Pasolini Tommaso Anzoino
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TOMMASO ANZOINO.
PIER PAOLO PASOLINI.
da IL CASTORO, NUMERO 51, DICEMBRE 1975.
In un'intervista al « Giorno » (1964) lei dichiarava:
« Credevo che il romanzo, come genere, fosse
finito, in quanto che io avevo esaurito certi ar-
gomenti miei, e tendevo a dar ragione a quelli
che parlavano di crisi del romanzo (del resto se
ne parla da quando sono nato). Adesso, dopo
una lunga meditazione sui problemi linguistici,
le rispondo che sì, è possibile, quanto mai pos-
sibile, anzi, mai come ora è stato possibile!»
Per quanto riguarda quel che dicevo sul «Giorno» in
quel pezzetto del '64, che io non ricordo, credo di
essermi spiegato meglio in un paragrafo della mia
rubrica sulla rivista «Tempo", ripubblicato sul volume
Ostia, in appendice. Non scrivo romanzi perché io
non sono un romanziere di professione: ho scritto i
miei romanzi tardi e perché mi sono trovato in situa-
zioni « nuove », in cui l'ambiente era prima di tutto
«romanzesco» per me. Scrivere romanzi per me è si-
gnificato vivere nella scrittura la situazione romanze-
sca dell'agnizione dell'altrove. Non escludo che questo
nella mia vita possa succedere un'altra volta. Ma è difficile perché gli
ambienti in Italia non sono molti: quello dei privilegiati primi, quello
borghese e piccolo-borghese, quello operaio, quello contadino e sotto-
proletario.
L'unico ambiente che non conosco fisicamente, per partecipazione di-
retta, per coazione, è l'ambiente operaio. Dunque è quest'ultimo che
potrebbe farmi rivivere una situazione romanzesca e farmi di conseguenza
ritrovare il diritto di essere narratore. Oppure potrei avere un ritorno di
fiamma per l'ambiente contadino o sottoproletario. Sto meditando ma
sapendo che non ne farò niente, un Nuovi ragazzi di vita. Nel casó che
il ritorno di fiamma lo avessi per il mondo contadino, esso difficilmente
sarebbe italiano: sarebbe piuttosto africano, o arabo, o indiano. Quanto
alla minaccia dell'esotismo, potrebbe succedere che i paesi contadini
del terzo Mondo finissero col diventare, anche oggettivamente, del tutto
prossimi; ma per il momento non so in quale veste potrei scriverne.
L'unica possibilità sarebbe che io imparassi--anche male--il somalo
o l'eritreo o un dialetto qualsiasi mai usato come lingua scritta (il piú
sensato sarebbe lo swaili): e devo dire la verità, la cosa mi piace, mi
tenta, mi entusiasma. Escluderei invece di poter mai scrivere in tutta la
mia rimanente vita del mondo borghese o piccolo borghese; oppure del
mondo dei privilegiati primi: non potrei mai esserne mimetico; d'altra
parte non ne sono abbastanza distaccato e privo di odio per parlarne in
italiano puro, di codice (tutt'al piú potrei riadottare la lingua sognata e
labile di Teorema).
Un'opera comprendente tutti questi mondi sociali ? Ebbene sí, ci ho
pensato: un'opera ciclica, coi racconti inseriti uno nell'altro, come nella
Matriona, cominciando con la prima metà del primo racconto e fi-
nendo con la sua seconda metà: con decine e decine di prestazioni mi-
metiche, perché il narratore del racconto contenuto sarebbe un perso-
naggio del racconto contenente. Quindi si avrebbero le piú varie possi-
bilità linguistiche: un ricco del mondo dei privilegiati primi che racconta
di un poveraccio del mondo sottoproletario; un sottoproletario che rac-
conta di un industriale; un sottoproletario che parla di un altro sottopro-
letario; un piccolo borghese che racconta di un grande industriale; un
industriale che racconta di un contadino; un contadino che racconta
di un piccolo borghese: e tutti costoro (le combinazioni potrebbero con-
tinuare quasi all'infinito) parl~rebbero, poi, nei loro rispettivi dialetti o
koine dialettizzate ecc.
2 Un'operona tutta voluta e velleitaria; un gioco di pazienza. Ma invec-
chiando si diventa impazienti; e cosí anche i parziali risultati che questa
macchina una volta messa in moto, mi farebbe forse ottenere, fanno
parte dellá rinl:r,cia dovuta all'impazienza, e soprattutto alla mancanza
di fiducia nella stabilità del mondo che produce simili macchine lette-
rarie.
Ancora in quell'importante 1964, verso la fine, annunciava, con
qualche titubanza e non senza emozione, e soprattutto con
molto scandalo, che era nato l'italiano come lingua nazionale:
la lingua, cioe, della rivoluzione industriale, borghese, della tec-
nologia, dell'azienda; in seno a questa nuova realta linguistica
il fine della lotta del letterato sarebbe stata la espressivita lin-
guistica (il fine di quella rivoluzione linguistica sarebbe stato,
invece, il prevalere della comunicatività sulla espressivita); quel-
la lotta del letterato avrebbe dovuto coincidere con la liberta del-
I'uomo rispetto alla sua meccanizzazione. Quale tipo di sviluppo
ha avuto la questione per lei7
La questione è rimasta al punto in cui era in «quell'importante 1964».
Transfuga io mi sono transitoriamente trasferito nel translinguismo ci-
nematografico. C'è stato di mezzo l'importante 1968. Il compagno
operaio è stato riscoperto al di fuori degli schemi dell'egemonia ope-
raia del PCI (almeno cosí si afferma, si crede: è la Verità); si riac-
cendono speranze nuove di rivoluzione dal basso. Ma secondo me la
televisione, per esempio, è piú forte di tutto questo: e la sua mediazione,
ho paura che finirà per essere TUTTO: il Potere vuole che si parli in un
dato modo (quello che piú o meno accennavo in quel mio scritto):
ed è in quel modo che parlano gli operai, appena abbandonano il mondo
quotidiano, famigliare o dialettale in estinzione (estinzione piú lenta
perd, della storia che attua il superamento). In tutto il mondo cib ché
viene dall'alto è piú forte di cid che si vuole dal basso. I tecnici cinesi
nello Yemen sono carismatici. Sono scesi dal cielo a costruire strade e
a portare pere in scatola. Non c'è parola che un operaio pronunzi in
un intervento che non sia ~voluta» dall'alto. Cid che resta originario
nell'operaio è cid che non è verbale: per esempio la sua fisicità, la sua
voce, il suo corpo. Il corpo: ecco una terra non ancora colonizzata dal
potere. 3
Qualche anno fa, Alberto Asor Rosa, probabilmente con un po'
di fretta, notificava il suo pensionamento, proponendo come
epigrafe del «corso vitale della sua tumultuosa esperienza»
alcuni versi di ll glicine:
Ho perduto la forza;
non so piú il senso della razionalità;
decaduta si insabbia
--nella tua religiosa caducità--
la mia vita, disperata che abbia
solo ferocia il mondo, la mia anima rabbia.
La sua rabbia è rimasta: le ultime poesie mi pare lo confermino;
il mondo, invece, ho l'impressione che non le appaia piu tant~
feroce quanto banale.
No. A me sembra che il mondo sia oggi molto feroce, e che banale se
mai, fosse durante gli Anni Cinquanta. Volgendoci indietro la visióne
che si presenta ai nostri occhi è una visione di banalità: la Speranza il
Prospettivismo, I'lntegrazione ainnocente», la polemica anti novecén-
tesca, la Razionalità, I'lmpegno, il problema del Sud, l'intellettuale come
prete o guida spirituale, il generale ottimismo, lo stalinismo, sia prima
che dopo il XX Congresso. La ferocia era terribile e all'antica (i campi di
concentramento nell'URSS, la schiavitú delle «democrazie» orientali
l'Algeria). Questa ferocia all'antica, naturalmente, permane: vedi non
solo il Vietnam, ma il Brasile, la Grecia, per esempio, e soprattutto l'Err-
trea--dove il Negus, di cui non si pud parlar male per non confondersi
coi fascisti--attua una delle repressioni piú orrende che si conoscano:
incendi di interi villaggi, giovani decimati e impiccati a gruppi nelle
piazze ecc. Ma oltre a questa vecchia ferocia (che è lenta a estinguersi,
come i dialetti: piú lenta della storia che cosi velocemente la supera)
c'è la nuova ferocia che consiste nei nuovi strumenti del Potere: una
ferocia cosi ambigua, ineffabile, abile, da far sí che ben poco di banale
resti in cid che cade sotto la sua sfera. Lo dico sinceramente: non con-
sidero niente di piú feroce della banalissima televisione: le leggi che
regolano una trasmissione televisiva sono tra le piú ferree e intrasgredibili
che abbia mai conosciuto l'umanità: la Santa Inquisizione non è nulla
jn confronto. E la repressione che essa opera nell'intimità di ogni citta-
dino è la piú immedicabile che mai si sia sperimentata: la costruzione e la
4 conferma della falsa idea di sè--con conseguente sviluppo di quello che
Laing chiama «sistema del falso io» e gli esiti schizoidi sono irrever-
s~ili. La stessa cosa si pud dire di tutti gli strumenti della Produzione
(danno meno scandalo solo perché non invadono il terreno propria-
mente culturale). Mai il mondo è stato tanto «regresso» (gli Anni Cin-
quanta in tal senso erano ancora anni della classicità), e di conseguenza
tanto nevrotico e duro, moralistico e infelice.
Gli studenti, anche quelli che a Valle Giulia «facevano a botte
coi poliziotti », hanno condotto, come lei dice, « una guerra
civile », cioè di borghesi giovani e buoni contro borghesi vecchi
e cattivi; la storia, probabilmente, le ha dato ragione.
Sentirsi dare ragione dalla storia è sconfortante. Bisogna passare subito
dalla parte del torto! Adesso ho deciso di stare sospetto compagno di
strada con i gruppi di « Potere operaio» e « Lotta continua», mettendo
a tacere parte della mia coscienza.
Ma la Rivoluzione, lei dice, continuando a riferirsi agli studenti,
un'altra cosa, cioè è classista: gli operai e i contadini da una
parte e la borghesia dall'altra. Ma questi operai e questi conta-
dini in Italia ci sono?
Sí, questi operai e questi contadini in Italia ci sono. Lo sono nel « corpo ».
Osservavo un ragazzo operaio, a Carrara, durante un dibattito, che mi
muoveva delle obiezioni radicali, famigliari al Movimento Studentesco
e ai piccoli gruppi a sinistra del PCI. Niente di nuovo: il tono predicatorio
il moralismo, il ricatto in nome della lotta come necessità di giusti
l'accusa di tradimento, il linguaggio tutto perfettamente prevedibile ecc.
Eppure... Ia sua voce, il suo corpo, il suo sesso--cose a cui non si
pensa mai quando parla un borghese anche giovane--erano « dati » che
restavano estranei al suo discorso e stavano sul suo discorso come pre-
senze protettrici e propiziatrici. Si sentiva che aveva avuto una infanzia
di povero, con u~a madre donna del popolo, un padre operaio, una casa
nuda, compagr~etti poveri come lui; ~he aveva mangiato i cibi che man-
giano i poveri, semplici ma non nutrienti, e la sua carne era rimasta un
po' infantile e debole (gli operai sono sempre fisicamente piú deboli degli
studenti); nej suoi occhi, mentre parlava, la rabbia, I'acrimonia, la po-
lemica, si trasformavano in un ingenuo dispiacere: dispiacere di dover
dire quello che diceva--con gentilezza d'altronde--e che in certi
momenti gli dava quasi un tremore di pianto. Egli usava la sua intelli-
genza e la sua cultura (forse di autodidatta per il quale gli argomenti
della nuova sinistra erano stati una rivelazione), ma gettava nella lotta
anche il suo corpo: e questo corpo correggeva il suo discorso, vi aggiun-
geva significati e necessità reali; la dissociazione schizoide era solo alla
superficie; all'interno la coesione era profonda: la sua voce era piú
vera della sua parola.
Si dirà che questo è il mio « mito » popolare. Va bene, ma mi si opponga
qualcosa che non sia l'altro mito, quello della comune accezione, pas-
sato tale e quale dalla retorica operaista comunista ai gruppi della nuova
sinistra (che essendo formata da giovani, sanno soltanto ciò che è
scritto--e di questo «mito» non è mai stato scritto niente--esso è
stato solo vissuto). L'operaio è tale perché è esistenzialmente operaio:
ed è una storia retorica, ricattatrice e moralistica quella che non include
l'esistenza.
La Rivoluzione, lei dice, in Teorema, può farla solo «chi vera-
mente morisse di consunzione, vestito da mugik, non ancora
sedicenne... »
Parole come « rivoluzione », « ragione », « realtà », « storia », « popolo »,
«proletariato», «sottoproletariato» ecc. sono parole particolarmente po-
lisemiche: tanto polisemiche che da sole non significano nulla, e quindi
hanno sensi diversi a seconda del contesto. Dò un caso limite: la pa-
rola «rivoluzione» in un sintagma comunista e in un sintagma neo-co-
munista.
Io ho usato mille volte questa parola--e quante volte vilmente ! quante
volte solo per tacitare la mia coscienza e ricercare complicità! quante
volte per giustificare il mio essere altrove, magari perduto in una voglia
smaniosa di solitudine! E i sensi che questa parola ha assunto nel mio
uso sono tanti quanti i sintagmi in cui l'ho usata. Nei versi qui sopra ci-
tati la parola «rivoluzione» aveva una significazione pressoché mistica e
donchisciottesca: davo per scontato infatti che la «rivoluzione» dovesse
essere fatta dai giovani (?), con riferimenti palingenetici (i soliti, ma
insolitamente efficaci): accettavo dunque per ipotesi e per absurdum
(si tratta dopotutto di versi), un dato di fatto irriducibile a fatto reale,
come un assalto a un mulino a vento. Una volta compiuta questa ope
razione, una volta accettata cioè la possibilità (prospettata non da m~
ma da me subito accolta e amata) di una simile rivoluzione, ho detto
appunto, che essa potrebbe essere fatta da «chi veramente morisse d
consunzione ecc. ». L'ho resa dunque impossibile radicalizzandola. E
stata l'operazione tipica del ricatto che ci siamo fatti reciprocamente ne
biennio '68-'70. Il « mugik sedicenne» che ci crede tanto che ne muore
è il corrispettivo studentesco corporale di quel giovane operaio di Car
rara di cui ho parlato nella risposta precedente. Io scelgo casi estrem.
e avrò le mie buone ragioni (che non so). Tuttavia devo dire a mia giu
stificazione, che non esercito mai tale ricatto su delle persone partico
lari: ma solo in poesia, rivolgendomi a una persona generale.
Comunque la la rivoluzione, per lei, è un mito; e nemmenc
«popolare», ma «mistico».
Ma per chi la rivoluzione non è un mito ? Lei mi risponderà: per la « class~
operaia »: ma io non sono una « classe », sono un uomo. Prendiam~
allora un « uomo » della « classe operaia »: per esempio quel giovan~
operaio di Carrara. Cosa crede, che anche per lui, singolo ragazzo ch~
lavora, la rivoluzione non sia un mito; qualcosa cioè che si attua oltn
la « durata» del suo tempo esistenziale? Spero poi che l'accezion~
con cui lei usa la parola « mistico » non sia quella del nostro ricatt~
quotidiano. Stalin diceva a Bulgakov: « Ma lei è un mistico» e Bulgako~
rispondeva: «Sí, lo sono» (ora sono io che la ricatto). Ma il momen~-
mistico della rivoluzione è l'unico che può essere complementare al s~
momento pragmatico. Non bisogna certo mitizzare la rivoluzione p
pensarla: ma bisogna mitizzare la rivoluzione per farla.
In un'intervista a Ferdinando Camon, lei disse:
« Resta il fatto che il sottoproletario e il contadino sono eve
sivi soltanto perché '' sono'' e, in particolari situazioni locali
nazionali, possono essere dei sovversivi (rivoluzionari o guen
glieri, a scelta, secondo chi se li accaparra per primo). Pen~
agli eroici banditi sardi».
Un «corpo» è sempre rivoluzionario; perché rappresenta l'incodificabil
E;in esso che viviamo le situazioni codificate--vecchie o nuove--ren-
dendole instabili e scandalose. Se poi il «corpo» vive una «vita indegna
di essere vissuta» (un negro, un sardo, uno zingaro, un ebreo, un in-
vertito, un miserabile) è anche manifestamente rivoluzionario (mentre
ta!e funzione non è manifesta nel «corpo» di un commendatore, di un
mmistro ecc.). Un povero, un infelice sono sempre, di per sé eroici:
sia che sl rassegnino sia che si ribellino--e sia anche che cómpiano
azioni delittuose--che sono sempre senza alternativa reale. La Mafia
per esempio, è esecrabile nel momento in cui il suo vertice si confondé
con il potere centrale: ma là dov'è decentrata, e in basso, non mi sembra
affatto cosí esecrabile. Un «picciotto» fa una cattiva scelta, va bene:
ma qual'è l'alternativa a tale scelta ? Essere buon cittadino di che paese ?
Un «riformismo», appoggiato, per esempio, dai sindacati e da
un partito «serio» come l'ha definito ironicamente lei, non può
essere un'alternativa «reale»?
A Sana i russi hanno costruito un ospedale nuovo, bellissimo. Sono scesi
dall'alto, e indubbiamente hanno fatto le cose con serietà, come si addice
a chi è investito dal carisma. A Sana si muore di meno: ma qual'è la vita
che fa da alternativa a tale soprawivenza? Un «tutto» perfetto, una
struttura medioevale intatta, sono stati manomessi, ma non sono finiti
(è la solita storia). Alle norme che regolavano una vita da molti secoli
--fissate una volta per sempre--si sono sostituite norme nuove « mo-
derne», «civili»: I'esigenza principe è quella di fare dello Yemén una
nazione come tutte le altre; di perdere la propria identità, di omologarsi.
Come in tutte le nazioni del Terzo Mondo ciò è indifferenziato: la scelta
neocapitalistica o socialista sono interscambiabili. Ambedue i modelli
appartengono ad un mondo ugualmente avanzato, che dall'alto della
sua modernità, manda tecnici che sono, in definitiva, uguálmente repres-
sivi. Non si sa quale sia la vera volontà, quella che si manifesta dal basso
dei popoli medioevali soprawissuti--per qualche ragione misteriosa
ma evidentemente buona --fino ad oggi. Probabilmente si tratta di
una volontà conservatrice: i Re, i Feudatari, i Capi tribú ecc. erano cer-
tamente piú vicini al popolo che non i « benefattori » occidentali o
orientali: essi facevano parte di quel «tutto», che in moltissimi casi non
si è mai autocriticato e non ha mai iniziato un'autodistruzione di propria
8 iniziativa. Voglio dire con questo che una condizione umana medioevale o
preistorica è migliore di una situazione umana borghese o socialista ? Sí,
voglio dire questo. A un giovane rivoluzionario non passa neanche lon-
tanamente per la testa che la sua lotta non debba avere come scopo
quello di assicurare al povero (operaio sfruttato o contadino miserabile)
un treno di vita pi~colo borghese (non c'è altra alternativa, perché que-
sto treno di vita è quello della storia). Da che punto del mondo io con-
testo disperatamente tutto questo? E chiaro: da un punto del mondo
dove urge un desiderio folle di regresso. Ma non c'è progresso senza
profondi recuperi nel passato, senza mortali nostalgie per le condizioni
di vita anteriori: dove si era comunque realizzato l'uomo spendendovi in-
teramente quella cosa sacra che è la vita del corpo.
Un tecnico americano e una guardia rossa disprezzano analogamente
(sia pure per ragioni del tutto diverse) la necessità di questi recuperi, e
si pongono con spirito analogamente sacrilego di fronte al passato.
Il riformismo insegna a rispettare tutto, in nome di una democrazia
reale--che invece è e continua a essere formale--: insegna a rispettare
l'individuo « bambino », I'individuo « cittadino », I'individuo « malato »
(autoeducazione, autogoverno, autoterapia) ecc.: non insegna a rispet-
tare la volontà di un popolo. Ed è su questo punto che esso può e
deve essere smascherato.
Ad Altamura, lo ha detto la TV, il60 % dei bambini in età scolare,
come si dice: «evadono»; se andassero a scuola s'imborghe-
sizzerebbero senza rimedio?
Quel piccolo groppo di idee deprimenti e avvilenti che un giovane rivo-
luzionario ha in testa come meta della rivoluzione, comprende natural-
mente anche un'idea della scuola come servizio pubblico. C'è una
grande disperazione dentro quella testa: la paura di perdere la presenza
con la « sistemazione», I'ansia piccolo-borghese (ex contadina) per il
domani, la fobia per la miseria e l'insuccesso: è una specie di piccola e
intensa malattia mentale, tenuta nascosta, taciuta. Ma dev'essere ben
grave se è essa che presta limmagine,del «domani migliore»: un do-
mani in cui tutti avranno la casa assi~rata, con gli annessi beni di con-
sumo e il denaro per acquistarli, i~ cui tutti andranno a scuola per im-
padronirsi della dovuta cultura,~cc. La Borghesia, durante tutto il suo
periodo di gloria, cioè per un,secolo, un secolo e mezzo, si è affannata a
smentire Rousseau, a dichiarare romantica e falsa la sua idea del « buon
selvaggio», senza casa, senza elettrodomestici, senza brache, senza
scuole. Adesso la Borghesia è meno sfacciata. Ammette oggettivamente
--rispettandola in astratto--una cultura selvaggia, e pensa già ottimisti-
camente a un'integrazione, con soddisfazione reciproca. Ad Altamura o
nel Basso Sudan ci sono dei selvaggi: si comincia col non negarne piú
uno stato di realtà, e si cominciano a creare strutture per diffondere la
propria cultura fingendo di assimilare quella subalterna.
Il ~(buon selvaggio», invece, non è un mito; esso esisteoggettivamente:
esiste una felicità selvaggia -- mitissima, contadina, pastorale-- che
ignora scuole e ospedali. Mia madre è vissuta in una Casarsa ancora
selvaggia, e anche io, nella prima parte della mia infanzia, quando si
medicavano !e ferite pisciandoci sopra o si allontanava la tempesta
facendo segnl di croce con una fraschetta di ulivo. Io però ero destinato
a d!venire un piccolo borghese terrorizzato dall'idea della miseria e
dell insuccesso, quindi pavento la mancanza di scuole e ospedali, e di
tutte le altre comodità. Ma sono giunto a un punto della vita in cui la
vita mi appare comunque bella e felice. Gli uomini anonimi, che riem-
piono a milioni le città e le campagne, mi sembrano dei santi.
Ancora alla TV uno scugnizzo napoletano, che m'ha ricordato
i suoi Riccetti, ha detto che non vuole andare a scuola perché
preferisce fare « u mariuolo». E un fatto che può avere la sua
poesia o, forse, può averla avuta; certo, però, che il «popolo»
oggi, non può essere piu rappresentato dai felici «mariuoli».
Il dialetto, il corpo e i « mariuoli » sono molto piú lenti nell'estinguersi che
la storia nel superarli.
Se lei crede ancora nella rivoluzione, ma non come mito poetico
(Che Guevara, mi pare, diceva che il dovere di un rivoluzionario
è «fare» la rivoluzione), lei, personalmente, sente ancora la
volontà di lottare ?
Monologo di un re
Capperi, si cantava a D.,
10 soldati, ufficiali, uomini di governo;
sul mare del nord brillava un'insolita giornata di sole;
avevo vent'anni
e da poco ero Re;
consideravo il Re di Danimarca come mio padre--
o uno dei padri, ché di padri ne abbiamo un esercito:
a vent'anni essi ci guardano con distacco o con odio,
ma sempre con una dissennata voglia d'insegnare -- che cosa poi ?
Adesso ho la loro età;
qui a F. altro che canti militari di gioia !
Altro che banchetti ufficiali per uomini soli
che si ubriacano e si danno manate sulle spalle !
Qui si cantano strane antifone;
e naturalmente sono presenti, di diritto, preti e femmine.
Avevo vent'anni
e avevo ucciso il Mostro;
gliel'avevo fatta
da bravo eroe, come ce ne sono pochi e non lo sanno;
e perciò grandi feste, grandi amori;
il domani toccava a noi,
come se ci fossero chissà quanti altri Mostri da uccidere;
non ce ne furono piú, com'era normale;
quello che avevo vinto, nelle foreste di D., era un caso unico
ma non importa, i nostri petti erano ugualmente pieni
di gioia e di certezza del futuro;
e ora sono qui, la vita se n'è andata
ho l'età di quel vecchio bacucco del Re di Danimarca
che mi aveva chiamato pieno di dolore e di ansia per il suo popolo
(che ci credessi io a qúeste cose va bene, ma lui il vecchio saggio!)
e ascolto le fatali antifone
che non si può proprio dire che siano allegre;
sto morendo,
ma non di morte naturale:
io muoio di ferite:
ho ucciso infatti (alla mia età !) un nuovo Mostro;
sí, pensate, nelle foreste intorno alla mia città, a F.,
si è presentato un Mostro: un secondo caso unico, è evidente;
I'ho affrontato, come quando avevo vent'anni --
cosa dovevo fare ?--e sono riuscto a farlo fuori un'altra volta !
Incredibile: però la vittoria stavolta non me la godo;
non si beve, non si fa bisboccia
non si guarda con gli occhi ubriachi a un lungo domani;
e stata una vittoria infelice:
anche se i Mostri sono stati due, e due le vittorie,
un uomo non gode che una sola vittoria nella vita !
Una nuova reli~ione, lei dice, in Teorema, potrebbe fare una ri-
voluzione: «ma il nuovo tipo di reli~ione che allora nascerà (e
~e ne vedono ~ià nelle nazioni piú avanzate i primi se~ni) non
avrà nulla a che fare con questa merda (scusi la parola) che è il
mondo bor~hese, capitalistico o socialista, in cui viviamo ».
E un futuro da «profezia»?
Chi ama veramente la vita non pensa mai al futuro. Sia chiaro però:
secisi è una volta illusi che nel mondo c'è qualcosa di giusto e qualcosa
di ingiusto, e ci si è poi accorti che giustizia e ingiustizia non sono che
un aspetto--uno dei tanti delle cose--io penso che si debba continuare
a vivere (e a lottare) come se quell'illusione fosse rimasta intatta:
Preghiera su commissione
Ti scrive un figlio che frequenta
la millesima classe delle elementari.
Caro Dio,
è venuto un certo signor Homais a trovarci
dicendo di essere Te:
gli abbiamo creduto:
ma tra noi c'era uno scemo
che non faceva altro che masturbarsi,
notte e giorno, anche esibendosi
davanti a fanti e infanti, ebbene..
Il Signor Homais, caro Dio, Ti riproduceva punto per punto:
aveva un bel vestito di lana scura, col panciotto
una camicia di seta e una cravatta blu;
veniva da Lione o da Colonia, non ricordo bene
E ci parlava sernpre del domani.
Ma tra noi c'era quello scemo che diceva che invece Tu
avevi nome Axel..
12 Tutto questo al Tempo dei Tempi.
Caro Dio
liberaci dal pensiero del domani.
E del Domani che Tu ci hai parlato attraverso M. Homais.
Ma noi ora vogliamo vivere come lo scemo degenerato,
che seguiva il suo Axel
che era anche il Diavolo: era troppo bello per essere solo Te.
Viveva di rendita ma non era previdente.
Era povero ma non era risparmiatore.
Era puro come un angelo ma non era perbene.
Era infelice e sfruttato ma non aveva speranza.
I'idea del potere non ci sarebbe se non ci fosse l'idea del domani;
non solo, ma senza il domani, la coscienza non avrebbe giustificazioni.
Caro Dio, facci vivere come gli uccelli del cielo e i gigli dei campi.
Intervista a cura di Tommaso Anzoino, 1970.
La vocazione letteraria di Pasolini è stata precoce, come del resto tante
vocazioni letterarie; precocissima se, a sette anni appena compiuti, scri-
veva dei versi dove si parlava di « rosignoli » e di « verzura », sebbene, al-
lora, non distinguesse un rosignolo da un fringuello o un pioppo da un ol-
mo. E Pasolini stesso a raccontarlo, nella breve introduzione di se mede-
simo e dei suoi versi al « lettore nuovo » per una recentissima raccolta di
poesie: « Ho cominciato come rigidamente « selettivo " ed " eletto " ».
E un'affermazione che Pasolini fa, e noi accogliamo, con tutte le limita-
zioni del caso; ma anche sappiamo che Pasolini crede a una illogica logica.
per usare un esempio di « sineciosi » (la parola è di Fortini) tanto a lui
cara, molto sotterranea, o sottocarnale, che percorre la sua carriera, in-
cominciata, probabilmente, proprio al tempo dei « rosignoli » e delle « ver-
zure ». Non sarà stata proprio predestinazione, ma molto « selettivo » e
molto « eletto » Pasolini è sempre stato.
Il suo esordio poetico avviene, esclusa ~uella del Contini, senza una
voce di accompagnamento: nessuno di quei clamori che accompagneranno
le successive prove: recensioni a non finire, premi, insulti, applausi, pro-
cessi, apologie, sino agli onori delle battute degli sketch televisivi. Nel 1942
pubblica, a sue spese, presso la Libreria Antiquaria di Bologna, il suo
primo volumetto di versi, Poesie a Casarsa. Sono poesie in dialetto friu-
lano; le ragioni di questa scelta ce le fornisce lui stesso, come farà spes-
sissimo, per ogni altra scelta:
Ora, c'è stato un periodo di quest,a nostra storia in cui l'unica liberta ri-
masta pareva essere la libertà stilistica: il che implicava passività sul fronte
esterno e attività sul fronte interno. Ma non poteva trattarsi che di una libertà
illusoria [...] Tuttavia t...] dotava chi iniziasse il suo apprendistato fra il '30
e il '40--e, in parte, tuttora--del senso di una estrema libertà stilistica:
una lingua fondamentalmente eletta e squisita, classicistica nella sostanza, con
le tangenti però della dilatazione semantica, del pastiche, della pregrammati-
calità pseudo-realista [...] In un simile tipo di lavoro, non si poteva non avere
il senso, inebriante, di essere estremamente liberi: quasi che non ci fosse fine
alla catena delle invenzioni. Era addirittura possibile inventare un intero sistema
linguistico, una lingua privata [...] trovandola magari fisicamente già pronta, e con
quale splendore, nel dialetto (secondo l'esempio, in nuce, del Pascoli) (Passione
e ideologia, pp. 486-87).
In questa apparentemente infinita disponibilità stilistica il dialetto si
poneva come la piú vera, se non l'unica, « realtà »: fisica e spirituale.
Lo stato d'animo del poeta, infatti, era quello « di chi viva--e lo sap-
pia-- in una civiltà giunta a una sua crisi linguistica, al desolato e
violento, je ne sais plus parler rimbaudiano » (La poesia dialettale del
'900 in Passione e ideologia, p. 137); uno stato d'animo che è « no-
stalgia »: nostalgia per un mondo e per una lingua dalla quale, tuttavia
era « distinto »: « una lingua non sua, ma materna, non sua, ma parlata
da coloro che egli amava con dolcezza e violenza, torbidamente e candi-
damente: il suo regresso da una lingua a un'altra--anteriore e infini-
tamente piú pura--era un regresso lungo i gradi dell'essere ~> (ibidem).
Ma questo « regresso ~> non avviene « attraverso le vie psicologicamente
normali del razionale »: è una « reimmersione », per cui « conoscere equi-
valeva ad esprimere », cioè a un atto d'amore filologico, un'adesione « sen-
suale » a parole, suoni che la lingua dialettale offre a una particolarissima
e privata necessità di conoscere.
E scontato, quindi, che un'operazione di questo tipo non possa ap-
prodare a esiti di poesia popolare; né Pasolini lo nasconde: dopo aver de-
finito, « congetturato » come dice lui, la poesia popolare come prodotto
del rapporto tra le due classi sociali, dominante e dominata, borghesia e
popolo, precisa:
Quando esso [rapporto] è iniziativa di un individuo o di un gruppo della classe
super~ore (direzione quindi discendente) il suo risultato sarà sempre una « poesia
culta » che nel contatto o nell'interesse (qualunque questo sia) col mondo
inferiore, assume caratteri o di « maccaronico » [...] o di « squisito ~> [...] Se
invece tale rapporto è iniziativa di un individuo o di un gruppo di individui
della classe inferiore (direzione ascendente) il suo risultato sarà allora precisa-
mente quella che si chiama « poesia popolare » (La poesia popolare italiana,
in Passione e ideologia, p. 170). 15
« Squisita » è, infatti, la sua poesia friulana, poesia di un borghese
colto, infelice, già allora, per esserlo o, meglio, nell'esserlo, perduto nel
recupero sensuale-filologico di un mondo cui nostalgicamente, furiosamente
e dolcemente tende, per conoscerlo e per riconoscersi in esso. Un'opera-
zione, quindi, di « selezione » e di « elezione ~>, anche se il dialetto, dopo
le prime prove, « era diventato esattamente quello parlato a Casarsa e non
un friulano inventato sul Pirona » (un dizionario friulano-italiano) (Intro-
duzione all'ultima antologia delle Poesie, p. 8).
Altra genesi che non sia quella sensuale-filologica non è possibile
trovare, anche se, successivamente, nel già citato saggio sulla poesia dialet-
tale, che risale al '52, Pasolini cercherà di evidenziare le indiscutibili, sul
piano teorico, intenzioni antiaccademiche dell'operazione dialettale, non-
ché anticonservatrici.
La nostalgia per il mondo friulano e, sopratutto, per il dialetto friu-
lano; la nostalgia di un uomo di una civiltà in crisi (filologica) per una
civiltà ancora pura, incorrotta, vergine, è già nell'epigrafe che Pasolini
pone all'inizio delle Poesie a Casarsa: « Ab l'alen tir vas me l'aire /
qu'eu sen venir de Proensa: / tot quant es de lai m'agensa ». L'autore dei
tre versi è il trovatore provenzale Peire Vidal: « Con il respiro tiro verso
di me l'aria / che io sento venire di Provenza: / tutto quanto è di laggiú
mi dà piacere ».
Pasolini non è lontano dalla patria come Peire Vidal, ma si sente
ugualmente esule, escluso dalla sua terra, una terra che è sí « l'incantevole
paesaggio casarsese, [ ... ] una vita rustica, resa epica da una carica accorante
di nostalgia » (Passione e ideologia, p. 137), ma è, sopratutto, un tempo
della vita, un tempo di- felicità, di sensazioni, ormai perduto: « Fontana
di aga dal me país. / A no è aga pi fres-cia che tal me país. / Fontana di
rustic amour ». L'irripetibilità di certe sensazioni (« a no è aga pi fres-cia
che tal me país ») fuori di quel Friuli dal quale il poeta si sente escluso,
è come una dolorosa privazione dalla felicità. La nostalgia per il « rustic
amour », di un amore, cioè, che lui non può provare, lui malato di una
civiltà diversa, deriva dal senso, quasi fisico, dell'esclusione. Sono versi
importanti, che il poeta colloca come dedica alla raccolta: acquistano il
valore emblematico di tutta un'esperienza sentimentale e letteraria.
Il ritorno al Friuli, il processo di conoscenza di quel mondo, non av-
viene, è stato già detto, attraverso le vie del « razionale »: « Jo i soj un
spirt di amour / che al so país al torna di lontan ». Il desiderio di capire
è per il poeta un atto d'amore. E questo sarà un limite insormontabile
per Pasolini: un rapporto di quel tipo, un rapporto sensuale, nell'acce-
zione piú estesa del termine, non potrà che essere parziale, e non solo per
la evidente, obbiettiva « personalità » del rapporto, ma anche, e sopratutto,
per la continua, ineluttabile riduzione dell'esperienza conoscitiva all'esi-
genza, privata, di sfogare un sentimento. Per questo, alla fine, il poeta si
sentirà « tradito » dal suo Friuli: « dopu che tant intòr / di lòur ài spase-
màt / di amòur par capiju, par capí il puòr / lusínt e pens so essi, a si àn
sieràt / cun te i to òmis sot di un sèil nulàt » (« dopo che tanto intorno /
ad essi ho spasimato / di amore per capirli, per capire il povero, / lu-
cente e duro loro essere, si sono chiusi / con te i tuoi uomini sotto un
cielo annuvolato »). La « chiusura » di quel mondo nei confronti del poeta
è come un atto di ingratitudine, il primo di una lunga serie di cui Pasolini
si sentirà vittima. Ma se il Friuli si mostra ingrato di fronte a tanto amore,
accade, forse, perché non ha saputo, o voluto, ridursi al poeta, al mito
del poeta.
Abbiamo anticipato uno dei motivi conclusivi dell'esperienza dialettale-
friulana di Pasolini; ma ci è parso necessario, per chiarire meglio la natura
del rapporto tra il poeta e quella terra. Un rapporto, lo ripetiamo, sen-
suale; lo stesso che lega, misteriosamente, il paesaggio, la natura, alle
creature umane; viventi, tutti, della stessa vita, colta, quasi sempre, nelle
vibrazioni piú sottili e oscure: « Sera imbarlumida, tal fossàl / a cres l'aga
na femina plena / a ciamina pal ciamp. / Jo ti recuardi, Narcís, ti vèvis ii
colòur / da la sera, quand li ciampanis / a súnin di muart » (« Sera lumi-
nosa, nel fosso / cresce l'acqua, una donna incinta / cammina per il
campo. / Io ti ricordo, Narciso, avevi il colore / della sera, quando le
campane / suonano a morto »). Il procedimento analogico, qui particolar-
mente chiaro, tra l'immagine dell'acqua che cresce nel fosso e quella della
donna incinta che « ciamina » nel silenzio del campo, esprime, appunto,
il senso, fisico, della vita che emerge dall'oscurità. Un richiamo, ancora,
se non altro a livello di suggestione, si può fare al Pascoli (Il gelsomino
notturno), dell'influenza del quale si parlerà piú tardi. Nella seconda ter-
zina appare Narciso, il « giovinetto », il primo dei tanti giovinetti della
poesia di Pasolini, simbolo, anche esso, della vita che ha in sé il germe
triste della morte, vestito del colore della sera: quindi cielo, aria, natura
anche esso, di una sera che è presentimento intenerito di morte. Ancora:
il mistero della vita, dell'uomo, della natura, creature d'una stessa sen-
suale vitalità: « Jo i nas / ta l'odòur che la ploja / a suspira tra i pras /
di erba viva [...] I nas / tal spieli da la roja » (« Io nasco / nell'odore
che la pioggia / sospira dai prati / di erba viva [...] Io nasco / nello
specchio della roggia »). La gioia della vita giovane è la stessa della terra,
del cielo: « Rit, tu, zòvin lizèir, / sintínt in tal to cuàrp / la ciera calda
e scura / e il fresc, clar sèil » (« Ridi, tu, giovane leggero, / sentendo nel
tuo corpo / la terra calda e scura / e il fresco, chiaro cielo »). Ma anche
la tristezza, quieta, d'una vita lenta, eternamente uguale: « ma nualtris si
vif, / a si vif quiès e muàrs / como n'aga che a passa / scunussuda enfra
i bars » (« ma noi si vive, si vive / quieti e morti, / come un'acqua che
passa / sconosciuta fra le siepi »). E accanto alla vita, la morte: una pre-
senza sempre vicina, proprio perché « naturale », come per il Nini muàr~
che cresce, innocente, tra il silenzio della vita e della morte: « Il soreli
scur di fun / sot li ramis dai moràrs / al ti brusa e sui cunfins / tu i ti
ciantis, sòul, i muàrs » (« Il sole scuro di fumo, / sotto i rami del gel-
seto, / ti brucia e tu, da solo, sui confini, / canti i morti »). In una
condizione di esistenza in cui vita e morte sono termini sempre presenti,
in una stessa innocenza e inconscienza, si giustificano Li letanís dal bel
fí: « Jo i soj un biel fí, / i plans dut il dí / ti prej, Jesus me, / no
fami murí / [...] .To i soj un biel fí / i rit dut il dí, ! ti prej, Jesus me, /
ah fami murí ». Ma la vita, e la morte, sembrano essere innocenti, dolcis-
18 sime e insieme violente sensazioni quando si è giovinetti, come Narcís
dopo che si è cresciuti, dopo che si è diventati uomini, la vita diventa
inerte dolore, anonimo scorrere di stagioni, sconfortato. Qualcosa, allora
deve esistere, per illuminare, sia pure per un attimo, la « lenta acqua che
scorre tra le siepi », qualcosa che non si può trovare dentro di noi o nella
terra: un Dio, un Cristo che pure ha promesso qualcosa: <~ Pleàisi, zent
cristiana, / a scoltà un fil di vòus, / fra dut chistu sidín, / che al ven ju
da la cròus » (« Piegatevi, gente cristiana, / a sentire un filo di voce, /
fra tutto questo silenzio, / che scende dalla croce »).
Il richiamo alla religione, al Cristianesimo, introduce nel rapporto
poeta-Friuli un primo elemento « oggetíivo », una presenza diversa dal-
l'amore privato; la « regressione » alle buie viscere di quel mondo trova
una realtà, anche, di uomini che vivono una vita « sociale », fatta di inge-
nue speranze: « Vegnerà el vero Cristo, operajo, / a insegnarte a ver veri
sogni ». Il mondo semplice, primitivo, innocente del Friuli incomincia ad
esprimere una coscienza nuova di sé, della sua realtà, che non è piú sol-
tanto « naturale », ma sta diventando « storica », « sociale », o meglio:
protostorica e protosociale. Ma questo processo è sopratutto il riflesso
d'uno sviluppo dell'avventura interiore del poeta che guarda al dolore dei
poveri piú concretamente, anche se i poveri, piú che una « classe », sono
una « natura », una forma di vita innocente: « Lassi in reditàt la me
imàdin / ta la coscientha dai sòrs. / I vuòj vuòiti, i àbith che a nasin / dei
me tamari sudòurs. / Coi todescs no ài vut timòur / de lassà la me dove-
netha. / Viva el coragiu, el dolòur, / e la nothenta dei puarèth! (« Lascio
in eredità la mia immagine / nella coscienza dei ricchi. / Gli occhi vuoti
i vestiti che odorano / dei miei rozzi sudori. / Coi tedeschi non ho avuto
paura / di lasciare la mia giovinezza. / Viva il coraggio, il dolore e l'in-
nocenza dei poveri! »).
Anche la presenza dei ricchi, piú che un fatto sociale, è un fatto~
morale: lo sfruttamento cui sono sottoposti i poveri coincide con la
privazione della libertà di vivere la loro vita di bellezza, di gioventú:
« I siòrs a no i pàJn il timp: / i dis robàs a la belessa / ai nuostris paris
e a nos » (« I ricchi non ci pagano il tempo: / i giorni rubati alla bellezza, l9
/ ai nostri padri e a noi »). Questo allargamento di interessi, da una vi-
sione sensuale-privata del rapporto coI Friuli a una visione piú reale, so-
ciale, corrisponde a uno svolgimento della poetica di Pasolini, comple-
mentare a una nuova, fondamentale esperienza culturale: la « scoperta
di Marx ». Preciseremo questo fatto successivamente, a proposito della
poesia in lingua, coeva di questo dialettale, dove è piú evidente.
Due sono i temi piú frequentemente proposti in quest'ultima poesia
dialettale, e che si ritrovano sopratutto nelle sezioni intitolate Testament
Coran e Romancero: la Resistenza e il problema sociale: « In mieth da
la platha un muàrt / ta na pontha de sanc glath. / Tal paese desert coma
un mar / quatro todéscs a me àn ciapàt / e thigànt rugio a me àn menàt /
ta un camio fer in ta l'umbría. / Dopo tre dis a me àn piciàt / in tal moràr
- de l'osteria » (« In mezzo alla piazza c'era un morto / in una pozza di
sangue agghiacciato. / Nel paese deserto come il mare / quattro tedeschi
mi hanno preso / e gridando rabbiosi mi hanno condotto / su un camion
fermo nell'ombra. / Dopo tre giorni mi hanno impiccato al gelso del-
l'osteria »).
Anche qui un problema politico viene inteso come problema mo-
rale: la libertà è libertà di vivere, di essere felice, di essere giovane
(il « Nini » aveva conosciuto allora la sua prima, dolcissima esperienza
d'amore); l'oppressione è la privazione di questi elementari, primitivi e per-
ciò « puri » diritti; la violenza nazista si accanisce non contro il « pa-
triota », ma contro l'innocente che dal sole è trascinato all'ombra, su un
camion. E la violenza della morte crudele si addolcisce in quel gelso gen-
tile, accanto all'osteria.
Il problema sociale della povertà, dello sfruttamento, dell'emigrazione
cui i contadini friulani sono costretti, si stempera nell'accoramento della
solitudine, dell'attesa sconfortata, dell'incapacità di trovarne le « ragioni »:
« Signòur, i sin bessòj, no ti ni clamis pí! / No ti ni òlmis pí an par an, dí
par dí / [...] Vegneít, trenos, puartàit lontàn la zoventút / a sercià par
il mond chel che cà a è pierdút. / Puartàit, trenos, pal mond a no ridi mai
20 pí / chis-ciu legris fantàs paràs via dal país » (« Signore, siamo soli, non
ci chiami piú! / Non ci guardi piú anno per anno, giorno per giorno! /
[ .... ] Venite, treni, portate lontano la gioventú / a cercare per il mondo cic
che qui è perduto. / Portate, treni, per il mondo a non ridere mai piú /
questi allegri ragazzi scacciati dal paese »). Il richiamo alla croce, al
Cristo operaio tace: Dio è troppo lontano, troppo splendente per le miserie
di questa povera parte di terra. I giovani che stanno per emigrare, che
cantano per soffocare il pianto, che si ubriacano per non capire, sono por-
tati via dal treno, lontano, per il mondo, dove non rideranno piú. La vita
nel Friuli, povera, misera, era pur sempre gioventú; e l'ingiustizia è questo
violento spegnersi dell'innocente, pura gioventú.
Anche nei momenti di piú « obbiettivo » impegno conoscitivo, dunque,
il mito del Friuli è pur sempre presente: la terra della gioventú, della vita
felice, misteriosamente, inconsapevolmente felice; e innocente. Il « regres-
so >~ del poeta è quindi un viaggio nella regione dell'anima, alla ricerca
dell'innocenza perduta. Il poeta, d'una civiltà « superiore », stanca, cor-
rotta, cerca nella purezza di un suo mito il conforto alle sue sofferenze di
uomo in crisi che non vuole conoscere la sua crisi, perché il rifiuto della
razionalità glielo impedisce. Il Friuli che, per conoscere, ha tanto amato,
non gli si rivela che un tempo di sensazioni felici, risentite, forse, col rim-
pianto, ma ancora e sempre sconosciuto: « Dis lusíns coma l'aga, / lumíns
frescs, ta l'umit / co la sera a si dislaga / ta li rojs che a profúmin... / A
è dut finít, dut: / un Friúl che al vif scunussút cu la me zoventút / di là
dal timp, ta un timp / sdrumàt dal vint » (« Giorni lucenti come l'acqua, /
freschi lumicini, nell'umido / della sera che si scioglie / sulle rogge pro-
fumate... / Tutto è finito, tutto: / un Friuli che vive sconosciuto con la
mia gioventú, / al di là del tempo, in un tempo / rovesciato dal vento »)
Dopo la pubblicazione delle prime poesie in friulano, nel '42, Pasolin
incomincia a scriverne anche in italiano; le pubblicherà molto piú tardi.
nel '58, nella raccolta L'usignolo della Chiesa cattolica. L'anno prima
(1957) pubblicherà un'altra raccolta di poesie, Le ceneri di Gramsci,
composte, però, in gran parte, dopo quelle dell'Usignolo.
La prima raccolta appare tutta pervasa da un senso di infelicità, di
scoramento; il mondo friulano riusciva talvolta, con i suoi paesaggi, i
suoi fanciulli innocenti, ad acquetarlo; nella poesia in lingua i paesaggi,
quando ci sono, sono estranei, « oggettivi »: i sentimenti, anche i piú
puri, si corrompono. Come se la « lingua » avesse in sé qualcosa di maligno,
di infetto: l'« orribile statua [...] nel museo degli adulti »: « privo di te
com'è dolce il paesaggio / padano, senza ombre di miraggi! » [...] « Senza
la tua minaccia d'alabastro / rivivrò gli slanci per mia madre, / le sog-
gezioni pel mio grembo, ladro / di tenerezze e gentili vergogne... » Sono
versi del poemetto intitolato Lingua: è una poesia-storia, la storia d'un'espe-
rienza felice, o almeno, piú sincera, alla quale il poeta vorrebbe tornare,
ma che, purtroppo, deve finire. L'abbiamo anticipata, pur non essendo tra
le prime della raccolta, perché ci pare sia qui il nodo della crisi che avvi-
lisce ed estenua il poeta: il desiderio di restare in un mondo privato,
sicuro, materno, e la necessità, dapprima awertita confusamente, poi piú
precisa e autoritaria, di guardare fuori di sé, al mondo degli altri, alla
storia. La fanciullezza che nel Friuli era « natura », senso gioioso della
vita, appena velato dal presentimento della morte, diventa, nelle poesie
in lingua, purezza trepidante sotto la minaccia, la paura, ma anche il
desiderio, del peccato: « Lasciami, o Fatale, / sciogli la delicata / stretta
della tua mano / che m'incanta di male » (Supplica).
Il rapporto, ambiguamente sensuale, innocenza-peccato, ripropone
quello vita-morte de La meglio gioventú; e come questo si risolveva nel
mito d'una natura « sensuale », morbosamente vibrante di sottili sensa-
zioni, cosí quello si colloca nel mito d'una religione, non primitiva, ma
« fanciulla », in cui i confini tra innocenza e peccato si confondono in una
trepidazione di sensi: gioia, sofferenza, angoscia misteriosa. E la stessa
divinità è fanciulla, ambigua: « TURRIS EBURNEA. Seni di avorio, / nidi
22 di gigli, / non v'ha violato / mano di padre. / Fianchi lucenti / di nere
nuvole / non vi fa scuro / la nostra pioggia » (Litania). E ancora: « Cristo
il tuo corpo / di giovinetta / è crocifisso / tra due stranieri. / [...] Battono
i chiodi / e il drappo trema / sopra il Tuo ventre » (La Passione).
~ la religione « sensuale-viscerale » di cui parla il Ferretti, legata a
una esperienza vissuta esclusivamente in sogni, visioni. L'esperienza
dolorosa della vita, patita non nella società, nella storia, ma nella casa
nella famiglia, nella carne, nelle lacerazioni dello spirito, porteranno ii
poeta a una ben diversa « interpretazione » della religione. Da quelle espe-
rienze, dal convincimento della « diversità » e della « unicità » della propria
condizione, dal suo immutato « amore per il mondo », il cristianesimo di
Pasolini trarrà la sostanza eretica, « scandalosa », della sua testimonianza:
« Bisogna esporsi (questo insegna / il povero Cristo inchiodato?) / [...]
Noi staremo offerti sulla croce, / alla gogna, tra le pupille / limpide di
gioia feroce / scoprendo all'ironia le stille / del sangue dal petto ai
ginocchi, / miti, ridicoli, tremando / d'intelletto e passione nel gioco /
del cuore arso dal suo fuoco, / per testimoniare lo scandalo » (Crocifi:s-
sione). Questa vocazione di testimonianza scandalosa sarà la peculiarità
piú duratura del cristianesimo pasoliniano: lo scandalo di una religione-
passione opposta alla religione-autorità della Chiesa cattolica
Ma la professione di disperato amore che viene da quella croce non
basta; l'amore non basta per capire gli uomini. La crisi del distacco dal
mondo fanciullo diventa, gradualmente, questa crisi: all'amore, alla pas-
sione « deve » sostituirsi la ragione. ~ la « scoperta di Marx », come s'inti-
tola l'ultima sezione della raccolta; ma è, sopratutto, la scoperta di Roma
di un mondo diverso, lontano per sempre, dal Friuli-madre: « Fuori dai
tempo è nato / il figlio, e dentro muore. / E ogni giorno affondo / nel
mondo ragionato, / spietata istituzione / degli adulti » (La scoperta di
Marx). La « lingua » e il « tempo » cui aveva tentato, disperatamente
di sottrarsi, impongono, ora, i propri diritti. Ma non c'è nessuna gioia
in questa scoperta: Marx non è che un simbolo freddo di ragione, e Roma
una città straniera, a cui egli è ignoto, provenendo, com'è, da « un'altra
storia ». 2:
Con Le ceneri di Gramsci, pubblicate, come s'è detto, nel 1957,
Pasolini ottiene il primo riconoscimento « ufficiale » per la sua produzione
letteraria: il premio Viareggio. Due anni prima aveva pubblicato Ragazzi
di vita e aveva altresí ottenuto un premio, il Colombi-Guidotti, piuttosto
sconosciuto, almeno ai non addetti e, comunque, passato inascoltato e
inosservato nel clamore del can can sorto, e creato, intorno al romanzo,
e culminato in una denuncia per oscenità. Le poesie raccolte sono quindi,
in gran parte, coeve del romanzo, e si noterà; ma si muovono su di un
piano diverso, almeno apparentemente: testimonianza d'una crisi indi-
viduale-storica le prime; documento ambiziosamente « oggettivo » il
secondo. Alla base della nuova poesia di Pasolini è, prima di tutto, la sco-
perta di Roma, di una Roma fuori dalla tradizione, dalla storia, dalla ci-
viltà: una Roma preumana e subumana:
A Roma dapprima vissi a Piazza Costaguti, vicino al Portico d'Ottavia (il
ghetto! )~ poi andati nel ghetto delle borgate, vicino alla prigione di Rebib-
bia, in una casa restata definitivamente senza tetto (tredicimila lire al mese
di affitto). Per due anni fui un disoccupato disperato, di quelli che finiscono
suicidi poi trovai da insegnare in una scuola privata a Ciampino per venti-
settemi;a lire al mese. Nella casa di Rebibbia, nella fascia delle borgate, ho
cominciato [...] la mia « opera poetica » vera e propria, dalle Ceneri di Gramsci
alla Poesia in forma di rosa (Introduzione al « lettore nuovo », cit.).
Il primo impulso del poeta è quello di « capire », ancora una volta:
capire gli altri per chiarirsi a se stesso. E per capire il nuovo mondo che lo
circonda è necessario che la « memoria » si spenga, consapevole di essere
fuori dalla storia: « ~ necessità il capire / e il fare: il credersi volti / al
meglio, presi da un ardire / sacrilego a scordare i morti... » (L'umile Italia).
La religione e la ragione, la passione e l'ideologia, il vecchio e il nuovo
atteggiamento, a volte separati, e dolorosamente, a volte mescolati in
una superiore, ma « oscura » sintesi d'amore, sono gli strumenti che il
poeta trova, cercandoli dentro e fuori di sé, per « capire ». Perché il
mondo da cui è attirato, il mondo degli esclusi, di quelli che hanno
24 vissuto sinora, incolpevoli, fuori dalla storia, non può essere « sistemato »,
« organizzato >; da un atto di forza raziocinante (ed è questo un motivo
che trover~mo sin nell'« ultimo » Pasolini): il « preumano » ha bisogno
di giustizia, ma di una « sua » giustizia. Il sottoproletariato che cinge
d'assPdio, dalle borgate squallide, la città eterna sembra pronto: « Un
esercito accampato nell'attesa / di farsi cristiano nella cristiana / città,
occupa una marcita distesa / d'erba sozza nell'accesa campagna: / scen-
dere anche egli dentro la borghese / luce spera aspettando una umana //
abitazione, esso, sardo o pugliese, / dentro un porcile il fangoso desco /
in villaggi ciechi tra lucide chiese... » (L'Appennino). La Roma borghese
la Roma del potere, sente, tutt'intorno, questa ansia che sale, minacciosa
pur soltanto nel suo essere: « La jungla delle anime scure / come la
pelle e gli occhi, che / la moderna vita nutre a dure / necessità e bassezze
ormai è / su Roma, la stringe in impure / confusioni, in ciechi smarri-
menti / di stile, come una piena sale / oltre i rotti argini: impotente /
la Roma del potere ne sente, / ancora plebe, l'ansia nazionale » (L'umile
Italia). Parecchi anni piú tardi, nel '68, nella già citata intervista a
Camon, Pasolini nominerà « razzismo » borghese l'atteggiamento della
storia e della civiltà che ha impedito, e impedisce, a quell'« ansia nazio-
nale » di realizzarsi. E le responsabilità non sarebbero soltanto dei borghesi
che, quando lui parlava di quel sottoproletariato, lo « avrebbero voluto
mettere in prigione »; ma dei comunisti, « che mi ridevano in faccia »
degli Asor Rosa, « borghesi comunisti » che lo « analizzavano come spie di
un Comitato Rivoluzionario ». E diciamo questo non per riattizzare delle
polemiche, il che non avrebbe piú senso, ma perché ci sembra necessario
tenerlo presente per comprendere certe poesie delle Ceneri di Gramsci
e, sopratutto, I'accanimento doloroso con cui Pasolini si rivolge a quel
mondo, escluso da « tutti » gli altri, sobbarcandosi l'ingrato compito di
« conoscerlo » ed « esprimerlo ».
Il poemetto che da il titolo alla raccolta risale al 1954 e rappresenta,
senza dubbio, il tentativo piú completo che il poeta compie per chiarire
a se stesso la propria crisi. Ma non per uscirne. E il rifiuto, pur sempre
legittimo, di uscire da una crisi non si motiva in Pasolini unicamente per
una « delusione ideologica » o per una sovrabbondanza di « passione », ma
anche per una scelta di poetica. Rispondendo, nel 1962, a una inchiesta
di « Nuovi Argomenti », Sette domande sulla poesia, cosí scriveva Paso-
lini: « Nella storia nostra--e nella specie mia--/ non la poesia è in
crisi, ma la crisi è in poesia ». Risolvere, e positivamente, una crisi signi-
ficherebbe « sistemare » e, quindi, « finire » una realtà, in noi o fuori di
noi; significherebbe (anche a non voler prendere alla lettera quel distico)
inacidire il lievito della poesia; di qui, anche, l'avversione passionale di
Pasolini per tutto ciò che è dottrina, sistema, organizzazione.
L'incontro con Gramsci, con le sue povere ceneri, avviene nel Cimitero
degli Inglesi, in una triste giornata di maggio, di « impuria aria », abba-
gliata di « cieche schiarite », sotto « un cielo di bava ». In questa atmo-
sfera pesante, grigia, sparsa di « una mortale pace » appare la piccola
tomba: « Uno straccetto rosso, come quello / arrotolato al collo ai
partigiani / e, presso l'urna, sul terreno cereo, // diversamente rossi,
due gerani. / Lí tu stai, bandito e con dura eleganza / non cattolica,
elencato tra estranei // morti: Le ceneri di Gramsci... Tra speranza / e
vecchia sfiducia, ti accosto, capitato / per caso in questa magra serra... »
Intorno, le tombe aristocratiche, borghesi; piú lontano, il fragore sordo
« del dimesso rione » che lavora, in violenta contrapposizione. E il poeta,
nel suo povero, umano tormento « del mantenermi in vita »; nel suo
tormento piú grande, « immedicabile », per usare un aggettivo a lui caro,
del borghese che ama e odia il suo mondo; che vede la profonda divisione
che Gramsci ha indicato « e ora, scisso /--con te--il mondo... », e
non sceglie; che in questa non volontà trova la ragione della propria
« sussistenza ». ~ l'affermazione del proprio « scandalo »: « Lo scandalo
di contraddirmi, dell'essere / con te e contro di te; con te nel cuore, /
in luce, contro te nelle buie viscere ». La contraddizione dolorosa che è
il nodo della crisi non può sciogliersi: l'adesione a Gramsci nella « luce »
dell'intelligenza acuisce, nello stesso tempo, il distacco da lui: « attratto
da una vita proletaria / a te anteriore, è per me religione // la sua allegria,
26 non la millenaria / sua lotta: la sua natura, non la sua coscienza... »
L'« eresia » del poeta trova qui la sua piú lucida denuncia: la « vita
proletaria » che lo « attrae » non è quella della « classe » operaia, o
contadina, « organizzata » nella lotta e nella coscienza; è la vita senza
coscienza se non di essere: « quella vita non è che un brivido, // corporea,
collettiva presenza; / senti il mancare di ogni religione / vera; non vita,
ma sopravvivenza //--forse piú lieta della vita--come / d'un popolo
di animali, nel cui arcano / orgasmo non ci sia altra passione // che per
l'operare quotidiano: / umile fervore cui dà un senso di festa / l'umile
corruzione. » In nome di che cosa « Mi chiederai tu, morto disadorno, /
d'abbandonare questa disperata / passione di essere nel mondo? » La
« ragione » non è un'alternativa: non c'è alternativa. Per questo il dramma
del poeta è un « dramma irrisolto ».
Il tentativo di dare una dimensione storica al proprio dramma indi-
viduale è visibile anche ne Le ceneri di Gramsci, quando si denuncia
drammaticamente, l'incapacità dell'« ideologia », anche marxista, di cono-
scere la « natura » del « millenario » popolo; nei limiti, evidentemente
in cui un « mito » riesce a storicizzarsi. La « insufl~cienza » ideologica
di Pasolini, sulla quale tutti, o quasi, sono d'accordo, non è tanto una
mancanza di chiarezza teorica e pratica, quanto una resistenza della vo-
lontà, della coscienza a violare il « rispetto » che si deve all'autonomia
dell'uomo, del popolo, intesi al piú basso livello esistenziale, extrasocio-
logico. :~ una linea che Pasolini porterà avanti sempre, fino ad oggi, con
tale intransigenza da qualificarsi come una sorta di dommatismo morale.
Quanto, poi, al tentativo di storicizzare la sua crisi, questo processo
va inteso in un senso tutto particolare: non tanto il poeta riesce a ogget-
tivare nella storia il suo « scandalo », la sua « eresia »- quanto, piuttosto
dalla storia accoglie dei fatti, delle lezioni dalle quali il suo dramma,
ancorché pacificarsi e risolversi, si sostanzia di nuovo dolore e di nuova
« storicità ». i~ il caso dei tre maggiori poemetti, successivi a Le ceneri
di Gramsci: Il pianto della scavatrice, Una polemica in versi e La terra
di lavoro. Sono tutti del 1956, un anno cruciale della storia del mondo e
in particolare, del mondo comunista: l'anno del XX Congresso del PCUS
e della rivolta d'Ungheria: l'anno della « speranza » e della « sconfitta ».
Il pianto della scavatrice, tuttavia, non è un canto di speranza o alla
speranza; ma il canto della inadattabilità del poeta ad accedere a una
speranza che venga da fuori del suo mondo e del suo mito: « Ecco, se
acceso / alla speranza--che, vecchio leone / puzzolente di vodka, dal-
l'offesa // sua Russia giura Krusciov al mondo -- / ecco che tu ti
accorgi che sogni. [...] Anzi, quel nuovo soffio di vento // ti ricaccia
indietro dove / ogni vento cade: e lí, tumore / che si ricrea, ritrovi //
il vecchio crogiolo d'amore, / il senso, lo spavento, la gioia ». i~ l'insor-
gere, sempre, del sentimento, quel sentimento che lo fa vergognare di
non poter essere « al punto in cui il mondo si rinnova », di non potersi
accordare col mondo; quel sentimento che lo richiama indietro, al « vecchio
crogiolo d'amore » in cui si consuma e si rinnova la disperata comunione
col « suo » mondo escluso dalla storia.
Eppure, in quei mesi, nell'« esilio » di Rebibbia, egli s'era sentito
come rinascere. Aveva incominciato a conoscere il mondo divenuto « sog-
getto / non piú di mistero ma di storia », vivendo nelle vive esperienze
« di Marx o Gobetti, Gramsci o Croce ». I pochi amici che andavano
a trovarlo « mi videro dentro una luce viva: / mite, violento rivoluzio-
nario // nel cuore e nella lingua. Un uomo fioriva. » Ma era stato non
piú che un passeggero « eroico furore », una vampata di giovanile entu-
siasmo. Il poeta, vecchio della sua mancanza di speranza, guarda, di nuovo
angosciato, la scavatrice che distrugge urlando « ciò che era / area erbosa,
aperto spiazzo » e che sarà « cortile, bianco come cera / chiuso in un
decoro che è rancore [...] in un ordine che è spento dolore ».
Non c'è polemica contro il progresso che distrugge la « natura»,
tema, peraltro, assai poco « eletto »; né d'altra parte, come osserva il
Fortini, un atteggiamento possibilista del poeta al riformismo; ma solo
l'accoramento, razionalmente immotivabile, per « ciò che muta, anche /
per farsi migliore »: l'atteggiamento di chi non riesce ad accedere a una
speranza « oggettiva ». Per questo guarda angosciato gli operai che innal-
28 zano « il loro rosso straccio di speranza ».
Una polemica in versi si distingue tra gli altri poemetti per un piú
preciso obbiettivo polemico e per una piú marcata impostazione « ideo-
logica ». Il tempo morale della poesia è quello dei tragici fatti d'Ungheria-
all'amico comunista awilito, confuso, « perduto », addita « le rosse ban-
diere [...] cascare t...] senza vento ». S'è compiuto il tradimento del
popolo, e l'errore è stato commesso dai capi, dai « politici », dai « tatti-
cisti », dal « prospettivismo » letterario: a vi siete assuefatti, / voi, servi
della giustizia, leve // della speranza, ai necessari atti / che umiliano il
cuore e la coscienza. / Al voluto tacere, al calcolato // parlare, al deni-
grare senza / odio, all'esaltare senza amore; / alla brutalità della pru-
denza // e all'ipocrisia del clamore. / Avete, accecati dal fare, servito /
il popolo non nel suo cuore // ma nella sua bandiera ». Gli uomini del-
l'idea hanno voluto guidare il popolo, che è odio e amore, « senza odio »
e « senza amore »: non hanno saputo conoscerlo; e lo hanno servito in
ciò che esso non capiva e non chiedeva.
La polemica, meno violenta nelle parole, ma non nel sentimento, si
allarga ad « altri compagni di strada » che « ossessi » dalla paura di essere
ciò che furono, chiedono « il mistico rigore d'un'azione / sempre pari
all'idea ». Non è questo che egli chiede: « ~ all'errore / che io vi spingo,
al religioso / errore ». ~ il richiamo all'« eresia », il richiamo che con-
tinuerà a ripetere, nei momenti di maggior impegno « civile », sino
ad oggi.
I1 poemetto si conclude con la descrizione della triste festa popolare:
i ragazzi « dentro i panni festivi » pazzi di gioia nella loro « generosità
senza pudore »; gli uomini, ubriachi, con le famiglie, intorno alla sporta
della merenda; i « giovincelli pugili » in mezzo al pubblico, ironico e cat-
tivo, allegro e infido. Ma è un'atmosfera ambigua, sovrastata, « non sai »
se da « piú intenso dolore » o da « piú intenso amore ». Tutto, a poco
a poco, diventa falso, innaturale, smarrendosi in una infinita mestizia
senza perché. Sulla « sfiorita festa » aleggia, alla fine, « tanta malinconia ».
E in questo un po' troppo dolce sentimento in cui si diluisce « la vita », si
smorzano, senza piú vento, anche la passione e l'ira del poeta.
La terra di lavoro, l'ultimo componimento della raccolta, segna l'ap-
prodo del poeta a una desolata verità: la delusione patita non può che
riportare alla « vecchia passione », al « paradiso terrestre »; ma infecondi
entrambi, perché chiusi, ormai, a quel mondo che tanto aveva amato.
Come il Friuli, un tempo, ma con in piú una consapevolezza nuova. Quei
poveri che viaggiano, tristi, squallidi, abbandonati, nel treno che attra-
versa la terra di lavoro, che « con una vita di altri secoli, sono / vivi in
questo », e che, tuttavia, per un momento, avevano veduto « una pura /
ombra che già prendeva nome / di speranza », « la luce del riscatto »,
sono stati rinchiusi nel ghetto, fuori della storia. E colpevoli sono tutti
guelli che vivono nella storia: « Gli è nemico chi straccia la bandiera /
ormai rossa di assassini; // e gli è nemico chi, fedele, / dai bianchi
assassini la difende. / Gli è nemico il padrone che spera // la loro resa,
e il compagno che pretende / che lottino in una fede che ormai è
negazione / della fede ». E, insieme agli altri, impotentemente colpevole,
è anche il poeta: « e anche la tua pietà gli è nemica ».
Non a torto la critica ha considerato Le ceneri di Gramsci la piú
significativa delle opere di Pasolini. La crisi che il poeta ha lucidamente
¨~hiarito a se stesso rimarrà come motivo di fondo di tutta la produzione,
in versi e in prosa, successiva: ora sotterraneo, ora in primo piano; ora
ricondotto a personale e privata esperienza, ora dilatato a lacerante con-
dizione del mondo. In questa raccolta Pasolini è riuscito eflfettivamente a
concretizzare, in poesia, in linguaggio, un'esperienza sentimentale e cultu-
rale per certi aspetti privilegiata. Nell'Usignolo della Chiesa cattolica i
miti privati si traducevano in una lingua a volte preziosa, ricercata; a
volte idilliaca, intenerita; a volte anche volutamente prosaica. Ma sempre
disancorata da una realtà che non fosse quella morbosamente sensuale
dei sogni e delle visioni. Di qui la sovrabbondanza dei procedimenti
analogici, il continuo ricorso alle immagini, alle comparazioni, sotto l'in-
fluenza, anche, del Pascoli, che si riscontra pure in certe strutture metriche.
Il discorso si fa piú concreto verso la fine, con la « scoperta di Marx », di
30 Roma, della realtà.
Nelle Ceneri di Gramsci queste scoperte sono la condizione e la
determinazione del nuovo linguaggio. E Pasolini stesso a confermarcelo:
La stessa passione che ci aveva fatto adottare con violenza faziosa e ingenua
le istituzioni stilistiche che imponevano libere esperimentazioni inventive, ci fa
ora adottare una problematica morale, per cui il mondo che era stato, prima,
pura fonte di sensazioni espresse attraverso una raziocinante e squisita irrazio-
nalità, è divenuto, ora, oggetto di conoscenza se non filosofica, ideologica: e
impone, dunque, esperimentazioni stilistiche di tipo radicalmente nuovo (Pas-
sione e ideologia, p. 488).
Questo nuovo « sperimentalismo », proprio per il diverso tipo di
impegno che lo sollecita, conduce il poeta al rifiuto d'una poesia « libera »
d'inventarsi e di un linguaggio altrettanto libero: « la lingua che era
stata "portata tutta al livello della poesia" tende ad essere aabbassata
tutta al livello della prosa", ossia del razionale, del logico, dello storico
con l'implicazione di una ricerca stilistica esattamente opposta a quella
precedente. Ne deriva una, probabilmente imprevista, riadozione di modi
stilistici prenovecenteschi, o tradizionali nel senso corrente del termine,
in quanto rientrati ormai naturalmente nei confini del linguaggio razionale,
logico, storico, se non addirittura strumentale » (ibidem, p. 489).
Per questo ritorno alla « tradizione » sono stati fatti i nomi di Car-
ducci e, principalmente, di Pascoli (rinviamo, per questi aspetti, alle
illuminanti analisi di Ferretti, Asor Rosa, Bàrberi Squarotti); si potrebbe
anche fare il nome di Leopardi, dell'ultimo, ovviamente. I1 passaggio dalla
poesia lirica al poema epico-lirico avviene, infatti, sotto il segno di un
illuminismo poetico attento, con un rigore insospettabile in Pasolini, a
realizzare nella concretezza del linguaggio la logica interna al pensiero,
al sentimento. L'esito piú alto di questa poesia, infatti, è quello di aver
razionalizzato, e quindi concretizzato, e quindi, anche storicizzato, una
crisi che muoveva da troppo volutamente oscure origini.
Questo ci interessa sopratutto mettere in evidenza: una coerenza, che
non potrà certo essere irreprensibile, come tutte le coerenze in poesia, tra
poetica e poesia. Un'analisi approfondita nei dettagli qualitativi di questa
coerenza, porterà sicuramente a giudizi di « valore » non sempre positivi;
ma questo potrebbe anche non interessare troppo, a meno di non fare del
« valore poetico » un canone mitico.
« L'ho già detto tante volte, in tante interviste [...]: ciò che mi ha spinto
a essere comunista è stata una lotta di braccianti friulani contro i lati-
fondisti, subito dopo la guerra (I giorni del Lodo De Gasperi doveva
essere il titolo del mio primo romanzo, pubblicato poi nel 1962 col titolo
Il sogno di una cosa). Io fui coi braccianti. Poi lessi Marx e Gramsci »
(Al lettore nuovo, p. 10).
Il primo romanzo di Pasolini, dunque, nasce sotto l'impulso di una
precisa esperienza storico-sociale, nel '48-'49, alla conclusione, o quasi, del
movimento neorealista. E del romanzo neorealista ci sono alcuni ingre-
dienti: l'ambiente popolare-contadino, il motivo sociale, la denuncia mo-
rale; la fiammella conclusiva della speranza: « il sogno di una cosa ».
E, ancora, il linguaggio: concreto, realistico, impostato molto frequente-
mente sul dialogo, sulle descrizioni minuziose, senza particolari « inven-
zioni » (ma non che nel neorealismo non ve ne siano). Ma accanto, o sotto,
tutto questo c'è il Friuli; non il Friuli-Provenza del letterato nostalgico,
ma il Friuli mitologico-popolare pure cantato ne La meglio gioventú. Il
motivo centrale del romanzo, il « nucleo lirico », infatti, non è il « lodo
De Gasperi », un provvedimento inteso a risolvere il problema della
disoccupazione bracciantile, ma la casa dei Faedis, la famiglia patriarcale
che coagula intorno a sé tutte, o quasi, le azioni del romanzo. I Faedis
sono contadini proprietari, cattolici osservanti: le loro ragazze vanno dalle
monache ad aiutarle a tenere l'asilo; le donne vanno ogni sera alla « fun-
zione »; il capo famiglia pensa che « i comunisti sono tutti delinquenti,
gente che non ha voglia di lavorare! »; ma ugualmente ospita i giovani
32 col fazzoletto rosso al collo, dopo le dimostrazioni. D'altra parte religione-
chiesa e comunismo sono realtà che convivono senza problemi e senza
nemmeno rispettosi formalismi: nella sede del Partito, alla parete, è
appeso il crocifisso accanto al ritratto di Stalin; e Nini, uno dei giovani
comunisti, troverà lavoro con la raccomandazione del pievano. Non c'è
alcun riflesso, in questo, di certi atteggiamenti cristiano-marxisti di Paso-
lini, che, peraltro, devono ancora maturare: è una « qualità » dell'anima
popolare che il poeta rinviene nel suo Friuli. Ed è, comunque, un aspetto
marginale.
La casa dei Faedis, e molto spesso la stalla, infatti, è il luogo in cui
si radunano e si esprimono le « qualità » di quella gente: le chiacchiere
delle donne, i silenzi brontolosi degli uomini, i rossori improvvisi delle
ragazze, le innocenti protervie dei fanciulli; e poi il vino, le canzoni
gridate nell'ubriacatura, le amicizie dei giovani, il lavoro dei campi, le
tirchierie, il vestito nuovo una volta all'anno. In disparte, quasi schiac-
ciata sotto il peso di questa vitalità esuberante, Cecilia, la ragazza che
dimostra meno anni di quanti ne ha, col viso « di agnellino », sempre
silenziosa, vergognosa, che sente, sbigottita, nascere dentro di sé l'amore
per Nini, e piange, quando le cugine e le amiche, piú sfrontate, alludono
al suo « moroso ». Cecilia è uno dei pochi personaggi femminili di Pasolini,
ma la sua femminilità non è sesso: è la dolcezza del volto, il languore puro
degli occhi; sono le paure misteriose, i fremiti angosciosi di tanti « giova-
netti » delle poesie friulane e della prima poesia in lingua. La disperazione
di non poter essere donna (Nini si è sposato con un'altra) si risolverà,
silenziosamente, innocentemente, in un convento. ~ il mito della fanciul-
lezza « vittima incolpevole »; come in Eligio, il « compagno » di Nini
che vive la sua breve vita spegnendosi a poco a poco. La giovinezza si
consuma con la sua allegria. L'allegria delle feste paesane, delle bevute.
delle canzoni; l'allegria violenta del « loro » impegno politico, del « loro »
comunismo: « E correndo si lanciavano grida quasi allegre, perché il riu-
scile a sfuggire era un successo sui poliziotti »; « Allora [...] i ragazzi
per non voler darsi vinti, cominciarono a cantare anche loro, a tutta forza
con le voci che si perdevano nel silenzio dei campi freddi e verdini:
~Avanti popolo, alla riscossa, bandiera rossa, bandiera rossa...» »; l'allegria
della vita stessa, per povera che sia, l'allegria « naturale » di Eligio, figlio
del popolo, si consuma nella fame patita in Jugoslavia, dov'era andato per
trovare lavoro e da dove era tornato deluso e malato; nello spietato lavoro
alla cava, patito con sorridente semplicità, per spegnersi nella morte,
all'ospedale, ormai finita, distrutta. Una morte che assume il significato
d'un martirio, la testimonianza d'una « cosa » che la gioventú, e il popolo,
hanno dentro ma non sanno esprimere:
Stette a guardarlo per qualche tempo fissamente: pareva che qualcosa come
un sorriso nascesse in fondo ai suoi occhi spenti. Puntò ad un tratto un dito
verso il Nini, ma il braccio gli ricadde subito, mentre nuovamente diceva, ge-
mendo, delle parole senza senso. « Una cosa », pareva dicesse, « una cosa! ».
E accennava, come ammiccando, a qualcosa che sapevano bene lui e il Nini e
Milio. Ma non parlava, non riusciva a dire che cosa fosse. Ce l'aveva negli occhi.
Non sarebbe riuscito a dirlo nemmeno quand'era forte e pieno di vita, figurarsi
se riusciva a dirlo adesso che stava morendo » (p. 213).
Non è dimcile cogliere nella vicenda di Eligio spunti che saranno poi,
con ben altra « epicità », sviluppati ne Le ceneri di Gramsci e, in maniera
ancora diversa, nei romanzi successivi.
Come a una « mitologia popolare », ma di tipo diverso, populistico,
si devono ricondurre i due capitoli in cui è descritta la lotta per il « lodo
De Gasperi ». La lotta è quasi una festa: « allegria ». I ragazzi ne sono
i protagonisti, naturalmente, perché i ragazzi sono la figurazione del
popolo, giovane, appunto, per natura. E insieme ai ragazzi, la bandiera:
Livio [...] fece due passi verso la parete opposta, dove, dietro l'armadio,
stava appoggiata la bandiera, e ridendo la tirò fuori di tra i calcinacci e la
srotolò. « Domani sventolerai in testa alle Avanguardie di San Giovanni », disse.
« Auguri! ». Gli altri risero divertiti alle sue parole. « Domani », continuò un
adolescente di Braida, afferrandola, « ti metteremo sotto il naso dei Pitotti e
degli Spilimbergo ». « Che sentano bene di che cosa sai! », gridò Onorino, e la
scosse forte per un lembo: la bandiera si spiegò del tutto e quasi ricoperse le
teste di quelli che erano accanto. « Evviva la nostra bella bandiera », gridò
Eligio, cominciando ad agitarla allegramente (pp. 93-94).
Appare evidente la fondamentale retoricità e della scena e delle parole
che si pronunziano, come avviene nel migliore, o peggiore, populismo e
neorealismo, e che scade, a volte, a livello di vera e propria puerilità:
« Ma non c'era niente da fare, quel giorno, con la forza del popolo »
(manca solo il punto esclamativo) (p. 127). « "A domani!" gli gridò dietro
Eligio. Poi ognuno pedalò verso casa sua, col cuore leggero per la bella
vittoria » (p. 129).
Il giorno successivo alla « bella vittoria » la polizia e l'esercito riescono
a disperdere i dimostranti: è la sconfitta. Ma c'è la casa dei Faedis ad
accogliere i giovani coi fazzoletti rossi al collo; e in quella casa, col vino,
le chiacchiere, le ragazze, la « festa » dei giovani continua. E tornando
a casa, allegri, sentono d'aver vinto ugualmente, perché sono sfuggiti alla
polizia, e perché possono cantare ancora Bandiera rossa.
Tutto questo, se proprio lo si vuole etichettare, è neorealismo; ma
non basta per fare de Il sogno di una cosa un romanzo neorealista. I miti
privati del poeta: il Friuli, la gioventú, non riescono, per quanto Pasolini
si impegni, a storicizzarsi. Non che nel neorealismo manchino « miti » e
« idilli » e « lirismi »; anzi: sono queste le sue piú evidenti « qualità ».
Ma è che nel neorealismo la mitizzazione, in genere, segue, o si accompagna,
a una presa di coscienza, confusa, nebulosa ecc. della realtà, e di una realtà
politico-sociale « specifica »; nel romanzo di Pasolini, invece i miti sono
pre-esistenti alla realtà, a quella realtà: sono miti della memoria.
Si è già detto dell'importanza fondamentale che ha avuto per Pasolini
il trasferimento a Roma. Lo vogliamo ribadire con le sue stesse parole:
« Roma nella mia narrativa ha quella fondamentale importanza [...] in
quanto "violento trauma e violenta carica di vitalità", cioè esperienza di
un mondo e quindi in un certo seno ' del " mondo » (« La Fiera lettera- 35
ria », 30 giugno 1957). L'ambiguità di quell'attenuazione « in un cerro
senso » può confondere. Potrebbe far intendere, per esempio, che il popolo
della periferia, delle borgate è « il >~ popolo; ma è un'affermazione che
non regge: la maggior parte dei critici, da Salinari a Ferretti ad Asor Rosa,
l'hanno destituita di valore. Al massimo sarà il « popolo » della mitologia
pasoliniana. E non riesce difficile convincersene. Ma dalla lettura delle
Ceneri di Gramsci, sopratutto, abbiamo tratto la convinzione che per
Pasolini esiste un mondo, un popolo, che vive fuori dalla storia perché
dalla storia è stato escluso, e non solo dalla borghesia, ma anche da quelli
che vivono e lottano per il popolo. Il ghetto si è richiuso: né il calcolo
borghese, né il razionalismo marxista possono riaprirlo. Vi si può entrare
solo con l'amore; e una volta entrato, il poeta, fattane esperienza, può fare
l'esperienza « del » mondo, la dolorosa esperienza del mondo. Ed è un dolore
tutto suo, ché lui solo, e non quelli del ghetto, possono averne coscienza
Questa la « passione » di Pasolini nel periodo in cui scrive Ragazzi di vita,
e non solo in quel periodo, come abbiamo visto. E questa 1'« ideologia »:
Per far parlare le cose, bisogna ricorrere a una operazione regressiva: infatti
le « cose »--e gli uomini che ci vivono immersi, sia proletari, nelle « cose »
intese come lavoro, lotta per la vita, sia borghesi, nelle « cose » intese come
totalità e compattezza di un livello culturale--si trovano a dietro » allo scrit-
tore.filosofo, allo scrittore-ideologo. Tale operazione regressiva si traduce quindi
in una operazione mimetica (dato che i personaggi usano un « altro » linguaggio,
rispetto a quello dello scrittore, atto a esprimere un « altro » mondo psicolo-
gico e culturale). L'operazione mimetica è poi l'operazione che richiede le piú
abili e accanite ricerche stilistiche (data la necessaria contaminazione di lin-
guaggi, quello del narratore e quello del personaggio, lingua e dialetto ecc.).
Sicché risponderei, in conclusione: bisogna, certo, lasciar parlare, fisicamente, im-
mediatamente le cose: ma per « lasciar parlare le cose », occorre « essere scrit-
tori, e anche perfino vistosamente scrittori » (« Nuovi Argomenti », 1957).
Una teoria che, appunto teoricamente, appare ineccepibile; meno,
forse, poco dopo, quando ne riassume, un po' sumcientemente, la so-
stanza: ~ La lingua non è che un mezzo [...] se il personaggio e l'ambiente
36 scelti sono popolari, il romanziere usi o totalmente o parzialmente il
dialetto, se il personaggio e l'ambiente scelti sono borghesi, il romanziere
usi la koiné: vedrà che non sbaglia ».
L'« operazione mimetica » cui Pasolini ricorre, da « vistoso scrittore »,
si dispone a tre livelli di lingua: il dialetto, la « contaminazione », la
lingua sua, la koiné. Il ricorso al dialetto, a differenza del friulano, lingua
materna, affettiva, sensuale, è qui una necessità « scientifica », di poetica.
Piú o meno scientifica ne sarà stata l'esperienza, l'acquisizione, con o
senza registratore; altrettale la riduzione del vasto dialetto romanesco al
gergo di borgata. Già questa operazione, tutt'altro che quantitativa, può
convincere della ingenua velleità (ammesso che Pasolini l'abbia mai avuta)
di fare di quel popolo « il » popolo. Anzi, proprio questa riduzione al
gergo, al di là della necessità della mimesi, vuole sottolineare la riduzione
al ghetto, l'esclusione dalla Roma « civile ». Né dovrebbe sorprendere
l'obbiettiva esiguità lessicale di quel gergo (non piú di centoventi voci
registrate nel vocabolarietto, a fine libro) e in gran parte riconducibili
a tre motivi: il sesso, il denaro, il movimento. Se il popolo, quel popolo,
è « natura », « pura fisicità », l'espressione non si realizza che a signifi-
carne gli elementari bisogni e istinti. A questo si aggiunga il frequentissimo
usi di costrutti brachilogici del tipo dei famigerati « li mortacci »,
« vaffan... » e « fijo de na mignotta » che si adattano, proprio per la loro
polisemanticità, a qualunque occasione e a risolvere qualunque situazione.
L'insistenza può essere fastidiosa (a un certo punto anche un cagnolino
è un « fijo de... »), ma « scientificamente » la si deve registrare. Senza
considerare per forza che quel linguaggio è fastidioso perché quel mondo
è fastidioso.
Ma il filologo Pasolini, a un certo punto, com'è suo costume, si ap-
passiona a quel gergo e cosi per puro, questa volta, amore di filologia,
sembra volerci informare che, per esempio, « prostituta » in quel gergo
si può dire in quattro o cinque modi. Tanta disponibilità di sinonimi
potrebbe, anche, essere tipico di quei ragazzi di vita; ma stupisce, di contro,
la « univocità » per significare altre cose. Cosí come non riusciamo a
spiegarci, se non, appunto, con il puro interesse filologico, per esempio,
questo passo: « fece il Riccetto schioccando con la bocca. "Ih li zeeeeppi",
fece poi, guardando sull'acqua, "li zeeeeppi! » Sul pelo della corrente
passavano un po' di rottami, una cassetta fraccica e un orinale » (p. 11).
« Zeppi », c'informa l'autore, vuol dire « stecchi »; e di stecchi un fiume
ne trasporta tanti, certo molto di piú che non rottami, cassette « fracciche »
e, sopratutto, orinali; il Riccetto, inoltre, non andava proprio in cerca di
uno « zeppo ». Evidentemente deve essere una parola « interessante ».
Si veda, ancora: « poi, dopo un po', ciondolando pieni di fiacca, s'alzarono
e come un branco di pecore si spostarono, su verso lo spiazzo di sabbia
sotto la cannofiena, davanti al galleggiante » (p. 17).
In un contesto in lingua, tutt'altro che insidiato da urgenze dialettali,
si stacca, con studiata evidenza, la ~ cannofiena », cioè l'altalena. ~ un
esempio, anche, di quella « contaminazione » tra dialetto e lingua che è
senz'altro l'artificio piú usato nel romanzo e, anche per questo, il piú
rischioso. Si veda quest'altro « pezzo »:
« An vedi questi! », gridò per esempio il Caciotta squadrandosi una donna
bella alta con un sedere cfie non finiva mai, che veniva giú assieme a un bas-
setto quattr'occhi: quando gli passarono davanti struscinandoli il Riccetto e il
Caciotta ghignando e piegandosi fin quasi a toccar terra con le froce del naso,
cominciarono a fare « Pffff, pffff », sputacchiando come due caccavelle. Il
quattrocchi si voltò di trequarti: e quelli allora chi li resse piú?, guardandosi
negli occhi e piegandosi come pupazzi, sbottarono a sganassare a callara. « Che
fforza! », gridava il Caciotta. Ma una madama veniva proprio diretta verso di
loro, e allora loro, taja!, partirono di corsa, tutti allegri, su verso Villa Bor-
ghese... (pp. 71-72).
i~ un pezzo di bravura, a vari livelli di lingua: volgare, gergo di
borgata, gergo piú comune (« quattrocchi », « madama »); c'è persino
l'onomatopea. Un altro pezzo di bravura, ma questa volta tutto in dialetto,
è il racconto di Caciotta dell'avventura col « cocommeraro » (pp. 89-90).
Una « trovata », a meno di occultatissimi significati allegorici, è la zuffa
dei cani (pp. 190-91 ) che mentre si guardano furiosi o si azzannano,
38 « pensano » con le parole dei ragazzi di vita, cui appartengono.
Se è facile giustificare il gergo nei dialoghi, e non solo nei dialoghi,
la qual cosa risponde a una scelta di poetica, non è altrettanto facile
giustificare e giudicare la « contaminazione », che soddisfa piuttosto a
esigenze di gusto e di invenzione. Il rapporto lingua-società che si risolve
nel dialetto, non si può porre con altrettale precisione a proposito della
« contaminazione »: lí c'è una « mimesi » che è trascrizione, o quasi
qui una intersecazione di livelli linguistici di cui è impossibile individuare
i riferimenti.
Possibile, invece, è individuare la funzione della « lingua », quella dello
scrittore. Dovrebbe consentirgli di emergere dal mare della fisicità del
gergo e del dialetto e collocare la materia alla giusta distanza. A parte
i passi che obbediscono alla necessità di portare avanti la narrazione nei
luoghi per cosí dire neutri, in genere la lingua è adoperata (come il dia-
letto su altri) su tre motivi principalmente: il paesaggio, l'umorismo e la
tenerezza. Il primo certamente piú « oggettivo » degli altri.
Il paesaggio cittadino è, quasi sempre, la borgata: la sporcizia, la
polvere il sole, il fango, le case miserabili, le baracche; violento come chi
le abita, in una precisa identificazione. Ci sono delle concessioni al gusto
se di gusto si può parlare, del tipo: « i muraglioni che al calore del sole
puzzavano come pisciatoi >~; « L'aria era tirata e ronzante come la pelle
d'un tamburo; le pisciate anche appena fatte, che rigavano il marciapiede,
erano secche; i mucchi d'immondezza si sfregolavano abbrustoliti e senza
piú odore. A fare odore erano solo le pietre e i bandoni ancora caldi del
sole », dove natura, paesaggio e vita si contagiano vicendevolmente.
Il paesaggio naturale vede molto spesso il sole, caldo, ossessivo, che
spacca le pietre e fa « sturbare » i ragazzi che non mangiano dal giorno
prima. Ma spesso anche la sera, la notte: « Da una parte il cielo era
tutto schiarito, e vi brillavano certe stellucce umide, sperdute nella sua
grandezza, come in una sconfinata parete di metallo, da dove, sulla
terra, venisse a cadere qualche misero soffio di vento » (p. 99). ~ un
cielo lontanissimo, estraneo alle vicende della borgata, come un cielo
d'un'« altra » vita. « L'enorme scatolone con tutte le finestre illuminate,
s'alzava solo in mezzo al cielo, dove qualche stella tristemente brilluc-
cicava. La Elina stava rintanata là dietro, vicino ai reticolati o le fratte
che circondavano i terreni lottizzati, ridotti ancora a enormi depositi
d'immondezza, con intorno o in mezzo qualche tugurio e qualche muc-
chio di breccia » (p. 110). Qui il cielo è quasi nascosto dall'« enorme
scatolone », dagli « enormi depositi di immondezza », testimonianze inu-
mane d'una vita inferiore; si noti, peraltro, la raffinata e intenerita pre-
ziosità di « brilluccicava ». « La luna era ormai alta alta nel cielo, s'era
rimpicciolita e pareva non volesse piú aver che fare col mondo, tutta
assorta nella contemplazione di quello che ci stava al di là. Al mondo,
pareva che ormai mostrasse solo il sedere; e, da quel sederino d'argeGto,
pioveva giú una luce grandiosa, che invadeva tutto. Brilluccicava, in
fondo all'orto... » (p. 145). Un idillio, pensoso, che l'autore, per non
commuoversi, interrompe introducendo quei « sedere » e « sederino d'ar-
gento » che sono, nonostante tutto, preziosità; ritorna l'altrettanto pre-
zioso e tenero « brilluccicava ».
Il paesaggio, e attraverso di questo la lingua, quindi, è molto spesso
in contrappunto discriminante con la « vita » di quei ragazzi, anche negli
intenerimenti lirici. E la lingua « borghese », sopratutto attraverso certi
paesaggi, contribuisce a « isolare » nel ghetto quella vita. L'intenziona-
lità di questa operazione non è quasi mai evidente, per quelle scivolate
liriche a cui Pasolini si lascia andare, ma anche per l'efficacia « oggetti-
vante » di certe descrizioni.
L'umorismo, anche nel senso piú banale e comune della parola, e
l'ironia, sono « posizioni » quantaltri mai « oggettivanti ». Ma Pasolini
non è certamente adatto a usare questi strumenti (o almeno non lo era
allora), o per eccesso di « scientificità » o per eccesso di « amore »; per
eccesso di « posizione », comunque. Piuttosto banale, anche se intiepi-
dita da un alito di tenerezza, questa « invenzione »: « e un capoccione
che se un pidocchio ci avesse voluto fare un giro sarebbe morto di vec-
chiaia » (p. 8). Poi Pasolini prova a prendere in giro, un po' alla buona,
il napoletano ubriaco che ha insegnato al Riccetto un gioco di carte:
a poi riprese in mano la mano del Riccetto e ricominciò coi giuramenti
d'amicizia, risalendo a certi confusi e maestosi principi generali che il
Riccetto, che aveva un'idea molto piú chiara e un piano molto piú con-
creto nella capoccia, faceva fatica a seguire » (p. 38). Altrettanto con
delle prostitute insultate da un ragazzetto di vita: « " A paragule zozze ",
gridava piú forte, a quelle che nel frattempo se ne stavano acquattate
diplomaticamente in fondo tra le fratte, in sacro raccoglimento » (p. 77).
Piú riuscita, invece, l'ironia sul Lenzetta che tenta di travestirsi da ra-
gazzo educato:
«" E noi forse nun c'annamo a rubbà? ", fece sempre per tirarla su
di morale, con la sua solita delicatezza, il Lenzetta, ~ semo disoccupati,
semo! " » (p. 152). Non ci pare che siano aspetti insignificanti: questo
tentativo di « prendere la posizione » attraverso l'ironia Pasolini lo ripe-
terà spesso successivamente. Anche in lingua sono, quasi sempre, le
espressioni intenerite per i ragazzetti: « la testa tutta riccioletti », « gli
occhi neri come il carbone e le guance belle rotonde di una tintarella tra
l'ulivo e il rosa », « con la nuca piena di riccioletti », « col suo vocino
d'uccelletto » e cosí via. ~ di nuovo il poeta che s'intenerisce per la fan-
ciullezza che, anche quando è malvagia, è tenera. Proprio questi usi
« privati » della lingua sono la spia per rilevare il grado di oggettività
del racconto.
Il capitolo che dà il titolo al libro si apre con una citazione da Tol-
stoj: « Il popolo è un grande selvaggio nel seno della società ». Che il
popolo di cui parla Pasolini sia spesso, se non sempre, altra cosa di cui
parlano i sociologhi, lo ha rivelato lui stesso, ne Le ceneri di Gramsci.
un popolo senza età e senza tempo: esistenza pura, animalità pura,
ma non è un'astrazione, sia pure passionale: è una realtà. E non man-
cherebbero le possibilità di determinarlo storicamente: il dopoguerra, le
borgate miserabili, e, prima ancora, il fascismo, e, sempre, il capitalismo
sono i fatti della storia che stanno dietro, o davanti. Ma ~< dentro » quei
mondo i fatti della storia non esistono piú, perché quel popolo non
riesce a prenderne coscienza, e nessuno e nuìla può fargliene prendere 4
nesio; perché in quei ragazzi non c'è svolgimento di tempo, di storia:
chi si sistema esce; come Riccetto, che nella seconda parte del libro ap-
pare solo di rado e, alla fine, come testimone estraneo.
E chiaro, quindi, che Ragazzi di vita non è un romanzo, anche se in
copertina c'è scritto; non può essere un romanzo, ed è inutile rimpro-
verarglielo come una colpa, se il romanzo è qualcosa di speciale. Non
c'è un personaggio perché anche il personaggio è svolgimento, storia: è
un documentario, la testimonianza di una forma di vita che l'Italia uffi-
ciale, tutta, ignora, o vuole ignorare e che Pasolini raccoglie e presenta
con tutta la violenza della sua (di lei e di lui) passione. E di « pezzi »
da documentario ce ne sono moltissimi. Questo è un documento di mi-
mica gergale, con tanto di spiegazione: « E senza dire niente coi polpa-
strelli del pollice e dell'indice si tirò la pelle delle guance sotto gli occhi.
Voleva dire che era a bottega » (p. 114). Le pagine 205 e 206 sono un
« esemplare » squarcio di vita popolana: la lite fra due donne, ancorché
usato e abusato. C'è pure il folklore d'un esorcismo (pp. 211-12).
Ma c'è da dire, infine, che il linguaggio stesso, non poche volte,
costringe Pasolini al documento: il gergo finisce col condizionare le
situazioni, addirittura col proporle. Di qui la « monotonia » degli epi-
sodi, non solo delle espressioni. Per cui le situazioni « diverse », nono-
stante le pretese di oggettività, finiscono con l'essere quelle piú paso-
liniane.
Se a Ragazzi di vita si è rimproverato di non essere abbastanza romanzo
o di non esserlo proprio, a Una vita violenta si è rimproverato di essere
« troppo » romanzo. Questa volta, infatti, c'è una storia, c'è un perso-
naggio, un protagonista e c'è, anche, il tentativo abbastanza scoperto
di farne un eroe positivo, secondo i « canoni del realismo socialista ».
Addirittura questa formula « ancora ideale, da precisarsi nella teoria,
da realizzarsi » è diventata « l'unica possibile ipotesi di lavoro. Per una
44 ragione molto semplice: il socialismo è l'unico metodo di conoscenza
che consenta di porsi in un rapporto oggettivo e razionale col mondo »
(Inchiesta sul romanzo, cit. ).
A parte la confusione tra socialismo e marxismo a proposito del
« metodo di conoscenza », c'è da dire che questa « teoria », se mai ha
interessato veramente Pasolini, è stata subito lasciata cadere; una delle
ragioni, e non certo l'ultima, è da ricercarsi proprio nell'approssimazione
teorica, frutto, piuttosto che di analisi storica, della « cotta » per Marx
e piú ancora, per Gramsci e la sua letteratura nazional-popolare.
La vicenda di Tommaso Puzzilli non si svolge, come quella di Ra-
gazzi di vita, fuori dalla storia, ma ne partecipa, al livello piú basso,
naturalmente; al livello, cioè, di istinto, di violenza, di disperazione, di
fede. Cosí Tommasino, all'inizio, è fascista: « e non sentí nemmeno
Tommaso che guardando Mussolini diceva: " Ecchelo, chi è stato 'n'omo! »
e se lo stava a filare con ammirazione, tutto malandro » (p. 38). Con i
fascisti partecipa alla manifestazione contro i cecoslovacchi, violenta e
allegra, a base di insulti, pernacchie e secchi di « ciufega ». L'adesione di
Tommasino e dei suoi amici al fascismo è « naturale », connaturale alla
loro violenza: « Semo sempre prepotenti e lo potemo fa'! »; « Noi, la
tirannia, l'avemo potuta fa', ma a voialtri ancora nun ve riesce! », dice
Ugo, cui i partigiani hanno ammazzato il padre e il fratello, rivolto ai
comunisti. E l'anticomunismo è la componente « politica » del fascismo
di Tommasino, e non solo del suo:
« " Ma io je lo magnerebbe a loro, er core », fece Tommaso a voce
bassa, con una faccia gialla di odio. « Si me dassero carta bianca a me
li metterebbe tutti co' la faccia contro ar muro! " » (p.- 49).
Ma Tommaso è un ragazzo di vita in crisi, perché la storia, quella
che conta, entra anche nelle borgate. ~ un'irruzione violenta, dapprima,
con le camionette della polizia, i cani, le botte, gli arresti: è « la batta-
g]ia di Pietralata » come dice il titolo, programmaticamente epico, del
quarto capitolo del romanzo. Tommaso non vi partecipa: era con Irene
la ragazza che s'è trovato alla Garbatella. Il rischio scampato gli fa ca-
pire che è necessario fare il " bravo ragazzo ", o almeno mostrare di
esserlo.
Ma la storia entra nella borgata anche in un'altra maniera: con l'INA
casa.
Tommaso s'è fatto due anni di carcere per una coltellata data a uno
della Garbatella che lo aveva insultato e aggredito. Torna da « bottega » e
trova una casa nuova, « civile »:
Poi, con un nodo alla gola, per la commozione, che quasi piangeva, Tommaso
entrò dentro, ingrugnato, un poco, per non far vedere quello che provava. Era
sempre vissuto, dacché se ne ricordava, dentro una catapecchia di legno marcio,
coperta di bandoni e di tela incerata, tra l'immondezza, la fanga, le cagate:
e adesso, invece, finalmente, abitava nientemeno che in una palazzina, e di
lusso, con le pareti belle intonacate, e le scale con delle ringhiere rifinite al
bacio (p. 180).
Il nuovo quartiere gli impone una nuova esperienza di vita: gente
diversa, di un'altra « razza »: la borghesia e la piccola borghesia. E que-
sta presenza è tutt'altro che odiosa, tutt'altro che combattuta:
« Me farebbe ricarcerà », stava pensando, « pe sapè perché li pijano pe~
stronzi! Intanto, stronzi stronzi, eccheli llí! Nun pensano a niente, giocano, se
divertono, se fanno le studentine, pzt! E c'hanno er papà che je passa 'a
grana! ». « Questi me sa », continuò a pensare, « che tra de loro nun se fanno
cattiverie... E che, conoscheno 'a vita, questi? Eppure me ce vorrebbe mischià
in mezzo a loro! Mannaggia la morte, vorrebbe pure io esse stato ammaestrato
cosí, esse bravo ragazzo come loro! » (p. 187).
Il sottoproletario Tommasino tende « naturalmente » a diventare pic-
colo-borghese: la casa nuova, la fidanzata, con gli impegni « civili ~> e
« borghesi » che comportano, lo spingono a cercare una integrazione in
quel sistema dal quale, prima, era stato escluso. Cosí pratica un po' la
« parrocchia » e chiede di « segnarsi alla democrazia ». ~ chiaro che è
stato il sistema a chiamarlo all'integrazione, impedendo, o cercando di
46 impedire, a Tommasino di farsi una coscienza « proletaria »; è chiaro ed
è anche « oggettivo ». A questo punto il romanzo poteva anche « reali-
sticamente » concludersi. Ma Pasolini s'era proposto un programma ben
piú « completo ». Perciò Tommaso si ammala di tubercolosi e viene rico-
verato al Forlanini. Qui, durante una rivolta di « sanatoriali » appoggiata
dai ricoverati (altro « documento » di letteratura epico-popolare), Tom-
maso fa la sua scelta: aderisce alla lotta, si schiera con i « compagni »,
sui quali prima aveva esercitato la sua ironia e il suo sarcasmo. Ed è una
adesione violenta e istintiva, segno che la « natura » non s'è ancora « cor-
rotta ». Questo impegno dà all'ex ragazzo di vita la possibilità di sco-
prirsi, dentro, una ricchezza nuova, un po' retoricamente: « Aaaah », so-
spirò Tommaso, « so' stato ricco, e non l'ho saputo! ».
Cosí, appena uscito dal sanatorio, chiede di « segnarsi » al PCI: « E
cosí fu: dopo qualche giorno, Tommaso si presentò alla sezione, con le
due persone che dovevano fare da testimoni [...], fu segnato, pagò quello
che doveva pagare: e finalmente riuscí a intigne er pane dentro er sugo:
si mise la tessera in saccoccia, pronto a lottare pure lui per la bandiera
rossa » (p. 277).
L'amara ironia di Pasolini ci riconduce ai motivi degli ultimi poe-
metti de Le ceneri di Gramsci: il distacco dóloroso tra il « popolo », la
povera gente e tutto il resto, Partito compreso. La disperata solitudine
di questa gente trova la sua rappresentazione nell'alluvione:
Non era successo niente: una borgata allagata dalla pioggia, qualche cata-
pecchia sfondata, dove ci stava della gente, che, nella vita, ne aveva passate
pure di peggio. Ma tutti piangevano, si sentivano spersi, assassinati. Solo in
quel pannaccio rosso, tutto zuppo e ingozzito, che Tommaso ributtò lí a un
cantone, in mezzo a quella calca di disgraziati, pareva brilluccicare, ancora, un
po' di speranza (p~ 324~.
Il « pannaccio rosso », già altre volte simbolo di una disperata-spe-
ranza, ripropone tutta la mitologia popolare di Pasolini. Come la morte
di Tommaso, l'eroe dell'alluvione, eroe continuamente diseroicizzato dal
gergo e dall'autoironia. Tommaso muore per una ricaduta della malattia;
ha chiesto di morire nella casa nuova, ma il suo « martirio » s'è con-
sumato nella borgata.
Il romanzo « programmatico » di Pasolini si conclude cosí. Ed è la
conclusione piú coerente, all'interno della « logica » pasoliniana. Se si
deve esprimere un giudizio su ciò che Una vita violenta è, e non su ciò
-he non è, bisogna dire, appunto, che è un'opera coerente alla passione.
ai miti, e anche all'« ideologia » di Pasolini. Incoerenza potrebbe es-
serci con quei richiami che abbiamo visto al romanzo « realistico-sociale »
o « socialista »; ma quello era un discorso piú in prospettiva che riferito
alle sue esperienze.
Una vita violenta è la seconda prova di un personalissimo « ciclo dei
vinti »: rispetto al primo romanzo quello che c'è di diverso, anche nel
linguaggio, è dovuto all'allargamento degli interessi « sociologici ». Il
gergo di borgata, della « malavita », è sempre presente, ma è affiancato
da un dialetto piú largo, con un vocabolario molto piú ricco; la « con-
taminazione » si sostanzia e qualifica maggiormente della componente in
]ingua; e questa ha un uso molto piú esteso. Ma permangono, anche, i
« vizi » del primo romanzo: i « pezzi di bravura » ad effetto filologico;
gli intenerimenti per le « creature »: Tito e Toto, i due fratellini di
Tommaso, ne fanno, piú degli altri, le spese, fino a diventare pretesto
di tenerezza; come scrive Asor Rosa sono « angioletti, scesi quasi per
caso in questo inferno di baracche » (Scrittori e popolo, p. 423). E si
ripropone l'ironia, come strumento di distacco, molto piú efficace che non
nel primo romanzo, e vaccino contro la pietà, molto piú contenuta.
Il difetto della storia di Tommaso non è la « programmaticità », né,
ci pare, la « scoperta » programmaticità, cioè la intrusione della « vo-
lontà » dell'autore che fa violenza a un « realistico » svolgimento di
fatti in senso « ideologico »: alla « sua » ideologia Pasolini è sempre
abbastanza coerente, a quella de Le ceneri li Gramsci, sopratutto. Il di-
fetto è nell'insorgenza continua, ma in questo romanzo meno sensibile,
della pietà e della commozione e dei conseguenti luoghi comuni. Paso-
48 lini è passato dalla « preistoria » mitologica di Ragazzi di vita alla « sto-
ria », nel tentativo di farne un « poema nazional-popolare ». Non lo ha
mai dichiarato esplicitamente, a quanto ci risulta; né ci sarebbe riuscito
per l'obbiettiva ristrettezza ideologica della sua visione. Al di là di
queste, confessate o inconfessate, velleità, Una vita violenta costituisce
il tentativo di uscire dal documento amore-filologia per confrontare con
la storia una, se vogliamo, personalissima tematica.
l~assione e ideologia è il titolo del volume che raccoglie i piú importanti
saggi di Pasolini, già pubblicati su riviste o, nel caso dei primi due, La
poesia dialettale del '900 e La poesia popolare italiana, come prefazioni
ad altre opere. I saggi sono stati scritti nel decennio tra il 1948 e il 1958
il periodo piú ricco di fermenti per la poesia di Pasolini. Dei primi due
saggi si è riportato l'essenziale nel primo capitolo, a proposito della
poesia dialettale; degli altri si escluderanno dall'esame le numerose ana-
lisi che, per la loro occasionalità, non oífrono sufficienti spunti di inte-
resse generale.
Il titolo della raccolta è significativo della qualità dell'impegno cri-
tico e teorico di Pasolini; il quale, tuttavia, com'è sua abitudine, ne dà
in una nota a fine libro, la sua spiegazione:
Passione « e » ideologia: questo « e » non vuole costituire un'endiadi (pas-
sione ideologica o appassionata ideologia), se non come significato appena se-
condario. Né una concomitanza, ossia: « Passione e nel tempo stesso ideologia ».
Vuol essere invece, se non proprio avversativo, almeno disgiuntivo: nel senso
che pone una graduazione cronologica: « Prima passione ~ e poi ideologia ,>, o
meglio: ff Prima passione, '~ ma poi ~ ideologia » (p. 493.
Questa « gradualità » si specifica ancor meglio, nei suoi termini quali-
tativi, qualche rigo dopo: « La passione, per sua natura analitica, lascia
il posto all'ideologia, per sua natura sintetica ». L'ideologia, insomma, 49
è l'inserimento nella visione storica della « individuazione », della « con-
statazione » dei fatti; in particolare dei fatti letterari.
In questo senso una analisi, piú che una sintesi, appare il saggio sul
Pascoli nel quale il tentativo di una visione storica è appena accennato.
Per cui l'interesse di queste pagine è tutto nell'esame della figura poetica
del Pascoli nelle sue componenti psicologiche e stilistiche:
Nel Pascoli coesistono, con apparente contraddizione di termini, una « os-
sessione », tendente patologicamente a mantenerlo sempre identico a se stesso,
immobile, monotono e spesso stucchevole, e uno « sperimentalismo » che,
quasi a compenso di quella ipoteca psicologica, tende a variarlo e a rinnovarlo
incessantemente In altri termini coesistono in lui, per quanto meglio ci riguarda,
una forza irrazionale che lo costringe alla fissità stilistica e una forza inten-
zionale che lo porta alle tendenze stilistiche piú disparate (p. 270).
La lezione pascoliana ha esercitato su Pasolini ben piú di una sug-
gestione stilistica, sopratutto nelle prime poesie, sia in friulano sia in
lingua, come, del resto, su tutti i poeti del '900; ma, accettando per
buono quel giudizio, si deve pensare che la suggestione si sia esercitata,
nonostante la riluttanza di Pasolini, molto piú in là. E, se si rilegge la
conclusione del saggio, tale sospetto diventa piú consistente:
Per concludere: la convivenza [...], nel Pascoli dell'«ossessione» e delle
« tendenze » risolve l'apparente inconciliabilità [...1 col prevalere della prima
sulle seconde: in modo che l'allargamento linguistico prodotto da queste ultime
--in senso innovativo e per definizione antipetrarchesco--è solo quantitativo,
in fondo: non è l'allargamento linguistico di un Manzoni o di un Verga: dovutc
com'è, questo, a un realismo di origine ideologica, a una visione del mondo
presupponente un punto di vista portato fuori dal mondo [...] Nel Pascoli
quell'allargamento linguistico è sempre in funzione della vita intima e poetica
dell'io, e, quindi, della lingua letteraria, nel suo momento centralistico e in
definitiva ancora tradizionale (p. 275).
Il rischio di accettare quel sospetto lo fa correre al lettore lo stesso
Pasolini, e non certo per un inconscio « complesso pascoliano », quanto
50 per l'assenza di quella « sintesi », di quella « ideologia » che gli avrebbe
consentito di caratterizzare e, quindi, di distinguere « storicamente »
l'esperienza pascoliana.
Piú valido, appunto perché piú « sintetico » è il giudizio che esprime
su Gadda, nel quale la soluzione linguistica è vista come conseguenza di
una crisi storica. Anche in Gadda, quindi, l'« ideologia » succede a una
« passione »: « La sua angoscia--che è angoscia sociale--è dunque
senza rimedio--e il suo stile sarà sempre uno stile tragicamente misto,
ossessionato, poiché egli, accettando le istituzioni che crede buone, è
costretto a infuriarsi senza requie contro gli istituti effettualmente cat-
tivi » (p. 323).
Sbaglia però quando afferma che « la sua [di Gadda] funzione non
è critica » perché mancherebbe della speranza « prospettivistica ». E non
è coerente sopratutto se si tiene conto delle polemiche contro il « pro-
spettivismo » del realismo socialista e del PCI.
Dal saggio Osservazioni sull'evoluzione del '900 incomincia senza
clubbio la parte piú interessante della raccolta: qui si vede la « pas-
sione » che determina l'« ideologia ». L'occasione nasce dal problema se
Ci sia O no una nuova cultura. La risposta di Pasolini è problematica-
mente affermativa:
Oggi una nuova cultura, ossia una nuova interpretazione intera della realtà
esiste, e non certamente nei nostri estremi tentativi di borghesi d'avanguardia
nello sforzo sempre piú inutile di aggiornare la nostra: esiste, in potenza, nel
pensiero marxista; in potenza, ché l'attuazione è da prospettare nei giorni in cui
il pensiero marxista sarà (se è questo il destino) prassi marxista nella storia
di una nuova classe sociale organizzante la vita. Ma benché in forma potenziale
esiste, agisce, già oggi, se quel pensiero marxista determina, nei nostri paesi oc-
cidentali, una lotta politica e quindi una crisi nella società e nell'individuo:
esiste dentro di noi, sia che vi aderiamo, sia che la neghiamo; e proprio in
questo nostro impotente aderirvi, e in questo nostro impotente negarla (p. 330).
L'interesse del passo non è solo nella « poetica » amarezza di quel-
l'impotenza; il motivo l'abbiamo già incontrato (d'altronde la data del
saggio, 1954, è la stessa del poemetto Le ceneri di Gramsci); l'interesse
è sopratutto nella equazione che si può incominciare a - stabilire: crisi
nella società = crisi nella poesia. Difatti una nuova cultura e, quindi.
una nuova poesia non « può essere altro che il prodotto di una nuova
società »; in assenza di questa è la crisi. E in questa crisi è l'occasione
per la poesia, per una nuova poesia:
Ma a noi questa situazione in cui viviamo quotidianamente, di scelta non
compiuta, di dramma irrisolto per ipocrisia o per debolezza, di falsa « disten-
sione », di scontento per tutto ciò che ha dato una sia pur inquieta pienezz~
alle generazioni che ci hanno preceduto, sembra sufficientemente drammatica
perché possa produrre una nuova poesia (p. 330).
~ questo il discorso che ci rivela il significato particolare di « ideo-
logia » in Pasolini: ideologia = poetica.
Lo troviamo confermato in un saggio di tre anni piú tardi: La con-
fusione degli stili. Scartate le soluzioni di un realismo del « concreto-
sensibile », della vita quotidiana, di un realismo « prospettivistico »,
che cosa sembrerebbe piú coerente che « mettere l'accento » su quella
crisi?:
sulla divisione interna, che, separando il mondo politico-sociale in due parti
--la borghese, attuale, e la socialista, futura, ma operante già nelle coscienze--
viene a separare, o almeno a incrinare, ogni particolare di quel mondo, ogni suo
fenomeno? Seguire, drammaticamenEe, il serpeggiare di quella linea divisoria, di
quella sutura, di particolare in particolare, di superficie interna in superficie
interna, di pagina in pagina, di stilema in stilema? (p~ 348).
Ma la « contemplazione ~ di questa divisione non è possibile; ne è
possibile, invece, il « pensiero ». E allora non resta che cercare « al di
là della divisione », lí dove si trova l'« " anima " del tempo »: « Nel
dramma, nel dolore della divisione: da attingere--se ci è lecito mo-
raleggiare un poco -- attraverso una grande intransigenza interiore o
una grande pietà per il mondo esterno » (p. 349).
L'ultimo saggio della raccolta, La libertà stilistica è, nella linea dei
52 precedenti, ancora piú intimo, ancora piú rispondente a quel processo
di riduzione di una « crisi storica » a « crisi privata » e viceversa. E
diciamo « viceversa » non perché non sappiamo quale differenza ci sia
nella diversa posizione dei due termini, ma perché cosí ci pare che sia in
Pasolini: la crisi storica determina la crisi privata, la quale, a sua volta,
la alimenta incessantemente, proprio per quella volontà di « non sce-
gliere ». Lo « spirito filologico », all'inizio « aspirazione », quasi « ispi-
razione »; poi « strumento di una diversa cultura », in continua lotta per
adattare « il periscopio all'orizzonte e non viceversa », presiede anche
« all'atteggiamento politico, al dií~icile, doloroso e anche umiliante atteg-
giamento d'indipendenza, che non può accettare nessuna forma storica e
pratica di ideologia, e che insieme soffre come d'un rimorso, d'un indi-
stinto e irrazionale trauma morale, per l'esclusione da ogni prassi, o
comunque dall'azione » (p. 491).
~ l'ennesimo, doloroso, esame di coscienza; non certo compiaciuto;
ma sterile. Nonostante sia la strada delle « sperimentazioni » che con
quella «libertà » il poeta percorre, « una strada d'amore ». La quale
ultima parola, collocandosi come esponente alla relazione « passione e
ideologia », finisce col motliplicarne all'infinito i valori irrazionali.
In Alí dagli occhi azzurri, pubblicato nel '65, Pasolini ha raccolto una
ventina di lavori e di abbozzi di lavori scritti tra il 1950 e il 1964: una
vera carriera poetica. I1 1950, s'è visto, è stato un anno fondamentale
per Pasolini: l'anno del suo inserimento a Roma. E Roma è il « nume »,
il « demone » di questa raccolta, sopratutto nella prima parte; come di
~ranco Citti, che della Roma sottoproletaria di Pasolini è stato, poi,
l'interprete, è il « demone » che « percorre questo libro » (p. 515).
La scoperta e la conoscenza di Roma, la ricerca di una lingua e di
uno stile che esprima quella conoscenza sono i motivi che giustificano la
prima parte del libro. Gli stessi titoli di alcuni « pezzi » sono program- 53
matici: S~uarci di notti romane, Notte sull'ES, Studi sulla vita del Te-
staccio, Appunti per un poema popolare, Dal vero, ecc. Roma, s'è detto.
Ma è una Roma già subito pasoliniana. Già nel primo « saggio », Squarci
di notti romane, protagonista non è la metropoli, varia, composita, di-
visa; con i suoi quartieri, le piazze, le vie, la gente; protagonista è la
Roma degli « orinatoi », degli « odori »: una Roma degradata ad ani-
malità fisiologica, quasi la proiezione della borgata e della sua vita nella
città. ~ infatti la topografia di Roma è sopratutto una topografia morale.
« A San Lorenzo la delinquenza ha un sapore trasteverino: ma piu
squallido. C'è intorno piú vita borghese. Quindi piú vizio. Le cose si
fanno piú di nascosto, come in una città di provincia » (p. 77). Coeren-
temente con questa Roma, l'« interprete », il « testimonio », il « roman-
ziere » non potrà che essere uno « sfiatatoio », « questo tubo di scarico,
questo apparecchio ricevénte e trasmittente attraverso al quale la Roma
innominabile trova una via di espressione » (p. 12): colorita immagine
della « mimesi ».
E Gabbriele, primo « ragazzo di vita » è la prima esperienza umana
che Pasolini fa in questa Roma. La scelta, quindi, è subito fatta. Ora è
necessario approfondire la conoscenza e i modi per tradurla, da buon
« apparecchio ricevente e trasmittente ». La conoscenza continua attra-
verso Rafele, che fa ritrovare a Pasolini la imrnagine cara del fanciullo
innocente-perverso:
Il bambino poi tace, mentre come due ladri risalgono la scala; e sta anzi
quasi per piangere. Ha paura che il notaio se ne vada senza dargli niente. Non
ha il coraggio di chiedergli i soldi, e perciò il mento quasi gli trema e gli si è
formata una accigliata, furiosa ombra nell'arco delle sopracciglia, nella bocca.
Ma il notaio caccia tre fogli da cento; cerca poi di~6alutarlo affettuosamente,
ma Rafele intascando le piotte corre giú verso ponte Sisto senza neanche guardarlo
in viso, tanta è la distanza tra la vecchiaia del notaio e la sua infanzia (p. 75).
Attraverso il Romanino, ma in termini piú « scientifici »: « Vive den-
tro di lui una vita " doppia» di lenza, un patrimonio di convenzione
54 rionale: una assoluta mancanza di pietà. L'istinto di difesa ha compiuto
in lui, debole, un irrigidimento insolubile, ormai non può piú tornare
indietro dalla sua immoralità, dal suo inconscio e tremendo pessimismo »
(pp. 83-84).
Ma anche la registrazione « fisica », mimetica, si consostanzia imme-
diatamente del sentimento pasoliniano:
Uno, che dei suoi coetanei sconosciuti chiamano « A ricce' », per doman-
dargli del fuoco, appoggiato allo stipite della porta, sta aspettando il suo turno:
ha le gambe col lungo, leggero, e castigato calzone domenicale, incrociate, e
il grembo, cosí casto dentro quel calzone senza un'ombra nel grigio, un po~
spinto in avanti, abbandonato come sta con le spalle allo stipite, e il torace
sottile inguantato in un maglione di lana nera [...] Il viso d'un bruno quasi
cinereo, equino, un po' scavato. Espressione di avidità, frigida e scattante, la
calma ostentata... (p. 89).
Il « riccetto » in questione è il Riccetto di Ragazzi di vita; come
l'Amerigo delle pagine successive è l'Amerigo del romanzo. Sono questi,
infatti, gli anni in cui Pasolini sta pensando e scrivendo Ragazzi di vita.
Ed è significativo che questo « pezzo » s'intitoli Appunti per un poema
popolare, testimonianza dell'incontro col Gramsci nazional-popolare e
di certe velleità poi rientrate.
Nello stesso tempo va avanti la ricerca stilistica, anche se la dire-
zione, il dialetto, è già indicata dalla scelta dei contenuti. Tuttavia ci
sono altri « esperimenti », come ne Il biondomoro, una satura in cui la
mescolanza di prosa e di versi, di poesia in prosa o viceversa, di lingua
di dialetto, di « contaminazione » obbedisce a esigenze a volte squisi-
tamente, a volte impacciatamente letterarie e in cui certi miti si dichia-
rano piú esplicitamente che altrove: « zozzo di innocenza il ragazzo del
rione », o si dilatano in « preziose » strutturazioni: « Innocenza, si-
lenzio del peccato, / peccato, silenzio dell'innocenza sua, / vita, silenzio
della morte, / morte, silenzio della vita sua, / zozzo ner sole del Rione, /
puro nel sole del Rione » (p. 43).
Un altro esperimento è Gas, « relitto d'un romanzo umoristico », in
cui un professor Giubileo vive una sua serie di esperienze piuttosto
ambigue, e non tanto in senso morale quanto in senso poetico, cariche,
piú o meno, come sono, di allusività e di vago pirandellismo. Né l'umo-
rismo fa certo una prova brillante, data la obbiettiva carenza o di sim-
patia o di odio nei confronti del personaggio.
Ma la ricerca di Pasolini è tutta rivolta al dialetto e i lavori succes-
sivi, posteriori anche a Ragazzi di vita e a Una vita violenta, si possono
considerare le prove migliori. La tecnica del racconto, innanzi tutto, è
cambiata: non piú il bozzetto, ma la « rappresentazione », nei perso-
naggi, della vicenda. Si tratta, infatti, di vere e proprie sceneggiature, se
non altro nell'impostazione, tre delle quali, poi, realizzate in altrettanti
film: La notte brava, Accattone, Mamma Roma e La ricotta. A1 cinema
Pasolini non è approdato soltanto perché sfiduciato dalla letteratura: « il
segno-oggetto al posto del segno-parola », come dice Siciliano; né solo
perché il pubblico del cinema è piú vasto del pubblico del libro e, quindi,
piú adatto ad essere quella « nazione-popolo » cui il messaggio nazional-
popolare deve rivolgersi;la vocazione alla regia in Pasolini è nel suo spe-
rimentalismo. E proprio nel periodo piú sperimentale, nella prima parte
di Alí dagli occhi azzurri, troviamo delle « didascalie » di questo tipo:
Su Testaccio si vedrà sempre un cielo caliginoso e allucinato. Tepore prima-
verile ancora gelido; vernice.verde degli alberi macchiati dal viola o dall'indaco
di alberelli da frutta, con grazia da paesaggio giapponese. Panoramica iniziale
--dall'alto, come in qualche classico del cinema francese, René Clair: Porta
Portese, Riformatorio dei minorenni--di uno stinto, solido barocco romano--
lungoteveri alti, deserti. Ma questo di scorcio: l'obbiettivo si fermerà subito
contro la riva di Testaccio... (p~ 81).
i~ un brano del '51; il primo film Pasolini lo girerà un decennio
piú tàrdi.
D'altra parte la tendenza a « rappresentare » negli altri il suo mes-
saggio o non messaggio o, comunque, una sua interpretazione, sembra
essere la tendenza dell'ultimo Pasolini che, sappiamo, ha scritto ultima-
mente alcune tragedie in versi, non ancora pubblicate (escluse Pilade e
56 AD~abulazione), nelle quali i personaggi gli fanno da « interposta per-
sona ». La « rappresentazione », quíndi, non solo obbedisce a esperimenti
di maggiore « obbiettività » della realtà esterna, ma anche della realtà
piú intima.
Tornando alle quattro « rappresentazioni ~ di prima, l'adozione del
dialetto nelle battute del dialogo e della lingua nelle didascalie elimina il
rischioso ed equivoco procedimento della « contaminazione », fissando in
una loro disperata autonomia, di lingua e di azione, i personaggi. Ed è
sopratutto da questo tragico isolamento di uomini, di cose, tra impassibili,
o quasi, descrizioni di « esterni » o di « azioni » (tranne i soliti intene-
rimenti per i piccoli, gli « agnellini », come per la « creatura » di Nan-
nina) che nasce quella forza disperata da epopea popolare che è in Accat-
tone, sopratutto. In quel ghetto dove le parole e le azioni esprimono,
rappresentate, ironia, sarcasmo, violenza beffarda, vigliaccheria, dispera-
zione, malvagità; in quel mondo di « papponi », di prostitute, di inno-
cenza anirnale e di violenza animale, Accattone interpreta, fino in fondo,
la sua parte di « allegro » e « disperato » eroe popolare; e come tutti gli
eroi, alla fine, muore; e nella morte trova la sua pace: « Aaaah... Mo
sto bene! ».
Tutta la parte di Accattone, è chiaro, è « costruita »; sopratutto alla
fine: « La motocicletta era fracassata contro la parte davanti di un camion.
Accattone stava lungo, sanguinante, sul marciapiede, nel posto dove poco
prima lui e gli amici avevano tanto riso » (p. 362): muore, cioè, « pro-
prio » dove prima era stato « allegro »; ma è « costruita », ci pare, coeren-
temente; e non a una realtà, per obbiettiva che sia, ma alla realtà che
l'autore ha scelto e riproposto drammaticamente. Questa drammatizza-
zione della vicenda, fuori da ogni « programma », libera da ogni « vo-
lontà » dí conoscenza, comporta sempre una riduzione al mito popclare
di Pasolini, ma proprio perché « rappresentata » acquista una sua autono-
mia impedendo di per sé, e quindi « obbiettivamente », e quindi « poeti-
camente » gli interventi « privati » dell'autore, la qualcosa ha sempre co-
stituito un limite alle realizzazioni di Pasolini.
Mamma Roma ha, già nel titolo, il programma della sua epicità: è 57
un mondo, una forma di vita che lotta per superarsi, per migliorarsi.
I,'oggetto di tanto amore è Ettore, il figlio della prostituta, al quale
Mamma Roma vuole dare un'altra forma di vita: la vita onesta del
piccolo borghese. Ma la « natura » ha le sue leggi: Ettore, figlio di un
mondo, non riesce, come altri prima di lui, ad integrarsi in un « altro ;>
mondo: si ribella, va a rubare in un ospedale, viene preso. Finisce, legato
su di un letto di cemento:
Si agita inutilmente, proprio come un animaletto pestato, che non sa come
perché, chi l'ha pestato, e crede ingenuamente che agitandosi possa ottenere
qualcosa--la vita di sempre che ha appena riconosciuto, e perduto. Cosí quelle
mutandine bianche, sulla pancia che si contorce, si tira, ricade giú, si rialza
smaniando, sono come uno straccio che si agita appena appena un po~ piú
bianco nel biancore brutale dell'alba (p. 464).
Il simbolismo, si potrebbe dire, è scoperto. Ma a parte il fatto che non
è detto che, questo, necessariamente, debba essere una colpa poetica; è
che la « rappresentazione » ha incontrato un limite, in se stessa, e l'autore
è intervenuto, dall'esterno, a concludere, un po' come un deus ex machina.
D'altra parte anche Mamma Roma, alla fine, nel suo delirio disperato, è
uscita dalla « rappresentazione ».
Un equilibrio perfetto, invece, tra rappresentazione e « significato »,
piú o meno simbolico, ci pare sia stato realizzato da Pasolini ne La ricotta;
parliamo del testo letterario; ma del film, nonostante le polemiche, il pro-
cesso per lo « scandalo », si può dire la stessa cosa. Stracci, il poveraccio
che fa da comparsa, in un film di cassetta, nella scena della crocifissione,
è un uomo alle prese con il problema elementare della sopravvivenza:
mangiare; in un'altrettanto elementare incoerenza di vita: « Io nun te
capisco: mori sempre de fame, e sei dalla parte dei signori che te fanno
morí de fame! », gli dice il « Cristo » beffardo, inchiodato a fianco a lui.
Ma Stracci, in quella falsa, e perciò « empia », scena della crocifissione è
l'unica natura « vera ». Empia, sacrilega, falsa non è Maddalena che fa lo
spogliarello davanti al poveraccio in croce, tra le risate delle comparse che,
58 prima, avevano ripetuto l'oltraggio dell'offerta all'affamato innalzato sulla
croce; empio, perché falso, è tutto ciò di « vero » che circonda Stracci;
il regista prima di tutto: « In mezzo a uno spiazzetto seduto sulla sua
sedia da spiaggia. i~ assorto nei suoi sublimi pensieri (« Cinema nuovo »,
Antonioni, ecc.). Si riscuote dalla sua sublime meditazione e, a bassa voce,
quasi sofferente, mormora: " La corona " » (p. 468).
La « falsità » del personaggio qui è descritta un po' dall'esterno; risulta
molto meglio rappresentata nell'intervista con l'inviato di Tegliesera, nella
quale Pasolini prende in giro, anche, se stesso e tutto l'artificioso bagaglio
di cultura che si porta appresso. E come il regista sono tutti quelli che
assistono, falsi, alla crudele « verità » che si sta rappresentando in quella
scena; e, piú di tutti, quelli che arrivano alla fine, a godersi lo spetta-
colo: i « signori », i « padroni » « col naso in alto, delusi, visti come
dalle croci, che storcono la bocca accorgendosi, da quello sciopero, che
Stracci " esisteva " » (p. 487). Stracci, che « sciopera », che non risponde
piú all'« azione », morto sulla croce per indigestione, è la scandalosa « ve-
rità » di quella scena. E il compatimento, vizio antico di Pasolini, è
assente; c'è solo la pietà che viene da una dolorosa, « rappresentata »
verità.
Il penultimo capitolo del libro è costituito da una poesia che ha dato
il titolo all'opera: è dedicata a Sartre che aveva raccontato a Pasolini
la storia di Alí dagli occhi azzurri. ~ proposto il nuovo motivo del poeta
« civile »: non piú il sottoproletariato che cinge Roma d'assedio sarà pro-
tagonista della « sua », e perciò « vera » rivoluzione, ma il Terzo Mondo,
i poveri, i servi dell'Africa, dell'Asia, dell'America Latina, che trascine-
ranno con sé i fratelli diseredati dell'Italia, dell'Europa, dell'America
ricca: « deponendo l'onestà / delle religioni contadine, / dimenticando
l'onore / della malavita, / tradendo il candore / dei popoli barbari-~/
dietro ai loro Alí / dagli Occhi Azzurri--usciranno da sotto la terra
per uccidere--/ usciranno dal fondo del mare per aggredire--scende-
ranno / dall'alto del cielo per derubare / e prima di giungere a Parigi /
per insegnare la gioia di vivere, / prima di giungere a Londra / per
insegnare a essere liberi, / prima di giungere a Ne~v York, / per insegnare
come si è fratelli--distruggeranno Roma / e sulle sue rovine / depor-
ranno il germe della Storia Antica. / Poi col Papa e ogni sacramento /
andranno su come zingari / verso nord-ovest / con le bandiere rosse /
di Trotzky al vento... (p. 493).
I1 mito della plebe nazionale, piú che sostituito, è integrato in quello
della plebe universale. Le esperienze dei viaggi, in India, in Africa, hanno
consentito a Pasolini di verificare a un livello enormemente piú largo la
« sua » conoscenza del mondo. La profezia di Pasolini, a parte il riferi-
mento « meta-politico » alla rivoluzione permanente ed esportata, si inse-
risce, d'altra parte, nel clima di « attenzione » verso il Terzo Mondo
tipico degli anni sessanta. Ma per Pasolini è stata, sopratutto, un'accen-
sione d'amore, come sempre. Per questo, piú tardi, ha potuto, e dovuto,
rinnegarla:
Perché rinnego questa profezia? Perché mentre allora ero solo e ridicolo a
farla, oggi è divenuta merce comune: ma questo non significa che io presun-
tuosamente voglia attribuirmi il monopolio di certe idee e la prerogativa ad
appassionarmene: no, vuol dire che quella profezia era giusta allora ma in
quanto era sbagliata; era un capriccio vitale e fecondo della passione politica
un rovesciamento voluto e cosciente del buon senso del futuro. Perché dunque
il' fatto che tale speranza posta ndla potenzialità rivoluzionaria dei contadini del
Terzo Mondo ora è sbagliata? Perché non è guardata in prospettiva rivoluzio-
naria (Intervista a F. Camon, pp. 132-33).
Non si tratta piú del « tradimento ~> d'un'anima rivoluzionaria, come nel
'56, come ne Le ceneri di Gramsci: si tratta d'un'operazione ben piú ingiu-
sta, perché distorce una « natura ». ~ un motivo, questo, che è stato ampia-
mente illustrato da Pasolini stesso nell'intervista all'inizio di questo libretto.
Rital e Raton è l'ultimo « esperimento » della raccolta: un saggio,
piú che un racconto, percorso continuamente da brividi, da sussulti
di mitologia privata, di sociologia, di descrizioni, di considerazioni. In
un contesto cosí drammaticamente, ma nel linguaggio pacatissimamente
sconvolto si muove la presenza inquieta e inquietante di Brahim, il gio-
vane arabo che gira per Parigi portando dentro di sé, e cercando, « qual-
cos'altro ». La spiegazione del titolo può servire a comprendere il simbo-
lismo o, piú modestamente, l'allusività di certe situazioni: « gli arabi sono
chiamati dai razzisti francesi " raton ". E gli italiani per le stesse ragioni
sono chiamati " rital " » (p. 508). La presenza di Brahim, un « raton »,
dunque, incute una paura « come se la presenza di altri destini minac-
ciasse i nostri » (p. 494). Brahim, insomma, è il portatore della crisi; colui
che, se accettato, sconvolgerebbe tutto. Un preannuncio di Teorema.
Le due raccolte di poesie degli anni '60, La religione del mio tempo
(1961) e Poesia in forma di rosa (1964) indicano, accanto a frequenti
ritorni, e spesso veramente fastidiosi, ai motivi della poesia precedente,
un nuovo atteggiamento di Pasolini di fronte alla realtà. La storia, la
civiltà borghese hanno preso definitivamente il sopravvento su di lui,
come realtà che si impone con tutto il peso della sua volgarità, della sua
ipocrisia, della sua corruzione. Costretto, Pasolini deve rinunciare ai suoi
miti, alla sua pietà, al suo amore; solo l'impotenza rimane, ma non uguale:
una volta era dolorosa, chiusa; ora diventa rabbiosa. Ma lo sforzo della
rabbia non può durare: è una tensione insostenibile a lungo, nel cuore e
nella poesia; al suo esaurimento succede l'ironia e, piú ancora, l'autoiro-
nia. Come se il distacco dal mondo amato cosí soffertamente, l'aggres-
sione del mondo borghese di cui, purtuttavia, egli è ed è sempre stato
parte, lo costringano a guardare se stesso piú da vicino, o piú da lontano,
a vedersi qual'è e quale appare, o, peggio ancora, quale « deve » essere:
« un donchischiotte di tre anni ».
Nella prima raccolta, La religione del mio tempo, i ritorni ai vecchi
motivi sono piú frequenti; nel poemetto La Ricchezza è riproposto il
mondo della borgata, quello giovanile, allegro, insolente, violento; e
quello adulto, abbrutito dal « feroce Frascati », dalla malattia, dalla mi-
seria; è riproposto il « sesso, consolazione della miseria », con immagini
a volte veramente urtanti per la loro retorica, che il realismo del linguag-
gio, altrettanto retorico, non può che appesantire: « La puttana è una re-
gina, il suo trono / è un rudere, la sua terra un pezzo / di merdoso
prato, / il suo scettro / una borsetta di vernice rossa: / abbaia nella
notte, sporca e feroce / come un'antica madre: difende / il suo possesso
e la sua vita ». Poi tocca ai « magnaccia » e a tutti gli altri « rifiuti del
mondo ».
Ma il motivo ricorrente, piú degli altri, è quello della « ricordanza »,
strutturato spesso con la meccanica sentimentale propria del Leopardi di
Vaghe stelle dell'Orsa: la realtà presente richiama, per contrasto o per
analogia, la realtà passata, o il sogno passato. Cosí la proiezione al « Nuo-
vo » di Roma città aperta rievoca la « luce » della Resistenza, il fantasma
del fratello partigiano, e il dolore di scoprire, ancora una volta, che « tutta
quella luce, / per cui vivemmo, fu soltanto un sogno / ingiustificato,
inoggettivo, fonte / ora di solitarie, vergognose lacrime » (Lacrime). Per
quanto sincero sia qui, e altrove, Pasolini dà l'impressione di uno smar-
rimento « querulo », come dice Asor Rosa, di una incapacità di uscire
dalle modulazioni della pietà. E il poeta stesso pare accorgersene, se non
a livello di coscienza critica, almeno a quello di volontà: « mi sforzo a
capire ogni cosa, ignaro / come sono d'altra vita che non sia / la mia,
fino perdutamente a fare // di altra vita, nella nostalgia, / piena espe-
rienza: sono tutto pietà, / ma voglio che diversa sia la via / del mio
amore per questa realtà » (La religione del mio tempo).
Una poesia « civile » che sia religiosa, com'è nelle ambizioni del poeta,
non può continuare per la strada dell'elegia, lacrimevole o no. E cosí
anche lo « stile » s'innalza, l'andamento della poesia si fa piú sostenuto
anche se con i modi piú tradizionali della buona retorica, come nelle into-
nazioni delle frequentissime « imprecazioni »: « Guai a chi non sa che
è borghese / questa fede cristiana, nel segno // di ogni privilegio, di
ogni resa, / di ogni servitú; che il peccato / altro non è che reato di
lesa // certezza quotidiana » (ibidem), con quell'esordio « guai » ripe-
tuto per la settima volta in otto terzine.
Ma anche qui, nel poemetto che dà il titolo alla raccolta, il processo
della « ricordanza » leopardiana è visibile: due ragazzi, « poveri, allegri
cristi quattordicenni » sono l'occasione per riandare al tempo finito del
Friuli, della semplice, innocente, dolce-violenta religione del Friuli; e que-
sto ricordo acuisce il dolore nella visione della Chiesa presente: « tutto
distrugge la volgare fiumana // dei pii possessori di lotti: / questi cuori
di cani, questi occhi profanatori, / questi turpi alunni di un Gesú cor-
rotto // nei salotti vaticani, negli oratori, / nelle anticamere dei ministri,
nei pulpiti: / forti di un popolo di servitori ». La corruzione della Chiesa
si poggia sulla « viltà » del tempo, che essa stessa ha provocato; viltà
di borghesi grandi e di borghesi piccoli, brulicanti « intorno a un benes-
sere / illusorio » ; viltà che è « paura », mancanza « di vera passione » ;
cioè « irreligiosità ».
A volte pare che la vera colpa della Chiesa sia quella di non aver
saputo corrispondere ai sogni del poeta, al « dolceardente » usignolo della
chiesa cattolica; a volte, come nell'epigramma A un Papa, scritto per
la morte di Pio XII, quelle colpe si concretizzano, in un tono di oratoria
profetizzante e anatemizzante: « Migliaia di uomini sotto il tuo pontifi-
cato, / davanti ai tuoi occhi, son vissuti in stabbi e porcili. / Lo sapevi,
peccare non significa fare il male: / non fare il bene, questo significa
peccare. / Quanto bene tu potevi fare! E non l'hai fatto: / non c'è stato
un peccatore piú grande di te ». ~ il passaggio dal poemetto epico-lirico
all'« epigramma », dall'elegia all'invettiva, in una progressiva, diversa ac-
quisizione di dati « reali » alla poesia, che lo porterà all'approdo dispe-
rato della « rabbia ». La realtà che ora gli si impone è tanto diversa da
quella antica: il « popolo » non è piú: è la « massa », ora, al suo posto:
« Altre mode, altri idoli, / la massa, non il popolo, la massa / decisa a
farsi corrompere / al mondo ora si affaccia, / e lo trasforma, a ogni scher-
mo, a ogni video / si abbevera, orda pure che irrompe / con pura avi-
dità, informe / desiderio di partecipare alla festa. / E s'assesta là dove il
Nuovo Capitale vuole » (Il glicine).
Non serve piú, ora, il suo « offeso angosciarsi »: è fallito il suo pri-
vato sogno di amore. E da questo fallimento non potrà che nascere una
« disperata rabbia » che proprio nell'aggettivazione, tuttavia, ripropone,
sterilmente, la sua impotenza.
Ma quell'amore per il popolo degli esclusi è il « vizio assurdo » di
Pasolini: se in Italia non c'è piú speranza, la speranza verrà dall'Africa,
dall'India. Il sogno de Le ceneri di Gramsci sembra aver trovato una
nuova incarnazione; l'« ansia nazionale » del sottoproletariato romano si
trasferisce nell'Africa « unica mia / alternativa... »: « Forse a chi è nato
nella selva, da pura madre, / a essere solo, a nutrire solo gioia, / tocca
rendersi conto della vita reale: / rinunciare a obbedire al sesso per pen-
sare, / finire d'essere fanciullo per diventare cittadino, / tradire gli Dei
per lottare con Marx! » (Alla Francia). Ma il processo di questo nuovo
« popolo » non sarà diverso da quello delle plebi italiche. Dalla cono-
scenza « amorosa » di un'India « immensa borgata romana », come dice
il Ferretti, alla speranza di Alí dagli occhi azzurri, alla desolazione della
« deludente linea grigia », dell'ineluttabile imborghesimento (nella già ci-
tata intervista Camon): un'altra sconfitta del « troppo amore ».
La ripetizione di questo meccanismo: amore-delusione che è ancora,
nonostante i tentativi di rifiutarvisi una volta per sempre, il motivo cen-
trale della poesia, ripropone, come causa originaria, e proprio come « pec-
cato originale », la « mancata scelta » ideologica delle Ceneri di Gramsci.
Per quanti fatti, realtà nuove la storia s'incarichi di offrirgli, Pasolini
rimane nella sua angosciosa e sterile « libertà ». Il livello, l'orizzonte
della « conoscenza » possono allargarsi, possono anche trovare concreti
riferimenti nella storia, ma l'acquisizione resta sempre una « passione »,
sempre meno ardente e sempre piú sfiduciata. Per i nemici che incontra
non può che preparare gli strali, a volte piú, a volte meno vibranti, della
sua polemica che riesce tanto piú spuntata quanto piú si sostanzia di
« nostalgia »; come nell'epigramma In morte del realismo: il « realismo »,
« corpo ideologico » nato dalla Resistenza e dalla sua « rivoluzione », è
ucciso dai « restauratori » della « lingua », dal « socialismo bianco » dei
64 Cassola e dai velleitarismi neoborghesi dei « neosperimentali »; motivi
ripresi nella Reazione stilistica, in maniera piú esplicita e violenta. Anche
qui un « tradimento », un'« offesa », senza possibilità di risposta « posi-
tiva », con l'infecondo conforto della nostalgia di ciò che poteva essere
e non è stato.
In Poesia in forma di rosa si ripropone lo svolgimento consueto delle
raccolte poetiche di Pasolini: motivi di « ritorno »: la difesa della « tene-
rezza », dell'« elegia », « l'inclinazione allo scisma » e, piú vecchi ancora,
il Friuli, la fanciullezza; e, accanto, i motivi « nuovi »: la viltà borghese.
la necessità disperata di dare un « nuovo scandalo », l'invettiva, la pro-
fezia, l'ironia. Parlare di svolgimento è improprio: non c'è, infatti, un
processo limpido di liberazione dai primi motivi e acquisizione dei nuovi:
spesso sono compresenti, a conferma della incapacità di Pasolini di libe-
rarsi completamente dalla « sua » tradizione, nonostante le ripetute dichia-
razioni di fallimento di quella « esperienza di nostalgia » Il rischio minore,
in questo caso, è quello di stancare il lettore; il rischio maggiore è, invece,
quello di stancare la propria poesia, nella continua tensione di inventare
nuove immagini per quel mondo ormai tante volte riinventato. Le infi-
nite risorse letterarie di Pasolini riescono a volte a mascherare questo
sforzo; altre volte, invece, dare corpo al fantasma ossessivo della fanciul-
lezza friulana, per esempio; costringe il poeta a scoprire tutta la consun-
zione di quel mito. E allora vediamo il giovinetto rappresentato nel com-
piere « fino al sangue » « dolcissime » masturbazioni sulle tombe di « sol-
dati italiani e tedeschi », pronti a vendicarsi, la notte, con lacrimose e
sanguinose apparizioni (Una disperata vitalita). Non si contesta, ovvia-
mente, il diritto di mitizzare la « gioia solitaria ~> di un fanciullo; si
vuole verificare, piuttosto, lo sfruttamento sino al limite di un motivo
già tante volte proposto.
Ma è piú utile passare ai nuovi motivi. Il « terrore della realtà e della
solitudine » lo spinge a « cercare nuove alleanze » « che non hanno altra
ragione / d'essere, come rivalsa, o contropartita, / che diversità, mitezza e
impotente violenza: / gli Ebrei... i Negri... ogni umanità bandita... »
(La realtà). La conoscenza di questa nuova e antica umanità riesce a com-
muovere il poeta, come sempre; ma la nuova « rabbia ~> pare smuovere
quella commozione dalla desolata staticità dell'impotenza: un nuovo sogno
ora appare: il profeta « che non ha / la forza di uccidere una mosca... »
che « urla » la sua profezia: « Ah Negri, Ebrei, povere schiere / di se-
gnati e diversi, nati da ventri / innocenti, a primavere / infeconde, di
vermi, di serpenti, / orrendi a loro insaputa, condannati / a essere atro-
cemente miti, puerilmente violenti, // odiate! straziate il mondo degli
uomini bennati! / Solo un mare di sangue può salvare, / il mondo, dai
suoi borghesi sogni destinati // a farne un luogo sempre piú irreale! /
Solo una rivoluzione che fa strage / di questi morti, può sconsacrarne
il male! » (ibidem). I1 tono « naturalmente ~> retorico della poesia civile,
suggestionato a volte da una tradizione lontanamente biblica, disciplinato
in una struttura metrica severamente tradizionale, anche se non « classica »,
è il tono di queste prime nuove poesie. Una misura, quindi, rigorosa-
mente letteraria, che spesso, tuttavia, cede a movimenti di raffinata sa-
pienza stilistica, o a sovrabbondanza passionale, o a effetti realistici, o,
nei momenti migliori, a « prosaicità ». Come in Pietro II, poesia d'occa-
sione, come tante altre, e non solo di questa raccolta, scritta nei primi
giorni del marzo del 1963, durante il processo per il film La ricotta: apo-
logia della sua eretica religione, del suo modo di intendere la santità: « I1
santo è Stracci ». I1 processo, la condanna, conseguenze di uno « scan-
dalo », diventano l'occasione per riproporre la divisione tragica tra il
poeta, il « diverso » e la classe borghese che lo giudica; ma il tono è molto
meno drammatico e retorico di altre volte, molto meno carico: consente
persino di fare un po' di ironia: « Ecco, sono stato condannato. / Fatto per-
sonale, cicuta che dovrò bermi da solo. / Come l'eroe di un'operetta di do-
lore, in coturni / tra il basso coro, scendo nella notte--tiepida--/ l'or-
renda scalea. Gli amici se ne vanno a cena. / Solo. Con tre gatti di foto-
grafi, e la piccola / folla che non guardo, eroe compreso nel suo dolore ».
L'ironia, e soprattutto l'autoironia, è il tono nuovo di questa rac-
colta di poesie; il tono nuovo di gran parte dell'« ultimo Pasolini ».
Piú spesso è esercitata sulla propria funzione di poeta; del poeta di
una volta: « Ma lasciamo stare: / ho descritto fin troppo, / e mai
oralmente, / i miei dolori di verme pestato / che erige la sua testina e
si dibatte / con ingenuità ripugnante » (Una disperata vitalità, VI3; e del
poeta di oggi, che prende coscienza della mistificazione del proprio « me-
stiere » e ne denuncia, volontariamente, i già di per sé chiari strumenti
e meccanismi: « Verità evanescente della situazione domestica, l'ossessione
narcissica, sempre per l'infatuata, arbitraria irrazionalità dell'idea dell'abiu-
ra » (Poema per un verso di Shakespeare); « Continuare ossessive itera-
zioni visionarie, il reportage interpolato anaforicamente al motivo del-
l'abiura » (ibidem); e la falsità programmata di un nuovo stile: « ironia,
sul melodramma -- caduta di ogni speranza di comprensione presso i
destinatari di letteratura, che, per fenomeno contradditorio, assume una
forma di recitativo melodrammatico, in una levigatezza linguistica gene-
rica, da « traduzione »--con sopra appunto l'allegria del suicidio, per
una cerchia specializzata di destinatari » (ibidem).
Altre volte l'ironia vuole proporre un mito nuovo di poeta, dopo quel-
lo del « diverso »,~dell'« unico »: « Sotto / di me, che mi batto come un
Don Chisciotte di tre anni, / un Orlando noioso, tirato dai miei bei fili »
(ibidem), ma, questa volta, senza la fastidiosa esibizione di un singola-
rissimo destino.
I1 « ripiegamento » dell'ironia è, a questo punto, una necessità della
storia umana e poetica di Pasolini: è finito il tempo del « pianto », del-
l'amore fanciullo; ora il poeta, a quarant'anni, « deve » fare « il poeta
padre », come scrive nel Frammento epistolare, al ragazzo Codignola:
tra il poeta e il ragazzo c'è ormai una « immedicabile disparità », non
voluta, né sentita intimamente, ma imposta, appunto, dalla vita. E il
poeta-padre ha il dovere di ripiegare sull'ironia.
Con questo nuovo strumento Pasolini potrebbe dare una svolta alla
sua carriera di poeta, incominciare da capo; ormai ha « abiurato » dal
« ridicolo decennio » degli anni '50; si trova di nuovo, come sempre,
solo, ma con in piú una consapevolezza nuova del suo quasi inutile me-
stiere di poeta. Quale, dunque, potrà essere il suo « progetto di opere
future »? Tutto, o niente: qualunque cosa, qualunque opera: un nuovo
Inferno, una Passionale storia della poesia italiana, una Bestemmia; giac-
ché « non conta né il segno né la cosa esistente ». La demistificazione
della poesia e della letteratura sembra totale: la poesia può anche con-
tinuare, ma solo per « inerzia ». Il poeta ha trovato il suo posto: « Ah
oscure / tortuosità che spingono a un " destino d'opposizione "! / Ma
non c'è altra alternativa alle mie opere future » (Progetto di opere fu-
ture). Un destino non certo nuovo; anzi, il suo destino di sempre. Speci-
ficato, nei termini antichi: non l'Opposizione con la o maiuscola, « potere
nel potere », che segue il Potere nell'« atto trionfante »; ma l'opposizione
con la o minuscola, di chi non può « essere amato da nessuno, e nessuno
può amare ». Un destino, come sempre, di « martire », ridicolmente espo-
sto: « Bisogna deludere. Saltare sulle braci / come martiri arrostiti e ridi-
coli: la via della Verità passa anche attraverso i piú orrendi / luoghi
dell'estetismo, dell'isteria, // del rifacimento folle erudito » (ibidem).
Ma c'è di nuovo, una « novità » stilistica. La nuova testimonianza sarà,
quindi, un nuovo esperirnento di stile: « Solo una nobik broda / d'ispira-
zioni miste, demistifica ». La svolta, dicevamo, potrebbe essere questa.
Lo sarà quando Pasolini riuscirà a liberarsi completamente del passato,
dai suoi vecchi impegni di poeta privato e civile; se mai ci riuscirà.
questa contraddizione che tiene prigioniero il poeta: sentimentale e, quin-
<li, stilistica. Cosí in Vittoria, una delle poesie alle quali Pasolini tiene
di piú, perché vi vede « prefigurato » lo spirito politico e idealistico d'oggi.
L'autoironia è pronta a demistificare, sul nascere, la poesia: « Bene, mi
sveglio per la prima volta in vita mia / col desiderio d'impugnare un'ar-
ma. / I1 ridicolo è che lo dico in poesia // [...] Non è la mia che fre-
nesia dell'alba. / A mezzogiorno sarò coi miei connazionali / alle opere,
ai pasti, alla realtà che inalbera // la bandiera, oggi bianca, dei Destini
Generali »; ma davanti al vecchio mito della Resistenza tradita si arresta.
68 Ed è naturale. Si può ironizzare sulla realtà presente, sulla propria mito-
poiesi, ma una volta consentito al mito di riproporsi, l'ironia deve tacere.
La contraddizione è, quindi, nella volontà: lo stile la segue. Per cui è
ovvio che il poeta debba commuoversi per quei partigiani, giovani, inge-
nuamente risuscitati e crudelmente riseppelliti; come è ovvio il tono
tribunizio-profetico dell'esortazione a fare piazza pulita: a vadano, tanto
per incominciare, dai Crespi, dagli Agnelli, / dai Valletta, dai potenti
delle Società / che hanno portato l'Europa sulle rive del Po: // è giunta
per ognuno di loro l'ora che non ha / proporzione con quanto ebbe e
quanto odiò. / Coloro poi che hanno sottratto al bene comune // capitale
prezioso, e che nessuna legge può / punire, ebbene, andate, legateli con la
fune / dei massacri ~>; come è ovvio l'intenerimento per l'infelice fra-
tello: « Con la testa spaccata, la nostra testa, tesoro / umile della fami-
glia, grossa testa di secondogenito, / mio fratello riprende il sanguinoso
sonno, solo`// tra le foglie secche, nei sereni / eremi di un bosco delle
prealpi, perso nell'oro / della pace d'una interminabile Domenica ». Co-
sicché il verso conclusivo « Eppure, è questo un giorno di vittoria » non è
dettato dall'ironia, ma dall'antica pietà.
Teorema, il libro pubblicato nel '68, quindi l'ultimo sino ad oggi, non è
la sceneggiatura del film omonimo, anche se è « un libro da film o per
film » (Camon). Non c'è una battuta di dialogo, non c'è una « rappresen-
tazione » come in Accattone o La ricotta. L'autore stesso, d'altra parte,
definisce l'opera: « parabola » e il contenuto « una irruzione religiosa
nell'ordine di una famiglia milanese », borghese. Qui è la prima novità
dell'opera: il mondo borghese. i~ la prima volta, infatti, che Pasolini
sceglie di parlarne direttamente. La qualcosa comporta due grossi pro-
blemi: la posizione da assumere e, di conseguenza, la lingua da adottare.
Tl Pasolini « realista » del sottoproletariato è stato mimetico; ora, nei
confronti della borghesia, non sa o non può esserlo (l'ha detto all'inizio
dell'intervista lui stesso); quindi un « romanzo » sulla borghesia non può
scriverlo: può scrivere una « parabola » però, la~ cui programmatica alle-
~oricità gli consente di adottare una lingua neutra (« sognata e labile »),
che si limiti a descrivere: dai fatti cosí esposti emergerà, direttamente,
il significato simbolico. E cosí è infatti. Nella descrizione, dei « dati »,
della vicenda, la prosa va avanti piana, scorrevole, senza un sussulto di
partecipazione. Nella prima parte, dopo la descrizione dei personaggi: il
padre, la madre, il figlio, la figlia, la serva, segue la descrizione dei modi
in cui tutti i membri della famiglia e, prima di questi, Emilia, la serva,
si concedono al giovane ospite, in una successione di fatti « puramente
casuale », perché sono « compresenti e contemporanei ». Nessuna storia
e nessuno svolgimento, quindi. Nella seconda parte, altrettanto casual-
mente, sono descritte le conclusioni, se cosí si possono chiamare, di quella
eccezionale esperienza: il padre dona la fabbrica agli operai, si spoglia
nella stazione di Milano e scompare, nudo e urlante; la madre cerca dispe-
ratamente di ritrovare in altri rapporti sessuali il « rapporto ~> misterioso
e sconvolgente con il giovane ospite; il figlio abbandona tutto per la pit-
tura in una impotente crisi di significati e di valori; la figlia impazzisce
per il ricordo di quell'esperienza; la serva torna al suo paese e incomincia
a fare miracoli.
L'allegoria, nonostante le apparenze, è facile a cogliersi: l'eccezionale,
il miracolo è lo sconvolgimento della vita borghese, basata sulla sicurezza
del possesso; il primo borghese della famiglia, il padre industriale, è il
primo ad accorgersi di « non possedere » qualcosa. Lo sconvolgimento
avviene attraverso la violenza: negli « allegati » Pasolini riporta un ver-
setto del libro di Geremia: « Mi hai sedotto, Dio, e io mi sono lasciato
sedurre, mi hai violentato... » e aggiunge « anche in senso fisico ». Dun-
que Dio, o un'esperienza religiosa, per farsi sentire nel mondo borghese,
ha bisogno della violenza, come Cristo nel Vangelo secondo San Matteo
nei riguardi dei mercanti nel tempio; perché il mondo borghese ha per-
duto, anzi, non ha mai avuto, una religiosità. I1 borghese è conservatore
in quanto pensa sempre a « domani », al suo domani. I1 povero, il sem-
plice, l'umile, il « religioso », no. Cosí Emilia: « Tu vivi tutta nel pre-
sente / Come gli uccelli del cielo e i gigli dei campi, / tu non ci pensi,
al domani » (p 106). Il titolo della poesia da cui sono tratti questi versi
è illuminante: Complicità tra il sottoproletario e Dio. Per questo Emilia
« ragazza di basso costo, / esclusa, spossessata del mondo » è « eletta »
e va a compiere miracoli tra l'ingenuo stupore e l'ingenua fede dei suoi
poveri e semplici compaesani, quasi alla periferia della grande città.
A questo punto, a svelare la « parabola » interviene lo stesso autore,
~ntroducendo un giornalista che pone alla povera gente radunata intorno
alla « santa », una serie di domande, per una « inchiesta sulla santità ».
Pasolini si scusa col lettore per il linguaggio che dovrà adoperare: quello
<. usato nel commercio culturale quotidiano--i giornali, la televisione--
e, meglio che dozzinale, addirittura volgare ». Ma il discorso è tutto paso-
liniano; ché di discorso si tratta, e non di domande e risposte. Quei con-
~adini, infatti, non saprebbero rispondere. E le risposte, inoltre, sono nella
logica stessa delle domande: « Per quale ragione, secondo lei, Dio ha
scelto una povera donna del popolo per manifestarsi attraverso il mira-
colo? [...] Per la ragione che i borghesi non possono essere veramente
religiosi? » (pp. 176-77). Sono definizioni: « Essa tla « santa matta »,
Emilia] non è una terribile accusa vivente contro la borghesia che ha
ridotto--nel migliore dei casi--la religione a un codice di comporta-
mento? ». Solo all'ultima domanda non c'è risposta. E perciò l'abbiamo
riproposta a Pasolini nell'intervista: « Ma il nuovo tipo di religione che
allora nascerà (e se ne vedono già nelle nazioni piú avanzate i primi segni)
non avrà nulla a che fare con questa merda (scusi la parola) che è il
mondo borghese, capitalistico o socialista in cui viviamo? » (p. 179).
Pasolini ci ha risposto: « Chi ama veramente la vita non pensa mai al
futuro ». Una risposta di semplicità « evangelica », uguale all'ultimo verso
della Preghiera su Commissione: « Caro Dio / facci vivere come gli
uccelli del cielo e i gigli dei campi ». Una risposta che mette in crisi
tutto il rigore del « ragionamento ».
Lo stesso accade alla fine della seconda « inchiesta », sulla « dona-
zione ». Stabilito che la donazione della fabbrica da parte del padre-pa-
drone agli operai non è un atto isolato, ma « rappresenta, piuttosto, una
generale tendenza di tutti i padroni del mondo moderno »; e che attra-
verso una serie di donazioni o di « concessioni » « la mutazione dell'uomo
in piccolo borghese sarebbe totale », « fino alla completa identificazione
del borghese con l'uomo »; in questo universo borghese saprebbe la bor-
ghesia « rispondere alle domande che la storia--che è la " sua " storia
--le pone? ». A quest'ultima domanda non segue una risposta, né un'al-
tra domanda. Anche qui, dunque, un « ragionamento » si conclude senza
possibilità di risposta « logica ». A meno di non `rispondere: no; ma la
negazione, nonché risolvere, aggrava il drammatico problema che l'intervi-
statore-Pasolini rileva.
I1 finale di Teorema conferma questa dolorosa scoperta di Pasolini:
le risposte, le soluzioni della « logica », borghese o no, conducono l'uomo
per un cerchio vizioso dal quale non si esce se non con il rifiuto della
« logica » (ma chi può rifiutarla se essa è nel mondo?). L'urlo inumano
che esce dalla gola del padre, nel deserto dove è fuggito, è la risposta
assurda, . « fuori [ ... ] dalla volontà » di chi « esiste » e di chi « sa », ma
non può esprimere: « ~ un urlo / in cui in fondo all'ansia / si sente
qualche vile accento di speranza; / oppure un urlo di certezza, assoluta-
mente assurda, / dentro a cui risuona, pura, la disperazione. / Ad ogni
modo questo è certo: che qualunque cosa / questo mio urlo voglia signifi-
care, / esso è destinato a durare oltre ogni possibile fine ». A tanto
drammatica conclusione giunge questo « manualetto laico, a canone so-
speso », come lo definisce Pasolini, nel risvolto della copertina, che pone
i problemi « senza pretendere di risolverli ».
Un tentativo di « conoscenza », fuori dalla tradizione logica Pasolini
lo compie con il nuovo strumento che ha trovato: la psicanaiisi. Altri
impieghi, contemporanei, di questa forma di 'conoscenza sta operando nei
film di questo periodo, Edipo re, per esempio, e nel teatro, Pilade. Ma
la sua adozione è, per ora, marginale: la « parabola » si spiega diversa-
mente, come abbiamo visto. i~ nell'Appendice alla parte prima, in una
serie di poesie-confessioni dei vari personaggi, che qualche trovata psicana-
litica fa la sua apparizione, sopratutto intorno a un rapporto padre-figlio
e madre-figlio in cui il « vero » rapporto col giovane ospite confluisce,
in una eccezionale incestuosità che approfondisce, appunto, l'« ecceziona-
lità » di quelle esperienze. i~ un motivo, quello del rapporto padre-figlio,
che ritroveremo proposto anche, con maggiore importanza, in A,~abu-
lazione.
L'ultimo Pasolini, se è lecito dire cosí, si muove, nella letteratura, in
una situazione di assoluta, o quasi, solitudine. Se continua a scrivere poe-
sie, mi ha detto, piú o meno, durante il colloquio che ho avuto con lui
per l'intervista, lo fa per « inerzia », sopratutto: una dolorosa inerzia
che gli deriva dal suo mestiere di poeta e che lo costringe a scrivere. C'è
una parte di lui che per le tante esperienze di vita e di cultura, per il
tanto amore profuso un tempo per esse, non può tacere. Questo atteg-
giamento si trova in una delle ultime poesie, Appunti per un'arringa
senza senso: « Qualcosa rifluisce e torna al punto di partenza / (ché nulla
va perduto) / e il corpo in cui questo avviene resta con quel poco
d'anima / che è necessaria a tirare avanti infino alla fine » (« Nuovi Argo-
menti », marzo-giugno 1970). La leggera ironia di quell'« infino alla fine ~>,
cosí civettuosamente letterario, non è solo un modo stilistico, ma la spia
dì una stanchezza senza speranza. E « versi assolutamente senza speranza,
che non sia l'affastellante vitalità del provare sentimenti e dello scrivere »
sono quelli de La poesia della tradizione (« Nuovi Argomenti », gennaio-
marzo 1970) dedicata ai giovani di oggi (« Oh generazione sfortunata! »)
« fanciullescamente » pragmatici, « puerilmente » attivi, fieri del nuovo
mito della « organizzazione ».
Pieno di speranza Pasolini non lo è stato mai; al contrario, è stato
il poeta delle speranze tradite; ma pure, in quella sua poesia della dispe-
razione, c'era una vitalità, che si traduceva anche in termini di linguag-
gio. Ora, invece, questa « vanità » della speranza, diventa, coerentemente, 73
vanità di linguaggio, banalità, usualità: « Smetto di essere poeta originale,
che costa mancanza / di libertà: un sistema stilistico è troppo esclusivo. /
Adotto schemi letterari circolanti, per essere piú libero. / Naturalmente
per ragioni pratiche » (Trasumanar e Organizzar, « Nuovi Argomenti »,
gennaio-marzo 1969). Il suo « commercio linguistico » non ha piú pro-
blemi: « Niente contaminazione. Pura koiné » (ibidem).
Non è un motivo nuovo: già in Poesia in forma di rosa e, in partico-
lare, nel Progetto di opere future, questo « disimpegno ~ stilistico era
stato preannunciato. Ma questa volta Pasolini sembra andare piú in pro-
fondità: stabilita la « vanità » di un impegno « originale », tanto vale
registrare, o meglio, ripetere quello che ci circonda, con tutta la sua
illogicità: « Tendo dunque con tutto me stesso all'agrammaticale / (però
rielaborato in studio) / Vorrei mimare l'ecolalia, essere fatico, fatico /
e cosí esprimere, al grado piú basso, il tutto » (ibidem). Ma queste dichia-
razioni di « poetica » restano, come sempre, in gran parte irrealizzate.
All'« impegno », al suo impegno, Pasolini rimane « immedicabilmente »
fedele; con meno slancio, con meno rabbia di prima; con maggiore stan-
chezza. Perché poi continua a eccitare il suo spirito civile alle varie occa-
sioni che la storia e la cronaca propongono. Come contro gli studenti
pseudo-rivoluzionari della famosa e « scandalosa » poesia Il PCI ai
giovani, con la quale difende i poliziotti proletari e sottoproletari con-
tro gli universitari borghesi che dicono di voler fare la rivoluzione, ma
fanno una guerra civile di borghesi contro borghesi, aspettando un enne-
simo sterminatore di questa società che riporti pace e ordine, un altro
Hitler, per esempio.
Oppure l'occasione « civile » si trasforma, con qualche sforzo, in una
costruzione allegorica, come in L'ottobre del 1969 (Poemi zoppicanti,
« Nuovi Argomenti », ottobre-dicembre 1969) dove l'antitesi « natura-
storia » è riproposta in quella « chiesa-tempio », quando nel primo ter
mine s'intenda, appunto, la vita generosa e pura e nel secondo l'« orga-
nizzazione »: sindacale, in questo caso, o partitica, o religiosa che sia. Al-
74 trove i due linguaggi, quello dell'impegno diretto e quello dell'allegoria
coesistono, come in Ortodossia (La restaurazione di sinistra, « Nuovi Argo-
menti », aprile-giugno 1970). Il rimprovero, esplicito, è rivolto ai comu-
nisti del « Manifesto »: « L'eretico, dunque, non cercò con disinteressato
amore l'eresia; / non se lo sognò nemmeno! / Oppose serietà a serietà; /
ricercò la purezza originaria del pensiero. / Lottò, in realtà, per la vera
ortodossia. // [...] Gli autori del « Manifesto » dunque furono impa-
vidi / ma per creare nuova certezza, nuovi ripari a chi », col verso lasciato
sospeso, com~è nuova abitudine dell'ultimo Pasolini. Questi comunisti
che non hanno volutó essere eretici fino in fondo stanno costruendo
« un'altra chiesa » (il termine è usato diversamente dalla precedente poe-
sia), invece di distruggere quella che già c'era; perché « nessuno, se
non i barbari, / ha mai voluto distruggere una chiesa ». E quindi ritorna
ancora, il vecchio mito: i barbari sono le forze « pure » della storia, i
« diversi ». E con questo mito, il mito della sua « dileasità », iiersità
c2di colui
che dando tutto sè esibito « scandalosamente » al mondo;
arricchito di una dimensione piú precisamente « storica »: oggi, in questa
società dei « Doveri » e della « Integrazione », « bisogna pure che qual-
cuno porti sulle miserabili spalle / una croce (" merda n e altre parole
illeggibili c.s.) / Perdere una reputazione per una santità equivoca: mah! /
Ma bisogna pure che ci sia qualcuno pieno di croste, / l'Intoccabile /
Chi punta poco per perdere o vincere poco / vuole contemplare lo spet-
tacolo di chi vince o perde molto / possibilmente di chi perde molto,
horror mundi /--alludiamo a noi stessi, tanto per cambiare, / e per
screditarci ancora un po~, se ce ne fosse bisogno /--non abbiamo fatto
infatti in tempo a essere cattivi figli / che già siamo cattivi padri (parole
illeggibili c.s.)--ottenendo una paterna disapprovazione da quelle caro-
gne dei figli » [Charta (sporca), Poemi zoppicanti, cit.]. E evidente la
coscienza che Pasolini ha della stanchezza di questo mito del quale riesce
anche a sorridere, con un po' di pena, ma dal quale non riesce a stac-
carsi. Da qui l'« inerzia » della sua poesia; da qui la solitudine ideologica,
l'impossibilità di capire i « giovani rivoluzionari », il « gergo » parlato
nei loro « covi ». Da qui l'attaccamento, disperato ma stanco, ai suoi
sogni, alle esperienze vissute nella nostalgia, come la Resistenza: « bru-
ciate nel vostro ottuso rigore / (come altri si drogano) / e non risognate
CLN, non celebrate anniversari; / non avete avuto esperienza dei giorni
di sole del '47; / ciò che accadde sotto il sole è legato al sole; / se quel
sole a voi fu precluso / e oggi la vita, tutta per voi, / dà esclusiva-
mente a voi questo sole del 21 dicembre 1969, / non andate a ripescare
ciò che accadde in quel solario / a meno che come poeti non sappiate
rievocare quel solario, / e non è il caso vostro; lasciate morire chi deve
morire » (La raccolta dei cadaveri, cit.).
~ Le « osservazioni » di Pasolini sono, dunque, sempre le stesse; se
danno, a volte, I'impressione di essere diverse accade perché lo « speri-
mentalismo », le « tendenze » stilistiche riescono a rinnovarle. Abbiamo
usato di proposito i termini che Pasolini stesso ha usato nei confronti
del Pascoli nel saggio raccolto in Passione e ideologia, perché abbiamo
avuto la conferma che quel giudizio non era del tutto estraneo a chi lo
pronunciava. Le dichiarazioni di « poetica » restano spesso intenzioni: è
vero che il linguaggio, generalmente, è cambiato: s'è fatto piú discorsivo,
piú « prosaico », volontariamente banale, a volte; è vero che non ci sono
piú i versi inteneriti, i crudi realismi, le raffinate analogie; che le strut-
ture metriche della tradizione sono state progressivamente ripudiate per
composizioni piú libere, ma sempre controllate (basti vedere con quanta
precisione Pasolini riesce a isolare nel verso la parola piú importante);
ma è anche vero che tutto questo rinnovamento non è avvenuto in pro-
fondità, perché basta che i vecchi miti insorgano e anche il linguaggio
si adegua: cosí abbiamo i riecheggiamenti biblici, le non infrequenti male-
dizioni e profezie: il tono serio e impegnato. E la « passione » che pre-
vale sempre sull'« ideologia »: solo nei momenti di silenzio di quella può
parlare questa. Cosí troviamo le « novità » delle dichiarazioni di poetica.
Se le « occasioni » stimolano la « passione » il poeta continua a scri-
vere, come Geremia, le sue lamentazioni; se stimolano l'« ideologia » il
poeta può « inventare », può « sperimentare » o, senz'altro, distaccarsi
76 un po', con l'ironia e l'autoironia da questa nostra storia alla quale « non
c'è mai vera alternativa, mai ». Altrimenti, come gli « innocenti » ragazzi
di Poema politico non potrà opporre altro che il suo pianto.
La tendenza allo « sperimentalismo » trova una conferma nell'ultima,
finora, ricerca di Pasolini; I'oggetto di studio: il teatro. Nei primi mesi
del '68 ha pubblicato, sul numero 9 di « Nuovi Argomenti » il Manifesto
per un nuovo teatro, proponendo un « teatro di parola ». Citiamo dal rie-
pilogo: a La sua novità consiste nell'essere, appunto, di Parola: nell'op-
porsi, cioè, ai due teatri tipici della borghesia, il teatro della Chiacchiera o
il teatro del Gesto o dell'Urlo, che sono ricondotti a una sostanziale unità:
a) dallo stesso pubblico (che il primo diverte, il secondo scandalizza); b)
dal comune odio per la parola (ipocrita il primo, irrazionalistico il secon-
do) ~>. Il teatro di Parola si propone come « un teatro che sia prima di tut-
to dibattito, scambio di idee, lotta letteraria e politica, sul piano piú de-
mocratico e razionale possibile: quindi un teatro attento sopratutto al
significato e al senso, ed escludente ogni formalismo ». Il manifesto, sti-
lato con una certa civetteria letteraria, non senza una punta di ironia, si
occupa di tutti i problemi che possano riguardare il teatro: i destinatari,
la lingua, gli attori, il « rito » teatrale. Per quanto riguarda i destinatari
il pubblico, questo sarà costituito dai « gruppi avanzati della borghesia »
cioè dalle « poche migliaia di intellettuali di ogni città il cui interesse cul-
turale sia magari ingenuo, provinciale, ma « reale " ». Attraverso questi
gruppi il teatro di parola potrà raggiungere « realisticamente » la classe
operaia: « Essa è infatti unita da un rapporto diretto con gli intellet-
tuali avanzati. E questa una nozione tradizionale e ineliminabile della
ideologia m~arxista e su cui sia gli eretici che gli ortodossi non possono non
essere d'accordo, come su un fatto naturale » (p. 12).
Dunque nel teatro di Parola, a differenza di quello borghese e di quello
underground, non ci saranno « conferme » di convinzioni borghesi o anti-
borghesi, ma « scambio di opinioni e di idee ». Ma tanta sicurezza pro-
grammatica è posta in crisi dallo stesso Pasolini in una noticina, che ri- 77
vela una certa misura di ambiguità e provocazione: « Non è detto, certo,
che gli stessi gruppi culturali avanzati siano qualche volta scandalizzati e
soprattutto delusi. Specie quando i testi siano a canone sospeso, cioè pon-
gano i problemi, senza pretendere di risolverli » (p. 11). Ci sembra im-
portante questa nota: quale scambio di « idee », quale processo positivo
potrà realizzarsi in quell'aristocratica cerchia di pubblico cui è destinato
il teatro di Parola se i testi saranno a « canone sospeso »? Saprà, quel
pubblico, anche quel pubblico, avere l'umiltà di accettare dei problemi
che lautore non pretende di risolvere perché non si possono risolvere?
Una discussione a « canone sospeso >~, ché altro non si potrebbe avere;
una discussione che lasci insoluti i problemi può non deludere un pub-
blico che, per mestiere o vocazione, dovrebbe avere l'abitudine, anche,
di risolvere i problemi? Per questo pensiamo a una « provocazione ».
I due testi teatrali che Pasolini finora ha pubblicato, Pilade, sul nu-
mero 7-8 di « Nuovi Argomenti » (1967) e A~abulazione, sul numero i5
(1969), sono, in diversa misura, opere a « canone sospeso », come Teore-
ma, del resto. Di quest'ultima opera si ripropone il rifiuto della « logica »,
della « ragione » come possibilità di conoscenza e, a maggior ragione, di
soluzione dei problemi. Cosicché quella disponibilità alla « discussione »,
che dovrebbe essere tipico del teatro di Parola, ci appare ancora una volta
ambigua e provocatoria, in un senso tuttaltro che negativo, non tanto nei
confronti della società borghese, quanto proprio di quel pubblico sele-
zionato CUi 1I teatro dovrebbe essere rivolto.
Il « canone aperto » in Pilade è, se non bastasse la vicenda a esplici-
- tarlo, dichiarato nelle battute conclusive dell'Epilogo. Pilade, giunto alla
fine della sua storia, « dovrebbe » chiedersi « qual è la novità » di quella
sua storia; e alla domanda del « vecchio >~: « E perché non te lo chiedi? »
risponde: « Perché non ho risposta. E vero: / tutto ciò che non finisce,
finisce secondo verità. / Ma io non so capire questa fine sospesa / della
mia storia; né i nuovi sentimenti / in cui, bene o male, senza conclu-
sione, / io continuo a vivere » (p. 123). Pilade non sa capire perché si
78 è liberato da Atena, la ragione; perché ha scoperto che la ragione è sempre
e soltanto « consolatrice ». Cosí le sue azioni sono sempre apparse « sna-
turate »; cosí i suoi ideali, i suoi entusiasmi. Nel farsi, ogni cosa si rivela
in una luce che non è piú quella di prima, dal momento in cui, dall'oscu-
rità emerge. E la tragedia si chiude con un'imprecazione: « Che tu sia
maledetta Ragione, / e maledetto ogni tuo Dio e ogni Dio ». Con la rive-
lazione di quest'epilogo è possibile fare miglior luce sulla vicenda, in
verità di non sempre facile decifrazione.
Ad Argo la tirannia di Clitennestra e di Egisto è stata abbattuta. Ore-
ste, il regicida, fuggito ad Atene ed assolto dal tribunale che Atena ha co-
stituito, ritorna; ma è un uomo cambiato: un uomo non piú sottomesso al
« passato » e alle sue divinità, le Furie, ma alla nuova dea, ad Atena.
Quindi non vuole piú essere tiranno: chiede al popolo se deve essere Re.
E il popolo lo acclama Re. Cosí mutato appare irriconoscibile ad Elettra,
anche essa regicida, ma tenacemente legata al passato, alla tradizione, alla
religione: a tutto ciò che è « sacro ». La città, intanto, sotto il nuovo go-
verno, progredisce: « La città ora è un'altra. / Sopravvivono, certo, quelli
che come sempre / s'incaricano di custodire il passato. / Ma, in realtà,
noi cittadini di Argo / ci costruiamo giorno per giorno il futuro. / Il
reddito di ciascuno di noi è cresciuto del doppio. / I commerci della no-
stra città si sono moltiplicati » (p. 30). E il Coro che parla cosí, i citta-
dini che « contano »: i nuovi borghesi, se si vuole. Ma un giorno metà
delle Furie, le « passioni intransigenti e ossessive / della religione antica »,
quelle Furie che Atena aveva trasformato in Eumenidi, benigne deità del
sogno, ritornano ad essere quello che erano prima, riconducendo nel popo-
lo le antiche paure. Oreste riconosce in questo la giustizia degli dei: « Ah,
è troppo giusta, la giustizia degli dei! / Essi mi hanno ascoltato con grande
attenzione, / certo, quando io, nel momento della scoperta / di una nuova
divinità, / che, da una nazione piú avanzata, ho portato / qui nella mia,
ancora contadina e ossessionata / da povertà e religione / mi sono offerto
di sacrificarmi! » (p. 41). I poveri, i contadini sono sempre rimasti schiavi
delle furie: solo Oreste e il suo Parlamento hanno creduto in Atena. Que-
sto ha capito Pilade, il silenzioso e misterioso compagno di Oreste, il 79
« diverso », « lui che non giudica, ma giudicando ama, / [...] lui che è
forte, ma la sua forza la dona ».
Pilade è venuto in città « a mettere in dubbio l'ordine, ormai santo »
della vita secondo ragione, portando in essa il suo odio ma anche un « ter-
ribile / sanguinario, puro, disperato amore ». Cosí si trova alla testa di
una schiera di affamati, di contadini, di operai, e la conduce vittoriosa-
mente fino alle porte di Argo. La regressione al passato: miseria, paura,
religione, ha permesso a Pilade tutto questo; ma sul punto in cui quel pas-
sato, quel sogno sta per diventare realtà egli smarrisce la propria sicurezza,
la propria fede: « Io odio l'irrealtà / in cui vorrei vivere rinunciando a
quel diritto. / Sono un'anima in pena /--e non sono neanche tanto
sicuro / della sincerità del mio dolore » (p. 59). Di fronte all'improvvisa
ambigua incertezza di Pilade, in Argo assediata Oreste ed Elettra si ricon-
ciliano, trovando in questo patto una nuova realtà: « Le Furie nel Tem-
pio, Atena nel Parlamento ». Il necessario compromesso tra passato e fu-
turo, tra relígione e ragione ne snatura i termini stessi, ma fa di Argo
una città « nuova », davanti alla quale Pilade è arrivato « vecchio », come
gli dice Oreste: « I sentimenti che t'hanno spinto / lontano dalla città,
nell'abiura, prima, / poi nella rivolta armata / e ragionata, / sono ora
giunti in te / alla loro maturità estrema e piú alta » (p. 92). Atena è stata
piú veloce: ella, non Pilade, compirà la seconda rivoluzione di Argo, la
« vera rivoluzione ».
Pilade, rìella solitudine della « terra di nessuno », alla ricerca di se
stesso, con una disperata voglia « di morire o di amare », ritrova se
stesso incontrando Elettra, vivendo con lei un amore che è incestuoso,
anche se nessun legame li unisce. A questo amore conduceva, misteriosa-
mente, la vita di entrambi; « Tutto quello che noi abbiamo fatto / io
Elettra, tu Pilade, / per la nostra città e contro la nostra città, j non
portava allora alla gran luce / il cui pensiero ci accecava... / ma a questo
angolo buio... / a questo po' d'erba, che guardo soffocando... » (p. 105).
Questo amore sacrilego e sacro è l'unica cosa che resti a Pilade- non piú
80 lo spirito, ormai « offuscato dall'idea della sconfitta »; non piú il corpo
« che non è piú giovane né privilegiato ». In quell'amore Pilade vede
« qualcosa che la natura rifiuta », « una sfida a tutte le coscienze », la pos-
sibilità di sottrarsi a quella vita che appare come un gioco beffardo di
false successioni tra « Furie » ed « Eumenidi » manovrato da Atena: « C'è
nell'uomo un diritto / (a perdersi, a morire) / che Atena non sorveglia,/
e che nessun altro Dio conosce. / Ebbene, io lo esercito. / E mentre
siamo qui / travolti dagli avvenimenti, / una musica, che dà scandalo e
vergogna / scorre stupendamente nella mia carne » (p. 114). In Argo,
intanto, Atena celebra il suo trionfo: i cittadini, una volta uguagliati
dalla rassegnazione, dai « religiosi terrori che dà la miseria », ora sono
felicemente uguagliati « nella certezza irreligiosa della ricchezza ».
Non è stato facile dipanare dall'intrico delle vicende i motivi che abbiamo
cercato di illustrare. La confusione, naturalmente, è voluta, è « obiettiva »,
cosí come il carico simbolico che personaggi e vicenda si portano appresso.
Cosicché l'analisi dell'opera non può far altro che registrarne le compo-
nenti significazioni simboliche, lasciando sospeso, com'è richiesto dalla
struttura stessa dell'opera, ogni interpretazione « definitiva ». E queste
comp\onenti sono molte, e diverse. E possibile, innanzí tutto, registrare
quella autobiografica: Pilade è, in gran parte della vicenda, Pasolini stesso:
la sua evoluzione è, per molti aspetti, quella dell'autore. La « diversità »,
l'« ambiguità » del personaggio, quel sentirsi appartenere, a diversi li
velli, a entrambe le « classi » sono caratteri del mito personale di Paso-
lini; come pure, alla fine, il rifiuto della ragione « consolatrice ». Addirit-
tura, se proprio si vuole cercare un motivo unificatore dell'opera, lo si
può trovare nell'autobiografismo, a conferma della tendenza generale
della poesia di Pasolini. Cosí si possono spiegare anche altri motivi del-
l'opera: come il conflitto « natura-ragione », o « passato-futuro », o
« popolo-organizzazione »; come la sfiducia nelle pseudo trasformazioni
sociali viste come progressivo assorbimento nell'unità, passiva, senza spe-
ranza, delle diversità attive e rivoluzionarie; come il rifugio nella psica-
nalisi (il rapporto « incestuoso » Pilade-Elettra), vista ora come possibi-
lità nuova di conoscenza dopo il fallimento della ragione e della logica, 81
borghese e marxista. Isolare un motivo e farne la chiave di lettura dell'ope-
ra non ci pare possibile, tranne, come s'è detto, per quello autobiografico;
ma solo nella misura in cui tutte le opere, e segnatamente quelle di Paso-
lini, sono autobiografiche. Lo stesso motivo « politico », che forse po-
trebbe, piú degli altri, aspirare al ruolo di indicazione di lettura, se fosse
isolato, non potrebbe giustificarsi; è necessario, infatti, non solo ricon-
durlo nell'ambito dell'« ideologia » politica dell'autore, la qualcosa, legit-
timamente, si può e si deve fare; ma è necessario, sopratutto, verificarne
~a consistenza e la validità rispetto alla considerazione di fondo sulla « ra-
gione », in apparenza animatrice di quel processo « politico », ma in
realtà vanificatrice. La compresenza di motivi, o problemi « sospesi » è
realizzata, sul piano dello stile, con l'adozione di una lingua assolutamente
letteraria, e il piú possibile neutra, coerentemente alla poetica del teatro
di Parola, per la quale quest'ultima, in sé e per sé, e non la sua « pronun-
cia » è lo strumento obbiettivo della trasmissione. Tuttavia non è infre-
quente l'apparizione di stilemi cari alla lingua personale dell'autore, so-
pratutto quando l'oggetto descritto è un ragazzo, o un paesaggio, o il
sesso. Come non è infrequente il tono da riecheggiamento biblico in
alcune profezie e in alcune declamazioni, già apparso in precedenti prove.
Il secondo testo teatrale di Pasolini, come s'è detto, è AD~abulazione.
Nel prologo, detto dell'ombra di Sofocle, c'è, esplicitamente, un richiamo
al teatro di Parola: « Sono qui arbitrariamente destinato a inaugurare /
un linguaggio troppo difficile e troppo facile: / difficile per gli spettatori
di una società / in un pessimo momento della sua storia, / facile per i
pochi specialisti in poesia » (p. 14). Nell'epilogo il padre, il protagonista
della vicenda, denuncia, altrettanto esplicitamente, la volontà del « ca-
none sospeso »: « Che cosa ti sto raccontando, mio povero Cacarella ?/
La mia vita? La storia di un solo padre? Ah no, / questa non è la storia
di un solo padre. E non ha un solo senso ». Ma nonostante i vari « sensi »
82 c'è un'azione che si svolge, una trama. Una famiglia borghese: il padre,
industriale; la madre, padrona di casa probabilmente « squisita »; il figlio,
contestatore del mondo e dei genitori, piuttosto fiaccamente; comunque in
dissidio, almeno per quanto riguarda lo studio: « Gli studi mi fanno im-
parare / il modo di accettare tutto / quello che era già preparato per
me: / ma non l'hai già esaurito tu? » (p. 23). Il figlio, oltre che diverso,
appare al padre addirittura di un'altra razza: il biondo, strano per un figlio
di borghesi, dei suoi capelli, ne denuncia la estraneità. Un sogno che il
padre fa e che non sa spiegarsi: dei giardini, una stazione, un ragazzo, o
un ragazzo-padre, precipita l'uomo in una crisi che egli sa « religiosa »:
« Io e Dio giochiamo a rimpiattino: / lui si nasconde dentro il mio so-
gno, e io, del resto, / come per tutta la vita, mi nascondo nella realtà ».
(p. 26). Per non nascondersi piú nella realtà, la rinnega: rinnega l'ironia,
la buona educazione, la paura del ridicolo, la buona reputazione: le qua-
lità del borghese ricco e sicuro di sé.
A questa crisi del padre il figlio risponde cercando di reintegrarsi:
torna a studiare, a ubbidire; ad assomigliare al padre, dunque, proprio
mentre questi sta lasciando tutto per assomigliare al figlio. La diversità,
infatti, tra padre e figlio, non è nel loro essere « uomini »: in questo « un
figlio è uguale al padre, / in fondo già vecchio, come tutti / i figli dei
padri padroni »; ma nell'essere il figlio misteriosamente « ragazzo ». Per
questo oscuro, folle desiderio di regredire allo stato di figlio, il padre si
farà trovare nudo, nella sua stanza, « pronto a fare l'amore, ma senza /
sua madre sotto di lui... ». Il figlio, naturalmente, fugge; viene ripreso e
ricondotto a casa. I tentativi di spiegazione tra padre e figlio sono inutili:
all'amore del padre per il « mistero » del figlio, questi oppone l'avvilente
certezza di non essere quello che il padre crede. Quindi tenta di ucci-
derlo e fugge di nuovo. Il padre, si perdoni la banalità di questa nostra
riduzione a didascalia, si rivolge a un negromante per scoprire dove si
nasconda; lo raggiunge in casa di una ragazza e qui, dal buco della serra-
tura, spia per vedere « ciò che è » il figlio; quindi lo uccide. Nell'epilogo
riassume cosí il fatto: « i padri / vogliono far morire i figli (per questo
li mandano / in guerra) mentre i figli vogliono uccidere i padri / (per
questo, per esempio, protestano contro la guerra, / e disprezzano, pieni
di fierezza, la società dei vecchi / che la vuole). Ebbene io, anziché / voler
uccidere mio figlio... / volevo esserne ucciso!! / Non ti pare strano? /
E lui, anziché voler uccidermi /--o lasciarsi uccidere / volenteroso e
rassegnato / come i suoi coetanei obbedienti--/ non voleva né ucci-
dermi né lasciarsi uccidere! ! / Né l'una cosa né l'altra, capisci, Caca-
rella? / Non gliene importava niente di me, / e di tutte le uccisioni, vec-
chie e nuove, / che legano un padre a un figlio... / Quindi si era liberato
di tutto, / se ne andava via, se ne stava per conto suo, / mi ignorava, mi
fuggiva, era altrove. / Se questo era il futuro, era il tutto imprevedibile »
(p. 111). Ci è parso necessario riportare questo lungo brano perché con-
sente di illuminare un po' il groviglio di situazioni in cui la tragedia si
inviluppa. Il padre uccide nel figlio il fallimento del tentativo di sottrarsi
a una logica, alla sua logica. Il rifiuto della realtà non è stato totale: egli
è rimasto « padre »: non è riuscito ad assomigliare al figlio, a « regre-
dire » a quella che non era la sua natura. Il figlio, e non il padre, era
riuscito a dare scandalo di sé, a sottrarsi alle « regole », a realizzare
fuori dalla realtà, la propria libertà e, quindi, la propria « vera » realtà:
« Però so che non c'è bisogno che le azioni / di vero amore o di vero
odio servano a qualcosa, / che non importa che il mondo che metti in
imbarazzo / col tuo troppo odio o il tuo troppo amore, / I'abbia vinta,
infine, facendo di te il suo buffone » (p. 103). Ci si accorge subito che
viene riproposto, qui, veramente per l'ennesima volta, il mito della testi-
monianza « scandalosa » di se stesso, insieme a tutti gli altri traumi che
Pasolini adulto, Pasolini-padre, ha sofferto, primo di tutti quello dell'in-
comunicabilità con i « figli »: ne abbiamo già parlato a proposito del
Frammento epistolare, al ragazzo Codignola; ma non ci si può limitare a
ricondurre i motivi della tragedia alla ovvia esperienza autobiografica. In
questa seconda tragedia la volontà del « canone sospeso » diventa dav-
vero imbarazzante per chi voglia tentare un'analisi dei contenuti, molto
piú che per Pilade. Sembra che l'intento principale dell'autore sia quello
di provocare il lettore, lo spettatore; di costringerlo a verificare su quei
problemi la validità delle sue idee, delle sue certezze, dei suoi metodi.
I] piú utile di questi potrebbe essere quello psicanalitico: Freud e Jung,
d'altra parte, sono nominati direttamente nell'opera, nell'episodio del
padre e della negromante. Ed è proprio questa a rilevare nell'analisi psica-
nalitica tradizionale del rapporto padre-figlio un limite: « Si è sempre
steso un velo su questo, / con la pretesa che si tratti soltanto / di un
rapporto di rivalsa o di rivalità. / E la causa della rivalsa sarebbe l'odio
per il nonno, / mentre quello della rivalità, sarebbe l'amore per la mo-
glie, / o, in generale, il sesso femminile. ~ tutto qui? / non c'è proprio
altro? ». Alla psicanalisi, ancora, si riferisce la condizione di « impo-
tenza » dei padri nei confronti dei figli; e, ancora, lo stesso sogno da cui
ha origine tutta la tragedia. Se la psicanalisi venga applicata da Pasolini
secondo ortodossia o no, è un problema, ci pare, di secondaria impor-
tanza, dal momento che, per « principio » Pasolini è « eterodosso », e di
questa eterodossia ha fatto una ragione, se non la ragione, della sua
poesia. Prescindendo dal fatto che un'ortodossia ideologica non deve
costituire, necessariamente, il canone cui riferire l'analisi di un'opera, ché,
. allora, il giudizio sarebbe relativo a « quella » ideologia o teoria o quello
che si vuole, e non alla « poetica » che sottende l'opera. Ora, la poetica
del « canone sospeso », nonostante tutte le dichiarazioni di « logicità », si
pone invece come la rivalutazione permanente dei motivi irrazionali. E la
psicanalisi si presta ottimamente, ma non tanto come « terapia » quanto
come « occasione », « provocazione ». L'adesione, in una misura per ora
imprecisabile, di Pasolini alla psicanalisi discende evidentemente da una
constatazione di fallimento dell'esperienza conoscitiva razionale, cioè, in
gran parte, del marxismo-dottrina; ma non lo impegna tanto sul piano
conoscitivo quanto su quello della problematica pura. D'altra parte Pa-
solini ha sempre posto in discussione la validità della conoscenza logica.
Soltanto che prima la « passione » e la sua « ideologia » (ma tuttora,
anche, almeno nelle poesie) riuscivano, e riescono, a concretizzarsi, co-
munque, in un impegno di conoscenza, di presenza critica e, quindi, di
giudizio. Nelle due tragedie e, in misura diversa, in Teorema, quando, 85
cioè, Pasolini, sceglie di parlare « per interposta persona », di « rappre-
sentare » dei fatti, chiari od oscuri che siano, rifiuta, praticamente, la
concretezza lirica per una infinitamente libera disponibilità di invenzioni
o di rappresentazioni. Ci pare che si possa trovare, ín questo un influsso
della sua esperienza cinematografica, sopratutto di quella degli ultimi film,
e della sua concezione dello « strumento linguistico cinematografico ».
Scriveva nel 1966, pubblicando la sceneggiatura di Uccellacci e Uccellini:
« Lo strumento linguistico su cui si impianta il cinema è dunque di tipo
irrazionalistico: e questo spiega la profonda qualità onirica del cinema, e
anche la sua assoluta e imprescindibile concretezza, diciamo, oggettuale ».
~ vero che lo strumento linguistico della poesia è, invece, un « sistema
reale, storicamente complesso e maturo », ma non è certo inadattabile
nella sua infinita disponibilità al simbolo e all'irrazionale, a « qualunque »
operazione mitopoietica. Una volta, cioè, constatato il fallimento della
ragione e, anche, della « passione », che pure era un modo, e lo è, lo
ripetiamo, tuttora, di conoscenza, per quanto « viscerale », tendente « in »
una logica; una volta, cioè, rifiutato il « canone » della logica e, quindi,
della storia, si offre al poeta un'inconsumabile disponibilità di occasioni
di poesia, tante quante sono le « invenzioni » che la parola, irrazional-
mente usata, può offrire. ~ chiaro che l'irrazionalità di questo uso non si
riferisce, come per il teatro dell'« Urlo » (cosí lo chiama Pasolini) alla
sua alogica, bruta pronuncia; ma alla capacità della parola, nell'immagine
poetica, nel mito di « oggettualizzare », per usare l'espressione della pre-
cedente dichiarazione di Pasolini, in sé e per sé, fuori da ogni controllo
logico e storico, o prima di ogni controllo logico e storico, le tendenze
irrazionalistiche che si trovano nel poeta. E si sono sempre trovate; solo
che ora la scoperta della psicanalisi può offrirgli un contributo di « spe-
rimentazioni » vastissimo.
Il rischio, insomma, è quello che non la realtà, anche qualunque essa
sia, provochi gli strumenti e il loro impiego, ma che questi, fuori o prima
di ogni controllo logico e storico, provochino realtà che si giustificano
86 soltanto perché sono. Può sembrare, questo, un processo alle intenzioni;
mentre l'intenzione di Pasolini potrebbe essere quella di dare una risposta
a una presunta o reale crisi della poesia e della letteratura. Ma forse lo
stato d'animo che è al fondo dell'ultima attività di Pasolini è quello che
lui stesso denuncia nella prima risposta dell'intervista, quando parla del
progetto d'un'opera futura: « mancanza di fiducia nella stabilità del
mondo che produce simili macchine letterarie ». E allora si deve richia-
mare in causa quella che abbiamo definito l'« inerzia » dell'ultimo Paso-
lini, autorizzati, in un certo senso da lui stesso: non si tratta solo del-
l'inerzia di un'anima che, tuttavia, sente, proprio per questo, di dover
continuare a testimoniare se stessa; ma anche dell'inerzia di un intelli-
gente letterato che, proprio per questo, sente di dover fare, ogni tanto,
degli « esperimenti ».
Per quanto riguarda l'attività cinematografica di Pasolini dobbiamo pre-
cisare che, essendo l'interesse di questo libretto principalmente rivolto
al poeta e allo scrittore, ci limiteremo ad alcune indicazioni di carattere
generale, senza entrare nel merito dei problemi specifici, compito, tra
l'altro di ben piú qualificati esperti.
Abbiamo già rilevato che l'approdo di Pasolini al cinema sia da rife-
rire sopratutto alla sua vocazione di sperimentale, piú che a una obbiet-
tiva sfiducia nella letteratura. Piuttosto, a quest'ultimo fatto, si può richie-
dere la giustificazione del maggior impegno cinematografico rispetto a
quello letterario nell'ultimo quinquennio.
Il problema del destinatario, lettore o pubblico delle sale di proie-
zione, non ha mai costituito una preoccupazione determinante per Paso-
]ini: tranne che per il teatro di Parola non pare che il problema dei
« fruitori » abbia avuto specifica presenza nell'elaborazione « ideologica »
di Pasolini. Anche quando si poneva l'obbiettivo del poema « popolare ».
il suo interesse si rifletteva scarsamente sul problema del popolo come
destinatario. Ma nel colloquio che abbiamo avuto durante l'intervista la
questione è venuta fuori: Pasolini ha coscienza che il « messaggio » let-
terario, oggi come ai tempi della « rivoluzione » manzoniana, è riservato
a un'elite; esagerando, probabilmente, ha detto che attualmente scrive
solo per gli amici e, comunque per assai pochi interessati. Il cinema,
invece, gli offriva la possibilità di comunicare con un pubblico molto piú
vasto, per l'obbiettiva maggiore facilità di aggancio di questo mezzo. Per
questo, anche per questo, i suoi primi film, da Accattone al Vangelo se-
condo Matteo, si ispiravano a una precisa volontà di poema « epico-popo-
lare». La svolta rappresentata da Uccellacci e Uccellini (1966) si spiega
ovviamente con l'insorgere di nuove, o diverse esigenze poetiche, certa-
mente meno « popolari », ma non per questo meno valide; ma testimo-
niano, anche, della rinuncia a un campo piú vasto di destinatari. La qual
cosa, se non è, come non è, un limite, può pur sempre essere un condi-
zionamento, anche nel senso del rifiuto di certo tipo di condizionamento.
Pasolini è un regista poeta o, forse meglio, « un poeta che fa dei
film »: sono d'accordo tutti, lui compreso. « Tecnicamente » il cinema di
poesia si caratterizza per un'operazione che Pasolini stesso definisce
« soggettività libera indiretta » (Il « cinema di poesia », in « Filmcritica >;,
aprile-maggio 1965). La « soggettività » corrisponde, grosso modo, in let-
teratura, al discorso diretto: I'autore si fa da parte e apre le virgolette.
Nel cinema, che usa immagini, una « soggettiva » è questa: « Come
vista da Accattone, Stella cammina per il praticello zozzo ». Natural-
mente lo « sguardo » di Accattone non può essere oggetto di una mimesi,
come potrebbe esserlo la lingua. Cosicché il regista che « si immerge in
un suo personaggio, e attraverso lui racconta la vicenda ~ rappresentá il
¨ mondo, non può valersi di quel formidabile strumento differenziante in
natura che è la lingua. La sua operazione non può essere linguistica ma
s~ilistica ~ (ibidem). Questa natura « stilistica » dell'operazione fa sí che
88 « la soggettività libera indiretta nel cinema implichi una possibilità
stilistica molto articolata; liberi, anzi, le possibilità espressive compresse
dalla tradizionale convenzione narrativa, in una specie di ritorno alle ori-
gini: fino a ritrovare nei mezzi tecnici del cinema l'originaria qualità
onirica, barbarica, irregolare, aggressiva, visionaria. Insomma è la " sog-
gettiva libera indiretta " a instaurare una possibile tradizione di " lingua
tecnica della poesia " nel cinema » (ibidem). La « libertà » stilistica di un
regista è quindi notevolmente piú larga e disponibile di quella di uno
scrittore. E si può pensare che anche questo fatto sia uno dei motivi che
hanno attratto Pasolini al cinema piú che alla letteratura. D'altra parte
abbiamo già indicato, a proposito di A~abulazione, l'influsso che la
immensa disponibilità del linguaggio cinematografico ha esercitato su quel-
I'opera ~etteraria.
Anche nel film storico il regista gode di maggiore libertà; perlomeno
Pasolini, il quale rifiuta, come impossibile, la « ricostruzione », adottando
il piú libero e « stilistico » procedimento analogico:
Nei miei film storici non ho mai avuto l'ambi~ione di rappresentare un
tempo che non c'è piú: se ho tentato di farlo, l'ho fatto attraverso l'analogia:
cioè rappresentando un tempo moderno in qualche modo analogo a quello pas-
sato [...] è il persistere del passato nel presente che si può rappresentare ogget-
tivamente [...] il passato diviene una metafora del presente (ll sentimento della
storia, in « Cinema nuovo », marzo-giugno 1970).
Mito, analogia, favola, simbolo sono i procedimenti stilistici che Pa-
solini assume nei suoi film. Anche nel « neorealista » Accattone, epopea
del sottoproletariato disperato e allegro; anche ne La ricotta, mito d'una
religione « vera », d'una santità « vera » in una realtà falsa e ipocrita.
Mito, ancora, ne Il Vangelo secondo Matteo, prima ancora che nella rea-
lizzazione, nella volontà: « Il mio interesse principale, il mio obbiettivo
non era la storia, ma il mito » (Intervista su « Filmcritica », cit.). E,
prima ancora: « la figura di Cristo dovrebbe avere [...] la stessa violenza
di una resistenza: qualcosa che contraddica radicalmente la vita come si
sta configurando all'uomo moderno, la sua grigia orgia di cinismo, ironia,
brutalità pratica, compromesso, conformismo, glorificazione della propria
identità nei connotati della massa, odio per ogni diversità, rancore teo-
logico senza religione » (in « Il Giorno », 6 marzo 1963).
Mito personale, dunque, della « implicita tendenza » al Vangelo che
sempre, dalle poesie dialettali, è stata presente in Pasolini. E ai miti della
sua poesia si rifà anche la favola, comica e ideologica (ideo-comica, l'ha
chiamata l'autore) di Uccellacci e Uccellini: la povertà e la fame del Terzo
Mondo, la nostalgia del primitivo, la crisi del comunismo, sopratutto nei
confronti dei sottoproletari. Ma qui una realtà rivissuta tanto intima-
mente e, quindi, tanto liberamente disponibile ad adozioni e soluzioni sti-
listiche corre il rischio di non essere, sempre, intesa nel suo senso; perciò
Pasolini è costretto a ricorrere a una didascalia per informare gli altri
che il corvo è un intellettuale di sinistra, il rappresentante dell'ideologia
che Si accompagna ai « semplici » Totò e Ninetto. Il tema centrale della
favola: la crisi del marxismo degli anni ~50, la necessità, per risolversi, che
si accorga della nuova, o vecchia, realtà « religiosamente », cosí come aveva
insegnato il San Francesco della piccola favola nella grande favola, si
risolve in una serie di felici momenti stilistici che, se pure non sempre
riescono a unirsi in un iter narrativo corrente, piú che coerente, testi-
moniano della validità artistica di una « passione » immessa in una fer-
tile disponibilità stilistica.
Nei film successivi: Edipo Re, Teorema, Porcile, Medea, la proble-
matica via via proposta è meno conoscibile a livello di metodologia « ra-
zionale », marxista: si introduce la psicanalisi che, insieme, è strumento
di conoscenza e ulteriore arricchimento di disponibilità stilistica, proprio
in relazione a quella « profonda qualità onirica del cinema » come s'è
detto precedentemente, a proposito degli influssi del cinema sulla poesia.
Non tentiamo un'analisi di questi film in quanto esula dal nostro com-
pito e per la quale rimandiamo alle ben piú qualificate analisi riferite in
bibliografia. Solo vorremmo accennare alle corrispondenze di certi motivi
dei film nella poesia e, segnatamente, in Pilade e A~:abulazione. Prescin-
dendo dalle ovvie corrispondenze dei due Teorema, ci pare utile e, piú, si-
gnificativo, indicare il motivo dell'« enigma » e del « mistero » presente
nelle due tragedie e in Edipo Re: non l'enigma del mondo, ma l'enigma
che è nell'uomo, in se stessi, Pilade il padre, Edipo chiedono di chia-
rire; il motivo del conflitto padre-figiio in A~abulazione e in Porcile; il
motivo tra mondo barbaro e mondo civile in Pilade e in Medea.
Nel 1971, sette anni dopo Poesia in forma di rosa, Pasolini pubblica
il suo ultimo libro di poesie, Trasumanar e organizzar, che raccoglie gran
parte dei versi pubblicati su « Nuovi Argomenti ».
Di questa riduzione, o rallentamento, della produzione letteraria il
motivo fondamentale è da ricercarsi nell'impegno che l'attività di regista
gli procura, fornendogli, indubbiamente, soddisfazioni se non altro piú
ampie; e Pasolini non ha mai trascurato il problema del « pubblico ».
Ma giustificazioni dirette le fornisce lui stesso: « la mancanza di fidu-
cia nella stabilità del mondo che produce simili macchine letterarie », (com~:
dice nell'intervista che apre questo lavoro), « l'aflermazione caparbia, e
quasi solenne, dell'inutilità della poesia » (come scrive nel risvolto di
copertina di Trasumanar e organizzar); affermazione che deriva dalla vo-
lontà di « resistere contro ogni tentazione di letteratura-azione o lettera-
tura-intervento ~>.
Dichiarazioni di questo tipo, con conseguente « disimpegno stilistico »,
non sono nuove: c'erano già in Poesia in forma di rosa, in particolare in
« Progetto di opere future »; come non nuovo è il recupero dell'ironia per
scherzarci su piú o meno amaramente:
« Che cosa comunico, alla fine / délla mia carriera di poeta, che sotto
sotto, / si considerava indispensabile all'umanità? » (La nascita di un nuovo
tipo di bu~one).
In quest'ultima raccolta c'è il tentativo di trovare le ragioni di questa
inutilità; e, al solito, l'« ambiguo » Pasolini ne trova due: l'im~ossibilità,
o l'incapacità sua di capire: « ...forse ciò con cui ebbi tanta confidenza / si
è tramutato, e io non ho piú s~mprensione per esso »; l'impossibilità, o
l'incapacità sua di comunical e, ossia di stabilire un rapporto reciproco
tra se stesso e gli altri:
« Che cosa comunico, se non comunico piú, / se, tutto sommato, non
ho mai comunicato / altro che il piacere di essere ciò che sono / Ciò che
mi insegnò mia madre? » (La nascita di un nuovo tipo di bu~one).
Un'ennesima confessione che conferma tutto ciò che s'è detto di Paso-
lini, del suo fin troppo esibito soggettivismo « scandaloso », della visce-
ralità, direbbe Ferretti, della sua conoscenza e del suo rapporto col mon-
do. Dalla consapevolezza di questa vanità della poesia, vanità intesa sia
come inutilità, sia come esibizionismo, doloroso e civettuolo insieme, deriva
una scelta stilistica: il poeta smette di essere « poeta originale », perché
un sistema stilistico « è troppo esclusivo », e adotta « schemi letterari
collaudati » (Comunicato all'Ansa). Ma proprio per « vanità » il poeta
ama anche « concedersi una certa libertà linguistica rasentante talvolta
l'arbitrarietà e il gioco (cose in precedenza mai avvenute, poiché le sue
mistificazioni furono sempre ingenue, appassionate e zelanti) », come
scrive nel risvolto di copertina.
Questa è la novità delle ultime poesie: un atteggiamento meno pas-
sionale e viscerale, perché piú sfiduciato e consapevole, un distacco a
volte addirittura schizoide, come vorrebbe far intendere il poeta se l'ironia
non rivelasse l'insanabilità del conflitto. E il conflitto è sempre lo stesso:
da una parte la « natura », dall'altra la « storia »; da una parte l'« umano »
dall'altra 1'« istituzione », la « Chiesa », 1'« organizzazione ». Organizzare
significa snaturare, far violenza alla natura:
« La contemporaneità temporale del trasumanar non è l'organizzar? ».
Ed è una violenza tanto piú tragica e dolorosa in quanto è una necessità
storica, della quale anche i « violentati » sono felicemente consapevoli
innocentemente convinti. La « Chiesa », 1'« ortodossia » sono indistrut-
tibili:
« Qui stanno costruendo un'altra Chiesa, se non mi sbaglio. / Ah bar-
bari, unici amici miei, / nessun uomo di Chiesa ha mai distrutto una
Chiesa; / la lotta è sempre stata tra l'ortodossia vecchia e la nuova / Que-
sto mi dispera, e mi tiene fuori dal gioco » (Rifacimento de " L'orto-
Solo dai « barbari », dunque potrebbe venire la salvezza, da quelli che
vivono col « corpo », con ciò che di innocentemente umano c'è ancora,
senza paure, senza angosce, senza compromessi, seguendo il naturale pia-
cere che la libertà del proprio corpo destina loro. Come i « corpi » liberi
del Decamerone, dei Racconti di Canterbury e, probabilmente, delle
M~le e una n~tte.
Questa specie di disperato appello ecologico-antropologico-politico è,
forse, l'ultimo della serie: fra poco non ci saranno piú « barbari »: l'orga-
nizzazione sistemerà tutto: si prepara l'avvento dell'« entropia borghese ».
L'entropia borghese, cioè la conversione di tutti e di tutto nell'orga-
nizzazione-sistema che la classe borghese sta preparando, è la marea ch~
sta per sommergere anche l'ultima spiaggia.
«...la borghesia sta trionfando, sta rendendo borghesi gli operai, da
una parte, e i contadini ex coloniali dall'altra. Insomma, attraverso il neo-
capitalismo, la borghesia sta diventando la condizione umana. Chi è nato
in questa entropia, non può in nessun modo, metafisicamente, esserne fuor;.
:~ finita. Per questo provoco i giovani: essi sono presumibilmente l'ultima
generazione che vede degli operai e dei contadini: la prossima genera-
zione non vedrà intorno a sé che l'entropia borghese ».
Questa affermazione si trova a pagina 162 di Empirismo eretico,
la raccolta di saggi e note che Pasolini ha pubblicato nel 1972, e vuole
essere una giustificazione (« apologia ») della scandalosa poesia Il PCI ai
giovani. Ma è un'affermazione che va al di là della necessità contingente:
è il motivo di fondo dell'ultima produzione pasoliniana: la troveremo,
infatti, come suggello del recent;ssimo Calderón.
La sostanza dell'affermazione, tuttavia, non è nuova: l'entropia bor-
ghese è la dilatazione, nella storia, dell'istituzione per antonomasia, della
istituzione invincibile: la borghes;a. Ai margini restano, senza neanche
piú resistere, se non col loro corpo, gli « esclusi »: l negri, gli ebrei, i
poveri, soprattutto: i « diversi ». ~ la riproposizione, sotto altra forma,
dell'antico mito pasoliniano, il conflitto corpo-ragione che si risolve col
trionfo della ragione sistematrice. ~: una ragione astorica, metafisica, che
ha « trasumanato », « organizzato », o sta trasumanando o organizzando
le singole storie, le singole civiltà, le ideologie, le prassi, i comportamenti.
In Emplr~smo eretico questa affermazione non ha certo la rilevanza
che qui le stiamo dando: gli scritti raccolti, quasi tutti pubblicati, tra il
1964 e il 1971 su riviste o giornali, trattano perlopiú di questioni lingui-
stiche, letterarie e cinematografiche. Ma alla luce di quell'affermazione
anche questioni abbastanza tecniche, anche se non solamente tecniche
come quelle linguistiche, acquistano una prospettiva nuova. Come quella
della nuova lingua nazionale che il neocapitalismo tecnico-burocratico sta
imponendo attraverso, soprattutto, i mass-media:
« ...la nuova stratificazione linguistica, la lingua tecnico-scientifica, non
si allinea secondo la tradizione con tutte le stratificazioni precedenti, ma
si presenta come omologatrice all'interno dei linguaggi » (p. 23). Questo
tema occupa alcune decine di pagine di Empirismo eretico, svolgendosi in
risposte ad altri studiosi, in riprese e approfondimenti e chiarimenti che
tuttavia ne confermano la sostanza: alla luce, come si diceva, dell'« en-
tropia borghese », questa forza « omologatrice » della nuova stratifica-
Zione linguistica diventa una forza convertitrice, diventa strumento di
« organizzazione ».
A questo rischio sembra sottrarsi il linguaggio cinematografico. E
quasi metà delle trecento pagine di Empirismo eretico sono dedicate a
questioni di cinema, soprattutto di linguaggio cinematografico. E non certo
immeritatamente Pasolini rivendica a se stesso « il merito di aver inau-
gurato in Italia, per quel che riguarda il cinema, l'uso della ricerca se-
m.ologica ».
Non è questa la sede competente per interpretare il discorso tecnico
di Pasolini sul cinema: una monografia, per cosí dire parallela a questa
in CUl Pasolini scrittore appare, ha colmato ampiamente la lacuna che
qui Sl lasaa. A noi basta accennare al discorso sulla qualità del linguaggio
cinematografico, sullo specifico filmico che il regista piú discusso oggi
traccia su EmPir~smo eretico. Partendo dall'affermazione che il linguaggio
del cinema è la realtà e le parole sono le cose, o viceversa, Pasolini ricerca
in che cosa consista la « transustanziazione semantica di un segno quando
questo passa dal campo comunicativo al campo espressivo ». Consiste,
secondo quanto aveva detto Galvano della Volpe, nella « disposizione alla
polisemia ». Ma non solo il linguaggio poetico, di parole, è « polisenso »;
anche il linguaggio cinematografico, di cose, è « polisenso »: « la ' res ' al
cinema non è monosemica ». Il linguaggio del cinema diventa un « meta-
linguaggio » anche perché ha un « tempo » e uno « spazio » diversi che
nella realtà.
La lucidità e l'impegno che Pasolini pone nel suo abbozzo di « gram-
matica cinematografica » sono anche testimonianza della validità che il
cinema, il « cinema d'arte », naturalmente, ha per lui: non altrettanto,
come s'è visto, si può dire per la poesia. Ma il ritratto che Pasolini fa
dell'autore di cinema è lo stesso, antico ritratto che faceva di se stesso
poeta:
« La libertà (dell'autore) non può essere manifestata altrimenti che
attraverso un grande o un piccolo martirio... Egli, nell'atto inventivo,
necessariamente scandaloso, si espone--e proprio alla lettera-- agli
altri: allo scandalo appunto, al ridicolo, alla riprovazione, al senso di
diversità, e perché no?, all'ammirazione, sia pure un po' sospetta » (p. 274).
L'ultimo testo che Pasolini ha pubblicato, riel 1973, è Calderón, un
lavoro per il teatro. E: questo il terzo, dopo Pilade e A~abulazione, ma
è l'unico che sia apparso in volume. Al teatro Pasolini ha incominciato
a pensare dal 1968, quando su « Nuovi Argomenti » ha pubblicato il-
Manifesto per un nuovo teatro (se ne parla a.p. 77 di questo libretto).
Calderón, il drammaturgo spagnolo, è un pretesto polemico: .al La
vida es sueho si contrappone un « la vita non è sogno » che potrebbe essere
il secondo titolo del dramma di Pasolini. Ma senz'altro piú rispondente
potrebbe essere il secondo titolo « la fine del sogno ».
Il dramma, diviso in sedici episodi e tre stasimi Iquesti ultimi servono
al poeta per dire, attraverso uno « speaker », certe cose al pubblico), è
impostato su uno schema fisso, ripetuto tre volte:
Rosaura, giovane alto-borghese, di nobile discendenza, non riconosc~
la realtà che la circonda, la sua realtà sociale;
Rosaura, sottoproletaria, prostituta, non si riconosce nella sua baracca
Maria Rosa, moglie borghese, cerca di rifiutare la propria collocazione
famigliare e sociale.
A uno schema fisso corrispondono anche i personaggi: i personaggi
« sani »: Basilio, padre di Rosaura e marito di Maria Rosa, campione di
« sanità » borghese, donna Lupe, Stella; i personaggi « malati », cioè
« scandalizzanti », « diversi »: le due Rosaure, Maria Rosa, Sigismondo,
Manuel.
Tra questi due tipi di personaggi si svolge un conflitto la cui risolu-
zione, a favore del personaggio « sano », cioè della ragione, dell'« orga-
nizzazione », è scontata. Perché questi « vive »; l'altro, il « diverso »
sogna: e la vita, come s'è detto, non è sogno.
Un altro schema fisso, o struttura, è possibile rinvenire: la prima
Rosaura s'innamora di Sigismondo, che le rivela d'essere suo padre, la
seconda Rosaura s'innamora di Pablo, che risulta essere suo figlio.
Questa estrema semplicità di strutture è la coerente interpretazione
della poetica del « Teatro di parola »: le situazioni sono gli appoggi su
cui scorre il discorso « ideologico ». Dice lo speaker nel secondo stasimo:
«...l'autore continua a detestare, con tutta la relativa lucidità della sua
ragione, ogni scenografia che non sia solo irldicativa: perché se non è
tale, altro non è che un elemento di quel rito sociale che il teatro è per
la borghesia, e che l'autore quindi non può amare ».
La situazione ha la stessa funzione « indicativa » della scenografia:
la sua semplicità riducibile a schema, e a schema ripetuto (per esempio
le tre scene dei risvegli sono identiche nelle battute) denuncia lo stesso
rifiuto di realismo che è denunciato dalla essenzialità puramente indica-
tiva della scenografia. Quello che conta, insomma, è il discorso, l'ideolo-
gia. E il discorso parte dal problema degli « esclusi ». Dice Pablo a Ro-
saura, la prostituta sottoproletaria:
6 « I ' membri normali ' sono ' membri normali ': a loro, / nel migliore
dei casi, basta un fascismo democratico. Restano gli ' esclusi ': tu, Ve-
lázquez, i Negri, / i matti, i delinquenti, gli andalusi. Cosa devono fare? ~.
Velázquez, il maestro di Pablo, « escluso » perché rivoluzionario e
perché omosessuale, aveva detto che « gli esclusi devono gettare i fiori
e prendere le armi ». Ma non aveva ragione: « perché anche tra gli
esclusi ci sono gli esclusi ». Rosaura è una di questi:
« Sí, perché tu sei esclusa come povera, / ed esclusa inoltre come put-
tana. / Come povera, sei negata tra i negati, / come puttana, anche i
negati ti negano ».
L'area dell'esclusione, quindi, si va sempre piú restringendo: una
volta erano gli operai, i contadini: ora anche questi si sono « inclusi »,
inghiottiti dal Leviatano borghese.
La borghesia, dunque: ent~opia assimilante ed annullante; la bor-
ghesia ormai eterna, ed eterna perché sa rinnovarsi pur rimanendo bor-
ghesia; e per rinnovarsi, per liberarsi concede ai suoi figli di farle la
rivoluzione.
«...Dunque / la Borghesia, per liberarsi / del suo recente passato
(cultura, arte, artigianato, / coltivazione dei campi, oltre / la Chiesa,
immagino), ha bisogno--contro se stessa--di figli rivoluzionari ». I
« figli rivoluzionari », « figli molto seri », « pieni di senso del dovere »
sono quelli contro cui, in altre poesie, Pasolini ha polemizzato, a volte
violentemente, piú spesso con amara ironia. Il risultato di questa rivo-
luzione:
« Apprerìdiamo a distruggere, come già / aveva appreso Hitler. Quando
tutto / ciò che il potere vorrà distruggere sarà distrutto, / i giovani figli
avranno esaurito il loro compito ».
La borghesia che una volta si è servita di Hitler e del fascismo per
rinnovarsi, oggi si serve di questi giovani « seri », cioè « organizzati » per
rinnovarsi ancora. Non è un'affermazione nuova: con tutta la volontà di
« ambiguità » con cui l'autore la pronuncia, giustifica le polemiche che
ha suscitato e che suscita.
La rivoluzione, allora, si può soltanto sognare: è l'ultimo sogno di
Maria Rosa, prima di rit'ornare a « vivere »: è un sogno che rievoca certe
poesíe di Le cener~ d~ Gramsci:
<~ ...cantando / entrano gli operai. Hanno bandiere rosse / strette nei
pugni, con le falci e i martelli; hanno i mitra imbracciati; hanno fazzo-
letti / rossi annodati al collo, sui colletti anneriti / delle tute... ' Siete
liberi'--ci ripetono, / come se noi non fossimo piú in grado / di capire
queste parole--' Siete liberi ' ».
L'ultima parola del dramma, però, spetta a Basilio:
« Un bellissimo sogno, Maria Rosa, davvero / un bellissimo sogno.
Ma io penso / (ed è mio dovere dirtelo) che proprio / in questo momento
comincia la vera tragedia. / Perché di tutti i sogni che hai fatto o che
farai / si può dire che potrebbero essere anche realtà. / Ma, quanto a
questo degli operai, non c'è dubbio: / esso è un sogno, niente altro che
un sogno ».
Con questo ultimo rifiuto di speranza Pasolini finisce.
La morte ha colto, tragicamente e violentemente, Pasolini la notte
del 2 novembre 1975, alla periferia di Ostia, in mezzo a una squallida
borgata.
Anche morendo, dunque, il poeta ha voluto essere scandaloso, testi-
mone-martire dello scandalo che piú d'ogni altro aveva denunciato sino
all'ultimo giorno della vita: la violenza.
A conclusione d'una vita e d'una straordinaria carriera letteraria, ci
sembra utile proporre una riflessione che, se conclusiva non vuole, né
può essere, possa, tuttavia, in qualche misura, avere una funzione rias-
suntiva.
Da anni, ormai, Pasolini non scriveva piú romanzi: il suo impegno
di narratore probabilmente si era concluso; poesie ne continuava a scri-
vere, di tanto in tanto; di quelle speciali poesie civili e morali che
abbiamo esaminato nel capitolo precedente. L'ultima sua produzione è
stata, quasi esclusivamente, saggistica: Empirismo eretico nel 1972, Scritti
corsari nel 1975. Ma il genere « saggistica » non è forse il piú adatto
per indicare il carattere degli scritti raccolti in questi due libri. I temi
« teorici » si sono fatti via via meno frequenti, mentre sempre piú insi-
stente è apparso l'articolo di costume, il commento ai fatti della cronaca,
la denuncia, la polemica su singoli accidenti o su casi piú generali.
Cosí troviamo, negli Scritti corsari, ma sarebbe piú giusto dire ritro-
viamo, la descrizione d'una società ormai « omologata » in un « univer-
so » tecnologico, consumistico che è totalitario e repressivo quanto piú
si mostra tollerante e permissivo; la denuncia di uno « sviluppo senza
progresso », di una centralizzazione acculturante che distrugge le « cul-
ture periferiche » e, piú drammatica e disperante, anche perché tragi-
camente profetica, la denuncia dell'orrore della « mancanza di pietà ».
E troviamo, anche, i motivi piú ambigui delle contraddizioni pasoli-
niane, come il recupero nostalgico di un'età precapitalistica, contadina,
paradossalmente libera e liberante anche nella sua repressività.
Queste dichiarazioni, a parte lo scalpore che, oggettivamente, hanno
sempre sollevato, si caratterizzano non solo e non tanto per ciò che ,so-
stanzialmente dichiarano, ma anche per come, formalmente, e cioè poe-
ticamente, sono espresse.
Pasolini, cioè, non scriveva, per esempio sul « Corriere della Sera »,
come il cronista di costume usa scrivere sulla terza pagina: il suo stile,
il suo linguaggio, costruito spessissimo su immagini, violento e candido
insieme nella qualità, finisce con l'essere poetico, anche nella « provo-
cazione » piú scandalosa. E, del resto, il linguaggio della provocazione
non è certamente quello della semplice « comunicazione ».
Gli ultimi scritti di Pasolini ci pare offrano la possibilità di definire
questa ultima sua produzione letteraria come quella di un moralista. E
questa figura di letterato ci piace caratterizzarla con le parole che Cesare
Luporini usò a proposito di Leopardi: « ... elaboratori di immediate espe-
rienze umane, specifiche d'un'epoca, d'una classe... il cui pensiero è ca-
ratteristicamente segnato da un'accentuazione ottimistica o pessimistica
della visione del mondo e delle cose, che, come tale, esula dalla pura
indagine scientifica ».
E vorremmo concludere su Pasolini ancora con ie parole di Luporini:
«.. egli fu un grande moralista, apparizione molto rara nella tradizione
itallana e proprio per questo non facilmente comprensibile presso di noi ».
FINE.
NOTIZIE BIOGRAFICHE.
Pier Paolo Pasolini è nato a Bologna nel 1922. La fanciullezza e la giovinezza
le ha trascorse in gran parte nel Friuli, a Casarsa, il paese della madre, dove
andava a « villeggiare » e dove sfollò nel '43 rimanendovi sino al '49, e in
varie città del Veneto e dell'Emilia studiando a Reggio Emilia, a Bologna
dove ha frequentato l'Università e si e laureato in lettere..Nel '49 si è trasferito
a Roma; dopo aver insegnato per qualche tempo in una scuola privata, si è
dedicato completamente al suo lavoro di scrittore e di regista diventando uno
dei testimoni piú sensibili e appassionati della crisi del nostro tempo e uno
degli intellettuali piú rappresentativi di questi anni.
E' stato assassinato, in mezzo alle baracche della periferia di Ostia, la notte
del 2 novembre 1975.