Pico della Mirandola Oratio de hominis dignitate 1496
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Pico della Mirandola Oratio de hominis dignitate - 1496
§ 1
1. Legi, Patres colendissimi, in Arabum
monumentis, interrogatum Abdalam
sarracenum, quid in hac quasi mundana
scena admirandum maxime spectaretur,
nihil spectari homine admirabilius
respondisse.
2. Cui sententiae illud Mercurii
adstipulatur: «Magnum, o Asclepi,
miraculum est homo».
§ 2
3. Horum dictorum rationem cogitanti
mihi non satis illa faciebant, quae multa
de humanae naturae praestantia
afferuntur a multis: esse hominem
creaturarum internuntium, superis
familiarem, regem inferiorum; sensuum
perspicacia, rationis indagine,
§ 1
1. Ho letto, molto venerabili Padri,
nelle fonti degli Arabi che Abdalla
Saraceno interrogato su che cosa, in
questa sorta di scena del mondo,
scorgesse di sommamente mirabile,
rispose che non scorgeva nulla di più
mirabile dell’uomo.
2. Con questo detto concorda quello di
Mercurio: «Grande miracolo, o
Asclepio, è l’uomo».
§2.
3. A me che pensavo al senso di queste
affermazioni non erano sufficienti le
molte cose che da molti sono addotte
circa l’eccellenza della natura umana:
che l’uomo è principio di
comunicazione tra le creature, familiare
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intelligentiae lumine, naturae
interpretem; stabilis evi et fluxi
temporis interstitium, et (quod Persae
dicunt) mundi copulam, immo
hymeneum, ab angelis, teste Davide,
paulo deminutum.
§ 3
4. Magna haec quidem, sed non
principalia, idest quae summae
admirationis privilegium sibi iure
vendicent.
5. Cur enim non ipsos angelos et
beatissimos caeli choros magis
admiremur?
6. Tandem intellexisse mihi sum visus,
cur felicissimum proindeque dignum
omni admiratione animal sit homo, et
quae sit demum illa conditio quam in
universi serie sortitus sit, non brutis
modo, sed astris, sed ultramundanis
mentibus invidiosam.
7. Res supra fidem et mira.
8. Quidni? Nam et propterea magnum
miraculum et admirandum profecto
animal iure homo et dicitur et
existimatur.
9. Sed quae nam ea sit audite, Patres, et
benignis auribus pro vestra humanitate
hanc mihi operam condonate.
§ 4
10. Iam sum[m]us Pater architectus
Deus hanc quam videmus mundanam
domum, divinitatis templum
augustissimum, archanae legibus
sapientiae fabrefecerat.
11. Supercelestem regionem mentibus
decorarat; ethereos globos aeternis
animis vegetarat; excrementarias ac
feculentas inferioris mundi partes
omnigena animalium turba complerat.
12. Sed, opere consumato, desiderabat
artifex esse aliquem qui tanti operis
rationem perpenderet, pulchritudinem
alle superiori, sovrano sulle inferiori;
per la perspicacia dei sensi, per
l’indagine razionale e per il lume
dell’intelligenza interprete della natura;
interstizio tra la fissità dell’eterno e il
flusso del tempo e (come dicono i
persiani) copula, anzi imeneo del
mondo, rispetto agli angeli (ne dà
testimonianza Davide) solo un poco
inferiore.
§ 3.
4. Cose grandi queste, ma non le
principali, tali cioè da consentirgli di
rivendicare a buon diritto il privilegio
della somma ammirazione.
5. Perché, infatti, non ammirare di più
gli stessi angeli e i beatissimi cori del
cielo?
6. Alla fine è sembrato di aver capito
perché l’uomo sia tra gli esseri viventi
il più felice e quindi il più degno di
ammirazione, e quale sia alfine, nella
concatenazione del tutto, la condizione
che egli ha avuto in sorte, che non solo
i bruti, ma anche gli astri, ma anche le
intelligenze ultraterrene gli invidiano.
7. Cosa incredibile e mirabile.
8. E come altrimenti? Giacché è a causa
di quella, propriamente, l’uomo è detto
e stimato un grande miracolo e un
meraviglioso essere animato.
9. Ma quale sia udite, Padri e con
orecchio benigno, conforme alla vostra
umanità, siate indulgenti verso questa
mia opera.
§ 4. Il racconto della creazione
10. Già il sommo Padre, Dio architetto
aveva foggiato questa dimora del
mondo, che noi vediamo, il tempio
augustissimo della divinità, secondo le
leggi della sapienza arcana.
11. Aveva ornato con le intelligenze la
regione iperurania; aveva animato i
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amaret, magnitudinem admiraretur.
13. Idcirco iam rebus omnibus (ut
Moses Timeusque testantur) absolutis,
de producendo homine postremo
cogitavit.
14. Verum nec erat in archetipis unde
novam sobolem effingeret, nec in
thesauris quod novo filio hereditarium
largiretur, nec in subselli[i]s totius
orbis, ubi universi contemplator iste
sederet.
15. Iam plena omnia; omnia summis,
mediis infimisque ordinibus fuerant
distributa.
16. Sed non erat paternae potestatis in
extrema faetura quasi effeta defecisse;
non erat sapientiae, consilii inopia in re
necessaria fluctuasse; non erat benefici
amoris, ut qui in aliis esset divinam
liberalitatem laudaturus in se illam
damnare cogeretur.
§ 5
17. Statuit tandem optimus opifex, ut
cui dari nihil proprium poterat
commune esset quicquid privatum
singulis fuerat.
18. Igitur hominem accepit indiscretae
opus imaginis atque in mundi positum
meditullio sic est alloquutus: «Nec
certam sedem, nec propriam faciem,
nec munus ullum peculiare tibi
dedimus, o Adam, ut quam sedem,
quam faciem, quae munera tute
optaveris, ea, pro voto, pro tua
sententia, habeas et possideas.
19. Definita caeteris natura intra
praescriptas a nobis leges cohercetur.
20. Tu, nullis angustiis cohercitus, pro
tuo arbitrio, in cuius manu te posui, tibi
illam prefinies.
21. Medium te mundi posui, ut
circumspiceres inde comodius quicquid
est in mundo.
globi eterei di anime eterne; aveva
riempito le parti escrementizie e sozze
del mondo inferiore con turba di
animali di ogni specie.
12. Ma, compiuta l’opera, l’artefice
desiderava che vi fosse qualcuno che
sapesse apprezzare il significato di
tanto lavoro, che ne sapesse amare la
bellezza, ammirarne la grandezza.
13. Perciò, terminata ogni cosa, come
attestano Mosè e Timeo, pensò alla fine
di produrre l’uomo.
14. Ma tra gli archetipi non c’era di che
dar formare la nuova progenie, non
c’era nei tesori qualcosa a elargire in
eredità al figlio, non c’era tra i seggi di
tutto il mondo, dove potesse sedere il
contemplatore dell’universo.
15. Tutto era ormai pieno; tutto era
stato distribuito tra gli ordini, sommi,
medi, infimi.
16. Ma sarebbe stato tuttavia indegno
della potestà paterna venir meno in
quest’ultimo parto, quasi fosse incapace
di generare; indegno della sapienza,
ondeggiare per mancanza di consiglio
in un’opera necessaria; indegno
dell’amore benefico che colui che
avrebbe lodato negli altri la divina
liberalità fosse indotto a condannarla a
suo riguardo.
§ 5. Il discorso di Dio all’uomo
17. Stabilì infine l’attimo artefice che a
colui cui non si poteva dare nulla di
proprio fosse comune quanto
apparteneva ai singoli.
18. Prese perciò l’uomo, opera
dall’immagine non definita, e postolo
nel mezzo del mondo così gli parlò:
«Non ti abbiamo dato, o Adamo, una
dimora certa, né un sembiante
proprio, né una prerogativa peculiare
affinché avessi e possedessi come
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22. Nec te celestem neque terrenum,
neque mortalem neque immortalem
fecimus, ut tui ipsius quasi arbitrarius
honorariusque plastes et fictor, in
quam/132v/ malueris tute formam
effingas.
23. Poteris in inferiora quae sunt bruta
degenerare; poteris in superiora quae
sunt divina ex tui animi sententia
regenerari».
§ 6
24. O summam Dei patris liberalitatem,
summam et admirandam hominis
foelicitatem!
25. Cui datum id habere quod optat, id
esse quod velit.
26. Bruta simul atque nascuntur id
secum afferunt (ut ait Lucilius) e bulga
matris quod possessura sunt.
27. Supremi spiritus aut ab initio aut
paulo mox id fuerunt, quod sunt futuri
in perpetuas aeternitates.
28. Nascenti homini omnifaria semina
et omnigenae vitae germina indidit
Pater.
29. Quae quisque excoluerit illa
adolescent, et fructus suos ferent in illo.
30. Si vegetalia planta fiet, si sensualia
obrutescet, si rationalia caeleste evadet
animal, si intellectualia angelus erit et
Dei filius.
31. Et si nulla creaturarum sorte
contentus in unitatis centrum suae se
receperit, unus cum Deo spiritus factus,
in solitaria Patris caligine qui est super
omnia constitutus omnibus antestabit.
§ 7
32. Quis hunc nostrum chamaeleonta
non admiretur?
33. Aut omnino quis aliud quicquam
admiretur magis?
34. Quem non immerito Asclepius
Atheniensis versipellis huius et se
desideri e come senti la dimora, il
sembiante, le prerogative che tu da te
stesso avrai scelto. 19.La natura agli altri esseri, una
volta definita, è costretta entro le
leggi da noi dettate.
20. Nel tuo caso sarai tu, non
costretto da alcuna limitazione,
secondo il tuo arbitrio, nella cui
mano ti ho posto, a decidere su di
essa.
21. Ti ho posto in mezzo al mondo,
perché di qui potessi più facilmente
guardare attorno a quanto è nel
mondo.
22. Non ti abbiamo fatto né celeste né
terreno, né mortale né immortale,
perché come libero, straordinario
plasmatore e scultore di te stesso, tu
ti possa foggiare da te stesso nella
forma che avrai preferito.
23. Potrai degenerare negli esseri
inferiori, che sono i bruti; potrai
rigenerarti, secondo la tua decisione,
negli esseri superiori, che sono
divini».
6. §
24. O somma liberalità di Dio Padre,
somma e mirabile felicità dell’uomo!
25.
Al quale è dato avere ciò che desidera,
essere ciò che vuole.
26. I bruti nascendo recano seco (come
dice Lucilio) dall’utero della madre
tutto ciò che possederanno.
27. Gli spiriti superni o sin dall’inizio o
poco dopo diventarono quello che
saranno nelle perpetue eternità.
28. Nell’uomo nascente il Padre infuse
semi di ogni tipo e germi d’ogni specie
di vita.
29. I quali cresceranno in colui che li
avrà coltivati e in lui daranno i loro
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ipsam transformantis naturae
argumento per Protheum in mysteriis
significari dixit.
35. Hinc illae apud Hebreos et
Pythagoricos methamorphoses
celebratae.
§ 8
36. Nam et Hebreorum theologia
secretior nunc Enoch sanctum in
angelum divinitatis, quem vocant
malakh hasheckinah nunc in alia alios
numina reformant.
37. Et Pythagorici scelestos homines in
bruta deformant et, si Empedocli
creditur, etiam in plantas.
38. Quos imitatus Maumeth illud
frequens habebat in ore, qui a divina
lege recesserit brutum evadere, et
merito quidem.
39. Neque enim plantam cortex, sed
stupida et nihil sentiens natura; neque
iumenta corium, sed bruta anima et
sensualis; nec caelum orbiculatum
corpus, sed recta ratio; nec sequestratio
corporis, sed spiritalis intelligentia
angelum facit.
40. Si quem enim videris deditum
ventri, humi serpentem hominem,
frutex est, non homo, quem vides; si
quem in fantasiae quasi Calipsus vanis
praestigiis cecucientem et subscalpenti
delinitum illecebra sensibus
mancipatum, brutum est, non homo,
quem vides.
41. Si recta philosophum ratione omnia
discernentem, hunc venereris; caeleste
est animal, non terrenum.
42. Si purum contemplatorem corporis
nescium, in penetralia mentis
relegatum, hic non terrenum, non
caeleste animal: hic augustius est
numen humana carne circumvestitum.
§ 9
frutti. Se vegetale, diventerà pianta; se
legato ai sensi abbrutirà. Se razionale,
riuscirà animale celeste. Se spirituale,
sarà angelo e figlio di Dio.
31. E se, non contento della sorte di
nessuna creatura, si raccoglierà nel
centro della sua unità, fattosi uno spirito
solo con Dio, nella solitaria caligine del
Padre, colui che è collocato sopra tutte
le cose su tutte primeggerà.
§ 7.
32. Chi non ammirerà questo nostro
camaleonte?
33. O piuttosto chi ammirerà
qualsivoglia altro [essere] di più?
34. Non a torto, Asclepio Ateniese
disse di lui che, per la sua natura
cangiante e metamorfica, nei misteri si
manifestava attraverso Proteo.
35. Di qui quelle metamorfosi celebrate
presso gli Ebrei e i Pitagorici.
§ 8.
36. Infatti anche la più segreta teologia
degli Ebrei ora trasforma Enoch santo
nell’angelo della divinità, che chiamano
Metatron, ora in altri spiriti numinosi.
37. E i Pitagorici deformano gli uomini
scellerati in bruti e, se si crede a
Empedocle, anche in piante.
38. Imitando costoro Maometto
ripeteva spesso e a ragione che chi si è
allontanato dalla legge divina riesce un
bruto.
39. Infatti non è la corteccia che fa la
pianta, ma la natura stordita e non
senziente; non il cuoio che fa la
giumenta ma l’anima bruta e sensuale;
non il corpo circolare che fa il cielo, ma
la retta ragione; non la separazione dal
corpo che fa l’angelo, ma l’intelligenza
spirituale.
40. Se vedrai qualcuno dedito al ventre
strisciare per terra, non è uomo quello
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43. Ecquis hominem non admiretur?
44. Qui non immerito in sacris litteris
Mosaicis et Christianis, nunc omnis
carnis, nunc omnis creaturae
appellatione designatur, quando se
ipsum ipse in omnis carnis faciem, in
omnis creaturae ingenium effingit,
fabricat et tansformat.
45. Idcirco scribit Evantes Persa, ubi
Chaldaicam theologiam enarrat, non
esse homini suam ullam et nativam
imaginem, extrarias multas et
adventitias.
46. Hinc illud Chaldeorum Enosh hu
shinnuim vekammah tebhaoth baal haj
idest homo variae ac multiformis et
desultoriae naturae animal.
§ 10
47. Sed quorsum haec?
48. Ut intelligamus, postquam hac nati
sumus conditione, ut id simus quod
esse volumus, curare hoc potissimum
debere nos, ut illud quidem in nos non
dicatur, cum in honore essemus non
cognovisse similes factos brutis et
iumentis insipientibus.
49. Sed illud potius Asaph prophetae:
«Dii estis et filii Excelsi omnes», ne,
abutentes indulgentissima Patris
liberalitate, quam dedit ille liberam
optionem, e salutari noxiam faciamus
nobis.
50. Invadat animum sacra quaedam
ambitio ut mediocribus non contenti
anhelemus ad summa, adque illa
(quando possumus si volumus)
consequenda totis viribus enitamur.
51. Dedignemur terre/133r/stria,
caelestia contemnamus, et quicquid
mundi est denique posthabentes,
ultramundanam curiam eminentissimae
divinitati proximam advolemus.
52. Ibi, ut sacra tradunt mysteria,
che vedi ma pianta; se vedrai qualcuno
come da Calipso accecato con vani
miraggi della fantasia e, succube di
seducente incantesimo, fatto servo dei
sensi è bruto quello che vedi, non
uomo.
41. Se vedrai un filosofo discernente
ogni cosa con retta ragione, veneralo; è
animale celeste, non terreno.
42. Se vedrai un puro contemplante,
ignaro del corpo, relegato nei penetrali
della mente, questi non è animale
terreno, non celeste: questi è uno spirito
più augusto, rivestito di carne umana. §
§ 9.
43. Chi dunque non ammirerà l’uomo?
44. Il quale non immeritatamente nelle
sacre scritture Mosaiche e Cristiane è
designato ora con il nome di ogni essere
di carne, ora con quello di ogni
creatura, poiché egli stesso foggia,
plasma e trasforma il proprio aspetto in
quello di ogni essere di carne, il proprio
ingegno in quello di ogni creatura.
45. Per questo motivo il Persiano
Evante, ove spiega la teologia Caldaica,
scrive che non è dell’uomo alcuna sua
immagine innata, ma molte esteriori e
avventizie.
46. Di qui quel detto dei Caldei che
l’uomo è animale di natura varia
multiforme e incostante.
§ 10.
47. Ma a che fine tutto questo?
48. Affinché comprendiamo, giacché
siamo nati nella condizione di essere
ciò che vogliamo, di doverci curare di
questo principalmente, che non si dica
di noi che essendo in onore, non ci
siamo accorti di esserci fatti simili a
bruti e a stolti giumenti.
49. Ma piuttosto rammentiamo quel
detto del profeta Asaph: «Siete [tutti]
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Seraphin, Cherubin et Throni primas
possident; horum nos iam cedere nescii
et secundarum impatientes et
dignitatem et gloriam emulemur.
53. Erimus illis, cum voluerimus, nihilo
inferiores.
§ 11
54. Sed qua ratione, aut quid tandem
agentes?
55. Videamus quid illi agant, quam
vivant vitam.
56. Eam si et nos vixerimus (possumus
enim) illorum sortem iam equaverimus.
57. Ardet Saraph charitatis igne; fulget
Cherub intelligentiae splendore; stat
Thronus iudicii firmitate.
58. Igitur si actuosae ad[d]icti vitae
inferiorum curam recto examine
susceperimus, Thronorum stata
soliditate firmabimur.
59. Si ab actionibus feriati, in opificio
opificem, in opifice opificium
meditantes, in contemplandi ocio
negociabimur, luce Cherubica undique
corruscabimus.
60. Si charitate ipsum opificem solum
ardebimus, illius igne, qui edax est, in
Saraphicam effigiem repente
flammabimur.
61. Super Throno, idest iusto iudice,
sedet Deus iudex seculorum.
62. Super Cherub, idest contemplatore,
volat atque eum quasi incubando fovet.
63. Spiritus enim Domini fertur super
aquas, has, inquam quae super caelos
sunt, quae apud Iob Dominum laudant
antelucanis hymnis.
64. Qui Saraph, idest amator est, in Deo
est, et Deus in eo, immo et Deus et ipse
unum sunt.
65. Magna Thronorum potestas, quam
iudicando; summa Saraphinorum
sublimitas, quam amando assequimur.
dei e figli dell’eccelso», affinché,
abusando dell’indulgentissima liberalità
del Padre, non ci rendiamo da salutare
nociva la libera scelta che egli ci diede.
50. C’invada l’animo una sacra
ambizione così che non contenti delle
cose mediocri aneliamo alle somme, e
ci sforziamo di conseguirle con tutte le
forze, poiché possiamo se lo vogliamo.
51. Disdegniamo le cose terrene, non
teniamo conto di quelle celesti e,
trascurando una buona volta tutto ciò
che è del mondo, voliamo alla curia
oltremondana prossima all’eminente
divinità.
52. Li, come tramandano i sacri misteri,
Serafini, Cherubini e Troni occupano i
primi posti; e di quelli anche noi,
riluttanti a cedere e insofferenti dei
secondi posti, emuliamo la dignità e la
gloria.
53. A loro saremo, volendo, in nulla
inferiori.
§ 11
54. Ma in che modo, o insomma con
quali opere?
55. Vediamo le loro opere, la loro vita.
56. Se la vivremo anche noi (e certo lo
possiamo), avremo già uguagliato la
loro sorte.
57. Arde il Serafino del fuoco d’amore;
rifulge il Cherubino dello splendore
dell’intelletto; sta il Trono nella
saldezza del giudizio.
58. Quindi, se dediti alla vita attiva
assumeremo la cura delle cose inferiori
con giusta considerazione, saremo resi
saldi con la stabile saldezza dei Troni.
59. Se sciolti dalle azioni, meditando
nella creazione il Creatore, nel Creatore
la creazione, opereremo nella quiete
della contemplazione, risplenderemo da
ogni parte di luce cherubica.
8
§ 12
66. Sed quonam pacto vel iudicare
quisquam vel amare potest incognita?
67. Amavit Moses Deum quem vidit, et
administravit iudex in populo quae vidit
prius contemplator in monte.
68. Ergo medius Cherub sua luce et
Saraphico igni nos praeparat et ad
Thronorum iudicium pariter illuminat.
69. Hic est nodus primarum mentium,
ordo Palladicus, philosophiae
contemplativae preses; hic nobis et
emulandus primo et ambiendus, atque
adeo comprehendendus est, unde et ad
amoris rapiamur fastigia et ad munera
actionum bene instructi paratique
descendamus.
70. At vero operae precium, si ad
exemplar vitae Cherubicae vita nostra
formanda est, quae illa et qualis sit,
quae actiones, quae illorum opera, pre
oculis et in numerato habere.
71. Quod cum nobis per nos, qui caro
sumus et quae humi sunt sapimus,
consequi non liceat, adeamus antiquos
patres, qui de his rebus utpote sibi
domesticis et cognatis locupletissimam
nobis et certam fidem facere possunt.
72. Consulamus Paulum apostolum vas
electionis, quid ipse cum ad tertium
sublimatus est caelum, agentes
Cherubinorum exercitus viderit.
73. Respondebit utique Dyonisio
interprete: purgari illos, tum illuminari,
postremo perfici.
§ 13
74. Ergo et nos Cherubicam in terris
vitam emulantes, per moralem
scientiam affectuum impetus
cohercentes, per dialecticam rationis
caliginem discutientes, quasi
ignorantiae et vitiorum eluentes sordes
animam purgemus, ne aut affectus
60. Se arderemo d’amore solo per il
Creatore, del suo fuoco che tutto
consuma, c’infiammeremo d’un tratto a
immagine dei Serafini.
61. Sul Trono, cioè sul giusto giudice,
sta Dio, giudice dei secoli.
62. Sul Cherubino, cioè sul
contemplatore, vola e quasi covandolo
gli infonde calore.
63. Infatti lo spirito del Signore è
portato sulle acque, le acque, si dice,
che sono sopra i cieli e, come è scritto
nel libro di Giobbe, lodano Dio con inni
antelucani.
64. E il Serafino, cioè l’amante, è in
Dio e Dio è in lui, e Dio e lui sono uno
solo. 65. Grande è la potenza dei Troni
che raggiungiamo nel giudicare; somma
è l’altezza dei Serafini che
raggiungiamo nell’amore.
§ 12
66. Ma come può qualcuno giudicare o
amare quel che non si conosce?
67. Mosè amò il Dio che vide e, quale
giudice, spiegò al popolo quello che,
quale contemplatore, aveva visto prima
sul monte.
68. Perciò il Cherubino, nella sua
posizione intermedia, ci prepara al
fuoco serafico e ci illumina per il
giudizio dei Troni.
69. Questo è il nodo delle prime menti,
l’ordine palladico, che presiede alla
filosofia contemplativa: questo
dobbiamo in primo luogo emulare e
desiderare, e in egual misura capire, per
essere rapiti ai fastigi dell’amore e
discendere istruiti e preparati ai compiti
dell’azione.
70. Conviene quindi, se dobbiamo
modellare la nostra vita sulla vita dei
Cherubini, avere davanti agli occhi e
ben distinta l’idea di quale e come sia la
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temere debac[c]hentur aut ratio
imprudens quandoque deliret.
75. Tum bene compositam ac expiatam
animam naturalis philosophiae lumine
perfundamus, ut postremo divinarum
rerum eam cognitione perficiamus.
§ 14
76. Et ne nobis nostri sufficiant
consulamus Iacob patriarcham cuius
imago in sede gloriae sculpta corruscat.
77. Admonebit nos pater sapientissimus
in inferno dormiens, mundo in superno
vigilans.
78. Sed admonebit per figuram (ita eis
omnia contingebant) esse scalas ab imo
solo ad caeli summa protensas
multorum graduum serie distinctas;
fastigio Dominum insidere,
contemplatores angelos per eas vicibus
alternantes ascendere et descendere.
§ 15
79. Quod si hoc idem nobis angelicam
/133v/ affectantibus vitam factitandum
est, queso, quis Domini scalas vel
sordidato pede, vel male mundis
manibus attinget?
80. Impuro, ut habent mysteria, purum
attingere nephas.
81. Sed qui hi pedes?
82. Quae manus?
83. Profecto pes animae illa est portio
despicatissima, qua ipsa materiae
tanquam terrae solo innititur, altrix
inquam potestas et cibaria, fomes
libidinis et voluptariae mollitudinis
magistra.
84. Manus animae cur irascentiam non
dixerimus, quae appetentiae
propugnatrix pro ea decertat et sub
pulvere ac sole p[r]edatrix rapit, quae
illa sub umbra dormitans helluetur?
85. Has manus, hos pedes, idest totam
sensualem partem in qua sedet corporis
loro vita, quali le loro azioni e quali le
opere.
71. Ma poiché non è concesso che noi
(che siamo carne e conosciamo solo le
cose terrene) raggiungiamo questo
modello per conto nostro, accostiamoci
agli antichi padri: essi, per la familiarità
e la consuetudine che avevano con
queste cose, ce ne possono dare
testimonianza ricchissima e certa.
72. Consultiamo l’apostolo Paolo, vaso
d’elezione, su quali fossero le attività
degli eserciti dei Cherubini che vide
quando fu elevato al terzo cielo.
73. Risponderà, come interpreta
Dionigi, che si purificano, sono
illuminati e poi giungono a perfezione.
§ 13
74. Noi dunque, emulando in terra la
vita dei Cherubini, dominando con la
scienza morale l’impeto delle passioni,
disperdendo la tenebra della ragione
con la dialettica, come lavando via le
sozzure dell’ignoranza e del vizio,
purghiamo l’anima perché gli affetti
non si scatenino senza freni o la ragione
di quando in quando sconsideratamente
deliri.
75. Quindi nell’anima composta e
purificata diffondiamo la luce della
filosofia morale, per renderla infine
perfetta con la conoscenza delle cose
divine.
§ 14
76. E, per non limitarci ai nostri padri,
consultiamo il patriarca Giacobbe, la
cui immagine risplende incisa nella
sede della gloria.
77. Ci istruirà il padre sapientissimo,
che dormiva nel mondo terreno e
vegliava in quello superiore.
78. Ma ci insegnerà tramite una figura,
giacché così tutto a essi si accadeva che
10
illecebra quae animam obtorto (ut
aiunt) detinet collo, ne a scalis
tamquam prophani pollutique
reiciamur, morali philosophia quasi
vivo flumine abluamus.
86. At nec satis hoc erit, si per Iacob
scalam discursantibus angelis comites
esse volumus, nisi et a gradu in gradum
rite promoveri, et a scalarum tramite
deorbitare nusquam, et reciprocos obire
excursus bene apti prius instructique
fuerimus.
87. Quod cum per artem sermocinalem
sive rationariam erimus consequuti, iam
Cherubico spiritu animati, per
scalarum, idest naturae gradus
philosophantes, a centro ad centrum
omnia pervadentes, nunc unum quasi
Osyrim in multitudinem vi titanica
dis[c]erpentes descendemus, nunc
multitudinem quasi Osyridis membra in
unum vi Phebea colligentes
ascendemus, donec in sinu Patris qui
super scalas est tandem quiescentes,
theologica foelicitate consumabimur.
§ 16
88. Percontemur et iustum Iob, qui
fedus iniit cum Deo vitae prius quam
ipse ederetur in vitam quid summus
Deus in decem illis centenis millibus
qui assistunt ei, potissimum desideret:
pacem utique respondebit, iuxta id quod
apud eum legitur: «Qui facit pacem in
excelsis».
89. Et quoniam supremi ordinis monita
medius ordo inferioribus interpretatur,
interpretetur nobis Iob theologi verba
Empedocles philosophus.
90. Hic duplicem naturam in nostris
animis sitam, quarum altera sursum
tollimur ad celestia, altera deorsum
trudimur ad inferna, per litem et
amicitiam, sive bellum et pacem, ut sua
vi sono scale che si protendono dal
fondo della terra al sommo dei cieli,
nelle quali si distingue una lunga serie
di gradini, sulla cui sommità siede il
Signore, mentre gli angeli contemplanti
vi salgono e vi discendono in modo
alterno.
§ 15
79. Ma se noi, volendo imitare la vita
degli angeli, dobbiamo fare lo stesso, vi
chiedo: chi oserà toccare le scale del
Signore, o con piede impuro o con mani
non monde?
80. Secondo i misteri, è vietato che chi
è impuro tocchi ciò che è puro.
81. Ma quali sono questi piedi?
82. Quali queste mani?
83. Il piede dell’anima è senza dubbio
quella sua parte più vile che si appoggia
alla materia come al suolo terreno;
quella facoltà (dico) che alimenta e
nutre, fomite di libidine e maestra di
mollezza sensuale.
84. E perché non chiamare mani
dell’anima la sua parte irascibile, la
quale, militando a servizio del
desiderio, per esso combatte e come
predatrice rapina sotto il sole e
nell’arena pubblica quello che il
desiderio divora riposando all’ombra?
85. Per non essere respinti da quelle
scale come profani e impuri, laviamo
con la filosofia morale come nella
corrente di un fiume queste mani, questi
piedi, cioè tutta la parte sensibile in cui
hanno sede le lusinghe corporee che
trattengono l’anima, come si suol
dire, obtorto collo.
86. Ma neppure questo basterà, se
vorremo divenire compagni degli angeli
che percorrono salendo e discendendo
la scala di Giacobbe, salvo che non
siamo ben preparati e istruiti a essere
11
testantur carmina, nobis significat.
91. In quibus se lite et discordia actum,
furenti similem profugum a diis, in
altum iactari conqueritur.
§ 17
92. Multiplex profecto, Patres, in nobis
discordia; gravia et intestina domi
habemus et plusquam civilia bella.
93. Quae si noluerimus, si illam
affectaverimus pacem, quae in sublime
ita nos tollat ut inter excelsos Domini
statuamur, sola in nobis compescet
prorsus et sedabit philosophia: moralis
primum, si noster homo ab hostibus
indutias tantum quesierit, multiplicis
bruti effrenes excursiones et leonis
iurgia, iras animosque contundet.
94. Tum si rectius consulentes nobis
perpetuae pacis securitatem
desideraverimus, aderit illa et vota
nostra liberaliter implebit, quippe quae
cesa utraque bestia, quasi icta porca,
inviolabile inter carnem et spiritum
foedus sanctissimae pacis sanciet.
95. Sedabit dyalectica rationis turbas
inter orationum pugnantias et
sillogismo captiones anxie
tumultuantis.
96. Sedabit naturalis philosophia
opinionis lites et dis[s]idia, quae
inquietam hinc inde animam vexant,
distrahunt et lacerant.
97. Sed ita sedabit, ut meminisse nos
iubeat esse naturam iuxta Heraclytum
ex bello genitam, ob id ab Homero
contentionem vocitatam.
98. Idcirco in ea veram quietem et
solidam pacem se nobis prestare non
posse, esse hoc dominae suae, idest
sanctissimae th[e]ologiae, munus et
privilegium.
99. Ad illam ipsa et viam monstrabit et
comes ducet, quae procul nos videns
promossi debitamente di grado in
grado, a non uscire mai dal percorso
della scala e ad affrontare i movimenti
reciproci. 87. E quando avremo
raggiunto questo punto con l’arte del
discorso o del ragionamento, animati
ormai dallo spirito cherubico, cioè
filosofando secondo i gradi della
natura, tutto penetrando dal centro al
centro, ora discenderemo smembrando
con violenza titanica l’uno nei molti,
come Osiride; ora saliremo radunando
con forza apollinea i molti nell’uno,
come le membra di Osiride, finché
riposando nel seno del Padre, che è al
sommo della scala, diventeremo perfetti
nella felicità teologica.
§ 16
88. E chiediamo al giusto Giobbe, che
prima di venire alla vita strinse un patto
con il Dio della vita, che cosa il sommo
Dio desideri di più in quei milioni di
angeli che gli stanno dappresso, ed egli
risponderà certamente: la pace, secondo
quello che si legge nel libro di Giobbe:
«Colui che fa la pace nei cieli».
89. E poiché l’ordine medio interpreta i
precetti dell’ordine sommo per gli
inferiori, interpreti per noi le parole del
teologo Giobbe il filosofo Empedocle.
90. Egli ci presenta (come attestano i
suoi carmi) tramite i simboli della
discordia e dell’amicizia, ovvero della
guerra e della pace, le due nature della
nostra anima: una di esse ci eleva al
cielo e l’altra ci precipita negli inferi.
91. In questi carmi si lamenta di essere
trascinato nell’abisso, sospinto dalla
lotta e dalla discordia, simile a un folle
ed esiliato lontano dagli dei.
§ 17
92. La discordia, o Padri, assume in noi
davvero molte forme; abbiamo gravi
12
properantes: «Venite, inclamabit, ad me
qui laborastis; venite et ego reficiam
vos; venite ad /134r/ me et dabo vobis
pacem quam mundus et natura vobis
dare non possunt».
§ 18
100. Tam blande vocati, tam benigniter
invitati, alatis pedibus quasi terrestres
Mercurii, in beatissimae amplexus
matris evolantes, optata pace
perfruemur: pace sanctissima, individua
copula, unianimi amicitia, qua omnes
animi in una mente, quae est super
omnem mentem, non concordent adeo,
sed ineffabili quodammodo unum
penitus evadant.
101. Haec est illa amicitia quam totius
philosophiae finem esse Pythagorici
dicunt, haec illa pax quam facit Deus in
excelsis suis, quam angeli in terram
descendentes annuntiarunt hominibus
bonae voluntatis, ut per eam ipsi
homines ascendentes in caelum angeli
fierent.
102. Hanc pacem amicis, hanc nostro
optemus seculo, optemus unicuique
domui quam ingredimur, optemus
animae nostrae, ut per eam ipsa Dei
domus fiat; ut, postquam per moralem
et dyalecticam suas sordes excusserit,
multiplici philosophia quasi aulico
apparatu se exornarit, portarum fastigia
theologicis sertis coronarit, descendat
Rex gloriae et cum Patre veniens
mansionem faciat apud eam.
103. Quo tanto hospite si se dignam
praestiterit, qua est illius immensa
clementia, deaurato vestitu quasi toga
nuptiali multiplici scientiarum
circumdata varietate, speciosum
hospitem, non ut hospitem iam, sed ut
sponsum excipiet, a quo ne unquam
dissolvatur dissolvi cupiet a populo suo
lotte interne e peggio che guerre civili
in casa nostra.
93. Esse sono tali che, se noi non le
vorremo e se aspireremo a quella pace
che ci sollevi così in alto da collocarci
fra gli eletti del Signore, solamente la
filosofia potrà dominarle
completamente dentro di noi e sedarle.
La filosofia morale, in primo luogo, se
l’uomo bramerà soltanto una tregua con
i suoi nemici, reprimerà le sfrenate
scorrerie della bestia multiforme e la
furia, la rabbia e la tracotanza del leone.
94. Quindi, se con più avveduto
consiglio vorremo per noi la sicurezza
di una pace perenne, essa verrà e
soddisferà generosamente i nostri
desideri in quanto, uccise entrambe le
bestie, quasi immolando la scrofa,
stabilirà fra la carne e lo spirito un
inviolabile patto di santissima pace.
95. La dialettica calmerà la ragione
ansiosamente agitata fra le
contraddizioni del discorso e le
capziosità del sillogismo.
96. La filosofia naturale pacificherà le
liti dell’opinione e i dissidi che, da una
parte e dall’altra, tormentano,
sconcertano e dilacerano l’anima
inquieta.
97. Ma li acquieterà così da farci
ricordare che la natura, come ha detto
Eraclito, è generata dalla guerra e per
questo è chiamata da Omero «contesa».
98. In essa, perciò, non si danno a noi
vera quiete e stabile pace, che sono
invece dono e privilegio della sua
signora, la santissima teologia.
99. Essa, mostrandoci la via che a
questa conduce, ci accompagnerà da lei
che, vedendoci da lontano affannati,
griderà: «Venite a me, voi che siete
affaticati; venite ed io vi ristorerò;
13
et domum patris sui, immo se ipsam
oblita, in se ipsa cupiet mori ut vivat in
sponso, in cuius conspectu preciosa
profecto mors sanctorum eius, mors,
inquam, illa, si dici mors debet
plenitudo vitae cuius meditationem esse
studium philosophiae dixerunt
sapientes.
§ 19
104. Citemus et Mosem ipsum a
sacrosanctae et ineffabilis intelligentiae
fontana plenitudine, unde angeli suo
nectare inebriantur, paulo deminutum.
105. Audiemus venerandum iudicem
nobis in deserta huius corporis
solitudine habitantibus leges sic
edicentem: «Qui polluti adhuc morali
indigent, cum plebe habitent extra
tabernaculum sub divo, quasi Thessali
sacerdotes interim se expiantes.
106. Qui mores iam composuerunt, in
sanctuarium recepti, nondum quidem
sacra attractent, sed prius dyaletico
famulatu seduli levitae philosophiae
sacris ministrent.
107. Tum ad ea et ipsi admissi, nunc
superioris Dei regiae multicolorem,
idest sydereum aulicum ornatum, nunc
caeleste candelabrum septem luminibus
distinctum, nunc pellicea elementa, in
philosophiae sacerdotio contemplentur,
ut postremo per theologicae sublimitatis
merita in templi adita recepti, nullo
imaginis intercedente velo, divinitatis
gloria perfruantur».
108. Haec nobis profecto Moses et
imperat et imperando admonet, excitat,
inhortatur, ut per philosophiam ad
futuram caelestem gloriam, dum
possumus iter paremus nobis.
§ 20
109. Verum enimvero, nec Mosayca
tantum aut Christiana mysteria, sed
venite a me ed io vi darò la pace che il
mondo e la natura non possono darvi».
§ 18
100. Chiamati con tanta dolcezza,
invitati con tanta benevolenza, volando
all’abbraccio della beatissima madre
con piede alato come Mercuri terreni,
godremo della pace tanto desiderata. È
questa la santissima pace, l’unione
inseparabile, l’amicizia concorde, per
cui tutte le anime in quell’unica mente
che è al si sopra di ogni mente, non solo
si accordano ma, in un certo modo
ineffabile, si fondono intimamente in
una cosa sola.
101. Questa è l’amicizia che i Pitagorici
dicono essere il fine di tutta la filosofia,
la pace che il Signore attua nei suoi
cieli e che gli angeli discendendo in
terra annunziarono agli uomini di buona
volontà, perché per essa gli uomini
salendo in cielo diventassero angeli.
102. Auguriamo questa pace agli amici
e al nostro tempo; auguriamola a ogni
casa in cui entriamo e alla nostra anima
affinché diventi così essa stessa dimora
di Dio; affinché cioè, scosse via le
impurità con la morale e la dialettica,
adornatasi della molteplice filosofia
come di magnificenza regale, coronato
il sommo delle porte con il serto della
teologia, il Re della Gloria discenda e,
venendo col Padre, prenda dimora
presso di lei.
103. E se la nostra anima si mostrerà
degna di tanto ospite – immensa è la
bontà di lui – vestita di oro come di
manto nuziale e circondata dalla
molteplice varietà delle scienze,
accoglierà il bellissimo ospite non più
come ospite, ma come sposo; e per non
essere mai separata da lui, desidererà
separarsi dal suo popolo e, dimentica
14
priscorum quoque theologia harum, de
quibus disputaturus accessi, liberalium
artium et emolumenta nobis et
dignitatem ostendit.
110. Quid enim aliud sibi volunt in
Graecorum archanis observati
initiatorum gradus, quibus primo per
illas quas diximus quasi februales artes,
moralem et dialeticam, purificatis,
contingebat mysteriorum susceptio?
111. Quae quid aliud esse potest quam
secretioris per philosophiam naturae
interpretatio?
112. Tum demum ita dispositis illa
adveniebat epopteia, idest rerum
divinarum per theologiae lumen
inspectio.
113. Quis talibus sacris initiari non
appetat?
114. Quis humana /134v/ omnia
posthabens, fortunae contemnens bona,
corporis negligens, deorum conviva
adhuc degens in terris fieri non cupiat,
et aeternitatis nectare madidus mortale
animal immortalitatis munere donari?
115. Quis non Socraticis illis furoribus,
a Platone in Fedro decantatis, sic afflari
non velit ut alarum pedumque remigio
hinc, idest ex mundo, qui est positus in
maligno, propere aufugiens, ad
caelestem Hierusalem concitatissimo
cursu feratur?
116. Agemur, Patres, agemur Socraticis
furoribus, qui extra mentem ita nos
ponant, ut mentem nostram et nos
ponant in Deo.
117. Agemur ab illis utique, si quid est
in nobis ipsi prius egerimus; nam si et
per moralem affectuum vires ita per
debitas competentias ad modulos
fuerint intentae, ut immota invicem
consonent concinentia, et per
dyalecticam ratio ad numerum se
della casa del padre, e persino di se
stessa, vorrà morire a se stessa per
vivere nello sposo, al cui cospetto
preziosa, certo, è la morte dei santi,
morte, dico, se morte può chiamarsi
quella pienezza di vita nella cui
meditazione i sapienti fecero consistere
l’esercizio della filosofia.
§19
104. E citiamo anche lo stesso Mosè, di
poco inferiore a quella pienezza sorgiva
di sacrosanta e ineffabile intelligenza,
del cui nettare si inebriano gli angeli.
105. Udiremo il giudice venerando
stabilire le leggi per noi che abitiamo
nella deserta solitudine del corpo: «Gli
impuri, che hanno ancora bisogno della
morale, abitino col volgo fuori del
tabernacolo a cielo scoperto,
purificandosi come i sacerdoti tessali.
106. Coloro che hanno già messo
ordine nella loro condotta, e che sono
già stati accolti nel santuario, non
tocchino ancora le cose sacre, ma prima
servano come diligenti leviti alle cose
della filosofia dedicandosi alla
dialettica. 107. Poi, ammessi anche loro
alle cose sacre del sacerdozio della
filosofia, contemplino ora i variopinti
ornamenti della reggia superiore di Dio,
cioè la decorazione siderea e regale, ora
il celeste candelabro a sette fiamme, ora
le fodere di pelli, perché, ammessi a
entrare nei recessi del tempio in virtù
dei meriti della sublimità teologica,
godano della gloria della divinità senza
la mediazione di alcun velo
d’immagine.
108. Questo certamente Mosè ci
comanda e comandando ci ammonisce,
ci incita e ci esorta a preparare a noi
stessi tramite la filosofia, finché ci è
possibile, la strada alla futura gloria
15
progrediendo moverit, Musarum perciti
furore celestem armoniam intimis
auribus combibemus.
118. Tum Musarum dux Bacchus in
suis mysteriis, idest visibilius naturae
signis invisibilia Dei philosophantibus
nobis ostendens, inebriabit nos ab
ubertate domus Dei, in qua tota si uti
Moses erimus fideles, accedens
sacratissima theologia duplici furore
nos animabit.
119. Nam in illius eminentissimam
sublimati speculam, inde et quae sunt,
quae erunt quaeque fuerint insectili
metientes evo, et primevam
pulchritudinem suspicientes, illorum
Phebei vates, huius alati erimus
amatores et ineffabili demum charitate,
quasi aestro perciti, quasi Saraphini
ardentes extra nos positi, numine pleni,
iam non ipsi nos, sed ille erimus ipse
qui fecit nos.
§ 21
120. Sacra Apollinis nomina, si quis
eorum significantias et latitantia
perscrutetur misteria, satis ostendunt
esse Deum illum non minus
philosophum quam vatem.
121. Quod cum Ammonius satis sit
exequutus, non est cur ego nunc aliter
pertractem; sed subeant animum,
Patres, tria Delphica precepta oppido
his necessaria, qui non ficti sed veri
Apollinis, qui illuminat omnem
animam venientem in hunc mundum,
sacrosanctum et augustissimum
templum ingressuri sunt; videbitis nihil
aliud illa nos admonere, quam ut
tripartitam hanc, de qua est presens
disputatio, philosophiam totis viribus
amplectamur.
122. Illud enim meden agan, idest
nequid nimis, virtutum omnium
celeste.
109. In realtà non soltanto i misteri
mosaici o cristiani, bensì anche la
teologia degli antichi ci mostra l’utilità
e la dignità delle arti liberali di cui sono
qui venuto a discutere
110. A cos’altro mirava infatti
l’osservanza, nei misteri greci, dei
diversi gradi iniziatici? Solo dopo
essersi purificati tramite quelle arti che,
dicevamo, sono in certo modo
espiatorie, e cioè la morale e la
dialettica, gli iniziati ottenevano
l’ammissione ai misteri.
111. La quale in che altro può
consistere se non nell’interpretazione
della natura più recondita per il tramite
della filosofia?
112. A questo punto erano finalmente
preparati al sopraggiungere
dell’epopteia cioè dell’intima visione
delle cose divine mediante il lume della
teologia. 113. Chi non desidererebbe di
venire iniziato a tali sacri rituali?
114. Chi, messa da parte ogni umana
sollecitudine, disprezzando i beni della
fortuna e trascurando il corpo, non
vorrebbe divenire, mentre ancora si
trova qui sulla terra, commensale degli
dèi, e madido del nettare dell’eternità
ricevere, animale mortale, il dono
dell’immortalità?
115. Chi non vorrebbe venir pervaso
dall’afflato di quei furori socratici che
Platone celebra nel Fedro, ed esserne
trasportato, dopo rapidissimo viaggio,
nella Gerusalemme celeste, fuggendo
prontamente in un remeggio d’ali e di
piedi da qui – ossia da questo mondo,
che è consegnato al maligno?
116. Verremo condotti via, o Padri,
verremo condotti via dai furori
socratici, che a tal segno ci faranno
16
normam et regulam per mediocritatis
rationem, de qua moralis agit, recte
praescribit.
123. Tum illud gnothi seauton, idest
cognosce te ipsum, ad totius naturae
nos cognitionem, cuius et interstitium et
quasi cynnus natura est hominis, excitat
et inhortatur.
124. Qui enim se cognoscit, in se omnia
cognoscit, ut Zoroaster prius, deinde
Plato in Alcibiade scripserunt.
125. Postremo hac cognitione per
naturalem philosophiam illuminati iam
Deo proximi, ei, idest es dicentes,
theologica salutatione verum
Apollinem familiariter proindeque
foeliciter appellabimus.
§ 22
126. Consulamus et Pythagoram
sapientissimum, ob id praecipue
sapientem, quod sapientis se dignum
nomine nunquam existimavit.
127. Precipiet primo ne super modium
sedeamus, idest rationalem partem, qua
anima omnia metitur, iudicat et
examinat, ociosa desidia ne remitentes
amittamus, sed dyaletica exercitatione
ac regula et dirigamus assidue et
excitemus.
128. Tum cavenda in primis duo nobis
significabit ne, aut adversus solem
emingamus, aut inter sacrificandum
ungues resecemus.
129. Sed postquam per moralem et
superfluentium voluptatum fluxas
eminxerimus appetentias, et unguium
presegmina, quasi acutas irae
prominentias et animorum aculeos
resecuerimus, tum demum sacris, idest
de quibus mentionem fecimus Bacchi
mysteriis, interesse, et cuius pater ac
dux merito sol dicitur nostrae
contempla/135r/tioni vacare
uscir di mente, da porre la nostra mente
e noi stessi in Dio.
117. Saremo condotti via da essi,
comunque, solo se prima avremo
condotto a termine noi stessi quello che
sta in noi; infatti se da un lato, mediante
la morale, le forze delle passioni
saranno state opportunamente tese,
nelle debite proporzioni, secondo le
misure armoniche, così da accordarsi
l’una all’altra in perdurante
consonanza, e se dall’altro lato la
ragione, mediante la dialettica,
procederà a tempo nel suo cammino,
allora, eccitati dal furore delle muse,
attraverso l’udito interiore berremo la
celeste armonia.
118. Allora Bacco, condottiero delle
Muse, nei suoi misteri (cioè tramite
segni visibili della natura) mostrerà a
noi che filosofiamo le cose invisibili di
Dio, e ci inebrierà dell’abbondanza
della casa di Dio, dove se in tutto
saremo fedeli come Mosè, la santissima
teologia a noi accostandosi ci animerà
di un duplice furore.
119. Infatti sollevati fino alla sua
altissima specola, di lì commisurando
all’indivisa eternità le cose che sono,
che sono state e che saranno, e
rimirando la primeva bellezza, di quelle
saremo i febei vati, di questa saremo gli
alati amanti, e infine, sospinti, come da
un estro, da ineffabile amore,
trovandoci fuori di noi stessi quasi
fossimo Serafini ardenti, ricolmi della
divinità, ormai non saremo più noi
stessi, ma quegli stesso che ci fece.
§ 21.
120. I sacri nomi di Apollo, se
indaghiamo i loro significati e i misteri
in essi celati, mostrano a sufficienza
come quel dio sia, non meno che vate,
17
incipiamus.
130. Postremo ut gallum nutriamus nos
admonebit, idest ut divinam animae
nostrae partem divinarum rerum
cognitione quasi solido cibo et caelesti
ambrosia pascamus.
131. Hic est gallus cuius aspectum leo,
idest omnis terrena potestas formidat et
reveretur.
132. Hic ille gallus, cui datam esse
intelligentiam apud Iob legimus.
133. Hoc gallo canente aberrans homo
resipiscit.
134. Hic gallus in matutino crepusculo,
matutinis astris Deum laudantibus,
quotidie commodulatur.
135. Hunc gallum moriens Socrates,
cum divinitatem animi sui divinitati
maioris mundi copulaturum se speraret,
Sculapio, idest animarum medico, iam
extra omne morbi discrimen positus,
debere se dixit.
§ 23
136. Recenseamus et Chaldeorum
monumenta, videbimus (si illis
creditur) per easdem artes patere viam
mortalibus ad felicitatem.
137. Scribunt interpretes Chaldei
verbum fuisse Zoroastris alatam esse
animam, cumque alae exciderent ferri
illam praeceps in corpus, tum illis
subcrescentibus ad superos revolare.
138. Percunctantibus eum discipulis
quo pacto alis bene plumantibus
volucres animos sortirentur: «Irrigetis,
dixit, alas aquis vitae».
139. Iterum sciscitantibus unde has
aquas peterent, sic per parabolam (qui
erat hominis mos) illis respondit:
«Quatuor amnibus paradisus Dei
abluitur et irrigatur.
140. Indidem vobis salutares aquas
hauriatis.
filosofo.
121. Ma avendo Ammonio su questo
argomento già detto quanto basta, non
ho motivo di trattarne ora altrimenti;
rivolgiamo invece il nostro pensiero, o
Padri, ai tre precetti delfici
assolutamente necessari a coloro che
intendono entrare nel tempio,
sacrosanto e augustissimo, non del
falso, ma del vero Apollo che illumina
ogni anima che viene in questo mondo;
vi accorgerete che essi a null’altro ci
esortano, se non ad abbracciare con
tutte le nostre forze la filosofia tripartita
della quale stiamo qui discutendo.
122. Infatti il celebre medèn
agàn (nulla di troppo) giustamente
prescrive quale regola e norma di
ogni virtù il criterio della medietà, di
cui tratta la morale. 123. Segue poi il famoso gnoti
seauton (conosci te stesso), che ci
incita e ci sprona alla conoscenza
della natura tutta, della quale la
natura dell’uomo costituisce
l’elemento intermedio e per così dire
la miscela. 124. Chi infatti conosce se stesso, in
se stesso conosce ogni cosa, come
ebbero a scrivere prima Zoroastro e
poi Platone nell’Alcibiade.
125. Da ultimo, una volta che la
filosofia naturale ci abbia illuminati con
questa conoscenza, ormai vicinissimi a
Dio, dicendo ei (tu sei) ci rivolgeremo
al vero Apollo con un saluto teologico,
chiamandolo così con espressione
familiare e del pari felice.
§ 22.
126. Ma consultiamo anche il
sapientissimo Pitagora, sapiente
soprattutto perché mai si ritenne degno
di tale nome.
18
141. Nomen ei qui ab aquilone
[Pischon], quod rectum denotat, ei qui
ab occasu [Gichon], quod expiationem
significat, ei qui ab ortu [Chiddekel],
quod lumen sonat, ei qui a meridie
[Perath], quod nos pietatem interpretari
possumus».
142. Advertite animum et diligenter
considerate, Patres, quid haec sibi
velint Zoroastris dogmata: profecto
nihil aliud nisi ut morali scientia, quasi
undis Hibericis, oculorum sordes
expiemus; dialetica, quasi boreali
amussi, illorum aciem lineemus ad
rectum.
143. Tum in naturali contemplatione
debile adhuc veritatis lumen, quasi
nascentis solis incunabula, pati
assuescamus, ut tandem per
theologicam pietatem et sacratissimum
Dei cultum, quasi caelestes aquilae,
meridiantis solis fulgidissimum iubar
fortiter perferamus.
144. Hae illae forsan et a Davide
decantatae primum, et ab Augustino
explicatae latius, matutinae, meridianae
et vespertinae cognitiones.
145. Haec est illa lux meridialis, quae
Saraphinos ad lineam inflammat et
Cherubinos pariter illuminat.
146. Haec illa regio, quam versus
semper antiquus pater Abraam
proficiscebatur.
147. Hic ille locus, ubi immundis
spiritibus locum non esse et
Cabalistarum et Maurorum dogmata
tradiderunt.
148. Et si secretiorum aliquid
misteriorum fas est vel sub enigmate in
publicum proferre, postquam et repens
e caelo casus nostri hominis caput
vertigine damnavit et iuxta Hieremiam,
ingressa per fenestras mors iecur
127. Ci prescriverà in primo luogo di
«non sedere sopra il moggio»,
esortandoci con ciò a non disperdere,
abbandonandola nell’ozio e
nell’inerzia, quella parte razionale con
cui l’anima misura, giudica ed esamina
ogni cosa; ma al contrario a indirizzarla
e a incitarla costantemente con
l’esercizio e la regola della dialettica.
128. Inoltre ci indicherà due cose dalle
quali dobbiamo prima di tutto
guardarci: e cioè dal mingere contro il
sole e dal tagliarci le unghie durante il
sacrificio.
129. Ma dopo che, grazie alla morale,
avremo espulso da noi i torbidi appetiti
di piaceri superflui, e avremo reciso,
quasi fossero unghie, le acuminate
esuberanze dell’ira e gli artigli
dell’animosità, allora dovremo
finalmente disporci a prender parte ai
sacri rituali, cioè ai già menzionati
misteri di Bacco, e a dedicarci a quella
contemplazione di cui giustamente il
sole vien detto essere per noi padre e
guida.
130. Da ultimo Pitagora ci esorterà a
«nutrire il gallo», cioè ad alimentare la
parte divina dell’anima con la
conoscenza delle cose divine, quasi si
trattasse di solido cibo e di celeste
ambrosia.
131. Questo è il gallo il cui sguardo
incute paura e rispetto al leone, cioè a
ogni potere terreno.
132. Questo è quel gallo a cui,
leggiamo in Giobbe, fu data
l’intelligenza.
133. Quando questo gallo canta
rinsavisce l’uomo che si trova
nell’errore.
134. Questo gallo nel crepuscolo
mattutino unisce il suo canto alle lodi
19
pectusque male affecit, Raphaelem
coelestem medicum advocemus, qui
nos morali et dialetica uti pharmacis
salutaribus liberet.
149. Tum ad valitudinem bonam
restitutos, iam Dei robur Gabriel
inhabitabit, qui nos per naturae ducens
miracula, ubique Dei virtutem
potestatemque indicans, tandem
sacerdoti summo Michaeli nos tradet
qui, sub stipendiis philosophiae
emeritos, theologiae sacerdotio quasi
corona preciosi lapidis insignet.
§ 24
150. Haec sunt, Patres colendissimi,
quae me ad philosophiae studium non
animarunt modo sed compulerunt.
151. Quae dicturus certe non eram, nisi
his responderem qui philosophiae
studium in pricipibus praesertim viris,
aut his omnino qui mediocri fortuna
vivunt, damnare solent.
152. Est enim iam hoc totum
philosophari (quae est nostrae etatis
infoelicitas) in contemptum potius et
contumeliam, quam in honorem et
gloriam.
153. Ita invasit fere omnium mentes
exitialis haec et monstrosa persuasio,
aut nihil aut paucis philosophandum.
154. Quasi rerum causas, naturae vias,
universi rationem,/135v/Dei consilia,
caelorum, terraeque mysteria, pre
oculis, pre manibus exploratissima
habere nihil sit prorsus, nisi vel gratiam
inde aucupari aliquam, vel lucrum sibi
quis comparare possit.
155. Quin eo deventum est ut iam (proh
dolor!) non existimentur sapientes nisi
qui mercennarium faciunt studium
sapientiae, ut sit videre pudicam
Palladem, deorum munere inter
homines diversantem, eiici, explodi,
che gli astri del mattino rendono a Dio.
135. Questo è il gallo che Socrate in
punto di morte, quando sperava di
congiungere il divino dell’anima sua
alla divinità di un mondo più grande,
disse di dovere a Esculapio, ovvero al
medico delle anime, giacché ormai si
trovava oltre qualunque pericolo di
malattia corporale.
§ 23.
136. Ma esaminiamo ora anche le
tradizioni dei Caldei, e ci accorgeremo
(se prestiamo loro fede) che le arti che
aprono ai mortali la via verso la felicità
sono le stesse anche per loro.
137. Gli interpreti caldei riportano una
sentenza di Zoroastro secondo la quale
l’anima è alata e, quando perde le ali,
precipita nel corpo, mentre vola di
nuovo in cielo quando le ali ricrescono.
138. Domandandogli i discepoli in che
modo potessero ottenere anime dalle ali
ben piumate e capaci di volare, rispose:
«Irrorate le ali con acque di vita».
139. E chiedendogli ancora dove
potessero attingere queste acque,
rispose loro con una parabola (come era
suo costume): «Il paradiso di Dio è
purificato e irrigato da quattro fiumi.
140. Da questi traete le acque per voi
salvifiche.
141. Quello che scorre da settentrione
ha nome , che significa ciò che è retto, e
quello che scorre da occidente si
chiama , che vuol dire espiazione;
quello che viene da oriente si chiama ,
che sta per luce, mentre quello che
scorre da meridione ha nome , che
possiamo tradurre come pietà».
142. Ora riflettete attentamente e
considerate, o Padri, a cosa mirino
queste dottrine di Zoroastro: di certo a
null’altro se non a farci espiare con la
20
exsibilari, non habere qui amet, qui
faveat, nisi ipsa, quasi prostans et
praefloratae virginitatis accepta
mercedula, male paratum aes in
amatoris arculam referat.
§ 25
156. Quae omnia ego non sine summo
dolore et indignatione in huius
temporis, non principes, sed
philosophos dico, qui ideo non esse
philosophandum et credunt et
praedicant, quod philosophis nulla
merces, nulla sint praemia constituta,
quasi non ostendant ipsi, hoc uno
nomine, se non esse philosophos.
157. Quod cum tota eorum vita sit vel
in questu, vel in ambitione posita,
ipsam per se veritatis cognitionem non
amplectuntur.
158. Dabo hoc mihi, et me ipsum hac
ex parte laudare nihil erubescam, me
numquam alia de causa philosophatum
nisi ut philosopharer, nec ex studiis
meis, ex meis lucubrationibus,
mercedem ullam aut fructum vel
sperasse alium vel quesiisse, quam
animi cultum et a me semper plurimum
desideratae veritatis cognitionem.
159. Cuius ita cupidus semper et
amantissimus fui ut, relicta omni
privatarum et publicarum rerum cura,
contemplandi ocio totum me
tradiderim; a quo nullae invidiorum
obtrectationes, nulla hostium sapientiae
maledicta, vel potuerunt ante hac, vel in
posterum me deterrere poterunt.
160. Docuit me ipsa philosophia a
propria potius conscientia quam ab
externis pendere iuditiis, cogitareque
semper, non tam ne male audiam, quam
ne quid male vel dicam ipse vel agam.
§ 26
161. Equidem non eram nescius, Patres
scienza morale, quasi si trattasse di
flutti iberici, la sozzura dei nostri occhi;
e a farci rettificare lo sguardo con la
dialettica, quasi fosse una livella
boreale.
143. Poi a far sì che, contemplando la
natura, ci abituiamo alla luce ancor
flebile della verità, quasi fosse il primo
albeggiare del sole; perché infine
possiamo, grazie alla pietà teologica e
al santissimo culto di Dio, sostenere
saldamente, quasi fossimo aquile del
cielo, l’abbagliante splendore del sole
meridiano.
144. Sono queste, forse, le famose
conoscenze mattutine, meridiane e
vespertine dapprima cantate da Davide
e poi ampiamente spiegate da Agostino.
145. Questa è la luce meridiana che
infiamma in linea retta i Serafini e che
del pari illumina i Cherubini. 146.
Questa è la regione verso la quale
costantemente tendeva l’antico padre
Abramo.
147. Questo il luogo dove, secondo le
dottrine dei cabalisti e degli Arabi, non
c’è posto per gli spiriti impuri.
148. E, se è lecito render pubblico, sia
pure sotto forma di enigma, qualcosa
dei più reconditi misteri, dopo che la
repentina caduta dal cielo ha
condannato il capo dell’uomo alla
vertigine e, stando a Geremia, la morte
entrata dalle finestre ci ha colpito al
fegato e al petto, invochiamo la
presenza di Raffaele, medico celeste,
affinché ci liberi tramite la morale e la
dialettica, quasi fossero salvifici
medicamenti.
149. Allora, recuperata la buona salute,
verrà ormai a dimorare in noi la forza di
Dio, Gabriele, il quale guidandoci
attraverso le meraviglie della natura e
21
colendissimi, futuram hanc ipsam
meam disputationem quam vobis
omnibus qui bonis artibus favetis et
augustissima vestra praesentia illam
honestare voluistis, gratam atque
iocundam, tam multis aliis gravem
atque molestam; et scio non deesse qui
inceptum meum et damnarint ante hac
et in praesentia multis nominibus
damnent.
162. Ita consueverunt non pauciores, ne
dicam plures, habere oblatratores quae
bene sancteque aguntur ad virtutem,
quam quae inique et perperam ad
vitium.
163. Sunt autem qui totum hoc
disputandi genus et hanc de litteris
publice disceptandi institutionem non
approbent, ad pompam potius ingenii et
doctrinae, ostentationem quam ad
comparandam eruditionem esse illam
asseverantes.
164. Sunt qui hoc quidem exercitationis
genus non improbent, sed in me nullo
modo probent, quod ego hac aetate,
quartum scilicet et vigesimum modo
natus annum, de sublimibus Christianae
theologiae mysteriis, de altissimis
philosophiae locis, de incognitis
disciplinis, in celebratissima urbe, in
amplissimo doctissimorum hominum
consessu, in apostolico senatu,
disputationem proponere sim ausus.
165. Alii, hoc mihi dantes quod
disputem, id dare nolunt quod de
nongentis disputem questionibus, tam
superfluo et ambitiose quam supra vires
id factum calumniantes.
166. Horum ego obiectamentis et
manus illico dedissem, si ita quam
profiteor philosophia me edocuisset et
nunc, illa ita me docente, non
responderem, si rixandi iurgandique
mostrandoci ovunque la virtù e il potere
di Dio, ci consegnerà infine al sommo
sacerdote Michele, che congedatici
ormai noi dal servizio filosofico, ci
renderà onore con le insegne del
sacerdozio teologico, quasi fossero una
corona di pietre preziose.
§24.
150. Per questi motivi, o molto
venerandi Padri, mi sono sentito, non
solamente incoraggiato, ma addirittura
investito del dovere di dedicarmi allo
studio della filosofia.
151. E non avevo certo intenzione di
parlarne, se non per replicare a quanti
sono soliti condannare lo studio della
filosofia soprattutto negli uomini di più
alto rango o, in genere, in coloro ai
quali tocca in sorte una discreta fortuna.
152. Infatti tutto questo filosofare,
questa è davvero una delle sventure
della nostra epoca, è ormai trattato con
disprezzo e insultato, piuttosto che
essere tenuto in onore e gloria.
153. A tal punto si è impadronita delle
menti di quasi tutti questa convinzione
esiziale e mostruosa che o non si debba
fare della filosofia per nulla, o che
siano in pochi a doverla fare.
154. Quasi che l’avere dinanzi agli
occhi, tra le mani, con quell’evidenza
che deriva dalla ricerca, le cause delle
cose, le vie della natura, la ragione
dell’universo, i disegni di Dio, i misteri
dei cieli e della terra, sia cosa di nessun
valore, salvo che uno non possa o
ricercare avidamente attraverso ciò una
qualche forma di potere o procacciarsi
un guadagno.
155. Anzi, si è scesi talmente in basso,
ed è davvero doloroso, che ormai si
considerano sapienti solo coloro i quali
usano la filosofia alla stregua di una
22
proposito constitutam hanc inter nos
disceptationem crederem.
167. Quare, obtrectandi omne
lacessendique propositum, et quem
scribit Plato a divino semper abesse
choro, a nostris quoque mentibus
facessat livor, et an disputandum a me,
an de tot etiam questionibus, amice
incognoscamus.
§ 27
168. Primum quidem ad eos, qui hunc
publice disputandi morem
calumniantur, multa non sum dicturus,
quando haec culpa, si culpa censetur,
non solum vobis omnibus, doctores
exce[l]lentissimi, qui sepius hoc
munere, non sine summa et laude et
gloria, functi/136r/ estis, sed Platoni,
sed Aristoteli, sed probatissimis
omnium etatum philosophis mecum est
communis.
169. Quibus erat certissimum nihil ad
consequendam quam querebant
veritatis cognitionem sibi esse, potius
quam ut essent in disputandi
exercitatione frequentissimi.
170. Sicut enim per gymnasticam
corporis vires firmiores fiunt, ita dubio
procul, in hac quasi litteraria palestra,
animi vires et fortiores longe et
vegetiores evadunt.
171. Nec crediderim ego aut poetas
aliud per decantata Palladis arma, aut
Hebreos, cum [barzel], ferrum,
sapientum symbolum esse dicunt,
significasse nobis quam honestissima
hoc genus certamina, adipiscendae
sapientiae oppido quam necessaria.
172. Quo forte fit ut et Caldei in eius
genesi qui philosophus sit futurus, illud
desiderent, ut Mars et Mercurium
triquetro aspectu conspiciat, quasi, si
hos congressus, haec bella substuleris,
merce. Sarebbe come vedere la pudica
Pallade, presente fra gli uomini per
dono degli dèi, bandita, cacciata,
sbeffeggiata, e priva di chi l’ami, di chi
la protegga, a meno che lei stessa –
come una prostituta che ha accettato il
ricavo meschino della verginità perduta
– non rechi nelle tasche dell’amante il
mal guadagnato denaro.
§25.
156. E dico tutte queste cose io – non
senza dolore e indignazione grandissimi
– non tanto verso i principi, quanto
semmai verso i filosofi della nostra
epoca, i quali sono convinti e
sostengono apertamente che non si deve
fare della filosofia giacché non esiste
per i filosofi nessuna ricompensa,
nessun premio stabilito. E dicono
questo, sebbene mostrino con evidenza,
già solo usando quell’unica parola, di
non essere veri filosofi.
157. Perciò, dal momento che tutta la
loro vita è stata consacrata o al denaro o
all’ambizione, sono incapaci di
abbracciare la conoscenza in sé e per sé
della verità.
158. Invece io mi attribuirò il merito – e
non mi vergognerò affatto di tessere le
lodi di me stesso a questo riguardo – di
non aver mai fatto della filosofia con
nessun altro intento tranne quello di
essere, appunto, filosofo, e di non aver
né sperato né richiesto dai miei studi,
dalle mie veglie, alcuna ricompensa o
frutto diverso dal nutrimento del mio
animo e dalla conoscenza della verità,
da me sempre sommamente ricercata.
159. E di essa sono sempre stato
desideroso e l’ho sempre amata
moltissimo, al punto che, messa da
parte ogni preoccupazione privata e
pubblica, mi sono dedicato con tutto me
23
somniculosa et dormitans futura sit
omnis philosophia.
§ 28
173. At vero cum his qui me huic
provintiae imparem dicunt, difficilior
est mihi ratio defensionis: nam si parem
me dixero, forsitan inmodesti et de se
nimia sentientis, si imparem fatebor,
temerarii et inconsulti notam videor
subiturus.
174. Videte quas incidi angustias, quo
loco sim constitutus, dum non possum
sine culpa de me promittere quod non
possum mox sine culpa non praestare.
175. Forte et illud Iob afferre possem
spiritum esse, spiritum esse in omnibus,
et cum Timotheo audire: «Nemo
contemnat adolescientiam tuam».
176. Sed ex mea verius hoc conscientia
dixero, nihil esse in nobis magnum vel
singulare; studiosum me forte et
cupidum bonarum artium non
inficiatus, docti tamen nomen mihi nec
sumo nec arrogo.
177. Quare et quod tam grande humeris
onus imposuerim, non fuit propterea
quod mihi conscius nostrae infirmitatis
non essem, sed quod sciebam hoc
genus pugnis, idest litterariis, esse
peculiare quod in eis lucrum est vinci.
178. Quo fit ut imbecillissimus quisque
non detrectare modo, sed appetere ultro
eas iure possit et debeat.
179. Quandoquidem qui succumbit
beneficium a victore accipit, non
iniuriam, quippe qui per eum et
locupletior domum, idest doctior et ad
futuras pugnas redit instructior.
180. Hac spe animatus, ego infirmus
miles cum fortissimis omnium
strenuisssimisque tam gravem pugnam
decernere nihil sum veritus.
181. Quod tamen temere sit factum nec
stesso all’ozio contemplativo, dal quale
nessuna calunnia degli invidiosi,
nessuna maldicenza dei nemici della
sapienza è riuscita finora a distogliermi,
né vi riuscirà mai in futuro.
160. Proprio la filosofia mi ha
insegnato a dipendere dalla mia
coscienza piuttosto che dai giudizi
altrui, e a riflettere sempre non tanto su
come evitare col mio comportamento
che si parli male di me, quanto semmai
su come non dire o fare io stesso del
male. §26.
161. Pertanto, molto venerabili Padri,
non ero ignaro del fatto che questa mia
proposta di discussione, per tutti voi
che siete a favore delle arti liberali e
che questa disputa avete voluto onorare
della vostra molto autorevole presenza,
si sarebbe rivelata tanto gradita e
amabile, quanto fastidiosa e sgradita
sarebbe invece stata per molti altri. E so
che non mancano coloro i quali hanno
disprezzato la mia impresa prima di
adesso e continuano a farlo anche ora
adducendo vari motivi.
162. Così le buone e sante azioni tese al
conseguimento della virtù sono solite
avere, se non più, certo non meno
denigratori di quelle ingiuste e
malvagie perpetrate per vizio.
163. Ci sono quelli che non approvano
tutto questo genere di discussioni e
quest’uso dei dibattiti intellettuali
pubblici, poiché li ritengono una forma
di ostentazione fatta più per sfoggio di
ingegno e di conoscenza che non per
accrescere il proprio sapere.
164. Poi vi sono coloro che, per la
verità, non disprezzano questo tipo di
esercizio, ma non lo approvano per
niente in me, siccome io a questa età,
avendo cioè solamente ventitré anni, ho
24
ne, rectius utique de eventu pugnae
quam de nostra aetate potest quis
iudicare.
§ 29
182. Restat ut tertio loco his
respondeam, qui numerosa
propositarum rerum multitudine
offenduntur, quasi hoc eorum humeris
sederet onus, et non potius hic mihi soli
quantuscumque est labor, esset
exanclandus.
183. Indecens profecto hoc et morosum
nimis, velle alienae industriae modum
ponere, et, ut inquit Cicero in ea re quae
eo melior quo maior, mediocritatem
desiderare.
184. Omnino tam grandibus ausis erat
necesse me vel succumbere vel
satisfacere; si satisfacerem, non video
cur quod in decem praestare
questionibus est laudabile, in nongentis
etiam praestitisse culpabile existimetur.
185. Si succumberem, habebunt ipsi, si
me oderunt, unde accusarent, si amant
unde excusent.
186. Quoniam in re tam gravi, tam
magna, tenui ingenio, exiguaque
doctrina, adolescentem hominem
defecisse, venia potius dignum erit
quam accusatione.
187. Quin et iuxta poetam: «Si
deficiunt vires, audacia certe laus erit:
in magnis et voluisse sat est».
188. Quod si nostra aetate multi,
Gorgiam Leontinum imitati, non modo
de nongentis sed de omnibus etiam
omnium artium questionibus soliti sunt,
non sine laude, proponere
disputationem, cur mihi non liceat, vel
sine culpa, de multis quidem, sed tamen
certis et determinatis disputare?
§ 30
189. At superfluum inquiunt hoc et
osato proporre una discussione sui
sublimi arcani della teologia cristiana,
sulle più ardue questioni della filosofia,
su discipline inesplorate, in una città
famosissima, dinanzi a un vastissimo
congresso di uomini dottissimi, dinanzi
al senato apostolico.
165. Altri ancora, sebbene mi
concedano di discutere, non vogliono
permettermi di trattare novecento
argomenti, accusandomi ingiustamente
di fare ciò tanto per inutile ostentazione
quanto senza disporre delle forze
necessarie.
166. Io mi sarei arreso anche subito ai
loro rimproveri se così mi avesse
insegnato la filosofia che io professo, e
anche ora non risponderei, come essa
insegna, se pensassi che questa nostra
discussione fosse stata avviata con
l’intento di litigare fino alla rissa.
167. Perciò mettiamo da parte ogni
proposito di ostile provocazione,
allontanando anche dai nostri animi
quell’astio che Platone sostiene essere
sempre assente dalla schiera degli dèi, e
valutiamo amichevolmente se io debba
dare l’avvio a questa discussione e se
inoltre debba farlo su temi così
numerosi.
§27.
168. In primo luogo non ho certamente
intenzione di dire molto a quanti
criticano con malevolenza l’usanza di
discutere in pubblico, dal momento che
questa colpa, se di colpa si deve parlare,
mi accomuna non solo a tutti voi, esimi
dottori, che piuttosto spesso avete
assolto – non senza lode e onore
grandissimi – a tale dovere, ma anche a
Platone e ad Aristotele e ai più famosi
filosofi di tutti i tempi.
169. Ed essi avevano la ferma certezza
25
ambitiosum.
190. Ego vero non superfluo modo, sed
necessario factum hoc a me contendo,
quod et si ipsi mecum
philo/136v/sophandi rationem
considerarent, inviti etiam fateantur
plane necesse est.
191. Qui enim se cuipiam ex
philosophorum familiis addixerunt,
Thomae videlicet aut Scoto, qui nunc
plurimum in manibus, faventes, possunt
illi quidem vel in paucarum questionum
discussione suae doctrinae periculum
facere.
192. At ego ita me institui, ut in nullius
verba iuratus, me per omnes
philosophiae magistros funderem,
omnes scedas excuterem, omnes
familias agnoscerem.
193. Quare, cum mihi de illis omnibus
esset dicendum, ne, si privati dogmatis
defensor reliqua posthabuissem, illi
viderer obstrictus, non potuerunt, etiam
si pauca de singulis proponerentur, non
esse plurima quae simul de omnibus
afferebantur.
194. Nec id in me quisquam damnet,
quod me quocumque ferat tempestas
deferar hospes.
195. Fuit enim cum ab antiquis
omnibus hoc observatum, ut omne
scriptorum genus evolventes, nullas
quas possent commentationes illectas
preterirent, tum maxime ab Aristotele,
qui eam ob causam anagnostes, idest
lector, a Platone nuncupabatur, et
profecto angustae est mentis intra unam
se Porticum aut Achademiam
continuisse.
196. Nec potest ex omnibus sibi recte
propriam selegisse, qui omnes prius
familiariter non agnoverit.
197. Adde quod in una quaque familia
che, per ottenere la conoscenza della
verità che cercavano, non ci fosse nulla
di meglio dell’esercizio il più possibile
assiduo della discussione.
170. Infatti, allo stesso modo in cui i
muscoli del corpo si irrobustiscono con
la ginnastica, così senz’ombra di
dubbio, in questa sorta di palestra
intellettuale, le forze dell’anima
divengono di gran lunga più salde e
vigorose.
171. Così che io mi sono persuaso che
sia i poeti attraverso le tanto celebrate
armi di Pallade, sia gli Ebrei quando
sostengono che il ferro, è il simbolo dei
sapienti, non hanno voluto dirci
nient’altro che questo: tali dispute
molto onorevoli sono del tutto
necessarie al conseguimento della
sapienza.
172. E così, si dà il caso che anche i
caldei richiedano, al momento della
nascita di colui che è destinato a
diventare filosofo, quell’oroscopo in cui
Marte dista di un terzo dello zodiaco
anche da Mercurio, quasi ché, tolti
questi incontri e queste contese, ogni
filosofia debba risultare sonnolenta e
pigra.
§28.
173. A dire il vero però, è più difficile
un mio piano di difesa contro questi che
mi dicono inadeguato a un tale
compito: infatti, mi sembra che, se mi
sarò proclamato alla sua altezza, forse
subirò l’accusa di immodestia insieme a
quella di avere un’eccessiva
considerazione di me stesso, se invece
ammetterò di non esserne all’altezza,
sarò tacciato di temerarietà e di
imprudenza.
174. Vedete in quale difficoltà sono
incappato, in che situazione mi sono
26
est aliquid insigne, quod non sit ei
commune cum caeteris.
§ 31
198. Atque ut a nostris, ad quos
postremo philosophia pervenit, nunc
exordiar, est in Ioanne Scoto vegetum
quiddam atque discussum, in Thoma
solidum et equabile, in Egidio tersum et
exactum, in Francisco acre et acutum,
in Alberto priscum, amplum et grande,
in Henrico, ut mihi visum est, semper
sublime et venerandum.
199. Est apud Arabes, in Averroe
firmum et inconcusum, in Avempace,
in Alpharabio grave et meditatum, in
Avicenna divinum atque Platonicum.
200. Est apud Graecos in universum
quidem nitida, in primis et casta
philosophia; apud Simplicium locuplex
et copiosa, apud Themistium elegans et
compendiaria, apud Alexandrum
constans et docta, apud Theophrastum
gravite elaborata, apud Ammonium
enodis et gratiosa.
201. Et si ad Platonicos te converteris,
ut paucos percenseam, in Porphirio
rerum copia et multiiuga religione
delectaberis, in Iamblico secretiorem
philosophiam et barbarorum mysteria
veneraberis, in Plotino privum
quicquam non est quod admireris, qui
se undique prebet admirandum, quem
de divinis divine, de humanis longe
supra hominem docta sermonis
obliquitate loquentem, sudantes
Platonici vix intelligunt.
202. Pretereo magis novitios, Proculum
Asiatica fertilitate luxuriantem et qui ab
eo fluxerunt Hermiam, Damascum,
Olympiodorum et complures alios, in
quibus omnibus illud to Theion, idest
divinum peculiare Platonicorum
simbolum elucet semper.
cacciato, poiché che non posso senza
colpa promettere, per mia parte, ciò che
subito dopo non posso senza colpa non
mantenere.
175. Forse potrei citare quel famoso
detto di Giobbe che sostiene che lo
spirito esiste ed è davvero presente in
tutti gli uomini, e con Timoteo ripetere:
«Nessuno disprezzi la tua giovane età».
176. Ma per parlare in coscienza potrei
dire con tutta sincerità che in me non
v’è nulla di grande o di singolare; pur
senza negare di essere forse avido di
apprendere e desideroso delle virtù,
tuttavia non mi attribuisco né pretendo
il titolo di dotto.
177. A chi mi chieda come e perché io
abbia caricato sulle mie spalle un peso
tanto grande, risponderò che non fu
certo perché io non fossi consapevole
della mia debolezza, bensì perché
sapevo che è proprio di questo genere
di battaglie, quelle intellettuali, il fatto
che in esse l’esser vinti sia in realtà un
guadagno.
178. Ne consegue che tutti i più deboli
possono e debbono non tanto sottrarsi a
tali battaglie, ma anzi a pieno diritto
ricercarle.
179. Dal momento che colui che perde
riceve dal vincitore un beneficio, e non
un’offesa, proprio perché – grazie a
esso – torna a casa anche più ricco di
quando era partito, ossia più colto e più
pronto a intraprendere future battaglie.
180. Animato da questa speranza io,
pur essendo un debole soldato, non ho
avuto nessun timore di combattere una
battaglia tanto difficile contro gli
avversari più forti e valorosi.
181. E tuttavia, se ciò sia stato
intrapreso con sconsideratezza o meno,
lo si può giudicare più propriamente a
27
§ 32
203. Accedit quod, si qua est secta quae
veriora incessat dogmata et bonas
causas ingenii calumnia ludificetur, ea
veritatem firmat, non infirmat, et, velut
motu quassatam flammam, excitat, non
extinguit.
204. Hac ego ratione motus, non unius
modo (ut quibusdam placebat), sed
omnigenae doctrinae placita in medium
afferre volui, ut hac complurium
sectarum collatione ac multifariae
discussione philosophiae, ille veritatis
fulgor, cuius Plato meminit in Epistolis,
animis nostris quasi sol oriens ex alto
clarius illucesceret.
205. Quid erat, si Latinorum tantum,
Alberti scilicet, Thomae, Scoti, Egidii,
Francisci, Henricique philosophia,
obmissis/137r/ Graecorum Arabumque
philosophis, tractabatur?
206. Quando omnis sapientia a Barbaris
ad Graecos, a Graecis ad nos manavit.
207. Ita nostrates semper in
philosophandi ratione peregrinis
inventis stare, et aliena excoluisse sibi
duxerunt satis.
208. Quid erat cum Peripateticis egisse
de naturalibus nisi et Platonicorum
accersebatur Achademia, quorum
doctrina et de divinis semper inter
omnes philosophias, teste Augustino,
habita est sancitissima et a me nunc
primum, quod sciam, (verbo absit
invidia) post multa secula sub
disputandi examen est in publicum
allata.
209. Quid erat et aliorum quot quot
erant tractasse opiniones, si quasi ad
sapientum symposium asymboli
accedentes, nihil nos quod esset
nostrum, nostro partum et elaboratum
ingenio, afferebamus?
partire dall’esito della contesa piuttosto
che dalla mia età.
§ 29.
182. Ciò che mi resta, in terzo luogo, è
rispondere a chi si sente offeso dal gran
numero delle tesi che ho proposto,
come se questo peso gravasse sulle loro
spalle e non fossi piuttosto solo io a
dover sopportare questa fatica, per
quanto grande essa sia.
183. C’è vera insolenza e troppo
puntiglio nel voler porre un limite
all’operosità degli altri e, come dice
Cicerone, esigere la mediocrità in ciò
che tanto più è bello quanto più è
grande.
184. Dinanzi a un’impresa così
rischiosa, era senz’altro necessario o
che fossi sconfitto o che avessi
successo; in caso di successo non vedo
perché quello che è encomiabile
compiere in dieci questioni venga
giudicato colpevole se compiuto in
novecento.
185. Se poi fossi sconfitto, essi avranno
di che accusarmi, se mi odiano, o di che
scusarmi, se mi amano.
186. Infatti, che sia stato un giovane,
per debolezza d’ingegno e scarsa
dottrina, a soccombere in un’impresa
così importante e così grande, sarà un
fatto degno di perdono piuttosto che di
accusa.
187. E anzi, come dice il poeta, se
verranno meno le forze, lode certo vi
sarà per l’ardire; in grandi imprese già
l’aver voluto è sufficiente.
188. Infatti, se è vero che molti ai nostri
giorni, imitando Gorgia da Leontini,
usano proporre, non senza essere
approvati, la discussione non solo di
novecento questioni, ma addirittura di
tutte le questioni di tutte le arti, perché
28
210. Profecto ingenerosum est (ut ait
Seneca) sapere solum ex commentario
et quasi maiorum inventa nostrae
industriae viam praecluserint, quasi in
nobis effaeta sit vis naturae, nihil ex se
parere, quod veritatem, si non
demonstret, saltem innuat vel de
longinquo.
211. Quod si in agro colonus, in uxore
maritus odit sterilitatem, certe tanto
magis infecundam animam oderit illi
complicita et associata divina mens,
quanto inde nobilior longe proles
desideratur.
§ 33
212. Propterea non contentus ego,
praeter comunes doctrinas multa de
Mercurii Trismegisti prisca theologia,
multa de Caldeorum, de Pythagorae
disciplinis, multa de secretioribus
Hebreorum addidisse mysteriis, plurima
quoque per nos inventa et meditata, de
naturalibus et divinis rebus disputanda
proposuimus.
§ 34
213. Proposuimus primo Platonis
Aristotelisque concordiam a multis ante
hac creditam, a nemine satis probatam.
Boetius, apud Latinos id se facturum
pollicitus, non invenitur fecisse unquam
quod semper facere voluit.
214. Simplicius, apud Graecos idem
professus, utinam id tam praestaret
quam pollicetur.
215. Scribit et Augustinus in
Achademicis non defuisse plures qui
subtilissimis suis disputationibus idem
probare conati sint, Platonis scilicet et
Aristotelis eandem esse philosophiam.
216. Ioannes item Grammaticus cum
dicat apud eos tantum dissidere
Platonem ab Aristotele, qui Platonis
dicta non intelligunt probandum tamen
non deve essere permesso a me, e senza
biasimo, discutere di questioni
numerose certo, ma almeno precise e
determinate?
§ 30
189. Ma costoro dicono che questa è
impresa superflua e ambiziosa.
190. Io invece sostengo di non averla
compiuta come cosa superflua, ma per
necessità, perché loro stessi, se
considerassero con me le ragioni del
filosofare, dovrebbero ammettere anche
controvoglia che è cosa assolutamente
necessaria.
191. Infatti, quelli che si sono accodati
a una qualunque scuola filosofica,
schierandosi per esempio a favore di
Tommaso o di Scoto, gli autori che ora
si trovano nelle mani dei più, loro sì
possono mettere a repentaglio la loro
dottrina anche in una discussione di
poche questioni.
192. Io invece mi sono proposto, senza
giurare sulla parola di nessuno, di
diffondermi su tutti i maestri della
filosofia, di esaminare ogni pagina, di
conoscere tutte le scuole.
193. Perciò, dovendo io parlare di tutti i
filosofi, per non sembrare legato a una
dottrina particolare qualora avessi,
come ne fossi il difensore, trascurato le
altre, non potevano non essere
moltissime le questioni che si riferivano
nell’insieme a tutti quanti, anche se per
ciascuno di loro ne fossero state
proposte solo poche.
194. E non mi si rimproveri che
«dovunque mi portano le circostanze,
mi lascio portare come ospite».
195. Infatti, il principio per cui chi
studia ogni genere di scrittori non
manchi di leggere tutte le opere che
può, fu osservato da tutti gli antichi e
29
posteris hoc reliquit.
217. Addidimus autem et plures locos
in quibus Scoti et Thomae, plures in
quibus Averrois et Avicennae
sententias, quae discordes existimantur,
concordes esse nos asseveramus.
§ 35
218. Secundo loco quae in philosophia
cum Aristotelica tum Platonica
excogitavimus nos, tum duo et
septuaginta nova dogmata physica et
methaphisica collocavimus, quae si
quis teneat, poterit, nisi fallor, quod
mihi erit mox manifestum,
quamcumque de rebus naturalibus
divinisque propositam questionem
longe alia dissolvere ratione quam per
eam edoceamur quae et legitur in scolis
et ab huius evi doctoribus colitur
philosophiam.
219. Nec tam admirari quis debet,
Patres, me in primis annis, in tenera
etate, per quam vix licuit (ut iactant
quidam) aliorum legere
commentationes, novam afferre velle
philosophiam, quam vel laudare illam,
si defenditur, vel damnare, si reprobatur
et denique, cum nostra inventa haec
nostrasque sint litteras iudicaturi, non
auctoris annos, sed illorum merita
potius vel demerita numerare.
§ 36
220. Est autem, et praeter illam, alia,
quam nos attulimus, nova per numeros
philosophandi institutio antiqua, illa
quidem et a priscis theologis, a
Pythagora presertim, ab Aglaopheno, a
Philolao, a Platone prioribusque
Platonicis observata.
221. Sed quae hac tempestate, ut
preclara alia, posteriorum incuria sic
exolevit, ut vix vestigia ipsius ulla
reperiantur.
soprattutto da Aristotele, che per questa
ragione fu chiamato da
Platone anagnostes , ossia lettore, ed è
davvero segno di chiusura mentale
confinarsi all’interno di una sola scuola,
sia essa il Portico o l’Accademia.
196. E non può scegliere la propria
scuola fra tutte quante senza sbagliare,
chi non le abbia prima conosciute tutte
da vicino.
197. Per di più in ciascuna scuola c’è
qualche cosa di peculiare, che essa non
ha in comune con le altre.
§ 31.
198. E ora, per cominciare dai nostri, ai
quali è giunta da ultimo la filosofia, in
Giovanni Scoto troviamo una vigorosa
dialettica, in Tommaso un solido
equilibrio, in Egidio una nitida
precisione, in Francesco una penetrante
acutezza, in Alberto, un’ampiezza
maestosa e antica, in Enrico, per quel
che mi è parso, una costante e
veneranda elevatezza. 199. Tra gli
Arabi, in Averroè troviamo una
fermezza incrollabile, in Avempace e in
al-Farabi una ponderata riflessione, in
Avicenna, una divina sublimità
platonica. 200. Tra i Greci la filosofia è
limpida in generale e casta in
particolare; è ricca e copiosa in
Simplicio, elegante e compendiosa in
Temistio, coerente e dotta in
Alessandro, profonda ed elaborata in
Teofrasto, scorrevole e aggraziata in
Ammonio.
201. Se ci volgiamo poi ai platonici, per
ricordarne pochi soltanto, in Porfirio
piacerà l’abbondanza degli argomenti e
la complessa religiosità, in Giamblico si
venereranno i misteri dei barbari e la
filosofia più segreta, in Plotino non c’è
nessuna cosa che si ammiri
30
222. Scribit Plato in Epinomide, inter
omnes liberales artes et scientias
contemplatrices praecipuam
maximeque divinam/137v/esse
scientiam numerandi.
223. Querens item, cur homo animal
sapientissimum? Respondet: «Quia
numerare novit».
224. Cuius sententiae et Aristoteles
meminit in Problematis.
225. Scribit Abumasar verbum fuisse
Avenzoar Babilonii, eum omnia nosse
qui noverat numerare.
226. Quae vera esse nullo modo
possunt, si per numerandi artem eam
artem intellexerunt cuius nunc
mercatores in primis sunt peritissimi,
quod et Plato testatur, exerta nos
admonens voce ne divinam hanc
arithmeticam mercatoriam esse
arithmeticam intelligamus.
227. Illam ergo arithmeticam, quae ita
extollitur, cum mihi videar post multas
lucubrationes exploratam habere,
huiusce rei periculum facturus, ad
quator et LXX questiones, quae inter
physicas et divinas principales
existimantur, responsurum per numeros
publice me sum pollicitus.
§ 37
228. Proposuimus et magica
theoremata, in quibus duplicem esse
magiam significavimus, quarum altera
demonum tota opere et auctoritate
constat, res medius fidius execranda et
portentosa.
229. Altera nihil est aliud, cum bene
exploratur, quam naturalis philosophiae
absoluta consumatio.
230. Utriusque cum meminerint Greci,
illam magiae nullo modo nomine
dignantes goeteian nuncupant, hanc
propria peculiarique appellatione
particolarmente, perché si fa ammirare
dovunque, egli che è inteso appena e
con fatica dai platonici per come parla,
con linguaggio sapientemente allusivo,
in modo divino delle cose divine, e
delle cose umane in modo molto
superiore all’umano .
202. Non mi occupo dei più recenti:
Proclo, col lussureggiare della sua
esuberanza asiatica, e tutti quelli che gli
hanno fatto seguito, Ermia, Damascio,
Olimpiodoro e molti altri, nei quali
rifulge sempre quel [to Theion] , ossia
quel che di divino che è caratteristica
peculiare dei platonici.
§ 32.
203. Si aggiunga poi che se c’è una
scuola che combatte i principi più veri e
che dileggia calunniosamente le buone
ragioni dell’ingegno, essa non
indebolisce, ma rafforza la verità e
nemmeno la spegne, ma la ravviva
come una fiamma scossa dal
movimento. 204. Per questo motivo ho
voluto presentare le opinioni non di una
sola dottrina, come sarebbe piaciuto a
qualcuno, ma di tutte quante, in modo
che dal confronto di più scuole e dalla
discussione di diverse filosofie
risplendesse più chiaramente
nell’animo nostro, come sole nascente
dall’alto, quel «fulgore della verità» di
cui parla Platone nelle sue lettere.
205. A che cosa sarebbe servito trattare
soltanto la filosofia dei latini, cioè
quella di Alberto, di Tommaso, di
Scoto, di Egidio, di Francesco, di
Enrico, trascurando i greci e gli arabi?
206. Proprio quando tutta la sapienza è
passata dai barbari ai greci e dai greci a
noi?
207. Per questo i nostri pensatori hanno
sempre creduto che a proposito di
31
mageian, quasi perfectam summamque
sapientiam vocant.
231. Idem enim, ut ait Porphyrius,
Persarum lingua magus sonat quod
apud nos divinorum interpres et cultor.
232. Magna autem, immo maxima,
Patres, inter has artes disparilitas et
dissimilitudo.
233. Illam non modo Christiana religio,
sed omnes leges, omnis bene instituta
respublica damnat et execratur.
234. Hanc omnes sapientes, omnes
caelestium et divinarum rerum
studiosae nationes, approbant et
amplectuntur.
235. Illa artium fraudulentissima, haec
altior sanctiorque philosophia, illa irrita
et vana, haec firma fidelis et solida.
236. Illam quisquis coluit semper
dissimulavit, quod in auctoris esset
ignominiam et contumeliam, ex hac
summa litterarum claritas gloriaque
antiquitus et pene semper petita.
237. Illius nemo unquam studiosus fuit
vir philosophus et cupidus discendi
bonas artes; ad hanc Pythagoras,
Empedocles, Democritus, Plato,
discendam navigavere, hanc
predicarunt reversi, et in archanis
precipuam habuerunt.
238. Illa, ut nullis rationibus, ita nec
certis probatur auctoribus; haec,
clarissimis quasi parentibus honestata,
duos precipue habet auctores:
Xamolsidem, quem imitatus est
Abbaris Hyperboreus, et Zoroastrem,
non quem forte creditis, sed illum
Oromasi filium.
239. Utriusque magia quid sit,
Platonem si percontemur, respondebit
in Alcibiade: Zoroastris magiam non
esse aliud quam divinorum scientiam,
qua filios Persarum reges erudiebant, ut
filosofia bastasse loro attenersi alle
scoperte degli altri e coltivare le
dottrine altrui.
208. A che cosa sarebbe servito
discutere con i peripatetici di cose
naturali senza chiamare in causa anche
l’Accademia dei platonici, la cui
dottrina anche sulle cose divine fu
sempre ritenuta, come testimonia
Agostino, la più santa fra tutte le
filosofie e che ora, per quanto ne so,
sono io il primo dopo molti secoli, e sia
detto senza voler suscitare alcuna
gelosia, a mettere alla prova di una
discussione pubblica?
209. A che cosa sarebbe servito trattare,
tante quant’erano, le opinioni degli
altri, se, accedendo al convito dei
sapienti come chi non rechi la sua parte,
non avessi portato nulla di mio, nulla
che non fosse elaborato e prodotto dal
mio ingegno?
210. E’ davvero poco dignitoso, come
dice Seneca, conoscere solo attraverso i
libri e, come se le scoperte dei
predecessori avessero precluso la via
alla nostra ricerca, come se in noi si
fosse esaurito il vigore naturale, non
trarre da noi stessi nulla che, se non
dimostra la verità, almeno la indichi sia
pur lontanamente.
211. Infatti, se il contadino odia la
sterilità nel campo e il marito nella
moglie, sicuramente la mente divina
odierà tanto più l’anima infeconda che
gli è congiunta e associata, quanto di
gran lunga più nobile è il frutto che si
attende da lei.
§ 33.
212. Perciò io, non contento di avere
aggiunto, oltre alle dottrine comuni,
molte cose tratte dall’antichissima
teologia di Ermete Trismegisto, molte
32
ad exemplar mundanae reipublicae
suam ipsi regere rempublicam
edocerentur.
240. Respondebit in Carmide, magiam
Xalmosidis esse animi medicinam, per
quam scilicet animo temperantia, ut per
illam corpori sanitas comparatur.
§ 38
241. Horum vestigiis postea perstiterunt
Carondas, Damigeron, Apollonius,
Hostanes et Dardanus.
242. Perstitit Homerus, quem ut omnes
alias sapientias, ita hanc quoque sub sui
Ulixis erroribus dissimulasse in poetica
nostra theologia aliquando probabimus.
243. Perstiterunt Eudoxus et
Hermippus.
244. Perstiterunt fere omnes qui
Pythagorica Platonicaque mysteria sunt
perscrutati.
245. Ex iunioribus autem, qui eam
olfecerint tres reperio, Alchindum
Arabem, Rogerium Baconem et
Guilielmum Parisiensem.
246. Meminit et Plotinus, ubi naturae
ministrum esse et non artificiem
magum demonstrat: hanc magiam
probat /138r/ asseveratque vir
sapientissimus, alteram ita abhorrens ut,
cum ad malorum demonum sacra
vocaretur, rectius esse, dixerit, ad se
illos quam se ad illos accedere, et
merito quidem.
247. Ut enim illa obnoxium
mancipatumque improbis potestantibus
hominem reddit, ita haec illarum
principem et dominum.
248. Illa denique nec artis nec scientiae
sibi potest nomen vendicare; haec
altissimis plena misteriis,
profundissimam rerum secretissimarum
contemplationem, et demum totius
naturae cognitionem complectitur.
altre ricavate dagli insegnamenti dei
Caldei e di Pitagora e molte altre ancora
derivanti dai misteri più riposti degli
ebrei, ho proposto alla discussione
anche numerose scoperte e riflessioni
soltanto mie, riguardanti le cose
naturali e quelle divine.
§ 34.
213. In primo luogo ho proposto
l’accordo tra Platone e Aristotele, a cui
molti credevano già prima di me, ma
che nessuno aveva sufficientemente
dimostrato. Boezio, tra i latini, aveva
promesso di farlo, ma non si trova che
abbia mai fatto quello che sempre si
propose di fare.
214. Anche Simplicio, tra i greci,
l’aveva detto, ma avesse mai mantenuto
quello che aveva promesso.
215. E Agostino scrive che tra gli
accademici non erano pochi quelli che
con le loro sottilissime argomentazioni
avevano cercato di dimostrare la stessa
cosa, ossia che la filosofia di Platone e
di Aristotele è la stessa.
216. E Giovanni il Grammatico, pur
affermando che Platone differisce da
Aristotele solo per coloro che non
capiscono quello che Platone dice, ha
tuttavia lasciato ai posteri il compito di
dimostrarlo.
217. Ho anche aggiunto numerose tesi
in cui sostengo che talune affermazioni
di Scoto e di Tommaso, giudicate
discordanti, sono invece in accordo e
numerose altre in cui sostengo la stessa
cosa per affermazioni simili di Averroè
e di Avicenna.
§ 35.
218. In secondo luogo, chi comprenderà
non solo le tesi che ho escogitato sulla
filosofia aristotelica e su quella
platonica, ma anche le settantadue tesi
33
249. Haec, inter sparsas Dei beneficio
et inter seminatas mundo virtutes, quasi
de latebris evocans in lucem, non tam
facit miranda quam facienti naturae
sedula famulatur.
250. Haec universi consensum, quem
significantius Graeci sumpatheian
dicunt, introrsum perscrutatius rimata et
mutuam naturarum cognitionem habens
perspectatam, nativas adibens
unicuique rei et suas illecebras, quae
magorum iunges nominantur, in mundi
recessibus, in naturae gremio, in
promptuariis arcanisque Dei latitantia
miracula, quasi ipsa sit artifex, promit
in publicum, et sicut agricola ulmos
vitibus, ita magus terram caelo, idest
inferiora superiorum dotibus
virtutibusque maritat.
251. Quo fit ut quam illa prodigiosa et
noxia, tam haec divina et salutaris
appareat.
252. Ob hoc praecipue quod illa
hominem, Dei hostibus mancipans,
avocat a Deo, haec in eam operum Dei
admirationem excitat, quam propensa
charitas, fides ac spes, certissime
consequuntur.
253. Neque enim ad religionem, ad Dei
cultum quicquam promovet magis
quam assidua contemplatio mirabilium
Dei, quae ut per hanc de qua agimus
naturalem magiam bene
exploraverimus, in opificis cultum
amoremque ardentius animati illud
canere compellemur: «Pleni sunt caeli,
plena est omnis terra maiestate gloriae
tuae».
254. Et haec satis de magia, de qua
haec diximus, quod s[c]io esse plures
qui, sicut canes ignotos semper
adlatrant, ita et ipsi saepe damnant
oderuntque quae non intelligunt.
nuove che ho proposto in fisica e in
metafisica – se non sono in errore, cosa
che mi sarà chiara tra poco – potrà
risolvere qualunque questione gli sia
proposta su cose naturali e divine con
principi affatto diversi da quelli che ci
vengono insegnati dalla filosofia che si
insegna nelle scuole ed è coltivata dai
maestri del nostro tempo.
219. E, Padri, il fatto che io, nei miei
primi anni, nella tenera età in cui come
qualcuno pretende è appena permesso
leggere le opere altrui, voglia introdurre
una nuova filosofia, non deve indurre
tanto alla meraviglia, quanto alla lode
se essa è sostenibile, o alla condanna se
essa è confutabile; e infine, chi
giudicherà di queste mie scoperte e
della mia cultura, dovrà contare,
piuttosto che gli anni dell’autore, i
meriti o i demeriti di quelle dottrine.
§ 36.
220. C’è poi, oltre a quella, un’altra
maniera di filosofare per mezzo dei
numeri che ho presentato come nuova,
ma che in verità è antica anch’essa e fu
seguita dai teologi prischi, da Pitagora
in particolare, da Aglaofemo, da
Filolao, da Platone e dai primi
platonici. 221. Ma oggi, come altre
teorie illustri, è caduta talmente in
disuso per l’incuria dei posteri, che si
stenta a trovarne qualche traccia.
222. Nell’Epinomide, Platone scrive
che fra tutte le arti liberali e le scienze
contemplative quella principale e
massimamente divina è la scienza del
numerare.
223. E domandandosi perché l’uomo
sia il più sapiente di tutti gli animali,
risponde: «perché conosce i numeri».
224. Anche Aristotele cita questa
massima nei Problemi.
34
§ 39
255. Venio nunc ad ea quae ex antiquis
Hebreorum mysteriis eruta, ad
sacrosantam et catholicam fidem
confirmandam attuli, quae ne forte ab
his, quibus sunt ignota, commentitiae
nugae aut fabulae circumlatorum
existimentur, volo intelligant omnes
quae et qualia sint, unde petita, quibus
et quam claris auctoribus confirmata et
quam reposita, quam divina, quam
nostris hominibus ad propugnandam
religionem contra Hebreorum
importunas calumnias sint necessaria.
§ 40
256. Scribunt non modo celebres
Hebreorum doctores, sed ex nostris
quoque Hesdras, Hilarius et Origenes,
Mosen non legem modo, quam quinque
exaratam libris posteris reliquit, sed
secretionem quoque et veram legis
enarrationem in monte divinitius
accepisse; preceptum autem ei a Deo ut
legem quidem populo publicaret, legis
interpretationem nec traderet litteris,
nec invulgaret, sed ipse Iesu Nave
tantum, tum ille aliis deinceps
succedentibus sacerdotum primoribus,
magna silentii religione, revelaret.
257. Satis erat per simplicem historiam
nunc Dei potentiam, nunc in improbos
iram, in bonos clementiam, in omnes
iustitiam agnoscere, et per divina
salutariaque precepta ad bene beateque
vivendum et cultum verae religionis
institui.
258. At mysteria secretiora et sub
cortice legis rudique verborum pretestu
latitantia, altissimae divinitatis archana,
plebi palam facere, quid erat aliud
quam dare sanctum canibus et inter
porcos spargere margaritas?
§ 41
225. Abumasar scrive che questo detto,
«colui che sa numerare conosce ogni
cosa», era del babilonese Avenzoar.
226. Ma queste cose non potrebbero
essere assolutamente vere se per arte
del numerare essi avessero inteso quella
in cui oggi sono abilissimi soprattutto i
mercanti; anche Platone lo conferma
quando ci ammonisce apertamente a
non credere che questa aritmetica
divina sia l’aritmetica che usano i
mercanti. 227. Siccome, dopo lunghi
studi a lume di lucerna, mi sembra di
avere esaminato a fondo
quell’aritmetica che viene celebrata in
tale maniera, per metterla in
discussione mi sono impegnato a
rispondere pubblicamente secondo la
scienza dei numeri a settantaquattro
questioni che sono considerate le più
importanti tra quelle che riguardano le
realtà fisiche e quelle divine.
§ 37.
228. Ho proposto anche teoremi di
argomento magico, nei quali ho
mostrato che ci sono due forme di
magia; di queste, una dipende
completamente dall’opera e dal volere
dei demoni ed è, in fede mia, esecrabile
e mostruosa.
229. L’altra, se la si esamina bene, non
è nient’altro che la compiuta perfezione
della filosofia naturale.
230. I Greci parlano di entrambe, ma
chiamano la prima goeteian, non
degnandola nemmeno del nome di
magia, mentre col nome proprio ed
esclusivo di mageian designano l’altra,
intesa come sapienza somma e perfetta.
231. Infatti, come dice Porfirio, in
lingua persiana mago ha lo stesso
significato che ha per noi interprete e
cultore di cose divine.
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259. Ergo haec clam vulgo habere,
perfectis communicanda, inter quos
tantum sapientiam loqui se ait Paulus,
non humani consilii sed divini precepti
fuit.
260. Quem morem antiqui philosophi
sanctissime ob/138v/ servarunt.
261. Pythagoras nihil scripsit nisi
paucula quaedam, quae Damae filiae
moriens commendavit.
262. Egiptiorum templis insculptae
Sphinges, hoc admonebant ut mistica
dogmata per enigmatum nodos a
prophana multitudine inviolata
custodirentur.
263. Plato Dionisio quaedam de
supremis scribens substantiis: «Per
enigmata, inquit, dicendum est, ne si
epistola forte ad aliorum pervenerit
manus, quae tibi scribimus ab aliis
intelligantur».
264. Aristoteles libros Methaphisicae in
quibus agit de divinis editos esse et non
editos dicebat.
265. Quid plura? Iesum Christum vitae
magistrum asserit Origenes multa
revelasse discipulis, quae illi, ne vulgo
fierent comunia, scribere noluerunt.
266. Quod maxime confirmat
Dyonisius Areopagita, qui secretiora
mysteria a nostrae religionis auctoribus
ek nou eis noun dia meson logon, idest
ex animo in animum, sine litteris,
medio intercedente verbo, ait fuisse
transfusa.
267. Hoc eodem penitus modo cum ex
Dei praecepto vera illa legis
interpretatio Moisi deitus tradita
revelaretur, dicta est Cabala, quod idem
est apud Hebreos quod apud nos
«receptio»; ob id scilicet quod illam
doctrinam, non per litterarum
monumenta, sed ordinariis
232. Dunque è grande, anzi
grandissima, o Padri, la disparità e la
differenza tra queste due arti.
233. La prima è condannata e aborrita
non solo dalla religione cristiana, ma
anche da tutte le leggi e in ogni stato
ben costituito.
234. La seconda è approvata e
abbracciata da tutti i sapienti e da ogni
popolo amante delle cose celesti e
divine.
235. La prima è la più fraudolenta tra
tutte le arti, la seconda è la filosofia più
alta e più santa; la prima è sterile e
vana, la seconda è salda, degna di fede
e certa.
236. La prima, chiunque l’ha praticata
l’ha sempre nascosta, perché sarebbe
stata vergognosa e insultante per il suo
autore; dalla seconda, fin dall’antichità,
tutti si sono sempre attesi grandissima
celebrità e gloria negli studi.
237. Della prima non si è mai occupato
nessun filosofo e nessun uomo
desideroso di apprendere arti benefiche;
per imparare la seconda Pitagora,
Empedocle, Democrito e Platone hanno
attraversato il mare e al loro ritorno
l’hanno insegnata e considerata come la
più importante delle arti arcane.
238. La prima non si fonda su nessun
principio e non è approvata da nessun
autore sicuro; la seconda, come se fosse
nobilitata da genitori illustri, ha
soprattutto due autori, Zalmoxide,
imitato da Abari l’Iperboreo, e
Zoroastro, non quello che forse si
crede, ma il figlio di Oromasio.
239. Se chiediamo a Platone che cosa
sia la magia di tutti e due, risponderà,
nell’Alcibiade, che la magia di
Zoroastro non è altro che quella
conoscenza delle cose divine che i re
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revelationum successionibus alter ab
altero quasi H[e]reditario iure reciperet.
§ 42
268. Verum postquam Hebrei a
Babilonica captivitate restituti per
Cyrum et sub Zorobabel instaurato
templo ad reparandam legem animum
appulerunt, Esdras, tunc ecclesiae
praefectus, post emendatum Moseos
librum, cum plane cognosceret per
exilia, cedes, fugas, captivitatem gentis
Israeliticae institutum a maioribus
morem tradendae per manus doctrinae
servari non posse, futurumque ut sibi
divinitus indulta celestis doctrinae
arcana perirent, quorum commentariis
non intercedentibus durare diu memoria
non poterat, constituit ut, convocatis
qui tunc supererant sapientibus, afferret
unusquisque in medium quae de
mysteriis legis memoriter tenebat,
adhibitisque notariis in LXX volumina
(tot enim fere in sinedrio sapientes)
redigerentur.
269. Qua de re ne mihi soli credatis,
Patres, audite Esdram ipsum sic
loquentem: «Exactis XL diebus
loquutus est Altissimus dicens. Priora
quae scripsisti in palam pone, legant
digni et indigni, novissimos autem
LXX libros conservabis ut tradas eos
sapientibus de populo tuo.
270. In his enim est vena intellectus et
sapientiae fons et scientiae flumen.
271. Atque ita feci».
272. Haec Esdras ad verbum.
273. Hi sunt libri scientiae Cabalae, in
his libris merito Esdras venam
intellectus, idest ineffabilem de
supersubstantiali deitate theologiam,
sapientiae fontem, idest de
intelligibilibus angelicisque formis
exactam methaphisicam, et scientiae
persiani insegnavano ai loro figli,
perché imparassero a reggere l’ordine
politico sul modello dell’ordine del
mondo.
240. E risponderà, nel Carmide, che la
magia di Zalmoxide è la medicina
dell’anima, ossia quella con cui si
ottiene l’equilibrio dell’anima, così
come con l’altra si ottiene la salute del
corpo.
§ 38.
241. Seguirono poi le loro tracce
Caronda, Damigeron, Apollonio,
Ostane e Dardano.
242. Le seguì anche Omero, che, come
tutte le altre forme di sapienza,
dissimulò anche questa sotto le
peregrinazioni del suo Ulisse, come
mostrerò un giorno in una mia Teologia
poetica.
243. Le seguirono Eudosso ed Ermippo.
244. Le seguirono quasi tutti coloro che
studiarono a fondo i misteri pitagorici e
platonici.
245. Tra gli autori più recenti, poi, ne
trovo tre che ne scoprirono le tracce,
l’arabo al-Kindi, Ruggero Bacone e
Guglielmo di Parigi.
246. Anche Plotino la cita, là dove
dimostra che il mago è il ministro e non
l’artefice della natura; quell’uomo
sapientissimo approva e giustifica
questo genere di magia, mentre
aborrisce l’altra a tal punto che, invitato
a riti di demoni maligni, disse
opportunamente che era meglio che essi
andassero da lui, piuttosto che lui da
loro.
247. Infatti, come la prima magia rende
l’uomo sottomesso e schiavo di potenze
maligne, così la seconda lo rende loro
signore e padrone.
248. La prima, insomma, non può
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flumen, idest de rebus naturalibus
firmissimam philosophiam esse, clara
in primis voce pronuntiavit.
§ 43
274. Hi libri Sixtus quartus Pontifex
Maximus, qui hunc sub quo vivimus
foeliciter Innocentium VIII proxime
antecessit, maxima cura studioque
curavit ut in publicam fidei nostrae
utilitatem Latinis litteris mandarentur.
275. Iamque cum ille decessit, tres ex
illis pervenerant ad Latinos.
276. Hi libri apud Hebreos hac
tempestate tanta religione coluntur, ut
neminem liceat nisi annos XL natum
illos attingere.
277. Hos ego libros non mediocri
impensa mihi cum comparassem,
summa diligentia indefessis laboribus
cum perlegissem, vidi in illis (testis est
Deus) religionem non tam Mosaicam
quam Christianam.
278. Ibi Trinitatis mysterium, ibi Verbi
incarnatio, ibi Messiae divinitas, ibi de
peccato originali, de illius per Christum
expiatione, de caelesti Hyerusalem de
casu demonum, de ordinibus
angelorum, de purgatoriis, de inferorum
paenis, eadem legi quae apud Paulum et
Dyonisium/139r/ apud Hieronymum et
Augustinum quotidie legimus.
279. In his vero quae spectant ad
philosophiam, Pythagoram prorsus
audias et Platonem, quorum decreta ita
sunt fidei Christianae affinia, ut
Augustinus noster immensas Deo
gratias agat quod ad eius manus
pervenerint libri Platonicorum.
§ 44
280. In plenum nulla est ferme de re
nobis cum Hebreis controversia de qua
ex libris Cabalistarum ita redargui
convincique non possint, ut ne angulus
rivendicare per sé né il nome di arte, né
il nome di scienza; la seconda invece,
piena di elevatissimi misteri,
comprende la profondissima
contemplazione delle cose più recondite
fino alla conoscenza dell’intera realtà
naturale.
249. Essa, quasi richiamando in piena
luce dai loro nascosti recessi le virtù
sparse e disseminate nel mondo
dall’opera benefica di Dio, non compie
tanto i miracoli, ma piuttosto serve
assiduamente la natura che li compie.
250. Essa, avendo esaminato
intimamente con uno sguardo più
penetrante quell’accordarsi di tutte le
cose che i Greci con una parola più
espressiva chiamano sumpatheian e
avendo osservato la reciproca
cognizione che le cose naturali hanno
l’una dell’altra, rivolgendo a ciascuna
di esse gli allettamenti connaturali e
appropriati, quelli che sono chiamati
dei maghi, fa venire alla luce, quasi ne
fosse l’artefice, i miracoli che si
nascondono nei recessi dell’universo, in
grembo alla natura, e negli arcani
anfratti divini; e come il contadino
sposa gli olmi alla vite, così il mago
sposa la terra al cielo, ossia le realtà
inferiori alle qualità e alle virtù di
quelle superiori.
251. Ne consegue che quanto la prima
magia si rivela mostruosa e nociva,
tanto la seconda si rivela salutare e
divina.
252. Soprattutto perché la prima,
assoggettando l’uomo ai nemici di Dio,
lo allontana da lui, mentre la seconda lo
spinge a un’ammirazione tale delle
opere di Dio, che per affinità ne
seguono con assoluta certezza la carità,
la fede e la speranza.
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quidem reliquus sit in quem se condant.
281. Cuius rei testem gravissimum
habeo Antonium Cronicum, virum
eruditissimum, qui suis auribus cum
apud eum essem in convivio, audivit
Dactylum Hebreum peritum huius
scientiae in Christianorum prorsus de
Trinitate sententiam pedibus
manibusque descendere.
§ 45
282. Sed ut ad meae redeam
disputationis capita percensenda,
attulimus et nostram de interpretandis
Orphei Zoroastrisque carminibus
sententiam.
283. Orpheus apud Graecos ferme
integer; Zoroaster apud eos mancus,
apud Caldeos absolutior legitur: ambo
priscae sapientiae crediti patres et
auctores.
284. Nam ut taceam de Zoroastre, cuius
frequens apud Platonicos non sine
summa semper veneratione est mentio,
scribit Iamblicus Calcideus habuisse
Pythagoram Orphycam theologiam
tamquam exemplar ad quam ipse suam
fingeret formaretque philosophiam.
285. Quin idcirco tantum dicta
Pythagorae sacra nuncupari dicunt,
quod ab Orphei fluxerint institutis; inde
secreta de numeris doctrina et quicquid
magnum sublimeque habuit Graeca
philosophia ut a primo fonte manavit.
286. Sed (qui erat veterum mos
theologorum) ita Orpheus suorum
dogmatum mysteria fabularum intexit
involucris et poetico velamento
dissimulavit, ut si quis legat illius
hymnos, nihil subesse credat praeter
fabellas nugasque meracissimas.
287. Quod volui dixisse ut cognoscatur
quis mihi labor quae fuerit difficultas,
ex affectatis enigmatum syrpis, ex
253. Nulla infatti induce alla religione e
al culto di Dio quanto l’assidua
contemplazione delle sue meraviglie;
quindi, dopo averle ben esplorate con
l’aiuto di quella magia naturale di cui
stiamo parlando, incitati più
ardentemente al culto e all’amore
dell’artefice, saremo costretti a cantare:
«pieni sono i cieli, piena è tutta la terra
della maestà della tua gloria».
254. Della magia ho parlato abbastanza
e ne ho parlato perché so che sono
molti quelli che, come i cani che
abbaiano sempre contro gli sconosciuti,
allo stesso modo spesso condannano e
odiano quello che non comprendono.
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fabularum latebris latitantes eruere
secretae philosophiae sensus, nulla
praesertim in re tam gravi tam
abscondita inexplorataque adiuto
aliorum interpretum opera et diligentia.
288. Et tamen oblatrarunt canes mei
minutula quaedam et levia ad numeri
ostentationem me accumulasse, quasi
non omnes quae ambiguae maxime
controversaeque sunt questiones, in
quibus principales digladiantur
achademiae, quasi non multa attulerim
his ipsis, qui et mea carpunt et se
credunt philosophorum principes, et
incognita prorsus et intentata.
§ 46
289. Quin ego tantum absum ab ea
culpa, ut curaverim in quam paucissima
potui capita cogere disputationem.
290. Quam si (ut consueverunt alii)
partiri ipse in sua membra et lancinare
voluissem, in innumerum profecto
numerum excrevisset.
291. Et, ut taceam de caeteris, quis est
qui nesciat unum dogma ex nongentis,
quod scilicet de concilianda est Platonis
Aristotelisque philosophia, potuisse me
citra omnem affectatae numerositatis
suspitionem in sexcenta ne dicam plura
capita deduxisse, locos scilicet omnes
in quibus dissidere alii, convenire ego
illos existimo particulatim
enumerantem?
292. Sed certe (dicam enim quamquam
neque modeste neque ex ingenio meo)
dicam tamen, quia dicere me invidi
cogunt, cogunt obtrectatores, volui hoc
meo congressu fidem facere non tam
quod multa scirem, quam quod scirem
quae multi nesciunt.
§ 47
293. Quod ut vobis re ipsa, Patres
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colendissimi, iam palam fiat, ut
desiderium vestrum, doctores
exce[l]lentissimi, quos paratos
accintosque expectare pugnam non sine
magna voluptate conspicio, mea
longius oratio non remoretur, quod
foelix faustumque sit quasi citante
classico iam conseramus manus.