Autobiografia e Pensiero Narrativo

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    Francesco Dammacco, Alberto Pattono

     Autobiografiae pensiero narrativo

    L’empowerment del paziente diabetico

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    L’empowerment del paziente diabetico

    Autobiografiae pensiero narrativo

    Francesco Dammacco, Alberto Pattono

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    Roche Diagnostics S.p.A.

    Diabetes Care

    Editing: In Pagina - Milano

    Grafica: www.ideogramma.it

    Stampa: Global Print, Gorgonzola (MI)

    In copertina: disegno di Sergio Bellotto

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    INDICE

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    Premessa

    Introduzione come invitoL’approccio narrativo in Diabetologia

    STIMOLI

    Pensiero logico e narrativoCome è fatta una storiaLa narrazione autobiografica 

    METODOLOGIE

    La conversazione autobiograficaRedigere una autobiografiaNarrative TherapyLa conversazione terapeutica

    APPLICAZIONI

    Il modello dell’empowermentLavorare sul raccontoL’autobiografia formativa di un diabetologoUn racconto autobiografico formativo

    Quasi una conclusione

    Bibliografia

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    PREMESSA

    Cosa è questo libro? Perché proporre alla Diabetologia italia-

    na una riflessione su temi quali la Psicologia narrativa o l’auto-biografia formativa? Rispondere alla seconda domanda è facile:i componenti dei Team diabetologici, sia dell’adulto sia pediatri-ci, hanno una consapevolezza particolare delle molteplici dimen-sioni che la patologia assume, riassume e in parte nasconde, san-no bene quale ruolo attribuire ai vissuti del paziente (e della suafamiglia) e hanno imparato a conoscere e gestire i continui riman-di fra il versante per così dire fisiologico e quello psicologico del-

    la condizione cronica.Ignorando o considerando residuali questi aspetti è difficile otte-nere quel livello di adesione del paziente alla terapia che passaattraverso un buon autocontrollo glicemico, pilastro insostituibiledella terapia del diabete.I Team diabetologici sono più esposti all’entusiasmo nei nume-rosi successi e allo scoraggiamento nei casi opposti. Dagli insuc-

    cessi la Diabetologia è spesso riuscita a trarre – collettivamente enell’esperienza del singolo – lo stimolo a una comprensione piùampia e profonda della relazione fra paziente e Team Medico. Ènata così l’Educazione Terapeutica: un approccio sul quale Ro-che Diagnostics ha creduto molto, creando occasioni di contat-to, di incontro e di studio. L’interesse che l’Educazione Terapeuti-ca ha riscosso, ora anche in ambito pediatrico, conferma la ferti-lità di questa direzione di ricerca. In molti sensi la riflessione sulla

    narrazione in generale e sulla autobiografia in particolare può es-sere considerata il naturale proseguimento dell’Educazione Tera-

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    peutica. È una riflessione svolta in anni piuttosto recenti fatta pro-pria da scuole psicologiche diverse. Riteniamo che la Diabetolo-gia italiana rappresenti un terreno particolarmente adatto a co-gliere questi stimoli. Soprattutto ora.Torniamo ora alla prima domanda. Cosa vuole essere questo li-bro? Non una metodologia bell’e pronta da mettere in atto ‘do-mani mattina’ nei Centri di Diabetologia pediatrica o dell’adultoe nemmeno un elenco di ‘ricette’ complementari o alternative dautilizzare come tali nella prassi del dialogo che si instaura fra lapersona con il diabete e il Team.Più che un elenco di ricette questo libro è la descrizione di alcuni

    utensili di cucina, utensili che potrebbero risultare utili sia in Dia-betologia Pediatrica (nella gestione dell’ansia della famiglia e poidel paziente adolescente) sia nella Diabetologia internistica (nel-la gestione del paziente non compliant).Ritengo che Alberto Pattono, direttore editoriale di Modus e Pe-diatria e Diabete, sia riuscito a rendere in maniera chiara e arti-colata seppur per forza di cose sintetica, lo spazio teorico apertodalla riflessione sul pensiero narrativo e sull’autobiografia, sia le

    metodologie che da questa discendono.A Francesco Dammacco poliedrico e instancabile ricercatore distimoli e approcci va il duplice merito di aver dato origine al no-stro interesse verso questi temi e di aver approfondito, le possi-bili modalità di utilizzo dell’autobiografia formativa in un conte-sto diabetologico.Ciò è quanto ‘sta dietro’ a questo libro. E oltre? Oltre occorre –ne siamo ben coscienti – un’opera di riflessione e di messa a pun-to che solo la Diabetologia italiana può compiere, metabolizzan-do e facendo suoi – se lo ritiene – questi input. Occorre un dialo-go, una riflessione comune. La disponibilità di Roche Diagnosticsa organizzarne le forme è massima, anche se queste sono anco-ra da valutare e dipenderanno dall’ascolto che tali suggerimen-ti avranno.

    Massimo Balestri Roche Diabetes Care

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    Ora mi trovo a scrivere questa introduzione.Che in realtà, come tutte le introduzioni, è lo sguardo che sirivolge all’indietro quando si sosta, in un momento di incer-tezza e indecisione, su una soglia prima di varcarla verso unnuovo cammino.In effetti mi rendo conto di essere giunto alla fine di un per-corso e dal punto di osservazione e di sosta che personal-mente ora ho raggiunto mi accingo a scrivere parole d’invitoper altri a percorrere lo stesso sentiero di conoscenza e con-

    sapevolezza.Fuor di metafora, questa introduzione è la riflessione conclu-siva di una personale esplorazione pedagogica prima di pro-porla ad altri con la lettura delle pagine di questo libro.E se, come immagino per un Medico diabetologo, l’imme-diato impulso indotto dalla sola visione del titolo può esserequello di non leggere non solo il libro ma neppure la suaintroduzione, quest’ultima, allora, vorrebbe essere letta per

    invitare, invece, a un istante di ripensamento.La domanda cui quest’invito deve dare una preliminare rispo-sta è se valga la pena al lettore di seguirlo.La mia risposta personale è sì, perché le parole e i racconti diquesto libro richiedono di essere sottoposti a verifica per unaloro conferma o abbandono.Questo libro pone l’attenzione su quanto il senso e l’espe-

    rienza comune da sempre insegnano e dicono sull’operaredelle persone.Non è forse credibile che le nostre azioni, i nostri comporta-menti possano riflettere le nostre convinzioni, le nostre pre-

    INTRODUZIONE COME INVITO

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    messe, insomma tutto l’insieme di significati con i quali abi-tualmente attribuiamo un senso al nostro mondo e alla nostravita? A usare un linguaggio più colto, ma per significare la

    stessa cosa, diremmo che ciascuno di noi si è formata unateoria soggettiva della conoscenza che supporta e motiva ilnostro agire.E non è altrettanto credibile che il complesso di conoscenzedi ciascuno di noi si sia costituito, e continuamente si rimo-delli, nel corso delle esperienze soggettive di vita? È comedire che la teoria soggettiva di conoscenza viene elaborata inparallelo con lo sviluppo del Sé personale.E risalendo indietro, quest’ultimo può essere consideratocome un sistema, a molte dimensioni e anche multiplo, dirappresentazioni e di significati che si è venuto formando nelprocesso continuo di interazione dell’individuo con il sistemadi significati del contesto culturale. Il Sé personale, quell’”Io”che mi affascina considerare come multiplo, come tanti “io”da riscoprire e tesorizzare, è la risultante di un processo socia-

    le di costruzione durante l’intero ciclo vitale.Se ridiscendiamo il sentiero in senso inverso, constatiamo cheil Sé personale e la teoria soggettiva di conoscenza hannouna storia di formazione comune e che entrambi, poi, influen-zano l’idea che ci costruiamo della nostra attività e di conse-guenza dello stesso nostro agire professionale (Sé professio-nale). E tutto sempre e di nuovo reciprocamente.Ma perché queste considerazioni su quanto il senso comune

    ci dice, riscritte, poi, con parole più forbite? Che importanzapossono avere per noi, per la nostra professione e a cosa edove ci invitano?A me hanno dato un ulteriore “insight” formativo, un invito a“guardare dentro” per vedere finalmente ciò che prima ilsemplice guardare non mi consentiva di notare.E cioè che, detto in modo diretto, nella mia attività profes-sionale in ambito diabetologico, come terapeuta e comeeducatore all’autogestione, devo ri/conoscere di essere gui-dato dalla mia visione di terapeuta e di educatore. E che que-st’ultima si è formata nel corso della mia vita professionale in

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    parallelo con lo sviluppo del mio Sé personale. Noi agiamocome siamo e siamo come agiamo.E dove può condurci questo ulteriore “insight”? A una scelta.

    Non proprio come quella del Poeta nel mezzo del camminodella vita, e neppure come la necessità dell’eroe mitico chedeve attraversare il luogo oscuro e inesplorato, o discendereagli Inferi o superare la prova decisiva per annullare il suo pas-sato e se stesso prima di ri/sorgere o ri/nascere rigenerato.Non certo con la stessa valenza universale, ma con il medesi-mo significato, anche per l’individuo è già indicato il percor-so da intraprendere per un cambiamento significativo: quellodi un viaggio nel luogo inesplorato di se stessi, scendere nelpassato della propria vita, ritrovare i molti “Io” che si puòessere stati, per una riconciliazione e una programmazionedel futuro della propria vita.E non è questo esplorare che si fa ogni volta che si vuolecambiare o intraprendere una nuova attività se non addirittu-ra una nuova fase della vita?

    Che poi non è uno scoprire nuovi paesaggi, ma un guardarecon occhi diversi gli stessi luoghi.L’educatore, quindi, nel suo processo di formazione dovrebbeincludere anche, se non addirittura preliminarmente, un atten-to percorso di conoscenza di se stesso.Ma seguendo quali segnali e in quale dimensione?Restando nell’ambito della propria esperienza di vita e raccon-tandola a se stesso (e agli altri) con l’autobiografia formativa. A

    questo invita la moderna pedagogia della formazione.Per acquisire maggiore consapevolezza delle proprie capacitàe possibilità privilegiato è il metodo dell’esplorazione autobio-grafica: e nello scrivere la propria esperienza di vita non solo siconfermano le vie imboccate, che ci hanno condotto alle no-stre attuali conoscenze e convinzioni, ma anche, e si dovrebbedire soprattutto, si possono ri/scoprire i tanti sentieri non per-corsi, a indicare forse capacità e possibilità non esplorate.Il raccontare e, meglio, scrivere la propria autobiografia è, inrealtà, un ri/scrivere la propria vita, un ri/conoscerla per ilfatto di trovare nuove parole e quindi nuovi significati.

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    Questo, in estrema sintesi, consentono di fare il pensiero nar-rativo, la narrazione, il racconto, che l’uomo utilizza per attri-buire significati e quindi un senso alla propria vita e al mondo

    in cui vive.Ma ritorniamo alla domanda iniziale per non disperderci inquesti affascinanti territori del pensiero con i loro seducentirichiami culturali.A che possono servire l’autobiografia formativa e il pensieronarrativo e le loro applicazioni nella formazione del terapeu-ta diabetologo o addirittura al paziente con diabete? A que-sto punto, però, bisogna, almeno, noi diabetologi, esserecoerenti, se prima non lo si era stati.La parola imperante in questa fase della Diabetologia é:Educazione Terapeutica.Tutti si fanno il dovere di proclamarla. E quindi di ammettereche il diabetologo, o chi in generale è coinvolto nella clinicadel diabete, oltre che il terapeuta in senso stretto deve averecapacità educative. Il che significa semplicemente che il dia-

    betologo deve formarsi anche una vocazione e capacità edu-cativa specifica per educare il suo paziente diabetico all’au-togestione.Nell’Educazione Terapeutica, l’interazione terapeutica consisteessenzialmente in un’educazione all’autogestione. Non solofornire conoscenze specifiche, non solo usare strategie com-portamentali per migliorare la compliance, ma soprattutto unintervento integrato che consenta al paziente di fare scelte

    informate per l’autogestione della sua condizione.Ma tutto questo è possibile nell’ambito di una visione del trat-tamento del diabete che considera il paziente partner parita-rio, come l’empowerment.Non solo il diabetico deve essere educato all’autogestione, maanche il diabetologo non può esimersi da una formazionepedagogica personale per essere in grado di educare il diabe-tico all’autogestione. Il diabetologo deve condividere in que-sto caso la teoria educativa dell’empowerment, con la qualedeve confrontare la propria teoria soggettiva dell’educazione,che si è formato nel corso della sua attività professionale.

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    La coerenza professionale dovrebbe richiedere al terapeutauna consapevolezza della propria filosofia educativa e diquanto questa influenzi la sua pratica professionale. Per poi

    verificarne l’efficacia nella educazione del suo paziente dia-betico all’autogestione.Questa introduzione, già troppo lunga, vuole essere quindil’invito a scrivere una autobiografia formativa per una miglio-re conoscenza di se stessi e della propria teoria professiona-le, per una condivisione dell’empowerment come strategiaper realizzare l’Educazione Terapeutica nel diabete.La lettura del libro può guidare a percorrere questo sentieroformativo.

    Francesco Dammacco

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    Mille anni sono stati più che sufficienti. Dalla Scuola salernita-

    na alla fine dello scorso secolo la medicina ‘occidentalemoderna’ ha raffinato sempre più il suo paradigma: combat-tere le patologie acute costruendo e individuando modellioggettivi sempre più dettagliati dell’organismo e della pato-logia.Cartesio nel primo Seicento non fece che razionalizzare espiegare quanto la scienza stava già facendo: cercare dietroogni soggettività una oggettività; dietro ogni organismo un

    ‘meccanismo’. A questa cesura radicale dobbiamo lo straor-dinario sviluppo di quelle che oggi si chiamano ‘scienze dellavita’ e delle relative tecnologie.Alla fine dei suoi mille anni di storia la medicina ‘moderna eoccidentale’ ha il pieno controllo della porzione di realtà chesi era assegnata. Gran parte delle patologie acute – oggettoe modello della medicina occidentale e moderna – sonodebellate o curabili, soprattutto nei Paesi avanzati.Proprio per questo il nuovo millennio si apre con la sfida dellapatologie croniche anzi delle ‘condizioni’ croniche.A questo punto è chiaro che i paradigmi sono da rivedere. Idiabetologi sono stati i primi a sentire disagio, a capire chenon solo quanto avevano imparato all’Università ma i presup-posti stessi della scienza medica si stavano rivelando insuffi-cienti o, per meglio dire, inappropriati.

    Quando parliamo di patologie croniche, di condizioni, unapproccio cartesiano e meccanicistico serve a poco. Lo stes-so pensiero logico razionale non ha voce in capitolo quandola terapia consiste nel modificare le abitudini dei pazienti.

    L’APPROCCIO NARRATIVOIN DIABETOLOGIA

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    Ancora una volta la Diabetologia si trova all’avanguardia.Prima disciplina a prevedere l’autocontrollo e quindi l’empo-werment del paziente (oggi applicato con successo nella te-

    rapia di altre condizioni).Prima disciplina a interrogarsi su cosa accade nel vissuto delpaziente, a ritenere che il compito del Medico inizi (inveceche termini) con la prescrizione. Prima ad accorgersi dell’im-portanza di impadronirsi di nuove conoscenze, nuovi approc-ci – il counseling; l’ascolto attivo, il coaching, la gestione dellamotivazione – la Diabetologia è oggi in grado di fare un ulte-riore passo avanti.Esiste però il rischio di un equivoco: non si tratta di acquisire‘anche’ qualche conoscenza di psicologia; né genericamentedi ‘tenersi aggiornati’ e fare shopping di metodologie.Il Medico oggi è davanti a una scelta chiara fra quello che inè definito ‘pensiero razionale’ e ‘pensiero narrativo’.Si tratta di due approcci paralleli, non antitetici ma profonda-mente diversi. Il pensiero razionale in medicina è all’apice

    della sua parabola; ma curare una condizione cronica utiliz-zando il pensiero ‘logico-razionale’ è difficile. Le personequando devono pensare a se stesse adottano l’approccionarrativo. Noi siamo la nostra storia e se vogliamo cambiarenon dobbiamo modificare quello che sappiamo ma quelloche diciamo o che viene detto di noi stessi.Curare, essere di aiuto a una persona che vive una condizio-ne cronica significa anche aiutarla a modificare dei racconti,

    quelle narrazioni che governano i significati da lei attribuiti ase stesso, al cibo, al corpo, alla malattia…Questa è la sfida di oggi. Una sfida che la Diabetologia hasaputo raccogliere partorendo dal proprio cervello, comeAtena da Giove, l‘Educazione Terapeutica. Parallelamente lapsicologia, che anche essa era caduta nelle secche del razio-nalismo, ha approfondito – aiutandosi con l’antropologia, lafilosofia e lo studio dell’apprendimento linguistico – una seriedi approcci ‘narrativi’ o ‘culturali’.Questo è il momento di compiere un salto di paradigma.Siamo in quei momenti così ben mostrati da Kuhn in cui la

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    scienza – scoperti i limiti dei paradigmi da cui è partita – simuove in una apparente terra di nessuno prima di scoprire ilnuovo paradigma che rende conto di tutti questi limiti e di

    quanto si è fatto per superarli.Non si tratta quindi di aggiungere una competenza in più odi affrontare l’ennesima metodologia ma di capire che quelloche la Diabetologia sta cercando e in molti casi sta raggiun-gendo avviene già adesso all’interno di un contesto ‘narrati-vo’. Cosa è l’Educazione Terapeutica se non un tentativo di‘curare’ agendo sui vissuti prima ancora che sui parametriematologici del paziente?Quando il diabetologo – avendo delegato la gestione delleglicemie al paziente – si accorge di essere divenuto un gesto-re delle motivazioni, cosa sta facendo se non ‘curare i signifi-cati’? Questa che ai diabetologi (e ai pazienti) oggi apparecome ‘terra incognita’ è invece il solido terreno sulla quale lapsicologia culturale ha lavorato negli ultimi vent’anni, trac-ciando teorie e modelli, stabilendo legami nuovi e dando vita

    a metodologie solide.

    Il libro ha l’obiettivo di illustrare a grandi linee queste costru-zioni, nate al di fuori della Diabetologia e solo in parte appli-cate al suo interno e precisamente:

    • Elementi utili per una rivalutazione del ‘pensiero narrati-vo’ e della sua pari dignità con il pensiero causale-logico

    che caratterizza la scienza e il fare Medico.• Proposta di una riflessione portata avanti dalla psicologia

    costruttivista prima e poi dalla psicologia culturale sulruolo del linguaggio e della comprensione/costruzionedi storie non solo nella evoluzione psicologica dell’indi-viduo ma dell’intero essere sociale.

    • Cenni a esperienze e studi recenti sulla evoluzione della

    comprensione e costruzione di storie in età pediatrica.

    • Riflessioni sulle caratteristiche strutturali di quella partico-lare forma di narrazione che è l’autobiografia.

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    Alle sezioni del 2° capitolo, che intendono incentivare la ri-flessione proponendo in forma estremamente sintetica alcu-ni stimoli culturali provenienti dalla ricerca psicologica e filo-

    sofica, si accompagnano quattro proposte metodologichepiù o meno formalizzate come tali.La conversazione autobiografica. Utilizzando fonti diverse (discuola sociologica e psicologica) si sono delineate le condi-zioni di possibilità di un intervento nel quale un terzo invitauna persona a scrivere un racconto autobiografico.Redigere un’autobiografia. Sulla scorta soprattutto del lavo-ro di Duccio Demetrio si è accennato al vissuto della personache si appresta a redigere una autobiografia e sugli effettiformativi che questa attività può avere.La Narrative Therapy. Questo approccio psicoterapeutico ègià stato sperimentato con lo scopo di favorire una narrazio-ne alternativa dei termini del problema, aprendo la strada acomportamenti differenti.La conversazione terapeutica. Sulla base dello studio di

    Francesco Dammacco si è accennata una metodologia dicounseling tesa a intervenire sulla narrazione che il pazientefa di una condizione per lui problematica.Sarebbe arbitrario e riduttivo trovare fra queste metodologiequalcosa di più di un‘aria di famiglia, mentre il loro rapportocon le riflessioni proposte come introduzione è più diretto Altermine di ogni sezione sono indicate alcune letture consi-gliate, scelte fra i libri più accessibili (nel senso letterale e

    traslato). In bibliografia sono riportati comunque i testi di rife-rimento a livello scientifico. Alcune citazioni sono state ripor-tate con alcuni interventi di editing che non ne alterano ilsenso ma permettono di inserirle meglio nel contesto e ren-dono più agevole la lettura.L’ultima parte del libro riporta le riflessioni di FrancescoDammacco sulla autobiografia come esperienza formativa eun esempio di autobiografia formativa.

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    STIMOLI

    Pensiero logico e narrativo

    Come è fatta una storia

    La narrazione autobiografica

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    Ospedali, Università, Centri di ricerca, Aziende sono istituzio-

    ni che devono la loro stessa esistenza al pensiero logico/para-digmatico. Tutti noi però utilizziamo nella vita quotidiana unapproccio diverso: quello che sulla scorta dei lavori di JeromeBruner si è iniziato a chiamare ‘pensiero narrativo’.Il pensiero narrativo non è un pensiero ‘minore’ o ‘illogico’, néè una semplice modalità della comunicazione. Il pensiero nar-rativo è una forma di comprensione della realtà parallela aquella logica e di pari dignità. Di questo ci si rende conto

    ormai da tempo anche in ambito scientifico: “Gli sviluppimetodologici della ricerca e la riflessione epistemologica han-no reso in gran parte infondata e obsoleta [...] l’opposizione fraspiegazione storico clinica (narrativa) e spiegazione naturalisti-ca (causale)” (Battacchi, 1997). Basti pensare solo per fare unesempio a quanto scriveva Thomas Kuhn (1962) sul ruolo dellemetafore nello sviluppo delle concezioni scientifiche.Andrea Smorti (Smorti, 1994 p.92), docente di Psicologia

    dello sviluppo a Firenze, ha riassunto con un interessanteschema il confronto fra il pensiero logico (da lui definito‘paradigmatico’) e quello narrativo.

    PENSIERO PARADIGMATICO PENSIERO NARRATIVO

    Tipico del ragionamento scientifico Tipico del ragionamento quotidianoOrientamento verticale Orientamento orizzontaleLibero dal contesto Sensibile al contesto

    Nomotetico e paradigmatico Ideografico e sintagmatico Validato attraverso la falsificazione Validato in termini di coerenzaCostruisce leggi Costruisce storieEstensionale Intensionale

    PENSIERO LOGICO EPENSIERO NARRATIVO

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    Il pensiero paradigmatico è tipico del ragionamento scienti-fico e consiste nel mettere sempre in relazione un caso indi-viduale con categorie generali “secondo un processo verti-

    cale di subordinazione o di sovraordinazione” (Smorti, 1994,p. 92).Nella prassi di un Centro di Diabetologia, ad esempio, la con-dizione di una persona con la glicemia alta è ‘ascritta’ (cioèinserita nell’ambito più ampio) alla condizione più generale‘diabete’. Le particolarità di ‘quella’ persona sono residuali: ilfare scientifico procede per induzione, privilegia le comunanzee le somiglianze fra i vari fenomeni.Al contrario il pensiero narrativo approfondisce quanto avvie-ne in quella persona, in ‘quel diabete’.

    La verità nel pensiero narrativo

    Diversamente dalle costruzioni generate da procedure logi-

    che e scientifiche, che possono venire eliminate tramite falsi-ficazione, “le costruzioni narrative possono raggiungere solola ‘verosimiglianza’. I racconti sono dunque una versionedella realtà la cui accettabilità è governata dalla convenzionee dalla ‘necessità narrativa’, anziché dalla verifica empirica edalla correttezza logica” (Bruner, 1990, p. 17).Il pensiero narrativo però non è privo di falsificazioni. Comescrive Smorti (Smorti, 1994, p. 136): “Anche il pensiero narra-

    tivo ha le sue procedure di validazione: la storia deve persua-dere chi la costruisce e chi l’ascolta, ciò significa che deveapparire verosimigliante in due sensi”.Il ragionamento narrativo è insomma falsificato dall’inverosi-mile così come quello logico dalla contraddizione. “Non c'èla verità da scoprire, ma dei racconti di vita da valutare inbase a criteri formali o pragmatici (coerenza, semplicità, per-suasività, efficacia)” (Smorti, 1997).

    Il pensiero logico razionale è un costrutto culturale preciso:sia nello sviluppo formativo di una persona sia in quello di

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    una civiltà è possibile identificarne la nascita e lo sviluppo.Piaget ha scoperto con quali difficoltà il pensiero logico siaffermi nell’adolescente mentre gli storici sono concordi nel

    far risalire a dopo il Rinascimento il primato della razionalitànelle scienze.Al contrario, il pensiero narrativo appare connaturato sia aogni bambino sia a ogni cultura. Le prime spiegazioni delmondo sono narrative: i miti. Nella grecia classica, che forgiòle basi della razionalità occidentale, il mito era onorato comeforma di spiegazione del reale. La retorica latina classica con-sigliava di adottare anche nelle sedi ‘razionali’ del Foro o delSenato non solo la spiegazione logica, l’explanatio ma quel-la narrativa degli ‘exempla’.

    Un linguaggio che fa pensare

    Stiamo parlando quindi di un pensiero che è primordiale e

    fondativo, un pensiero che non utilizza il linguaggio ma‘nasce’ nel linguaggio. La riflessione sul ruolo costitutivo dellinguaggio è relativamente recente nella storia della cultura.Dewey nel 1958 fu il primo a ipotizzare che il linguaggio fosse“uno strumento per segmentare, ordinare, predicare intorno,categorizzare e così via che, quando applicato all’esperienza,apporta una maggiore coerenza cognitiva e potenza nell’or-ganizzazione di quella esperienza”.

    Una forma ‘forte’ di questo punto di vista (citiamo da Bruner,Lucariello, 1989) venne introdotta nel 1885 da von Humboldt,il quale diceva che “il linguaggio è costitutivo del pensiero,se non dell’esperienza stessa. Questo è come dire che laforma stessa del pensiero umano è imposta dalla natura dellinguaggio”.Fu lo psicologo russo Lev Vygostkij (1962) a definire i rappor-ti fra pensiero e linguaggio in una forma coerente con i datisperimentali. Secondo Vygostkij, linguaggio e pensiero sonodue ‘flussi’ separati. Il pensiero inizia come forma autonoma,ma effettua un salto di qualità quando e nella misura in cui

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    attraverso il linguaggio “si collega al magazzino della cono-scenza e delle procedure di una cultura”.In questo senso il linguaggio non è ‘puro mezzo’. Le parole

    che il bambino trova e ‘impara’ non sono neutre, ma già cari-che di connotazioni culturali, di significati assegnati dallacomunità nella quale il bambino (ma lo stesso vale per chi daadulto si inserisce in un contesto nuovo) si è inserito. In que-sto senso è corretto dire che quando noi usiamo il linguag-gio, questo e altri sistemi simbolici a loro volta “mediano ilpensiero e imprimono il proprio marchio sulle nostre rappre-sentazioni della realtà” (Bruner, 1990, p. 17).

    Il linguaggio per co-nascere al mondo

    Il costruttivismo di Vygostkij si è unito al post-strutturalismo diNelson Goodman (1978) e alla filosofia esistenzialista diMaurice Merleau Ponty, generando per opera soprattutto

    dello psicologo americano Jerome Bruner (1915) la scuoladella psicologia culturale.Secondo la psicologia culturale, attraverso il linguaggio especificatamente attraverso le storie, l’uomo non solo co-nosce (nel senso di gnosis, di conoscenza fattuale) il mondoma letteralmente co-nasce (il termine è di Merleau Ponty) almondo: si inserisce in un contesto che è composto da signi-ficati, si apre a una valorizzazione condivisa culturalmente

    dalla sua famiglia e poi via via da contesti sempre più ampi:società e culture. “Le storie”, ha scritto Bruner “sono lamoneta corrente di una cultura” (Bruner, 2002, p. 15).È attraverso le narrazioni che l’uomo nel suo sviluppo ottienele ‘informazioni’ più importanti per lui: i significati. È la narra-zione a generare valore, ad avvolgere ogni donazione disenso, ogni percezione. Filosofi ‘postmoderni’ come JacquesDerrida, Francois Lyotard o psicanalisti come Jacques Lacanhanno portato alle estreme conseguenze questi presuppostidefinendo gli individui come letteralmente ‘prodotti’ dallanarrazione e precisamente dal linguaggio. Riassume bene la

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    Crossley (Crossley, 2000, p. 26) dicendo che “un tema centra-le del postmodernismo è l'idea che la conoscenza non siadata dalla logica o dalla razionalità, ma dalle curve e dai

    movimenti del linguaggio. Per quanto noi ci si creda i padro-ni del linguaggio è più corretto dire che il linguaggio ‘si impa-dronisce di noi’.”La psicologia bruneriana è arrivata a questi esiti partendodalla rivolta allo sperimentalismo psicologico degli anni ’40 e’50 accusato di non saper render conto dei ‘significati’.Approfondendo il concetto di significato, Bruner colse comela sua costruzione “non è semplicemente il prodotto dell’at-tività cerebrale, qualcosa che il cervello ‘computa’ quandoviene fornito l’input adeguato ma piuttosto un’attività inter-pretativa socialmente condivisibile” (Olson, 1999).Da questo principio discendono due conseguenze. La primaè la centralità dei significati.Ciò che viene scambiato in una cultura – e ogni contestosociale ha una cultura: una Nazione, una Professione, un

    Ospedale, un Ambulatorio – è proprio la attribuzione di signi-ficato. Dietro ogni azione, conscia o inconscia, c’è sempre –magari sottaciuta – una narrazione che è la sola a spiegare il‘perché’, la ragione ultima che presiede a una istituzione (il talCentro di Diabetologia), a una azione (la terapia del Diabete),al fatto che una persona ne sia coinvolta.La seconda conseguenza è il primato del senso rispetto allatradizionale divisione posta da ogni psicologia classica: cioè

    la divisione fra ‘interno’ ed ‘esterno’ di un soggetto o fra unapersona e l’altra diventano permeabili. È una astrazione‘razionale’, cartesiana quella che vede da una parte un ‘Sé’pienamente compiuto, legislatore e re del suo mondo, e dal-l’altra un ‘contesto’ esterno più o meno importante.Questo Sé nasce e vive avvolto in una cultura, che attraversoil linguaggio propone ai singoli soggetti delle valorizzazioni elo fa tramite delle narrazioni cariche di significati, le storieappunto. Ovviamente ciascuno di noi ha spazi di azione ampinei confronti degli stimoli e delle attribuzioni di significatoche riceve. Ciascuno di noi produce e mette in circolo nuove

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    narrazioni. A questo punto diventa chiaro come “noi non‘scopriamo’ noi stessi nella narrazione ma piuttosto creiamonoi stessi nella narrativa” (Crossley, 2000, p. 27).

    Una versione particolarmente chiara e radicale di questa posi-zione è data da Mair (Mair, 1988). “Le storie sono abitazioni,noi viviamo dentro e attraverso le storie. Esse escogitanomondi. Noi non conosciamo il mondo altro che come unmondo di storie. Le storie danno forma alla vita, esse ci ten-gono uniti e ci tengono separati. Noi abitiamo le grandi storiedella nostra cultura. Noi viviamo attraverso le storie, noi siamovissuti dalle storie della nostra razza e del nostro territorio [Lestorie hanno una funzione] avvolgente e costituente”.Il termine ‘storie’ è volutamente utilizzato in maniera ambi-gua. Il discorso vale infatti sia per le narrazioni che ciascunodi noi produce su se stesso, sia per quelle socialmente con-divise da una famiglia (i ‘miti familiari’), su una istituzione (lefamose ‘mission aziendali’), o su uno Stato (gli Usa ‘guardia-no del mondo’, l’Italia, ‘grande proletaria’). In questo senso

    ‘storia’ è sovrapponibile al termine ‘ideologia’, ma ancheparte dell’attività formativa e informativa di una società con-siste nel produrre, mantenere vive, arricchire e adeguaredelle storie socialmente condivise. “Alcune istituzioni dellanostra società possono essere guardate come macchinari perprodurre una versione e definitiva e consensuale di una seriedi eventi” (Fasulo, Pontecorvo 1997).Eccoci quindi in un contesto assai differente da quello della

    classica psicologia. In un contesto nel quale le narrazioni nonsono più considerate “ricostruzioni a posteriori dell'esperien-za, ma forniscono il testo dell’esperienza. [...] Forniscono i for-mat e gli schemi dell’esperienza stessa” (Olson, 1999).Non è solo il pensiero primitivo ma anche quello scientificoa far uso del mitologema. Quando Kuhn sottolinea il ruolofondativo che le metafore possono avere nella scienza (leonde dell’acqua per spiegare quelle elettromagnetiche) nonammette un elemento narrativo all’interno della scienzastessa?Un docente e rettore di facoltà come Umberto Eco, semiolo-

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    go e massimo esperto dell’estetica medioevale, parlando delsuo libro Il Nome della Rosa affermò di aver voluto spiegarecon un romanzo concetti che sarebbe stato difficile, forse

    impossibile, illustrare utilizzando le categorie del pensierologico. La narrazione è la forma attraverso la quale far circo-lare un pensiero razionale diverso, ma almeno altrettanto vali-da degli schemi e delle regole scientifiche.

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    Letture consigliate

    Andrea Smorti 

    Il pensiero narrativo: Costruzionedi storie e sviluppo della conoscenzasociale.Giunti (Smorti 1994)

    Psicologo particolarmente attento ai

    contributi della filosofia e dell’antropolo-

    gia (vicino in questo alla sua maestra Ada

    Fonzi), Andrea Smorti è autore di alcune

    fra le poche ricerche sperimentali sulpensiero narrativo svolte in Italia. Il suo

    libro, non complesso e capace di poten-

    ti sintesi, oltre a essere centrato sulla questione del pensiero narra-

    tivo rappresenta un’ottima introduzione ai temi trattati in questo

    volume.

    Mario Groppo, Veronica Ornaghi, Ilaria

    Grazzani, Letizia Carrubba

    La psicologia culturale di Bruner:aspetti teorici ed empirici.Raffaello Cortina

    (Groppo et al 1999)

    Gli psicologi del Centro di ricerca per le

    tecnologie dell’istruzione della facoltà di

    Psicologia dell’Università Cattolica di

    Milano fondata da Mario Groppo posso-

    no essere considerati il principale nucleo

    italiano della psicologia culturale brune-

    riana. Questo recente libro, scritto in

    maniera chiara e scorrevole, fa il punto sugli aspetti innovativi della

    teoria di Bruner rispetto al panorama della psicologia di fine ‘900 epuò essere considerato una delle migliori introduzioni al tema.

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    BETTELHEIM, B. (1975)

    Il mondo incantato delle fiabe.Feltrinelli, Milano 1977.

    CHOMSKY, N. (1968) Language and mind.Harcourt, Brace & World, New York.

    HARRÈ, R., GILLETT, G. (1994)La mente discorsiva.

    Raffaello Cortina Editore, Milano 1996.

    HEIDEGGER, M. (1927)Essere e tempo.

    Longanesi, Milano 1976.

    KANEKLIN, C., SCARATTI, G. (a cura di) (1998)

    Formazione e narrazione.Raffaello Cortina Editore.

    LEVI-STRAUSS (1962)Il pensiero selvaggio.Il Saggiatore, Milano 1979.

    MC INTYRE, A. (1981)

    Dopo la virtù.Feltrinelli, Milano 1988.

     VYGOTSKIJ, L.S. (1934)Pensiero e linguaggio.

    Laterza, Roma-Bari 1990.

    WOOD, D. (1991)Paul Ricoeur: Narrative and interpretation.

    Routledge, London.

    Approfondimenti

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    COME È FATTA UNA STORIA

    Una volta definito che le narrazioni “non sono mai neutrali,

    non nascono per riprodurre qualcosa, ma per creare qualco-sa di nuovo: un nuovo ordine nello stato delle conoscenze edelle relazioni intrattenute dagli interlocutori“ (Fasulo, Ponte-corvo, 1997) emerge come queste storie agiscano qualepotente (e in fondo principale) elemento formativo.“Secondo la psicologia sociale costruttivistica il sé si formanel corso delle relazioni con gli altri mediante un processo dinegoziazione della propria immagine”.

    Le storie quindi hanno tutte un ‘compito’: devono raggiun-gere un obiettivo. Per far questo devono rispettare certeregole. Quali sono queste regole? Gli psicologi e i filosofiimpegnati in questa ricerca hanno dovuto adottare unapproccio per forza di cose interdisciplinare. “Da Aristotele inpoi, la narrativa è stata oggetto di attenzione da parte di stu-diosi (di letteratura) di religioni, storia, antropologia, sociolo-gia, psicoanalisi e – relativamente di recente – psicologia e

    pedagogia. Gli studi sulla narrativa sono frammentati fra cen-tinaia di libri e riviste in tutte queste discipline” (McCabe1991, p. XI).

    Fabula e sjuzhet

    Nei decenni centrali del Novecento, diverse scuole si sonoposte l’obiettivo di ritrovare delle ‘costanti’ nella produzionenarrativa sia ‘alta’ che popolare.La ricerca sul pensiero narrativo individua in particolare due

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    contributi: quello dei formalisti russi e quello di Burke. Daiformalisti Bruner riprende due concetti: quello di ‘funzione’ ela divisione fra ‘fabula’ e ‘sjuzhet’. Il concetto di funzione

    nasce dallo studio di Propp sulle fiabe. Secondo Propp (1928)le fiabe possono essere ridotte a un numero limitato di strut-ture relativamente indipendenti dall’ambiente che le hagenerate, all’interno delle quali una serie di figure svolgonoruoli intercambiabili. Così come in una equazione la variabile‘x’ può essere sostituita da qualsiasi (o da molti) valori, in unafiaba la figlia del re può essere sostituita dalla contadina odalla bambina. Possono essere quindi paragonate fra loro (edivenire fungibili) storie apparentemente assai differenti.Nella suddivisione fra fabula e sjuzhet (ripresa da Barthes coni termini ‘storia’ e ‘discorso’) “la fabula è la materia prima delracconto e rappresenta l’unione di tre elementi costitutivi: lasituazione, i personaggi e la consapevolezza della situazioneche li caratterizza” (Groppo, Ornaghi et al. 1999, p. 32).In pratica il sjuzhet ha a che fare con gli aspetti pragmatici –

    come ottenere una certa reazione dall’uditorio attraversoaspetti come l’intonazione, la gestualità o una violazione allastruttura temporale canonica (flash-back, flash-forward).

    I copioni

    Dallo strutturalismo americano invece la psicologia culturale

    ha preso una analisi proposta da Kenneth Burke (1945) secon-do la quale i racconti di buona fattura risultano composti dacinque elementi: un ‘attore', una ‘azione’, uno ‘scopo’, una‘scena’, uno ‘strumento’. A questi Bruner aggiunge un sesto‘elemento’: il problema, che consiste in almeno uno squilibriofra i cinque elementi. L’attore vuol compiere una azione peruno scopo in una scena ma manca di uno strumento, o l’a-zione non raggiunge lo scopo, o esiste una azione ma non sene conosce l’attore e così via.È pensabile un racconto privo di ‘problemi’ che descriva solola pentade di Burke? La risposta è sì, anzi i racconti ‘senza vio-

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    lazioni’, rappresentano proprio la prima forma narrativa dellaquale il bambino si impadronisce. La psicologia culturale haelaborato al riguardo il termine ‘script’ (traducibile con

    ‘copioni’ ma qualcuno preferisce ‘schemi’).“Lo script è il copione, la sceneggiatura di situazioni abitualiin cui una serie di azioni vengono compiute in funzione di unoscopo, con un ordine prevedibile o, in contesto spazio-tem-porale specifico, da soggetti che svolgono ruoli prestabiliti”(Calamari, 1995, p. 77).I copioni non sono racconti ma contesti ripetitivi. Acquistareun giornale in edicola, prendere il tram, andare al ristorantesono ‘copioni’ per l’adulto. Anche in macchina all’asilo o farecolazione al mattino sono copioni per un bambino. Alcunesituazioni possono essere copioni per qualcuno ed eccezio-nali per altri: fare la glicemia o iniettarsi una sostanza sono uncopione per il paziente diabetico, eccezionali per altri. “Per ilbambino l'acquisizione precoce di queste strutture cognitiveè un compito evolutivo fondamentale, non solo per la socia-

    lizzazione”, nota la Calamari (ibidem).Detto per inciso, è perfettamente possibile immaginare perogni copione mille sjuzhet, questo è precisamente quanto hafatto Raymond Queneau (1947) nel suo Esercizi di stile, nelquale il copione di un uomo che sale su un autobus e notauna persona che aveva scorto poche ore prima viene propo-sto attraverso numerosi ‘trattamenti’.

    Canone e violazione

    Quella di Queneau è una provocazione in quanto il copionenon è un buon racconto. Non lo è perché annoia, ma soprat-tutto perché, raccontando di situazioni ‘canoniche’, banali eculturalmente note e accettate non offre dei significati. Uncopione è un racconto che ‘non ha nulla da fare’.Una buona narrazione prevede infatti una violazione delcopione. E di questo il bambino si accorge subito: “I bambi-ni di quattro anni possono non sapere molto sulla loro cultu-

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    ra, ma distinguono bene ciò che è canonico e sono sollecitinell’elaborare una storia che renda conto di ciò che si disco-sta dai canoni” scrive Bruner (Bruner, 1990, p. 86) che aggiun-

    ge: “l’abilità non solo di individuare ciò che è culturalmentecanonico, ma anche di tener conto di deviazioni che possanopoi essere incorporate nella narrazione [...] non è semplice-mente una acquisizione mentale bensì una acquisizione dipratica sociale, che conferisce stabilità alla vita sociale delbambino” (Bruner, 1990, p. 74) .Spesso il racconto inizia descrivendo una fase di equilibrio incui tutto procede in modo ‘normale’: all’interno di una scenal’attore compone delle azioni per raggiungere uno scopo ser-vendosi di mezzi appropriati. A un certo punto compare unarottura in questa normalità, avviene un imprevisto, quello cheLabov chiama ‘un evento precipitante’ che crea una situazio-ne di squilibrio.

    La funzione antropologica della narrazione

    Bruner in una delle sua più alate intuizioni trova in questo rap-porto regola ed eccezione, canonicità e violazione la funzio-ne sociale, antropologica della narrazione. Secondo il fonda-tore della psicologia culturale (Bruner, 1990, p.59) “La funzio-ne del racconto è quella di trovare uno stato intenzionale chemitighi o almeno renda comprensibile una deviazione rispet-

    to a un modello di cultura canonico”.Si tratterebbe insomma di una attività di rielaborazionedella violazione effettuata per rendere “comprensibile l’e-vento eccezionale e tenere a freno l’evento misterioso [reite-rando] le norme della società senza essere didattico” (Bru-ner, 1990, p. 62).Attraverso una narrazione la singola persona o una comunitàrecuperano la frattura che la violazione ha creato e la inseri-scono, attraverso un processo analogico e qualitativo, in uncontesto noto.Bruner (1990) cita uno studio di Joan Lucariello nel quale ai

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    bambini di un asilo nido venivano proposte gli inizi di possi-bili storie e venivano invitati a continuarle. Le storie ‘non cano-niche’ producevano rispetto alle altre un abbondante flusso di

    invenzione narrativa, una elaborazione dieci volte maggiore.Bruner si collega alle spiegazioni della mitopoiesi effettuatedalla scuola filologica tedesca (Paideia di Jaeger) e francese(gli studi di Jean Pierre Vernant) così come dall’antropologiaculturale, proponendo la narrazione come forma di reintegra-zione della violazione nel corpo sociale, sottolineando “lapropensione dell'uomo a comunicare storie di umana diversi-tà e a rendere le interpretazioni congruenti con le più diversescelte di morali e gli obblighi istituzionali predominanti inogni cultura (Bruner, 1990, p. 74).

     Volendo riassumere in una formula, potremmo dire che da-vanti a una ‘violazione’, mentre la scienza disegna, come inse-gna la teoria di Kuhn una nuova teoria o rivede quella esi-stente, il pensiero narrativo elabora una ‘storia’. Tutte le teo-rie così come tutte le storie derivano, quindi, dallo scontro fra

    una ‘norma’ e una violazione e dal desiderio di liberare laprima dalla minaccia della seconda.

    La narrazione come tecnica di problem solving

    In un certo senso la narrazione può essere considerata unatecnica di problem solving. “I procedimenti narrativi intesi

    come attribuzione di senso vengono messi in atto a partire daun problema. [...] In alcuni casi una più attenta analisi dellasituazione è sufficiente a produrre coerenza [...] in altri il con-testo deve essere ampliato includendovi anche elementi chevadano oltre il dato immediatamente contingente. Questopuò avvenire secondo diversi tipi di procedimento. Ognunodi essi può esser usato da solo o in interazione con gli altri”

    (Smorti, 1994, p. 122).Questo è vero anche in senso letterale. Nel bambino, cosìcome nella produzione di storie da parte di comunità ‘primi-tive’, di fronte a un fatto nuovo la prima reazione è interroga-

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    re la memoria alla ricerca degli antecedenti, quelli che la reto-rica latina definiva gli ‘exempla’. Laddove questi non saltinosubito all’occhio (se così fosse la situazione non sarebbe pro-

    blematica) si utilizza un ragionamento analogico “per trovarenel passato una coppia situazione-comportamento simile perqualche aspetto alla coppia presente e nella quale il legameè chiaro e plausibile” (Smorti, 1994, p. 126).Analizzando i monologhi di una bambina a due-tre anni,Emily, Carol Feldman ha rintracciato processi ‘cognitivi’ tesi arendere ragione di un comportamento attraverso nessi ‘nar-rativo-casuali’ ed è arrivata a ipotizzare (Feldman, 1989, pp.102-103) che il ragionamento logico “in realtà dipenda da ocresca sulla base di quella che si ritiene essere la sua antitesi:la forma narrativa del linguaggio”.

    Le caratteristiche di una narrazione

    Rielaborando diversi scritti di Bruner, Smorti (1994) proponeun riassunto delle ‘caratteristiche’ di una narrazione.

    • Sequenzialità: Gli eventi sono disposti in un processotemporale e hanno una durata e non potrebbero esseredescritti se non in questa dimensione.

    • Particolarità e concretezza: La narrazione tratta di av-

    venimenti e questioni riguardanti le persone.

    • Opacità referenziale: In una narrazione non si può parla-re di ‘verità’ o ‘falsità’, ma solo di verosimiglianza e que-sta risulta dalla coerenza del racconto.

    • Scomponibilità ermeneutica: La narrazione è sempre pro-dotta a partire da un determinato punto di vista del nar-

    rante ed è recepita in base al punto di vista dell’ascolta-tore. Il significato della narrazione non dipende dunquesolo dai segni e dalla loro organizzazione ma anche dagliinterpretanti.

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    • Appartenenza a un genere: Sebbene particolare e con-creta, la narrazione può essere inserita in un genere o tiposia per quanto riguarda la fabula sia il suzhjet cioè il modo

    di raccontare.

    • Intenzionalità: I soggetti compiono delle azioni, sonomossi da scopi e ideali, posseggono delle opinioni, pro-vano degli stati d'animo... insomma nella narrazione sonopresi in esame nella loro caratteristica di possedere statimentali.

    • Incertezza: La narrazione si svolge secondo un livellodi realtà incerto. Il linguaggio è metaforico, e ‘congiunti-vo’ come dice Ricoeur (1983), la narrazione è una sorta dimetafora della realtà necessaria per renderne possibileuna nuova lettura.

    Il doppio paesaggio

    Queste ultime due caratteristiche ci rimandano a un aspettodella narrazione. La composizione pentadica infatti rendeconto della ‘trama’ del racconto. Ma un buon racconto pre-vede sia la trama, sia l’intenzionalità, vale a dire l’aspettoaffettivo, la donazione di significato che i personaggi metto-no in atto. Bruner (1986) (1990b) al riguardo parla di ‘doppioscenario’, o ‘paesaggio duplice’.

    “Secondo Bruner nel racconto si delineano due tipi di scena-ri; lo scenario dell’azione composto dagli elementi che costi-tuiscono l'azione stessa (ad esempio l’agente, lo scopo etc) elo scenario della coscienza che prende in considerazione ciòche i personaggi e il narratore pensano, provano, percepi-scono (Groppo, 1999).Fra questi due elementi vi deve essere una discordanza. I rac-

    conti infatti non si occupano di come sono andati i fatti (a dif-ferenza dei referti, delle cronache, delle ricostruzioni, delleesposizioni), “ma di come i protagonisti interpretano le cose edi quali significati le cose hanno per loro” (Bruner, 1990, p. 61).

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    Bruner (1990, p. 61) sottolinea come l’evoluzione della lette-ratura in questo senso coincida nel Novecento con la detro-nizzazione del ‘narratore onnisciente’, “a conoscenza sia del

    mondo così come era, sia delle modalità attraverso le quali ipersonaggi lo stavano trasformando”.Nel racconto il ‘paesaggio interiore’ è reso nella narrazione inmolti modi, per esempio con quelle che Bruner (1986) defini-sce ‘trasformazioni congiuntivizzanti'. “Si tratta di usi lessicalie grammaticali che mettono in evidenza gli stati soggettivi, lecircostanze attenuanti, le possibilità alternative”. I fatti nonsono separati dalle opinioni, ma immersi in esse.

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    Letture consigliate

    Jerome Bruner 

    La ricerca del significato.Per una psicologia culturale.Bollati Boringhieri 1992

    Della sterminata bibliografia di Jerome Bruner

    è stata tradotta soprattutto la parte stretta-

    mente pedagogica. Questo saggio (o il più

    recente ma meno incisivo La fabbrica delle sto-rie. Diritto, letteratura e vita (Laterza 2002)

    rende conto non solo delle teorie della psicologia culturale ma del

    loro radicamento nelle filosofie più avanzate dell’ultima parte del ‘900.

    Con maestria e abilità (c’è chi lo paragona in questo a Freud) Bruner

    si sposta dalla filosofia all’antropologia, alla letteratura.

    W.J.T. Mitchell (a cura di)

    On Narrative. The Univ. of Chicago Press

    Il fantasma di Roland Barthes aleggia su questolibro che raccoglie i testi di un seminario,

    ‘Narrative: the illusion of sequence’, tenuto nel-

    l’ottobre 1979 all’Università di Chicago, poi editi

    dalla rivista Critical Inquiry  (1080 vol. 7 n° 1 e

    1981 vol. 7 n° 4). Interroga figure di primo piano

    della filosofia (i francesi Derrida e Ricoeur, l’a-

    mericano Goodman) dell’etnografia, della psi-cologia, della critica letteraria e perfino la scrittrice Ursula K. Le Guin.

    Massimo Ammaniti, Daniel Stern (a cura di)

    Rappresentazioni e narrazioni.Laterza 1991

    Una collezione di saggi ben scelti, anche se pen-

    sati soprattutto per un pubblico di psicologi, fra iquali spicca il chiarissimo La costruzione narrativadella realtà di Bruner.

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    Approfondimenti

    ARISTOTELEPoetica. Rizzoli, Milano.

    BAMBERG, M.G.W. (1997)Narrative development: six approaches.Mahwan, N.J., Erlbaum.

    CIPRIANI, R. (a cura di) (1987)La metodologia delle storie di vita.

    Dall’autobiografia alla life history. Euroma, Roma.

    ECO, U. (1994)Sei passeggiate nei boschi narrativi.

    Bompiani, Milano.

    JAEGER W. (1986)Paideia: La formazione dell’uomo greco.La Nuova Italia, Firenze

    LEVI STRAUSS, C. (1963)Structural anthropology.

    Basic Books, New York.

    PROPP, V. (1988)Morfologia della fiaba. Einaudi, Torino.

    RODARI, G.(1997)Grammatica della fantasia.

    Introduzione all'arte di inventare storie. Einaudi, Torino.

    SHANK, R.C., ABELSON, R.P. (1977)Scripts, plans, goals and understanding.

    An inquiry into human knowledge structures.

    Erlbaum, Hillsdale.

     VERNANT J.P. (1971)Mito e pensiero presso i greci. Einaudi, Torino

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    Tutte le narrazioni sono in qualche modo ‘autobiografiche’.Fra queste spiccano per la loro significatività le mitologie e leautobiografie. Il racconto autobiografico non solo è ‘pieno disenso’, ma nasce proprio per dare senso. “Una profondaragione per la quale noi raccontiamo storie a noi stessi (o a unconfessore, a un analista o a un confidente) è precisamenteper ‘dare senso’ a quanto abbiamo incontrato nella nostravita” (Bruner, Lucariello, 1989). Letteralmente la narrazioneautobiografica ‘ci costituisce’.

    Ciascuno di noi cerca di dare alle nostre frammentarie e spes-so confuse esperienze un senso di coerenza riarrangiando gliepisodi della nostra vita in storie” (McAdams, 1993, p.11).In questo senso è possibile definire l'atto autobiograficocome inevitabilmente formativo. Chi ha terminato una narra-zione su se stesso non è più letteralmente quello di prima.Non lo è perché nell’atto stesso di raccontarsi ha ridefinito irapporti con il Sé intrapsichico da una parte e con quello

    interpersonale, ‘culturale’ dall’altra. Come ben scrive De-metrio “Ogni autobiografia è stata scritta perché l’autoreaveva bisogno di attribuirsi un significato, anzi ben più di unoe presentarsi al mondo” (Demetrio, 1996, p. 60).

    Autobiografia e cultura

    Guardiamo un attimo a questo secondo aspetto. Scrive Veronica Ornaghi (Groppo, Ornaghi et al., 1999, p. 77) che lafunzione finale dell’autobiografia è l’auto-collocazione: “attra-

    LA NARRAZIONE AUTOBIOGRAFICA

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    verso l’autobiografia collochiamo noi stessi in un mondo cul-turale simbolico; ci identifichiamo con una comunità e indi-rettamente in una cultura più ampia”.

    Questo aspetto non è immediatamente intuitivo. L’auto-bio-grafia potrebbe apparire un atto solipsistico. Un Sé che siinterroga e si narra a se stesso (fra le tante definizioni di Sé neproponiamo una derivata da Bruner: “il Sé è ciò che ci per-mette di definire una continuità fra la persona che si è addor-mentata ieri sera e quella che si è svegliata stamattina”).In realtà la nostra visione di noi stessi è profondamentemediata da elementi interpersonali. La conversazione nellaquale narriamo di noi stessi è un momento di questa media-zione: “il modo con cui parliamo agli altri del nostro passatoviene interiorizzato, diventando così il modo con cui ne par-liamo a noi stessi” (Haden, Fivush et al., 1997).Bruner parla al riguardo di “Sé distribuito”, riferendosi pro-prio al fatto che il Sé “non è solo dentro la persona, ma ancheal di fuori di essa, e cioè in quei 'blocchi' contestuali, in quei

    pezzi di mondo che la narrazione si incarica di portare 'den-tro' il soggetto” (Smorti, 1997, p. 31).Una seconda modalità di influenza culturale è data dai gene-ri letterari stessi. Noi non possiamo che leggere la nostra vitasulla base di uno dei modelli ‘letterari’ che troviamo a dispo-sizione nella cultura: il Bildungsroman, l’epopea personale, ilracconto intimista, la tragedia e così via.Trzebinski (1997) ha approfondito la retroazione della cultura

    nella autorappresentazione, parlando di ‘Sistemi narrativi sulSé’ che definisce come “le trasformazioni creative dei model-li narrativi prodotti da una cultura i quali forniscono le partico-lari condizioni entro le quali gli eventi possono essere inter-pretati”.Per fare un esempio, nel Novecento una cultura satura divalorizzazioni in merito all’importanza della competizioneedipica ha fatto rientrare nell’autobiografia episodi che nelsecolo precedente non sarebbero stati letteralmente nem-meno percepiti.Ancora un secolo prima la nascita di un figlio o aspetti relati-

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    vi alla vita familiare non sarebbero entrati nella narrazione diun maschio adulto. E questo non perché sarebbe stato ‘diffi-cile parlarne’, ma perché letteralmente questi aspetti non

    sarebbero stati colti.

    La vita come testo

    Sul fronte intrapsichico la posizione della psicologia culturaleè particolarmente radicale. Secondo Bruner l’autobiografianon è il resoconto più o meno tendenzioso di una vita ogget-to della narrazione ma è la vita stessa.Attraverso l’atto autobiografico noi ci rappresentiamo a noistessi, e i cambiamenti della vita non sono riflessi, quantoprovocati da mutamenti di accento e di significato all’internodelle nostre narrazioni.In questo senso la psicologia culturale è molto vicina alla psi-coanalisi: un freudiano come Francesco Corrao è pienamen-

    te in sintonia con l’approccio culturale quando afferma che“Ogni volta che si stabiliscono nuovi obiettivi esplicativi e chesi sollevano nuove questioni si svilupperanno nuove versionidel passato. Ogni costruzione costituisce allora un testo nar-rativo che si sostituisce al precedente, trasformandolo attra-verso variazioni interpretative che operano recisioni o ridu-zioni tematiche, ricontestualizzazioni, risignificazioni, rivaluta-zioni” (Corrao, 1990).

    Naturalmente questo ruolo ‘forte’ non è attribuibile a tutti gliatti narrativi che hanno per argomento noi stessi. Per megliodefinire la natura delle autobiografie rispetto ad altri testi,Bruner richiama la distinzione operata da White (1981) fra‘annali’, ‘cronache’ e ‘storie’. “Gli annali constano di eventiselezionati, fissati approssimativamente con date; le crona-che hanno la funzione di creare ‘grumi’ di significato persequenze di eventi [...] ma a loro volta esse seguono il loropieno significato quando vengono incorporate in una storiache nella sua completezza include un resoconto sistematicodella natura dell’ordine morale delle cose in cui si vanno svol-

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    gendo le cronache” (Groppo, Ornaghi et al., 1999, p. 77). Perfare un esempio, il racconto dell'insegnante severo in terzamedia è un ‘annale’, che si inserisce nella cronaca ‘la mia lotta

    contro il potere scolastico’, che assume significato in un con-testo storico come ‘la mia continua ricerca di autonomia inuna cultura conformista’.Una distinzione simile è quella di Martin (Martin, 1986, p. 75).“[Nell’autobiografia] qualcuno descrive il significato persona-le delle esperienze passate dalla prospettiva del presente.Questa definizione del genere lo distingue dalla ‘memoria’(di solito una registrazione degli eventi di pubblico interessecome la carriera di uno statista), dalla ‘reminiscenza’ (registra-zione di una relazione o di ricordi personali senza enfasi sulsé) e dal diario (nel quale la registrazione immediata dell'e-sperienza non è alterata da una più tarda riflessione)”.

    Il patto autobiografico

    In un certo senso quindi la narrazione autobiografica è pura‘fiction’. L’insegnante in terza media potrebbe non esserestato affatto severo. Questo non toglie assolutamente valen-za al racconto autobiografico. “Raccontarsi di se stessi ècome inventare una storia su chi e cosa siamo, su cosa è acca-duto e perché facciamo quello che facciamo”, scrive nel suopiù recente libro Bruner (Bruner, 2002, p. 64).

    Eppure l’autobiografia si presenta come ‘il racconto vero’.Chi propone una riflessione autobiografica non negozia asso-lutamente le asserzioni di fatto che devono solamente essereverosimili (requisito richiesto a ogni produzione narrativa).Philippe Lejeune (1986) analizza con attenzione l’autobiogra-fia ‘data alle stampe’ e il complesso ‘contratto’ che l’autore eil lettore sottoscrivono. In questo ‘patto autobiografico’ l’au-tore si impegna a svolgere su di sé un discorso veridico. Chequesto sia poi tale è questione che interessa allo storico nonal lettore: “Scrittore autobiografico non è chi dice la verità suse stesso, ma chi dice di dirla” (Lejeune, 1986, p. 33).

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    Qualcosa di simile avviene anche quando l’autobiografia èprodotta per se stessi o all’interno di una conversazione. Chiracconta di se stesso è impegnato soprattutto nella rilettura

    dei significati da attribuire agli eventi. In questo processoalcuni eventi possono perdere di importanza, altri essereriscoperti.Corrao (1991) cita uno psicoanalista assai vicino alla psicolo-gia culturale: Roy Schäfer, “ogni risconto del passato è unaricostruzione guidata da una strategia narrativa che dettacome selezionare da una moltitudine di particolari possibili,quelli che possono essere riorganizzati, trasformati in un altroracconto che abbia un filo e che esprima il punto di vista deldesiderio sul passato” .Questo aspetto è importante in quanto nell’autobiografial’autore ‘finge’ spesso di citare dei ‘fatti’ che hanno bisognodi una elaborazione o che ne ebbero diverse in momenti dif-ferenti. In realtà, la strategia narrativa che ha permesso diricordare quel fatto (e non altri) e di ricordarne certi aspetti (e

    non altri) è già l’effetto di una valutazione (di un ‘punto divista del desiderio’ come scrive Schäfer). Ed è questo aspet-to, non la presunta onniscienza dell’autore nei confronti dellasua vita, a conferire apoditticità al narrare autobiografico.

    Il tempo dell’autobiografia

    Con amabile paradosso Kierkegaard (citato in Alheit, Berga-mini, 1996 p. 21) scriveva nei Frammenti filosofici che “La vitapuò essere capita solo all’indietro. Nel frattempo deve esse-re vissuta in avanti”. In realtà le cose sono più semplici: l’au-tobiografia è un racconto sempre fatto al presente. Questo èvero sia in senso letterale (Bruner scrive di non aver mai tro-vato un resoconto autobiografico nel quale almeno un terzodei verbi non fossero al presente) sia in senso traslato.“L'autobiografia ha una curiosa caratteristica”, scrive Bruner(Bruner, 1990, p. 117). “È un resoconto fatto da un narratorenel ‘qui ed ora’ e riguarda un protagonista che porta il suo

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    ci si prepara a cogliere, sia nel ricercare all’interno di se stes-si “un' intelaiatura mentale ottimale per costruire sia dei 'pos-sibili scenari' in cui inserire gli eventi futuri, desiderati o inde-

    siderati, sia anche immagini, ruoli, attività future del Sé”(Trzebinski, 1997). Ed è questo aspetto – sia detto per inciso– che rende così interessante sollecitare narrazioni autobio-grafiche in contesti formativi, per esempio con adolescenti ocon giovani adulti.

    Il Sé individuale e il Sé collettivo

    L’autobiografia mette in scena il Sé. A differenza della poesia,del gesto artistico o della meditazione però, questo Sé èposto in relazione con quanto lo circonda. Lo storico leggevolentieri le autobiografie anche se lo fa con uno sguardoopposto rispetto a quello del terapeuta. Si interessa pocoall’individuo e molto alla maniera con la quale l’individuo

    condivideva valori e significati comuni.Alheit e Bergamini, (Alheit, Bergamini, 1996, p. 33) citano alriguardo Habermas (1981). “Le persone [...] possono formareuna identità personale soltanto se riconoscono che lasequenza delle proprie azioni costituisce una biografia de-scrivibile in modo narrativo e possono formare una identitàsociale soltanto se riconoscono di mantenere, attraverso lapartecipazione alle interazioni, la propria appartenenza a

    gruppi sociali”.Ma che rapporto c’è fra il soggetto autobiografico in quanto‘gettato’ in un mondo e il suo ‘essere in sé’, per usare un lin-guaggio heideggeriano.Il filosofo francese Paul Ricoeur (1990) propone una interessan-te distinzione al riguardo fra ‘l’Idem’, cioè ciò che il soggettoha in comune con gli altri, e ‘l’Ipse’: ciò che il soggetto ricono-sce come individuale. Ricoeur sottolinea come l’Ipse invece diessere ‘immerso’ in un Idem (cioè in una cultura, una nazione,una ideologia) ne sia in qualche modo definito. In altre parolel’Idem propone delle costanti (dei copioni, delle grandi narra-

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    zioni) che sono condivise e fatte proprie dai soggetti. A benvedere, però, ogni autobiografia si caratterizza attraverso“eventi critici, svolte, eccezioni che permettono di trasgredi-

    re una norma, rischi che la persona ha corso come un’emi-grazione, la malattia, la disoccupazione; un'avventura volon-tariamente cercata, casi fortunati, successi sul lavoro”.Sottolineando questo aspetto, Smorti (Smorti, 1997, p. 33)nota la somiglianza fra questo tipo di narrazioni e quelle cheBruner definisce ‘trasgressioni alla canonicità’ e commenta:“Sono queste svolte che conferiscono al soggetto la sensa-zione che quella vita che ha vissuto è sua e di nessun altro,consentendogli di costruire quel versante intenzionale dellasua identità che Ricoeur chiama Ipse”.

    L’evoluzione del Sé

    Analizzando un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci (Freud,

    Opere, vol. 6, pp. 229-230) Sigmund Freud fu il primo a sle-gare il ricordo autobiografico da ogni legame fattuale. Al paridel sogno o dell’atto mancato, i ricordi autobiografici d’in-fanzia “non vengono fissati e ripetuti a partire dall’episodiovissuto, come avviene per i ricordi coscienti della maturità,ma ripresi in un periodo successivo quando l’infanzia è giàtrascorsa e quindi modificati, falsati, posti al servizio di ten-denze posteriori, così che in linea del tutto generale non pos-

    sono essere rigorosamente distinti dalle fantasie”.Nel testo ricordato Freud propone un paragone con la sto-riografia: “finché un popolo è piccolo e debole non pensacerto a scrivere la sua storia; la memoria cosciente che unuomo ha dei fatti della sua maturità è assolutamente parago-nabile a quella storiografia” e i ricordi d'infanzia “corrispon-dono realmente, quanto a origine e attendibilità, alla storiatardivamente e tendenziosamente rielaborata dell’epoca pri-mitiva di un popolo”.

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    Approfondimenti

    CASTIGLIONI, M. (2002)

    La ricerca in educazione degli adulti.L'approccio autobiografico. Unicopli, Milano.

    DEMETRIO D., ALBERICI A. (2002)Istituzioni di educazione degli adulti.

     Vol. I: Il metodo autobiografico. Guerini Scientifica.

    GEERTZ, C. (1973)Interpretazione di culture. Il Mulino, Bologna 1987.

    GERGEN, K,J. (1991)The saturated self. Basic Books, New York.

    GERGEN, K.J. (1979)Il sé fluido e il sé rigido. In: GIOVANNINI, D. (a cura di)Identità personale teoria e ricerca. Zanichelli, Bologna,pp. 12-26.

    JACOBSON, E. (1954)Il sé e il mondo oggettuale. Martinelli, Firenze 1974.

    LEVI, P. (1963)La tregua. In: Se questo è un uomo. La tregua.Einaudi, Torino 1989.

    PIAGET, J. (1950)Autobiography. In: BORING, E.G. et al. (a cura di)A history of psychology in autobiography.Clark University Press, Worcester, MA, vol. IV.

    SCARATTI, G., CONFALONIERI, E. (2000)Storie di crescita. Approccio narrativo ecostruzione del sé in adolescenza. Unicopli, Milano.

    SPENCE, D.P. (1984)Verità narrative e verità storica.Martinelli, Firenze 1987.

    SPENGEMANN, W. (1980)The form of autobiography.

     Yale University Press, New Haven.

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    METODOLOGIE

    La conversazione autobiografica

    Redigere una autobiografia

    Narrative Therapy

    La conversazione terapeutica

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    Il setting della conversazione autobiografica

    Le riflessioni metodologiche concordano sulla necessità di

    dedicare uno o più incontri specificatamente alla conversa-zione autobiografica.

    • Il luogoAlheit e gli studiosi di scienze sociali consigliano l’abitazionestessa del paziente o un luogo neutro e piacevole (bar, giar-dini). Ma nell’ambito sanitario, sarà ben difficile seguire que-sta indicazione. Si tratterà quindi probabilmente di un

    ambiente ospedaliero o universitario, probabilmente lo stu-dio di un componente del Team o una saletta multifunziona-le. Non è detto che questo sia negativo. Silvia Kanizsa(Kanizsa, 1988, p. 122) cita al riguardo una ricerca condotta daWidery e Stackpole secondo la quale i soggetti con un bassolivello di predisposizione all’ansia, al contrario di quelli con unalto livello di predisposizione all'ansia, consideravano “piùcredibile una situazione di colloquio tra l’operatore alla suascrivania e l'utente seduto di fronte”. Secondo la Kanizsa “èimportante che l'ambiente sia connotato in modo professio-nale, anche perché altrimenti l’utente ne avrebbe una pessi-ma impressione” (Kanizsa, 1988, p.122).

    • Aspetti prossemiciLa psicologia – che si riferisce in generale a conversazioni inambiente Medico – sottolinea come sia importante piuttosto

    “l’uso che l’operatore fa dell’ambiente [...] cioè se egli se neserve per ‘tenere a distanza’ l’utente o per lavorare” (Kanizsa,1988, p. 122).La situazione classica in ambito ospedaliero-assistenzialevede l’intervistatore e il paziente seduti ai lati opposti di unascrivania. Questo potrebbe essere scorretto non solo e nontanto perché la scrivania pone una distanza fra i due interlo-

    cutori, ma perché costringe ambedue a guardarsi in viso.Se ci si siede a fianco del soggetto, consiglia (Alheit,Bergamini, 1996, p. 57), “non si è obbligati a guardarlo inviso, se non girando volutamente la testa. Questa posizione

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    ci rende liberi di scegliere, a seconda del caso, se sostenere losguardo dell’intervistato per lungo tempo o se lasciarlo liberodi guardare altrove, a volte fissando il vuoto, per raggiungere

    un ricordo lontano; sempre pronti, però, a intervenire con losguardo per comunicargli il nostro costante interesse”.

    Registratore e taccuini

    La conversazione autobiografica prelude in genere a una atti-vità di analisi di quanto detto. Va quindi registrata. Il registra-tore può essere posto in un luogo visibile ma non troppo vici-no ai due interlocutori e non deve attirare l’attenzione né delpaziente né dell’intervistatore. Al contrario delle videoregi-strazioni, che possono ‘falsare’ l’andamento dell’incontro, lapresenza di un audio registratore ‘pesa’ sulla spontaneitàdella conversazione solamente all’inizio. Conviene quindi nonfar coincidere l’inizio della registrazione con quello della nar-

    razione, meglio accendere l’apparecchio prima ancora che ilpaziente entri nello studio o comunque nella fase prelimina-re alla narrazione vera e propria. “Il registratore può condi-zionare alcuni soggetti. [...] L’importanza del registratore vasminuita, dicendo, per esempio, che la registrazione serviràper essere più precisi nelle fasi successive della ricerca”(Alheit, Bergamini, 1996, p. 56).L’impiego del registratore permette di concentrarsi sull’inter-

    vista, ma non esime l’intervistatore dal prendere alcune notesull’andamento del colloquio. In questo modo è possibile:• segnare informazioni che possono non risultare dalla regi-strazione;• annotare alcune affermazioni (o ‘vuoti’ nella narrazione) chepotrebbero essere oggetto di un approfondimento.È interessante notare come prendendo appunti l’intervistato-re ‘partecipi’ alla narrazione. “Spesso scrivere serve per riem-pire le pause di silenzio della conversazione, per non farpesare l’attesa”, sottolinea (Alheit, Bergamini, 1996, p. 57)“mentre il ricercatore scrive brevi note, l’intervistato si sente

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    libero di formulare con calma il pensiero che intende comu-nicare”.Inoltre, prendendo appunti l’intervistatore gestisce il collo-

    quio sottolineando il suo interesse per quanto si sta dicendoe viceversa, non prendendoli, può disincentivare il pazientedall’approfondire un aspetto poco importante.

    Il ruolo dell’intervistatore

    Quale ruolo deve svolgere colui che sollecita e/o ascolta unanarrazione autobiografica?

    • Disponibilità all’ascoltoLa conditio sine qua non da parte di chi si impegna in unaconversazione autobiografica è ovviamente un atteggiamen-to di disponibilità e di interesse. Demetrio, ma con molta piùenergia Silvia Kanizsa, sottolineano la necessità di una prati-

    ca dell'ascolto che significativamente Silvia Kanizsa proponenell'insieme delle relazioni fra curante e paziente: “La lungapratica di comunicazione che ciascuno di noi fa continua-mente fa sì che spesso ‘non ascoltiamo’ ciò che ci viene detto‘presumendo già di saperlo’. In sostanza noi udiamo solo ciòche vogliamo udire e ascoltiamo solo ciò che coincide con inostri obiettivi mentre cessiamo di ascoltare non appenaabbiamo incasellato le persone. [...] Questo atteggiamento di

    ‘non ascolto’ è proprio non solo dell’operatore sanitario maanche del malato. Quest'ultimo, avendo altrettanto somma-riamente valutato chi gli sta innanzi, potrebbe non osare direciò che prova o pensa o alterarlo per paura di far brutta figu-ra o tentare di dire o fare le cose che pensa ci si aspetti da luinell'ambiente ospedaliero.L’operatore deve essere conscio di questa possibilità di distor-sione nella comunicazione derivante dai tentativi del malatodi difendersi e di apparire nella miglior luce possibile sce-gliendo, fra le cose da comunicare, quelle che gli sembranomigliori per l’occasione” (Kanizsa, 1988, pp. 71-72).

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    • Partecipazione non asetticaGli autori che si sono occupati del tema sono singolarmenteconcordi nel ritenere non adeguato l'atteggiamento 'freddo'

    tipico ad esempio dell'analista freudiano o dello sperimenta-tore che somministra test proiettivi. Demetrio (Demetrio,1996, p. 182) propone il modello del “moderato ascoltatore”che non è imperturbabile o asettico ma comunica incorag-giamento.La conversazione può essere favorita se, “prima dell’intervista,il ricercatore racconta qualcosa di sé: chi è, cosa fa, perché siinteressa così intensamente alle interviste biografiche ecc.,abbastanza per superare le resistenze iniziali, presentarsi, ras-sicurare e conquistare così la fiducia dell’intervistato e facilita-re l’inizio della narrazione” (Alheit, Bergamini, 1996, p. 53).Demetrio, parlando dell’utilità di uno ‘scambio di doni’, siscosta dall’opinione di altri autori consentendo all’intervista-tore la possibilità di restituire al narratore “immagini altret-tanto private”. Alheit, Bergamini, (1996, p. 53) ammoniscono

    però di “Non raccontare troppo, [...], per non influenzare lastoria che seguirà”. Spesso, soprattutto nella ricerca socialel’intervistato pone molte domande “per ‘aggiustare il tiro’ delsuo racconto in base all’idea che si è fatto del ricercatore edella sua ricerca”, è l'interpretazione di (Alheit, Bergamini,1996, p. 53) che consiglia, se le domande dell’intervistato sonotroppe, di rimandare le risposte al termine dell’intervista.

    • Atteggiamento non valutatorioRiassumendo il pensiero di C.R. Rogers, la Kanizsa proseguesottolineando l'importanza di un atteggiamento non valuta-torio.“Secondo Rogers è fondamentale che gli individui non ven-gano mai valutati dal terapeuta: anche la valutazione positivainfatti crea disturbo prima di tutto perché implica l’esistenzadi quella negativa e in secondo luogo perché nasce comun-que dall’esterno dell’individuo e quindi sovrappone a lui lecredenze, i modi di pensare e i valori dell’altro” (Kanizsa,1988, p. 102).

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    Una raccomandazione simile a quella di Francesco Dammac-co che suggerisce al terapeuta (Dammacco 2000, p. 143) di“non partecipare all’incontro con pregiudiziali attitudini, pre-

    venzioni, etichette o informazioni [...] che possano compro-mettere una sincera, onesta e comprensiva interazione.

    • Coscienti dell'asimmetriaPosti questi paletti, la natura privata e informale della con-versazione autobiografica rende facile cadere nell'erroreopposto: un atteggiamento ‘amichevole’. Fra chi sollecitauna narrazione autobiografica e chi la propone vi è – soprat-tutto in un contesto terapeutico – una asimmetria. Kanizsa(1988, p.77) cita ancora C.R. Rogers: “Nel rapporto fra i dueprotagonisti ce n’è uno, l’operatore che deve essere coscien-te del processo che intende instaurare per aiutare l'altro, ilcliente, a modificare costruttivamente la propria personalità”.

    La struttura della conversazione autobiografica

    Come iniziare? La prima fase dell’incontro è dedicata a spie-gare le ‘regole del gioco’ o meglio a ripeterle visto che pro-babilmente queste erano state delineate in precedenza invi-tando il paziente all’incontro. “È opportuno iniziare l’intervistain modo informale, parlando un po’ in generale della ricercache si sta conducendo e, soprattutto, accertarsi che gli accor-

    di presi in precedenza con l’intervistato siano stati recepiti eaccettati: la struttura narrativa del racconto, cioè il fatto chenon si faranno domande, il contenuto biografico, la garanziadell’anonimato, l’uso del registratore, ecc.”, spiega Alheit,Bergamini (1996, p. 55). Spesso il paziente arriva all’incontro‘preparato’ soprattutto per quel che riguarda alcuni aspettidella narrazione. “In genere l’intervista presenta un anda-mento abbastanza regolare. L’inizio è formale e si avverte cheil soggetto si presenta come vorrebbe essere visto e dà l’im-pressione di aver già preparato in precedenza le cose da dire.In un secondo tempo il colloquio entra in una fase più pro-

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    fonda, spontanea, durante la quale le pause si fanno più lun-ghe, ma senza pesare, il tono della voce più basso.” (Alheit,Bergamini, 1996, p. 55).

    Se questo non accade, si può far tesoro di alcuni consigli datida Kanizsa (Kanizsa, 1988, p. 142) parlando dell’intervista nondirettiva. “L'intervistatore delimita il campo con alcune frasiche centrano il problema ma permettono all’intervistato diiniziare a parlare scegliendo il punto da cui partire. [...] Èimportante che le domande stimolo siano sufficientementeampie per permettere al malato di orientare la risposta”.

    • La strutturaGeneralmente i pazienti organizzano i loro capitoli in manie-ra quasi cronologica, partendo dall’infanzia. “Con altre per-sone funziona meglio una suddivisione tematica: può esserciun capitolo sulle relazioni, uno sulla scuola e il lavoro e cosìvia”, afferma Crossley (Crossley, 2000). Interessante al riguar-do è il canovaccio di intervista proposto da (McAdams 1993)

    nel decimo capitolo del suo libro.

    1) Pensa alla tua vita come a un libro e associa ogniparte della vita a un capitolo:• dai un titolo a ogni capitolo e descrivi a grandi

    linee quali saranno i contenuti.

    2) Eventi chiave momenti particolari che sono accaduti

    in particolari tempi e luoghi:• il momento più bello della tua vita;• il momento più brutto della tua vita;• episodi nei quali è avvenuto un profondo cambia-

    mento nella tua comprensione di te stesso;• i primi ricordi anche se non particolarmente im-

    portanti;

    • un importante ricordo dell’infanzia;• un importante ricordo dell’adolescenza;• un importante ricordo dell’età adulta;• altri momenti che si impongono positivi o negativi.

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    3) Descrivi quattro delle persone più importanti dellatua vita spiegando la relazione che hai avuto con cia-scuna di queste e il modo con il quale queste hanno

    avuto un impatto sulla tua vita.

    4) Progetti, previsioni o sogni per il futuro.

    5) Ansie e problemi.Descrivi due aree della tua vita caratterizzate da unostress significativo o un conflitto o un problema diffi-cile o una sfida. Per ciascuna area spiega in dettaglio

    il problema e fornisci una breve storia di come si è svi-luppata e il piano per gestirlo in futuro.

    6) Ideologie personali:• convinzioni religiose,• orientamenti politici,• valori più importanti della vita.

    7) Tema principale.

    Guardando alla tua vita come un libro, puoi identifica-re un tema centrale, un messaggio o una idea cheattraversa il ‘testo’?

    Le domande dell’intervistatore

    Mc Adams è il più ‘normativo’ fra gli autori che si sono occu-pati di conversazione autobiografica. Egli stesso afferma co-munque che il ‘protocollo’ indicato non deve essere conside-rato un modulo da riempire, né come una check-list di tema-tiche che devono risultare tutte affrontate nella conversazio-ne. Si può considerare come una ‘griglia’ di domande o temiche possono essere proposti alla riflessione qualora, più perstanchezza che per inibizioni o per la difficoltà di mantenere

    un andamento cronologico, la conversazione autobiograficasi incagli. Generalmente è sconsigliabile interrompere la nar-razione con delle domande, a meno che il paziente non abbia

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    costruito la sua narrazione in modo da sollecitarle (in questocaso astenersi dal porre domande sarebbe indizio di scarsaattenzione).

    Le domande dovrebbero essere “messe da parte per la fasesuccessiva” consiglia (Alheit, Bergamini, 1996, p. 54), cheaggiunge “Di solito il narratore per prima cosa narra sponta-neamente tutto l’arco della sua vita. Va ascoltato con interes-se, anche se lascia dei vuoti in relazione a certe fasi della suavita, sia che lo faccia consciamente sia inconsciamente.Ricordarsi però di questi vuoti per quando ha finito di rac-contare tutta la storia. […] Quando l’intervistato ha sicura-mente finito di narrare – e di frequente lo dichiara: ‘non c’èaltro’ –, allora l’intervistatore può cominciare a chiedere”.Con le sue domande l’intervistatore potrebbe inconsciamen-te dirigere il racconto. Kanizsa (Kanizsa 1988 p. 125), citandoM. Pages parla di ‘non direttività’. Il terapeuta deve evitare diimprimere al cliente qualsiasi direzione. Questo non è facilein quanto la narrazione è insieme trama di eventi ed esplici-

    tazione di significati. Al terapeuta interessano soprattutto isignificati, ma è comprensibile che parte della sua attenzionesia attirata dagli eventi, dal ‘plot’. Più in generale, come sot-tolinea Alheit (Alheit, Bergamini, 1996, p. 54), bisogna “Evitarele domande dirette tipo ‘perché?’ e ‘a che scopo?’, soprat-tutto nelle prime fasi dell’intervista”.In genere la narrazione della storia, una volta avviata, non habisogno di domande dirette, al massimo solo di qualche bat-

    tuta di rinforzo. Ma se proprio si ritiene di doverne fare, èmeglio formulare domande del tipo: ‘Cosa è successo dopo?’oppure ‘Descriva un episodio…’. Se invece si chiede ‘Perché’si mette il narratore della situazione di dover dare delle spie-gazioni, di doversi in qualche modo giustificare. Allora sipassa dallo schema narrativo a quello argomentativo/giustifi-cativo e va persa la voglia di narrare. Talvolta può essere inte-ressante provocare il narratore a produrre argomentazioni,spiegazioni e teorie interpretative. Ma ciò dovrebbe averluogo, in modo esplicito, solo alla fine del racconto, quandoil narratore non ha più niente da narrare.

  • 8/18/2019 Autobiografia e Pensiero Narrativo

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    Metodologie di trascrizione

    In alcuni contesti la narrazione registrata è il punto di parten-

    za di una analisi attenta. In questo caso è importante definiree adottare degli standard di trascrizione dell’intervista stessa.Alheit (Alheit, Bergamini, 1996, p. 60) consiglia di iniziare conuna trascrizione “grezza” del testo, individuando pause,sospiri, risate ecc. Cambi di tono, conclusione di periodi eincisi vanno riportati nel testo con l’impiego della relativa“punteggiatura interpretativa” e altri segni grafici definiti.

    La metodologia richiede che si vada a capo non solo a ogni‘atto vocale’ (utterance) ma anche a ogni “unità di significa-to”, variazione di tempo, di luoghi e di persone. “Trattandosidi trascrizione di un testo parlato,