne Gli inestimabili Pulini sceglie la stringa-tezza. La descrizione dell’arte si congiunge alla vita ‘reale’ attraverso la storia di un furto e la ricostruzione, apparentemente più convenzio-nale, dello specifico contesto storico e cultura-le nel quale avvenne. Sottoposti a una contigui-tà inusitata, l’ekphrasis e il romanzo poliziesco dimostrano di sapere stare insieme, potenzian-do sia la diegesi sia la meta-discorsività. È lo stesso autore a definire le analogie fra lo studio di un’opera d’arte e di un crimine: “Un dipin-to anonimo in fondo è come il luogo di un delit-to, nel quale una complessa vicenda si è miste-riosamente compiuta. Nella sua scena un auto-

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re ha lasciato immancabili tracce” (p. 65). Lu-cida e irrefutabile, la similitudine è ripresa più avanti, provocatoriamente sottoposta a revisio-ne e in parte sovvertita. Piuttosto che un ripen-samento, l’attenzione alle differenze fra indaga-re l’arte e il crimine indica che il paragone ri-entra in una più ampia interrogazione estetica ed esistenziale. Che verta intorno a un crimine o a un’opera d’arte, il fine dell’indagine è il di-svelamento di un mistero. Vogliono raccontar-lo con rigore sia il romanziere noir sia lo stori-co dell’arte, ma mentre il talento dell’uno si pa-lesa nella scelta di procedure investigative che condurranno a esiti positivi, razionali, oggetti-vi, l’altro deve comprendere che è vano ricerca-re l’imparzialità, la risoluzione, la sentenza defi-nitiva: “Se scoprire l’autore di un dipinto anoni-mo ha analogie con l’identificazione di un omi-cida, allora scrivere gialli non dovrebbe essere molto distante da esporre tesi di storia dell’arte. Posta in questi termini, in forma di equazione, la cosa diventa provocatoria. […] Invece, più an-davo avanti su piste ramificate, più mi convin-cevo che la forma del racconto si sarebbe potu-ta coniugare in modo armonico ai valori emotivi e sentimentali che sono i veri motori di ogni ri-cerca sull’arte” (p. 111). Poiché il ricercatore uti-lizza il proprio lessico per restituire il linguaggio dell’artista che sta indagando, la forma di ven-triloquio che ne deriva invalida la presunta neu-tralità della scrittura critica: la voce dello stu-dioso che vuole rendere quella dell’artista avrà una modulazione particolare, talora prorom-perà in note alte, talora abbasserà i toni. Anzi-ché referenziale e diretta, la scrittura dell’arte si appropria di componenti soggettive, particola-ri. Inutile cercare forme piane, suggerisce Puli-ni, poiché nel sondare la personalità dell’artista, nel decifrarne i moti creativi, la parola produce increspature e sinuosità.

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È un commento sul gioco della scopa, la pri-ma frase de Gli inestimabili, una puntualizzazio-ne sulle varianti regionali, dato che “nel mazzo di carte romagnole il re bello non tiene in mano il disco dorato dei denari” (p. 7). Seppure iper-bolicamente locale, l’incipit assume una portata universale alludendo al relativismo che defini-sce gli esseri umani: “a Pesaro non contava nul-la, niente più di un cavallo, di uno stupido fan-te. Solo due chilometri più a nord, verso la Ro-magna, segnava un punto che spesso risultava decisivo” (p. 8).

Nel riportare il fatto di cronaca Pulini se-gue gli eventi con precisione cronologica e adot-ta un linguaggio lineare e puntuale, come fos-se un giornalista. Mostra acume di psicologo, quando delinea la personalità, i comportamenti e i processi mentali di Elio Pazzaglia, trentenne di Pesaro, nullafacente, giocatore di carte e bi-liardo, di Rossana, la fidanzata infermiera osti-nata nella volontà di correggerlo, e di Maurizio Balena, l’antiquario riminese il cui disincanto non riesce a sovrastare l’indole romantica, la cui ruvidezza si vena di sentimentalismo. Si ci-menta in un’analisi sociologica rigorosa, quan-do descrive tipi umani disparati: i perditempo che frequentano il bar Rossini, gli sganghera-ti delinquenti di provincia, i vari poliziotti, com-missari e procuratori talora efficienti, talaltra pigri, burocrati suscettibili, antiquari e galleri-sti in bilico fra eroismo e cinismo, raffinati col-lezionisti esposti a ottuse procedure burocra-tiche, storici dell’arte assoggettati all’alfabetiz-zazione informatica e ormai avvezzi “a fare at-tribuzioni aprendo un allegato di posta elettro-nica” (p. 143). Le osservazioni che intersecano la politica, la società e la cultura palesano l’o-rientamento ideologico di Pulini, intento a os-servare l’Italia e fermamente convinto che defi-nire valori estetici, ma anche stare nella socie-

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tà, tramandare la memoria storica e fortificare l’identità culturale siano le finalità primarie di chi studia l’arte. Prende posizione quando, rie-vocando gli anni Settanta, individua nella revi-viscenza della destra e nella senofobia l’inizio di un declino civile che perdura. Il linguaggio ala-to dell’ekphrasis lascia spazio alla datità della storia per ricordare come, mentre le biblioteche e gli archivi continuavano a offrire dimore pri-vilegiate ai ricercatori, qualcuno già notasse “i tentativi di riabilitazione del fascismo e del raz-zismo che si stavano apparecchiando nel cli-ma politico di quegli anni e che avrebbero pre-parato, come un massaggio disinfettante prima dell’iniezione, la deriva antisociale che stiamo vivendo ora” (p. 67).

Produce un effetto paradossalmente stra-niante lo sguardo lenticolare che Pulini posa sulle Marche e la Romagna, le regioni coinvol-te nel furto. Ne scruta le peculiarità con l’oc-chio addestrato del nativo e poi se ne discosta, le mette in vitro per scrutarle attraverso un dia-framma: il lettore si trova ad aggiustare il fuoco per sostenere una duplice visione, al microsco-pio e al telescopio, aderente e distanziata, loca-le e immateriale. Le modalità con le quali nella notte fra il 5 e il 6 febbraio 1975 Elio Pazzaglia sottrasse dal Palazzo Ducale di Urbino il Ritrat-to di Giovanna Feltria (la Muta) di Raffaello, la Flagellazione e la Madonna di Senigallia di Pie-ro della Francesca, i rozzi tentativi di ricetta-zione fra Italia e Svizzera, il recupero avvenuto il 23 marzo 1976 a Locarno e il processo svol-tosi dopo circa un anno e giunto a sentenza il 25 maggio 1977 si fondono in un dramma mol-to nostrano eppure ineffabile, reale e surreale, giocato fra il sublime diletto del vivere in mez-zo a un patrimonio artistico che si estende lun-go tutta la penisola, in un immenso museo all’a-perto, e l’immane fatica di amministrarlo.

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Pulini sceglie di sospendere il giudizio sull’autore del furto. Ritraendosi da una facile riprovazione, preferisce sondarne la mentalità un’ultima volta nella pagina finale: alcune righe in corsivo registrano i pensieri di Pazzaglia, ne elucidano il movente sottolineandone i risvolti emotivi, ne mostrano la bizzarria involontaria-mente tragicomica nella frase conclusiva: “mi sembra che siano ritornati al loro posto, no?” (p. 187). Proprio perché Pulini sceglie di non inflig-gergli un esemplare castigo verbale, il ladro non assurge alla grandezza del vero malvagio, sem-mai arriva a esercitare l’attrattiva di un fuori-legge sentimentale. La mancanza di un illustre cattivo è compensata dalla presenza di un eroe garbato, quasi segreto. Senza fragore, clande-stinamente il narratore restituisce al Martirio di San Sebastiano nel Duomo di Urbino il fram-mento tagliato con il ritratto di Antonio Bona-ventura, fanciullo primogenito del committente di Federico Barocci. Il dipinto imprime alla nar-razione un movimento circolare, che ha inizio nel secondo capitolo con la descrizione dell’o-pera e della mutilazione (p. 13), prosegue con il recupero del piccolo ritratto (pp. 173-174) e in-fine termina con il ricongiungimento (pp. 179-181), che regala un lieto fine temperato. Così Gli inestimabili svela un’altra sfaccettatura: in esso l’autore dichiara la propria identità di stu-dioso che assegna un’importanza fondamenta-le all’impresa rischiosa dell’attribuzione. A mo-tivare la sua ricerca sono tanto l’origine quanto le mutazioni delle opere d’arte, “la lunga stagio-ne del dopo” (p. 73).

Pulini crede nelle reciproche illuminazioni dell’arte visiva e verbale, pratica l’interrogazio-ne meta-artistica e utilizza un linguaggio auto-riflessivo non solo per indagare questioni esteti-che e interrogarsi sull’autonomia di ogni arte e sul dialogo fra le arti, ma anche per esplorare il

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nesso fra arte e verità e definire il ruolo del cri-tico. “In fondo il lavoro dello storico dell’arte è sempre stato questo: accompagnare idealmen-te le opere alla loro ideale appartenenza. Spesso i quadri sono come smemorati che hanno per-duto la strada. […] Identificarne l’autore è il pri-mo atto sulla via del ritorno” (p. 20). L’essen-za de Gli inestimabili risiede nella convinzione dell’autore che lo studio dell’arte abbia senso se sottende un telos, se contribuisce alla leggibili-tà del mondo.

Che la traduzione dell’immagine in parola presupponga un atto ermeneutico, sveli e gene-ri significati sull’arte, l’artista, il critico, è evi-dente nella scrittura ecfrastica che Pulini de-dica alle tre opere inestimabili. Per comuni-care l’alterità che permea il Ritratto di Giovan-na Feltria egli trasforma la figura di donna in un ibrido umano-animale: “La sua distanza da noi ha però qualcosa di animalesco. Ci guarda come potrebbe farlo un lama andino o un’anti-lope in riposo. Appartiene a un’altra razza, non per censo, ma per natura” (p. 90). L’ardita me-tamorfosi dell’icona muliebre compiuta da Puli-ni dimostra che il potere dell’ekphrasis risiede non solo nella capacità di evocare un’immagi-ne mentale fedele all’originale, ma anche di ge-nerarne altre, esse stesse originali. Suscita stu-pore l’appropriatezza degli aggettivi che sceglie per definire l’affinità fisiognomica fra il viso del-la Madonna di Senigallia, del Bambino e dei due angeli: “Tutto è largo e posato, frontale e piano. I quattro volti sono filtrati da un ricordo di pie-nezza e di pace, da una essenzialità di tratti e di affetti. Tutti sono tra loro somiglianti, hanno il naso camuso, dalla radice schiacciata, ade-noidea; le sopracciglia glabre, collinari; gli occhi rimpiccioliti e fissi; le bocche sono come man-dorle chiuse, più amare che dolci” (p. 96). La descrizione evidenzia la volontà del narratore

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di trovare, o costruire, una storia per immagini potenti, incantatrici. Quanto più intensa è l’im-magine verbalizzata, tanto più forte sarà il rap-porto dialettico con l’immagine dipinta. Alla Fla-gellazione dedica una struggente riflessione me-ta-artistica: “sapere che quella sublime impas-sibilità della pittura […] abbia sopportato anche la prova di un trafugamento, che sia stata ben-data come un prigioniero, trasportata nel baga-gliaio di un auto, venduta per quattro denari o perduta al gioco, assume un risvolto simboli-co al quel nessuna persona che cerchi un sen-so nell’arte può rimanere indifferente” (p. 102). Ogni trasposizione verbale di opere d’arte visi-va è portatrice di intuizioni, ipotesi, assunzio-ni, elaborazioni mentali. Pulini è critico ed è ar-tista, lo si capisce dall’osmosi fra fare arte, tra-durla in parola, tenerla in vita.

Paola SPinozzi(Università di Ferrara)

Poetiche, vol. 14, n. 36 (3 2012), pp. 505-517

Aa.Vv. Scrittura civile. Studi sull’opera di Dacia Maraini (a cura di Juan Carlos de Miguel), Roma, Giulio Perrone Editore 2010, pp. 397.

Pubblicato dall’editore romano Giulio Per-rone alla fine del 2010, Scrittura civile assume in buona sostanza il ruolo di Atti del Convegno svoltosi a Valencia, in presenza dell’autrice, il 23 e 24 aprile 2009: Dacia Maraini: scrittura, scena, memoria, femminismo.

Già dall’introduzione del curatore del con-vegno e della pubblicazione, Juan Carlos de Miguel, si percepisce l’esigenza che ha portato all’organizzazione del colloquio e alla realizza-zione di questo testo. De Miguel cerca, con un excursus acrobatico, di ripercorrere le molteplici strade intraprese dall’impegno artistico di Dacia Maraini. In questo slancio introduttivo alla rin-corsa di un panorama generale evocativo dell’o-pera e dell’agire marainiani, possiamo compren-dere quello che è un po’ il senso del lavoro di de Miguel: proporre ad un pubblico universitario, ma non solo, una via di accesso privilegiata ai contenuti e alle tensioni del corpus marainiano, invitando, con un approccio non solo descritti-vo, il lettore generico ad un atteggiamento cri-tico e gli studiosi a una riflessione partecipata, spunto per un nuovo impegno teoretico intorno agli scritti dell’autrice.

Il testo è diviso in sei sezioni di massima: l’opera narrativa, il Teatro, il Cinema, le tradu-zioni dell’opera marainiana, la Poesia e gli inter-venti della Maraini in prima persona (dibattito del colloquio e saggio finale).

Oculata e ricca di senso la scelta del cura-tore di aprire la rassegna critica con l’intervento di Giulio Ferroni: Scrivere a Roma intorno al ’68.

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Questo articolo traccia, con la chiarezza e il sen-so della storia che contraddistinguono il noto italianista, le linee principali di quel contesto culturale in cui la Maraini si è trovata ad ope-rare nei primi anni della sua produzione narra-tiva e all’inizio di quella drammaturgica. Arba-sino, Fellini, Gadda, Ginzburg, Morante, Mora-via, Pasolini, Siciliano e altri ancora sono i nomi che vediamo comparire nel felice e dotto amar-cord di Ferroni. Profondo e documentato anche il delineamento di quelle istanze, di quelle let-ture, di quelle urgenze che portarono la scrit-trice a comporre le sue prime opere, La vacan-za (1962) e L’età del malessere (1963), come le opere dei primi anni Settanta, e l’attenzione è giustamente puntata su Memorie di una ladra (1972), anche se sarebbe stato opportuno ricor-dare tra le possibili fonti di ispirazione, che pre-scindono spesso dal contesto, Lazarillo de Tor-mes, romanzo picaresco spagnolo del Cinque-cento, menzionato dalla stessa autrice nel di-battito finale. L’articolo verte infine su Donna in guerra (1975), considerato da Ferroni come “emblema della scelta femminista di Dacia Ma-raini” e anche romanzo interprete delle attese di speranza e libertà sprigionate dal ’68.

Originale e efficace è l’articolo di Sharon Wood: Alla ricerca della madre: lo spazio e il cor-po femminile nei primi romanzi di Dacia Maraini. Oltre a continuare quel “programma introdutti-vo” sposato da de Miguel, lo scritto presenta il merito metodologico di indagare su un campo di ricerca ben definito, come dichiarato dal titolo stesso. La Wood analizza La vacanza e L’età del malessere ripercorrendone le trame e mettendo in rilievo il valore spesso simbolico dei viaggi e degli spazi, rappresentativi di percorsi di cono-scenza o di sensazioni di disagio legate a un con-flitto tra il ruolo della donna, della madre in par-ticolare, e quello dell’uomo, padre o compagno

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che sia. Si evince che lo spazio è concretezza, ma anche metafora, luogo reale e simbolico di im-possibilità e costrizione, a volte di violenza, come gli spazi claustrofobici, o di possibilità e slancio, come gli spazi aperti. L’articolo si distingue per la lucidità e l’intelligenza con cui, trovati univer-sali comuni ai due testi, e per quel che riguar-da il viaggio, messa in rilievo anche un’analogia con La lunga vita di Marianna Ucrìa, la studiosa lascia emergere naturalmente e non senza poe-sia le tematiche marainiane, la ricerca delle pro-tagoniste, Anna e Enrica, di una nuova relazione con l’identità femminile che passa anche attra-verso una riconsiderazione della figura materna.

L’intervento di Antonio Nicolò Zito Da Dacia a Marianna: una lettura di “La lunga vita di Ma-rianna Ucrìa” appare, pur nella sua brevità, non privo di qualche spunto. Dal titolo ambizioso ci si aspetterebbe qualcosa di più, in realtà più della metà dello scritto è una mera evocazione, benché a tratti molto lirica, della trama del li-bro. Nella seconda parte l’autore coglie con sen-sibilità invece il ruolo della marginalità nel ca-polavoro marainiano: Marianna è un personag-gio ai margini della società, perché muta e per-ché donna, e in qualche modo, metaforicamen-te, muta perché donna. Rapporto con la margi-nalità su cui si poteva aprire forse una parente-si più ampia, con abbondanti riferimenti inter-testuali, mentre l’articolo sfocia poi, un po’ in-spiegabilmente, in un accenno alla teoria del ro-manzo storico, lasciando un po’ confusi e inap-pagati coloro che avevano creduto al titolo e si aspettavano una vera e propria lettura critica.

Preludio ad un lavoro di più ampio respiro è il saggio del curatore: Il romanzo familiare di Dacia Maraini. Costruito infatti come una bio-grafia minima, con tanto di introduzione, dieci capitoletti (Bagheria, La nave per Kobe, Il gioco dell’universo, La famiglia Maraini, La generazio-

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ne dei nonni, Il padre, La madre, La letteratura autobiografica al femminile, I Ginzburg e i Ma-raini, Conclusioni: il contributo di Dacia Marai-ni), l’intervento si presenta come un primo ten-tativo di riordinamento delle memorie marai-niane e passa attraverso la fondamentale “trilo-gia familiare”, i cui testi danno il nome ai primi tre capitoli, ma non dimentica i libri di Fosco Maraini Segreto Tibet, Ore giapponesi, Case, amori, universi e importantissimo è anche il ri-corso a due testi di Toni Maraini, sorella cadet-ta di Dacia, Ricordi di arte e prigionia di Topazia Alliata e La lettera da Benares. Con un conti-nuo rimando a queste opere de Miguel ricostru-isce e documenta, anche in chiave problemati-ca, la storia della famiglia Maraini, dipingendo quell’ambiente in cui l’autrice è cresciuta, e che tanto importante è stato per la sua formazione, e ricordando da quale vivace e artistico incro-cio cromosomico derivi la scrittrice. De Miguel, con spirito critico, affronta questo capitolo ab-bastanza recente della scrittura marainiana, “sempre più cosparsa di tratti memorialistici e autobiografici”, e ne fa un resoconto che, per la sua collocazione all’interno degli atti, risulta fin troppo ricco di particolari, di nuovo, come l’introduzione generale, mosso da una tensione ad abbracciare la maggior quantità possibile di dati e riferimenti. Nell’ultima parte l’italianista profila con acume un parallelo tra Dacia Ma-raini e Natalia Ginzburg, allargandolo poi alle rispettive famiglie delle scrittrici. Un confron-to questo che de Miguel accenna con spirito scientifico, quasi un invito all’approfondimen-to rivolto a se stesso e agli altri. L’epilogo ha il sapore di un appello alla scrittrice, la richiesta della compilazione di “una cronologia affidabi-le, rigorosa, ben verificata”. Chissà che un gior-no non spetti al de Miguel stesso adempiere a questo arduo compito.

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Uno storico, Justo Serna, tenta di adden-trarsi nei domini della critica letteraria con un articolo dal titolo Colomba. Il bosco famigliare. Non è ben chiaro dove voglia arrivare lo stu-dioso, e d’altronde dopo una premessa filoso-feggiante e concettosa appare qualche più acu-to riferimento al punto di vista narrativo, pre-sto spezzato da nuove divagazioni sul senso del-la lettura ed abbondanti quanto inutili, benché suggestive, citazioni di saggi che vanno dalla Woolf ad Eco senza dimenticare Freud. Alla fine della critica, che percorre sentieri giustamente bui e boschivi, Serna sembra delineare un pro-filo della Maraini che lascia abbastanza incre-duli, quasi che la scrittrice, notoriamente perfe-zionista, non facesse uso di quel labor limae che la contraddistingue, ma lasciasse in bella vista gli strumenti del mestiere. Vero è che la meta-narrazione ha un ruolo importante in questo ro-manzo, ma bisogna sottolineare anche che tutto è fatto ad arte e tutto è perfettamente compiuto.

Come sempre luminosa è invece Franca An-gelini che, pur fedele al principio della brevitas, ha offerto pagine di grande sostanza. L’artico-lo dal titolo Dacia Maraini nel teatro degli anni Sessanta insiste sull’importanza delle testimo-nianze che la stessa Maraini lascia della gene-si della sua vocazione teatrale. La Angelini non dimentica di citare esperienze importanti degli esordi teatrali della drammaturga. Ricorda l’in-fluenza del Living Theatre, ma anche l’esperien-za della compagnia del Porcospino e del teatro di strada, non meno che del teatro della Madda-lena. Il contributo più importante della studio-sa è senza dubbio nella sintesi con cui scorge le due principali linee percorse dalla produzio-ne teatrale marainiana: la prima che “disegna e analizza la figura femminile in posizione socia-le estrema”, marginale, la seconda, quella che “incontra le grandi figure – modello della storia

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e del mito”. L’articolo si chiude inoltre con una breve rassegna di alcuni versi della Maraini che meglio delineano il suo rapporto con il Teatro.

L’intervento di Ferdinando Taviani, Teatro e democrazia culturale, non sfugge ad alcuni li-miti che sono propri di una laudatio: quella pro-nunciata per la concessione della laurea honoris causa a Dacia Maraini il 4 ottobre 2005 presso l’Università dell’Aquila. Forse sarebbe stato op-portuno rielaborare il testo e dargli una nuova veste per inserirlo più naturalmente all’interno di questi atti, tuttavia lo scritto, pur cerimonio-so, non è privo di pregi. Certamente degna di nota è la descrizione che l’autore fa del rapporto tra “cultura togata” e Teatro, mettendo l’accen-to su quella sufficienza che vive anche nel fondo dell’ammirazione di alcuni accademici. Centra-le, come ben dice il titolo, è soprattutto però l’a-spetto della democrazia culturale interna al te-atro e messa in atto con particolare impegno da Dacia Maraini. Percorrendo un doppio sentiero, quello dell’afasia, ispirato all’afasia provata in sogno dalla Maraini, quando deve rilanciare la battuta agli altri attori e nulla le viene in men-te, e quello della simbiosi, Taviani si inoltra pri-ma nel percorso teatrale della Maraini, attraver-sando la spaventosa condizione del teatro italia-no, e poi arriva, con la simbiosi, a parlare delle due interviste a Piera Degli Esposti, in cui Da-cia sarebbe stata capace di produrre un nuo-vo modo di vedere un’attrice, descrivendo non il ruolo della Degli Esposti nel teatro, ma il ruolo del teatro nella Degli Esposti.

Molto bizzarro l’articolo in spagnolo di An-tonio Tordera. La premessa sulle coincidenze astrali di un suo soggiorno a Praga non fa ben sperare, però poi lo studioso si inoltra dentro il testo, quasi con piglio strutturalista, e l’analiz-za mettendolo a confronto, come dice il titolo, Don Giovanni /Don Juan: de Mozart a Maraini,

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con l’illustre precedente di Da Ponte, forse di-menticando un po’ troppo, strano per uno spa-gnolo, Tirso de Molina. L’analisi ha in ogni caso degli spunti e riflette anche sul ruolo delle cita-zioni delle arie mozartiane tra una scena e l’al-tra della Maraini. Certo il riferimento a Brecht, che pure, come ben si ricorda, è molto presen-te nell’opera marainiana, appare un po’ debo-le, anzi del tutto peregrino, per questo dramma. Nel suo insieme però, anche con la buona rifles-sione sul finale, l’articolo ha un suo valore.

Dilonardo scrive un articolo dal titolo “Dia-logo di una prostituta con il suo cliente” e “Pas-si affrettati”: una drammaturgia tra cronaca, rac-conto e memoria. Partendo dagli aspetti positivi, bisogna riconoscere l’intelligenza della scelta di due testi così lontani, nei tempi e nelle modali-tà, scelta che avrebbe, non uso il condizionale a caso, permesso una luminosa analisi del percor-so drammaturgico marainiano. Ma Dilonardo si ferma molto prima, fa una precisa, ma descrit-tiva analisi delle tipologie di clienti presenti nel Dialogo… e poi si perde. Cita, è vero, Veronica Franco, meretrice e scrittora, Una casa di donne, Pazza d’amore, ma di sfuggita, senza dar loro la possibilità di evidenziare una trasformazione. L’analisi più che nella letteratura sembrerebbe voler sfociare nella pura sociologia, salvo l’ag-giustamento finale, la citazione di Paolo Grassi sulla funzione del teatro. Vengono riportati fat-ti di cronaca, ma l’esemplificazione appare inu-tile, visto che, Passi affrettati è di per sé scritto a partire da fatti realmente accaduti. Dilonardo mette in campo addirittura statistiche “fai da te” desunte da un’arbitraria ricerca su parole chia-ve fatta con il motore Google! Non c’è un meto-do, ma solo accenni presto abbandonati di ana-lisi testuale e intertestuale. Due difetti appaiono però macroscopici. Il giovane studioso si autoci-ta a sproposito nella bibliografia finale e cita an-

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che, stavolta a proposito, ma nel corpo dell’ar-ticolo non c’è traccia di questo riferimento, Per proteggerti meglio, figlia mia, su cui in effetti sa-rebbe stato giusto spendere due parole. La se-conda mancanza è nel citare Buio, senza ricor-dare al lettore che l’ultima storia di Passi affret-tati, quella di Viollka, deriva proprio da lì. Il ri-sultato è un articolo parziale, anche sintattica-mente ingessato, che non sa raggiungere le vette cui sembrava, e con buon intuito, votato.

Encomiabile sotto ogni aspetto l’intervento di Giorgio Taffon, uno dei massimi esperti italia-no del teatro marainiano: Parola e dialogo (mo-nologo) nel teatro di Dacia Maraini. Con eleganza formale e profondità di analisi, lo studioso entra nel cuore vivo e pulsante dei meccanismi sottesi alla drammaturgia della Maraini. Brillantissimo e fondamentale il richiamo a tutti gli artisti, evi-dentemente ben noti a Taffon, che sono entra-ti in relazione con la scrittrice e oggi sono spes-so grandi talenti riconosciuti dal Teatro “ufficia-le”. Puntuale e tagliente, la memoria di Taffon non dimentica chi interpretò o diresse i primi testi della raccolta Fare teatro: Carlo Cecchi, Pa-olo Bonacelli, Paolo Graziosi, Laura Betti, Ro-berto Guicciardini, Peter Hartman, Bruno Ci-rino etc. Taffon non menziona poi a caso altri grandi nome del teatro, da Ronconi a Piera De-gli Esposti, ad Anna Maria Guarnieri e così via: richiamarli alla memoria dei lettori significa sot-tolineare lo stupore per una Maraini non an-cora davvero accettata, nella sua complessità, dai circuiti (dalle lobbies, come dice lo studio-so) dello stravagante sistema teatrale italiano. Ma l’articolo di Taffon va ben oltre una denun-cia di quell’Accademia spesso pregiudizialmen-te (e spregiudicatamente) (in)sufficiente verso la drammaturgia contemporanea (e verso le dram-maturghe!), Taffon parla anche di linguaggio, ci-tando efficacemente alcune osservazioni di Gio-

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vanardi sulla lingua colloquiale, ricollegandosi quindi a certe peculiarità stilistiche dei dialo-ghi marainiani, alla scelta di un linguaggio per l’appunto “colloquiale” che però può spesso tro-vare, nello stesso personaggio, improvvisi slan-ci e trasformazioni, divenendo “polifonia”. Solo nell’osservazione sulle descrizioni del cibo non concordo del tutto, perché se da una parte è vero che l’attenzione ai dettagli della cucina può essere tipica di una scrittura femminile, non va dimenticato il complicato e sensuale rapporto della Maraini con la materia gastronomica, una passione che nasce dall’esperienza della priva-zione e della fame vissuta in Giappone, nel cam-po di concentramento (di questo parla anche l’i-nedito finale: Inadeguatezza).

L’articolo di Taffon entra poi nel merito di alcuni testi, tratteggiando con abilità taluni aspetti della relazione donna-autorità. Ecco al-lora che in veloce sequenza lo studioso si soffer-ma su Mela, Stravaganza, Suor Juana, Veronica Franco, meretrice e scrittora, Per proteggerti me-glio, figlia mia, approdando ad una conclusione che vale da sola l’intera, ahimè non ben segna-lata dall’editore, seconda sezione, dedicata al teatro. Taffon riassume tutto il senso di quel te-atro marainiano, che attraverso l’aristotelico ve-rosimile, come ricorda, porta al vero e alla vita, e con i suoi successi e i suoi fallimenti, delinea un universo drammaturgico marainiano auto-nomo e non inferiore a quello degli altri grandi maestri del teatro del Novecento.

Sonia Ravanelli apre la breve sezione del li-bro dedicata alle relazioni tra l’opera letteraria di Dacia Maraini e il cinema con un articolo inti-tolato: Confronto tra il romanzo “Memorie di una ladra” e il film “Teresa la ladra” di Carlo di Pal-ma. Lo stile della studiosa è piano e gradevole, il suo linguaggio talora fin troppo quotidiano, ma efficace. Con una certa tensione didascalica la

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Ravanelli, dopo una breve introduzione e il rias-sunto del romanzo, fa alcune riflessioni teoriche generali sul confronto tra romanzo e film. L’ana-lisi viene portata avanti con agilità, la studiosa si sofferma sulla trama, i personaggi, la rappre-sentazione del tempo, la dimensione spaziale, il narratore; mette poi a confronto, a titolo esem-plificativo, alcuni brani letterari con le sequen-ze cinematografiche. In conclusione la Ravanel-li afferma che la trasposizione cinematografica è valida e appare tanto più felice nei momenti in cui Di palma non cerca di imitare pedantemen-te il romanzo.

Ricco di dati e di sapienza, il saggio di Cin-zia Samà: Marianna Ucrìa: in scena dalla pagina allo schermo. La studiosa dispensa informazioni difficili da reperire sulla Maraini sceneggiatrice filmica e televisiva e si riferisce, con note genero-se, a una bibliografia specifica che mostra quan-to (almeno) il personaggio di Marianna, nelle sue differenti ipostasi (narrativa, teatrale, cinemato-grafica), abbia dato vita a un dibattito critico di livello. La Samà è molto precisa e porta avanti quasi con acribia la sua analisi, così divisa: in-troduzione, gli adattamenti, i personaggi (i geni-tori e la nonna; lo zio marito, Saro, gli altri per-sonaggi maschili), alcuni temi fondamentali e lo stile (la menomazione di Marianna, la metamor-fosi di Marianna, lo stile e la struttura), conclu-sioni. Come si può notare il saggio ha un carat-tere molto descrittivo, ma non rinuncia a porre alcune problematiche sulla trasposizione (filmi-ca o teatrale). Più ricco e proficuo è il confronto con il film. D’altronde la pellicola gode di una re-alizzazione completa, mentre la riflessione sul-la drammaturgia resta inevitabilmente limitata se non si prende meglio in considerazione anche l’esito della messa in scena, cioè del lavoro di Puggelli. Lo scritto è arricchito inoltre da stralci di un’intervista inedita a Dacia Maraini.

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Esemplare è il saggio di María Consuelo de Frutos Martinez: Las traducciones castellanas de Dacia Maraini: sus paratextos. La studiosa presenta un documentassimo panorama delle traduzioni castigliane delle opere di Dacia Ma-raini, prestando grande attenzione agli aspetti paratestuali: la quarta di copertina, gli artico-li di critica riprodotti. Moltissimo spazio è riser-vato inoltre alla composizione grafica delle co-pertine nelle differenti edizioni. La de Frutos fo-tografa la ricezione della Maraini a partire dal 1962, anno del Formentor, ai giorni nostri, sof-fermandosi con dovizia di particolari sulle sin-gole opere con degli appositi capitoletti. La stu-diosa individua alcune cause principali della mancata diffusione dell’opera marainiana pres-so il grande pubblico spagnolo: censura fran-chista (dannosa in particolare per L’età del ma-lessere), carenza quantitativa e spesso qualita-tiva delle traduzioni, errori nelle scelte parate-stuali, mancata diffusione dei film (in particola-re di Marianna Ucría).

La de Frutos conclude affermando che Da-cia Maraini è conosciuta soprattutto per le sue opere narrative e teatrali in cui più forte è la riflessione sulla tematica femminile, auspica inoltre una maggiore diffusione dell’opera della scrittrice, lasciando intendere chiaramente che in Spagna la Maraini è conosciuta per lo più da un pubblico di lettori di nicchia. Molto ricco e articolato, il saggio si fa carico dell’intera sezio-ne IV, sulle traduzioni dell’opera marainiana, ed è un validissimo strumento di comprensione.

Niva Lorenzini, nota specialista di poesia italiana, affronta alcuni aspetti della produzione poetica marainiana, soffermandosi in particola-re sull’opera: Crudeltà all’aria aperta. L’analisi della studiosa si distingue per l’intelligenza con cui la raccolta viene contestualizzata nel pano-rama poetico dell’Italia degli anni Sessanta, ma

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nondimeno per la lucidità con cui, pur non pre-tendendo di esaurire la riflessione, la Lorenzini entra nel merito del testo poetico, evidenziando-ne alcuni aspetti generali, come l’incidenza di una scrittura della corporalità, ma anche la ric-chezza retorica. Un intervento che mette in ri-lievo, come dice il titolo, Poesia e disarmonia, il complesso rapporto tra l’autrice e il padre, de-scritto nella raccolta. Altri punti importanti se-gnalati dalla studiosa sono la compresenza di “concretezza e visionarietà”nella scrittura poeti-ca della Maraini e alcune analogie con l’opera di Amelia Rosselli. L’articolo resta, rispetto all’am-piezza di argomentazione necessaria al sogget-to trattato, un intervento sintetico e dimostra-tivo, epifenomeno di una ricerca evidentemente più profonda, che non poteva trovare spazio nel tempo ristretto di una relazione.

Scherzi d’amore. Antologia poetica multilin-gue è la trascrizione di un simpatico esperimen-to di traduzione parallela italiano-inglese-spa-gnolo, messo in atto durante il convegno. Come dice il titolo stesso si tratta di un divertissement, sarebbe stato però importante indicare in nota da quale raccolta provenissero i singoli compo-nimenti.

Nella sesta e ultima parte sono riportati il dibattito finale, in cui emergono utili precisazio-ni, come ad esempio il problema della scelta dei titoli, e uno scritto inedito di Dacia Maraini: Ina-deguatezza. Benché breve questo inedito della Maraini tocca dei punti di grande rilevanza. Pri-ma troviamo una riflessione sulla memoria, sul-la sua importanza e sulla formazione di una me-moria al femminile nata dalla posizione margi-nale e spesso dolorosa in cui hanno vissuto le donne nei secoli, poi la Maraini prova a formula-re uno dei motivi alla base del suo essere scrit-trice: “[…] è stata proprio l’inadeguatezza a spin-germi verso la scrittura. Mi trovavo infatti molto

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meglio a scrivere che non a parlare. La scrittura era il luogo dell’incontro prestabilito, pacificato, con delle regole”. Poco più di una paginetta è de-dicata infine al ricordo del campo di concentra-mento, al rapporto con il cibo che è derivato dal-la tremenda esperienza con la fame, una fame che però portava anche a immaginare continua-mente prelibate, quanto inesistenti, pietanze. Il breve scritto porta in sé la promessa di un libro sui due anni passati in campo di concentramen-to, un libro che la memoria ha finora impedito, ma che forse prima o poi vedrà la luce.

Scrittura civile è un lavoro vastissimo e quanto mai diversificato che apre nuove pro-spettive critiche per gli studi sull’opera di Da-cia Maraini. L’eterogeneità riflette ovviamente, nonostante la selezione e dunque il filtro del de Miguel, le numerose voci che si sono alternate al convegno di Valencia e ognuno resta respon-sabile del suo intervento. Apprezzabilissimo è lo sforzo con cui de Miguel è riuscito a concentra-re tanta riflessione critica e spesso di così ele-vata qualità. Lo studioso spagnolo ha compiuto un’operazione che descrive il suo profondo spi-rito di ricerca scientifica, la sua intelligenza nel-la volontà di una collaborazione allargata per af-frontare un’opera che, data la sua complessità, vastità e varietà, difficilmente potrebbe essere indagata tutta intera con successo da un punto di vista individuale. Auspichiamo tuttavia, an-che dal de Miguel stesso, la fioritura di puntuali monografie, che, con i giusti spazi di argomen-tazione, possano indagare esaustivamente sin-goli aspetti dell’opera marainiana e, perché no, sviluppare alcuni dei moltissimi spunti offerti da Scrittura civile.

EugEnio Murrali(Ecole des Hautes Etudes

en Sciences Sociales - Paris)

Indice del fascicolo

Poetiche 3/2012

255 Fausto Curi

Struttura del risveglio

263 ElisabEtta CaldEroni

D’Annunzio romano, dandy imperfetto

295 Elvira Ghirlanda

Le biciclette e il mito di Alcina in Giorgio Caproni

325 FEdEriCo FastElli

Il nuovo come apocalisse, ovvero l’avanguardia all’alba della postmodernità

343 andrEa lEttiEri

Pirandello. Il Soffio di un Angelus Novus

365 Juan Carlos dE MiGuEl y Canuto

La strada che conduce a Natalia Ginzburg: il lessico famigliare visto dall’interno

397 Elisa MartínEz Garrido

Sentire il mondo, pensare la realtà. Due scritti politici di Elsa Morante

423 valEntina Maini

Beckett e Rosselli, tra spazi e movimento

453 albErto CoMparini

Appunti per una storia della poesia moderna italiana

479 Recensioni

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2)

Poeticherivista di letteratura

Vol. 14, n. 36 (3 2012)

ISSN 1124-9080

Indice

255 Fausto Curi

Struttura del risveglio

263 ElisabEtta CaldEroni

D’Annunzio romano, dandy imperfetto

295 Elvira Ghirlanda

Le biciclette e il mito di Alcina in Giorgio Caproni

325 FEdEriCo FastElli

Il nuovo come apocalisse, ovvero l’avanguardia all’alba della postmodernità

343 andrEa lEttiEri

Pirandello. Il Soffio di un Angelus Novus

365 Juan Carlos dE MiGuEl y Canuto

La strada che conduce a Natalia Ginzburg: il lessico famigliare visto dall’interno

397 Elisa MartínEz Garrido

Sentire il mondo, pensare la realtà. Due scritti politici di Elsa Morante

423 valEntina Maini

Beckett e Rosselli, tra spazi e movimento

453 albErto CoMparini

Appunti per una storia della poesia moderna italiana

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Poetiche - Quid novi? 3 del 2012Poste italiane Spa - Sped. Abbon. Postale - D.L. 353/2003(conv. in L. 27/02/2004 N. 46) art. 1, comma 1 DCB, Modena CPOPrezzo del presente fascicolo € 22,00 i.c. Mucchi Editore