Pensiero e immagini

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Antologia di Racconti e poesie, Associazione Il Corimbo

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Quaderni del volontariato 66

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Autori Finalisti

Pensiero e ImmaginiAntologia di racconti e poesie

Concorso

“Il Corimbo” Edizione 2009

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CesvolCentro Servizi Volontariatodella Provincia di PerugiaVia Sandro Penna 104/106Sant’Andrea delle Fratte06132 Perugiatel.075/5271976fax.075/5287998

www.pgcesvol.net

[email protected]@mclink.it

Pubblicazione a cura di

Con il patrocinio

della Regione Umbria

Progetto grafico e videoimpaginazione

Chiara Gagliano

© 2009 CESVOL

ISBN 88-96649-05-3

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I QUADERNI DEL VOLONTARIATO, UN VIAGGIO ATTRAVERSO UN LIBRO NEL MONDO DEL SOCIALE

Il CESVOL, centro servizi volontariato per la Provincia di Perugia, nel-l’ambito delle proprie attività istituzionali, ha definito un piano specifi-co nell’area della pubblicistica del volontariato.

L’obiettivo è quello di fornire proposte ed idee coerenti rispetto ai temidi interesse e di competenza del settore, di valorizzare il patrimonio diesperienze e di contenuti già esistenti nell’ambito del volontariato orga-nizzato ed inoltre di favorire e promuovere la circolazione e diffusionedi argomenti e questioni che possono ritenersi coerenti rispetto a quel-li presenti al centro della riflessione regionale o nazionale sulle temati-che sociali.

La collana I quaderni del volontariato presenta una serie di produzio-ni pubblicistiche selezionate attraverso un invito periodico rivolto alleassociazioni, al fine di realizzare con il tempo una vera e propria colla-na editoriale dedicata alle tematiche sociali, ma anche ai contenuti edalle azioni portate avanti dall’associazionismo provinciale.

I Quaderni del volontariato, inoltre, rappresentano un utile supporto perchiunque volesse approfondire i temi inerenti il sociale per motivi distudio ed approfondimento.

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Indice

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Introduzione Luigi LannaPresidente Cesvol Perugia 11

Testimonianza Claudio RicciSindaco di Assisi 12

Testimonianza Bruno BrunoriDirettore Umbria Settegiorni 13

Introduzione Angelo VenezianiPresidente Associazione Culturale “Il Corimbo” 14

FINALISTI NARRATIVA 17

Claudio FerrataRomanzo Giallo 19

Pierino PiniCipolle 26

Franco FiorucciDimmi che mi ami 30

Lelio VallatiIl colore dell’amore 37

Vincenzo GunnellaSorelle 40

Chiara CheccagliniLa ragnatela celeste 44

Cirano AndreiniLa leggenda del Gobbo di Pistoia 54

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Indice

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Vittoria MenghiniTra le righe di una favola 60

Luciana BaruzziCarezze d’aglio 66

Marco CucchiProdere 76

FINALISTI POESIA 83

Lelio VallatiNon dirni 85

Armando BettozziAlzheimer 86

Nello CicutiDialogo (versione dialettale) 87

Dialogo (versione italiana) 88

Cinzia CorneliIn casa 89

Agnese Verdi Appuntamento 90

Ornella GuerriniIl non viaggio 91

Tosello SilvestriNò èmme tredicianni (versione dialettale) 92

Noi avevamo tredici anni (versione italiana) 93

Giuseppina PalombiNon c’è più scampo 95

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Indice

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Claudio FrancescagliaL’orazzione (versione dialettale) 96

L’orazione (versione italiana) 97

Catia RogariLimpide giornate estive 99

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Introduzione Luigi Lanna

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È volontariato ogni azione che un uomo offre agli altri con spirito di gra-tuità, senza attendere corrispettivo. Una relazione interpersonale chearricchisce soggetti che comunicano e accrescono il capitale sociale diuna comunità.Gli autori “non noti” che hanno partecipato al concorso del Corimbo

offrivano la propria sensibilità agli altri per la elementare esigenza di sta-bilire un rapporto, una relazione intersoggettiva più densa di significatiemozionali.Il Cesvol è pronto a favorire con ogni strumento la moltiplicazione diinterrelazioni personali che rinsaldano il senso di “civitas” su una baseminima di solidarietà anche emozionale come soltanto il linguaggio uni-versale della poesia sa generare.

“Agli autori non noti gli auguri di diventare noti”

Luigi LannaPresidente Cesvol Perugia

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Testimonianza Claudio Ricci

Ho avuto il “privilegio” di partecipare, da Presidente onorario, al premioletterario “Il Corimbo, Pensieri e Immagini”. Un privilegio perché l’invi-to è arrivato da una associazione che promuove la “cultura vivente”, lavera cultura, con iniziative semplici, “in punta di piedi”, con la gente eper la gente “normale” abituata a misurasi con la bellezza ma, anche, conle complessità quotidiane dello straordinario “cammino della vita”.“Pensieri e Immagini” hanno caratterizzato un premio letterario i cuiautori, avvolti nel loro “spirito poetico”, hanno riversato, nell’iniziativa,le emozioni, i sogni e la passione di chi ha “intuito” il vero senso dellavita.I Racconti e le Poesie, da Pensieri si sono trasformate in Immagini,soprattutto quando gli autori, il giorno delle premiazioni, con occhi luci-di di “vera commozione”, ci hanno raccontato, ma credo di poter dire “cihanno fatto vedere”, le immagini della loro Poesia.Si, le immagini, perché la Poesia è la “rappresentazione del nostroanimo”, attraverso parole che “contengono” immagini immateriali.Forse nessuno di loro finirà nei libri di storia della Poesia e nemmeno inquelli di letteratura. Forse dei loro scritti si perderanno, negli anni, le trac-ce. Forse ma è certo che tutti i Poeti e gli Autori hanno “vissuto momen-ti di speranza” con la loro Poesia che, gratuitamente, ci hanno donato,regalandoci la gioia di vivere e guardare “oltre”.

Claudio RicciSindaco di Assisi

Presidente Città e Siti Italiani

Patrimonio Mondiale UNESCO

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La funzione dei Premi Letterari è quella di premiare – per le opere pub-blicate – quelle che le giurie ritengono le più valide e che – in quanto tali– vengono proposte all’attenzione dei potenziali lettori. Ma i premi lette-rari hanno anche un altro, nobile, importante scopo: quello di scoprire,attraverso scritti di narrativa o di poesia, talenti in nuce, nascosti ma chesono pronti a sbocciare solo se l’attenzione viene posta su di loro. In que-sto senso un grande valore ha il concorso “Il Corimbo” “Pensiero eimmagini” che con il Patrocinio del Comune di Perugia – Assessorato alTurismo si svolge annualmente , sviluppandosi nelle sezioni di Narrativa– Poesia – Pittura – Scultura. Al sottoscritto, quest’anno, è toccato l’ono-re di presiedere la giuria del Premio Letterario “Bruno Dozzini”, che haimpegnato anche una Giuria Popolare, Presidente Onorario Claudio Ricci– Presidente Nazionale Siti dell’Unesco e Sindaco del Comune di Assisi;Giovanni Zavarella, critico letterario e artistico; Guido Buffoni, Direttoredi telePerugia; Angelo Veneziani, Presidente dell’Associazione Culturale“Il Corimbo”.Il lavoro dei giurati non è stato facile, perché le opere in concorso eranotutte valide e meritevoli di un riconoscimento, ma spesso sono i dettagli,le sfumature, il tocco d’intelligenza e di cultura che fanno di uno scrittoun’opera di maggior valore. O almeno un’opera che merita un riconosci-mento più alto. E in questa edizione le opere con “qualcosa di più” sonostate diverse, ponendosi con forza all’attenzione dei giudici. In alcune diqueste opere si individuano autori che meritano attenzione, perché attra-verso i loro “racconti” si intravedono ricchezze culturali e patrimoni disolida fantasia che potrebbero “sbocciare” solo che lo studio ed il perfe-zionamento venissero opportunamente curati. Mi auguro che tra gli auto-ri che sono stati premiati e segnalati in questa edizione del concorso “IlCorimbo” Pensiero e Immagini tra qualche anno si possano applaudireautori di pubblicazioni meritevoli di attenzione e di considerazione.

Bruno BrunoriDirettore Umbria Settegiorni

Testimonianza Bruno Brunori

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Introduzione Angelo Veneziani

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Il 13 settembre 2009 presso la Sala del Dottorato del Museo Capitolaredi Perugia si è celebrata la VII edizione del Premio Letterario Il Corimbo“Pensiero e Immagini”. È stata la festa della parola, quella degli scritto-ri e dei poeti, che sempre interpretano, indagano e amano l’uomo, maanche la festa dell’uomo, perché narrazione e poesia sono incontro conl’uomo e se riflettiamo un istante, ci rendiamo subito conto che tutte lealtre feste sono solo dei clamori che risuonano senza vita, sono deglischiamazzi che suscitano curiosità o applausi, ma la cui eco dura breve-mente. Ogni parola scritta nella narrazione o nella poesia è un frammen-to della nostra mente e della nostra anima e se noi perdessimo questeverità, queste realtà ci ritroveremmo certamente più poveri.La ricchezza vera infatti è quella che scopriamo dentro di noi, quella cheil tempo non modifica, non sconvolge e non annulla, quella che gli altrinon possono mai toglierci e che ci accompagna in ogni istante dellanostra esistenza.Questa pubblicazione antologica vuole essere una testimonianza dellapresenza di tanti autori, che forse non rappresentano l’Olimpo dei poetio degli scrittori storici, ma nemmeno posizioni marginali o secondarie.Tutti appartengono all’unica categoria del linguaggio letterario, dei poetie dei narratori, qualcuno veramente dotato di buoni mezzi espressivi,tutti meritevoli di una dignitosa vetrina, lasciando ai lettori una classifi-cazione, che magari può liberamente andare oltre l’indicazione fornitaaltrettanto liberamente da una giuria tecnica e da una giuria popolare aicui si sono già sottoposti.Crediamo che nella società dell’immagine, dell’apparire e non sentire, incui tutto fugge e nulla resta o poco riusciamo a trattenere è importanteproporre una lettura di riflessione.Questa antologia ha il modesto intento di offrire alla lettura racconti epoesie più vari, che rappresentano testimonianze di vita e di amore,urgenze interiori e motivazioni umane. Alcuni a sfondo psicologico, altria sfondo sociale, alcuni brillanti o intriganti, altri scritti con un linguag-gio raffinato ed elegante, piano e godibile, tradizionale o di tagliomoderno. Questa antologia rappresenta anche un giusto compiacimentoper il buon livello di frequentazione del Concorso Il Corimbo “Pensieroe Immagini”, giunto ormai brillantemente alla sua settima edizione.Un Concorso che quest’anno sperimentalmente è divenuto contenitoredi vari linguaggi espressivi, comprendendo un Premio Letterario suddi-

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viso in Narrativa e Poesia e un Premio Artistico suddiviso in Pittura eScultura. Il Premio Letterario è intitolato al grande poeta umbro BrunoDozzini, primo e insostituibile Presidente della Giuria Tecnica che èrecentemente scomparso, mentre il Premio Artistico è da sempre intito-lato al nostro grande scultore Artemio Giovagnoni anch’egli da pocoscomparso.Questa Edizione ha visto come Presidente Onorario Claudio Ricci,Presidente Nazionale dei Siti dell’Unesco, nonché Sindaco del Comune diAssisi e come Presidente della Giuria il Direttore della rivista UmbriaSettegiorni Bruno Brunori. Membri di giuria i Prof. ri Giovanni ZavarellaCritico letterario, Guido Buffoni Direttore di TelePerugia, AngeloVeneziani, Presidente dell’Associazione organizzatrice del Premio.

Angelo VenezianiPresidente Associazione Culturale

IL CORIMBO “Pensiero e Immagini”

Introduzione Angelo Veneziani

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Finalisti Narrativa

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Romanzo Giallo

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ROMANZO GIALLO

di Claudio FerrataAssisi

Sul dove non aveva dubbi. L’aveva comprato alla fiera dei Morti, l’u-nica tra le fiere del circondario a ospitare i banchi dei bouquinistes.L’incertezza riguardava il quando, non era sicuro se l’acquisto risalissea uno, due o tre anni prima. D’altronde gliene erano capitate di cose inquegli anni, comprensibile qualche confusione nelle date. Ricordavache ad attirarlo erano stati la rilegatura, un ruvido telato nero con lette-re impresse sul dorso, la goffratura a nido d’ape e, soprattutto, lo spes-sore esiguo della costa, un incentivo per chi, come lui, non leggeva maiun libro che superasse le ottanta, al massimo cento pagine. Il titolo dicopertina. Vittima designata, in gocciolanti lettere scarlatte – era passa-to in second’ordine, il sottinteso intreccio giallo della trama avevatutt’al più spazzato l’ultima remora all’acquisto, legittima visto il latro-cinio di prezzo incollato sul retro. Lo avevano sempre appassionato igialli, sin dagli anni del liceo. Al contrario dei compagni, affascinati daHemingway, Faulkner, Lawrence, qualche secchione dei primi banchida Musil, ad accendere i suoi interessi letterari erano gli scritti diWallace, Queen, Doyle, autori ricorrenti nella collana di polizieschipresenti ogni quindici giorni in edicola. Interessi, manco a dirlo, osteg-giati da genitori e insegnanti, preoccupati com’erano dell’influenzanegativa che letture, diciamo così, cruente, nelle quali l’esempio delit-tuoso diveniva non solo ossatura del racconto ma modello ispiratore dipratiche criminali, potessero esercitare su un carattere fragile o, comun-que, in formazione. Balle. Se influenza c’era stata, essa stava nell’ac-quisita certezza che il giallo fosse una partita a scacchi fra scrittore elettore, dove il vantaggio del primo di conoscere le mosse si misuravacon l’abilità del secondo nell’intuirne la sequenza; e che come in qual-siasi gioco, l’aderenza alla realtà si riduceva al sottile filo dell’inventi-va, nella fattispecie rappresentato dal dipanarsi degli eventi secondouno schema predisposto dall’autore. Appoggiò il libro sul tavolino, siversò due dita di gin, aggiunse coca e ghiaccio, assaporò il piacere dellapigrizia mentre, bicchiere in mano, osservava lo spandersi sul vetrodella condensa. Possibile – si chiese – che per tre anni avesse dovuto

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mettere in gioco se stesso, i propri affetti, le persone destinatarie deipropri affetti – Laura soprattutto, ma anche Giuliano, capace di atten-zioni fraterne nei suoi riguardi – per rivalutare l’importanza di sempli-ci piaceri come lo starsene lì, sul bordo della sua piscina, a riempirsi leorecchie di silenzio, a osservare i frammenti di sole a dondolo sull’ac-qua, a leggere qualcosa di diverso dal solito resoconto bancario, daisoliti diagrammi di Borsa, dal solito listino dei titoli, a pregustare qual-cosa di diverso dal solito appuntamento d’affari? Allungò la manoverso il libro resistendo alla tentazione di guardare l’orologio. Ma inattendere è gioia più compita, scriveva un poeta di cui gli sfuggiva ilnome. E senza arrovellarsi la mente alla ricerca del nome, si coccolòl’attimo in cui una frenata d’auto giù, all’ingresso della villa, seguitadallo sbattere della portiera, dallo scricchiolio dei passi sulla ghiaia, daldelicato spargersi di un profumo alle rose, avrebbe trasformato l’ecci-tazione del momento nel preludio di un’appagante intimità. Con Laura,ne era certo, stava tornando tutto come prima. Sarebbe occorso un po’di tempo per sanare le cicatrici, ristabilire un clima di fiducia, dimenti-care quei tre anni in cui l’indifferenza l’aveva fatta da padrona, ma ilpeggio era passato. E poi, quale relazione non conosce incrinature,quale relazione pretende di basare la sua continuità su un’assenza diattriti, come se i sentimenti non abbiano bisogno anch’essi di un’oliataogni tanto? Certo, tre anni per rimediare agli sbagli sono troppi. Ma chifaceva un mestiere come il suo, chi si ritrovava sballottato per quindi-ci, sedici ore al giorno tra i flutti della speculazione finanziaria, sapevaquanto fosse facile smarrire la rotta, lasciarsi incantare dalle sirene delprofitto, sprofondare nei gorghi del malaffare, diventare schiavi di unalogica che antepone l’interesse al sentimento. Posò il bicchiere, si giròa pancia sotto, manovrò il parasole a protezione della nuca, aprì il libroe, a dispetto della calura che, complice il gin, venava di sudore la suapelle, non poté trattenere un brivido quando lesse la prima riga. Tantoda distogliere gli occhi e strofinarli con un lembo dell’asciugamano,convinto che solo un momentaneo disturbo della vista o un pirotecnicoscherzo dell’immaginazione potessero causare quel bizzarro allinea-mento di lettere. Ma quale disturbo, quale scherzo? Appena riportò losguardo sulla pagina, la frase era là, reale e immutabile, a gelargli laschiena con l’assurdità delle sue implicazioni.

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Sul dove non aveva dubbi. L’aveva comprato alla fiera dei Morti, l’u-nica tra le fiere del circondario... .Si alzò e fece ricorso al gin, liscio sta-volta, e senza aggiunta di ghiaccio, per scrollarsi di dosso la sensazio-ne che quella frase fosse l’estemporanea trovata di uno spirito balzano.“Ma va’ là...”. Il realismo gli tornò al secondo sorso, unitamente a unverdetto di condanna nei confronti della sua puerile tendenza a vederefantasmerie in ogni situazione al di fuori della norma. Possibilissimo,certo, che una forma letteraria potesse coincidere con il prodotto con-cettuale di una mente senza che quella mente si sentisse autorizzata aevocare chissà cosa. Giudicò soddisfacente la disamina e si premiò conuna terza razione di gin. E poi andiamo, aveva letto appena una riga,troppo poco per azzardare ipotesi che escludessero una semplice coin-cidenza. Cercò sul frontespizio il nome dello scrittore, curiosità dove-rosa a quel punto, ma trovò solo una pagina in bianco. Nessuna notiziache riguardasse lui, la casa editrice, la tipografia, l’anno di stampa,niente, solo un titolo in copertina e un altro sul dorso, come se l’ano-nimato fosse stato una pregiudiziale alla pubblicazione del libro. Edagli con le fantasie, si rimproverò. Continua a leggere piuttosto, o nonne hai il coraggio? Attribuì al caldo l’insorgere di certi interrogativi, alcaldo e ai fumi dell’alcol che alzavano cortine di mistero anche dove ilmistero si esauriva nell’assenza di un frontespizio con tutta probabilitàsacrificato a esigenze di rilegatura. Ricominciò dall’inizio.Sul dove non aveva dubbi, l’aveva comprato alla fiera dei Morti, l’uni-ca tra le fiere del circondario a ospitare i banchi dei bouquinistes.L’incertezza riguardava il quando, non era sicuro se se il fatto risalissea uno, due o tre anni prima. D’altronde gliene erano capitate di cose inquegli anni... .Non si rese conto dell’improvviso scatto delle mascelle né della morsanella quale gli serrarono la lingua. Continuò a leggere, a leggere, a leg-gere, senza più intermezzi di gin, incurante dello scorrere del tempo,delle screziature di tramonto dipinte sull’acqua, delle ombre che siallungavano capovolte in superficie, dello strepito serale delle rondini,della pelle d’oca sul suo corpo nudo; sensibile solo ai messaggi di aller-ta che, pagina dopo pagina, l’inconscio trasmetteva alla sua mente;attento a rinnegare, riga dopo riga, quanto passava al vaglio della vista;incerto fra repulsa e attrazione verso quell’alter ego che, passo dopo

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passo, sembrava guidarlo verso la pazzia; consapevole, a poche paginedalla fine, della identità di gesti, riflessioni, stati d’animo che univanolui a ciò che l’estro affabulante di un ignoto aveva trasformato in copiadel suo Essere; smettendo di leggere solo quando il sapore del sanguegli allegò i denti e un paio di gocce calde colarono dal mento a imbrat-tare la pagina, lì allargandosi in piccoli cerchi vermigli, e la mascellafinalmente allentò la presa strappando alla gola un urlo liberatorio.Provò a respingere l’urlo nella speranza di separare la dimensione delpresente dalle allucinanti previsioni di uno scrittore folle – folle, sì, maprevidente al punto da nascondere nell’anonimato il documento dellasua follia – che di quella dimensione aspirava a essere il complemento,se non addirittura il parallelo. Riuscì a respingerlo, come pure a rifiu-tare la realtà del sangue che, staccandosi dal percorso descrittivo, scen-deva concretamente dal mento a macchiare la carta; ma non riuscì aimpedire che l’urlo degenerasse in rantolo quando, spostati gli occhisul paragrafo successivo, trovò scandite, una per una, in identica suc-cessione, le formulazioni appena elaborate dalla sua mente. Provò a respingere l’urlo nella speranza di separare... .Riuscì a respin-gerlo, come pure a rifiutare la realtà del sangue che...ma non riuscì aimpedire che l’urlo degenerasse in rantolo quando...le formulazioniappena elaborate dalla sua mente.Intuì d’aver intrapreso un viaggio senza ritorno. S’era sempre appassio-nato ai gialli, è vero, però stavolta era diverso, stavolta più il raccontos’avvicinava alla conclusione – mancavano due pagine, il suo indiceindugiò sotto la prima – e più lui ne rifiutava l’evidenza, come se afronte di un canovaccio scipito, oggettivamente incapace di un purminimo contagio emozionale, fosse emersa una diabolica finalità. Nonsi meravigliò, voltata la penultima pagina, di vederci specchiato il les-sico dei suoi pensieri, la loro ossessiva espressione grafica, si limitò adappaiarli all’orrore per quel finale di cui avvertiva ormai la vicinanza eche, ignorando le norme deontologiche a tutela della suspence, e nonsolo, violentando la sua indole indagatrice, ebbe la tentazione di sco-prire buttando l’occhio sull’ultima pagina. Glielo impedì una fittaimprovvisa, violenta ma, tutto sommato, prevedibile, “Sì, prevedibile”.Più che una riflessione il suo fu un lampo percettivo, una presa dicoscienza destinata a soccombere sotto l’onda dolorosa che dal petto si

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propagò al braccio, alla mano e, giù giù, alle dita, costrette ad allenta-re la presa, aprirsi, mollare il libro dentro cui l’indice tentava finoall’ultimo di mantenere il segno, in ciò soccorso dall’altra mano che,uncinando un pizzo della copertina, ne trattenne per un attimo la cadu-ta prima di annaspare anch’essa in cerca di sostegno. “L’avresti trova-to, eccome, il sostegno,” – cadendo recepì il messaggio di un io torna-to a esprimersi in piena autonomia – “avevi tempo e modo di raggiun-gere il tavolino, prendere le pillole, là, quel tubetto accanto al secchiel-lo del ghiaccio, ingoiarne una e tirare avanti, magari fino all’arrivo diLaura. Poi, come si dice, que sera sera. D’altronde era la raccomanda-zione di Giuliano. Tieni sempre a portata di mano il cardiotonico, glidiceva, Non ti salverà la vita ma al bisogno te l’allunga. Impresa fatti-bile, certo, se in uno sprazzo di inutile caparbietà, non avesse indiriz-zato lo sguardo su quell’ultima, squadernata pagina in bilico tra recto everso, tra i fogli da un lato e la terza di copertina dall’altro, oscillantequa e là secondo i ritmi della brezza. Una copia di quella pagina si eraimpressa nella sua retina. La morte, è risaputo, fotografa sempre gli istanti che la precedono,magari per illudere di un supplemento di vita. Supino, il volto deforma-to dagli spasmi, centellinando le ultime gocce di respiro, visualizzòl’anticipazione della sua fine, una fine evitabile, – vide scorrere nellepalpebre – se in uno sprazzo di inutile caparbietà... .Il resto non gli interessava. Le dieci righe finali sfuggite a una vista inprocinto di spegnersi proprio quando, ironia della sorte, si attivavano leluci a tempo dei lampioni, avrebbero aggiunto la beffa al danno. L’avremmo ucciso noi in quel caso...cominciava così la prima riga. Undelitto, ecco cosa raccontavano le dieci righe finali, un delitto. Ma chisarebbe stato ucciso? E come? E perché? L’arrivo di Laura, – glieloannunciò la frenata di un’auto giù all’ingresso, lo sbattere della portie-ra, il picchiettio dei passi sulla ghiaia, lo spandersi di una fragranza allerose temperata da un’altra non ben definita essenza – un fatto che qual-che minuto prima avrebbe accolto come una benedizione, gli parvel’ulteriore presa in giro di un destino a dir poco sadico. Già, come altrodefinire quella catena di eventi solo all’apparenza casuale che di lì apoco – Laura era vicina, sentiva la sua voce alternarsi a un’altra nelchiamarlo – gli avrebbe invelenito l’agonia con la presenza di una per-

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sona cara? Anzi, di due persone care. Perché era di Giuliano l’altravoce, come aveva fatto a non capirlo? Suo il profumo dolciastro di cuisi sentiva invase le narici, profumo di dopobarba al muschio, probabil-mente quello che gli aveva regalato per il suo trentacinquesimo com-pleanno. Laura e Giuliano, le due facce complementari dell’amore, unaimprontata a passione, emozione, conflittualità, un’altra a confidenza,affetto, fiducia. Accomunate adesso da un’angoscia inutilmente camuf-fata da indifferenza. “È morto?” chiede Laura, e subito le dita di Giuliano a tastargli il polso,il collo, rapide com’è normale che si comportino le dita di un medico,non importa se troppo rapide per essere le dita di un amico. “Sì” diceGiuliano. Il quale non sa, e come potrebbe? pure la scienza ha i suoipaletti, non sa che un’anima in trasloco sfrutta il più a lungo possibilei sensi per aggrapparsi a chi le ha fatto da contenitore per tanti anni,quarantuno nel caso suo. “E adesso?” chiede ancora Laura. Non avver-te groppi nella sua voce, solo un neutrale punto di domanda. “Avvertola polizia” dice Giuliano. Lo dice senza una particolare intonazione,come se il paziente appartenga alla fluttuante schiera dei suoi mutuati.“Perché la polizia?” si preoccupa lei. “È la prassi in questi casi”. “Casi? Quali casi?”. “Casi di morte poco chiara”. “Più chiara di così...”.“Infarto, lo vedo anch’io, ma dovrà essere il medico legale a chiudere lapratica”. Una pratica, per loro è diventato una pratica da chiudere allasvelta, neanche si chiedono come, quando e chi l’abbia aperta, o perchétoccasse a lui il ruolo di vittima designata, si chiedono solo se il disbri-go possa avvenire in tempi rapidi. “Ho il rimorso di non averglielo dettoprima” sussurra Laura. “L’avremmo ucciso noi in quel caso” spiegaGiuliano. L’avremmo ucciso noi in quel caso... .Chi, come, perché. Tutto chiaro adesso, fin troppo chiaro. La constata-zione gli stacca una volta per tutte l’anima dal corpo, un urlo silenzio-so e subito dopo il nulla sotto forma di brandelli via via più fitti di buio.E tra un brandello e l’altro, ecco scorrergli nelle palpebre il finale.“Cos’è?” chiese Laura indicando il libro. Giuliano lo scorse alla svel-ta. “Un giallo direi, i gialli sono sempre stati la sua...”. S’interruppe congli occhi sbarrati. “Leggi qua” disse. Lei gli tolse il libro di mano. “Quadove?”. L’indice di Giuliano tremò indicando le righe finali nelle quali,parola dopo parola, era stampata la trama del loro misfatto, come se

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l’autore del romanzo avesse iniziato a srotolare una spirale di vendettanei loro confronti, a inondarli con un flusso di angosce destinato a cor-rodere le loro esistenze. Ci fu uno sbalzo di corrente, le luci dei lam-pioni ammiccarono e l’attimo dopo... .“Chi ha spento le luci?” gridò Laura.

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CIPOLLE

di Pierino PiniBrescia

No, la zia malata no! Tutto, ma non la zia malata!Mi sentivo umiliato: anche nelle scuse esiste una gerarchia. Per le per-sone che interessano davvero si cerca di inventare qualcosa di ineditoe credibile. A me era statapropinata la più banale. Avevo conosciuto Irene ad una cena con amicicomuni. Non mi era per niente dispiaciuta, così avevo parlato a lungocon lei, scoprendo che avevamo numerosi interessi comuni. Prima disalutarci le chiesi il numero di telefono. Non la chiamai subito l’indo-mani: avrei dimostrato troppa fretta. Attesi quindi due giorni, se avessiaspettato di più lei avrebbe fatto in tempo a dimenticarsi di me.Iniziaila telefonata con una serie standard di convenevoli convogliandola, conuna tattica magistrale, verso il vero scopo della chiamata: un appunta-mento. Ovviamente non proposi una data precisa: sarebbe stato facileper lei dichiarare di avere già un impegno, ma le chiesi di uscire unasera qualsiasi della settimana a sua scelta. Ci mettemmo d’accordo pergiovedì sera: una pizza ed un giro per le birrerie dei Navigli. Niente ditroppo complicato, ma ampio spazio alle chiacchiere e alla musica finoa tardi, allorché le donne diventano più vulnerabili.Così giovedì serastavo tornando dal lavoro tutto contento, pronto per andare a farmi unadoccia e vestirmi di tutto punto, quando il telefonino squillò (si fa cosìper dire, in quanto il suo suono è la “Marcia turca” di Mozart, roba daraffinati). Risposi e, quando sentii la voce di Irene, pensai: “Ci siamo,è andata buca!”. Infatti lei molto cortesemente si scusava di non poteruscire quella sera (e fin qui eravamo all’interno dei normali rapportipredatore-preda della nostra società) perché (e qui arrivòla doccia gela-ta metaforica che si sostituì a quella bollente reale che avevo in pro-gramma) le era giunta inaspettata la visita di una zia malata che nonvedeva da tempo. Immediatamente mi sentii violentato nel più intimodel mio orgoglio: potevo io credere ad una scusa così sciatta? Chiusi infretta la telefonata. Non avevo alcun dubbio: ero stato scaricato primaancora di essere imbarcato. Una zia malata precludeva definitivamentequalsiasi ulteriore tentativo di approccio.

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Fu con questo stato d’animo, fra il depresso e l’umiliato, che entrai nelpiccolo supermercato sotto casa per comprare qualcosa per una cenasolitaria e tristissima. Non so se fu per una specie di sordo desiderio dirivalsa o per un tentativo di superare tale stato d’animo con un tuffo neiricordi infantili, che il mio occhio cadde sul sacchetto di cipolle. Da piccolo, mia madre le metteva sempre nelle insalate miste che eranola mia passione. Poi con l’adolescenza, e la conseguente necessità dimantenere i contatti sociali, avevo smesso di mangiarle. Ma in quelmomento mi venne un fortissimo desiderio di mangiare un’insalata conle cipolle. Passai oltre col carrello, ma il mio pensiero ritornava fisso aquel sacchetto pieno di succulenti bulbi rosacei, dal sapore inconfondi-bile. Per la prima volta in vita mia compresi i desideri sfrenati delledonne incinte. Daltronde la mia serata sarebbe stata irrimediabilmentesolitaria, avevo ben diritto di soddisfare una mia piccola voglia.Acquistai il sacchetto, entrai in casa e mi preparai uno splendido insa-latone come non ne avevo mangiato da anni. Insalatiera gigante, pane,bottiglia di birra, sul divano, televisore acceso. Insalata divorata, birratracannata, reazione gastrica incontenibile. Marcia turca. Risposi altelefono rintuzzando un rutto. Irene. Parlai tenendo la bocca lontanadalla cornetta: il mio alito era talmente pesante che temevo si trasmet-tesse via etere. Lei mi diceva che sua zia era già tornata a casa, e cheera molto (e calcò la voce su quell’avverbio) disponibile per quel gironaviglioso già in programma. Lapidaria risposta: fra mezz’ora sono date. Doccia frenetica, spazzolata di denti colossale al limite della lavandagastrica e corsa in automobile per essere puntuale (la puntualità alprimo appuntamento è fondamentale).Ma già in macchina il sapore del dentifricio era andato scomparendo,sostituito dal ritorno dell’alito cipollente (o cipolloso, boh?). Cosapotevo fare? Passai in rassegna tutte le possibili ipotesi: mangiare unchewing-gum sarebbe stato maleducato: non potevo condurre una con-versazione ai limiti del colto masticando continuamente la cicca.Tenermi lontano, respirare solo dal naso, parlare con la mano sullabocca: erano tutti espedienti che potevano essere validi per la primaparte della serata. Ma poi? Quando saremmo giunti sotto casa sua, e ioavrei spento il motore, e l’incontro sarebbe stato estremamente ravvi-cinato?

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Cosa potevo fare? Tirarmi indietro? Mai! Farla diventare cianotica conun’alitata velenosa, che avrebbe reso quel primo bacio assolutamenteindimenticabile, ma per tutt’altri motivi che quelli voluti? Non riusci-vo a venir fuori da questa terribile situazione in cui la mia ingordigiami aveva lasciato. Farmacia aperta, frenata immediata, suoni di clacsonvari. Entro a razzo. Manco a farlo apposta c’è una farmacista carinissi-ma. Le chiedo se ha qualcosa contro il cattivo alito. Che vergogna! Mifa vedere un prodotto nuovo, quasi miracoloso: funziona con tutti i tipidi alito pesante, tranne che per aglio e cipolla. Lo compro imprecandocontro la malasorte. Lo mastico, fa schifo e non serve a niente. Giuroche dedicherò il resto della mia vita alla ricerca di un farmaco che tolgail sapore di cipolla in bocca. Ma ora mi serve qualcosa diimmediato.Sono arrivato. Suono il campanello. Irene arriva: è splendi-da. Io mi tengo lontano. In macchina continuo a guidare attaccato alfinestrino dalla mia parte. Lei mi fissa con gli occhi fuori dalle orbite.Ogni tanto le sorrido. Limito la conversazione al minimo, mi fingo con-centrato sulla guida. L’abitacolo della macchina è saturo, l’arbre magi-que puzza anch’esso di cipolla. Abbasso il finestrino. Fuori sono qua-ranta sotto zero. Irene non dice niente, si stringe nel giubbettino, tantosexy quanto leggero.Arrivati, parcheggio come un maiale di traversosul marciapiede, l’importante è uscire dalla macchina. All’aria aperta lasituazione è più facile. Entriamo in un locale. Musica brasiliana, birra irlandese, camerieremarocchino, proprietario pugliese. Aria fumosa, irrespirabile, l’idealeper me. Ma dopo un po’ Irene dice che c’è troppo fumo, che lei non losopporta. Andiamo in un altro locale: enoteca, musica celtica, vociaresommesso, tavolini molto intimi. Troppo, siamo vicinissimi. Dico chenon mi piace quel tipo di musica. Cerchiamo del jazz. Camminiamo perun po’ all’aria aperta. Mi tengo sempre più lontanoda lei. Irene mi lancia certe occhiate che paiono dire: che serata delmenga. Faccio la figura del frocio, ma sarebbe peggio la mia superfia-tata alla Superciuk.Visto che mantengo le distanze, è lei a prendere l’iniziativa. Mi prendesottobraccio. Mi accarezza la mano. Più esplicitadi così non potrebbeessere. Fa freddo, si vede il fiato, in questo modo posso controllarlo edirigerlo dove fa meno danno. Poi lei si stringe un po’ di più. Io, den-tro di me, piango dalla rabbia e intanto sostengo una conversazione con

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controllo di direzione di fiato che interessante più di tanto non puòessere. Ma il fatto è che stiamo superando lo stadio delle parole. Irenedice che ha un po’ di fame, mi propone un locale New Age in cui fannoanche da mangiare. Accetto. Andiamo. Atmosfera rarefatta, musicatibetana, bonzi che servono piattini con contenuti indefinibili e ciotoli-ne con brodaglie immonde. Ci sediamo. Non si può ordinare: devi man-giare quello che ti danno. Irene sorride, si vede che lì è più a suo agioche negli altri locali. Non parla, i suoi occhi dicono tutto. È bellissima,scintillante come una donna che vuole essere amata. E io sono lì,davanti a lei, pronto ad amarla: e fra di noi c’è una cipolla! Il bonzo ciserve quelle pietanze inquietanti, con delle posate mai viste. OsservoIrene. Non voglio fare la figura di chi non conosce quel tipo di cucina. Ora lei prende una specie di spatola, spalma una salsina marrone su diuna galletta di soia e, incredibile a dirsi, la mangia di gusto.Io la imito, prendo la galletta che sembra polistirolo, stendo quella spe-cie di stucco con l’arnese misterioso e, dopo essermi raccomandato lostomaco a Dio, ne mangio un pezzetto. Mai sapore fu più squisito diquello, mai assaporai una tale inebriante ambrosia: cipolla, quella robadisgustosa era a base di cipolla! Ora finalmente eravamo pari, nontemevo più nulla. Mentre Irene mi spiegava come veniva preparatoquel piatto, macinando finemente la soia e mischiandola con i cuori dicipolla e con lo zenzero, tutto rigorosamente proveniente da colturebiologiche, io la guardavo incantato, perdendomi nel suo viso, nei suoiocchi. La riaccompagnai a casa. Guidai normalmente e con i finestriniabbassati. Sotto il suo condominio, spensi la macchina. I nostri due alitiavevano completamente appannato i vetri.Situazione ideale.! Mi avvicinai, si avvicinò, ci guardammoe poi... .E poi, scusate, ma sono fatti miei!

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DIMMI CHE MI AMI

di Franca FiorucciPerugia

Dopo un profondo respiro, Silvia schiacciò il pulsante dell’ascensore.La porta si aprì al 5° piano. Percorse un corridoio e, con la mano tre-mante, bussò alla camera N. 19. Una voce femminile rispose di atten-dere. Quando la porta si aprì l’infermiera uscì. Stefano sedeva in pol-trona. La sorpresa gli arrivò come un dono dal cielo. Colse, negli occhidi lei, una struggente felicità. Un abbraccio tenero e infinito, senzaparole. Noncuranti che qualcuno potesse entrare all’improvviso.– Come stai? – Gli domandò, con la voce rotta dell’emozione.– Un inferno! Ho creduto di morire! Ti sezionano come un animale dalaboratorio. Ti scrutano nella memoria! Prima che arrivassi tu mi sen-tivo distrutto. Ma adesso che sei qui...Gli si riempirono gli occhi di lacrime.– Andrà tutto bene. Vedrai! –– Stammi vicina, ti prego! Questa malattia è senza scrupoli. Sta infran-gendo tutti i miei sogni. Il dolore ti arriva a ondate come una tempesta.Ti infilano una siringa di narcotici e poi...buio! –– Pensiamo solo ai momenti felici. Alle nostre passeggiate all’ombradei pioppi, allo scorrere del fiume col suo riflesso nel cielo. Ma soprat-tutto alla nostra “soffitta”! –– Già, la nostra “soffitta” ora è vuota! –– Ti assicuro che non è così. La tua chitarra è in attesa che tu torni. I nostri ricordi, le nostre canzoni sono lì che ci aspettano. – Stefano,commosso, le accarezzò il ventre.– E...lui...come sta? –– È una lei. L’ho saputo ieri ed eccomi qui! – Un radioso sorriso illu-minò il volto di Stefano.– Dimmi che mi ami! – Sussurrò accarezzandola con i suoi dolciocchi verdi.– Ti ho sempre amato, lo sai! – Stefano la prese tra le braccia. Il baciofu di una dolcezza che fermò, per un istante, il tempo. Poi si abbandonòsul seno di lei e tra le lacrime pronunciò il suo nome, con la voce ridot-ta a un sussurro.

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– Le parlerai di me? Di noi? Di quanto ci siamo amati? Sai, io...non hopiù...molto tempo! –– Ho percorso ottanta chilometri per correre da te, non certo per ascol-tare questi discorsi. Devi solo avere pazienza e fiducia! –– Ho bisogno di te, Silvia. Dimmi che mi ami! –– Sono qui per darti tutto quello che ho! – Si rannicchiò sullapoltrona, vicino al suo letto, decisa a trascorrere la notte accanto a lui....Verso mezzanotte fu aggredito da forti dolori e febbre a quaranta. Leinfermiere di turno gli somministrarono dei sedativi. Dopo circamezz’ora la febbre iniziò a diminuire, mentre Silvia gli asciugava ilsudore dalla fronte. Spossato e sfinito, Stefano si addormentò. Lei posòuna mano sopra il suo cuore e chiuse gli occhi.Al mattino alcune stelle, piccole e tremanti, continuavano a brillare neldelicato chiarore dell’alba. Dalla stanza della clinica, Silvia guardavaattraverso i cristalli dell’ampia finestra. La città dormiva, ancora, sfa-villante di luci. Il campanile della chiesetta, adiacente alla clinica, suo-nava. Era domenica.Una giovane e bella infermiera si affacciò alla porta della camera.– Mi scusi, devo fare una puntura.

Silvia lo salutò con la mano e uscì. Si sedette su una sedia, rigida efredda, della sala d’attesa. Tanti pazienti, dal colorito spento, attende-vano con gli sguardi appesi alla speranza. Alcuni uomini avevano persoi capelli. Ma gli amici sostenevano che sarebbero ricresciuti in fretta emolto più vigorosi. Due giovani signore conversavano. Il male le avevaerudite. Sapevano tutto sui linfociti, leucociti, monociti, basofili. Unasignora, sulla cinquantina, portava la parrucca, ma il parere della suaamica confermava quanto le stesse bene! Il taglio e il colore, proprioazzeccati! Quel male si era accanito su un bambino rom. Sedeva accan-to alla madre, con la mascherina e i grandi occhi neri spalancati nellanebbia di quel purgatorio. Poi, un silenzio infinito. Ognuno pensavaalla propria croce. Silvia rifletteva. Quali pietose menzogne per ingan-nare tanti poveri cristi!Quando l’infermiera uscì, dalla stanza di Stefano, entrò una sua colle-ga con il carrello dei medicinali. Dopo una buona mezz’ora a Silvia fuconcesso di entrare. Stefano si era rasato. Indossava un candido dolce-vita sotto una soffice tuta in pile gialla. Al braccio destro, la flebo.

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– Come va la chemio? –– Una nausea terribile! Si ha una tregua, dai venti ai trenta minuti.Dopo posso alzarmi, passeggiare e andare al bar. –...– Com’è il cibo dell’ospedale? –– Uno schifo! Sembra un’altra chemioterapia! –Una dottoressa entrò e Silvia dovette, nuovamente, uscire.– Vado al bar. Ci vediamo più tardi! –Una violenta ondata di nausea sconvolse il fisico di Stefano. La dotto-ressa gli rimase accanto. Dopo la crisi di vomito si abbandonò sulcuscino.– Posso andare al bar? C’è la mia amica che mi aspetta! –– Si, ma attenzione all’asta. Si ricordi che ha la flebo in vena! –– Ormai io e Camilla siamo diventati amici inseparabili. –– Camilla? –– Visto che mi tiene sempre compagnia, l’ho chiamata Camilla! – Ladottoressa gli regalò un sorriso.Stefano raggiunse il bar. Silvia lo aspettava seduta a un tavolo.– Io prendo un cioccolata calda e tu? –– Anch’io, grazie. –Dopo la cioccolata tornarono in camera.– È venuto qualcuno a trovarti, in questi giorni? –– Mario. Il mio amico prete. –– E...nessun altro...voglio dire... –Stefano cercò invano una risposta delicata, ma non ci riuscì.– Nel pomeriggio arriva mia moglie con i ragazzi. –Una lunga pausa rimase sospesa nell’aria.– Silvia, amore mio, non sai quanto sia difficile per me... –– Tranquillo. Me ne vado da qui, ma non dal tuo cuore! Tu sei la mialuce, la mia forza! –– Devi fartene una ragione. Silvia, il mio male è un avvoltoio che nondà speranze. Il medico è stato chiaro. Questo ciclo di terapia è l’ultimotentativo. Se non funzionerà mi rimarranno tre mesi...forse quattro.Non ce la farò a conoscere nostra figlia! Questo è il mio più grande tor-mento! –Silvia non riuscì a ingoiare la frase. Scoppiò in lacrime.– Perché! Perché! Sono certa che si sbagliano! Io so che tu guarirai! –

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– Se questa è la tua certezza, allora ti prometto che, una volta guarito,sistemerò tutto. Potremo amarci senza più nasconderci, alla luce delsole. Ma ora smetti di piangere, ti prego! –– Non ti permetterò di sfasciare la tua famiglia. Credimi Stefano! Hopregato tanto perché tutto questo non accadesse! Soltanto adesso mirendo conto che non potrò mai più fare a meno di amarti. Sono dispo-sta a rimanere nell’ombra e aspettarti, quando potrai, nella nostra “sof-fitta”! –– Silvia, amore mio, continua...continua a pregare! –– Dio non ci perdonerà! –– Dio perdona sempre. Ricordalo Silvia...sempre! Vorrei tanto vedernascere la nostra creatura...e...dopo... –– Dopo cosa? –– Non lo so. –– Dimmi che mi ami! Stefano! Dimmi che mi ami! – Silvia gridò tra lelacrime.– Vieni qui. – Le asciugò le lacrime con tanti piccoli baci. La strinse in un abbraccio nascondendo la trave del suo dolore.– Ora devo andare. Mi chiamerai? –– Certo, tesoro. –Silvia se ne andò con gli occhi arrossati e il cuore in frantumi.Trascorsero alcuni giorni. Silvia gironzolava per la stanza, in attesadella telefonata. Avevano acquistato insieme quel monolocale, all’ulti-mo piano di un edificio. Lo avevano arredato con cura e buon gusto,scegliendo mobili e suppellettili dai toni caldi. Soffici cuscini, morbiditappeti, tremule candele e luci soffuse. Quella stanza era diventata laloro alcova, il loro nido. Un tango, un bacio, un caffè e poi l’amore.Si staccò da quei ricordi. Aprì la finestra. Era notte e la luna proiettavaluci e ombre sull’acqua del fiume. In lontananza i lampioni della cittàluccicavano. Pochi istanti dopo il telefono squillò.– Pronto? –– Signorina Silvia? –– Si!? –– Sono don Mario. Amico di Stefano. Purtroppo...mi dispiace...Stefanoha voluto che fossi io...a...mi...creda...è difficile trovare le parole...–– Stefano!!! Dov’è Stefano? –

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– A casa. E...stanotte... –– Non continui...la prego! Basta così! –– No, aspetti! Devo consegnarle un biglietto! Stefano ci teneva! –Silvia abbassò la cornetta. Si accasciò sul tappeto. Appoggiò la testa trale mani e raccolse le ginocchia sul petto. Lottò contro il dolore, con unlungo, disperato, respiro. Si sentì derubata di quella parte che le spetta-va. L’eco dei suoi gemiti risuonavano per la stanza, finché le palpebre,stanche, si chiusero.Stefano era partito, per il viaggio senza ritorno, da una settimana. ESilvia, da una settimana, era rimasta sola nella loro “soffitta” a leggeree rileggere il suo biglietto:“Perdonami se non sono riuscito a darti ciò che meritavi. Sei entratanella mia vita come un raggio di sole. Dove era il buio, hai portato laluce. Mi hai nutrito di dolcezza e di speranza. Ti lascio un ricordo:nostra figlia. Amala più di quanto l’anima possa sperare. Grazie perquesti due anni felici! Stefano.”Ora, nella “soffitta”, i suoi pensieri si accavallavano confusi. L’acquaveniva giù tutta del cielo. Sdraiata sul sofà ricordava il battito incessan-te del loro cercarsi. Il desiderio di stringersi a lui si rinnovava. La ten-tazione, il turbamento di un vero, grande amore lontano. Era li, su quel-la stanza, che ricordava quanto già vissuto, per accendere il sogno natoda emozioni luminose. Era lì che nutrivano il loro amore e tutte le spe-ranze di conservarlo struggente nel tempo. Quelle ore, trascorse insie-me a lui, lasciavano intatta la pace e la ricchezza di una storia senzacatene. Le attese coraggiose di un nuovo giorno felice, per cedere allostupore del cuore. Quegli istanti significavano “assorbire” la vita.Rubare, con forza, i ricordi e farne un cuscino per le notti lontane.Quella stanza era diventata la “soffitta” per combattere il silenzio. Lacustode nei giorni interminabili della separazione.Al mattino il temporale era cessato. Uscì. Alla guida della sua 4x4 simise in marcia. Il piccolo cimitero sorgeva in collina. S’inerpicò lungoi tornanti accompagnata da un tiepido sole. Raggiunse di corsa il sorri-so luminoso e giovane di Stefano, incorniciato da tralci di fiordalisi elillà. S’inginocchiò sopra la lapide. Vi posò una gardenia e pianse tuttele lacrime che le erano rimaste. Rovesciò il dolore acuto e intollerantefino a quando avvertì un battito provenire dal suo ventre. Poi un altro e

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un altro ancora. La Vita che palpitava, dentro di lei, aveva una voce.Ora il dolore non era più un filo spinato, ma una sensazione di confor-to. Non era facile trovare una risposta.Durante la strada del ritorno Silvia capì che, veramente, Dio perdonasempre. Era lì, da quel momento e, con quella voce, che doveva rico-minciare con: “Dimmi che mi ami!”Una campana suonava lontano.

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IL COLORE DELL’AMORE

di Lenio VallatiFirenze

Quand’ero piccola, mio padre mi prendeva spesso sulle ginocchia. Luiera alto, robusto. Una folta barba incorniciava il suo viso scarno. Erabuono mio padre, sapeva sempre farmi sorridere e i suoi occhi grandiavevano il colore del mare. Anche le sue parole erano onde sul far dellasera, quando, accarezzandomi dolcemente i capelli, mi diceva:“Ricordati, piccola mia, non permettere a nessuno di farti ciò che nonvuoi. Tu sei una principessa!”. Poi tante cose accaddero, mio padresparì in una sera d’estate ed io rimasi sola con la mamma. Non avevotempo per piangere, dalla mattina alla sera dovevo pensare ai miei trefratelli e alla locanda sul mare. Tanti uomini bruciati dal sole e dal salevenivano a rifocillarsi sotto quella veranda, e uno di loro fu il mionuovo padre. Forse ero ancora troppo piccola, o troppo secca perché,dopo aver abbondantemente bevuto, si occupasse di me. La mamma non c’era quasi mai, era sempre a letto malata. Aveva deisegni strani sul corpo e sul volto, e spesso la vedevo piangere. Divennigrande, e conobbi Zorad. Lui era alto ma longilineo, occhi neri e sfug-genti. Credetti di aver trovato in lui l’amore. In fondo non desideravo altro che una vita tranquilla nel mio piccolopaese d’Albania, e di poter tirare avanti la locanda insieme al miouomo. Ma Zorad un giorno mi disse che bisognava partire, non vedi,mi disse, con la locanda non si vive, non viene più nessuno, dobbiamoemigrare, andare in Italia dove ci sono tante possibilità di lavoro. Lo seguii. Niente più, se non l’amore per quelle case basse, allineatealla spiaggia, e per quei quattro muri dove avevo vissuto mi legava allamia terra. Anche la mamma era morta, e i miei fratelli se n’erano anda-ti in cerca di fortuna chissà dove. Ma una volta arrivati in Italia le cosenon andarono molto bene. Promesse, soltanto promesse, il lavoro nonsi trovava, e i pochi soldi che ci eravamo portati dietro, frutto della ven-dita della locanda, stavano finendo. Eravamo riusciti solo, grazie ad unamico, a trovare due vecchie stanze dove abitare. Un giorno Zorad midisse che avrei dovuto vendere il mio corpo se volevamo andare avan-ti. “Lo devi fare, capisci? Non ci sono altre alternative!”.

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Gli risposi di no, per nessuna cosa al mondo lo avrei fatto, meglio mori-re. “Torniamo in Albania” proposi. Zorad si arrabbiò. I suoi occhidivennero ancora più cupi, le sue mani mi colpirono più volte. Non l’a-veva mai fatto. Mi ritrovai così sulla strada, una sera, vestita di unagonna cortissima e di una camicetta che lasciava intravedere tutto. Almio fianco pendeva una borsa di pelle nera. C’era una lunga fila dimacchine. Una di esse di fermò, un uomo mi chiese quanto, io risposicinquanta euro, come mi era stato ordinato di dire. Le sue mani sudate,il fiato sul collo, l’ansimare della sua bocca vicino alla mia. Non era laprima volta che facevo all’amore. L’avevo già fatto con Zorad e mi erasembrato bellissimo. Quella volta, invece, provai solo disgusto e undesiderio infinito di morire. Poi tutto diventò abitudine, si succedetteroaltri uomini, grassocci mariti stanchi delle proprie mogli, ragazzini incerca della prima esperienza, vecchi. Ogni volta chiudevo gli occhi pernon vedere, lasciavo trascorrere il tempo sperando che tutto finisse,come in un film. Ma niente finisce, se non la speranza di avere una vitanormale. Avrei voluto scappare, ma dove? Zorad mi avrebbe ammazza-to se avessi tentato di farlo. E se anche fossi fuggita dove sarei andata?Mi accorsi ben presto che Zorad aveva sotto di se altre donne. Venivanoanche loro dall’Albania, e lui ci portava ogni sera sulla strada per veni-re a riprenderci a notte fonda. Solo una misera parte di quello che gua-dagnavamo ci veniva lasciato. D’altronde a cosa mi sarebbe servito ildanaro? Zorad ci teneva segregate per timore che scappassimo. Ma unasera accadde qualcosa di diverso. Una macchina si fermò davanti a me,un ragazzo giovane mi chiese quanto, cinquanta euro, risposi macchi-nalmente. Poi, una volta raggiunto il solito posto, mi abbassai la gonnae attesi che venisse su di me. Ma il ragazzo non si mosse. “Che fai?”gli dissi “guarda che ho altri clienti!”. Il ragazzo annuì, ma rimasefermo a guardarmi. “Non ti preoccupare” proferì “io ho pagato e possoutilizzare il mio tempo come voglio”. Trascorsero dieci minuti, poiritornammo di nuovo sulla strada. Il ragazzo tornava puntualmente ogni due-tre sere, e ogni volta si limi-tava a guardare il mio volto. “Sei bellissima” mi disse una sera. Unavolta mi prese le mani, un’altra mi chiese se poteva accarezzarmi icapelli. Accettai, mi sembrava il minimo che potessi concedergli.Perché si comportava così? Agli uomini che avevo conosciuto non inte-

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ressavano certo gli sguardi, le carezze, era soltanto quella che voleva-no, ed erano disposti a pagarla a caro prezzo. Lui no, lui mi osservavacome se io non fossi una prostituta, come se qualcosa di umano fosserimasto ancora in me. No, non ero irritata per quel suo comportamen-to, anzi, ero contenta non appena lo vedevo arrivare. Era come se unalucciola fosse arrivata a rischiarare con la sua fioca luce l’antro nerodella mia esistenza. Ma non osavo chiedergli spiegazioni, temevo chese l’avessi assillato di domande non sarebbe più tornato, e con lui se nesarebbe andata ogni mia residua speranza. Fu all’improvviso, una sera,che mi accorsi che aveva gli occhi grandi e azzurri come il mare. Comeavevo fatto a non notarlo prima? Mi guardava fissa. Anch’io lo guardaifisso, e vidi riflesso nel suo sguardo un altro sguardo proveniente da unmondo lontano, che credevo perduto per sempre. Rividi me bambina, eil volto di mio padre, e sentii di nuovo quelle parole: “Ricordati, picco-la mia, non permettere a nessuno di farti ciò che non vuoi. Tu sei unaprincipessa!”. No, non avrei permesso ad un altro uomo di approfittar-si di me. Finalmente avevo trovato il motivo giusto per fuggire.Abbracciai forte quel ragazzo e gli dissi grazie.Ecco, è l’ora. Sento il cuore che batte forte, e le gambe che mi trema-no. Porto con me soltanto la borsetta con pochi soldi, mi guardo attor-no per sincerarmi che non ci sia nessuno, brancolo nel buio, sposto sedie.Un’ultima occhiata alla cucina, ancora piatti e bicchieri sparpagliati sultavolo, tazze e pentole sul lavello. Sto per raggiungere la porta, afferrola maniglia, spingo in basso. “Ehi tu, dove credi di andare?”. È Zorad“Volevi fuggire, eh?” e così dicendo mi afferra per il collo, e stringe fortecon le sue mani scarne. Io mi divincolo, ma Zorad è forte, non ce la faccio, mi manca il respiro,forse grido. Intravedo sul tavolo un lungo coltello da cucina, lo raggiun-go e con tutta la forza che mi rimane lo spingo dentro Zorad. Un fiottodi sangue, “sei pazza?”, neppure il tempo di rendermi conto se stamorendo e via, oltre la notte, oltre l’oscurità. Non so se troverò oltrequella porta il ragazzo che si accontentava di guardarmi, che mi accarez-zava dolcemente i capelli, non so se riuscirò a sopravvivere, so solo chenessuno potrà più farmi quello che non voglio, adesso che ho conosciu-to il colore dell’amore.

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SORELLE

di Vincenzo GunnellaPerugia

Una rocca medievale tra cielo e acqua. Uno scenario incantevole,unico, con rocce a picco sul mare e spiagge di sabbia dorata. Dintornola struggente sensazione di tornare indietro nel tempo tra vecchie arma-ture, mura che trasudano storia e torri merlate esaltate dall’intenso sme-raldo degli oleandri. Indietro, in un’immersione simbolica nel passato,quel passato a lei tanto caro. I ricordi? Unica consolazione, dato che il presente non era roseo e dalfuturo (il cuore scarnito e gli spifferi del vicino dicembre della vita...)ormai non si attendeva più oltre.Sì, proprio un castello, un antico castello sul mare riadattato ad alber-go, sulla punta più a sud della Sicilia. Un moderno albergo a quattrostelle, confortevole e dotato di tutti i servizi più efficienti, a Portopalodi Capo Passero.Un sogno per Iris, (perché “i sogni aiutano a vivere” si ripeteva lei neisempre più ricorrenti momenti bui), un vecchio sogno finalmente rea-lizzato: visitare l’isola più bella del Mediterraneo e nel contempobagnarsi nelle fresche acque prospicienti l’Africa.L’opportunità? Colta al volo quando una collega di lavoro aveva parla-to di tornare a quella “perla” incastonate tra il verde e le rocce. Allaincantata descrizione del luogo, al brillare degli occhi di Enza, all’esal-tazione che tradiva la sua voce, non aveva saputo resistere. “Vengoanch’io!”E le aspettative coltivate in tant’anni no davvero, non erano andatedeluse. Uno splendido mare color cobalto, un cielo raffaelliano, e, dallasua camera, una ringhiera sull’infinito, la serenità unica di un orizzon-te da favola, il fascino, il mistero, il silenzio di un’isola nell’isola. Sì,quello era proprio il rifugio incantato, la nicchia di pace che aveva dasempre agognato. E, comunque, nell’intraprendere quel viaggio, aveva il latente sentireche quella fuga nell’isola del sole, l’avrebbe in qualche modo cambia-ta o forse resa più libera. Sul posto, una cordialità spontanea, una ospi-talità squisita, condita da sorrisi e pietanze esaltanti e genuine (una

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vicina azienda agricola forniva al ristorante dell’albergo gli ingredien-ti per le prelibatezze del luogo) e giù caponate, piatti a base di pistac-chio, pesce spada e pomodorini, granite di gelsi e dolci di pasta di man-dorla e l’eccezionale, mitica cassata siciliana (Iris ci andava propriomatta da quando un amico l’aveva iniziata a quella “ducizza” di origi-ni arabe).Un incanto, ahimè, infranto già al terzo giorno quando nella frescuradelle ore mattutine, un formicaio brulicante la concitazione, nell’alber-go si era diffusa la notizia di uno sbarco notturno di extracomunitari.Un barcone di un centinaio di disgraziati aveva riversato sul porto vici-no alla vecchia tonnara la miseria più nera, la desolazione di volti scon-volti da giorni e giorni di navigazione, di occhi scuri e spalancati,distanti anni luce dalla speranza che li aveva spinti a quella terribileavventura. La voce più insistente dava per probabile che quel manipolo di sbanda-ti provenisse dal Marocco.“Ma come era possibile – si chiedeva Iris – da così lontano?”. “E per quanto tempo erano stati in balia delle onde?”. Era incredibile esconvolgente! Doveva essere gente fortemente motivata per affrontarel’inferno di questa traversata senza certezze, tra cielo e mare, tra famee abbandono, tra rischi e marosi e, in un certo senso, tra vita e morte.Tante volte lei aveva letto sui giornali o sentito alla TV di questi sbar-chi, ma trovarsi lì a due passi da quell’accadimento, le aveva causatouna strana agitazione, una inconsueta frenesia. Si rendeva conto che,fino ad allora quel “problema” l’aveva riguardato relativamente poco,perché, in qualche modo avvertito “lontano” e mai aveva sentito primaquel sentimento di partecipazione, di coinvolgimento emotivo. Cosìdecise subito, con un’urgenza inusitata e saltando perfino le fragrantibrioche della colazione, di andare al porto, di andare a vedere di perso-na, di dare finalmente una precisa, viva connotazione alla rappresenta-zione dell’umana umiliazione che tante volte, in quella situazioneaveva solo larvatamente immaginato. Senza pensarci su due volte eprendendo le giuste indicazioni, si era avviata di corsa lì dove si dice-va erano stati ammassati quei “fantasmi”, affamati, smunti e qualcunoperfino agonizzante (così, almeno, diceva, la gente) che nella foschiadella notte agostana si erano materializzati su quel braccio di portodelle coste più meridionali della Sicilia.

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Marocco...Marocco...ma suo padre non era stato a lavorare per conto diun’impresa umbra e per parecchi anni a Rabat in Marocco? Sì, proprioin Marocco... .All’improvviso gli scalini che dal castello adducevano al porto le sem-brarono di sapone e le gambe di ricotta e la sua testa una girandola alvento, madida di sudore si dovette fermare: era come se il mondo, lecase, gli alberi, l’acqua del mare vicino, girassero attorno a quellaparola a carattere cubitali: “M A R O C C O”; come un flash nel cer-vello, uno squarcio nel cuore, un vortice che la riportava a quando, daragazzina, il padre appena tornato dall’Africa, spinta da giovanilecuriosità, rovistando in un armadio, aveva ritrovato dentro una tascaben nascosta di una lisa sahariana una foto. Una piccola foto seppiata dal tempo e dall’usura che ritraeva una gio-vane donna mulatta abbracciata ad una bella bambina dagli stessi linea-menti ambrati e sensuali.Ecco, la barra del timone del tempo, ancora una volta per lei si eraorientata verso il passato, si era aperta così quella remota rotta dellamemoria e, in quella scia... lei era lì con quella foto di nuovo tra le manitremanti...”Madre e figlia” aveva pensato come allora e ancora:“Perché mio padre si era portato dietro quella foto dall’Africa?” Oraricordava. Le grida improvvise e perentorie di sua madre che la chia-mava le avevano fatto sparire dalle dita la foto (ma dove l’aveva ripo-sta?) e, ne aveva in quel preciso frangente la nozione piena, avevanocompletamente rimosso l’accaduto dalla sua mente, fino a quelmomento, in quella strana, inattesa, epifanica situazione, in quel luogo,su quella lingua di terra quasi africana, immaginario spartiacque tra unmare e l’altro, tra ieri e oggi, tra realtà e memoria, tra serenità e dram-ma.Si, quell’immagine era rimasta per decenni, anche dopo la morte delpadre, celata nella sua coscienza di “brava figlia”.La bambina della foto, quasi sua coetanea, forse ora era madre...unamadre disperata costretta a fuggire per mare dalla sua terra per cercaredi assicurare un’esistenza meno cruda ai suoi figli...forse... .Adesso Iris, come se uscita dallo stato di trance, si sentiva più leggera,come realmente liberata da un greve peso, con le ali ai piedi, la testa intumulto, nel cuore una speranza...”e se una delle madri – coraggio arri-

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vate quella notte d’angustia fosse la figlia di suo padre, sua sorella?Quella sorella che, nel profondo dell’animo, le era mancata e avevasempre desiderato!?!”Certo, era assurdo pensare che fra tanti milioni di donne marocchine,proprio in quel gruppo di persone, in quella inimmaginabile circostan-za, in quel recondito lembo del mondo, potesse esserci lei, sua sorella....Ma da tempo Iris era convinta che i limiti dell’assurdo erano piuttostolabili e che a comandare sulle nostre esistenze fosse il Destino attraver-so i campi di influenza dell’Armonia e della Disarmonia.E, dunque, in quella circostanza era come se l’Armonia avesse preso ilsopravvento su tutto: sulle persone, sugli animi, sui tempi, sui luoghi.Come luce di una nuova alba, il sentimento di fratellanza del quale sisentiva invasa non poteva non essere una componente essenzialedell’Armonia. Si, ne era sicura. Da quel momento lei si sarebbe sentita sempre parte-cipe e vicina alle esistenze di tutti i diseredati del mondo, di quei fra-telli (e sorelle) che per qualsiasi necessitato motivo lasciano la propriaterra in cerca di miglior ventura per sé e i propri figli. E poi solo per-ché diversi da noi: di altra cultura, di altra razza, di altro colore dellapelle e per di più meno ricchi e meno fortunati, solo per questo dove-vano subire discriminazioni e ingiustizie? No, ne era profondamente convinta. Adesso, nel tepore del sole mattutino, Iris poteva finalmente correre ecorrere verso il porto, ad incontrare, forse, sua sorella, ma certamentead abbracciare la comprensione e dare il suo contributo per accoglierecon umanità quei fratelli disperati.Era l’Armonia che così aveva disposto. Era lei che lo voleva.

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LA RAGNATELA CELESTE

di Chiara CheccagliniPerugia

Marco continuò a raccontare ad Elena. Era una notte estiva come tante,con la ragnatela celeste, quando iniziò il suo racconto.Non si sarebbe mai aspettato di trovarsi in una situazione del genere.Era rimasto sconvolto quando Rebecca l’aveva chiamato ed era riusci-to solo a sentirla piangere dall’altro capo del cellulare, prima che siinterrompesse la comunicazione. Aveva subito avuto il presentimentoche fosse successo qualcosa di grave.Conosceva Rebecca da tredici anni ormai; la conosceva in ogni più pic-colo tratto del suo carattere. Poteva addirittura affermare di conoscerlameglio di quanto lei avrebbe mai conosciuto sé stessa. L’aveva vista piangere solo due volte nella sua vita: quando era mortosuo padre per un attacco cardiaco fulminante, due giorni dopo il suodiploma, e quando era stata licenziata dal lavoro che le serviva a pagar-si gli studi; non era una donna dalla lacrima facile e quel pianto rumo-roso lo terrorizzò. Era così in ansia che non riusciva a stare fermo unsecondo. Vanessa, sua fidanzata ormai da tre anni, l’aveva subito nota-to.“Marco, che ti prende? Sembri una trottola impazzita!”: erano queste leesatte parole che gli aveva rivolto. Lui le aveva subito detto la verità, elei non l’aveva affatto presa bene.“Mi sembra logico: ogni volta c’è Rebecca di mezzo. Tu fai tutto quel-lo che ti chiede...anteponi sempre lei a tutto!”.Inutile spiegarle quello che le aveva detto già un centinaio di volte, cheera solo la sua migliore amica, che la conosceva da tredici anni, chestava per sposarsi con un uomo molto più ricco e bello di lui che avevaanche una bambina piccola, che da parte di nessuno di loro c’era maistato qualcosa che concernesse al di più della semplice amicizia:Vanessa non gli credeva, e da come sarebbero andate le cose non pote-va dire che avesse torto. Non aveva tempo di discutere con lei, dovevarintracciare Rebecca in qualche modo. La casa del suo futuro maritoera vuota; provò a richiamarla, ma il cellulare era staccato. Sentendosicompletamente impotente era tornato a casa e non aveva aperto bocca

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per tutta la serata dato che Vanessa era chiusa nel più serrato mutismo.Si era ripromesso che la mattina seguente sarebbe andato a cercarla allavoro, dato che lei lavorava in un giornale vicino a casa sua, ma nonera nemmeno lì. Fortunatamente intravide Renata, una collega diRebecca che conosceva di vista, e chiese notizie sulla sua improvvisasparizione. Renata sgranò gli occhi dalla sorpresa.“Ma come? Non ti ha ancora detto niente? Pensavo foste molto amici,voi due.”“Infatti. Cos’è successo?”Quella donna lo stava seccando e cominciava seriamente a trovarlaantipatica. Perché lei sapeva tutto e lui no?“Non hai saputo di Enrico? Ieri sera è uscito in macchina nonostante lestrade fossero tutte ostruite per la neve e per il ghiaccio, dato che dove-va partire per non so quale fondamentale convegno con i suoi amiciavvocati. È uscito di strada...”“No...E dov’è lei ora?”“Sempre in ospedale...Non si è mai mossa...Penso che anche Cecilia siacon lei.”“Grazie, Renata!”Aveva coperto la distanza che lo separava da lei con il cuore in gola edi battiti accelerati in non più di venti minuti. Quando era arrivato fati-cava a tenersi in piedi, ma non sentiva dolore. Lei aveva bisogno di lui.Aveva sentito dire che più le persone arrivano in alto più è brusca ladiscesa. Dopo una vita di sofferenze, pensava che finalmente lei fosseriuscita a trovare un equilibrio, il posto in cui doveva stare. Ma il desti-no aveva deciso in modo diverso... .La trovò seduta con Cecilia in braccio. Fortunatamente non sembravapiù essere sconvolta, anche se le lacrime le rigavano ancora il volto.“Oh, Becca.”Era riuscito a dire solo questo. Lei si era appoggiata sulla sua spalla ederano rimasti in silenzio per quelle che a lui parvero ore intere.Inaspettatamente era stata lei a parlare per prima.“Sai Marco...Immaginavo che fosse troppo bello per essere vero.Arrivare a morire dalla felicità. Era troppo...Davvero troppo. Enrico eracosì perfetto per me. L’unico che mi abbia mai amato davvero. Loamavo anch’io, sai. Dovevamo aspettare che sua figlia...Che Cecilia

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fosse pronta. Io l’ho amata subito, sai Marco? Ora la considero un po’anche come mia. La mia più grande paura adesso... . Non è quella diaffrontare tutto senza di lui. Sono sempre stata sola, prima che lui arri-vasse... Sono sicura di una cosa, però. Non mi permetteranno di tenereCecilia con me. Io e Enrico non eravamo ancora sposati.”“Non sei mai stata sola, Becca. Non lo sarai mai.”“Marco, non ci sarai per sempre. Avrai una tua famiglia, prima o poi.”“Io non ti abbandono, Becca. Vedrai che troveremo una soluzione.”“Quale? Io non sono sua parente, Marco. Non sono neppure sposata. Avolte penso che sarebbe più giusto farla adottare da una famiglia, manon penso che avrei mai il coraggio di lasciarla a degli estranei. Se poila maltrattassero? Sai quanto tempo mi ci è voluto perché si fidasse dime? La perderei per sempre.”“È un bel problema.”“Sono senza possibilità, Marco. Ne dovrò parlare con Cecilia... Dimmicome devo fare. È stata qui tutta la notte, chiedendo di Enrico. Non saancora niente. Come glielo dico? Suo padre non tornerà mai più e sidovrà separare da me, forse per sempre. Come faccio, Marco?”Marco l’ammirava. In quella tempesta lei, che avrebbe potuto abban-donarsi al dolore, era la più forte. Cercava soluzioni. Non aveva anco-ra elaborato il lutto e già si preoccupava per la sua creatura. Avrebbevoluto fare qualcosa per loro, ma era completamente impotente.“Becca...Vorrei davvero fare qualcosa per te.”“Scusami, Marco. Così faccio deprimere anche te. Basta stare qui senzafare niente.”Si era rialzata con Cecilia in braccio, provando a sorridere.“In ogni caso, proverò a tenerla con me. Se proprio non potrò farlo...Me ne farò una ragione.”“Dove vai, adesso?”“Devo incontrare quelli dell’agenzia funebre. Dobbiamo iniziare a met-terci d’accordo sul... Sul...”“Ho capito. Vuoi che venga con te?”“Grazie, ma preferisco andare da sola. Ehi, Marco... Fatti vedere, perfavore...”Lui l’abbracciò forte. Certo che si sarebbe fatto vedere! Lo considera-va davvero così poco legato a lei? O forse era lui che si attribuiva un

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posto esagerato nella sua vita? Era venuto a sapere della situazione gra-zie a Renata... .“Becca, ascoltami. Qualunque cosa succeda... Non importa se ci spose-remo, avremo dei figli, o se capiteranno altre disgrazie. Qualunquecosa succede, io sono qui.”“Marco... cavoli, lo sai che ti voglio un bene dell’anima?”L’aveva baciato sulla guancia e si era dileguata. La compativa. Sisarebbe trovata tra le fauci di Sebastiano e Marianna, i due proprietaridelle pompe funebri, che l’avrebbero inondata di frasi di circostanza.Aveva una morsa al cuore per lei e per Cecilia. Quella bambina di nem-meno sette anni... . Prima aveva perso la madre per un cancro, ora ilpadre. Aveva faticato ad accettare Becca i primi tempi, ora invecesarebbe stato particolarmente doloroso e difficile separarle. Non conce-piva come non potessero restare insieme, nonostante lei non avessequalcuno accanto. Cecilia non aveva altri parenti che potessero pren-dersi cura di lei e Rebecca avrebbe dovuto essere la scelta più ovvia enaturale.Vanessa percepiva quanto ultimamente Marco fosse inquieto e arrab-biato, ma esplose quando lui dimostrò di non ricordarsi minimamenteche il giorno seguente ci sarebbe stata la mostra dei suoi ultimi quadri.“Come sarebbe a dire, NON POSSO VENIRE? Te ne sto parlando daoltre tre mesi!”“C’è il funerale di Enrico, Vane. Non posso saltarlo per andare a vede-re i tuoi quadri. Li vedo sempre. Viviamo insieme”.“Viviamo insieme perché stiamo nella stessa casa, ma non viviamo“insieme”, Marco. Ti rendi conto che non trovi nemmeno il tempo pervenire ad una mostra? Forse dovresti cercare di capire chi conta davve-ro per te, Marco”.“Che vuoi dire?”.“Voglio dire che se domani non vieni alla mostra, io me ne vado”.Elena lo guardò con fare interrogativo. Evidentemente si aspettava chelui proseguisse il racconto. Era molto stanco per parlare, ma volevasoddisfare la sua muta curiosità.Ovviamente Marco era andato al funerale. Quando era tornato a casasua di Vanessa non c’era più traccia. Dopotutto se l’aspettava e non neprovò un grande dolore. Era da qualche tempo, ormai, che l’amore per

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Vanessa, che eppure l’aveva un tempo travolto, si era così affievolitoda andare avanti per pura abitudine, non certo per la forza del sentimen-to. Ormai si era reso conto che la sua vita ruotava sempre di più versoun’altra direzione.La signora Elena annuì, per fargli capire che lo stava ascoltando, ma luinon la vide. Era crollato in un sonno profondo. Quando si svegliò dicolpo, lei era ancora lì che aspettava pazientemente. Evidentementesentirlo parlare era l’unica distrazione che aveva in quel momento. Lacapiva: la preoccupazione per i figli doveva essere troppa; anche se lui,se ci fossero state loro, non sarebbe riuscito a chiudere occhio... .“Mi scusi, signora Elena...”“Figurati, capisco quanto tu possa essere stanco. Per favore, continua.Mi sto appassionando.”Marco era andato a casa di Enrico, dove ancora abitava Rebecca, senzaun apparente motivo. L’enorme giardino era illuminato solo dalla fiocaluce di alcune piccole lampade cinesi. Rebecca e Cecilia erano seduteinsieme. Gli sembrava che stessero guardando le stelle, proprio nellastessa posizione in cui le avevano guardate lui e Rebecca quando lui erastato costretto a partire un anno per Parigi. Entrambi erano inconsola-bili alla separazione: non avevano mai vissuto più di due giorni senzavedersi. Marco immaginò che Rebecca stesse raccontando anche aCecilia della ragnatela celeste, proprio come lui aveva fatto con lei tantianni fa. Non riuscì a non origliare. “Guarda, Cecilia. Non ti sembra che le stelle formino una granderagnatela?”.“Hai ragione!”.“Vedi quella più grande e luminosa? Si chiama Venere, come la deagreca della bellezza. Sai, sono sicura che tuo padre si trovi già lì e cistia aspettando. Non importa che la sua attesa sia lunga, lì le ore passa-no come se fossero secondi. Ricordati di quello che ti dirò, Cecilia: semai io e tuo padre ti mancheremo, devi promettermi che tu guarderaiquella stella e penserai a noi. Il cielo è lo stesso da qualunque parte delmondo lo si guardi”.“Sì...lo farò”.Marco si era allontanato. Non gli sembrava giusto continuare a violarela loro intimità, tanto più che ormai aveva già preso una decisione cheera sicuro che Rebecca non avrebbe mai potuto rifiutare. Intimamente

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aveva già preso coscienza di quello che sentiva per lei. Anche primache Enrico se ne andasse la preoccupazione per lei era sempre statacostante; se non aveva notizie di lei da troppo tempo correva il rischiodi diventare matto. L’aveva sempre trovata molto bella, come moltialtri del resto; ma gli altri si accorgevano che i suoi occhi verdi, se veni-vano feriti dal sole, si tingevano di azzurro? Che dietro la sua ostina-zione, i movimenti sempre rapidi e decisi, c’era la più grande insicu-rezza e fragilità? Che, senza i suoi tacchi da quindici centimetri, era tal-mente piccola che anche una folata di vento poteva portarla via? Che isuoi capelli non erano semplicemente biondi ma del colore del grano?Che quando si muoveva sembrava un uragano di vita e attraeva tuttinella sua orbita?La conosceva da tredici anni, praticamente da una vita. Sapeva tutto dilei, sapeva indovinare ciò che pensava prima ancora che lo dicesse.Dietro la compostezza che ostentava al funerale lui sapeva cosa si cela-va: un dolore lacerante. Avrebbe voluto condividerlo, prendersene sullespalle almeno la metà per alleviarla un po’.In quel momento aiutarla gli sembrava l’unica cosa che dovesse vera-mente fare. Si sentiva legato a lei a doppio filo e non poteva fare ameno di pensare che il destino di loro due era nelle sue mani. Forse erainnamorato di lei dalla prima volta che l’aveva conosciuta. Ci avevasolo messo troppo tempo a capirlo. Sapeva che lei non avrebbe maiprovato lo stesso: aveva amato troppo Enrico perché potesse di nuovoaprire il suo cuore, era troppo presto. Forse non avrebbe mai più amatoqualcuno così tanto. Eppure, nonostante avesse la più solida certezza dinon poter essere ricambiato, lui sentiva che doveva tentare almeno diaiutarla: questo glielo doveva. L’amava troppo per non provare a farequella proposta. Sapeva cosa avrebbe fatto la mattina seguente con unasicurezza che quasi lo spaventava.La signora Elena aveva sgranato gli occhi, sorpresa.“Hai capito tutto così, di botto?”.“In cuor mio l’ho sempre saputo, immagino. Penso di aver nascostotutto a me stesso. Enrico era una bravissima persona, eppure io l’hosempre trovato antipatico. Quante energie quella poveretta ha speso perprovare a farmelo piacere...”.“Alla fine cosa hai deciso?”

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Marco aveva le idee sorprendentemente chiare in proposito. Era andato a casa di Enrico determinato eppure appena la vide perseimmediatamente tutta la grinta. “Ehi, Marco! Cosa fai qui? Non c’era una mostra di Vanessa, oggi?”“Non...non vado più alle mostre di Vanessa...”“Davvero? Perché?”“Perché...non funzionava tra noi, ecco...”“Davvero? sembravate così... non so...”Era tutta intenta a sistemare dei girasoli in un vaso che rovesciò dicolpo a terra quando Marco le disse di getto quello che andava rimugi-nando dalla giornata precedente.“Cosa... cosa hai detto?”“Che se vuoi, solo per procura.... Io ti sposo. Davvero, anche subito.così potrai adottare regolarmente Cecilia...”“Ma...perché lo fai?”“Perché...sono il tuo migliore amico. È l’unico modo che hai, Becca.Non possiamo fare altrimenti, lo sai anche tu. Sarebbe solo per procu-ra, ed io potrei aiutarti in modo concreto...”Elena alzò pericolosamente il tono della voce.“Cioè, le hai chiesto di sposarti? Non era terribilmente indelicato nellasituazione in cui si trovava? Era appena morto l’uomo che doveva spo-sare...”“Mi sembrava di non avere scelta, signora Elena... Non ho mai pretesodi prendere il posto di Enrico, o di imporle la mia presenza. Volevo solodarle la mia garanzia per un atto formale... Mi avrebbe avuto vicino see quando avesse voluto. Ecco ciò che le ho detto”.“Non hai accennato a ciò che provavi?”“Non sono pazzo. Avrebbe rifiutato perentoriamente. Il mio obiettivoera solo quello di darle una mano...”“Non c’era davvero un secondo fine?”“No. Io le voglio bene davvero, Elena.”“Ti credo. Lei poi cosa rispose?”“Che era troppo per me, che non era giusto nei miei confronti... Chesolo per il fatto che lei fosse infelice, non voleva dire che dovessi esser-lo anch’io. Le ho ripetuto almeno una ventina di volte che non lo sareistato, dato che Vanessa non costituiva più un impedimento. Eppure lei

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si preoccupava per il mio futuro, come se davvero potessi, prima o poi,amare qualcun’altra al di fuori di lei. Quando si ama troppo una perso-na, si corre il rischio di non innamorarsi più.”“Marco...Forse lei non aveva tutti i torti. Saresti stato davvero pronto asacrificarti?”“Lo sono anche ora, signora Elena. Se lei fosse qui, la sposerei anchein questo momento.”“Dopo cosa successe?”“Disse che aveva bisogno di tempo per riflettere con calma e che sareidovuto passare quando mi avesse telefonato. A questo punto entra ingioco lei, signora Elena. La reporter televisiva... Mi spiace di non esse-re stato in grado di proteggerla, ma quello mi ha colto alla sprovvista...”“Dispiace a me, se non ti avessi mai chiesto di aiutarmi con la bustadella spesa...”“Inutile piangere sul latte versato... Ascolti... Sta tornando...”Si trovavano ancora legati stretti e quasi non riuscivano a muoversi. Ilsequestratore stava tornando, e dai suoi passi furiosi non sembravaavere buone intenzioni...Era strano. Se l’avesse visto passare per strada, Marco non avrebbe maidetto che Gianni Tozzi fosse un uomo capace di sequestrare una donnasola e due ragazzine: aveva degli occhi molto gentili e regalava soldi aimendicanti, non spiccioli, ma banconote di piccolo taglio; era cono-sciuto come una persona dedita al lavoro ed amante dei bambini...Rebecca non si sarebbe mai lasciata ingannare dalle apparenze. Avevasempre fatto molta più attenzione alla sostanza che alla forma... .Comeaveva fatto a non notare che quell’uomo nascondeva una pistola? Erastato così terribilmente stupido da non accorgersi di niente... . Il fattoche ci fosse anche lui era stato un grosso impaccio, ma alla fine era riu-scito a metterlo fuori gioco... .“Dunque, signora Elena, le va di parlare un po’?”“Perché ci hai chiusi qui?”“Voglio far sapere qualcosa.”Mentre lo sentiva parlare e la signora Elena annuiva condiscendentementre ascoltava attentamente, Marco si accorse che la sua storia eraterribilmente simile a quella di Rebecca. Si accorse di quanto rancoreaveva accumulato, di come la lontananza di un bambino che si amava

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fosse devastante. Rebecca non avrebbe mai raggiunto quei livelli, maavrebbe potuto compiere gesti molto sconsiderati per quanto riguarda-va lei stessa... Doveva almeno provare a convincere Tozzi a lasciarliandare.“Signor Tozzi, sa che questa cosa sta succedendo anche ad una miacarissima amica? Ne sta soffrendo quanto deve avere sofferto lei...”“Cosa?”Sembrava interessato, così decise di proseguire.“Si ricorda di Rebecca Adinolfi? La ragazza bionda della villa di fron-te a casa sua? Ecco, l’uomo che doveva sposare e che è morto pocotempo fa aveva una bambina che lei ama molto. Non hanno fatto intempo a sposarsi e molto probabilmente gliela porteranno via. La pic-cola non ha altri parenti, quindi molto probabilmente la faranno adot-tare.”“Davvero...”Sembrava toccato dalla cosa. Tanto valeva provare ad insistere.“Se non torno per darle una mano, succederà lo stesso anche a lei. Miserve l’aiuto della signora Elena...”“Ma...lei deve aiutare me...”“Lo farà. Signora Elena, promette di aiutare entrambi, vero?”“Certo.”Elena ebbe solo il tempo di ringraziarlo che Marco era già schizzato viacome una freccia. Aveva una risposta che lo attendeva e voleva sapere.Lei stava preparando il sugo per la pasta. Aveva un grembiule sorpren-dentemente candido e guardava fissa nel vuoto. Appena lo vide arriva-re lasciò cadere il cucchiaio di legno.“No, cavolo! Ora dovrò pulire la moquette...”“Becca... Guarda che la proposta che ti ho fatto è ancora valida... Hoaffrontato un sequestratore per venire a ribadirlo...”“COSA?”L’aveva guardato con tanto d’occhi e si era messa una mano sul cuore.“Dio, Marco, non puoi fare a meno di cacciarti nei guai? Se avessiperso anche te? Sono una calamità per tutti quelli che mi sonovicini...non posso permetterti di farlo, Marco...”“Invece lo farai. Io...non potrò mai amare nessuna donna, perché...”Rebecca lo stava guardando così fissamente che doveva per forza tro-vare una scusa plausibile entro pochi secondi.

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“Perché sono omosessuale! Ecco, dopo tutti questi anni finalmente rie-sco a dirlo a qualcuno...”“Oh, Marco...perché non me l’hai mai detto?”L’aveva stretto in un abbraccio che gli aveva mozzato il respiro.“Allora va bene, accetto. Non saprò mai come dirti grazie.”Non avrebbe mai potuto dirglielo, ma il suo volto sorridente era già unaricompensa più che sufficiente.Qualche anno dopo, Marco si era ritrovato al bar con la signora Elena.Lei stava sorseggiando un tè, lasciando a lui i pasticcini che le aveva-no portato come contorno. Stava raccontando la sorte che era toccata aquel povero rapitore: dopo che lei gli aveva fatto fare un appello tele-visivo, era riuscito a mettersi in contatto con la bambina e le avevamandato un mazzo di fiori con le sue più sentite scuse.“Me lo sentivo che non poteva fare del male ad una mosca, ma eromolto preoccupata per le mie figlie e per te. Con Rebecca come andòpoi a finire?”Quando raccontò l’espediente che aveva usato ci mancò poco cheElena non si strozzasse con il tè tanto si era messa a ridere.“Cioè, le hai detto che eri gay? Ma sei incredibile!”“Lo crede ancora. Grazie a questo, ho sempre vissuto con lei e la pic-cola, facendo sempre in modo di essere discreto. Non credo che le diròmai che la amo.”“Perché mai, scusa?”“Forse ha cominciato a farsi piacere di nuovo qualcuno, dopo sei anninon voglio intralciarla, e poi...dirglielo rovinerebbe tutto, credo.”“Almeno promettimi che ci penserai, Marco. Credimi, te la meriti unapossibilità. Dopotutto si tratta sempre di tua moglie.”“Forse...forse lo farò. Dopotutto, non si sa mai nella vita...”

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LA LEGGENDA DEL GOBBO DI PISTOIA

di Cirano AndreiniPistoia

Arcigna gran facciata di bozze di macigno del palazzo.Gran portale sormontato dallo stemma nobiliare della casata con le duespade incrociate e corona principesca. Enorme il portone di querciaborchiato di ferro e a lesene e pannellature scolpite a scene epiche.Grand’inferriate a lance acuminate di ferro battuto in aggetto ai fine-stroni. E tutto è ad inculcare un monito, un altolà al restante sia degliedifici che degli abitanti stessi della intera città. “Io sono io – parevadire – e tu edificio o passante che mi guardi, o non sei affatto o – tutt’alpiù – sei di molto ma di molto inferiore e da meno di me. E comunquescostati dal mio cospetto che sei di mio fastidio. E anche il conte padrone che lo abitava a quei giorni era così.Quasi l’architettura del palazzo avesse generato l’abitante di ora.Proprio – come si dice – faccia “la forte immaginazione (che) suscital’evento immaginato” così l’architetto del XVI secolo doveva avermodellato la pietra del palazzo onde fosse consona alla psiche e aldiportamento del suo padrone di ora.Il padrone era un conte dai, almeno, tre o quattro cognomi come DeAltamura, De Pazzi, Degli Usbergo o altro ancora. Ma quando il suococchio a due cavalli passava in città al piccolo trotto, tutti dicevano“Fatti in là che passa il Frusta... . Il conte Frusta”. Sapendo bene che ilsuo cocchiere non ci metteva tanto a schioccare frustate a destra e amanca se niente niente qualcuno avesse indugiato a far largo al suo pas-saggio.Era un bell’uomo d’imponente corporatura e altero di portamento. Emai nessuno l’aveva visto camminare a piedi se non alle cerimoniesolenni dell’aristocrazia in piazza de’ Signori con spadino al fianco,cimiero con le piume e gran cipiglio. Ma questa città del Granducatonon era certo solo quel palazzo né i suoi abitanti erano tutti come ilconte Frusta, i suoi festini e i suoi fasti. E a cominciare da un chiasset-tolo laterale al palazzo, dov’erano le scuderie padronali, c’era la botte-guccia, d’un gobbino calzolaio che da mane a sera stava lì a guadagnar-si pane e alloggio battendo suole di cuoio e cucendo tomaie di povere

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scarpe logore. Stava lì quasi a marcare il gran contrasto ravvicinato franobiltà e miseria, fra il ludico e il prosaico. Eppure il conte Frusta chemai avrebbe dato il saluto per primo a chicchessia e men che meno auno di rango inferiore, usava per quel ciabattino gobbo un atroceriguardo: un garrulo ticchio, un vezzo inveterato, di routine quotidiana.Come il ripulirsi la gola e lo sputare in terra e aggiustarsi ben bene lafalda del cappello onde assumere l’estro del pavone che uscendo dalpalazzo muove alla conquista dello spazio.E, sia in estate quando il poveretto tirava il bischetto sulla soglia perrisparmiare sulla candela, sia nell’inverno quando lavorava rintanatonel suo antro, il conte al ciabattino gli lanciava un lazzo, un epitetomordace, un apparente saluto amicale, ridanciano, del padrone al suogiullare di corte. Imbelle per dovuta sudditanza.“Hooo! O gobbo! Salve gobbo, salve!” E, come liberatosi da quel suoprimo adempimento giornaliero dovuto al suo rango, il conte tirava dilungo verso la sua carrozza. Che l’aspettava lì a pochi passi con la por-tiera aperta, il lacchè impalato allato e il cocchiere già a casetta, rediniin mano, pronto a toccare i cavalli con la frusta.Delle volte – inoltre – quando il conte passava attorniato dalle sue cor-tigiane, sempre giovani avvenenti ed elegantissime, allo sventurato cia-battino toccavo ancor di peggio.“Haooo! Guardate guardate... il gobbino del signor conte! Che bello,che bello, che fortuna” dicevano quelle “Sì sì – diceva il conte – certoche porta fortuna, eccome! Toccategli il gobbone al mio gobbino”.Confermava e rincarava il Frusta. E giù tutti a toccare la gobba delpoveretto e a sbellicarsi dalle risa.Il gobbo – orecchie a punta e grifo bruttino di coniglio – pensando checosì era la sua vita e così sia, quando intento alla lesina e al trincettosentiva piovergli sul capo quelle attenzioni, si portava prontamente lamano al berretto e ancor più alla svelta rispondeva: “Buongiorno signorconte, buongiorno vostra signoria. Riverisco assai signor padrone.Servo vostro”. E lo ripeteva un paio di volte per essere ben certo che ilsuo ossequio fosse stato ben udito dal conte.Poi, dopo aver sentito rotolar via la carrozza gli montava il groppo allagola. Ma lui lo trangugiava aiutandosi tossendo. E si metteva a lenire ilsuo segreto dolore a rammemorare gli effetti delle ultime tirannie dal

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conte perpetrate. La sguattera Laudomia, vecchia, vedova, sola e senzacasa – ora alla porta delle chiese – cacciata via da lì a lì per aver rottoun vassoio neanche di gran pregio... E il cantiniere Meo che – incolpa-to d’aver trafugato un fagiano dalla dispensa – non resse all’accusa eandò a morire all’ospizio il giorno prima che la carcassa del fagiano,maciullata dai denti del bracco da caccia del conte, fosse rinvenutanella sua cuccia. E si faceva coraggio e sopportazione così. Sentendosianche per quel giorno al coperto e fortunato d’esser ancora tenuto lì.Così durò, per il ciabattino gobbo, per tutt’i santi giorni che sono con-tenuti in trent’anni. Tutti fatti di “salve o gobbo” del conte e di“Buongiorno vostra signoria” dello sciagurato.Poi una mattina tutto finì di colpo. Che niente a questo mondo è fissoe stabile. Fu il lacchè, vedendo che il conte Frusta tardava alquanto, purnon avendo udito alcunché, gli andò incontro di quei pochi passi chec’erano fra la carrozza e la botteguccia del ciabattino, che per primovide arrivato il dopo del conte Frusta, e dei trent’anni d’insulti al gobbociabattino. Lui, il gobbo, riera seduto al suo bischetto: zitto, calmo,sguardo fisso al palmo della sua mano destra vuota del trincetto. E iltrincetto... Era infisso nell’addome del conte lì supino sul selciato.Per ben tre anni non fu trovato in tutto il Granducato un avvocato chese la sentisse di prendere a difendere quel gobbo, tanto efferato era queldelitto; tanto era smisurata la sproporzione sociale fra l’assassino el’assassinato e tanto... Inesistenti i ducati dei cliente per pagare la par-cella dovuta alla difesa.Poi, inopinatamente, si fece avanti un certo Annibale Becherini avvo-cato forse sì forse no. Male in arnese anche a vederlo. Sconosciutoaffatto al mondo forense. E del quale qualcheduno – e questo può dareun suo tratto – lo diceva “il Beverini” anziché il Becherini.Comunque la Gran Corte, onde finalmente sortirne e poter procedereall’attesissimo processo non lo rifiutò.Quando il carro trainato da un mulo, proveniente dal carcere duro delMastio delle Stinche, con l’assassino rinchiuso dentro, sbucò sullapiazza del tribunale dovette fendere la folla, che subitamente ammutolì.Era il carro nero e chiuso, ben noto, che conduceva i condannati allaforca e aveva il frate cappuccino che già sedeva a cassetta accanto allosgherro postiglione. Mentre uno stuolo di gendarmi a cavallo e sciabo-

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la in aria gridavano “Fate largo alla legge, largo, largo!” E nel pesantesilenzio fu sentito lo scatenacciare dei ferri che tenevano legato mani epiedi il gobbo quando, arrivato il carro alla loggia del Bargello, lo fece-ro scendere per avviarlo subitamente alla sbarra. Ché la corte al com-pleto era già insediata e il salone era traboccante di popolo gia da ore.Il gobbo assassino, già piccino di natura sua, ora appariva ancor piùrimpicciolito e mai si reggeva sulle gambe. E, se possibile, era ingob-bito ancor di più al buio della cella in quei tre anni da avere la gobbapiù alta della sua testa incanutita da coniglio. E un sommesso brusìo silevò dalla folla: “ooh...ooh”.L’udienza fu aperta, ebbe svolgimento e durò pochissimo. L’esito eratanto scontato da ritenersi quel processo una pura formalità di legge;“Per un omicidio a ciel sereno, fulmineo, a sangue freddo di questafatta; commesso su persona tanto altolocata a perbene; da un assassinoche dall’assassinato era stato addirittura assistito, alloggiato, protetto ebenvoluto” – come declamò con eloquio teatrale e voce stentorea iltogato della Pubblica accusa – “di verdetti ce ne possono essere uno euno solo: la forca, la forca!” Del resto alla Fortezza medicea il patibo-lo, il boia, il giorno e l’ora dell’esecuzione erano già predisposti datempo . Cioè la mattina subito seguente il verdetto. E la carrozza neraera lì fuori ad aspettare col cancello aperto.Escusso tutto quello che la procedura giudiziaria prescriveva, mancavasolo l’arringa della difesa. È vero. Ma l’ometto dell’apposito scranno –scarmigliato e ancora senza toga – non pareva affatto preoccuparsid’alzarsi per dire qualcosa in dìfesa del suo cliente. Né, tantomeno – sequalche parola come “Mi rimetto alla clemenza della corte” doveva purdirla, che doveva dirla ora o mai più.Tutti pensarono alla sua rinuncia: troppo indifendibìle quel gobboassassino lì in gabbia... .Invece no. L’avvocatuccio finendo d’infilarsi la toga dopo che era bal-zato nel centro dell’aula, si sfilò calmissimo l’orologio a catena daltaschino e lo tenne nel palmo della mano. Zitto assunse un’aria di gran-de flemma e cominciò a camminare a testa eretta e a passi lenti in cir-colo guardando uno ad uno tutt’i componenti del collegio giudicante.Nessuno fiatava. La suspense del popolo e dei togati era massima.Mah... Che aspettava ora quell’azzeccagarbugli del Beverini...

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Era rincitrullito? Era già il secondo giro che faceva camminando sem-pre più vicino agli scranni della corte e dalla sua bocca non era uscitaneanche una parola che è una parola.Il giudice presidente, con la sua burbanza, prima col gesto della manoe poi – seccato assai – con la voce lo esortò.“Avvocato, dite, dite, entrate nel merito, prego!”.Ma quello si limitò ad alzare solo l’indice come a far capire che avevainteso benissimo. E per inchiodare, con quel dito, l’attenzione di tuttala corte e in specie di lui: del Presidente in ermellino, gorgiera di setae tòcco rosso e oro. E volle fare in quel modo – zitto, a dito puntato ea passo più lento – un altro giro. E solo ora – fissando il Presidente –finalmente, con voce sussiegosa disse “Eccellenza signor Presidente,signori della corte!” E si chetò di colpo iniziando un altro giro ancoraancora più lentamente sguardo a tratti all’orologio che teneva strettonel palmo della mano. Del tutto incurante del bisbiglio del popolino edel bofonchiare del Presidente con i suoi giudici ausiliari. E quando dinuovo fu vicino al suo scranno, sempre con fare suadente, dalla suabocca uscì ancora: “Eccellenza signor Presidente, signori della corte!”E basta.Il giudice Presidente, ora non ne poté più. Rosso scarlatto in viso balzòin piedi. Scompostamente smaniava, urlava con gli occhi fuori dell’or-bita. “Avvocato! Avvocato! Ora basta. Dite, dite o vi tolgo la parola!”E aveva ragione, l’abnorme era palese. Altro che la teatralità d’avvoca-to era quella turlupinatura, vilipendio della corte era...E in primis di Lui personalmente e del Suo ermellino e del Suo toccorosso e oro. Ma quello, il Beverini, non se ne diede per inteso. Tornòzitto e a girare in tondo piano piano. Ai gendarmi grandi e grossi e conalabarde lì in servizio d’ordine, lampeggiavano gli occhi. Un solo gestodel Presidente e l’avrebbero afferrato come un fuscello quel briaco delBeverini: per arrestarlo per fragrante insulto alla corte; per toglierlo dipeso da quel cospetto; per mettergli i ferri; per picchiarlo anche sem-mai... E il gesto venne, ci fu.Ma prima che arrivassero a toccarlo l’avvocato difensore AnnibaleBecherini piazzò ancora una volta sul muso del Presidente quel suo“Eccellenza signor Presidente...”. A questo punto successe un pande-monio. Il parossismo del Gran togato toccò il diapason: smaniava, urla-

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va, sputava parole scomposte, offese inconsulte e pure schizzi di sali-va. Quasi come taluni rettili schizzano i loro veleni ai loro aggressori.Ma al Beverini bastò che l’afferrassero per le braccia perché gli si scio-gliesse di repente la lingua. Lo stupore da colpo di scena agghiacciò lagente in un assoluto silenzio. I gendarmi ristettero. “Io – attaccò orasciolto e benevolo l’avvocatuccio consultando l’orologio – eccellenzasignor Presidente, sono solamente tre minuti che mi rivolgo a VoidandoVi dell’eccellenza e... . Voi vi siete ridotto a codesto supremostato di furia collerica da ordinare la violenza dei gendarmi su di me:mettermi le mani addosso, arrestarmi, picchiarmi, incatenarmi, impri-gionarmi...! Ebbene – continuò girandosi verso l’intero mondo dei pre-senti – il mio cliente, che ho l’onore e l’onere di difendere in pura per-dita, è stato insultato ininterrottamente per ben trent’anni con l’epitetopiù atroce e più vile che la perfidia umana possa escogitare: la contu-melia riferita all’anomalia che egli ha ricevuto – suo malgrado – damadre natura: quella d’essere gobbo.Irrimediabilmente gobbo. Signor Presidente, signori della corte la dife-sa ha finito il dire a Voi, ora, il fare. Il fare giustizia!.E il Becherini – Beverini – avvocato forse sì e forse no – nel gran cla-more di popolo che era scoppiato per il ribaltamento copernicano delprocesso da lui provocato, si sfilò la toga e sgattaiolando sparì.

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TRA LE RIGHE DI UNA FAVOLA

di Vittoria MenghiniCorciano

...Dolcissimi Alessandro e Massimiliano “C’era una volta una bambina che si chiamava...”....Una collana di perle, coralli rossi prendono forma dalle mie parole....Un filo di emozioni riannoda lacerazioni di tempo spezzato, fram-menti di attimi sciolti in angoli remoti, bagagli dimessi nei ripostiglidell’anima....Sto giocando con i miei nipotini e tornano i miei giochi d’infanzia....Gioca la mia memoria con il tempo, s’intreccia con una collana diricordi....Dal comodino di mia madre avevo preso quelle pietre per ornare ilmio collo, volevo somigliare ad una vera principessa....E davanti allo specchio della camera mi vedevo già grande....Poi avevo avuto un’altra idea, trasformare quel monile in una mine-strina per la cena e cuocerla nelle mie pentole, ciotole di latta ricavateda vecchi barattoli inutilizzabili.

Con un martello iniziai a battere su quei chicchi preziosi che mi sem-bravano troppo grandi, ne ricavavo tanti altri più piccoli, tanto altromateriale per giocare, tante altre porzioni da servire....Non potrò mai dimenticare lo sguardo di mia madre che era arrivatatroppo tardi. ...Niente si era salvato. ...Una minestra non cucinata era ciò che le rimaneva del ricordo dellasua mamma. ...E della mia una donna dalla figura statica, senza parole, senza gesti,senza rimproveri, senza reazione....Ancora sulla soglia l’immagine di quel momento....Insieme a quella di quando era con mio padre al lavoro nei campi ecapitarono dei soldati tedeschi. ...Altre volte erano giunti a casa nostra e la mia mamma aveva prepa-rato loro sempre da mangiare. ...Si era alzata anche in piena notte per farlo, quando erano arrivatianche molto tardi.

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...Mi diedero delle zollette di zucchero, avevo poco più di cinque anni,e pensai bene di comportarmi come una persona adulta. ...Ma non sapevo cucinare e li accompagnai nella cantina dove sapevoche mio padre teneva le scorte di prosciutti, salami, capocolli, vino,olio... ....Non sapevo che dovevano restare nascoste. ...Presero di tutto, li vedevo riempire avidamente le loro sacche ed usci-re dallo scantinato soddisfatti intanto che mi brillavano sempre più gliocchi verdi, contrastati da capelli nerissimi e morbidi....Con le guance sempre più rosse su di un colorito olivastro, mentrequegli uomini, che ora mi appaiono come poveri ragazzi disperati eaffamati, per gioco mi tiravano le treccine con cui mia madre anchequella mattina aveva sistemato i miei capelli.

Sorridevo a quegli scherzi, e sempre felice succhiavo gli zuccherinimentre li vedevo allontanarsi con gli zaini traboccanti del cibo che gliavevo messo a disposizione....Cominciai a seguire il loro cammino....La giornata era bella e arrivai fino in cima alla collina, dove si apri-va una distesa di terra molto chiara e fina, quasi a sembrare il piazzaledi una maestosa Cattedrale....Intorno un piccolo bosco dove io mi divertivo ad osservare i voli dinumerosi uccellini e, spesso, le corse delle lepri. ...Dove anche la mia fantasia non aveva più confini....Ma i soldati mi avevano distanziato e, quasi intristita, abbassai losguardo....Che subito si posò su tre barattoli della grandezza di quelli dei pomo-dori pelati da mezzo chilogrammo....Particolari e curiosi perché oltre ad essere corredati di una piccolacatenella, metà monetina, così sembrava, usciva da un loro lato....Era come se avessi trovato un tesoro....Meravigliata per la sorpresa iniziai subito a giocarci. ...Mettendoli in fila ed unendo le catenelle con un pezzetto di legnocreavo un trenino, collocandoli uno sopra l’altro sfidavo l’equilibrio,distanziandoli quanto bastava per correrci in mezzo realizzavo un veropercorso ad ostacoli....Comunque per me così preziosi da essere toccati sempre delicata-mente.

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...Mi chiamò la mamma che era ora di pranzo.

...Dovevo nascondere quella mia ricchezza e l’unico posto sicuro chemi venne in mente fu l’incavo di un vecchio ulivo dal tronco spaccato. ...Rivedo ancora la sua corteccia, ne sento il profumo, un colore bian-co che sfumava fino al nero....Mi dovetti arrampicare e mi scorticai pure un braccio, ma non sentiinemmeno dolore: ce l’avevo fatta!...Poi per mesi sono salita sulla collina più volte al giorno per giocareanche solamente pochi attimi con quei nuovi oggetti, addirittura anchesolo per guardarli....Fino a quando arrivò l’estate, con un caldo torrido....Quel pomeriggio i miei genitori riposavano all’ombra di un gelso dacui potevo gustare frutti bianchi e neri.

Anche se squisiti non li colsi e nemmeno mi accostai a quell’albero,ne approfittai invece per correre ancora in cima al colle....Me ne stavo seduta in terra, attorniata dai miei giochi quando all’im-provviso iniziò a grandinare....Chicchi enormi, tuoni dal rumore spaventoso....Senza avere tempo per riporre i barattoli....Corsi verso casa con le mani in testa e mi accorsi che un ruscellod’acqua scura mi accompagnava durante la discesa. ...Era sempre più ingrossato, trascinava con sé foglie, ramoscelli, pic-cole pietre, terra....Giunsi a casa completamente bagnata, gli abiti appiccicati addosso. ...Mentre salivo a fatica le scale vidi uno dei miei barattoli che, trasci-nato dalla corrente, finiva la sua corsa nell’acquitrino del nostro orto.

Non riuscivo a ripescarlo e nei giorni successivi osservavo le gallinebere là dentro, giocare con quell’acqua. ...Le odiavo, quel gioco era solo mio. Tutto mio. Un regalo inaspettato....Perché solo una volta avevo avuto un vero regalo, acquistato dai mieigenitori alla fiera. ...Un enorme sacrificio per loro, per fare una sorpresa alla più piccoladi sette figli. ...Un palloncino rosso che ha vissuto pochi minuti tra le mie mani ed èvolato via subito. ...L’ho contemplato fino a che era diventato invisibile, l’ho aspettatogiorni interi senza vederlo più scendere.

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...Ho sperato che tornasse da me insieme alla pioggia, ma inutile, lagioia di quel piccolo dono era durata ben poco. ...Pagata con il dolore di averlo visto andarsene....Ad Agosto mio padre ripuliva la pozza nell’orto....Io a pochi metri di distanza, mentre con ansia aspettavo di riprende-re il mio tesoro....All’improvviso uno scoppio, un boato tremendo, pezzi di ferro chemi cadevano anche in testa....Mio padre a terra, esanime, fango mischiato a carne ferita, sangueovunque....Io immobile, pietrificata.

Nel momento in cui lo sentii chiedermi aiuto con un filo di voce scap-pai terrorizzata a piedi nudi....La terra arida e screpolata, dura e tagliente, un sole cocente e la dispe-razione.

Correvo senza meta, fuggivo verso il niente....Mi trovarono a tre chilometri di distanza dei cacciatori che, oltre ariportarmi a casa, portarono mio padre in ospedale....Poi anche mia madre, già fragile, con troppi figli e troppe difficoltà. ...Morì pochi anni dopo, era il 12 giugno 1948....Mi prendevo carico delle faccende domestiche, tra cui la legna per lagrande stufa di terracotta rossa, l’acqua da riportare con i secchi dalfosso. ...E poi di nuovo al fosso per lavare i panni, con le mani per ore a bagnonell’acqua gelida....Diverso era il tempo della mietitura, una gran festa sotto al sole....Il grano raccolto nei campi e poi la trebbiatura nell’aia, tra tanta pol-vere che rendeva l’aria irrespirabile. ...Là in mezzo quasi mi tuffavo a servire acqua e vino a quei lavorato-ri dalle bocche riarse che mi accoglievano con un sorriso, per me lagran gioia di essere utile....Ed altre incombenze, come pascolare le pecore e scartocciare il gra-noturco. ...Ripulita dalle foglie intorno, rimaneva una bellissima pannocchiagialla. ...Molti chicchi di mais erano destinati alle galline, ma altri ne mangia-vamo noi, dopo che la spiga veniva lessata o arrostita.

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...Allo stesso tempo continuavo ad andare a scuola, cinque chilometri apiedi tutti i giorni. ...Strada percorsa con le scarpe in mano, non potevo rovinarle e le cal-zavo solamente all’arrivo in paese....Ruscelli da attraversare saltellando su pietre, il ghiaccio insidiosodell’inverno. ..Se mi bagnavo un piede avevo freddo fino al ritorno, fino al caldo delfocolare domestico.

Che mi proteggeva anche dalle bacchettate nelle mani che prendevodurante le lezioni. ...Io porgevo il palmo, la maestra voleva il dorso e mi diceva “Gira que-ste mani”. ...Come anche Don Giuseppe....Divenivo sempre più gracile e mio padre pur di farmi studiare pensòdi farmi entrare in un collegio di suore. ...Ma non era più facile così la mia vita....Tutte le mattine alle 6,30 la Santa Messa, la domenica ben tre, canta-te....Mangiavo un pezzetto di pane lasciato dalla sera ed intinto nel lattein polvere. ...E subito con il coro, avevo una voce tra le più belle....Una domenica d’estate è come fosse ieri, oggi.

Tutte le compagne intorno, il caldo, la fame, l’odore della cera, il can-tare, il profumo dei fiori, l’incenso, la Chiesa piena di fedeli. ...Mi reggevo a fatica, sentivo mancarmi le forze e anziché stare inginocchio in posizione eretta, cercavo di appoggiarmi nella panca die-tro me....Subito Suor Vincenza mi riprendeva, io ubbidivo intimorita. ...Svenni e mi trovai nel piazzale fuori, tra donne che mi schiaffeggia-vano ed un forte odore di aceto. ...Anche dalle suore venivo punita, in ginocchio sopra ai ceci che, dinascosto, rosicchiavo crudi e sporchi dalla gran fame che avevo....Quando se ne accorsero li sostituirono con dei sassolini, così appun-titi che quasi si conficcavano nella carne....Mia sorella maggiore si accorse del mio deperimento fisico, del miomorale a terra e con l’aiuto di un medico riuscì a portarmi via da lì...

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...Un torrente di acqua torbida alternato ad acqua cristallina, il tempoche scorre trasportando la mia vita. ...“Bimbi, la storia è finita...”...Ho appena terminato di leggere il racconto di Biancaneve, persa trale righe di un libro che non mi era stato mai letto, tra fiabe che non misono state mai raccontate, tra storie che hanno lasciato un segno sotti-le e tagliente....Adesso state guardando le previsioni del tempo....Nei vostri occhi le nuvole ed il sole, nei miei una bacchetta che spes-so oscura ogni cosa. ...Vi ho promesso una pizza, di quelle con la mozzarella filante....Ma questa sera, tra le mie mani, il barattolo dei pomodori trema....Si è riaperta una ferita, è lo squarcio di ciò che resta del passato. ...È la lacerazione delle bombe a mano che non guarisce, il gioco cheavevo amato di più....Che richiama tutti gli altri ricordi, è da tempo che sono grande, maadesso sono tornata piccola anch’io....Le vostre scarpette si confondono con le mie, un unico paio cheindossavo da troppo larghe a troppo strette.....I vostri vestitini sono appesi con il mio, quello della domenica edelle feste. ...I vostri stampini da riempire con il pongo sono insieme alle mie cio-tole di latta e terra. ...I vostri cartoni animati sparsi tra le mie sere ravvivate dal bagliore diuna candela…...Un camino acceso...le provviste di cibo di cui un anno avevamo fattoa meno e mio padre che non aveva avuto parole per sgridarmi, che nonaveva saputo spiegarmi cos’era la guerra, che non aveva voluto dirmidei pericoli intorno....Il vostro sorriso, le mani che sollevano formaggio gustoso, la gioia diessere nonna.“Questa sera non facciamo i capricci per mangiare, è buonissima que-sta pizza! Ma nonna perché piangi?”.

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CAREZZE D’AGLIO

di Luciana BaruzziRavenna

La mia era una famiglia benestante. E numerosa: c’erano nonnoGianita, sua sorella Teresiona, nonna Giannina, nove zii, i miei genito-ri, quattro miei fratelli e tanti cugini che non era facile contare.Zia Pia, viaggiava su una Topolino amaranto, rara negli anni cinquan-ta, che parcheggiava in un garage comunicante col pollaio, vicino allalegnaia. Un posto da topi che, rubate le granaglie alle galline, si anni-davano nella catasta di fascine e di qui, attraverso la capote bucata,s’infilavano dentro. Noì bambini, per paura dei topi, ci rifiutavamo disalire nella Topolino, perché, appena dentro, li sentivamo arrampicarsisu per le gambe. I cuscini dell’auto avevano grosse molle e i topini,rodendo l’imbottitura, entravano e passeggiavano in galleria. Noi, allo-ra, allargavamo i buchi per far uscire gli intrusi che, ribelli, si rifugia-vano in difesa nel motore. La festa finale alla Topolino, già disfatta daitopolini, la fece zia Billa che aveva preso a guidarla e sbatteva in tuttii muri.Noi preferivamo andare in calesse, una vettura rustica con due ruotac-ce dai cerchioni in ferro, che cigolavano. Dai momento che indossava-mo pantaloni corti anche d’inverno, i genitori ci coprivano con unacoperta verde militare che pizzicava sulle gambe, ma non scaldava nes-suno perché ce la tiravamo di qua e di là. Era meglio, comunque, stareal freddo in calesse che essere assaliti dalla banda dei topolini.Incuranti della modernità di zia Pia, gli uomini continuavano a spostar-si in calesse, ma soprattutto a cavallo. A far eccezione fu zio Nino checomprò una Gilera 500 Saturno, il primo motore comparso a casa mia,al Cantone. Un giorno, mentre girava su questa grossa cilindrata nel-l’aia, anziché togliere il gas, lo diede e finì dentro un pagliaio.Accorsero in aiuto i contadini che, per estrarre lo zio assieme allaGilera, dovettero affettare il pagliaio con le tagliole. Lui non si fecequasi niente, ma non volle più saperne di motori e di macchine. I mieifamiliari continuarono, così, a usare il cavallo per varie necessità e perraggiungere, su strade impervie, le nostre tenute. Paolo, mio futuropadre, per andarvi era solito fare il viaggio assieme al cugino Tonino,

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che aveva proprietà confinanti. Passavano per strada, affiancati, su

cavalli scelti, in tenuta da cavallerizzi, con un bel portamento.Facevano un figurone. Erano i più bei giovani del paese, tanto cheRosina, una ragazza mora dagli occhi scuri si fermava, incantata, aguardarli. E, uno sguardo dopo l’altro, s’innamorò di Paolo.Capofamiglia era nonno Gianita. Alto più di due metri, con due baffo-ni neri da far paura, intimidiva tutti i contadini e, a volte, li rimprove-rava in modo cosi severo e minaccioso che questi correvano da nonnaGiannina a informarla. Con un pretesto, allora, lei si recava, subito, làe lo accompagnava a casa, colmandolo di affettuosità. I rapporti coicontadini ritornavano, così, normali. Molti si ricordano ancora la famo-sa, forte, arrabbiatura che il nonno, fanatico per la caccia, prese un gior-no. Era partito a piedi da casa col bel tempo, ma, arrivato al capannosulla collina, trovò un forte scirocco che impediva agli uccelli di fermar-si. Innervosito al massimo per l’inutile fatica fatta, prese il fucile e«Toh!» disse. Poi «pani, pam, pam» cominciò a sparare in aria, al vento,urlandogli parole di infamia.Alla morte del nonno, prese il comando della famiglia sua sorellaTeresiona. Alta come il nonno, i capelli corti, pareva un omaccio.Aveva baffi vistosi e una voce maschile, tanto che, quando cantava aMessa, faceva rimbombare tutta la chiesa. Era una zitellona e ancheuna gran tirchia, cosicché nonna Giannina, quando faceva il pane, eracostretta a cuocere le pagnotte per i poveri, all’insaputa della cognatache non voleva dare niente a nessuno.La nostra casa aveva due custodi: Biribessa e sua moglie Angiolinache, non avendo figli, vivevano quasi sempre con noi. Lui era anche ilcocchiere. Era alto, magro, baffuto. Lei, la domestica, piccola e tantograssa che faceva fatica a passare dalle porte. Biribessa, accompagna-va a fiere e mercati gli uomini di casa e, quando tutti avevano bevutoin allegria, al ritorno era il cavallo a comandare il calesse e a riportar-lo a destinazione.«M’aracmand, Biribessa, portine ona bela forma» gli disse Angiolina,un giorno, sapendo che andava alla fiera a Palazzuolo, dove vendeva-no formaggi pecorini speciali. Lui l’accontentò e posò la forma, benavvolta nelle foglie di noce, nel calesse. Lo zio, Michele, inosservato,in vena di scherzare, sostituì al formaggio una forma in ferro da calzo-laio, ben accartocciata nelle foglie.

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«Ecco Angiolina la tua forma» disse Biribessa alla moglie.«Te la do io, adesso, la forma!» rispose lei, dopo averla liberata dallefoglie. E la tirò dietro al marito, sfondando la propria porta di casa.Uno dei nostri contadini, Bepino, si fermava spesso a casa nostra pergiocare a carte. E giocando, fumava la pipa. Nonna Giannina, amantedegli scherzi, come molti in famiglia, una sera, prese di nascosto la suapipa di terracotta, poi, con una scusa si allontanò. Tolto un po’ di tabac-co, vi mise un bel pizzico di polvere da sparo, usata per preparare lecartucce da caccia. Era una polvere rossa, detta l’Americana, pocopotente e lenta nello scoppio, ma scelta perché meno cara. La nonna,dopo averla ben stesa, la ricopri di tabacco e, quando Bepino accese lapipa, la polvere esplose e “pim, pum, pam”, gli bruciò baffi e capelli.`Stavolta, padrona ve la faccio pagare’ disse, fra sé, Bepino. La cappa del focolare in cucina era molto grande e nonna Giannina erasolita starci sotto, seduta nello scarand, un seggiolone di paglia moltoalto, sotto al quale metteva uno scaldino per tenere calde le gambe.Bepino, pian piano, senza farsi vedere, mise in mezzo alle braci roven-ti dello scaldino sette-otto marroni, che “piripin piripon, piripin, piri-pon”, cominciarono a scoppiare in aria, come fosse in prima linea. Ebruciacchiarono le gambe della nonna. Oltre al gusto degli scherzi, incasa mia, prevaleva la passione per i cavalli e per la caccia, trasmessada generazioni, di padre in figlio. A casa, noi bambini cavalcavamo dasoli, alla presenza di babbo che ci insegnava: «Fate così, fate così». Luici portava anche con sé, sul suo cavallo, quando andava dai contadini.Un giorno comprò Furia, una cavalla nera, purosangue, di grande brio,ma imprevedibile. Oltre a babbo, la cavalcavo solo io, perché nonavevo paura di niente. Neanche del diavolo. Un giorno, nei pressi di unfilare, lei parti di scatto. Mi accorsi, subito, del pericolo, mi chinai conprontezza e passai sono il filo di ferro che collegava le viti. Per un pelonon mi tagliai il collo. Un’altra volta, mentre tornavamo a casa, Furia, vedendo la porta aper-ta della stalla, s’infilò dentro di corsa. Con prontezza mi aggrappaiall’asta di ferro della lunetta e la lasciai entrare da sola. Con Furia hofatto voli indescrivibili e se non mi sono ammazzato con lei, non muoiopiù. La passione per i cavalli, al Cantone, si accompagnava a quella perla caccia. Quando i familiari andavano al mercato, noi bambini prende-

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vamo i loro fucili, che sapevamo già usare e, in quattro e quattr’otto,mettevamo fuori le gabbie dei richiami, improvvisavamo un capannocon qualche ramo, poi, sparavamo agli uccellini che, in tanti, si posa-vano sugli alberi. Come un turbine, facevamo, poi, sparire tutto primadel ritorno dal mercato.Nessuno, allora, metteva in dubbio l’importanza della caccia. C’eranomaestri che erano i più esperti cacciatori dei paese. Anche iI mio mae-stro, Vittorio, era un cacciatore accanito. Appena mi vedeva al mattino,mi chiedeva quanti uccelli avevamo preso il giorno prima e, quando sirendeva conto che non avevo studiato la lezione, con un misto di rim-provero, comprensione e rassegnazione, diceva: «Sei stato a capannoieri. Eh!».La passione per la caccia aveva coinvolto anche reverendi, come mon-signor Poggi che possedeva una propria tesa, attrezzata di reti per cat-turare gli uccelli. Aveva anche un operaio, Tullio, che portava con sé ipropri richiami e stava tutto il giorno nel capanno. 11 canonico arriva-va a cavallo, poi, si sedeva a leggere il breviario, mentre Tullio spara-va dalla bocchetta.Ai cacciatori che si vantavano di aver ucciso fagiani, don Giovanni diSan Ruffillo faceva notare che lui, i fagiani, invece, li allevava nel cor-tile della canonica. Esotici, appariscenti, con lunghe code dai riflessicangianti, dorati, metallici. Non mancava di elogiare anche la squisitez-za della loro carne, specie se cotta allo spiedo dalla perpetua Virginia.Don Giovanni ci teneva, inoltre, a offrire ai cacciatori di passaggio ilsuo vino speciale: «Virginia, per favore, ci porti da bere!».«Adesso vengo, signor curato»«Virginia ci porta da bere? Si o no?»«Non abbia paura. Arrivo, subito, reverendo».Virginia arrivava, zoppicando, a forza ed dei. Era piccola e robustatanto da superare il quintale. Arrivava, ma non portava il vino specialerichiesto da don Giovanni. Da tirchia com’era, ne serviva uno più sca-dente. Comandava lei, non il reverendo.Don Luca era appassionato di fringuelli per i quali preparava uova sodee petto di pollo, pestati regolarmente con la mezzaluna, e d’inverno, perproteggerli dal freddo, teneva le gabbie in camera. Per lasciare liberi icacciatori di domenica, celebrava la Messa il sabato. Altri sacerdoti,

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invece, la dicevano molto presto nei giorni festivi e consentivano aicacciatori di entrare col fucile scarico in spalla. Anche babbo andava aquesta Messa, per recarsi, dopo, nella nostra tesa della Canovaccia.Situata vicino a un piccolo valico, sulla cresta di una collina, la tesalasciava godere una bella vista sul torrione di monte Battaglia, sullavallata del Santerno e sull’Appennino. Seminascosto, dietro a treboschetti, c’era il grande capanno, composto di due stanze e una tor-retta, attrezzata con leve per abbassare le reti e catturare gli uccelli. Efu proprio in questo capanno che Paolo portò Rosina durante quelloche avrebbe dovuto essere il viaggio di nozze. Dopo un breve soggior-no a Roma, col pretesto che gli avevano fatto mangiare tante banane dastar male, disse che preferiva andare a Monte Battaglia in luna di miele.Rosina non si oppose. Il marito non era abituato ai viaggi. Amava i suoimonti. La caccia. Il suo mestiere. Lasciarono così Roma, per andareentrambi nella tesa della Canovaccia, dove, nel mese di ottobre, c’erail massimo passaggio degli uccelli.Stare nel capanno era piacevole. Lassù non mancavano mai una dami-giana di sangiovese e una di albana. Apprezzate da tutti, ma da alcunipiù degli altri. Una mattina, quando il babbo arrivò nella tesa, s’accor-se che la porta del capanno era aperta. Il suo pensiero fu per i richiami:Senz’altro, li hanno rubati. Accidenti. Avrei dovuto portarli via tutti’.Ma le cose non stavano così. I richiami erano proprio lì, in gabbia. Il ladro non aveva toccato nien-te, tranne le damigiane. Scomparse entrambe.A differenza del ladro, i cacciatori, apprezzavano il vino della tesa,gustandolo con calma sul posto. A un amico del babbo, piacque tantoche, nel tornare a casa sul suo Galletto, un motore Guzzi 175, non presela prima curva, tirò dritto e finì dentro un fosso.«Stavolta il Galletto è diventato una gallina» disse il babbo, in vena discherzare.«Smetti di parlare! Cavami, piuttosto, da sotto questo motore» rispose,arrabbiato, l’amico.Fu necessario ricorrere ai buoi del contadino per tirare su il Galletto. E, infine, fu sollevato il cacciatore.Oltre alle damigiane, nel capanno, c’erano sempre, attaccati al soffittoun prosciutto e una resta di cipolle, che mangiavamo, al mattino presto,

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con la polenta. A mezzogiorno pranzavamo, invece, con gli uccellini,cotti nello spiedo a casa. Il momento più divertente della giornata era,però, nel pomeriggio, quando gli adulti si appisolavano, perché alloranoi bambini usavamo, di nascosto, i loro fucili. Erano fucilini Berettada capanno, di piccolo calibro.Un giorno ci mettiamo a tirare ai sassi. Facciamo a turno a lanciarli e aspararvi sopra con cartuccine. Quando tocca a me, miro troppo basso eimpanino la vespa di mio cugino Alberto, appoggiata lì vicino. «Comefacciamo adesso a dirlo a mio babbo?» chiede lui, preoccupato.«Ah! É semplice. Non glielo diciamo!».«E poi?»«La sporchiamo tutta, in modo che non si vedano i buchi dei pallini».E così la passiamo liscia.Nella tesa non mancavano, mai, gli amici di famiglia, che arrivavano apiedi a casa nostra, poi facevano il resto del viaggio con babbo. Cen’era uno, Luigi, col cappello sempre in testa e la doppietta che tocca-va terra, tanto era piccolo. Compariva all’alba e, lasciato nell’ingressoil tascapane, andava a scaldarsi vicino al fuoco della cucina, accesogiorno e notte. Curiosando, avevamo scoperto che questo tascapane,all’interno, aveva una retina per riporre la selvaggina uccisa. E fu pro-prio questa rete a ispirarci uno scherzo.Di sera portammo in casa, dal capannone, un crine da fieno, poi, ten-tammo dí catturare il nostro gatto che, con un balzo si diede alla fuganella stalla dei cavalli dove, disorientandoci, saltava da un mucchio difieno all’altro. Riuscimmo, infine, ad acchiapparlo e a metterlo sotto ilcrine, già pronto per il mattino. All’alba, mentre uno dei miei fratelliteneva aperto il tascapane, in due cercammo di infilare, a tutti i costi,dentro la retina il malcapitato che si rifiutava, graffiandoci e miagolan-do, come fosse condannato a morte. Messolo dentro, infine, chiudem-mo il tascapane e, via, tornammo tutti a letto. Li, al buio, il gatto stavafermo, ma, quando Luigi lo apri, il recluso, ridotta in pezzi la rete,balzò fuori, con un salto improvviso, quasi da cavargli gli occhi. Fumamma a mettere fine alla burla con un rovescio di scapaccioni.La mia vita trascorreva spensierata quando, già in agguato, c’era lascuola, pronta a guastarmi divertimenti e allegria. Raggiunta l’età pre-vista, mi rifiutai di frequentarla.

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«Voglio andare a caccia» dicevo, disperato, con insistenza, a babbo,sperando nel suo appoggio. Non, certo, quello di mamma, contraria dasempre alla caccia, per i figli. Scappavo. Piangevo con stizza. Ne face-vo di tutti i colori. Non volevo sentir parlare di scuola. Dovetti, in ognimodo, arrendermi. La scuola non mi piaceva. Non ero capace di starfermo. Non sopportavo di stare, là, chiuso.Una mattina di primavera m’incamminai a piedi, di malavoglia, con lacartella in mano. Mamma, già in allarme, perché durante la colazioneavevo mostrato segni d’insofferenza, mi segui per strada a distanza,senza farsi vedere. Arrivato all’imbocco della strada provinciale, inve-ce di dirigermi verso la scuola, presi la direzione, opposta. Non l’aves-si mai fatto. Mamma, che era alta, magra, agile, m’insegui, mi raggiun-se e me le diede di santa ragione.Altre volte, invece di andare a scuola, andavo a capanno, sgattaiolandoal mattino presto, prima che i genitori si alzassero. A scuola, quando ci andavo, ero tremendo. Non avevo voglia di farniente. Il mio voto più alto, nelle materie, era quattro e, nell’interapagella, quello in condotta.«Andate a Pagnano» ordinò, un giorno, a noi cinque figli, mammaRosina, arrabbiata per il nostro profitto scolastico e risoluta, da farpaura.Ci fece accompagnare dalla domestica in canonica, dove vivevano donEnrico e sua sorella Luisa, maestra in pensione, per un aiuto nei com-piti a casa. Don Enrico, un sacerdote molto alto che, col passare deglianni, si era curvato tanto da toccare quasi col naso per terra, era temu-to dai parrocchiani per il suo caratteraccio. Luisa, alta e magra come ilfratello, era, invece, una donna dolce. Noi non eravamo parenti, ma cicomportavamo come se lo fossimo.Ogni pomeriggio, giunti in canonica, entravamo in un salone che eradominato da un pappagallo dalle penne color verde sgargiante, legatocon una lunga catenina a un alto trespolo, vicino al focolare. E, proprioin questo salone, facevamo i compiti su un’enorme tavola, in compa-gnia della maestra Luisa, che ce le dava tutte vinte, e del volatile cheripeteva, spesso, con voce rauca: «Vat a ca’ tova» «Vat a ca’ tova». Noi,allora, di nascosto, scuotevamo il trespolo e lui, con sguardo torvo,faceva dei gran versacci: «Aaaahhh», «Aaaahhh».

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«Che cosa fate, bambini?» chiedeva con un filo di voce, accorrendo, lamaestra che, di tanto in tanto, si allontanava.Non avevamo nessuna certezza su chi avesse insegnato al pappagallo,a dire agli ospiti, con sgarbo, di tornarsene a casa. Ma, solo, fortisospetti sui reverendo. Prima di andarcene, però, ci sfogavamo, tirandoall’uccellaccio palle di carta che lo facevano diventare sempre più osti-le. Fuori noi, il pappagallo ritornava libero e svolacchiava su una portasempre aperta della sala. A un certo momento, però, si ammalò, morìe fu imbalsamato, tanto bene da sembrare vivo. Fini, così, questa nostrastoria col pappagallo, ma non furono senza conseguenze le sue provo-cazioni. In pagella avemmo voti disastrosi, scritti con inchiostro rossofuoco.Un giorno, per sfogarmi di un torto fattomi dalla maestra, con un ela-stico prendo di mira le sue gambe, incrociate sotto la cattedra. «Zig» fala pallina di carta pressata e, al suo arrivo, lei si mette a strillare comeuna sirena. Chiama, poi, mia mamma che, ascoltate le lamentele, neapprofitta per criticare le punizioni della maestra. Ma la storia non fini-sce lì. A casa, mamma si sfoga, su di me, col nerbino, un frustino fattocon nervi di bue, che iniziano con un certo spessore e si assottiglianosempre più. Mamma non scherza. È proprio severa. Non pensa mica“Poverino, poverino”. Me le dà e basta.Mentre noi fratelli non facciamo altro che giocare e scherzare, mammae la domestica Angiolina, di tanto in tanto, devono fare il bucato con lacenere, un lavoro lungo e pesante. Noi sappiamo, però, trasformarlo inuna nuova occasione per divertirci.Al ritorno dal fiume, dove mamma e Angiolina hanno risciacquato ipanni, mentre loro ci precedono, reggendo la grande catinella, uno dinoi, adagio adagio, solleva la gonna della domestica e, con una mollet-ta di legno da bucato, gliela attacca alla cintura del grembiale. La sor-presa sconvolgente è che lei non porta i mutandoni lunghi fino allecaviglie, come si usa. Non porta proprio niente. E noi, a ridere da mori-re. L’inventore dello scherzo, però, smette presto di ridere, perché sibusca un’abbondante dose di scappellotti. Mamma, che non ho maivisto così arrabbiata, arrivata a casa, per sfogarsi, corre a raccontarel’accaduto a nonna Giannina che, da gran burlona com’era, invece discandalizzarsi, scoppia a ridere come una matta.

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Se mamma, in aggiunta ai lavori di casa, è impegnata nel far fronteall’esuberanza di noi figli, babbo è chiamato, spesso, per interventi daveterinario. E, a volte, c’è bisogno del suo aiuto anche al Cantone.Abbiamo un cane, bianco e nero, Bric, nato da Diana, una nostracagnolina bianca, e da Mussolini, un cagnaccio del vicino, nero carbo-ne. Il nome affibbiato a questo cane incuriosisce e fa ridere molti, per-ché il suo padrone va per i boschi e lo chiama, urlando: «Mussolé, veri

a que!».

«Chi ciamle, lu là?» dice la gente che lo sente, senza capire chi sia quelmatto che chiama Mussolini, là nel bosco.Un giorno, Bric, figlio di questo Mussolini, si getta su una lepre, men-tre un cacciatore spara, e resta impallinato, ma babbo, che è un veteri-nario nato, lo salverà, tenendolo desto col caffè per tutta notte edestraendogli tantissimi pallini dal corpo. Bric riprende, poi, a cacciarele lepri, ma ha imparato bene la lezione: una volta stanatane una, restaimmobile finché non ha sentito lo sparo.Tralasciando la passione per la caccia, un altro aspetto che distinguevala nostra famiglia era la religiosità.La devozione segnava tutta la nostra giornata. Prima di sederci a tavo-la, in piedi, ci facevamo il segno di croce. Prima di cena, poi, mentrenoi bambini dicevamo una certa quantità di preghiere, gli adulti dove-vano recitare un intero rosario. Ogni sera del mese di maggio, inoltre,davanti al pilastrino della Madonna di casa nostra, avveniva la granderecita del rosario a cui partecipava tantissima gente che si disponeva finsulla strada. Fra i contadini c’era Nunzieda che si sedeva sempre sulmargine di un fosso, ma, per stanchezza, si addormentava durante larecita delle litanie. Le vicine, appena se ne accorgevano, la svegliava-no. Lei, di soprassalto, allora, mentre noi tutti ripetevamo «Ora pronobis», diceva «Un os, un os, un os», poi si riaddormentava. E noi bam-bini a ridere da morire.Un giorno, mio cugino Franco e io nascondiamo, nel campo dí granovicino, due secchi d’acqua. Quando sentiamo Nunzieda dire «Un os, un

os, un os», ciascuno di noi prende un secchio e «broom» glielo rove-scia addosso. La bagniamo, così, dalla testa ai piedi. Ma quante botteprendiamo! Per sentirle di meno, ci rifugiamo ìn camera sotto le coper-te. E mamma dietro. Arrivano tante botte davvero.

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Certe sere, dopo cena, la badante ci mandava subito in camera. Unavolta a letto, passava nonna Giannina a sfregarci uno spicchio di aglioin faccia e sul petto. La sentivamo arrivare al buio, pregando. Era tal-mente religiosa che girava sempre con la corona in mano. Sentendo ilbisbiglio delle sue preghiere, il rumore dei suoi passi e della coronache, passando, sbatteva nelle porte, fingevamo subito di dormire.Nessuno sapeva perché lei ci strofinasse l’aglio. Capivamo però che la nonna lo faceva con amore e, per lei, era comeun’affettuosa carezza. Divenuti più grandi, ci divertivamo ancora comefossimo bambini. Spesso, la sera, quando il babbo ci conduceva inpaese, giocavamo a tuta e andavamo a nasconderci anche lontano dalcentro. Una sera, ero di guardia, vicino alla torre dell’orologio, in unpunto da cui si vede un arco e una stradina che congiunge due vie.Quella sera, nella penombra, non lontano dall’arco, mi parve di vederedue miei amici. Partii di corsa e ne toccai uno di gran spinta.«Stavolta a tò ciapè» urlai.«A te deg mé: a tò ciapè» rispose lui e mi arrivò un pugno nel naso chemi buttò d’innaz indrè. Che fatto pugno! Finii steso per terra col san-gue al naso. Quelli non erano i miei amici, ma due innamorati che siscambiavano tenerezze. Li riconobbi, poi, nonostante fossi là in terra.Lei, era una delle ragazze più belle del paese, tanto che fu scelta, inseguito, per sfilare sul carro allegorico del Cantone, Rumagna, tiratodai nostri buoi, tutti addobbati a festa. Sul carro c’era una grande con-chiglia che, davanti alla giuria, si aprì e comparve questa ragazza che,nel fiore degli anni e della sua bellezza, indossava, un incantevole abitodi velo rosso, lungo fino ai piedi. Tutti rimasero senza parole.Affascinati. Erano bei tempi, quelli. Ma volavano. Purtroppo.La tuta e gl’innamorati, i topi nella Topolino amaranto, lo struscio del-l’aglio, la Vespa impallinata, il gatto in rete e il Galletto nel fosso,Nunzieda con la molletta da bucato e le secchiate d’acqua, i marroninello scaldino e la polvere da sparo nella pipa, mi strappano, ancoraoggi, tante risate e mi riportano alla spensieratezza dell’infanzia. Unaspensieratezza che negli anni si é affievolita sempre più. Per scompa-rire.

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di Marco CucchiPerugia

L’ho fatto ancora. L’ho fatto di nuovo.L’acqua bollente mi scivola sulla pelle. Sui capelli, sulle spalle, sulpetto, sulla schiena, sulle braccia, sulle natiche, sulle gambe. Lenta e purificatrice. La schiuma è tanta che mi copre i piedi sul piat-to-doccia quadrato. La cabina piccola e il vapore mi tolgono il respiro,mi aumentano il battito cardiaco ma continuo a sfregare con forza, a fri-zionare con la spugna. Il sapone negli occhi mi punge come piccolescariche elettriche, ma lo sopportano il dolore; anzi ogni volta che,dopo, mi faccio la doccia, non aspetto altro che questo momento, nonaspetto altro che mi vada il sapone negli occhi, in modo che mi svegli,che mi desti. Molti assassini si lavano dopo aver commesso il delitto. Il sapone è scomparso dal mio corpo ma continuo a far cadere l’acquasul viso che odora ancora di lei, della sua saliva, del suo sudore, deisuoi umori. Mi annuso la punta delle dita delle mani e ancora violentoil profumo di lei, mi stordisce e vorrei tornare sul letto e averla dinuovo sotto di me che geme, con i capelli lunghi appiccicati al viso chegli finiscono in bocca. Un brivido lungo la schiena mi ricorda che non posso toccarla ancora,che non posso nemmeno riguardarla negli occhi.Chiudo l’acqua e, gocciolante, esco dalla doccia; non mi asciugo, nonvoglio usare la sua biancheria da bagno. Rimango a fissarmi sul gran-de specchio attaccato al muro. Il mio fisico è ancora integro, eppure hola sensazione che si stia per rompere, per cadere a pezzi. Forse è solola stanchezza dovuta al sesso. Il senso di colpa che stressa i mieimuscoli. L’ansia è presente e cerco di fare dei profondi respiri con ilpetto che si gonfia. Appoggio l’orecchio alla porta per sentire se lei èancora sveglia. Spero si sia addormentata. Dio quanto è tardi. Non sento rumori o fruscii di lenzuola. È ancora sul letto e probabil-mente si è addormentata; in fondo sono in bagno da più di mezz’ora.Apro la porta lentamente e mi dirigo con velocità in camera dove lei è

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stesa in un piacevole dormiveglia ed è bellissima in questa posizioneche mi ricorda quella che assume sempre la donna che mi sta aspettan-do a casa, la donna che promette ogni giorno di amarmi sempre di più,che promette di non lasciarmi mai.Resto immobile, sto bagnando il pavimento. Mi appoggio alla parete difronte al letto e sento in bocca il sapore del whisky che ho bevutoprima, che adesso mi disgusta. Ne ho bevuto troppo e mi accorgo chela testa mi fa male. La luce dei lampioni che entra dalla finestra mi dafastidio. Ce n’è proprio uno davanti al vetro che si deve essere appenaacceso, perché prima, non l’avevo notato.Raccolgo i vestiti sparsi sul pavimento e me li infilo lentamente perchénon voglio che lei si svegli. Voglio sparire senza che mi saluti o che michieda di rivederla perché non voglio rivederla e voglio dimenticarequesto appartamento, queste lenzuola, voglio dimenticare il suo indi-rizzo e spero che l’alcool faccia il suo dovere in questo senso. I vestitisi sono bagnati, s’attaccano alla pelle e avverto il freddo pur essendouna delle estati più calde che io ricordi. Mentre sono in fuga, mi giroun’ultima volta a guardarla e mi accorgo che ha aperto gli occhi e mista fissando. Non dice niente ma il suo sguardo è cristallino: non miricordo neppure il suo nome mentre lei ricorda il mio; sa che non midovrà neppure salutare il giorno che casualmente mi incontrerà perstrada. Mi difendo con l’arroganza. Le sorrido.Esco in strada e devo sforzarmi di ricordare dove ho messo la macchi-na. Comincio a camminare e la cerco tra il caos dei parcheggi selvaggianche a quest’ora di notte. Ma non la trovo e improvvisamente miricordo che sono venuto con lei, che mi ha trascinato nella sua auto eportato qui. Inizio a camminare velocemente perché il tempo è mionemico in questo momento. Devo cominciare a pensare alla scusa chedovrò raccontare. Nuova, l’ennesima. Incrocio un uomo che mi guardaaccigliato. Forse ha notato i miei capelli fradici. Ha due grandi soprac-ciglia che sembra intendino dire che ha capito da dove vengo e dovevado. Io non avverto nemmeno l’acqua che mi entra nel colletto dellacamicia. Prendo il pacchetto di sigarette in tasca e me ne accendo unache viene subito bagnata da una goccia d’acqua che scende dalla miatesta. Dio quanto è buono il fumo, quanto mi conquista ogni volta che

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lo assaporo e in momenti come questi non vorrei smettere di fumaremai; una dietro l’altra fino a che la mia gola, completamente secca, nonchieda perdono e un bicchiere di latte.È mezzanotte e un quarto e non è così tardi come la fretta di andar viada quella casa mi aveva fatto credere. Rallento l’andatura e inizio una sorta di passeggiata che vuole rilassar-mi; ogni quattro passi una boccata di fumo. Pian piano sento gli indumenti asciugarsi e icapelli che svolazzano leggermente alla brezza notturna estiva. Lei è stata grande a letto... Lei è stata grande a letto... .Non riesco a levarmi dalla mente l’immagine dei suoi capelli che mipassano sul petto, fradici, il sudore mescolato, la sua mano che cerca lamia sempre, anche durante l’orgasmo, forse anche quando ero sullasoglia della porta per andarmene. La mia mano tiene la sigaretta pereffetto di gravità, penso, perché non ha più la forza di stringere nientee nessuno; non pronta alle minime funzioni prensili. Non voglio piùtoccare nessuno in quel modo, non voglio più sfiorare la pelle con ledita. Mi sfrego il viso con i palmi per cercare di capire se ho ancora ilsenso del tatto e la sigaretta mi cade sull’asfalto caldo, puzzolente enauseabondo. Ne accendo subito un’altra e ecco di nuovo l’amico chemi abbraccia e mi conforta e mi sostiene e mi dice che non c’è più nes-sun problema perché tanto c’è lui che mi protegge e mi proteggerà daqualsiasi pericolo incombi su di me. Sorrido per la gioia di sapere chec’è qualcuno che mi toglierà da queste situazioni difficili, che mi vie-terà di ricaderci ancora. Mi analizzerà, mi scruterà la mente e manterrài miei segreti, chiuderà il mio corpo ad ogni avanzare della tentazionee sospenderà i miei sensi fino a che la mattina dopo mi alzerò e ladisgustosa oppressione nei miei polmoni sarà il sigillo che non dovròrompere mai. Continuerò a fumare finchè avrò vita, finchè il mio corposarà chiuso.Sono ancora lontano dalla mia auto e forse è meglio che io faccia unatelefonata per avvertire che sto tornando a casa. Il cellulare spento ènella tasca dei pantaloni. Lo accendo e non c’è nessuna chiamata.Compongo il numero e lei risponde col tono di chi stava dormendo esorride. Non si preoccupa né dell’ora tarda, né del fatto che io stia pas-seggiando da solo per strada. Mi aspetta a letto e chiude lei la telefona-

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ta. Sono fermo sul marciapiede di fronte ad un negozio di fiori dovesull’insegna c’è il numero di telefono per consegne urgenti. Magariadesso lo chiamo e le mando un mazzo di margherite perché lei è inna-morata di me e si merita margherite; si merita lo staccare di ogni peta-lo per giocare al m’ama o non m’ama e il giardino della sua casa nata-le di cui va tanto fiera. I fiori nella vetrina sono esposti impeccabilmen-te e li vorrei comprare tutti. Riflessa sul vetro appare improvvisamen-te una donna che cammina sull’altro lato della strada ed è bionda. Mi giro per osservarla meglio e cerco di non avere la postura delmaniaco. Anche lei si gira a guardarmi e si ferma. Sull’altro lato. Sulmarciapiede. Passano i secondi e nessuno dei due fa il minimo movi-mento fisico; il fumo della mia sigaretta è l’unica essenza terrena cheha movimento in questa strada dove non passano auto o dove non sisente nemmeno un televisore acceso. Poi lei attraversa la strada senzaguardare né a destra né a sinistra. Si avvicina e mi chiede una sigaretta. Gliela do senza pronunciareverbo e gliela accendo, pure. Mi aspetto che se ne vada e invece restadavanti a me a gustarsi il sacro tabacco attenta a non mandarmi il fumoin faccia e il suo rossetto rosso acceso macchia il filtro. La fuma lenta-mente che mi sembrano secoli quelli che stanno passando invece chesecondi. Rimaniamo immobili; io la guardo soddisfatto di aver fattoconoscere il mio migliore amico ad una perfetta sconosciuta che si èsentita subito a proprio agio con lui. Poi la sigaretta finisce e butta il mozzicone per terra e lo faccio anch’iodato che la mia mi brucia le dita, tanto è consumata. La donna chiede se voglio un po’ di compagnia e credo che la mia fierainterdizione sia sfacciata perché lei fa una smorfia imprecisa. Ha lavoce roca di chi fuma da sempre e di chi conosce benissimo il miomigliore amico. Un po’ di compagnia in un locale qui vicino dove pre-parano ottimi long drinks, ci facciamo due chiacchiere e poi decidi tuse vuoi continuare la serata da un’altra parte, io comunque ho unavoglia matta di bere, come se non lo facessi da anni. Il mio silenzio laspazientisce un po’, è evidente, e compie una giravolta verso la direzio-ne che percorreva poc’anzi. Mi guarda un’ultima volta e poi si rincam-mina, più velocemente di prima. Io comincio a seguirla a due o tremetri da lei. Sente i miei passi dietro ma non si volta. Mi guida e accen-

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do un’altra sigaretta. Questo è un altro momento importante della miavita, uno di quelli dove mi spingo oltre il possibile, oltre il mio corpochiuso. Arriviamo dopo pochi minuti ad un piccolo bar dove entrandolei viene salutata da un barman giovane che evidentemente conoscebene dato il gesto poco più che accennato e confidenziale. Si siede albancone ed è la prima volta che vedo una donna seduta al bancone. Misiedo accanto a lei e guardo le sue mani che tirano fuori il pacchetto disigarette dalla borsa, la prova del suo adescamento e che ne accendonouna come se fossimo in cima ad una scogliera colpita dal vento.Le chiedo se è una prostituta ed è quasi insolente farlo dato che è l’u-nica spiegazione possibile ad un approccio simile. Non risponde e ordi-na un qualche cocktail che non conosco per tutti e due. Bevo questamisteriosa pozione blu che mi è stata servita e subito riavverto l’alcoolche si mescola col fumo nella mia bocca che vuole una sigaretta, un’al-tra. Lei me la offre senza che gliela chieda e finalmente mi sorride perla prima volta. Non è bellissima, non corrisponde al genere di donna acui di norma mi rivolgo e non mi attrae particolarmente. Il mio corpochiuso la sta respingendo. Alza il bicchiere come per fare un brindisicon me, alla mia salute, ma io non raccolgo e finisco il mio in un solosorso. La sigaretta la tengo in mano spenta. Noto che la camicetta leg-gera nasconde due spalle molto larghe e due braccia decisamentemuscolose per una donna. Con le dita nuovamente energiche, le sfiorola spalla. Mi dice, senza che le chieda niente, che pratica la boxe per-ché col lavoro che fa non si sa mai. Gli uomini sono delle bestie quan-do si parla di sesso o soldi e non sanno contenersi, tanto più quando sitrovano a trattare con una puttana bionda. Che ci vuoi fare, bisognaadattarsi se si fanno delle scelte ben precise. Poi, se vuoi avere una pro-spettiva più ampia, puoi pensare che il mio fisico formato può servireanche a proteggerli, a ripararli da loro stessi. Credo che il vero lavorodi noi donne sia proprio questo, preservare gli uomini dalle loro pauree garantire loro la stabilità.Le parole le escono di getto e così sicure che non posso fare a meno diadorare questa donna che tanti chiamerebbero disgraziata ma che a meda il senso della chiarezza e della rettitudine, anche se poi non trovo unvero filo logico nel suo discorso. Pare abituata a pronunciarla spessotanto è l’automaticità con cui ha formulato la frase.

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Non importa. In questo momento le voglio far credere di aver capito.Mi sento partecipe della sua intera esistenza e di nuovo quella sensa-zione si fa avanti, il mio corpo lentamente si riapre, il brivido che sentoogni volta che l’attrazione fisica rompe ogni schema di bellezza e diamore. Mi porto fisicamente più vicino a lei avvicinando il mio sgabel-lo al suo e le appoggio la mano sulla gamba tonica ma lei non reagisce. La accarezzo e butto la sigaretta che non ho mai acceso. Non mi va più... . È meglio se te ne vai...non hai bisogno di adattarti ame in questa maniera....non sono come le altre... .Una sequenza di parole connesse l’una all’altra in una melodia cheannichilisce il momento che avevo deciso di intraprendere e non miguarda nemmeno mentre le pronuncia. Ordina un altro bicchiere di nonso cosa e sposta il suo sgabello lontano da me, dalla mia mano e dalmio alito sul collo. Poi cambia idea poiché disdice la sua ordinazione,paga le nostre consumazioni, si alza e se ne va in uno scatto felino.Credo che la mia bocca si sia aperta e sia rimasta tale per diverso tempoperché il barman mi guarda con un mezzo ghigno. Lentamente mi alzo e l’equilibrio è un po’ precario ma raggiungo l’u-scita dando un ultimo sguardo ai personaggi all’interno di questo pic-colo posto e vedo solo due coppie, sedute allo stesso tavolo, che stan-no conversando normalmente interrotte da qualche sporadica risata. Niente di più normale, niente di più consueto.Riprendo la strada verso l’auto con l’ultima sigaretta del pacchetto inmano, spenta, con la certezza che non berrò mai più alcool in vita miae col mio corpo ancora più serrato di prima, impaurito.Di lei non c’è più traccia; neanche la cerco per la strada. Si è allontanata il più possibile da me e dalla mia immodestia.È tardi e devo tornare a casa. Non si accorgerà dell’ora, quando mi infilerò sotto le lenzuola perchéla sveglia accanto al letto non funziona, non porta orologio da polso ele potrò inventare qualsiasi ora della notte. Non voglio fare l’amore. Non voglio nemmeno che me lo chieda. Leilo dovrà accettare senza che le dia una ragione plausibile. Dormiròabbracciato a lei per tutta la notte e anche per tutto il giorno che verrà,ma, per adesso, non aprirò di nuovo il mio corpo perché non credo cheriuscirei a concederlo di nuovo.Io sono un uomo.

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Finalisti Poesia

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Non dirmi

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NON DIRMI

di Lenio VallatiFirenze

Non dirmi che la tela si scoloramentre nel vento corrono le foglie.Se c’è un riflesso bianco tra i capellisarà il sole che gioca a nascondinotra le chiome del cielo, se le mani mostrano solchi assetaticome campi d’agosto e vene scuresarà il rinnovarsi della nuova stagioneche chiede altra linfa.

E non voglio sentire questa sera parole d’abbandonomentre ti accarezzo dolcemente il visoe ti guardo negli occhi.

Se una nube scura li attraversasaranno stormi di liberi pensieridiretti in volo verso l’imbrunire,se una lacrima compare sulla sogliadel tuo volto ancora di bambinasarà una perla caduta questa seradal forziere dorato delle stellea rischiararci la strada del domani.

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Alzheimer

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ALZHEIMER

di Armando BettozziRoma

Come tela di ragnoavvolge lentamentee inesorabile prememeschina, per la resadell’indifesa vittima e tutto annullae toglie anche il decoro.

E la mente ricopredi impalpabile nebbiache addensa pian piano e ne fa muroe quello che v’è inciso lo cancella.

E avida scava intorno una trinceaper la lunga prigioniache sfianca e svuota e rende, inconsapevole,pronto il corpo – ormai dimenticato –ad impietosa e solitaria agonia.

Nel tuo deserto senza orizzonti,senza ormai storia,va alla deriva senza un’emozionequel tuo bel navigar, senza più approdo.

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Dialogo versione dialettale

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DIALOGO

di Nello CicutiPerugia

(versione dialettale)

E tu chi sé? Dice n vecchio camino ta n’antenna che jonno miss a fianco.Io sò l progresso e tu nun saprò manco quanto fò divertì grand e cinino.

Sò la modernità, l divertimento, porto notizie e la gent ascolta, adesso nunn’è più come na volta che sentivono sol a fischià I vento.

L camino j’arispose: Car’antennatu parli ma nn’aseolti ta la gente, parli soltanto e nun senti niente stè mpalata e l vento te tentenna.

Io nvece ntol silenzio de la serasento che vengon su dal focolare parol a volte dolci a volt amare secondo de comè l’atmosfera.

A volte sento anche che I più vecchio arconta belle fiabe ai nipotinie qualca volta du fidanzatinise dicono te amo ta l’orecchio.

Alora tu nun sé na meravijama sé n pezzo de ferro senza core,io nvece mandando l mi caloretengo vicina tutta la famija.

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Dialogo versione italiana

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DIALOGO

di Nello CicutiPerugia

(versione italiana)

E tu chi sei? Dice un vecchio caminoad un'antenna che le hanno messo a fianco.Io sono il progresso e tu non sai neanche quanto fo divertir grande e piccino.

Son la modernità, il divertimento, porto notizie e la gente ascolta, adesso non è più come una volta che sentivano solo fischiare il vento.

Il camino rispose: Cara antenna tu parli ma non ascolti la gente, parli soltanto e non senti niente, stai li fissa e il vento ti dondola.

Io invece, nel silenzio della sera sento venir su dal focolareparole a volte dolci, a volte amare secondo di come è l’atmosfera.

A volte sento il più vecchio raccontar fiabe ai nipotinie altre volte due fidanzatini si dicono ti amo sull’orecchio.

Allora tu non sei una meravigliama un pezzo di ferro senza cuore,io invece con il mio caloretengo vicina tutta la famiglia.

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In casa

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IN CASA

di Cinzia CorneliCorciano (Pg)

Cosa vuoi che ti dica adesso.

Ora che non c’è più motivoper piangereche non ha più sensocorrere per avertiin una strada senza direzionedove so che non t’incontrerò mainé dirti di un tempo che avanzapressando la vita.

Tutto è come primail cancello dipinto di verdei panni stiratila casa riassettataanche se la brocca non è più lìperché così ho deciso.

E altre cose non troveresti al loro postoche un tempo fissavano il tuo sguardosolo ieri ancora mio.

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Appuntamento

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APPUNTAMENTO

di Agnese VerdiBologna

Una foglia e una farfallas’inseguono.

Fogliadi declinante estatesvola.

Farfallacreatura d’amorel’accompagna.

L’una come la vitaal tramontol’altra come animatrasparedentro il fragile involucrodi una crisalide.

Idillio e Consunzionein un ultimo vortice.

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Il non viaggio

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IL NON VIAGGIO

di Ornella GuerriniPerugia

Per il non viaggio non serve prenotazione,si parte senza denaro perché i sogni non hanno prezzo,senza meta, senza bagagli, senza data,inutile affannarsi.

Si viaggia con gli occhi della menteper trovarsi rapiti su una spiaggia deserta di fronte ad un mare di un blù intenso,oppure ai piedi di una montagna con il suo cappello di nebbia o dinnanzi ad un paesaggio coperto da un manto nevoso o davanti ad un albero maestoso, che ha superato tante stagioni,ma i cui rami sono ancora braccia protettivedove trovare rifugio assieme all’elfo a cui svelare segreti.

Il non viaggio non cerca compagni d’avventura, non ne ha bisogno, né luoghi affollati o piazze di città tutte uguali nella mancanza d’amore.

Il non viaggio ha il sapore amaro del sale o di cibo e bevande scono-sciute, di sesso donato e subito dimenticato.

Il non viaggio ascolta silenzio o vento che soffia piano in mezzo ad una foresta tropicale accarezzandola, il canto triste di una allodola che chiama il suo compagno,sorvolando veloce la valle.Il non viaggio non ha foto perché il suo tempo non si conta.

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Nò èmme tredicianni

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NÓ ÉMME TREDICIANNI

Tosello SilvestriPerugia

(versione dialettale)

Nó c’ émme tredicianni, gimme a scòla;fu l primo amore e fu la prima fiamma!M’ arcordo com’adè de q’la fiòla,

che se chiamava come la mi mamma.

Gni sera ntól fa bujo la cercavo; in via dell’Acquedotto, de vedetta, da sopra i parapetto io guardavosi fosse scesa già ntla piazzetta.

Tal su balcone i davo na sbirciata e c’ évo na gran fifa, sò sincero, ché si i su babo 1’ésse richiamata, toccava daje retta, era severo!

No sguardo ci abastava, c’era intesa; nó ce ncontramme sempre ntón ella via, dietro la siepe a fianco de la chiesa, giungevo io per primo e dopo lia.

Ntra l silenzio e la penombra dia sera, n abbraccio stretto, stretto e prolungato, lia mi diceva: “T’amo!”. Era sincera,j’ arispondevo: “Anch’io!”, ero beato.

De colpo la campana che sonava, diceva eh’ era l’ora de gi via;la voce dla su mamma, la chiamava, finiva n altra volta la magia.

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Noi avevamo tredici anni

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NOI AVEVAMO TREDICI ANNI

Tosello SilvestriPerugia

(versione italiana)

Noi avevamo tredici anni, andavamo a scuola;fu il primo amore e fu la prima fiamma!Mi ricordo come adesso di quella figliola edicianniche si chiamava come la mia mamma.

Ogni sera al tramonto la cercavo, in via dell’Acquedotto di vedetta da sopra il parapetto io guardavose fosse scesa già nella piazzetta.

Nel suo balcone davo una sbirciata e avevo una gran fifa, son sincero,perché se suo padre l’avesse richiamatatoccava dargli ascolto, era severo!

Uno sguardo ci bastava, c’era intesa ci incontravamo sempre in quella via dietro la siepe a fianco della chiesa, giungevo io per primo e dopo lei.

Tra il silenzio e la penombra della sera un abbraccio stretto stretto e prolungato, lei mi diceva: “T’amo”. Era sincera.Le rispondevo “Anch’io”, ero beato.

Di colpo la campana che suonava diceva che era l’ora di andare via; la voce di sua madre la chiamava, finiva un’altra volta la magia.

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Non c’è più scampo

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NON C’È PIÙ SCAMPO

di Giuseppina PalombiUmbertide (Pg)

Non c’è più scampoper le farfalledalle ali contaminatenon hanno più forza di volare:inermi soccombonofra gli artiglidel mostro di velluto.Piange la carne ferita,immolata ad altaridi piaceri perversi,ma questo tempociarlatanotroppo impegnatoa mercanteggiar successisu pulpiti dorati,ascolta e guardadal balcone della dignitàpoi, nascosto dietro al fumodelle sue promesse,noncurantecon la valigiapiena di séin fretta vaverso la nullità.

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L’orazzione

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L’ORAZZIONE

di Claudio FrancescagliaPerugia

(Versione dialettale)

‘L mi por babo,che’n famija je dicevno Checchinoper esse poco più de ‘n’ucellino, m’arcontava che quaan’era cininola su’ mamma‘l portava a San Lorenzo a la funzione quann’era l’ora dia divozzione.Lu’ ce giva senza fasse pregàch’i capitava d’radocon tutt’ qui fratelli che c’evach’la su’ mamma potesse coccola. «Per biventà bono come ‘n angiolino è da dì l’orazzion ta la Madonnache sta `ntl’altarino,me raccomandocosì smett’d’esse brichino».Lu’ zitto zitto faceva ‘l segno dla crocee s’arcomandava ‘n ginocchionecome i’eva ‘nsegnatoa fa’ la sera ‘ntol coltrone.Quan che le garognole erno amaccatecontro legno duro dla pancas’alzava `ncla faccia stancasaltava ‘n po’n qua ‘n po’ nlàa zoppagalina da na macchia a n’antra,ch’emo i disegni dle vetrate ‘n terra,s’avicinava ta la porta grandee, adio mamma!,armarrò brichinoma è ‘l mi diritto d’esse ‘n fiol cinino!

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L’orazione

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L’ORAZIONE

di Claudio FrancescagliaPerugia

(Versione italiana)

Il mio povero babbo,che in famiglia chiamavano Checchino perché era poco più di un uccellino,mi raccontava che quando era piccino la sua mammalo portava a San Lorenzo alla funzione quando era l’ora della devozione.

Lui ci andava senza farsi pregare perché gli capitava di radocon tutti quei fratelli che avevache sua madre lo potesse coccolare.

«Per diventare buono come un angiolino devi dire l’orazione alla Madonna.che sta sull’altarino,mi raccomandocosi smetti d’essere birichino».

Lui zitto zitto faceva il segno della crocee si raccomandava in ginocchiocome gli aveva insegnatoa fare la sera sulla coltre.

Quando le ginocchia erano ammaccatecontro il legno duro della pancasi alzava con la faccia stancasaltava un po’ qua un po’ làa zoppagallina* da una macchia all’altra,erano i disegni riflessi delle vetrate in terra,si avvicinava alla porta grande

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L’orazione

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e, addio mamma, rimarrò birichino ma è il mio diritto d’essere un bambino piccolo!

* zoppagallina: procedere saltando alternativamente su una gamba e sull’altra,come sembrano fare a volte le galline, quando si fermano con una zampaalzata.

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Limpide giornate estive

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LIMPIDE GIORNATE ESTIVE

di Catia RogariPerugia

Limpidegiornate estiveche mi parlate al cuorevestite di colori luminosibaciate la pellecon aliti caldie, m’avvolgequesta calda quieteportandomiai languidi ozigustati sdraiatisu rive assolatedi mari lontanidi baie complicialle nostre emozioninon più repressema espressein mille e mille bacie tenere carezze.O limpidegiornate estiveche mi parlate al cuore...

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