Pilingo

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Betto Balon PILIGNO (1997)

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Calimero Giorgiutti si era appena seduto sulla sedia di pelle disegnata da sua moglie Anna quando il telefono posto sulla scrivania iniziò a squillare. Tamburellando le dita sul tavolo Calimero pensava che non avrebbe risposto a quel telefono. Ormai lo faceva da anni e, nonostante ciò, non era diventata una cosa automatica: ci doveva pensare. Lasciò squillare finché quello smise.

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Betto Balon

PILIGNO

(1997)

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Calimero Giorgiutti si era appena seduto sulla sedia di pelle disegnata da sua moglie Anna quando il telefono posto sulla scrivania iniziò a squillare. Tamburellando le dita sul tavolo Calimero pensava che non avrebbe risposto a quel telefono. Ormai lo faceva da anni e, nonostante ciò, non era diventata una cosa automatica: ci doveva pensare. Lasciò squillare finché quello smise.

Calimero Giorgiutti aveva esordito non giovanissimo, quasi sessantenne, con una serie di otto racconti-fiabe (che negli anni a venire sarebbero state definite "alla Giorgiutti") che sconvolsero il sonnacchioso salotto letterario di quell'epoca. Questi suoi primi lavori gli erano valsi diversi premi e menzioni sulle pagine delle riviste specializzate. Da quel giorno in poi fu un crescendo rossiniano inarrestabile, la sua prosa fresca e i i suo lirismo tenue ma deciso erano di venuti il suo marchio di fabbrica.

A due anni dall'esordio arriva addirittura la consacrazione nell'olimpo degli dei con il ricevimento del Premio Nobel. Instancabile macchina da libri, sfornava opere su opere a rotta di collo, lasciando a bocca aperta gli addetti ai lavori. Non solo scriveva divinamente ma lasciava addirittura sbalorditi nei discorsi o nelle interviste che rilasciava di tanto in tanto. Ascoltare quella voce calda, pastosa, quasi ipnotica era sempre un'esperienza straordinaria. Poteva parlare di qualsiasi cosa il pubblico lo seguiva sveglio ed attento. D'improvviso, in un giorno come tanti altri, quella voce magica si spense e la bocca non si aprì più. Il silenzio. Un silenzio, purtroppo, anche letterario: la sua produzione si arrestò bruscamente. Nessuno, a dire il vero, si era reso conto che erano passati già trent'anni dal suo esordio e che in questi trent'anni aveva pubblicato circa milleseicento libri. Nell'ambiente letterario si diceva che, forse, avesse voluto prendersi un po' di riposo. D'altra parte nessuno sapeva quanti anni avesse il "Grande Calimero"; chi diceva novanta, chi ottanta, chi, favoleggiando, lo credeva immortale. Calimero Giorgiutti si passò una mano tra i folti capelli bianchi e sbuffò.

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Aveva di fronte a sé il giornale del giorno passato che lo guardava con aria di sfida. In terza pagina articolo di Paolo Osacchi tuonava con ferocia contro l'editoria per ragazzi, caduta nella crisi più profonda, e si chiedeva se mai sarebbe nato un altro "Grande Calimero" a far sognare gli uomini-bambino come lui. Il Grande Calimero sorrise e piegò il giornale. Si guardò le dita leggerissimamente annerite dal giornale, le annusò e sbuffò. Appoggiò la testa all'indietro sulla sedia e chiuse gli occhi. Pensò alla stranezza dell'animo umano: quando si è giovani non si fa altro che attendere di diventare grandi e quando si è grandi di rimpiangere il fatto di non essere più giovani. Non capì perché penso a quella cosa, ma tanto bastò per fargli passare dieci minuti in assoluta meditazione, al termine dei quali il suo sguardo cadde sul primo cassetto della scrivania che aveva di fronte. Lo fissò torvamente e si mordicchiò un pollice. Sbuffò ancora. Avvicinò la mano al cassetto, ci tamburellò sopra per qualche secondo e lo aprì. Ne tirò fuori un sottile libricino, di tale Ermanno Felani, intitolato "Parole": sei racconti "stile Giorgiutti" che, purtroppo, non aggiungevano nulla al panorama letterario. Era stato pubblicato recentemente da una casa editrice indipendente e non aveva riscosso un gran successo. Ma il Grande Calimero era rimasto colpito da un racconto, "Piligno, il paese della scrittura". Sarà stata la cinquantesima volta che si accingeva a leggerlo, ed ogni volta era assalito da un'ansia fastidiosa. Si avvicinò con la sedia al bordo del tavolo ed iniziò a leggere.

<C'era una volta un paesino che tutti chiamavano Piligno ma del quale nessuno conosceva l'esatta ubicazione. I pochi fortunati che avevano avuto l'occasione di capitarvi non sarebbero stati in grado di arrivarci una seconda volta. Sembrava che il pesino avesse un proprio cammino da seguire. C'era chi lo aveva visto in montagna, incastonato in valli meravigliose, e chi al mare, tra palme e sabbie bianche. Di certo tutti conoscevano le bizzarre abitudini dei suoi cittadini. A Piligno nessuno

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parlava. Non che fossero muti, tutt'altro, (noti a tutti erano, infatti, i Cantori di Piligno) la realtà era che non sapevano parlare. Ma adoravano scrivere, anzi, preferivano scrivere. Chi vi è stato non mai stato trattato male o cacciato via, di questo si è certi, ma non si può nemmeno dire che ci si sarebbe tornati con entusiasmo. Perché? Ma perché a Piligno si viveva in un dimensione assolutamente straordinaria: la comunicazione avveniva attraverso i messaggi, milioni di milioni, che gli abitanti si scambiavano abitualmente. Carta e penna erano considerati più preziosi dell'oro. Si scriveva per chiedere qualcosa, per dire qualcosa, per pensare qualcosa. Le case erano stracolme di carta, di penne, di libri. Si diceva che tutti, dal lattaio allo stalliere, fossero dei grandi scrittori, ma grandi davvero. C'era chi aveva diversi romanzi da duemila pagine ciascuno, e chi si divertiva a riempire poche, ma splendide, pagine di quaderno. Nessuno, però, aveva mai pubblicato niente, quantomeno fino a quando viveva in paese. Già! Perché ad una certa età la gente abbandonava Piligno, e quando se ne andava non scriveva mai una lettera od una cartolina. In pratica succedeva questo: uomo e donna si conoscevano, si guardavano un po', si annusavano, si scrivevano e facevano all'amore. Ne uscivano sempre una bambina e un bambin, sempre. Dopo qualche anno il padre prendeva con sé la bambina, e la madre il bambino, e si lasciavano, cercando un'altro padre con una bambina (per la madre) e un'altra madre con un bambino (per il padre). Li trovavano ed il ciclo continuava. E i bambini e le bambine? Si scrivevano delle lettere dalla mattina alla sera. Ad una certa età, i padri e le madri decidevano di lasciare i loro figli (ormai abbastanza grandi) presi dal desiderio irresisitbile di parlare, e si allontanavano dal paesino senza farvi più ritorno. Non si avevano più loro notizie, o quasi: c'erano i quotidiani, e così i giovani sorridevano quando leggevano gli articoli o scoprivano le fotografie che ritraevano i loro vecchi divenuti celebri scrittori. Sorridevano pensando ai bagagli stracolmi di manoscritti che i genitori si portavano appresso il giorno della partenza, sorridevano del

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loro desiderio di parlare e del loro successivo silenzio verso Piligno. Incomprensioni generazionali, si diceva, anzi, si scriveva. Talora i figli non reagivano, talora avvenivano patricidi e matricidi come piovessero, a seconda delle stagioni. A ben vedere, non esistevano i vecchi in questo paesino? I vecchi non tornavano più. Si racconta che il fondatore di Piligno fosse stato un giovane che, esasperato dalla vita che conduceva in città, si rifugiò in questo "non si sa dove" assieme alla propria fidanzata. I due decisero che non si sarebbero mai più parlati, ma soltanto scritti. E così fu. Questo accadde tanto tanto tempo fa, talmente lontano nella memoria che quasi non lo si scrive più. Purtroppo ora Piligno non è più. Un terribile morbo devastò il paesino della scrittura. Un morbo annientatore portato da un viaggiatore pieno di rancore e di odio nei confronti di tutto e di tutti. E fu proprio costui a portare la parola a Piligno, insidiandosi nella gente come un serpente, dando loro l'illusione che la musica della parola li avrebbe resi delle divinità. E l'uomo è debole, e l'uomo cade. Piligno si disintegrò su sé stessa, tristemente ed irrimediabilmente. Ma anche se Piligno ha smesso di essere, nessuno dimenticherà mai che dalla sua porta uscirono le migliori penne della nostra letteratura. FINE>

Calimero rimase immobile, fissando la parola FINE. Iniziò a tamburellare le dita sulla scrivania, cercando di ottenere un ritmo bluesy. Sorrise, pensando al fatto che scrittori come questo Felani, alquanto insipido nella sua prosa, fossero in grado di pubblicare le loro...cazzate! Lo disturbava pensare una cosa del genere, però non poteva farne a meno. Aveva la mascella destra indolenzita e si rese conto di aver masticato nervosamente durante tutta la lettura del racconto. Chiuse gli occhi e si abbandonò sulla sedia come sfinito. All'improvviso proruppe in un urlo animalesco che fece saltare in piedi l'infermiera che si trovava nella camera accanto. La poveretta spalancò la porta senza bussare trovando il vecchio Calimero comodamente

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seduto ed intento a scrivere qualcosa su di un bigliettino. Quando la vide gli venne quasi da ridere: gli occhi sbarrati ed il cappellino bianco scomposto tra i capelli castani. Le fece un cenno gentile con la manopoiché si avvicinasse. Lei era ancora rossa in viso ed un poco seccata, lui la guardò con uno sguardo da bambino innocente e le allungò il biglietto che lei lesse avidamente: "Avevo soltanto voglia di urlare, mi perdoni". L'infermiera si allontanò scuotendo la testa e chiuse la porta dietro di sé. Il Grande Calimero sorrise e pensò che vita del primo ed ultimo abitante di Piligno si stava lentamente, inesorabilmente, silenziosamente consumando. Ma non lo sapeva nessuno.