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Periodico quadrimestrale a cura dell’Ordine degli Avvocati di Parma. Autorizzazione del Tribunale di Parma n. 14 del 10 giugno 1992. Spedizione in abbonamento postale art. 2 comma 20/c legge 662/96. Filiale di Parma Anno XIX numero 1 - febbraio 2010 Anno XIX numero 1 (cinquantaquattresimo della serie) febbraio 2010 grafica: Alessandro Riccòmini Stampa: Coop. Cabiria Scrl Il rischio è infatti quello di una sovrapposizione di competenze e di possibile contrasto di giudicati. Ma procediamo con ordine. pag. 10 Tutela dei diritti fondamentali Anche il nostro Consiglio dell’Ordine si è espresso sul tema, con una propria delibera, nella quale sono state poste in luce le principali criticità del D.Lgs. n. 28/2010 pag. 3 Editoriale: mediazione - conciliazione Donne e costituzione La svolta, almeno dal punto di vista ufficiale, si ha con l'entrata in vigore della Costituzione del 1948 che sancisce l'equiparazione formale dei due sessi (art. 3 Cost.) pag. 21 La Comunità europea e le sue Istitu- zioni, ivi compresa la Corte di giustizia, per molti anni non si sono mai occupate della qualità dei prodotti alimentari pag. 23 Corte di Giustizia e qualità dei prodotti alimentari Spese straordinarie “spese straordinarie” e cioè a quelle spese che il genitore non collocatario, o non affidatario, è tenuto a corrispon- dere all’altro al momento in cui la spesa è effettivamente sostenuta pag. 17 appurata la pignorabilità del “nome di dominio” in quanto diritto di proprietà industriale, occorre esaminare come adattare la procedura di cui all’art.137 del d.lgs. n.30/05 pag. 37 Il pignoramento dei nomi di dominio insomma un qualcosa di più arretrato rispetto al discorso di inaugurazione della IV Sezione del Consiglio di Stato scritto da Silvio Spaventa verso la fine dell'Ottocento pag. 44 In viaggio con Laband

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Periodico quadrimestrale a cura dell’Ordine degli Avvocati di Parma. Autorizzazione del Tribunale di Parma n. 14 del 10 giugno 1992.

Spedizione in abbonamento postale art. 2 comma 20/c legge 662/96. Filiale di Parma

Anno XIX numero 1 - febbraio 2010

Anno XIX numero 1(cinquantaquattresimo della serie)

febbraio 2010

grafica: Alessandro RiccòminiStampa: Coop. Cabiria Scrl

Il rischio è infatti quello di una sovrapposizione di competenze e di possibile contrasto di giudicati.Ma procediamo con ordine.

pag. 10Tutela dei diritti fondamentali

Anche il nostro Consiglio dell’Ordine si è espresso sul tema, con una propria delibera, nella quale sono state poste in luce le principali criticità del D.Lgs. n. 28/2010

pag. 3Editoriale: mediazione - conciliazione

Donne e costituzione La svolta, almeno dal punto di vista ufficiale, si ha con l'entrata in vigore della Costituzione del 1948 che sancisce l'equiparazione formale dei due sessi (art. 3 Cost.)

pag. 21

La Comunità europea e le sue Istitu-zioni, ivi compresa la Corte di giustizia, per molti anni non si sono mai occupate della qualità dei prodotti alimentari

pag. 23Corte di Giustizia e qualitàdei prodotti alimentari

Spese straordinarie “spese straordinarie” e cioè a quelle spese che il genitore non collocatario, o non affidatario, è tenuto a corrispon-dere all’altro al momento in cui la spesa è effettivamente sostenuta

pag. 17

appurata la pignorabilità del “nome di dominio” in quanto diritto di proprietà industriale, occorre esaminare come adattare la procedura di cui all’art.137 del d.lgs. n.30/05

pag. 37Il pignoramento dei nomi di dominio

insomma un qualcosa di più arretrato rispetto al discorso di inaugurazione della IV Sezione del Consiglio di Stato scritto da Silvio Spaventa verso la fine dell'Ottocento

pag. 44In viaggio con Laband

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SOMMARIO

Anno XIX numero 1 – febbraio 2010

Periodico quadrimestrale a cura dell’Ordine degli Avvocati di Parma.Autorizzazione del Tribunale di Parma n.14del 10 giugno 1992.

Spedizione in abbonamento postaleart. 2 comma 20/c legge 662/96Filiale di Parma

Direttore responsabile:avv. Giuseppe Negri chiuso in redazione il 30 giugno 2010

Comitato di redazione:avv. Nicola Bianchi, avv. Dominga Bubbico, avv. Andrea Conforti, avv. Alberto Magnani,avv. Francesco Mattioliavv. Alessandra Mezzadri, avv. Giuseppe Scotti

Hanno collaborato a questo numero:

avv. Carla Bassuavv. Aldo Bulgarelliavv. prof. Fausto Capelliavv. Lorenzo Cardanidott. Susanna Cardaniavv. prof. Fabio Merusiavv. Giulio Moscatelliavv. Marisa Scartazzaavv. Giacomo Voltattorni

pag. 3 Mediazione e conciliazione: alcune rilessioni

pag. 4 Attività del Consiglio

pag. 5 Aggiornamento albi

pag. 6 Variazioni

pag. 10 Tutela dei diritti fondamentali a livello comunitario e di Consiglio d’Europa e adesione dell’UE alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

pag. 17 Le spese straordinarieper il mantenimento dei figli

pag. 21 Donne e costituzione. La lunga marcia delle pari opportunita’

pag. 23 La giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di qualità dei prodotti alimentari: dalla causa Cassis de Dijon alla causa Parmesan passando per la causa Tocai

pag. 37 Il pignoramento dei nomi di dominio “.it”

pag. 39 Compie 640 anni, ma non li dimostra: 22 ottobre 1369 - 22 ottobre 2009

pag. 44 In viaggio con Laband...

pag. 46 Segnali di fumo

pag. 50 Giurisprudenza disciplinare

pag. 56 Giurisprudenza

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MEDIAZIONE E CONCILIAZIONE: ALCUNE RIFLESSIONI Il tema della conciliazione è tornato al centro del dibattito forense a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 28/2010, il quale dispone, tra l’altro, l’obbligatorietà del tentativo di conci-liazione per alcuni tipi di controversie.Precisamente l’obbligatorietà del tentativo è prevista “in mate-ria di condominio, diritti reali, divisioni, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarci-mento del danno derivante da circolazione di veicoli e natanti, da responsabilità e da diffamazione a mezzo stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari” (art. 5).Detta normativa, come è noto, non è, allo stato, applicabile, avendone il legislatore delegato differito gli effetti alla data del 20 marzo 2011, ovvero a distanza di un anno dalla pubblica-zione sulla Gazzetta Ufficiale del D.Lgs. n. 28/2010.Sin dalla data di entrata in vigore del decreto è previsto, però, l’obbligo per l’avvocato di informare il cliente della possibilità di avvalersi, prima dell’instaurazione del giudizio, delle procedure volte alla conciliazione della controversia.Il legislatore delegato ha inteso regolare un modello di compo-sizione alternativa delle controversie.Nulla di nuovo: da anni si discute di ADR (Alternative Dispute Resolution), verso la quale l’Avvocatura non ha sinora avuto atteggiamenti ostili.Tuttavia, la mediazione e la conciliazione, disciplinate dal D.Lgs. n. 28/2010, hanno principalmente, e dichiaratamente, uno scopo deflattivo, confidando il legislatore in una diminuzione del contenzioso giudiziario.Perseguendo tale obiettivo, ne è stata imposta l’obbligatorietà, a pena di improcedibilità.Come è noto, la media–conciliazione ha provocato una generale levata di scudi nell’Avvocatura, sia da parte degli Ordini territo-riali, sia dell’OUA, sia delle principale Associazioni forensi.Anche il nostro Consiglio dell’Ordine si è espresso sul tema, con una propria delibera, nella quale sono state poste in luce le principali criticità del D.Lgs. n. 28/2010.Eccole: 1. l’obbligatorietà della mediazione per un largo settore delle controversie civili; 2. la mancata previsione, nel procedi-mento, dell’assistenza tecnica dell’avvocato; 3. la mancata previ-sione di regole sulla competenza territoriale con la conseguenza che chi parte per primo può (potrebbe) scegliere liberamente il luogo ove radicare il procedimento di media-conciliazione; 4. la previsione riguardante la possibilità, da parte del cliente, di ottenere l’annullamento del mandato, qualora non sia stato previamente informato dal proprio avvocato della possibilità di ricorrere alla media-conciliazione; 5. la possibilità per il media-tore – anche nell’ipotesi di mancata richiesta delle parti – di formulare una propria proposta di conciliazione.A fronte delle richiamate criticità, sulle quali concorda la quasi totalità degli Ordini Forensi, vi è la richiesta pressante di modi-fica del decreto legislativo in vista dell’ormai sua non lontana applicazione. Per ora, nessuna risposta. Ma i problemi non riguardano solo le modifiche al dettato normativo, che potreb-

bero essere risolte accogliendo le istanze dell’Avvocatura; que-stioni, altrettanto spinose, concernono l’applicazione del proce-dimento di media-conciliazione: da chi sarà gestito, come e con quali risorse.Il legislatore delegato ha dato la possibilità ai Consigli degli Ordini di istituire organismi di mediazione presso i Tribunali, prevedendo che i locali per lo svolgimento dell’attività di detti organismi debbano essere messi a disposizione dal Presidente del Tribunale, con la precisazione che i Consigli dovranno avva-lersi di proprio personale.Anche i Consigli di altri Ordini professionali potranno istituire, previa autorizzazione del Ministero della Giustizia, organismi speciali, avvalendosi di proprio personale e utilizzando locali nella propria disponibilità (art. 19).Così pure le Camere di Commercio, ancorchè sulla base della legge n. 580/1993, potranno svolgere (continuare a svolgere) l’attività di conciliazione e chiedere di essere iscritte - come è previsto per gli organi costituiti dagli Ordini professionali – in apposito Registro, tenuto presso il Ministero della giustizia.Il legislatore delegato ha quindi regolato un complesso (e farra-ginoso) procedimento di pre-contenzioso, al quale sono interes-sati vari soggetti, cui viene demandata la gestione della media-conciliazione. In sostanza, ancorchè abbastanza maldestramente, il legislatore sembra volere introdurre una sorta di “esternalizzazione” di taluni tipi di controversie, la cui trattazione preliminare viene collocata al di fuori dei Tribunali, nella prospettiva conciliativa.Su tale scelta si può convenire o non e si può discutere molto.Valga, per tutti, il richiamo a quanto autorevolmente posto in luce recentemente da Andrea Proto Pisani (Appunti su media-zione e conciliazione in Foro it, 2010, V, 142 ss), il quale ha fatto riferimento al “diritto mite”, incisivamente affermando: “Alla giustizia rappresentata dalla spada che taglia, che recide, si sostituisce la conciliazione rappresentata dall’agnello”.Peraltro, a prescindere dalla antica- ma sempre attuale- con-trapposizione tra decisione secondo diritto e secondo equità (in senso lato), bisogna prendere atto della nuova situazione e adoperarsi per fare in modo che, con i dovuti correttivi, il nuovo organismo cominci a funzionare.In questo senso si è già mosso il nostro Consiglio dell’Ordine chiedendo formalmente al Presidente del Tribunale locali idonei per lo svolgimento dell’attività di media-conciliazione.Questo è solo l’inizio.I passaggi successivi ci impegneranno molto dal punto di vista organizzativo: occorrerà creare – nel vero senso del termine – la struttura, che necessiterà di risorse umane ed anche finanziarie.Insomma, ci sarà molto da fare.Sarà necessario uno sforzo comune, che ci dovrebbe consentire di cogliere delle opportunità nella materia stragiudiziale che – anche prima di queste ultime innovazioni legislative – è stata largamente praticata dagli avvocati, i più adatti, per cultura e per formazione, alla gestione extragiudiziale delle controversie.

LUIGI ANGIELLO

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ATTIVITA’ DEL CONSIGLIO

Dal 1° dicembre 2009 al 19 gennaio 2010 il Consiglio, nella precedente composizione, si è riunito 8 volte.

Elenco delle presenze dei Consiglieri alle adunanze:

avv. Angiello n. 8 avv. Gandini n. 8 avv. De Risio n. 7 avv. Brianti n. 7avv. Cagna n. 8 avv. Calistro n. 7 avv. De Sensi n. 7 avv. Cugurra = avv. Grossi n. 7 avv. Mendogni n. 8 avv. Menoni =avv. Mezzadri n. 8 avv. Piombi n. 7 avv. Pinardi n. 5 avv. Salvini n. 8

Il Consiglio, nella nuova composizione all’esito delle elezioni tenutesi in data 19 gennaio 2010 e 23 gennaio 2010, fino al 30 giugno 2010 si è rinuito 22 volte. Elenco delle presenze dei Consiglieri alle adunanze dal 28 gennaio al 30 giugno 2010:

Elenco delle presenze dei Consiglieri alle adunanze:

avv. Angiello n. 22avv. Gandini n. 21avv. De Risio n. 21 avv. Brianti n. 17 avv. Cagna n. 22 avv. Calistro n. 20 avv. De Sensi n. 19 avv. Grossi n. 20 avv. Mendogni n. 14 avv. Maggiorelli n. 19 avv. Mattioli n. 21 avv. Mezzadri n. 19 avv. Piombi n. 20

avv. Pinardi n. 14 avv. Salvini n. 21

OPINAMENTO PARCELLE

Dal 1° dicembre 2009, l’apposita commissione consiliare (ovvero il Consiglio) ha opinato n. 358 parcelle.

PROCEDIMENTI DISCIPLINARI

Dal registro dei reclami nei confronti degli iscritti dal 1° dicembre 2009:

pervenuti n. 47archiviati n. 24disciplinari aperti n. 3disciplinari celebrati n. 19

RICHIESTE DI AMMISSIONE AL PATROCINIO A SPESE DELLO STATO

pervenute n. 163ammesse n. 161non ammesse n. 8pendenti n. 9

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ALBO AVVOCATIISCRIZIONI

1. ANTONIETTA MODARELLI (1° dicembre 2009)2. ANDREA MASSIMO MOLE’ (7 gennaio 2010)3. CHIARA FRANCHI (7 gennaio 2010)4. FEDERICA BERTINELLI (12 gennaio 2010) 5. SIMONA CARPENA (12 gennaio 2010)6. MATTEO CHIODI (12 gennaio 2010)7. GABRIELE FARRI (12 gennaio 2010)8. MATTEO FORNARI (12 gennaio 2010)9. MARA NEGRI (12 gennaio 2010)10. ALESSANDRO GAETANI (19 gennaio 2010)11. GIOVANNI QUARANTA (19 gennaio 2010)12. GENTIAN ALIMADHI (28 gennaio 2010)13. LUISELLA LAZZARONI (28 gennaio 2010)14. VALENTINA TUCCARI (28 gennaio 2010)15. ALBERTO BOLZONI (2 febbraio 2010)16. FEDERICA RUFFO (16 febbraio 2010)17. MARCO BOMBINO (23 febbraio 2010)18. LORENA PAGLIARI (23 febbraio 2010)19. VIVIANA GIANGUALANO (2 marzo 2010) per tra sferimento dall’ordine di Milano20. MARTA TORELLI (2 marzo 2010)21. STEFANIA UGOLOTTI (9 marzo 2010)22. IOANA VERBANCU (16 marzo 2010)23. RAFFAELLA CALDA (16 marzo 2010) reiscrizione24. GIULIO DE MARCHI (6 aprile 2010)25. SIMONA FERRARI (6 aprile 2010)26. CARLO ALBERTO SARTORIO (6 aprile 2010)27. MARCELLINA DALL’ASTA (13 aprile 2010)28. CHIARA DALL’ASTA (27 aprile 2010)29. GIUSEPPINA ZENNA (27 aprile 2010)30. STEFANIA RICCARDI (4 maggio 2010) per trasferi mento dall’ordine di Piacenza31. MONICA PAGLIALUNGA (15 giugno 2010)32. MARIA GALANTE (15 giugno 2010)elenco speciale degli avvocati addetti agli uffici legali33. MARIA CATERINA ALBA SPASSINO (29 giugno 2010) elenco speciale degli avvocati addetti agli uffici legali

CANCELLAZIONI

1. ANDREA DI BLASI (a domanda, 15 dicembre 2009)2. CHIARA MAZZANI (a domanda, 15 dicembre 2009)3. MASSIMILIANO CANTARELLI (a domanda, 22 dicembre 2009)4. TIZIANA ORS (a domanda, 29 dicembre 2009)5. LUCA BOCCHI (a domanda, 7 gennaio 2010)6. PAOLA GINESI (per trasferimento all’ordine di Roma, 19 gennaio 2010)7. PATRIZIA LUCIA GALLUCCI (a domanda, 16 febbraio 2010)8. ALESSANDRA GRANDINETTI CARONNI (per trasferimento all’ordine di Firenze, 16 marzo 2010)9. NICOLA MANCANIELLO (per trasferimento all’ordine di Roma, 16 marzo 2010)10. DANIELA MIGALE (per trasferimento all’ordine di Reggio Emilia, 23 marzo 2010)11. VALENTINA SIMONELLI (per trasferimento all’ordine di Milano, 13 aprile 2010)12. LORENZO FURIA (a domanda, 15 giugno 2010)

Alla data del 30 giugno 2010 gli iscritti all’albo erano in numero di millecentotrentanove.

PRATICANTI AVVOCATIIscritti: n. 12Cancellati: n. 10

PATROCINATORI LEGALIIscritti: n. 12Cancellati: n. 6

AGGIORNAMENTO ALBI

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VARIAZIONI

- avv. SAMUELA FRIGERI: Parma, via Mazzini 2; tel. e telefax invariati; II ufficio: Fidenza (PR) via Berenini 66; tel. 0524/533004, telefax 0524/516400;

- avv. ANGELICA COCCONI: e-mail [email protected];

- avv. CARLA GUIDOROSSI: e-mail [email protected];

- avv. ANTONELLA GUARESCHI: Parma, via Mazzini 2; tel. e telefax invariati;

- avv. LAURA ROSSETTI: Fidenza (PR), via dei Mille 16; tel. e telefax 0524/400449; e-mail [email protected];

- avv. MARINA RONCHINI: Parma, via Mazzini 2; tel. e telefax invariati;

- avv. CRISTINA LAPENNA: tel. e telefax: 0521/293941;

- avv. PAOLA ROMANO: Parma, vicolo dei Mulini 6; tel. 0521/238822; telefax 0521/238866;

- avv. FRANCESCA MAZZOTTI: Parma, borgo Antini 7; tel. e telefax 0521/186449; e-mail [email protected];

- dott. FRANCESCO CALTAGIRONE: Parma, via Strela 10; tel. 0521/927835; telefax 0521/291178; cell. 347/2729914;

- avv. FRANCESCA MICHELI: e-mail [email protected];

- avv. LORENZO ISOPPO: sito internet www.studiolegaletosimorroneisoppo.it; e-mail [email protected];

- avv. DANIELA MORRONE: sito internet www.studiolegaletosimorroneisoppo.it; e-mail [email protected];

- avv. GENTIAN ALIMADHI: telefax 0521/1705208;

- dott. STEFANO NEVICATI: Parma, viale Mentana 41 (presso studio avv. Serra);

- avv. FEDERICA FOLLI: Parma, via Mazzini 2; tel. e telefax invariati; in aggiunta tel. 0521/186766;

- avv. MARIO SALVI: telefax 0521/200071; e-mail [email protected];

- avv. CECILIA NEVI: e-mail [email protected];

- avv. MATILDE ROGATO: Parma, via Mazzini 2; tel. 0521/283292; telefax 0521/239852; cell. 347/2639020; e-mail [email protected];

- avv. GABRIELE USBERTI: e-mail [email protected];

- avv. MARIA ROSARIA FRISINA: Parma, via Fratti 7;

- studio legale associato TOSI-SCHIANCHI-RIVA trasformato in studio legale Tosi & Riva, tel. telefax ed e-mail invariati;

- avv. CLAUDIO SCHIANCHI: Collecchio (PR); strada dei Notari 16; tel. 0521/882666; telefax 0521/803026; e-mail [email protected];

- avv. ELENA DE SIMONE: Parma, via Collegio dei Nobili 1; tel. e telefax 0521/206512; cell. 348/9231508; e-mail [email protected];

- avv. MARIA CHIARA SALTI: Parma, via Petrarca 8; tel. 0521/386176; telefax 0521/386080; e-mail [email protected];

- avv. VITTORIA MENDICINO: Parma, via Mazzini 2; cell. 338/5345950; telefax 0521/239852; e-mail [email protected];

- avv. FEDERICA ZECCA: e-mail [email protected];

- dott. SIMONA CARPENA: Parma, strada XXII Luglio 22; tel. 0521/285898; telefax 0521/204616; cell. 338/2394920; e-mail [email protected];

- avv. GABRIELE SANSONI: Parma, via Garibaldi 23; tel. 0521/234411; telefax 0521/283100; e-mail invariato;

- dott. CLAUDIO CONARDI: Parma, via Giuseppe Rossi 22; tel. 0521/962278; cell. 349/2944673;

- avv. SARA ARALDI: e-mail [email protected];

- avv. LAURA BORRI: Parma, vicolo Politi 7; tel. telefax ed e-mail invariati;

- avv. TERESINA PROCOPIO: Parma, Galleria Bassa dei Magnani 7; tel. e telefax 0521/571742; cell. 349/8659697;

- avv. GIULIA GRAZIANO: e-mail [email protected]; II ufficio, Soragna (PR), Piazzetta Riccio da Parma 7;

- avv. MARIA LA NAVE: e-mail avvocato.lanave@libero; cell. 338/1409726;

- avv. MANUELA MULAS: e-mail [email protected] non è più attivo;

- avv. ANNAMARIA VIZZOLESI: e-mail [email protected];

- avv. LORIS CABRINI: Parma, via Francesco Liani 11; cell. 339/4165097;

- avv. EMILIA BIGOLI: e-mail [email protected];

- avv. LAURA FERRABOSCHI: tel. 0521/280710;

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telefax 0521/508300; cell. 339/8109317-328/3279928-328/8780086;

- avv. CLAUDIA PEZZONI: Parma, p.le Badalocchio 9/B; tel. 0521/944969; telefax 0521/813878; e-mail [email protected];

- dott. JONIDA DERVISHHASANI: Parma, p.le Badalocchio 9/B; tel. 0521/944969; telefax 0521/813878;

- dott. MARTINA CANELLA: Fidenza (PR); vicolo Lazzarino 3; tel. e telefax 0524/533314;

- avv. MAURA MONTAGNA: e-mail [email protected];

- avv. SILVIA COCCA: [email protected];

- avv. LUCA GROLLI: telefax 0521/287096;

- avv. FEDERICO MACELLARI: Parma, via Sette F.lli Cervi 2; tel. 0521/1910856; telefax 0521/1910857; e-mail invariato;

- avv. ALBERTA FELISA: Parma, via Montebello 82; tel. 0521/386310; telefax 0521/389762;

- avv. MONICA FURIA: Parma, borgo della Posta 13; telefax 0521/1910043; tel.invariato;

- avv. FRANCESCA CARLI: Parma, borgo della Posta 13; telefax 0521/1910043; tel.invariato;

- avv. LUCIA DELLAPINA: Parma, borgo della Posta 13; telefax 0521/1910043; tel.invariato;

- avv. ALESSANDRO CIMAGLIA: e-mail [email protected];

- avv. ANDREA CERESINI: Parma, via Petrarca 8; tel. 0521/233244; telefax 0521/230767; e-mail [email protected];

- dott. EMANUELA BELLANTE: Parma, Galleria Polidoro 8; tel. e telefax 0521/503115; e-mail [email protected];

- dott. RAFFAELE BUSANI: Parma, via Mazzini 2; tel. 0521/506661; telefax 0521/223393;

- avv. EMANUELA ROGATO: Parma, via Passo della Cisa 19; tel. 0521/492213; e-mail [email protected];

- avv. ELISA AGNETTI: Parma, strada Garibaldi 57; tel. 0521/186218; telefax 0521/204357; e-mail [email protected];

- avv. VIRGILIO ANTELMI: Parma, via Cavour 13, tel. telefax ed e-mail invariati;

- avv. CLAUDIO MAZZADI: Parma, via Cavour 13, tel. telefax ed e-mail invariati;

- avv. MARIA CHIARA VENTURINI: Parma, piazza Italo Piazzi 61/A; tel. 0521/775033; telefax 0521/778350; e-mail [email protected];

- avv. NICOLA SIMEONE: Parma, piazza Italo

Piazzi 61/A; tel. 0521/775033; telefax 0521/778350; e-mail [email protected];

- avv. ESTER TORSELLO: e-mail [email protected];

- avv. MATTEO FERRONI: e-mail [email protected];

- avv. ELENA MARIA ALTOMONTE: Salsomaggiore Terme (PR), via Don Minzoni 18; tel. e telefax invariati;

- avv. MERCEDES FRANCHI: e-mail [email protected]; unico numero di telefax 0524/522445;

- avv. KATIA BUSI: Parma, via Cavallotti 12; tel. e telefax 0521/207958; e-mail [email protected];

- avv. MATTEO CHIODI: Parma, via Bixio 73; tel. 0521/232258-0521/504414; telefax 0521/504420; e-mail [email protected];

- avv. MARIA LUCIA TAURINO: Parma, strada XXII Luglio 9; tel. e telefax 0521/208539; cell. ed e-mail invariati;

- avv. ELISA TORELLI: Parma, borgo del Parmigianino 21; telefax 0521/239067;tel. ed e-mail invariati;

- avv. LARA GAGLIARDI: Busseto (PR); via Roma 73; tel. e telefax invariati;

- avv. COSIMO MARTINI: tel. 0521/244577;

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- avv. LAURA PANELLI: Parma, strada Garibaldi, 22; tel. 0521/506650; telefax 0521/1917572; e-mail [email protected]; studio in Fontanellato (PR) CHIUSO;

- avv. ELISA FOCHI: Parma, borgo della Salnitrara, 8; tel. 0521/201168, telefax 0521/533850; e-mail invariata;

- avv. ARIANNA FERRO: e-mail [email protected];

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- dott. ANTONIO CAGNA: tel. 0521/237574 unica linea telefonica; invariato telefax ed e-mail;

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- avv. FRANCESCO MATTIOLI: Parma, strada Farini 37; telefax 0521/208905; invariato tel. ed e-mail;

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- avv. UGO VENTURINI: Parma, via Farini 37, interno 15; telefax 0521/208905; tel. ed e-mail invariati;

- avv. LUISA LANDRO: Parma, borgo Torrigiani 5; tel. 0521/346062-386536; telefax 0521/386536; e-mail [email protected];

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- avv. SERENA BOSCARATO: Parma, via Farini 40; tel. 0521/504508-286241; telefax 0521/504909; e-mail invariata;

- avv. CAROLINA BELFIORE: Parma, strada Garibaldi 38; tel. 0521/1626055; telefax 0521/508818;

- avv. MICHELE FAVA: cell. 347/6976850; telefax 051/6167799; e-mail [email protected];

- avv. MARIANNA PONTA: e-mail [email protected]

- avv. MARCELLO D’ANTONANGELO: e-mail [email protected];

- avv. SEBASTIANO CORAZZA: Parma, strada Garibaldi 22; tel. 0521/506650; telefax 0521/1917572; secondo studio in Colorno (PR), via Filippina 2; tel. 0521/312328; telefax 0521/312405;

- avv. DAVIDE RASTELLI: Parma, strada Garibaldi 22; tel. 0521/506650; telefax 0521/1917572; secondo studio in Colorno (PR), via Filippina 2; tel. 0521/312328; telefax 0521/312405;

- avv. FERDINANDO BOLZONI: e-mail [email protected];

- avv. ALBERTO BOLZONI: e-mail [email protected];

- avv. ROBERTA CANTARELLI: e-mail [email protected]

- avv. ANNALISA AZZALI: piazzale Santafiora 1; tel. 0521/239221-508377; telefax 0521/204271; e-mail [email protected];

- avv. CARLO GUELI: telefax 0521/1912187; tel. invariato; e-mail [email protected];

- avv. DONATELLA GUELI: telefax 0521/1912187; tel. invariato; e-mail [email protected];

- avv. VITINA GUARINO: piazzale Boito 5; cell. 320/4822131; telefax 0521/391425; e-mail [email protected];

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Il 1° dicembre 2009 è entrato in vigore il Trattato di Lisbona.

L’art. 6, paragrafo 2, del Trattato di Lisbona prevede l’ade-sione da parte dell’Unione Europea alla Convenzione euro-pea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CESDU), sottoscritta a Roma il 4 novembre 1950, convenzione internazionale multilaterale di eccezionale importanza che ha, fra le sue principali caratteristiche, l’istitu-zione di un apposito organo giurisdizionale, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU)(art. 32 CESDU).

Il meccanismo per l’adesione è previsto dall’art. 218 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), ed è alquanto complesso.

Quando il procedimento ex art. 218 TFUE sarà comple-tato, e l’art. 6.2 del Trattato di Lisbona sarà attuato, ci tro-veremo di fronte ad un problema del coordinamento fra la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE), che ha sede in Lussemburgo, e la CEDU, che ha sede a Strasburgo, di non facile soluzione.

Il rischio è infatti quello di una sovrapposizione di compe-tenze e di possibile contrasto di giudicati.

Ma procediamo con ordine.

LA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI.

La CEDU è stata la prima ad essere istituita, nel 1950, per effetto dell’art. 19 della CESDU, firmata appunto il 4 novembre 1950 a Roma ed entrata in vigore il 3 settembre 1953 (ratificata e posta in esecuzione in Italia dalla legge 4 agosto 1955 n. 848), con la funzione di “assicurare il rispetto degli impegni derivanti alle Alte Parti contraenti dalla presente Convenzione e dai suoi protocolli.”

Unitamente alla Convenzione vera e propria la legge ita-liana di ratifica ha ratificato anche il primo protocollo addi-zionale, contenente 4 articoli (dedicati alla protezione della proprietà privata, al diritto all’istruzione, al diritto a libere

elezioni, al diritto di ogni Stato membro di limitare territo-rialmente i suoi obblighi) da considerare come articoli addi-zionali alla Convenzione originaria.

Numerosi altri protocolli sono stati aggiunti successiva-mente, aumentando sempre più l’ambito di protezione dei diritti umani.

Particolarmente significativo è, a titolo d’esempio, il pro-tocollo addizionale n. 4, adottato a Strasburgo il 16 settem-bre 1963 - eseguito in Italia con DPR 14 aprile 1982 n. 217 – col quale è stato vietato l’imprigionamento per debiti, è stata riconosciuta la libertà di circolazione e di residenza all’interno degli Stati membri del Consiglio d’Europa, è stato convenuto il divieto di espellere i cittadini ed il divieto di espulsioni collettive di stranieri.

Attende ancora alcune ratifiche il protocollo n 14, sot-toscritto il 14 maggio 2004, che permette ad organizzazioni internazionali come l’UE di diventare parte della CEDU: si tratta dell’indispensabile presupposto normativo, dal lato del Consiglio d’Europa, per consentire all’UE di far parte della CEDU stessa; come si è già accennato, e si vedrà più spe-cificamente in prosieguo, l’ordinamento giuridico dell’UE è stato adeguato nel medesimo senso per effetto dell’art. 6.2 del Trattato di Lisbona.

Le sentenze della CEDU, che hanno avuto finora come destinatari, tenuti alla loro esecuzione (anche se, per una sorta di fair play istituzionale, visto che i destinatari sono Stati sovrani, nel dispositivo delle decisioni della CEDU si evita accuratamente di utilizzare la parola “condanna”, e sem-plicemente si dice che lo Stato è tenuto a pagare un certo importo) solo i quarantasette Stati membri del Consiglio d’Europa, a seguito del protocollo addizionale n. 14 avranno come destinatari anche le organizzazioni internazionali che entreranno a farne parte.

A livello di UE, questa possibilità porrà problemi di coor-dinamento fra le Corti, come vedremo infra.

Il ricorso introduttivo può essere presentato da singoli privati (art. 34 CESDU) oppure anche da Stati membri (in questo caso si parla di ricorsi interstatali: art. 33 CESDU).

Tutela dei diritti fondamentali a livello comunitario e di Consiglio d’Europa e adesione dell’UE alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

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I ricorsi interstatali costituiscono un’ipotesi piuttosto rara (finora ve ne sono stati solo tre, in tutta la storia della CEDU), e la verifica della loro ammissibilità, con decisione motivata, è affidata all’esame di una delle Camere (composta ciascuna da sette giudici).

Numerosissimi sono invece i ricorsi individuali; recente-mente, si è provveduto per tale motivo a snellire l’iter pro-cedurale affidando l’esame della loro ricevibilità, sempre con decisione motivata, non già ad una camera di sette giudici, bensì ad un Comitato di tre giudici.

La CEDU svolge funzione sussidiaria rispetto ai giudici nazionali, perché non può essere adita se non dopo l’esauri-mento delle vie di ricorso interne agli Stati membri, ed entro sei mesi dalla decisione definitiva, a pena di irricevibilità (art. 35 CESDU).

Lo Stato membro, il cui cittadino sia ricorrente, ha diritto di intervenire nel procedimento.

Nell’interesse di una corretta amministrazione della giu-stizia, il Presidente della CEDU può invitare anche altri Stati membri o persone interessate diverse dal ricorrente a pre-sentare osservazioni scritte o a partecipare alle udienze (art. 36 CESDU).

La sentenza della Camera, sempre motivata, qualora la domanda venga accolta, conterrà l’indicazione del danno sof-ferto dal ricorrente e potrà anche contenere un’equa ripara-zione, anche di natura risarcitoria.

L’impugnazione alla Grande Camera, da proporre nel ter-mine di tre mesi, è limitata a casi eccezionali, quando la que-stione oggetto del ricorso solleva gravi problemi di interpre-tazione o di applicazione della CESDU o dei suoi protocolli addizionali o di carattere generale: la decisione di preliminare ammissibilità è affidata ad un Collegio di cinque Giudici della Grande Camera (art. 43 e 44 CESDU).

Per fare un esempio, proprio alla Grande Camera si è rivolto lo Stato italiano dopo la decisione dei giudici di Stra-sburgo nella ben nota vicenda del crocefisso nelle aule sco-lastiche.

Si è in attesa della fissazione dell’udienza.

LA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA.

La prima versione della CGUE, con sede in Lussem-

burgo, risale al 18 aprile 1951, quando i sei paesi fondatori della prima delle Comunità Europee, la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA), firmarono il Trattato di Parigi, istitutivo appunto della CECA, con la previsione di un organo giurisdizionale per l’applicazione uniforme del neo-nato diritto comunitario: la Corte di Giustizia della CECA.

Primo Presidente: l’italiano Massimo Pilotti (dal 1952 al 1958).

Con la firma dei Trattati di Roma del 25 marzo 1957, istitutivi della Comunità Economica Europea (CEE) e della Comunità Europea dell’Energia Atomica (EURATOM), venne istituita la Corte di Giustizia delle Comunità Europee (CGCE), comune a CEE, CECA ed EURATOM.

Con la firma del Trattato di Lisbona, è stata mutata la denominazione della Corte in Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE).

“La Corte di giustizia dell’Unione Europea comprende la Corte di Giustizia, il Tribunale e i tribunali specializzati. Assicura il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei trattati.” (art. 19.1 TUE).

“La Corte di giustizia dell’Unione Europea si pronuncia conformemente ai trattati:

a) sui ricorsi presentati da uno Stato membro, da un’isti-tuzione o da una persona fisica o giuridica;

b) in via pregiudiziale, su richiesta delle giurisdizioni nazio-nali, sull’interpretazione del diritto dell’Unione o sulla validità degli atti adottati dalle istituzioni;

c) negli altri casi previsti dai trattati.” (art. 19.3 TUE).

Si tratta pertanto di un apparato giudiziario di una certa complessità, con pluralità di corti, con una vera e propria funzione giurisdizionale, che tende al mantenimento e all’at-tuazione dell’ordinamento giuridico comunitario.

L’UNIONE EUROPEA E I DIRITTI UMANI

A) NELLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE DI GIU-STIZIA

La CEE prima, l’UE poi, e la sua Corte di Giustizia, hanno da sempre manifestato attenzione al tema dei diritti umani.

La CGUE ha per la prima volta affermato ancora nel lon-tano 1969 che l’ordinamento comunitario assicura la tutela dei diritti fondamentali della persona, i quali fanno parte dei principi generali del diritto comunitario, di cui appunto la

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Corte garantisce l’osservanza (CGCE 12 novembre 1969, Eric Stauder c. Città di Ulm-Sozialamt, causa 29/69, racc. 419).

Non si può a questo punto non notare che il merito di introdurre nel sistema comunitario la tutela dei diritti fonda-mentali spetta alla CGCE: ed è quindi una tutela di chiara ed esclusiva matrice giurisprudenziale.

Giacché nessun cenno ai diritti fondamentali si faceva nei trattati istitutivi delle comunità europee.

Fino a trovare poi invece trattazione sistematica in quel vero e proprio “bill of rights” che è la Carta di Nizza del 2000.

In una sentenza del 1970, la CGCE aveva in un primo momento affermato, da un lato, che la validità degli atti ema-nati dalle istituzioni comunitarie può essere stabilita unica-mente alla luce del diritto comunitario, con la conseguenza che la validità ed efficacia di un atto comunitario non può essere sminuita per il solo fatto che tale atto violi i diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione di uno Stato membro; dall’altro, la Corte aveva peraltro nel caso concreto affer-mato anche che è opportuno accertare se non sia stata vio-lata alcuna garanzia analoga inerente al diritto comunitario: ed in tal occasione aveva riaffermato che la tutela dei diritti fondamentali costituisce parte integrante dei principi giuri-dici generali di cui la Corte di giustizia garantisce l’osservanza (CGCE 17 dicembre 1970, Internationale Handelsgesellschaft mbH c. Einfur- und Vorratsstelle für Getreide und Futtermittel, causa 11/70, racc. 1125).

Già dopo qualche anno, la Corte di Giustizia ha attenuato tale rigida posizione, e ha riconosciuto che, nella sua atti-vità di garanzia della tutela dei diritti fondamentali, è tenuta ad ispirarsi alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, per cui non potrebbe ammettere provvedimenti incompatibili con i diritti fondamentali riconosciuti e garan-titi dalle costituzioni degli Stati stessi. Anche i trattati inter-nazionali relativi alla tutela dei diritti dell’uomo, cui gli Stati membri hanno cooperato o aderito, possono del pari fornire elementi di cui occorre tener conto nel’ambito del diritto comunitario: chiaro, anche se indiretto, il riferimento alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CGCE 14 maggio 1974, J. Nold, Kohlen - und Baustoffgroßhandlung c. Commissione, causa 4/73, Racc. 491).

In applicazione di tale principio, la Corte ha per esempio riconosciuto in un caso concreto la possibilità per il Land tedesco della Renania Palatinato, nota regione vinicola, di vietare ad una proprietaria terriera l’impianto di un nuovo vigneto per inidoneità a tale coltivazione in base alla legi-

slazione dello Stato: la Corte ha infatti affermato che una siffatta limitazione al diritto di proprietà, espressione della funzione sociale dello stesso, è nota e comune, in forme identiche o analoghe, all’ordinamento costituzionale di tutti gli stati membri, e da questo riconosciuta legittima, in quanto restrizione al diritto di proprietà necessaria ai fini della tutela dell’interesse generale (CGCE 13 dicembre 1979, Liselotte Hauer c. Land Rheinland-Pfalz, causa 44/79, racc. 3727.

Più recentemente, la Corte di Giustizia è passata a fare applicazione diretta della CESDU: con una decisione che verrà poi ancora richiamata, la Corte ha cominciato a proce-dere a verificare l’applicabilità diretta della CESDU, pur per-venendo a negare che l’art. 8 CESDU fosse stato nel caso di specie violato (CGCE 31 maggio 2001, D. e Svezia c. Consiglio, cause riunite C-122/99 P e C-125/99 P, racc. I-4319).

Come spesso è accaduto, e tuttora accade abitualmente per il prestigio ed il rilievo delle decisioni della CGUE, l’art. 6.3 del Trattato di Lisbona ha ora normativizzato il principio giurisprudenziale affermato dalla CGUE, in un percorso ini-ziato come si è visto fin dal 1969:

“I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali.”

B) L’AGENZIA DELL’UNIONE EUROPEA PER I DIRITTI FONDAMENTALI

Con Regolamento CE 15 febbraio 2007 n. 168/2007, è stata istituita l’Agenzia dell’Unione Europea per i diritti fon-damentali, trasformando il preesistente Osservatorio Euro-peo dei fenomeni di razzismo e xenofobia.

L’Agenzia, che ha personalità giuridica e ha sede a Vienna (art. 23 Reg. 168/2007), dovrebbe espressamente “operare in stretta collaborazione con il Consiglio d’Europa”, al fine di “evitare sovrapposizioni tra le attività svolte dall’agenzia e quelle svolte dal Consiglio d’Europa, in particolare predisponendo meccanismi capaci di generare complementarietà e valore aggiunto, come la conclusione di un accordo bilaterale di cooperazione e la par-tecipazione di una personalità indipendente nominata dal Con-siglio d’Europa alle strutture direttive dell’Agenzia, con diritti di voto adeguatamente definiti.” (diciottesimo considerando del suddetto Regolamento 168/2007).

L’Agenzia ha lo scopo di fornire alle competenti istituzioni UE e agli Stati membri, nell’attuazione del diritto comunitario, assistenza e consulenza in materia di diritti fondamentali, in modo da aiutarli a rispettare pienamente tali diritti quando

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essi adottano misure o definiscono iniziative nei loro rispet-tivi settori di competenza.

C) L’ART. 6.1 DEL TRATTATO DI LISBONA

Sempre in tema di diritti umani e diritti fondamentali, il Trattato di Lisbona contiene una disposizione di estrema rile-vanza: il paragrafo 1 dell’art. 6 del Trattato riconosce infatti i diritti, le libertà ed i principi sanciti nella Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea firmata a Nizza il 7 dicem-bre 2000 (cd “Carta di Nizza”), “che ha lo stesso valore giuri-dico dei trattati”.

Non è questa la sede per esaminare nei dettagli il conte-nuto della Carta di Nizza: basterà per il momento notare che il suo contenuto non coincide con la CESDU, ed è per ceri aspetti più vasto.

Interessante è invece rilevare fin d’ora che la carta di Nizza, ancor prima di assumere valore giuridico con il Trat-tato di Lisbona, ha trovato applicazione da parte della magi-stratura europea anche di merito: caso veramente singolare ove la forza morale di un testo normativo è tale da fargli acquistare efficacia e provocarne l’applicazione giurispruden-ziale prima ancora della sua entrata in vigore.

D) L’ART. 6.2 DEL TRATTATO DI LISBONA

Come già accennato, il paragrafo 2 dello stesso art. 6 del Trattato di Lisbona prevede espressamente l’adesione dell’UE alla CESDU.

Si tratta della conclusione di un lungo percorso.

Come si è visto, fin dal 1969 la CGCE aveva riconosciuto che l’ordinamento comunitario assicura la tutela dei diritti fondamentali della persona, i quali fanno parte dei principi generali del diritto comunitario, di cui appunto la Corte garantisce l’osservanza, arrivando poi anche a fare applica-zione diretta della CESDU.

E’ naturale pertanto che si ponesse l’esigenza di verificare la possibilità di un’adesione della allora Comunità Europea alla CESDU.

A tal fine, nel 1996 il Consiglio aveva chiesto un parere alla CGCE.

Rientra infatti fra le competenze della CGCE, oltre a quella giurisdizionale, anche la possibilità di emettere pareri consul-

tivi, su richiesta del Consiglio, nell’ambito del procedimento per la conclusione di accordi internazionali da parte dell’UE, circa la compatibilità con i Trattati del previsto accordo (art. 218.11 TUE – già art. 300 TCE)

E’ interessante esaminare sia i quesiti posti sia le rispo-ste date dalla CGCE (parere 28 marzo 1996, Adesione della Comunità alla Convenzione della Salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, parere 2/94, racc. I-1759):

Il quesito posto dal Consiglio alla Corte, col quale si chie-deva un parere sulla compatibilità con il Trattato istitutivo della Comunità Europea dell’adesione della Comunità stessa alla CESDU, era duplice:

a) da un lato sulla capacità della Comunità di conclu-dere l’accordo;

b) dall’altro, sulla compatibilità dell’accordo con il Trat-tato, con speciale riferimento alle norme sulla competenza della Corte.

Bisogna subito dire che la CGCE ha ritenuto che la seconda parte del quesito fosse inammissibile, non dispo-nendo di elementi sufficienti per comprendere le modalità con cui la Comunità prevedeva di assoggettarsi ai meccani-smi di controllo giurisdizionale attuali e futuri istituiti dalla CESDU.

Si intuisce quanto rilevante e delicato fosse all’epoca il problema relativo all’assoggettamento della Comunità Euro-pea alla giurisdizione della CEDU.

Quanto alla prima parte del quesito, la Corte è partita dalla considerazione che i limiti dei poteri riconosciuti alla Comunità Europea derivano dal Trattato istitutivo, che nulla dice sulla possibilità di concludere accordi internazionali. Dopo aver riconosciuto che il rispetto dei diritti dell’uomo costituisce ormai un requisito di legittimità degli atti comuni-tari, la Corte ha dovuto precisare che l’adesione alla CESDU avrebbe, all’epoca, determinato una modificazione sostan-ziale del regime comunitario a quell’epoca vigente di tutela dei diritti dell’uomo.

La conclusione è stata che la prospettata adesione alla CESDU avrebbe potuto essere realizzata unicamente mediante modifica del Trattato.

Questa modifica è ora intervenuta con il Trattato di Lisbona, in particolare con l’art. 6.2 dello stesso.

E’ interessante notare che, sempre nell’art. 6.2 del Trat-tato di Lisbona, subito dopo la previsione dell’adesione dell’UE alla CESDU, si sente il bisogno di precisare che “Tale adesione non modifica le competenze dell’Unione definite

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nei trattati”.

Il protocollo n. 8 prevede che l’accordo di adesione “deve precisare le modalità specifiche dell’eventuale partecipazione dell’Unione agli organi di controllo della convenzione euro-pea” ed “i meccanismi necessari per garantire che i proce-dimenti avviati da Stati non membri e le singole domande siano indirizzate correttamente, a seconda dei casi, agli Stati membri e/o all’Unione.”

E) LA PROCEDURA EX ART 218 DEL TRATTATO SUL FUNZIONAMENTO DELL’UE (TFEU)

L’art. 218 TFUE, norma generale da applicarsi quando l’UE stipuli accordi con paesi terzi o con organizzazioni inter-nazionali, prevede anche alcune disposizioni specificamente dettate per l’adesione dell’UE alla CESDU.

Anzi, può senz’altro dirsi che gli unici casi in cui la norma cessa di essere generale e astratta, per prevedere espressamente dispo-sizioni “ad hoc”, sono proprio quelli ove viene richiamata l’adesione dell’UE alla CESDU.

Tanta è l’importanza attribuita dal legislatore comunitario all’adesione alla CEDU!

La procedura è complessa.

La Commissione presenta racco-mandazioni al Consiglio, il quale a sua volta adotta una decisione che auto-rizza l’avvio dei negoziati, ne definisce le direttive, designa il negoziatore (o il capo dei negoziatori) dell’UE, designa un comitato speciale che deve essere consultato nella condu-zione dei negoziati.

Previa approvazione del Parlamento Europeo, il Consi-glio, su proposta del negoziatore, delibera, all’unanimità, una decisione relativa alla conclusione dell’accordo di adesione, e adotta una decisione che autorizza la firma dell’accordo e, se del caso, la sua applicazione provvisoria prima dell’entrata in vigore.

Ma, prima della sua entrata in vigore, la decisione sulla conclusione dell’accordo di adesione dovrà essere prima approvata da tutti gli Stati membri, conformemente alle rispettive norme costituzionali.

LA SITUAZIONE DOPO L’ADESIONE.

Con la macchina del tempo collochiamoci nel momento temporale, futuro e incerto, in cui, auspicabilmente, l’UE avrà aderito alla CESDU, una volta completato il lungo e laborioso procedimento previsto dall’art 218 TFUE.

Si porrà il problema dei rapporti, in materia di diritti dell’uomo, fra le due Corti, la CGUE e la CEDU.

Gli attuali rapporti fra i due ordinamenti giuridici, dell’UE e della CESDU, in tema di protezione dei diritti umani e fon-damentali, sono improntati alla massima cooperazione e rico-noscimento reciproco.

Così, nel 2005, con riferimento al diritto dell’UE, la CEDU ha riconosciuto che l’UE accorda ai diritti fondamentali (una tale nozione ricomprendendo ad un tempo le garan-

zie sostanziali offerte e meccanismi deputati a controllarne il rispetto) una protezione quanto meno equiva-lente a quella assicurata dalla CESDU (CEDU 30 giugno 2005, Bosphorus, in proc. 45036/98, punti 155 e 165).

La tutela dei diritti fondamentali in seno all’UE si è ulteriormente raf-forzata a seguito della proclamazione nel dicembre 2000 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (cd Carta di Nizza).

Finora peraltro il coordinamento fra le due diverse giurisdizioni ha potuto basarsi su diversi strumenti quali, soprattutto, il dialogo fra le Corti.

Significativa è la Dichiarazione n. 2 allegata al Trattato di Lisbona:

“La conferenza conviene che l’adesione dell’Unione alla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali debba realizzarsi con moda-lità atte a preservare le specificità dell’ordinamento giuri-dico dell’Unione. A tale riguardo, la conferenza prende atto dell’esistenza di un dialogo regolare fra la Corte di giustizia dell’Unione europea e la Corte europea dei diritti dell’uomo; tale dialogo potrà essere rafforzato non appena l’Unione Europea avrà aderito a tale convenzione.”

Ma sarà sufficiente il mero dialogo fra le Corti?

La conferenza conviene che l’adesione dell’Unione alla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali debba realizzarsi con modalità atte a preservare le specificità dell’ordinamento giuridico dell’Unione.

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Si tratta di uno strumento ben noto, che però trova il suo ambiente ideale quando le corti dialoganti appartengono ad ordinamenti giuridici diversi.

Ma il solo dialogo non può servire al riparto della giurisdi-zione e ad evitare il contrasto di giudicati.

Tutti gli Stati membri dell’UE sono anche membri del Consiglio d’Europa; ma non altrettanto è vero il contrario: ricordiamo infatti che gli Stai membri del Consiglio d’Europa sono 47, mentre gli Sati membri dell’UE sono venti di meno.

D’altro canto, si è già visto che il perimetro dei diritti fondamentali menzionati e tutelati nella CESDU è diverso da quello della Carta di Nizza.

Le sentenze emesse da CEDU e da CGUE potrebbero pertanto essere contraddittorie, con grave nocumento per la certezza del diritto in un tema talmente delicato quanto i diritti umani.

Una soluzione dovrà esser trovata.

Ma la soluzione, almeno in apparenza, non è facile.

Oltre alle difficoltà derivanti dalle differenze di ambito oggettivo (contenuto diverso fra CEDU e Carta di Nizza) e soggettivo (gli Stati membri della CESDU sono 47, mentre gli Stati membri della UE sono 27), sussistono indubitabili diffi-coltà di ordine per così dire “diplomatico” o “di etichetta”, nei rapporti fra le due Corti, che già, nella sostanza, sono state alla base della declaratoria di inammissibilità del quesito posto dal Consiglio alla CGCE nel 1996.

Anche se deve riconoscersi che i rapporti fra le due Corti si pongono oggi in un clima molto diverso e, indubbiamente, migliorato rispetto al 1996.

Ed il dialogo fra le due Corti, espressamente evocato nella sopra ricordata seconda Dichiarazione al Trattato di Lisbona, è un dialogo effettivo, proficuo e costruttivo, animato da entrambe le parti dal sincero intendimento di garantire la tutela dei diritti fondamentali.

LE POSSIBILI SOLUZIONI.

Una prima soluzione, solo apparentemente di semplice attuazione, potrebbe sembrare la ripartizione per mate-ria: vale a dire affidare l’intera materia dei diritti umani alla CEDU.

In questo caso, ogniqualvolta la CGUE dovesse imbat-tersi in questioni coinvolgenti diritti umani dovrebbe essere investita la CEDU.

Non vi sono ostacoli di principio: una volta che l’UE abbia deciso, come ha deciso, di aderire alla CESDU, è evidente che ha accettato l’idea di sottoporsi alla giurisdizione della CEDU.

Una prima difficoltà, di ordine pratico, è legata all’attuale situazione di enorme sovraccarico di lavoro che sta gravando sulla CEDU.

Un ulteriore incremento dei ricorsi che deriverebbe dalla sottrazione “tout court” della materia alla CGUE porterebbe facilmente a far collassare la CEDU.

Una riforma ritenuta da tempo urgente; e questa sarà probabilmente l’occasione di attuarla.

Ma l’ostacolo principale sul punto pare essere il conte-nuto della Carta di Nizza, sotto molti aspetti più ampio della CESDU.

Il riconoscimento dei diritti fondamentali è soggetto a continua evoluzione nel comune sentire e nella sensibilità politica degli Stati membri del Consigli d’Europa (che ricom-prendono anche tutti gli Stati membri dell’UE), come dimo-stra il numero di protocolli addizionali (finora, quattordici) alla CESDU.

La Carta di Nizza, del 2000, ha un contenuto diverso e, sotto alcuni aspetti, più ampio della CESDU, che risale nella sua originaria formulazione al 1950, anche se è stata poi via via integrata dai protocolli addizionali; ciò si traduce in un rafforzamento dela tutela dei diritti fondamentali.

Un esempio concreto.

La già sopra ricordata sentenza CGCE “D e Svezia c. Consi-glio” del 31 maggio 2001 aveva di fatto negato che le relazioni omosessuali stabili rientrassero nel diritto al rispetto della vita familiare tutelato dall’art. 8 CEDU, in ciò confermando la posizione del Consiglio.

L’avvocato generale nelle sue conclusioni aveva fatto rife-rimento alla Carta di Nizza di recentissima sottoscrizione, ma la stessa, non dimentichiamolo, all’epoca era stata solo solennemente proclamata, ma era ancora priva di valore giu-ridico.

La CGCE in quel caso ritenne di rimanere ancorata al concetto espresso dalla CEDU, all’art. 12 della stessa che, sotto la rubrica “Droit au mariage”, prescrive che “a partir de l’age nubile, l’homme et la femme ont le droit de se marrier et de fonder una famille selon les lois nationales régissant l’exercise de ce droit.”

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Ma, in base all’art. 9 della Carta di Nizza, il diritto di spo-sarsi e il diritto di costituire una famiglia prescindono del tutto dalla differenza di sesso fra i partners.

Con la conseguenza che il concetto di famiglia secondo la Carta di Nizza ricomprende oggi, e non esclude, le coppie omosessuali, con rafforzamento della tutela del loro diritto fondamentale alla costituzione di una famiglia.

Ove una questione attinente un’analoga rivendicazione da parte di una coppia non eterosessuale venisse affrontata oggi in sede di CGUE, che applicherebbe naturalmente la Carta di Nizza (più liberale sul punto), siffatta questione sarebbe risolta in senso sicuramente più liberale, e con rafforzamento della tutela, rispetto all’applicazione della CESDU, la quale è tenuta ad applicare la CESDU.

La soluzione del problema del riparto di competenza fra le due Corti nel senso di riconoscere alla CEDU la compe-tenza esclusiva ratione materiae in tema di tutela dei diritti fondamentali non sarebbe pertanto soddisfacente in base al criterio di riconoscere la tutela più rafforzata possibile agli stessi.

Un correttivo potrebbe derivare dalla sottoscrizione di un ulteriore protocollo addizionale (sarebbe attualmente il n. 15), col quale la CESDU recepisca integralmente la Carta di Nizza, equiparando in tal modo almeno sotto il profilo sostanziale i due testi legislativi.

Una tale soluzione incontrerebbe però la difficoltà poli-tica di far accettare da tutti i 47 Stati membri del Consiglio d’Europa il nuovo protocollo addizionale.

Un’altra soluzione potrebbe essere quella di riconoscere una sorta di diritto di impugnazione avanti la CEDU delle decisioni della CGUE in tema di diritti fondamentali.

Ma questa soluzione collocherebbe le due Corti in una posizione di rapporto gerarchico che da un lato sarebbe ben difficilmente accettabile, dall’altro non rispecchierebbe la realtà dei rapporti fra le stesse derivante dal continuo dia-logo richiamato anche dalla seconda Dichiarazione al Trat-tato di Lisbona, che si basa su base paritaria o di pari dignità.

Ulteriore teorica ipotesi di coordinamento sarebbe quella di riconoscere, in caso di contrasto giurisprudenziale, prevalenza alle decisioni della CEDU: ma anche questa solu-zione, peraltro espressamente prevista dall’art. 53 della Carta di Nizza, sul livello di protezione garantito dalla medesima, cozzerebbe col fatto che, allo stato, come si è visto, il livello di protezione, almeno in alcuni campi, riconosciuto dalla Carta

di Nizza ai diritti fondamentali è superiore a quello ricono-sciuto dalla CESDU.

Altra possibilità sarebbe, sempre in ipotesi di giurispru-denza contrastante fra le due Corti, quella di affidare la deci-sione ad una sorta di Sezioni Unite, composte in via paritaria da giudici della CEDU e della CGUE: la decisone sarebbe deferita a tali Sezioni Unite dalla CEDU o dalla CGUE una volta accertati i precedenti contrastanti sul punto.

Infine, una soluzione sarebbe anche quella di mantenere l’attuale sistema di protezione multilivello, che consente ad entrambe le Corti di conoscere questioni concernenti la tutela dei diritti fondamentali, ma riconoscendo alla CGCE la prerogativa di interpretare l’atto o la norma comunitaria che si assume in violazione di diritti fondamentali.

Sicuramente vi sono ulteriori possibili soluzioni del pro-blema di coordinamento fra la giurisprudenza delle due Corti che si porrà quando sarà concretamente attuata l’adesione dell’UE alla CESDU.

E’ probabile che la questione, molto delicata anche se esiste la tendenza a smorzarne la portata proprio per il dia-logo e gli ottimi rapporti fra le due Corti, verrà affrontata in sede di negoziazione ex art 218 TFUE.

Verrà con ogni probabilità richiesto alla CGCE di espri-mere il parere facoltativo previsto dall’ultimo paragrafo del richiamato art. 218 TFUE; parere che è facoltativo ma che, quando viene richiesto, dato il ruolo ed il prestigio della CGUE deve ritenersi vincolante pur nel silenzio della norma sul punto.

Una cosa è certa: lo sforzo dimostrato dalle Corti e dalle Istituzioni comunitarie per un continuo rafforzamento della tutela dei diritti fondamentali è chiaro segnale e sicura garan-zia di una precisa volontà, anche politica, di proseguire sulla strada intrapresa.

Con la finalità di giungere, nonostante le indubbie diffi-coltà (di carattere concettuale, giuridico o anche banalmente pratico) sopra solo schematicamente tratteggiate, all’indi-spensabile coordinamento dell’essenziale attività giurisdizio-nale delle due Corti in una materia tanto delicata e vitale per il progresso dell’umanità.

Aldo Bulgarelli

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Le spese straordinarieper il mantenimento dei figli

In tema di mantenimento dei figli una delle questioni che su-scita frequentemente il contenzioso tra i genitori è quella relativa alle c.d. “spese straordinarie” e cioè a quelle spese che il genitore non collocatario, o non affidatario, è tenuto a corrispondere all’altro al momento in cui la spesa è effettiva-mente sostenuta . La Legge n.54 del 2006 nulla prevede circa le c.d. spese straor-dinarie relative ai figli. Nella prassi tali spese sono indicate negli accordi tra i ge-nitori e nei provvedimenti giudiziari quali oneri integrativi dell’assegno periodico e posti a carico di entrambi i genitori in misura paritaria o diversa .Infatti il Giudice, nell’ambito dei provvedimenti riguardanti la prole, oltre a determinare l’assegno periodico, è solito pre-vedere, quale ulteriore modo di contribuzione al loro man-tenimento, l’obbligo del genitore non collocatario, o non af-fidatario, di contribuire, pro quota (in genere nella misura del 50% ) a spese relative ai figli, definite “ spese straordinarie”. Le formule più generiche di provvedimento, dopo l’indicazio-ne dell’assegno mensile in una cifra fissa, si limitano ad aggiun-gere: “oltre spese straordinarie nella misura del 50 %”, lasciando vago il contenuto di tali spese e così creando numerosi pro-blemi interpretativi.

NOZIONE DI SPESA STRAORDINARIA

Si deve anzitutto considerare che l’onere di pagamento del-le spese straordinarie costituisce un “modo” di contribuire al mantenimento dei figli che trova fondamento nel disposto dell’art. 155, 2°comma CC., in base al quale il giudice fissa “la misura e il modo” con cui ciascuno dei genitori deve contri-buire al mantenimento dei figli. Inoltre, nel determinare l’assegno periodico, il Giudice, ai sensi dell’art.155, 4° comma, n.1 C.C., deve valutare in via preminente le “attuali esigenze” dei figli, rapportate al tenore di vita goduto in costanza di convivenza e alle disponibilità economiche del genitore onerato del mantenimento (in tal senso vedano le sentenze della Corte di Cassazione n. 23630 del 6.11.2009 e n. 4588 del 25.2. 2009).Si può perciò definire “straordinaria” quella voce di spesa che esula dal mantenimento ordinario dei figli, cioè da quell’in-sieme di “esigenze ” già considerate dal giudice al fine di far godere ai figli lo stesso tenore di vita avuto in costanza di convivenza con genitori.Per stabilire se una determinata spesa in favore dei figli possa essere considerata straordinaria, si dovrà quindi verificare se tale voce di spesa riguarda un’esigenza di vita dei figli non

coperta dall’assegno mensile di mantenimento posto a carico di uno dei genitori .In questo senso si è espressa la costante giurisprudenza, af-fermando che devono considerarsi “spese straordinarie” quel-le che non possono considerarsi esigue in relazione al tenore di vita della famiglia e che sono connotate dal requisito della “imprevedibilità” che non ne consente 1’inserimento nell’as-segno mensile nel momento in cui il Giudice lo determina. (in tal senso si vedano le seguenti sentenze: Tribunale Catania 4 dicembre 2008, Tribunale Firenze 29 giugno 2005, Tribunale Messina 14 giugno 2005, Corte Cassazione 19 luglio 1999 n. 7672.).Sorge allora il problema pratico di individuare il discrimine tra “spese coperte dall’assegno di mantenimento” e “spese rimborsabili a seguito di uno specifico esborso.”Come è stato evidenziato in uno studio condotto dal C.S.M. sulle prassi giudiziarie in tema di separazione e divorzio, una buona parte dei giudici di merito ha tentato di ovviare a que-sto problema mediante elenchi più o meno dettagliati di spe-se straordinarie.In alcuni Tribunali (ad es. Napoli) si prevede una lista molto dettagliata; in altri sono stati redatti dei “protocolli d’intesa” tra magistrati e avvocati che, in merito alle “spese straordina-rie” prevedono la predeterminazione di un elenco di spese rimborsabili separatamente dall’assegno di mantenimento, che viene allegato al provvedimento e ne diventa parte inte-grante (è il caso ad es. del Tribunale di Pordenone). Nell’ambito dello studio del C.S.M., al fine di trovare ipotesi migliorative in merito alle c.d. “spese straordinarie”, sono sta-te formulate diverse proposte.Anzitutto si è suggerito di non utilizzare più il termine spe-se straordinarie, che da luogo ad equivoci, sostituendolo con quello di “spese separatamente rimborsabili”, o “spese inte-grative del mantenimento”, con riferimento a quelle voci di spesa che è opportuno che non vengano incluse nell’assegno di mantenimento.Si è pure proposto di utilizzare per l’individuazione delle predette spese il criterio cardine della “ragionevole preve-dibilità”, attribuendo il carattere di “spesa separatamente rimborsabile” a quella che serve a soddisfare esigenze non ricorrenti e non prevedibili con certezza e che comporta un impegno economico di “qualche rilievo” in relazione alle disponibilità dei genitori. Si è altresì evidenziata l’esigenza che gli avvocati siano molto chiari nell’indicare qual è il vissuto della famiglia e quali sono le esigenze “attuali ” dei figli, in modo che il Giudice possa valutarne l’incidenza nell’assegno di mantenimento e limitare così l’ambito delle “spese separatamente rimborsabili”.

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Si è inoltre sottolineato che è fondamentale che il Giudice espliciti nella motivazione quali “esigenze” ha considerato nel determinare l’assegno di mantenimento, rendendo così evidente quali spese non sono considerate “separatamente rimborsabili”.Si è infine evidenziata la necessità di sollecitare le parti ad esprimersi sulle c.d. “spese straordinarie”, specificando le sin-gole voci, indipendentemente dalla natura ordinaria o stra-ordinaria, in modo da pervenire ad una regolamentazione il più possibile certa sulla tipologia di tali oneri, sulla misura del concorso, sulla necessità o meno del preventivo accordo e dei giustificativi di spesa.

I PROTOCOLLI

In diversi Protocolli, volti a individuare regole condivise nella gestione delle prassi processuali, è trattato anche l’argomento delle c.d. spese straordinarie. Si citano ad esempio :

• il protocollo relativo ai pro-cedimenti ex artt.155-317 bis CC approvato nel marzo 2008 dall’Os-servatorio per la Giustizia Civile di Milano –sezione famiglia (pubbli-cato nel sito dell’ordine degli avvo-cati di Milano) e

• il protocollo del Processo Civile- sezione Famiglia – redatto nel 2009 presso il Tribunale di Vi-cenza (pubblicato nel sito dell’or-dine degli avvocati di Vicenza).

In quest’ultimo protocollo, al paragrafo “Definizione delle c.d. spese straordinarie”, si afferma:“ È auspicabile che i difensori delle parti non si limitino ad uti-lizzare il termine “spese straordinarie” e provvedano invece ad indicare in modo dettagliato quali siano le ulteriori spe-se rispetto al contributo fisso mensile che i coniugi dovranno corrispondere pro quota in proporzione ai rispettivi redditi. E’ auspicabile che siano indicate le modalità di pagamento fra i coniugi e specificato che, nel caso di spese mediche urgenti, esse non necessitano di essere preventivamente concordate. Si suggerisce l’applicazione del criterio di definizione di spese straordinarie elaborato dall’Osservatorio Nazionale sul Diritto di Famiglia di cui all’allegato elenco” (anche tale elenco è pubblicato nel sito dell’ordine degli avvocati di Vicenza).

DOCUMENTAZIONE DELLE SPESE

Le spese di cui uno dei genitori chiede il rimborso all’altro devono essere documentate, anche per consentire di benefi-ciare delle detrazioni fiscali nei termini di legge.

La documentazione dovrà essere effettuata mediante fatture, scontrini e ricevute riconducibili alle spese sostenute per i figli e dovrà essere consegnata all’altro genitore in tempo utile per la detrazione fiscale.Sono detraibili in fase di dichiarazione dei redditi (nella per-centuale del 19%) le spese mediche, quelle di istruzione per tasse e contributi della scuola secondaria e università, quelle per attività sportiva e per la frequentazione di asili nido.La detrazione spetta al genitore al quale è intestato il docu-mento che certifica la spesa sostenuta per il figlio. Se il docu-mento è intestato al figlio può essere utilizzato da entrambi genitori per il 50% ciascuno

SINGOLE VOCI DI SPESA

Le singole voci di spesa “integrative del mantenimento” che di norma vengono previste sono:

Mediche• non coperte dal SSN (spese dentistiche, visite specialistiche, terapie, medicinali, interventi, analisi, ecc)

Scolastiche • (iscrizioni, tasse, rette, libri, gite scolastiche, ripetizioni, tra-sporti ecc.)

Attività sportive e ricreative• ( iscrizioni e spese frequenza corsi, acquisto attrezzatura, vacanze, viaggi, ecc)

Attività extrascolastiche• (dopo-scuola, corsi in discipline extra-sco-lastiche, grest, apprendimento lingue anche all’estero, ecc.)L’indicazione che precede è ovvia-mente solo esemplificativa e varia a seconda dei casi, specie in relazione all’età dei figli. Inoltre, mentre le spese

mediche e quelle scolastiche sono in genere soggette all’ob-bligo di automatica contribuzione, per le altre spese (sporti-ve, ricreative, ecc) spesso il concorso è subordinato al previo accordo dei genitori.Si segnalano alcune pronunce che contengono una dettaglia-ta elencazione di spese considerate “straordinarie”: ordinanza Tribunale Minorenni Brescia 22 settembre 2009; ordinanza Tribu-nale La Spezia 14 marzo 2007; sentenza Tribunale Bologna 9 maggio 2006; sentenza Tribunale Modena 1 dicembre 2005.

FORFETIZZAZIONE DEL CONTRIBUTO

Si è posto il problema della quantificazione in maniera fissa e a forfait del contributo per spese straordinarie. E’ pacifico che il dovere di cui agli artt.147-148 C.C.comprende necessariamente l’obbligo di entrambi i genitori di contribui-re a tutte le esigenze imprevedibili che possono sopravvenire nella vita dei figli (per loro natura non quantificabili a priori).

Si è evidenziata l’esigenza che gli avvocati siano molto chia-ri nell’indicare qual è il vissuto della famiglia e quali sono le esigenze “attuali ” dei figli, in modo che il Giudice possa va-lutarne l’incidenza nell’assegno di mantenimento e limitare così l’ambito delle “spese separata-mente rimborsabili”.

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La giurisprudenza di legittimità ammette la possibilità di for-fetizzare le spese straordinarie nell’assegno mensile di man-tenimento (anziché prevedere l’anticipazione o il rimborso pro quota dei relativi esborsi) e ciò al fine di eliminare i si-stematici contrasti tra i coniugi sul rimborso di dette spe-se. (v. sentenze Corte Cassazione 22 maggio 2009, n.11905 e 22.8.2006, n.18240).Di contrario avviso è invece la giurisprudenza di meri-to, che ritiene inammissibile la forfetizzazione ( v. sentenze Corte Appello Napoli 6 giugno 2008 n.2201 e Tribunale Firenze 12.10.2007) . Anche nello studio del C.S.M. si dice che le spese impreve-dibili non devono essere incluse forfetariamente nell’assegno di mantenimento, rilevando che altrimenti si determina il ri-schio di fare arricchire ingiustamente il genitore collocatario (o affidatario) se l’evento straordinario non si verifica, ovvero di impoverirlo oltre la misura del contributo forfetario.In effetti se la forfetizzazione può apparire opportuna in caso di conflittualità elevata, occorre valutare che tale prassi pre-senta però un rilevante inconveniente, poiché non sono quantificabili in an-ticipo tutte le spese che si possono rendere necessarie nel corso della vita dei figli.

RIPARTIZIONE DELLE SPESE STRAORDINARIE

Quanto alla ripartizione delle spese straordinarie tra i genitori si deve ricordare che l’art. 155, 4° comma CC, in applicazione del principio di proporzionalità stabilito dall’art.148 CC , dispone che entrambi i genitori devono provvedere al mantenimento dei figli in misura pro-porzionale ai propri redditi.Pertanto anche la ripartizione delle c.d.spese straordinarie deve essere regolata secondo il principio generale della ri-partizione proporzionale stabilito dalle norme richiamate.Ciò ha confermato la Corte di Cassazione con sentenza 2 luglio 2007 n.14965, precisando che, quando sussiste sperequazio-ne fra i redditi dei genitori anche le spese straordinarie do-vrebbero essere ripartite in proporzione e ove il Giudice le abbia comunque ripartite al 50% deve specificare per quali ragioni non ha applicato il principio generale di proporzio-nalità.

NECESSITà O MENO DI PREVENTIVO ACCORDO TRA I GENITORI

Altra questione che si deve affrontare in tema di spese stra-ordinarie è quella della necessità o meno del previo accordo dei genitori.

Ovviamente il problema si pone solo se il provvedimento del giudice della famiglia nulla dispone in proposito, poiché se invece ha specificamente regolato la materia ( prevedendo il preventivo accordo), questa sarà la regola da applicare.Se il provvedimento nulla prevede, secondo l’orientamento maggioritario della giurisprudenza, devono essere previa-mente concordate dai genitori le spese straordinarie che implichino decisioni di maggiore interesse per i figli.Le decisioni di maggiore interesse sono quelle che più marca-tamente incidono sulla vita, sull’istruzione e sui valori guida nell’educazione dei figli (ad es. sottoposizione a interventi chirurgici, scelta indirizzo religioso o della scuola da frequen-tare). Come la giurisprudenza di legittimità già in passato ha evi-denziato (v. sentenza Corte Cassazione 5 maggio 1999 n. 4459), il concetto di spese straordinarie deve tenersi ben distinto dalla nozione di decisioni di maggior interesse per i figli. Tra le due categorie non vi è necessariamente coincidenza, poichè vi possono essere decisioni fondamentali prive di

spesa (ad es. quelle relative alle scelte religiose) e decisioni non fondamen-tali molto onerose (quali ad es. viaggi all’estero).Perciò la Corte di Cassazione anche in una recente sentenza – n. 2182 del 28 gennaio 2009 - ha affermato (con riferimento alla disciplina previgen-te) che non vi è a carico del coniu-ge esclusivo affidatario alcun obbligo di previa concertazione delle spese straordinarie, nei limiti in cui esse non implichino decisioni di maggiore inte-resse per i figli.. Tali principio è applicabile anche dopo

l’entrata in vigore della Legge sull’affidamento condiviso, poi-ché le decisioni di maggiore interesse per i figli continuano a dover essere assunte dai genitori di comune accordo.Perciò, se la spesa straordinaria presuppone l’adozione di una decisione di maggiore interesse per i figli, il genitore collo-catario - salvo comprovati motivi di urgenza – dovrà porre l’altro genitore in condizione di poter interloquire su tale questione.In questo caso il preventivo accordo sarà indispensabile per il sorgere del diritto al rimborso in capo al genitore che ha sostenuto la spesa. La Corte di Cassazione con sentenza 17 dicembre 2007 n. 26570, ha infatti negato alla madre il dirit-to di rimborso di spese mediche straordinarie, perché non aveva messo il padre in condizione di partecipare alla deci-sione - ritenuta di particolare importanza- sull’opportunità di sottoporre la figlia minore a un intervento odontoiatrico con finalità estetiche.Ovviamente il diritto di concordare le decisione di maggiore interesse per i figli non attribuisce al genitore non conviven-

...non vi è a carico del co-

niuge esclusivo affidatario alcun

obbligo di previa concertazione

delle spese straordinarie, nei

limiti in cui esse non implichino

decisioni di maggiore interesse

per i figli

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te un diritto indiscriminato di veto sulla proposta avanzata dall’altro genitore (ad esempio, a proposito della scelta della scuola). Lo stesso dovrà esprimere validi motivi di dissenso da tale scelta e, in caso di mancato accordo, potrà ricorrere al giudice per risolvere il contrasto insorto come stabilito dall’art.155, 3°comma C.CA seguito dell’entrata in vigore della legge sull’affidamento condiviso n.54/2006. potrebbe porsi il problema della rim-borsabilità delle spese straordinarie c.d. “semplici” , cioè di quelle spese che non implicano decisioni di maggiore interes-se per i figli, ove siano assunte unilateralmente dal genitore che convive con i figli.Infatti il regime dell’affidamento condiviso prevede, che an-che le decisioni su questioni di ordinaria amministrazione - da cui potrebbero derivare delle spese straordinarie per i figli - sono assunte di comune accordo tra i genitori, a meno che non sia previsto l’esercizio separato della potestà per le de-cisioni su questioni di ordinaria amministrazione ex art.155, 3°comma CC.In caso di spese straordinarie semplici unilateralmente effet-tuate da uno dei genitori, senza informare l’altro o in presen-za di esplicito dissenso di questi, occorre rimettere la que-stione al Giudice, che valuterà le ragioni del rifiuto (e. quindi, se si tratti di spesa eccessiva rispetto al tenore di vita o non conforme alle esigenze dei figli) o la sussistenza dei requisiti della necessità e dell’urgenza (in tal senso si è pronunciato il Tribunale di Catania con sentenza del 4 dicembre 2008).Il mancato accordo non esonera quindi in ogni caso il genito-re dissenziente dal rimborso.

CONTROVERSIE

Quanto all’iter processuale per il recupero delle somme do-vute a titolo di “spese straordinarie” da parte del genitore che le ha anticipate, occorre rilevare che il provvedimento giu-diziario che dispone l’obbligo di pagamento pro quota delle spese straordinarie relative ai figli non costituisce titolo ese-cutivo ai sensi dell’art.474 C.P.C., non potendo tale obbligo- che nulla specifica in merito al quantum - essere considerato un diritto certo, liquido ed esigibile (v. in tal senso sentenza Corte Cassazione n.14133 del 28 maggio 2008).Secondo il più recente orientamento giurisprudenziale, il ge-nitore che ha anticipato spese straordinarie per i figli, che l’altro obbligato non intende riconoscere, al fine di legitti-mare l’esecuzione forzata, dovrà, munirsi di un valido titolo esecutivo rivolgendosi al giudice ordinario (per lo più nelle forme del ricorso per ingiunzione) il quale dovrà accertare l’effettiva sopravvenienza degli specifici esborsi contemplati dal titolo e la relativa entità ( in tal senso si vedano le seguen-ti pronunce: Corte Cassazione 28 gennaio 2008 n.1758, Tribu-nale Piacenza 2.2.2010 n.82; Tribunale Roma 2 agosto 2009, n.17573, Tribunale Palermo, 9 marzo 2009 n. 1178; Tribunale Milano 23.1.2008, n.1001).

La pretesa azionata da uno dei genitori, in sede ordinaria o monitoria, per ottenere il rimborso delle somme già versate per spese straordinarie in favore dei figli riguarda solo l’adem-pimento di una obbligazione e non incide, in alcun modo, sul contenuto del provvedimento adottato dal giudice della fa-miglia. Pertanto la competenza in ordine alle controversie che hanno ad oggetto il pagamento delle spese straordinarie va determinata in ragione del valore della causa secondo i criteri ordinari (in tal senso la giurisprudenza è costante: v. sentenze Corte Cassazione 17 luglio 2009 n.16793, 17 dicembre 2007, n.26570, 22 agosto 2006, n.18240 e ordinanza Tribunale Parma, dott. Fabbrizzi, 13.maggio 2009). Marisa Scartazza

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1. Con riferimento ai diritti e al ruolo della donna nella società – e in verità ai diritti individuali in generale - nel nostro ordinamento si distinguono due fasi precise, separate da una netta linea di demarcazione, segnata dall’entrata in vigore della Costituzione Repubblicana, nel 1948.E’ realtà inconfutabile che per molto tempo, nel corso della storia, la vita della donna si sia svolta all’interno delle mura domestiche ed è altrettanto innegabile che, a lungo, il ruolo femminile sia stato imprescindibilmente associato alla qualità di moglie e madre. Tutto ciò in ragione di un supposto (e radicato) convincimento della naturale vocazione della donna alla maternità come scopo precipuo della vita. Nell’Italia pre-repubblicana la partecipazione attiva della donna alla vita pubblica non era una ipotesi presa in considerazione e il lavoro femminile extra domestico veniva osteggiato da normative apertamente discriminatorie, che hanno resistito fino a non molti anni fa. La condizione della donna era socialmente e giuridicamente subordinata a quella dell’uomo: basti pensare che fino al 1919 una donna, per poter lavorare al di fuori delle mura domestiche, aveva bisogno di essere autorizzata dal marito.1

Nella fase immediatamente successiva alla prima guerra mondiale si registrano alcuni interventi di apertura diretti a rimuovere almeno alcuni degli ostacoli al coinvolgimento attivo della donna nel lavoro e nella società ma – ciononostante - anche l’impianto del codice civile del 1942 è sostanzialmente dominato dal ruolo prevalente del capofamiglia in funzione dell’interesse pubblico.Anche il dibattito in seno all’Assemblea costituente risente ancora di una concezione della donna gerarchicamente subordinata al padre e allo sposo, contraddistinta per un unica funzione sociale: quella del ruolo interno alla famiglia e legato alla maternità.La donna viene sostanzialmente assimilata ai minori, in quanto soggetto debole e bisognoso di protezione, secondo una visione quantomeno paternalista e riduttiva dell’essere umano femminileLa svolta, almeno dal punto di vista ufficiale, si ha con l’entrata in vigore della Costituzione del 1948 che sancisce l’equiparazione formale dei due sessi (art. 3 Cost.) ma ciò non impedisce che nel corso degli anni le disposizioni costituzionali siano interpretate in senso discriminatorio, comportando una sostanziale penalizzazione del ruolo della donna nella società.La volontà del Costituente di riconoscere e ribadire l’importanza della componente femminile della popolazione nella dimensione pubblica e privata è dimostrata dall’elevato numero di riferimenti specifici presenti in Costituzione. Ben

1 Intervento tenuto in occasione del convegno «Verso la parità: a cinquanta anni dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 33, 1960», organizzato a Parma il 18 maggio 2010

sette dei centotrentanove articoli di cui si compone la Carta del 1948 prevedono un riferimento specifico ai diritti delle donne:

art. 3 comma 1 : «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».Art. 29 comma 2: «il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare.»Art. 31 comma 2: «(la Repubblica) protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo».Art. 37 comma 1: «la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale, adeguata protezione».Art. 48 comma 1: «sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età».Art. 51 comma 1: «tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità».

La Costituzione dedica dunque un ampio spazio alla questione femminile, ma non è detto che a tale rilievo quantitativo corrisponda una pari attenzione qualitativa. Il diritto di eguaglianza, infatti, per lungo tempo viene contemperato con il principio dell’unità familiare, sull’altare del quale si trova a essere sacrificato.

2. La prevalenza della posizione dell’uomo si manifesta nei tre principali ambiti che riguardano la vita familiare: rapporti tra coniugi; rapporti patrimoniali e rapporti con i figli. La donna segue la condizione civile del «capofamiglia», ne assume il cognome, è tenuta a seguirlo ovunque egli ritenga opportuno fissare la residenza ed è soggetta al dovere di coabitazione. Come corrispettivo per questi doveri di sottomissione alla volontà del marito, la donna ha il diritto a essere mantenuta e protetta. Le differenze tra coniugi investono trasversalmente le discipline giuridiche. Per citare solo alcuni esempi si pensi al patrimonio familiare, rispetto al quale il marito è gestore e responsabile; alla differenza in ordine al regime sanzionatorio riservato all’adulterio maschile e a quello femminile e all’annosa questione della patria potestà, affidata formalmente a entrambi i coniugi ma esercitata in via prioritaria dal padre, sostituibile

DONNE E COSTITUZIONE. LA LUNGA MARCIA DELLE PARI OPPORTUNITA’ 1

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dalla madre solo in caso di assenza o altro impedimento.Tutto cambia con la riforma del diritto di famiglia: la legge 19 maggio 1975, n. 151 determina un mutamento radicale nell’impianto codicistico, affermando il principio secondo cui - per effetto del matrimonio - i coniugi acquistano gli stessi diritti e assumono gli stessi doveri. Scompare anche ogni riferimento alla patria potestà.

3. Per quanto riguarda il riconoscimento dei diritti delle lavoratrici, si riscontra un atteggiamento altalenante e fortemente utilitaristico della società nei confronti del lavoro extra domestico delle donne.Già a metà del XIX secolo il mondo del lavoro era affollato da donne: contadine, lavoranti a domicilio, sartine, commesse, maestre e soprattutto operaie di fabbrica. Proprio il lavoro industriale delle donne – concorrenziale rispetto a quello maschile – si pone al centro dell’animato dibattito rivelandosi determinante ai fini dell’introduzione di una legge che quantomeno limitasse lo sfruttamento delle operaie.Nonostante durante le guerre le donne dimostrino piene capacità di sostituire in tutto e per tutto gli uomini anche in mansioni ritenute tipicamente maschili, una volta finiti i conflitti impiegate, operaie e contadine diventano puntualmente «indebite usurpatrici delle mansioni maschili» e vengono rispedite a casa, a riprendere il posto tra i fornelli.Le aspirazioni delle donne borghesi trovano una prima risposta nella legge n. 1176 del 1919 sulla capacità giuridica che, oltre ad abrogare l’istituto dell’autorizzazione maritale sancisce (art.7) l’ammissione delle donne «a pari titolo degli uomini a esercitare tutte le professioni e a coprire tutti i pubblici impieghi, esclusi quelli che implicano poteri pubblici giurisdizionali o l’esercizio di diritti o potestà politiche o che attengono alla difesa militare dello Stato»Il traguardo delle pari opportunità è ancora molto lontano dal momento che i limiti all’accesso a impieghi e professioni restano molti e fondati sul pregiudizio della inferiore capacità e dirittura morale delle donne.Solo nel 1960, con una sentenza storica, l’art. 7 della l. 1176 viene dichiarato incostituzionale per contrasto con gli articoli 3 e 51 della Costituzione2 .Nel 1963, all’intervento della Corte si aggiunge quello del legislatore che, con la l. n.66/1963, sancisce per legge l’accesso delle donne a tutti i pubblici ufficiNel 1977 ( con la l. n. 903/1977), viene abrogata una legge del 1934 che accomunava donne e fanciulli, venivano considerate «mezze forze di lavoro», meritevoli di protezione contro lo sfruttamento.

4. E’ vero che con la Costituzione (art. 37) viene affermata l’uguaglianza nel lavoro (che pure ancora oggi non sempre vediamo rispettata) ma l’evoluzione della società, il ruolo fondamentale oramai occupato dalle donne in tutti i settori lavorativi e la consapevolezza acquisita rispetto ai propri diritti, portano a non “accontentarsi” dell’uguaglianza formale.

2 v. Corte Cost sentenza n. 33, 18 maggio 1960)

Si chiede il riconoscimento e la tutela del doppio ruolo svolto dalle donne sulle cui spalle, ancora oggi, gravano non solo gli impegni lavorativi ma anche la maggior parte delle mansioni familiari.L’art. 37 si pone a fondamento delle azioni positive che dovrebbero essere promosse a favore delle lavoratrici che, senza sacrificare i principi di parità e non discriminazione diretta o indiretta, siano volte a creare condizioni tali da facilitare il difficile contemperamento tra funzioni familiari, lavorative e sociali che inevitabilmente caratterizzano la vita di una donna. Oggi, alla politica si chiede un’azione positiva che porti alla realizzazione dell’uguaglianza sostanziale tra i sessi. Un impegno serio da parte della classe governante, volto alla concretizzazione delle pari opportunità nel mondo del lavoro, della famiglia e della politica. Dalle istituzioni ci si aspetta la costituzione di un sistema di servizi che allevi la mole di lavoro delle donne italiane, sulle quali, oltre alle attività extradomestiche, gravano le incombenze casalinghe e la cura dei familiari, bambini e anziani.Io ho l’esempio eccezionale di mia madre, che è riuscita a conquistare una carriera brillante riuscendo a essere presente per noi figlie. Ma questo è stato possibile con grandi sacrifici e grazie alla presenza di una rete di solidarietà quasi interamente femminile, fatta di sorelle, cognate, amiche, nonni. In Italia il principale ammortizzatore sociale resta la famiglia e questo non è giusto: il decisore pubblico non può limitarsi a una funzione sussidiaria rispetto alle risorse individuali ma deve agire da protagonista nell’attivazione di percorsi che favoriscano la valorizzazione delle donne in tutti i settori della società.

Carla Bassu3

3 Ricercatore di Diritto pubblico nell’Università di Sassari

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I. La qualità dei prodotti agroalimentariLa Comunità europea e le sue Istituzioni, ivi compresa

la Corte di giustizia, per molti anni non si sono mai occupate della qualità dei prodotti alimentari.

Negli Stati membri fondatori della Comunità, invece, la qualità dei prodotti alimentari è stata sottoposta da tempo a discipline specifiche che in alcuni Stati, come la Francia e l’Italia, hanno svolto un ruolo molto importante, divenendo un modello al quale si è successivamente ispirata la stessa disciplina dell’Unione europea.

Le discipline nei vari Paesi membri erano però diverse e quindi creavano occasioni di conflitti e controversie.

Quando la Comunità ancora non esisteva, è ovvio, ad esempio, che il fabbricante italiano di un prodotto alimen-tare destinato ad essere venduto in un altro Paese europeo, doveva adattarsi alle regole di quest’ultimo Paese (di desti-nazione) sia per quanto riguarda la composizione e l’etichet-tatura del prodotto, sia per quanto riguarda il suo confezio-namento, perché ciascun Stato, in casa propria, era sovrano nella scelta delle disposizioni da applicare e, quindi, tutto dipendeva dall’interesse che ciascun Stato dimostrava per ogni specifico prodotto.1

In Italia, come in Francia, sono sempre esistite regole molto particolari in materia alimentare disciplinanti tutto quello che potrebbe essere importante, ivi compresa la «qua-lità del prodotto», o meglio, le sue caratteristiche qualitative.

In Italia abbiamo quasi 400 tipi di formaggio come in Francia e, se si segue l’opinione del generale De Gaulle, non è per niente facile governare un paese che abbia 400 tipi di for-maggio. E in effetti la Gran Bretagna, che ne ha pochi, sembra più facile da governare.

Forse c’è un segreto legame tra stabilità politica e pro-dotti alimentari. Ma la differenza effettiva sta nella diversa cultura gastronomica e nella diversa tradizione.

Si racconta che nel Quattrocento, un ambasciatore di Lorenzo de’ Medici inviato in Inghilterra per vedere come vivevano gli inglesi, ai quali i fiorentini e i lombardi allora prestavano denaro, abbia redatto un dettagliato rapporto, osservando tra l’altro: «questi inglesi io proprio non li capisco,

1 Relazione tenuta al Convegno di Parma della AIJA, il 6 maggio 2010

hanno 50 religioni e una salsa sola». Per noi in Italia è tutto il contrario: di religioni ne abbiamo avute sempre una (anche se adesso le cose stanno cambiando) ma di salse tantissime.

Da qui, forse, le diversissime legislazioni in materia ali-mentare. Per alcuni Paesi, se un prodotto alimentare svolge la funzione per la quale viene fabbricato, vale a dire: è efficiente dal punto di vista nutrizionale, è sano e non è nocivo, basta. Che cosa si può pretendere di più da un prodotto alimen-tare?

In Francia e in Italia, la situazione è un po’ diversa. Pen-siamo infatti a tutte le regole che in Francia e in Italia hanno sempre disciplinato la composizione, la presentazione e la denominazione dei prodotti alimentari.

Pertanto, quando la Comunità europea ha cominciato a funzionare, ci si accorse che sorgevano problemi difficili da superare proprio per questo differente approccio. Occorreva quindi trovare una soluzione, cercandola possibilmente nel processo di armonizzazione delle legislazioni nazionali appli-cabili.

Ed infatti, in presenza di regolamentazioni nazionali discordanti, con riferimento alla produzione, alla composi-zione e alla presentazione sul mercato dei prodotti agroali-mentari, la Comunità europea si è resa conto, agli inizi, della necessità di dover procedere ad una armonizzazione di tali regolamentazioni essenzialmente allo scopo di eliminare i punti di divergenza esistenti che finivano per creare osta-coli effettivi alla libera circolazione di tali prodotti nell’area comunitaria.

La Commissione europea di Bruxelles ha quindi cer-cato di imporre la soluzione che, a prima vista, appariva più semplice, vale a dire: adottare una direttiva ogni volta che si dovevano armonizzare leggi nazionali divergenti per ogni spe-cifico prodotto alimentare. Una volta armonizzate le leggi rela-tive ad un determinato prodotto, ogni pro ble ma concernente quel prodotto doveva ritenersi risolto.

Procedendo in questa direzione, la Commissione, ad esempio, aveva quindi cercato, nel 1968, di disciplinare in modo uniforme nella Comunità la produzione delle paste alimen-tari, proponendo addirittura la “ricetta” italiana della pasta prodotta soltanto con il grano duro. Se si accettava questo principio, il problema sarebbe stato agevolmente risolto. Ma non è stato così, perché in caso di armonizzazione delle legi-slazioni nazionali poteva essere utilizzato, nel passato, unica-mente l’art. 100 del Trattato di Roma e questo articolo pre-

La giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di qualità dei prodotti alimentari: dalla

causa Cassis de Dijon alla causa Parmesan passando per la causa Tocai1

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vedeva l’unanimità dei consensi degli Stati membri: obiettivo quasi impossibile da raggiungere. Bastava infatti l’opposizione di un singolo Stato membro per bloccare qualunque tipo di proposta. Risultato: non si è fatto niente, anzi pochissimo. Pochi prodotti, infatti, sono stati disciplinati mediante una direttiva verticale, mediante regole, cioè, che stabiliscono con precisione come si fabbrica un determinato prodotto, come deve essere presentato sul mercato etc. Solo alcuni prodotti, quindi, come i succhi di frutta, le marmellate, il latte conden-sato, etc. sono stati in definitiva assoggettati a direttive di armonizzazione verticale in tutta la Comunità europea. Per la stragrande maggioranza dei prodotti alimentari, invece, non è stato possibile raggiungere alcuna soluzione armonizzata per cui occorreva continuare ad osservare le regole applica-bili nel Paese di destinazione.

L’impossibilità di trovare una soluzione in via “norma-tiva” ha reso necessario l’intervento della Corte di giusti-zia di Lussemburgo che ha risolto, come è noto, il problema in via “giurisprudenziale”, mediante la celebre sentenza sul Cassis de Dijon pronunciata alla fine degli anni ‘70 (1979)2.

Questa sentenza ha permesso alla Corte di giustizia di affermare il principio del mutuo riconoscimento, di cui tanto si è parlato ed ancora si parla, secondo cui il prodotto legalmente fabbricato in base alle leggi in vigore nel Paese di origine, deve poter liberamente circolare in tutti gli altri Paesi dell’Unione europea.

L’impatto di questa sentenza e della successiva giu-risprudenza della Corte di giustizia, come sappiamo, è stato tale da rendere possibile la soppressione di una quantità notevole di regole e di misure nazionali sicuramente discri-minatorie, o protezionistiche, o irragionevoli, o comunque sproporzionate3.

La Corte di giustizia ha quindi costretto molti Stati membri ad eliminare regolamentazioni nazionali effettiva-mente limitative della libera circolazione delle merci. Ricor-diamo i casi della birra in Germania, della pasta di grano duro e dell’aceto in Italia e numerosi altri: tutti casi che hanno consentito di creare un’importante giurisprudenza.

Questa giurisprudenza che era applicabile ad ogni tipo di prodotto, alimentare e non alimentare, non poteva però produrre effetti utili con riferimento a qualunque prodotto

2 Sentenza della Corte del 20 febbraio 1979 in causa n. 120/78, Rewe-Zentral AG c. Bundesmonopolverwaltung für Branntwein, in Raccolta, 1979, p. 649. Cfr. i commenti di J.-C. Masclet, Les articles 30, 36 et 100 du traité CEE à la lumière de l’arrêt «Cassis de Dijon», in Revue trimestrielle de droit européen, 1980, p. 611 ss.; L. costato, Sull’interpretazione dell’art. 30 del Trattato CEE, in Rivista di diritto agrario, 1981, II, p. 26 ss.; L. GorMley, Cassis de Dijon and the Communication from the Commission, in European Law Review, 1981, p. 454 ss.; A. Mattera riciGliano, La sentenza Cassis de Dijon: un nuovo indirizzo programmatico per la realizzazione definitiva del mer-cato comune, in Diritto comunitario e degli scambi internazionali, 1981, p. 273 ss.3 Sull’evoluzione della giurisprudenza della Corte di giustizia v. F. capelli, I malintesi provocati dalla sentenza «Cassis de Dijon», vent’anni dopo, in Diritto comunitario e degli scambi internazionali, 1996, p. 673.

alimentare. Per alcuni prodotti, infatti, che presentavano caratteristiche qualitative particolari, questa giurisprudenza creava difficoltà.

Ciò si è manifestato in modo palese quando la Corte di giustizia si è trovata di fronte ad alcuni casi in cui l’ap-plicazione di tale giurisprudenza avrebbe comportato con-seguenze negative evidenti. Il caso dello yogurt, deciso con la sentenza Smanor alla fine degli anni ’804 ha reso evidenti queste conseguenze negative.

Se si esportava a quel tempo, ad esempio, dall’Olanda in Italia, un prodotto denominato «yogurt», che in Italia (e in Francia) viene normalmente fabbricato con una quan-tità rilevante di fermenti lattici vivi, mentre in Olanda può anche esserne privo (se sottoposto a trattamento termico), tale prodotto avrebbe potuto essere bloccato alle frontiere determinando un inevitabile contenzioso. Alle frontiere, infatti, avvenivano i controlli sui prodotti.

Con il 1993, però, i controlli alla frontiera, in seguito alla creazione del mercato unico europeo, sono venuti a cadere e ovviamente lo «yogurt» olandese poteva entrare in Italia ed essere portato in uno degli innumerevoli punti di vendita del nostro Paese. Il contenzioso, quindi, dopo il 1993, sarebbe sorto non più alla frontiera, ma nei grandi magazzini e nei negozi del Paese di destinazione dove i controlli dove-vano essere effettuati. Arbitri di questo contenzioso diven-tavano, innanzitutto, i funzionari statali e locali competenti a controllare nei punti vendita se un determinato prodotto proveniente dall’estero era conforme alle disposizioni nazio-nali e, successivamente, i giudici (amministrativi oppure ordi-nari) competenti ad emettere decisioni in materia5.

L’insoddisfacente situazione creata dalla giurispru-denza della Corte di giustizia è stata avvertita dalla dottrina specialistica che ha invitato la Commissione europea ad affrontare una buona volta, in via normativa, il problema della qualità dei prodotti alimentari6.

La Commissione europea ha quindi dovuto cam-biare indirizzo, ispirandosi ai principi della tutela della qua-lità. Nell’ottobre del 1991 ha così pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee n. C 270 una Comunicazione che affrontava, tra l’al tro, il problema dello yogurt. Secondo tale Comunicazione, gli Stati membri che ritene vano di dover riservare la denominazione «yogurt» soltanto a quei prodotti contenenti una rilevante quantità di fermenti lattici vivi, pote-vano continuare a farlo.

Le conseguenze di questa Comunicazione della Com-missione si sono fatte rapida mente sentire anche sulla base

4 Cfr. sentenza della Corte di giustizia del 4 luglio 1988 in causa n. 298/87, Smanor, in Raccolta, 1988, p. 4489.5 Cfr. sentenza Smanor, cit. in nota 3, spec. punto n. 24. 6 Cfr. W. Brouwer, Free movement of foodstuffs and quality requirements: has the Commission got it wrong?, CMLR, 1988, p. 237; D. waelBroeck, L’harmonisation des règles et normes techniques dans la CEE, in Cah. dr. eur., 1988, p. 243; F. capelli, Yaourt français et pâtes italiennes: deux arrêts et une proposition de solution, Revue du Marché Commun, 1988, p. 615.

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degli stimoli ripresi dalla precedente Comunicazione della stessa Commissione, dal titolo “L’Avvenire del mondo rurale”7.

Cambiando il quadro giuridico nel quale ci si doveva muovere, la Commissione ha ritenuto che effettivamente il problema della qualità meritava di essere affrontato con una disciplina specifica. Di qui l’adozione del noto Regolamento Cee n. 2081/92 sulle denominazioni di origine dei prodotti e sulle indicazioni geografiche protette che, come è noto, ha reso possibile un radicale mutamento di prospettive8.

Oggigiorno9, con l’approvazione di centinaia di DOP e IGP per i prodotti europei (tra i quali numerosi prodotti italiani), è stata avviata in sede europea una decisa politica di valorizzazione della qualità dei prodotti agroalimentari che viene garantita dal legame esistente tra i prodotti e il territo-rio dal quale essi provengono.

La prova del collegamento esistente tra i prodotti ali-mentari e le aree geografiche dalle quali essi provengono ha acquisito un’importanza sempre maggiore conquistando la fiducia dei consumatori.

Il fatto che, come dicono i sondaggi, i consumatori vadano alla ricerca di prodotti dei quali sia documentata l’origine, significa che il collegamento con un’area geografica determinata finisce per costituire un fattore rilevante per la scelta dei prodotti da acquistare.

In particolare, un formaggio e un prosciutto contras-segnati con DOP valorizzano l’area geografica da cui pro-vengono arricchendone il nome con un elemento di pregio fondato sulla qualità che rimane impresso nella memoria del consumatore, il quale resta ad esso legato non solo per ragioni meramente alimentari, ma anche per motivi connessi alle tradizioni culturali ampiamente intese. Un esempio cal-zante è quello rappresentato dal nome Parma e da quello della sua provincia.

I più recenti dati statistici confermano l’aumento della domanda di prodotti con denominazione di origine e con indicazione di provenienza geografica10.

II. La giurisprudenza della Corte di giustizia e del Tribunale di Primo grado

7 Cfr. Com(88)501 Final/3 dell’11 novembre 1988.8 Regolamento (Cee) n. 2081/92 del Consiglio del 14 luglio 1992, in Guce n. L 208 del 24 luglio 1992, p. 1.9 La materia, come è noto, è ora disciplinata dal Regolamento Ce n. 510/2006 che ha abrogato il precedente Regolamento Cee n. 2081/92 (in Gu-Ue n. L 93 del 31 marzo 2006 p. 12). Su tale regolamento v. F. capelli, Tutela delle denominazioni di origine e delle indicazioni geografiche dei prodotti agroalimentari nel nuovo regolamento comunitario n. 510/2006 e nel decreto italiano 19 novembre 2004 n. 297 relativo alle sanzioni applicabili in caso di violazione delle norme contenute nel regolamento predetto, in Diritto comunitario e degli scambi internazionali, 2006, p. 115 ss.10 Appare significativo che, ad esempio, in Italia tre grandi catene di distribuzione di prodotti alimentari abbiano lanciato campagne promo-zionali per offrire prodotti provenienti da specifiche regioni italiane: Carrefour, mediante l’iniziativa “Terre d’Italia”; COOP, mediante “Viag-gio tra i sapori d’Italia”; Lidl Italia, mediante “Giro tra le specialità italiane”.

Il ruolo svolto dalle denominazioni di origine e dalle indicazioni geografiche di provenienza nella valorizzazione dei prodotti agro-alimentari da esse designati, è stato fin dall’ini-zio pienamente compreso dalla Corte di giustizia, come risulta dalla sua giurisprudenza che ne ha ripetutamente sottoline-ato l’importanza11. Anche la giurispru denza del Tribunale di Primo grado, nelle poche decisioni da esso pronunciate in questa materia, hanno seguito lo stesso indirizzo.

Sentenze e ordinanze della Corte di giuStizia1.

Le sentenze della Corte di giustizia, pronunciate in questa materia, che fanno espresso riferimento al Regola-mento Cee n. 2081/92 (e, da ultimo, al Regolamento Ce n. 510/2006) sulle denominazioni di origine e sulle indicazioni geografiche dei prodotti agro-alimentari sono in tutto, salvo errore, diciassette12. A queste si aggiungono tre ordi nanze, ognuna delle quali si allinea all’indirizzo seguito nelle sen-tenze di riferimento13.

Bisogna riconoscere che tutte le sentenze affrontano argomenti giuridici di indubbia rilevanza risolvendo, alla fine, anche problemi economici importanti.

Nel passare rapidamente in rassegna le sentenze, seguiamo un ordine logico e non cronologico.

a. I criteri per stabilire se la denominazione di un prodotto alimentare sia divenuta generica.

Nella sentenza sul Salame di Felino14 (che, tra l’altro, è un salame squisito originario della provincia di Parma) e nella prima sentenza Feta15 pronunciata nel 1999, la Corte di giustizia ha

11 Da ultimo, la Corte di giustizia nella sentenza dell’8 settembre 2009 in causa n. C-478/07, Budvar, národní podnik c. Rudolf Ammersin GmbH, inedita in Raccolta, al punto 110, ha così dichiarato: «Le denomi-nazioni di origine rientrano nei diritti di proprietà industriale e commerciale. La normativa pertinente tutela i beneficiari contro l’uso illegittimo delle dette denomina-zioni da parte di terzi che intendano profittare della reputazione da esse acquisita. Tali denominazioni sono dirette a garantire che il prodotto cui sono attribuite pro-venga da una zona geografica determinata e possieda talune caratteristiche partico-lari. Esse possono godere di una grande reputazione presso i consumatori e costituire per i produttori che soddisfano le condizioni per usarle un mezzo essenziale per costituirsi una clientela. La reputazione delle denominazioni di origine dipende dall’immagine di cui queste godono presso i consumatori. A sua volta tale immagine dipende, essenzialmente, dalle caratteristiche particolari e, in generale, dalla qualità del prodotto. È quest’ultima, in definitiva, che costituisce il fondamento della repu-tazione del prodotto. Nella percezione del consumatore, il nesso tra la reputazione dei produttori e la qualità dei prodotti dipende, inoltre, dalla sua convinzione che i prodotti venduti con la denominazione di origine sono autentici». 12 I riferimenti alle sentenze sono riportati nell’allegato della pre-sente relazione.13 I riferimenti alle ordinanze sono riportati nell’allegato della presente relazione.14 Sentenza del 10 settembre 2009 in causa n. C-446/07, Alberto Severi c. Regione Emilia Romagna, inedita in Raccolta. 15 Sentenza del 16 marzo 1999 in cause riunite n. C-289/96, n. C-293/96 e n. C-299/96, Regno di Danimarca, Repubblica federale di Ger-mania, Repubblica francese c. Commissione delle Comunità europee, in Raccolta, 1999, I, p. 1541. Cfr. i commenti di L. costato, Brevi note a proposito di

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indicato i criteri per accertare se una determinata denominazione sia divenuta generica e, quindi, non più idonea ad essere registrata in sede comunitaria come denominazione protetta.

In particolare la Corte ha precisato che la genericità di una denominazione deve risultare da un’esplicita constatazione effettuata dalla stessa Commissione europea.

b. Invalidità del regolamento adottato dalla Commissione per rendere possibile la registrazione della denominazione di un prodotto alimentare come DOP o IGP

Ugualmente importanti sono i criteri indicati dalla Corte di giustizia nella seconda sentenza Feta16 e nella sen-tenza Bavaria17 per stabilire quando un regolamento della Com-missione europea, che abbia disposto la registrazione di una denominazione protetta, possa essere dichiarato invalido (o possa essere annullato).

La sentenza Bavaria appena menzionata, è pure impor-tante perché fissa i limiti di validità di un marchio commer-ciale che sia stato registrato prima della registrazione di una indicazione geografica protetta (IGP). È noto infatti che nella causa Bavaria si trattava, tra l’altro, di risolvere il con-flitto tra l’indicazione geografica protetta “Bayerisches Bier” che designa una birra prodotta in Baviera (Germania) e il marchio“Bavaria”, come marchio commerciale della nota birra prodotta in Olanda.

Anche in questa come in altre sentenze, la Corte di giustizia affida al giudice nazionale, che ha disposto il rinvio, il compito di risolvere in concreto la fattispecie controversa.

c. Obbligo di eseguire le operazioni di “condizionamento” del prodotto alimentare all’interno dell’area protetta

Due interessanti sentenze del 2003 che riguardano i due più celebri prodotti gastronomici dell’area di Parma, vale

tre sentenze su circolazione dei prodotti, marchi e protezione dei consumatori, in Rivista di diritto agrario, 1999, II, p. 157 ss. e di A. Di lauro, Denomina-zione d’origine protetta e nozione di denominazione generica: il caso “Feta”, ivi, p. 161 ss.; M. Hofstötter, Feta: Das Ende einer geschützten Ursprungsbezeich-nung, in European Law Reporter, 1999, p. 173 ss.16 Sentenza del 25 ottobre 2005 in cause riunite n. C-465/02 e n. C-466/02, Repubblica federale di Germania, Regno di Danimarca c. Commis-sione delle Comunità europee, in Raccolta, 2005, I, p. 9115. Cfr. i commenti di C. Benatti, Il revirement della Corte di giustizia sul caso “Feta”, in Rivista di diritto agrario, 2006, II, p. 110 ss.; R. knaak, Gemeinschaftsweiter Schutz der Bezeichnung “Feta” für Erzeugnisse aus Griechenland, in Zeitschrift für das gesamte Lebensmittelrecht, 2006, p. 59 ss.; S. Ventura, La tormentata vicenda della denominazione «Feta», in Diritto comunitario e degli scambi internazionali, 2006, 497 ss.17 Sentenza del 2 luglio 2009 in causa n. C-343/07, Bavaria NV, Bavaria Italia Srl c. Bayerischer Brauerbund eV, inedita in Raccolta. Cfr. il commento di L. González Vaqué, Coexistencia entre una marca y una indicación geográfica protegida, in Revista de Derecho Alimentario, 2009, n. 49, p. 39 ss.

a dire il Prosciutto di Parma18 e il Parmigiano-Reggiano19 (nonché il Grana Padano) hanno avuto un impatto notevole sullo svi-luppo delle vendite di tali prodotti sui mercati europei.

Con tali sentenze, infatti, la Corte ha stabilito che tanto il disciplinare di produzione del Prosciutto di Parma, quanto quello del Parmigiano-Reggiano (e del Grana Padano), potessero prevedere che l’affettatura del prosciutto nonché la grattugia del formaggio dovessero obbligatoriamente avve-nire all’interno della zona di pro du zione dei prodotti rispet-tivi.

Grazie a tali sentenze, i produttori operanti nelle aree protette sono riusciti ad incrementare notevolmente la distribuzione dei rispettivi prodotti. In particolare sono riu-sciti ad incrementare le vendite delle loro specialità nei Paesi esteri nei quali non è mai stato agevole collocare prodotti aventi una dimensione ragguardevole come un intero pro-sciutto crudo di Parma (o di San Daniele) o una forma intera di Parmigiano-Reggiano o di Grana Padano.

Avendo infatti il diritto di effettuare in esclusiva la pre-parazione, nella zona di produzione protetta, di Prosciutto di Parma (o di Prosciutto di San Daniele) già affettato, come pure quella di Parmigiano-Reggiano (o di Grana Padano) già grattu-giato, i produttori rispettivi hanno visto aumentare in modo sensibile le loro vendite all’estero negli ultimi anni, grazie anche all’utilizzo di sistemi di confezionamento molto effi-caci.

d. Le vicende riguardanti la denominazione “Parmesan”

La denominazione di origine protetta Parmigiano-Reg-giano è stata oggetto, come è noto, di due cause decise dalla Corte di giustizia, rispettivamente nel 200220 e nel 200821.

In particolare, nella causa decisa il 26 febbraio 200822

18 Sentenza del 20 maggio 2003 in causa n. C-108/01, Consorzio del Prosciutto di Parma e Salumificio S. Rita SpA c. Asda Stores Ltd e Hygrade Foods Ltd., in Raccolta, 2003, I, p. 5121 ss.19 Sentenza del 20 maggio 2003 in causa n. C-469/00, Ravil SARL c. Bellon import SARL e Biraghi SpA, in Raccolta, 2003, I, p. 5053 ss. Questa sentenza riguardava espressamente il Grana Padano, ma nella realtà si riferiva ai formaggi di pasta dura con denominazione protetta tra i quali il Parmigiano Reggiano.20 Sentenza del 25 giugno 2002 in causa C-66/00, Procedimento penale a carico di Dante Bigi, con l’intervento del Consorzio del Formaggio Parmigiano Reggiano, in Raccolta, 2002, I, p 591 ss.21 Sentenza del 26 febbraio 2008 in causa n. C-132/05, Commissione delle Comunità europee c. Repubblica federale di Germania, in Raccolta, 2008, I, p. 957.22 Cfr. i commenti di M. Borraccetti, Parmesan e Parmigiano: la Corte di giustizia interviene ancora una volta, in La nuova giurisprudenza civile com-mentata, 2008, p. 1009 ss.; I. canfora, Il caso “Parmigiano Reggiano”: deno-minazioni di origine composte e strumenti di tutela tra competenze nazionali e diritto comunitario, in Rivista di diritto agrario, 2008, II, p. 16 ss.; F. capelli, La sentenza Parmesan della Corte di giustizia: una decisione sbagliata (Nota a Sentenza del 26 febbraio 2008 in causa n. C-132/05), in Diritto comunitario e degli scambi internazionali, 2008, p. 329 ss.; F. Gencarelli, Il caso “Par-mesan”: la responsabilità degli Stati nella tutela delle DOP e IGP tra interventi legislativi e giurisprudenziali, in Il diritto dell’Unione Europea, 2008, p. 825

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la Corte di giustizia ha dovuto decidere se la denominazione tedesca “Parmesan”, utilizzata per designare in Germania un formaggio di pasta dura, simile al Parmigiano-Reggiano, potesse essere considerata generica all’interno del territorio tedesco, con la conseguenza di poter continuare ad essere impiegata su tale territorio insieme alla denominazione protetta Parmi-giano-Reggiano.

La risposta della Corte di giustizia, a mio avviso, è stata molto timida, in quanto si è limitata ad affermare che lo Stato tedesco, parte convenuta nella procedura di infrazione introdotta dalla Commissione europea, non aveva provato che la denominazione Parmesan fosse divenuta generica, pre-cisando che la prova di tale genericità avrebbe dovuto in ogni caso essere acquisita da un giudice nazionale competente ad effettuare un’indagine completa degli aspetti fattuali, basan-dosi sulla precedente sentenza emessa nel caso “Époisses de Bourgogne” 23, nella quale la Corte aveva deciso che l’eventuale genericità di un termine, costituente parte di una denomi nazione composta da più termini (nel caso di specie, il termine Époisses nella denominazione completa Époisses de Bourgogne), doveva essere stabilita dal giudice nazionale competente dopo aver effettuato una compiuta analisi dei fatti.

Questo modo di procedere ha una sua logica e un suo fondamento con riferimento alle denominazioni compo-ste da più termini, delle quali un termine sia effettivamente generico, in quanto unicamente destinato ad individuare il genere del prodotto tutelato senza possedere, di per sé, capacità distintive specifiche legate all’origine tradizionale del nome24: ad esempio “Pecorino”, nella denominazione protetta

ss.; C. Hauer, Using the Designation “Parmesan” for Hard Cheese (Grated Cheese) of Non-Italian Origin. Judgment of the ECJ of 26 February 2008 in case C-132/05 (Commission of the European Communities vs. Federal Republic of Germany), in European Food and Feed Law Review, 2008, Vol. 3, nº 6, p. 387 ss.; C. HeatH, Parmigiano Reggiano by Another Name - The ECJ’s Par-mesan Decision, in International Review of Intellectual Property and Competition Law, 2008, p. 951 ss.; N. lucifero, Denominazione composte, denominazioni generiche e la tutela delle denominazioni di origine protette. Il caso “parmesan”, in Giurisprudenza italiana, 2009, p. 579 ss.; M. parDo leal, Protección de la denominación de origen del queso “Parmigiano Reggiano”, in Revista de Derecho Alimentario, 2008, n. 34, p. 29 ss.; S. Ventura, Il caso Parmesan visto dalla Corte di giustizia, in Diritto comunitario e degli scambi internazionali, 2008, p. 323 ss.23 Époisses de Bourgogne era la denominazione composta che è stata presa in esame nella sentenza del 9 giugno 1998 in cause riunite n. C-129/97 e n. C-130/97, Procedimenti penali a carico di Yvon Chiciak e Fromagerie Chiciak e Jean-Pierre Fol, in Raccolta, 1998, I, p. 3315 ss.24 Si consideri a questo proposito il termine “Grana” come compo-nente della denominazione composta “Grana Padano” (cfr. sentenza del Tribunale di primo grado del 12 settembre 2007 in causa n. T-291/03, Consorzio per la tutela del formaggio Grana Padano c. UAMI, cit. infra, nota 37) nonché l’espressione “Aceto Balsamico” come componente della denominazione completa “Aceto Balsamico di Modena” (cfr. Regola-mento (Ce) n. 583/2009 della Commissione del 3 luglio 2009 recante iscrizione di una denominazione nel registro delle denominazioni d’ori-gine protette e delle indicazioni geografiche protette [Aceto Balsamico di Modena (IGP)], in Gu-Ue n. L 175 del 4 luglio 2009, p. 7 ss.; su tale regolamento cfr. F. capelli, La registrazione dell’Indicazione Geografica Pro-tetta «Aceto Balsamico di Modena» e i tentativi deliberatamente messi in atto sia per ostacolarla sia per circoscriverne gli effetti e la portata, in Diritto comunitario e

“Pecorino Romano” (dato che esiste tradizionalmente anche la denominazione “Pecorino Toscano”) oppure “Provolone” nella denominazione protetta “Provolone Val Padana”.

Come si può comprendere, i termini “Pecorino” e “Pro-volone” designano, in tali denominazioni, il tipo di formaggio, mentre i qualificativi “Romano” e “Val Padana” ne indicano l’origine geografica rispettiva.

Nel caso della denominazione Parmigiano-Reggiano, al contrario, entrambi i termini si riferiscono all’area geografica da cui il prodotto proviene e, in particolare, proprio il ter-mine “Parmigiano” viene usato normalmente in Italia da solo, separatamente da Reggiano, proprio per designare il celebre prodotto, essendo il termine Parmigiano divenuto il nome del formaggio medesimo per antonomasia.

Di conseguenza, sembra evidente che il precedente della denominazione “Époisses de Bourgogne”, richiamato dalla Corte di giustizia, non avrebbe potuto applicarsi al caso della denominazione Parmigiano-Reggiano, perché se il primo dei due termini (Parmigiano) dovesse essere dichiarato generico, l’intera denominazione perderebbe la sua efficacia distintiva.

Questo è stato l’indirizzo seguito anche dal Tribunale di Berlino nella sua sentenza emessa nel 200825, subito dopo la citata sentenza della Corte di giustizia.

Il Tribunale di Berlino ha infatti vietato ai produttori tedeschi di immettere sul mercato tedesco un formaggio di pasta dura designandolo con la denominazione “Parmesan”.

La causa, nella quale il Consorzio del formaggio Par-migiano Reggiano è parte attrice, è ora pendente davanti alla Corte d’Appello. Si prevede che la sentenza della Corte d’Appello sarà pronunciata nei prossimi mesi.

e. La sentenza sul marchio “Cambozola”

Un’altra sentenza interessante è quella pronunciata dalla Corte di giustizia nel caso “Cambozola”26.

In questa causa si trattava di stabilire se l’uso del mar-chio “Cambozola” in Austria per designare un formaggio con caratteristiche simili a quelle del “Gorgonzola”, la cui deno-minazione era stata registrata come DOP, in base al Regola-mento Cee n. 2081/92, fosse illegittimo a causa dell’illiceità della registrazione del marchio.

degli scambi internazionali, 2009, p. 573 ss.).25 Sentenza del Tribunale regionale (Landgericht) di Berlino del 22 aprile 2008, Consorzio del Formaggio Parmigiano Reggiano c. Allgäuland-Käse-reien GmbH, in Diritto comunitario e degli scambi internazionali, 2008, p. 359 ss. con commento di S. Ventura; Il caso Parmesan visto da un tribunale tedesco, ivi, p. 367 ss.26 Sentenza del 4 marzo 1999 in causa n. C-87/97, Consorzio per la tutela del formaggio Gorgonzola c. Käserei Champignon Hofmeister GmbH & Co. KG e Eduard Bracharz GmbH, in Raccolta, 1999, I, p. 1301; cfr. i commenti di F. capelli, La Corte di giustizia tra «Feta» e «Cambozola», in Diritto comunitario e degli scambi internazionali, 1999, p. 273 ss.; L. costato, Brevi note a proposito di tre sentenze su circolazione dei prodotti, cit. supra, nota 12; A. Di lauro, Denominazione d’origine protetta, cit. supra, nota 12.

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Come sappiamo, la Corte di giustizia ha affidato al giudice nazionale (in questo caso al giudice austriaco) il com-pito di verificare in concreto l’esistenza delle condizioni per poter considerare nullo il marchio “Cambozola” a suo tempo registrato.

Il giudice austriaco ha ritenuto che, nel caso di specie, la registrazione in Austria del “Cambozola” non era avvenuta in mala fede e, quindi, doveva ritenersi legittima.

A questo proposito occorre ricordare la situazione verificatasi in Germania. In tale Paese, infatti, era intervenuta, prima dell’emissione della sentenza della Corte di giustizia nel caso “Cambozola”, una sentenza della Corte di Cassa-zione tedesca che, in base alla legge tedesca sui marchi, aveva sancito la legittimità dell’utilizzo del marchio “Cambozola” in Germania, con la conseguenza di rendere improcedibile, secondo il diritto tedesco, ogni azione ulteriore per impedire la commercializzazione in Germania del formaggio designato con il marchio “Cambozola”.

f. Il caso “Tocai”

La citazione della sentenza della Corte di cassazione tedesca emessa nel caso Cambozola, mi consente di far rife-rimento ad un altro caso ugualmente sottoposto al giudizio della Corte di giustizia: quello sul “Tocai”27.

Per essere precisi, la sentenza sul “Tocai” non riguarda espressamente l’ap pli ca zio ne del Regolamento Cee n. 2081/92 perché i vini non rientravano nel campo di applica-zione di tale regolamento all’epoca dei fatti di causa.

Come è noto, la disciplina sulle denominazioni di ori-gine e sulle indicazioni geografiche prevista dal Regolamento Cee n. 2081/92 (e successivamente dal Regolamento Ce n. 510/2006) è stata estesa anche ai vini soltanto recentemente, a seguito dell’adozione del Regolamento Ce n. 479/200828

27 Sentenza della Corte del 12 maggio 2005 in causa n. C-347/03, Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia e ERSA c. Ministero delle Politiche Agricole e Forestali, in Raccolta, 2005, I, p. 3785 ss. Cfr. i commenti di G. Maccioni, «Tokaji» contro «Tocai» di fronte alla Corte di giustizia, in Rivista di diritto agrario, 2006, II, p. 28 ss.; M. nicolai, Il vino tra tutele e logiche della commercializzazione, in Diritto e giurisprudenza agraria e dell’ambiente, 2006, fasc. 11, p. 633-646, pt. 1; F. spitaleri, Denominazioni d’origine e indicazioni omonime: la Corte di giustizia definisce la controversia del vino Tocai [Nota ad ordinanza C. giust. CE 18 giugno 2008, cause riunite C-23/07 e C-24/07; sentenza 12 maggio 2005, causa C-347/03], in Il diritto dell’Unione Europea, 2008, 4, p. 835 ss.; S. Monica, Duo sunt vini, unum nomen! La Corte di Giustizia sul caso Tocai, in Agricoltura istituzioni mercati, 2005, fasc. 1, p. 171 ss.; P. aMico, Addio al Tocai friulano?, in www.diritto.it/archi-vio/1/21028.pdf.28 Regolamento (Ce) n. 479/2008 del Consiglio, del 29 aprile 2008, relativo all’organizzazione comune del mercato vitivinicolo, che modi-fica i regolamenti (Ce) n. 1493/1999, (Ce) n. 1782/2003, (Ce) n. 1290/2005 e (Ce) n. 3/2008 e abroga i regolamenti (Cee) n. 2392/86 e (Ce) n. 1493/1999, in Gu-Ue n. L 148 del 6 giugno 2008, p. 1 ss. Cfr. D. MincHella, Il campo di applicazione materiale del regolamento comunitario per la protezione dei prodotti a denominazione d’origine, in Il Diritto dell’Unione europea, 2009, p. 825 ss.; F. Barque, Les droit communautaire des appellations d’origine et indications géographiques en matière vinicole, in Revue trimestrielle du

entrato in vigore nel 2009.

Orbene, anche nel caso “Tocai” era stata emessa nel 1962 dalla Corte di Cas sa zio ne italiana una sentenza29, poi passata in giudicato, che aveva ritenuto fra loro non con-fondibili le denominazioni “Tokaji” (di origine ungherese) e “Tocai friulano” (di ori gine italiana).

Ciononostante, su proposta della Commissione, la Comunità europea ha concluso un Accordo con l’Ungheria nel 199330 nel quale è stata prevista la soppressione della denominazione “Tocai friulano”.

Nella prima causa introdotta davanti alla Corte di giustizia su rinvio del Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio31, si è discusso della possibilità di considerare “omo-nime” le due denominazioni con la conseguenza che entrambe avrebbero potuto coesistere sul mercato europeo. Nella relativa sentenza32, la Corte di giustizia ha ritenuto che non potesse esservi omonimia fra una denominazione riferentesi ad un’area geografica, come nel caso del “Tokaji” ungherese, e una denominazione riferentesi ad un vitigno, come nel caso del “Tocai friulano”.

La posizione della Corte di giustizia è stata contestata in una seconda causa33, nella quale è stato sostenuto che, secondo la normativa comunitaria, il nome di un vitigno può essere utilizzato, in combinazione con il nome di un’area, di un luogo o di una regione, per designare un vino, divenendo parte integrante della denominazione geografica riferita a tale vino.

Ad esempio, il vitigno “Pinot grigio”, può essere utiliz-zato per designare sia il vino “Pinot grigio-Alto Adige”, sia il vino “Pinot grigio-Collio” (nel Friuli) sia, infine, il vino “Pinot grigio-Oltrepo Pavese”.

Analogamente il nome del vitigno “Tocai friulano” (il relativo vitigno poteva essere coltivato soltanto in Friuli), poteva essere utilizzato per designare sia il vino “Tocai friu-lano-Collio”, sia il “Tocai friulano-Isonzo” (entrambe aree geo-grafiche friulane) divenendo quindi parte integrante delle rispettive denominazioni geografiche.

Di conseguenza, la denominazione “Tocai Friulano-Collio” (oppure “Tocai friulano-Isonzo” od altre simili) avrebbe dovuto essere considerata una denominazione geografica per

droit européen, 2009, p. 743 ss.29 Sentenza della Corte di cassazione n. 1659 del 1962, in Foro it., 1962, I, c. 51.30 Decisione del Consiglio del 23 novembre 1993 concernente la conclusione di un accordo tra la Comunità europea e la Repubblica d’Un ghe ria sulla tutela e il controllo reciproci delle denominazioni dei vini, in Guce n. L 337 del 31 dicembre 1993.31 Cit. supra, nota 26.32 Cfr. punti nn. 90-102 della sentenza, cit. supra, nota 26.33 Cause riunite n. C-23/07 e n. C-24/07, Confcooperative Friuli Vene-zia Giulia, Luigi Soini e altri c. Ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali e Regione Friuli-Venezia Giulia. La causa è stata decisa con l’ordi-nanza della Corte di giustizia del 12 giugno 2008, in Raccolta, 2008, I, p. 4277 ss.

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cui si sarebbe dovuto riconoscere la sussistenza di un’omoni-mia tra, ad esempio, la denominazione “Tocai friulano-Collio” e la denominazione “Tokaji” riferita al vino ungherese.

La Corte di giustizia non ha accolto questo argo-mento come pure non ha accolto un altro argomento fon-dato sull’Accordo internazionale TRIP’s (sulla proprietà intellettuale)34, per dimostrare la possibilità di riconoscere l’esistenza di un caso di omonimia tra il nome di un vitigno e una denominazione geografica.

Infatti, secondo l’art. 24, par. 6, del citato Accordo TRIP’s, il nome di un vitigno può essere utilizzato anche per indicare il nome del vino che da esso deriva.

Pertanto, se il nome di un vitigno è considerato equi-parabile a quello di un vino, l’utilizzo del solo nome di un viti-gno può determinare un caso di omonimia con riferimento ad un nome simile, utilizzato per designare un altro vino.

In conclusione, il vitigno “Tocai friulano” da cui deriva il vino “Tocai friulano” avrebbe potuto essere considerato omonimo della denominazione “Tokaji” usata per designare il noto vino ungherese.

Come anticipato, la Corte di giustizia non ha ritenuto di accogliere neanche questo argomento.

Non essendo quindi più possibile utilizzare la deno-minazione “Tocai friulano” per designare il vino derivato dall’omonimo vitigno, nel commercio all’interno del mercato unico europeo, si è cercato di mantenere il diritto di utiliz-zare tale denominazione unicamente per il vino commercia-lizzato all’interno dei confini italiani.

Ciò sarebbe stato (e giuridicamente sarebbe ancora) possibile sulla base del già citato art. 24, par. 6, dell’Accordo TRIP’s, secondo cui uno Stato aderente all’Accordo, come l’Italia, ha il diritto di mantenere il nome di un vino tradizional-mente utilizzato sul proprio territorio (e “Tocai” è un nome usato da secoli in Friuli per designare un vino bianco) se tale vino deriva da un vitigno recante lo stesso nome (“Tocai friu-lano”), normalmente coltivato sul territorio medesimo.

Era esattamente il caso del “Tocai friulano”.

Di conseguenza la Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia ha adottato una Legge Regionale35 in base alla quale era consentito utilizzare il nome “Tocai friulano” unicamente per designare il vino commercializzato entro i confini ita-liani.

34 Accordo internazionale sulla proprietà intellettuale e sulle deno-minazioni di origine (TRIP’s), ratificato in Italia con la legge n. 747 del 29 dicembre 1994 (Ratifica ed esecuzione degli atti concernenti i risultati dei negoziati dell’Uruguay Round, adottati a Marrakech il 15 aprile 1994), in Guri n. 7 del 10 gennaio 1995, suppl. ord.35 Legge regionale della Regione Friuli-Venezia Giulia n. 24 del 2 ottobre 2007. Attuazione dell’art. 24, par. 6, dell’Accordo relativo agli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio (Accordo TRIPs), in Bollettino Ufficiale della Regione Autonoma Friuli Vene-zia Giulia n. 41 del 10 ottobre 2007, p. 15 e ss..

Il Governo italiano ha allora impugnato la legge regio-nale davanti alla Corte costituzionale italiana.

Nella causa davanti alla Corte costituzionale, la Regione Friuli-Venezia Giulia ha sostenuto che in base al proprio Statuto di Regione autonoma, essa aveva compe-tenza esclusiva in materia agricola, per cui aveva il potere di dare attuazione diretta all’art. 24, par. 6, dell’Accordo TRIP’s, correttamente recepito dallo Stato italiano con la Legge n. 747/1994 del 29 dicembre 1994.

La Corte costituzionale ha deciso, con la sentenza n. 368 del 5 novembre 200836, che le indicazioni geografiche non rientrano nella materia agricola, bensì nella materia della proprietà intellettuale, per cui la questione risultava di com-petenza dello Stato italiano come Stato centrale dichiarando, quindi, incostituzionale la legge regionale impugnata37.

Sentenze e ordinanze del tribunale di primo grado2.

Oltre alla Corte di giustizia, anche il Tribunale di Primo grado ha dovuto occuparsi di questioni riguardanti l’applica-zione del Regolamento Cee n. 2081/92 (divenuto in seguito, come già ricordato, il Regolamento Ce n. 510/2006).

Si è trattato però, per lo più, di questioni relative all’ir-ricevibilità di ricorsi che erano stati introdotti per contestare l’avvenuta registrazione di una denominazione protetta.

Trattandosi di questioni relative all’irricevibilità di ricorsi di annullamento, le stesse sono state risolte, nella quasi totalità, mediante la pronuncia di ordinanze. Tutti i rife-rimenti relativi alle ordinanze (e alle sentenze) sono riportati nell’Allegato della presente relazione.

L’unica sentenza interessante in questa materia pro-nunciata dal Tribunale di Primo grado è quella sul Grana

36 Corte costituzionale italiana n. 368 del 5 novembre 2008. Cfr. i commenti di N. rauseo, Illegittimità della denominazione Tocai Friulano, in Rivista di diritto alimentare, 2009, n. 1, gennaio-marzo; C. Di seri, La “priorità logico-giuridica” del vizio di incompetenza di leggi regionali in contrasto con il diritto comunitario, in Giur. it., 2009, fasc. 8-9; A.-O. cozzi, La legge “salva Tocai” davanti alla Corte costituzionale: “i vincoli derivanti dall’ordina-mento comunitario” non scattano, ma i parametri si integrano (nota a sentenza 14 novembre 2008, n. 368), in Le regioni, 2009, 1, p. 150 ss.; M. P. iaDicicco, Violazione del riparto costituzionale delle competenze e rispetto degli obblighi comunitari: questioni processuali e possibile contrasto tra parametri del giudizio di legittimità costituzionale in via principale, in Giur. cost., novembre-dicembre, 2008, p. 4397 ss.; A. Jannarelli, Il “Tocai friulano” al capoli-nea: spunti di riflessione su una tragicommedia “all’italiana” e sugli indirizzi della Corte costi-tuzionale circa il rapporto tra “tutela della concorrenza” e “ordinamento civile” nella strutturazione e promozione del mercato, in Rivista di diritto agrario, 2008, fasc. 4, parte. II, p. 194 ss. nonché F. Gencarelli, La tormentata vicenda della denominazione «Tocai»: ultimo atto, in Diritto e giurisprudenza agraria, alimentare e dell’ambiente, 2009, n. 11, p. 690 ss.37 Sulle vicende che hanno riguardato il Tocai friulano cfr. F. capelli, Tocai friulano: storia di una congiura, Cormòns, Edizioni Vino della Pace, 2010.

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Padano38 nella quale, come è noto, è stata riconosciuta la non genericità della parola “grana” anche considerata separata-mente dalla denominazione protetta “Grana Padano”.

III. Conclusioni

Le sentenze in precedenza esaminate sono le più significative emesse dalla Corte di giustizia con riferimento all’applicazione del Regolamento Cee n. 2081/92 (e del Rego-lamento Ce n. 510/2006).

Ma vorrei chiudere il mio intervento, al termine della breve rassegna effettuata, accennando a una sentenza che è stata pronunciata il giorno 8 settembre 2009 nella causa Budvar c. Ammersin39, (una delle numerose cause rientranti nel contenzioso relativo all’utilizzo della denominazione “Bud” per designare la famosa birra).

La particolarità di questa sentenza è che, per risolvere le questioni tecnico-giuridiche sollevate dal giudice austriaco, autore del rinvio, la Corte di giustizia è arrivata ad affermare che, in materia di riconoscimento della qualità dei prodotti alimentari e, in particolare, in materia di denominazioni di origine e di indicazioni geo gra fiche, sussiste una competenza legislativa esclusiva dell’Unione europea, essendo ve nuta meno la concorrente competenza degli Stati membri40.

A mio avviso, si tratta di una conclusione sbagliata, come ho cercato di dimostrare in un articolo che apparirà nel n. 2/2010 della Rivista “Diritto comunitario e degli scambi internazionali”.

Poiché la disciplina delle denominazioni di origine e delle indicazioni geografiche rientra nella materia della pro-prietà intellettuale e industriale, nella quale rientrano anche la disciplina dei marchi e quella dei brevetti, non si com-prende come all’Unione europea possa essere attribuita una competenza esclusiva in materia di indicazioni geografiche dato che in tale materia è riconosciuta una ripartizione delle

38 Sentenza del 12 settembre 2007 in causa n. T-291/03, Consorzio per la tutela del formaggio Grana Padano c. Ufficio per l’armonizzazione nel mercato interno (marchi, disegni e modelli) (UAMI), in Raccolta, 2007, II, p. 3081 ss. Cfr. i commenti di L. González Vaqué, Protección de la deno-minación de origen “grana padano”. Sentencia del TPI de 12 de septiembre de 2007, “Grana Biraghi”, asunto T-291/03, in Revista de Derecho Alimentario, 2007, n. 27, p. 31 ss.; P. MaGno, Genericità assoluta, genericità relativa e tutela della DOP, in Rivista di diritto agrario, 2007, p. 180 ss.; A. laanio-flury, Fehlender Gattungscharakter eines GUB-Bestandteiles steht der Markeneintrag entgegen, in European Law Reporter, 2008, p. 13 ss.; S. Ventura, Quando una DOP composta protegge anche i singoli elementi che la compongono: il caso del nome “Grana”, in Diritto comunitario e degli scambi internazionali, 2008, p. 81 ss. 39 Sentenza dell’8 settembre 2009 in causa n. C-478/07, Budejovický Budvar, národní podnik c. Rudolf Ammersin GmbH, cit. supra, nota 10. Cfr. V. ruBino, Indicazioni geografiche indirette e denominazioni di origine dei prodotti alimentari nella sentenza “Bud II”, testo dattiloscritto in corso di pubblica-zione in Diritto comunitario e degli scambi internazionali, fasc. n. 2/2010.40 Cfr. punti 107 ss. della sentenza Budvar, spec. punto 114.

competenze legislative tra la stessa Unione europea e gli Stati membri.

Tale ripartizione è ammessa dalla stessa Corte di giu-stizia non solo in materia di brevetti e di marchi, ma anche in materia di indicazioni geografiche41.

Ad esempio, come è noto, in materia di marchi, la loro tutela avviene su base territoriale in quanto esistono nume-rosi marchi registrati in uno Stato membro che non possono essere utilizzati in un altro Stato membro perché confondibili con marchi simili registrati in tale ultimo Stato. Anche un mar-chio comunitario, registrato sulla base del Regolamento Ce n. 40/94, non può impedire, all’interno di uno Stato membro, l’utilizzo di un mar chio nazionale, con esso confondibile, se tale marchio è stato anteriormente registrato.

Lascia quindi molto perplessi la sentenza della Corte di giustizia, la quale è giunta alle sue conclusioni interpre-tando il Regolamento Cee n. 2081/92, adottato in materia agricola dal solo Consiglio dei Ministri (che allora poteva legi-ferare senza l’intervento del Parlamento europeo) sulla base di una disposizione del Trattato Ce – art. 43, poi art. 37 ed ora nuovamente art. 43 del TFUE – che non aveva certo, tra le sue finalità, quella di disciplinare la materia della proprietà industriale e intellettuale.

In sostanza la Corte di giustizia, in via interpretativa, è arrivata ad espropriare gli Stati membri delle loro preroga-tive in un settore importante come quello delle indicazio ni geografiche.

Sarebbe quindi interessante se i colleghi che si occu-pano di proprietà industriale e intellettuale volessero appro-fondire questo aspetto della sentenza citata che mi sembra estremamente importante.

Fausto Capelli

Collegio europeo / Università di Parma

41 Ciò risulta in modo esplicito dal parere n. 1/94 della Corte di giustizia, in Raccolta, 1994, I, p. 526 ss.

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Sentenze e ordinanze

della Corte di giuStizia

e del tribunale di primo grado

ConCernenti l’appliCazione

del regolamento Cee n. 2081/92(e del regolamento Ce n. 510/2006)

I. Corte di giustizia

A. Sentenze

Sentenza 10 novembre 1992 in causa n. C-3/91 (1. Exportur SA c. LOR SA e Confiserie du Tech SA: Convenzione franco-spagnola sulla tutela delle indicazioni di provenienza e delle denominazioni di origine - Compatibilità con le norme sulla libera circolazione delle merci), Raccolta, 1992, I, p. 5529.

Sentenza del 7 maggio 1997 in cause riunite n. C-321/94, 2. n. C-322/94, n. C-323/94 e n. C-324/94 (Procedimento penale a carico di Jacques Pistre, Michèle Barthes, Yves Milhau e Didier Oberti: Artt. 30 e 36 del Trattato CE - Nor-mativa nazionale rela ti va all’utilizzazione della denomina-zione “montagna” per prodotti agricoli e alimentari), Rac-col ta, 1997, I, p. 2343.

Sentenza del 9 giugno 1998 in cause riunite n. C-129/97 e 3. n. C-130/97 (Pro ce di menti penali a carico di Yvon Chiciak e Fromagerie Chiciak e Jean-Pierre Fol: Competenza esclu siva della Commissione - Portata della protezione delle deno-minazioni composte), Raccolta, 1998, I, p. 3315.

Sentenza del 4 marzo 1999 in causa n. C-87/97 (4. Consor-zio per la tutela del formaggio Gorgonzola c. Käserei Cham-pignon Hofmeister GmbH & Co. KG e Eduard Bracharz GmbH: Austria. - Artt. 30 e 36 del Trattato CE - Rego-lamento (Cee) n. 2081/92, relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine dei prodotti agricoli ed alimentari), in Raccolta, 1999, I, p. 1301.

Sentenza del 16 marzo 1999 in cause riunite n. C-289/96, 5. n. C-293/96 e n. C-299/96 (Regno di Danimarca, Repubblica federale di Germania, Repubblica francese c. Commissione delle Comunità europee, sostenuta da Repubblica ellenica: Regolamento (Ce) del la Commissione n. 1107/96 - Regi-strazione delle indicazioni geografiche e delle de no mi na-zio ni di origine - «Feta»), Raccolta, 1999, I, p. 1541.

Sentenza del 7 novembre 2000 in causa n. C-312/98 6. (Schutzverband gegen Unwesen in der Wirtschaft eV c. War-steiner Brauerei Haus Cramer GmbH & Co. KG: Protezione del le indicazioni geografiche e delle denominazioni di origine - Disciplina nazionale che proibisce l’uso ingan-nevole delle indicazioni di origine geografica dette “sem-plici”), Raccolta, 2000, I, p. 9187.

Sentenza del 6 dicembre 2001 in causa n. C-269/99 7. (Carl Kühne GmbH & Co. KG, Rich. Hengstenberg GmbH & Co., Ernst Nowka GmbH & Co. KG c. Jütro Konservenfabrik GmbH & Co. KG: Indicazioni geografiche e denomina-

zioni d’origine - Procedimento semplificato di registra-zione - Protezione della denominazione «Spreewälder Gurken»), Raccolta, 2001, I, p. 9517.

Sentenza del 25 giugno 2002 in causa C-66/00 (Procedi-8. mento penale a carico di Dante Bigi, con l’intervento di: Con-sorzio del Formaggio Parmigiano Reggiano: Protezione delle in dicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine dei prodotti agricoli ed alimentari - Art. 13 - Regime derogatorio - Ambito di applicazione), Raccolta, 2002, I, p 591.

Sentenza del 6 marzo 2003 in causa n. C-6/02 (9. Commis-sione delle Comunità europee c. Repubblica francese: Inadem-pimento di uno Stato membro - Libera cir colazione delle merci - Misure di effetto equivalente - Indicazione di pro-venienza - Marchi regionali), Raccolta, 2003, I, p. 2389.

Sentenza del 20 maggio 2003 in causa n. C-469/00 (10. Ravil SARL c. Bellon import SARL e Biraghi SpA: Denominazione di origine protetta - Grana Padano grattugiato fresco - Disciplinare - Convezione fra due Stati membri - Con-dizione relativa all’effettuazione del le operazioni di grat-tugiatura e di confezionamento del formaggio nella zona di produzione - Artt. 29 CE e 30 CE - Giustificazione - Opponibilità della condizione ai terzi - Certezza del di rit to - Pubblicità), Raccolta, 2003, I, p. 5053.

Sentenza del 20 maggio 2003 in causa n. C-108/01 (11. Con-sorzio del Prosciutto di Parma e Salumificio S. Rita SpA c. Asda Stores Ltd e Hygrade Foods Ltd.: Denominazioni di origine protette - Prosciutto di Parma - Disciplinare - Condizione di affettamento e di confezionamento del prosciutto nella zona di produzione - Artt. 29 CE e 30 CE - Giustificazione - Opponibilità della condizione ai terzi - Certezza del diritto - Pubblicità), Raccolta, 2003, I, p. 5121.

Sentenza del 18 novembre 2003 in causa n. C-216/01 12. (Budéjovický Budvar, národní podnik c. Rudolf Ammersin GmbH: Protezione delle indicazioni geografiche e delle de no minazioni d’origine - Convenzione bilaterale tra uno Stato membro e un paese terzo che pro teg ge indi-cazioni di origine geografica di tale paese terzo - Artt. 28 CE e 30 CE - Art. 307 CE - Suc cessione degli Stati nei trattati), Raccolta, 2003, I, p. 13617.

Sentenza del 25 ottobre 2005 in cause riunite n. C-465/02 13. e n. C-466/02 (Repubblica federale di Germania, Regno di Danimarca, sostenuti da Repubblica francese, Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord c. Commissione delle Comunità europee, so ste nuta da Repubblica ellenica: Indica-zioni geografiche e denominazioni d’origine dei prodotti agri coli ed alimentari - Denominazione «feta» - Regola-mento (Ce) n. 1829/2002 - Validità), Raccolta, 2005, I, p. 9115.

Sentenza del 26 febbraio 2008 in causa n. C-132/05 14. (Commissione delle Comunità europee sostenuta da Repub-blica ceca e Repubblica italiana c. Repubblica federale di Germania sostenuta da Regno di Danimarca e Repubblica d’Austria: Inadempimento di uno Stato - Protezione delle

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indicazioni geografiche e delle denominazioni d’ori gine dei prodotti agricoli ed alimentari - Formaggio «Parmi-giano Reggiano» - Uso della de no minazione «parmesan» - Obbligo di uno Stato membro di sanzionare d’ufficio l’uso il le git ti mo di una denominazione d’origine pro-tetta), Raccolta, 2008, I, p. 957.

Sentenza del 2 luglio 2009 in causa n. C-343/07 (15. Bava-ria NV, Bavaria Italia Srl c. Bayerischer Brauerbund eV: Sin-dacato di validità - Ricevibilità - Re go la men ti (Cee) n. 2081/92 e (Ce) n. 1347/2001 - Validità - Denominazione generica - Coesistenza tra un marchio e un’indicazione geografica protetta), inedita in Raccolta.

Sentenza dell’8 settembre 2009 in causa n. C-478/07 16. (Budejovický Budvar, národní podnik c. Rudolf Ammersin GmbH: Trattati bilaterali fra Stati membri - Protezione in uno Stato membro di un’indicazione di provenienza geografica di un al tro Stato membro - Denominazione “Bud” - Utilizzazione del marchio American Bud - Artt. 28 CE e 30 CE - Regolamento (Ce) n. 510/2006 - Regime comunitario di protezione delle in di ca zio ni geografiche e delle denominazioni di origine - Adesione della Repub-blica Ceca - Misure transitorie - Regolamento (Ce) n. 918/2004 - Sfera di applicazione del regime comu ni ta rio - Natura esauriente), inedita in Raccolta.

Sentenza del 10 settembre 2009 in causa n.17. C-446/07 (Alberto Severi c. Regione Emilia Romagna: Direttiva n. 2000/13/Ce - Etichettatura dei prodotti alimentari desti-nati ad essere consegnati come tali al consumatore finale - Regolamento (Ce) n. 510/2006 - Etichettatura atta ad indurre in errore l’acquirente circa l’origine o la prove-nienza del prodotto alimentare - Denominazioni generi-che ai sensi dell’art. 3 del regolamento (Cee) n. 2081/92 - Rilevanza), inedita in Raccolta.

B. ordinanze

Ordinanza del 26 ottobre 2000 in causa n. C-447/98 P 1. (Molkerei Großbraunshain GmbH c. Bene Nahrungsmittel GmbH: Tutela comunitaria delle de no minazioni di ori-gine - Regolamento della Commissione recante registra-zione della de no mi na zione «Altenburger Ziegenkäse» - Ricorso di annullamento - Irricevibilità - Ricorso ma ni-fe stamente infondato), Raccolta, 2000, I, p. 9097.

Ordinanza del 30 gennaio 2002 in causa n. C-151/01 P 2. (La Conqueste SCEA c. Commissione delle Comunità euro-pee: Protezione comunitaria delle in di ca zio ni geografi-che - Regolamento (Ce) n. 1338/2000 - Registrazione della denominazione «canard à foie gras du Sud-Ouest» - Irricevibilità del ricorso di annullamento - Ricorso mani fe sta mente infondato), Raccolta, 2002, I, p. 1179.

C. CauSe in CorSo

Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Bunde-sgerichtshof (Germania) il 20 marzo 2008 - Bayerischer Brauerbund e.V. c. Bavaria N.V. (causa n. C-120/08)

***

Riteniamo opportuno segnalare anche le seguenti sentenze della Corte di giustizia (e un’ordinanza):

Sentenza della Corte del 20 febbraio 1975 in causa n. 12/74 (Commissione delle Comunità europee c. Repubblica federale di Germania: Restrizioni quantitative all’importazione - Misure d’effetto equivalente - Denominazioni d’origine - Indicazioni di provenienza - Definizione rispetto alle denominazioni non tutelate - Direttiva 70/50/Cee, art. 2, n. 3 - Restrizioni quantitative - misure d’effetto equivalente - Diritti di pro-prietà industriale e commerciale - Indicazioni di provenienza - Introduzione di una nuova misura - Tutela di una denomi-nazione generica - Divieto - Trattato Cee, art. 36), in Raccolta, 1975, p. 181.

Sentenza del 22 settembre 1988 in causa n. 286/86 (Pubblico ministero c. Gérard Deserbais: Libera circolazione delle merci - Normativa nazionale che protegge la denominazione di ven-dita di un tipo di formaggio), Raccolta, 1988, p. 4907.

Sentenza del 25 aprile 1989 in causa n. 141/87 (Commissione delle Comunità europee c. Repubblica italiana: Disposizioni rela-tive ai vini di qualità prodotti in regioni determinate - “Lago di Caldaro” Delimitazione delle zone di produzione da parte degli Stati membri - Applicazione di criteri stabiliti dalla nor-mativa comunitaria - Potere discrezionale - Controllo da parte della Commissione e della Corte - Limiti - Regolamento del Consiglio n. 338/79, art. 3, n. 2 - Caratterizzazione con riferi-mento alle condizioni tradizionali di produzione - Estensione della zona tradizionale di produzione - Ammissibilità - Presup-posti - Regolamento del Consiglio n. 338/79, art. 2), in Raccolta, 1989, p. 943.

Sentenza del 9 giugno 1992 in causa n. C-47/90 (Établisse-ments Delhaize frères & Compagnie Le Lion SA c. Promalvin SA e AGE Bodegas Unidas SA: Esportazione di vino sfuso - Divieto - Denominazione di origine - Artt. 34 e 36 del Trattato), Rac-colta, 1992, I, p. 3669.

Sentenza del 18 maggio 1994 in causa n. C-309/89 (Codor-niu SA c. Consiglio dell’Unione europea: Ricorso d’annullamento - Regolamento - Persona fisica o giuridica - Presupposti di ricevibilità del ricorso - Designazione dei vini spumanti - Condizione di utilizzazione della dicitura “crémant”), Raccolta, 1994, I, p. 1853.

Sentenza del 13 dicembre 1994 in causa n. C-306/93 (SMW Winzersekt GmbH c. Land Rheinland-Pfalz: Rinvio pregiudiziale - Sindacato di legittimità - Designazione dei vini spumanti - Divieto di indicazione del metodo di elaborazione detto “méthode champenoise”), Raccolta, 1994, I, p. 5555.

Sentenza del 28 gennaio 1999 in causa n. C-303/97 (Verbrau-cherschutzverein eV c. Sektkellerei G.C. Kessler GmbH und Co.: Marchio - Vino spumante - Art. 13, n. 2, lett. b), del regola-mento (Cee) n. 2333/92 - Designazione del prodotto - Tutela del consumatore - Rischio di confusione), Raccolta, 1999, I, p. 513.

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Sentenza del 4 maggio 1999 in cause riunite n. C-108/97 e n. C-109/97 (Windsurfing Chiemsee Produktions- und Vertriebs GmbH (WSC) c. Boots- und Segelzubehör Walter Huber e Franz Attenberger: - Ravvicinamento delle legislazioni - Marchi - Diret-tiva 89/104 - Diniego di registrazione o nullità - Marchi com-posti esclusivamente da indicazioni di provenienza geografica - Nozione - Direttiva del Consiglio n. 89/104/Cee, art. 3, n. 1, lett. c.; Mancanza di carattere distintivo - Eccezione - Carat-tere distintivo acquisito a seguito dell’uso - Nozione - Inter-pretazione - Criteri - Direttiva del Consiglio n. 89/104, art. 3, n. 3) in Raccolta, 1999, I, p. 2779.

Sentenza del 16 maggio 2000 in causa n. C-388/95 [Regno del Belgio c. Regno di Spagna: Art. 34 del Trattato CE (divenuto, in seguito a modifica, art. 29 CE) - Regolamento (Cee) n. 823/87 - Vini di qualità prodotti in una regione determinata - Denomi-nazioni di origine - Obbligo di imbottigliamento nella regione di produzione - Giustificazione - Conseguenze di una prece-dente pronuncia pregiudiziale - Art. 5 del Trattato CE (dive-nuto art. 10 CE)], Raccolta, 2000, I, p. 3123.

Sentenza del 12 maggio 2005 in causa n. C-347/03 (Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia e Agenzia regionale per lo sviluppo rurale (ERSA) c. Ministero delle Politiche Agricole e Forestali, in presenza di: Regione Veneto: Relazioni esterne - Accordo CE-Ungheria sulla tutela e il controllo reciproci delle denominazioni dei vini - Tutela nella Comunità di una denominazione di vini provenienti dall’Ungheria - Indicazione geografica “Tokaj” - Scambio di lettere - Possibilità di uti-lizzare il termine “Tocai” nella menzione “Tocai friulano” o “Tocai italico” per la designazione e la presentazione di taluni vini italiani, in particolare dei vini di qualità prodotti in una regione determinata (“v.q.p.r.d.”), durante un periodo transi-torio che scade il 31 marzo 2007 - Esclusione di tale possibi-lità dopo il periodo transitorio - Validità - Fondamento giuri-dico - Art. 133 CE - Principi di diritto internazionale relativi ai trattati - Artt. 22-24 dell’accordo ADPIC (TRIPs) - Tutela dei diritti fondamentali - Diritto di proprietà), in Raccolta, 2005, I, p. 3785.

Ordinanza del 12 giugno 2008 in cause riunite n. C-23/07 e n. C-24/07 (Confcooperative Friuli Venezia Giulia e a.: Agricoltura - Regolamenti (Ce) n. 1493/1999, n. 753/2002 e n. 1429/2004 - Organizzazione comune del mercato vitivinicolo - Etichet-tatura dei vini - Utilizzazione di nomi di varietà di viti o di loro sinonimi - Indicazione geografica “Tokaj” per vini origi-nari dell’Ungheria - Possibilità di utilizzare la denominazione di vitigno “Tocai friulano” o “Tocai italico” in aggiunta alla menzione dell’indicazione geografica di taluni vini originari d’Italia - Esclusione dopo un periodo transitorio di tredici anni avente termine il 31 marzo 2007 - Validità - Fondamento normativo - Art. 34 CE - Principio di non discriminazione - Principi di diritto internazionale relativi ai trattati - Adesione dell’Ungheria all’Unione europea - Artt. 22-24 dell’accordo ADPIC), in Raccolta, 2008, I, p. 4277.

II. Tribunale di primo grado

A. Sentenze

Sentenza del 12 giugno 2007 in cause riu nite n. T-57/04 1. e n. T-71/04 (Budejovický Budvar, národní podnik e Anheu-ser-Busch, Inc. c. Uf fi cio per l’armonizzazione nel mercato interno (marchi, disegni e modelli) (UAMI): Marchio co mu-nitario - Opposizione - Domanda di registrazione di mar-chio comunitario figurativo con te nen te i termini «AB», «genuine», «budweiser», «king of beers» - Marchio inter-nazionale de no mi nativo anteriore BUDWEISER - Deno-minazioni d’origine registrate ai sensi del l’Ac cor do di Li sbona - Art. 8, n. 1, lett. b., e n. 4, del regolamento (Ce) n. 40/94 - Accoglimento e rigetto par ziali dell’opposizione), Raccolta, 2007, II, p. 1829

Sentenza del 16 dicembre 2008 in riunite n. T-225/06, n. 2. T-255/06, n. T-257/06 e n. T-309/06 (Budejovický Budvar, národní podnik c. Uffi cio per l’armonizzazione nel mer-cato interno (marchi, disegni e modelli) (UAMI): Marchio co munitario - Opposizione - Domande di marchi comu-nitari denominativo e figurativo BUD - De nominazioni «bud» - Impedimenti relativi alla registrazione - Art. 8, n. 4, del regolamento (Ce) n. 40/94), Raccolta, II, p. 3555.

Sentenza del 12 settembre 2007 in causa n. T-291/03 3. (Con sorzio per la tutela del formaggio Grana Padano c. Ufficio per l’armonizzazione nel mercato interno (marchi, disegni e modelli) (UAMI): Marchio comunitario - Proce-dimento di nul lità - Marchio comunitario denominativo GRANA BIRAGHI - Protezione della de no mi na zio ne d’origine «Grana Padano» - Assenza di genericità - Art. 142 del regolamento (Ce) n. 40/94 - Re golamento (Cee) n. 2081/92), Raccolta, 2007, II, p. 3081.

B. ordinanze

Ordinanza 15 settembre 1998 in causa n. T-109/97 (1. Mol-kerei Großbraunshain GmbH e Bene Nahrungsmittel GmbH c. Commissione delle Comunità europee: Protezione comu-nitaria delle de no minazioni d’origine - Registrazione, mediante un regolamento della Commissione, di una de no minazione per un’area geografica ritenuta troppo vasta dalle ricorrenti), Raccolta, 1998, II, p. 3533.

Ordinanza 26 marzo 1999 in causa n. T-114/96 (2. Confise-rie du TECH SA e Biscuiterie Confiserie LOR SA c. Commis-sione delle Comunità europee: Registrazione di indicazioni geografiche - “Turrón de Jijona” e “Turrón de Alicante”), Raccolta, 1999, II, p. 913.

Ordinanza 29 aprile 1999 in causa n. T-78/98 (3. Unione pro-vinciale degli agricoltori di Firenze, Unione pratese degli agri-coltori, Consorzio produttori dell’olio tipico di oliva della pro-vincia di Firenze, Francesco Miari Fulcis, Bonaccorso Gondi, Simone Giannozzi e Antonio Morino c. Commissione delle Comunità europee: Registrazione di indicazione geografica - Olio d’oliva “Toscano”), Raccolta, 1999, II, p. 1377.

Ordinanza 9 novembre 1999 in causa n. T-114/99 (4. CSR PAMPRYL c. Commissione delle Comunità europee: Regi-

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strazione di una denominazione d’origine - “Pays d’Auge/Pays d’Auge-Cambremer”), Raccolta, 1999, II, p. 3331.

Ordinanza 30 gennaio 2001 in causa n. T-215/00 (5. SCEA La Conqueste c. Commissione delle Comunità europee: Regi-strazione di una de no minazione geografica protetta - “Canard à foie gras du Sud-Ouest”), Raccolta, 2001, II, p. 181.

Ordinanza 6 luglio 2004 in causa n. T-370/02 (6. Alpenhain-Camembert-Werk e altri c. Commissione delle Comunità europee: Registrazione di una denominazione di origine - “Feta”), Raccolta, 2004, II, p. 2097.

Ordinanza 27 ottobre 2005 in causa n. T-89/05 (7. Gaec Salat c. Commissione: Denuncia concernente la denomi-nazione d’origine protetta ‘Salers’), Raccolta, 2005, II, p. II-16* pubblicazione sommaria.

Ordinanza 13 dicembre 2005 in causa n. T-381/02 (8. Con-fédération gé né ra le des producteurs de lait de brebis et des industriels de roquefort c. Commissione delle Co mu nità europee: Registrazione di una denominazione di origine - “Feta”), Raccolta, 2005, II, p. 5337.

Ordinanza 13 dicembre 2005 in causa n. T-397/02 (9. Arla Foods AMBA e altri c. Commissione delle Comunità europee: Registrazione di una denominazione di origine - “Feta”), Raccolta, 2005, II, p. 5365.

Ordinanza 11 settembre 2007 in causa n. T-35/06 (10. Honig-Verband eV c. Commissione delle Comunità europee: iscri-zione di una denominazione nel «Registro delle denomi-nazioni di origine protette e delle indicazioni geografiche protette» - “Miel de Provence”), Raccolta, 2007, II, p. 2865.

C. CauSe in CorSo

Ricorso presentato il 28 giugno 2006 - Bavaria c. Consiglio Comunità europee (causa n. T-178/06).

Ricorso presentato il 4 settembre 2009 - Acetificio Mar-cello de Nigris c. Commissione delle Comunità europee (causa T-351/09).

***

Riteniamo opportuno segnalare anche due sentenze e un’ordi-nanza del Tribunale di primo grado:

Sentenza del 15 ottobre 2003 in causa n. T-295/01 (Nord-milch eG c. Ufficio per l’armonizzazione nel mercato interno (marchi, disegni e modelli) (UAMI): Marchio comunitario - Regolamento (Ce) n. 40/94 - Vocabolo OLDENBURGER - Impedimento assoluto alla registrazione - Carattere descrittivo - Provenienza geografica - Art. 7, n. 1, lett. c), e n. 2 - Limitazione del diritto conferito - Art. 12, lett. b) - Dichiarazione sulla portata della tutela - Art. 38, n. 2), Raccolta, 2003, II, p. 4365.

Sentenza del 31 maggio 2005 in causa n. T-373/03 (Solo Italia Srl c. Ufficio per l’armonizzazione nel mercato interno (marchi, disegni e modelli) (UAMI): Marchio comunitario - Marchio denominativo PARMITALIA - Termine di ricorso

contro la decisione della divisione di opposizione - Art. 59 del regolamento (Ce) n. 40/94 - Regola 48 del regola-mento (Ce) n. 2868/95 - Irricevibilità del detto ricorso), Raccolta, 2005, II, p. 1881.

Ordinanza del 3 luglio 2007 in causa n. T-212/02 (Comune di Champagne, Défense de l’appellation Champagne ASBL, Cave des viticulteurs de Bonvillars e altri, tutti residenti in Svizzera, c. Consiglio dell’Unione europea, Commissione delle Comunità europee, sostenuti da Repubblica francese: Ricorso di annullamento - Accordo CE/Confederazione svizzera sul commercio di prodotti agricoli - Decisione relativa all’approvazione dell’accordo - Portata giuridica - Prodotti vitivinicoli - Denominazioni protette - Ecce-zione di omonimia - Regolamento (Cee) n. 2392/89 e regolamento (Ce) n. 753/2002 - v.q.p.r.d. «Champagne» - Vini provenienti dal comune di Champagne nel can-tone di Vaud - Ricevibilità - Atto che arreca pregiudizio - Legittimazione ad agire - Persona individualmente inte-ressata - Ricorso per risarcimento danni - Nesso causale - Danno imputabile alla Comunità - Incompetenza).

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La sempre maggior diffusione dei computer nella società moderna, associata alla generalizzata possibilità di trasmet-tere e ricevere elevate quantità di dati mediante connessioni alla rete performanti ed economiche, ha determinato il dif-fondersi esponenziale, tra gli altri, di siti internet che effet-tuano il c.d. e-commerce o i più svariati servizi a pagamento. Molti di questi siti internet, finiscono per costituire un valore economico rilevante delle aziende che li utilizzano nelle loro attività commerciali.Poiché questa tipologia di commercio rende sempre più diffi-cile l’individuazione dei luoghi di stoccaggio delle merci com-pravendute dalle società operanti sul web, per sottoporle a eventuali pignoramenti, diviene necessario verificare se e come, alla luce della normativa vigente, detti siti ed in par-ticolare i loro “segni distintivi”, che invero, devono rimanere stabili per consentire al pubblico di interloquire con l’azienda, possano essere oggetto di espropriazione forzata.Preliminarmente, tuttavia, per comprenderne gli elementi costitutivi e la relativa pignorabilità, occorre soffermarsi sulla struttura di un sito internet che in via di semplificazione è costituito: a) dal c.d. hardware, più esattamente i computer e/o i server che ne consentono la pubblicazione sulla rete e l’accessibilità e fruibilità al pubblico; b) dal c.d. software, e quindi i programmi che consentono di realizzare l’interfaccia grafica del sito medesimo per mostrare al pubblico fotografie e testi oppure per svolgere qualsiasi altra funzionalità quale la scelta di un prodotto o servizio per effettuarne l’acqusito; c) dal c.d. “domain name” o “nome di dominio” costituente il segno distintivo registrato dall’azienda proprietaria del sito internet e che consente al pubblico di raggiungere e visualiz-zare in modo univoco un sito internet sul web.In questa disamina ci occuperemo esclusivamente della pignorabilità dei “nomi di dominio” in quanto i componenti hardware sono soggetti alle normali regole del pignoramento mobiliare, trattandosi di beni materiali (ferma restando, tutta-via, la non indifferente problematica dell’individuazione fisica delle macchine, tenuto altresì conto, che sempre più spesso, queste ultime non appartengono ai proprietari dei siti i quali vengono meramente ospitati in server di proprietà di terzi), mentre i software sono normalmente impignorabili essendo opere dell’ingegno delle quali non si acquista la proprietà ma unicamente una licenza di utilizzo.Il nome di dominio non deve essere meramente inteso quale un semplice indirizzo elettronico finalizzato a “consentire a chiunque di raggiungere una pagina web”, come originaria-mente ritenuto da alcune delle prime decisioni in materia (Trib. Firenze, 8/7/2000, in Dir. Ind. , 2000, 331), ma quale “…

nuovo segno distintivo dell’impresa…” (Trib. Parma, 26/02/2001). Se così inteso, quindi, diviene possibile argomentare sulla pignorabilità del nome di dominio se ed in quanto conside-rato alla stregua di un diritto di proprietà industriale quali sono marchi e i brevetti, che a norma dell’art. 137 del codice della proprietà industriale (d.lgs. n. 30 del 10 febbraio 2005 in G.U. n. 52 del 4 marzo 2005), possono essere sottoposti a pignoramento o sequestro secondo le norme del codice di procedura civile, e cioè degli artt. 513 e seguenti.Nel predetto testo normativo (c.d. Codice di Proprietà Indu-striale), inoltre, il “nome di dominio aziendale” può trovare legittima collocazione tra i segni distintivi secondo l’ampia e generica definizione di cui all’art. 1: “Ai fini del presente codice, l’espressione proprietà industriale comprende marchi ed altri segni distintivi, indicazioni geografiche, denominazioni di origine, disegni e modelli, invenzioni, modelli di utilità, topografie dei pro-dotti a semiconduttori, informazioni aziendali riservate e nuove varietà vegetali”.Collocazione, invero, che diviene definitiva ed inequivocabile nel successivo art. 133, rubricato “Tutela cautelare dei nomi a dominio” e collocato nell’ambito del Capo III, disciplinante la “Tutela giurisdizionale dei diritti di proprietà industriale”, che così statuisce: “L’Autorità giudiziaria può disporre, in via cau-telare, oltre all’inibitoria dell’uso del nome a dominio aziendale illegittimamente registrato, anche il suo trasferimento provvisorio, subordinandolo, se ritenuto opportuno, alla prestazione di idonea cauzione da parte del beneficiario del provvedimento”.Nemmeno pare revocabile in dubbio che il successivo art. 137 “Esecuzione forzata e sequestro dei titoli di proprietà industriale”, non ponga limite alcuno alla pignorabilità di qualsivoglia titolo o diritto di proprietà industriale e quindi anche dei “nomi di dominio”1.

1 1) I diritti patrimoniali di proprietà industriale possono formare oggetto di esecuzione forzata.2) All’esecuzione si applicano le norme stabilite dal codice di proce-dura civile per l’esecuzione sui beni mobili.3) Il pignoramento del titolo di proprietà industriale si esegue con atto notificato al debitore, a mezzo di ufficiale giudiziario. L’atto deve con-tenere: a. la dichiarazione di pignoramento del titolo di proprietà industriale, previa menzione degli elementi atti ad identificarlo; b. la data del titolo e della sua spedizione in forma esecutiva; c. la somma per cui si procede all’esecuzione; d. il cognome, nome e domicilio, o residenza, del creditore e del debi-tore; e. il cognome e nome dell’ufficiale giudiziario. 4) Il debitore, dalla data della notificazione, assume gli obblighi del sequestratario giudiziale del titolo di proprietà industriale, anche per quanto riguarda gli eventuali frutti. I frutti, maturati dopo la data della notificazione, derivanti dalla concessione d’uso del diritto di proprietà

IL PIGNORAMENTO DEI NOMI DI DOMINIO “.IT”

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Appurata, pertanto, la pignorabilità del “nome di dominio” in quanto diritto di proprietà industriale, occorre esaminare come adattare a quest’ultimo la procedura di cui al pre-detto art.137 del D.Lgs. n.30/05, specificatamente dettata per i marchi ed i brevetti, ed in particolare, come assolvere all’obbligo di trascrizione di cui al comma 6 di tale articolo, considerata la differenza strutturale e sostanziale tra l’ufficio marchi e brevetti e le funzioni dallo stesso istituzionalmente assolte, ed il Registro del ccTLD (country code top level domain) “.it” che, invero, assegna e gestisce i nomi di dominio “.it”.

Tale Ente può essere più semplicemente definito, come diret-tamente rinvenibile sul sito del Registro medesimo www.nic.it, quale “(…) l’anagrafe dei domini Internet “.it”, la targa Internet dell’Italia. Soltanto qui è possibile chiedere, modificare o cancellare uno o più domini “.it” Su richiesta degli utenti, il Registro associa gli indirizzi numerici necessari per muoversi in rete (lunghi e difficili da memorizzare) a un nome. (…) Nella geografia della rete, “.it” è una delle tante estensioni disponibili” che, nello specifico fa riferimento alla nazione Italia: il dominio “.it”, quindi, è, come prima specifi-cato, un cosiddetto ccTLD (country code top level domain) al pari, ad esempio, dei domini “.fr”, “.de”, “.co-uk”, rispet-tivamente identificativi la Francia, la Germani, l’Inghilterra. Quando, invece, le estensioni hanno carattere generico, si hanno i c.d. gTLD, generic top level domain, come, ad esem-pio, i domini “.net”, “.com.”, “.org.” etc..

Nel caso specifico ci occuperemo unicamente del dominio “.it”, poiché i registri degli altri ccTLD o gTLD non hanno sede nel nostro paese e sono quindi soggetti a differenti nor-mative.

Il ccTLD “.it” è disciplinato dal “Regolamento di assegnazione e gestione dei nomi a dominio nel ccTLD “it”, il quale all’art. 5.1 (già art. 5.6) e seguenti dispone che “il Registro, ove venga a conoscenza dell’esistenza di un procedimento giudiziario o arbi-trale relativo ad un nome a dominio, può d’ufficio aggiungere al nome di dominio stesso lo stato di “CHALLENGED”. Il nome di dominio oggetto di opposizione non può essere sottoposto ad una operazione di modifica del Registrante”.

Lo status di CHALLENGED, secondo la definizione sempre

industriale, si cumulano con il ricavato della vendita, ai fini della suc-cessiva attribuzione. 5) Si osservano, nei riguardi della notificazione dell’atto di pignora-mento, le norme contenute nel codice di procedura civile per la noti-ficazione delle citazioni. Se colui al quale l’atto di pignoramento deve essere notificato non abbia domicilio o residenza nello Stato, né abbia in questo eletto domicilio, la notificazione è eseguita presso l’Ufficio italiano brevetti e marchi. In quest’ultimo caso, copia dell’atto è affissa nell’Albo dell’Ufficio ed inserita nel Bollettino ufficiale. 6) L’atto di pignoramento del diritto di proprietà industriale deve essere trascritto, a pena di inefficacia, entro otto giorni dalla noti-fica. Avvenuta la trascrizione dell’atto di pignoramento del diritto di proprietà industriale, e finché il pignoramento stesso spiega effetto, i pignoramenti successivamente trascritti valgono come opposizione sul prezzo di vendita, quando siano notificati al creditore procedente. (omissis)”

fornita sul sito www.nic.it, individua un “Dominio registrato contestato da una terza parte, non disponibile per un’operazione di modifica del Registrante. Questo stato identifica tutti i nomi a

dominio per cui è attiva una procedura di opposizione.”

Sulla base di tali pressupposti, nell’assenza di precedenti spe-cifici conosciuti, si è ritenuto corretto procedere al pigno-ramento di un nome di dominio “.it” mediante la notifica di atto stilato con la forma del pignormaneto immobiliare nel quale si è fornita l’esatta descrizione del domain name (così e come ricavata nella sezione “whois” del sito www.nic.it) e noti-ficata al Registro del ccTLD “.it”, nella sua sede presso l’Isti-tuto di Telematica ed Informatica del CNR di Pisa, affinchè provvedesse a dare pubblicità ufficiale ai terzi dell’avvenuto pignoramento (mediante l’inserimento dello status di CHAL-LENGED), e ciò anche al fine di ottemperare, seppur in via analogica, all’obbligo di trascrizione di cui al predetto art. 137 del D.Lgs n.30/05.

Tale modus procedendi risulta, allo stato, avallato:

- dall’operato del Registro del ccLTD “.it” che ha concreta-mente inserito lo status di “challenged” al nome di dominio pignorato, così impedendone la circolazione;

-dal Tribunale di Parma, che nell’ambito della relativa proce-dura esecutiva in essere ha designato un esperto estimatore per la valutazione economica del “nome di dominio” pigno-rato per la sua successiva alienazione forzata;

-dall’Avvocatura dello Stato che, nella memoria dalla stessa depositata nell’ambito del giudizio instaurato dal debitore esecutato registrante il suddetto nome di dominio avanti al TAR di Parma per censurare il predetto inserimento dello status di CHALLENGED da parte del Registro del ccTLD “.it”, ha argomentato, sostenendo e condividendo l’operato di quest’ultimo per aver applicato la corretta procedura det-tata dal disposto dell’art. 5.1 del Regolamento di Assegna-zione e Gestione dei nomi di dominio nel ccTLD “.it” per le ipotesi in cui su un nome di dominio incida un procedimento giudiziario o arbitrale: nel caso di specie, una procedura ese-cutiva mobiliare da instaurarsi avanti il Tribunale competente ai sensi del correlato disposto degli artt. 120 comma 4 e 137 comma 14 del D.Lgs, 30/2005 nonché dell’art. 1 e ss. del D.Lgs. 168/2003.

Giulio Moscatelli

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SommarioUn compleanno “legislativo”1. Produzione di beni e produzione di servizi2. L’industria assicurativa3. Assicurazione e valori costituzionali4. Assicurazione e principio di uguaglianza5. Un passato che è già futuro6.

1Ogni anno, il 22 ottobre, il contratto di assicurazione aggiunge un anno ai molti, anzi moltissimi, che ha sulle spalle. Eppure si tratta di un compleanno che passa inosservato, anche se non riguarda solo la “famiglia”, quella degli opera-tori di ogni tipo, ordine e grado che quotidianamente lavo-rano sulle polizze e con le polizze, ma tutti coloro che hanno bisogno di una polizza per compiere un atto di previdenza (vita, infortuni, malattia) a beneficio proprio e/o dei propri congiunti oppure per tutelare un bene di proprietà (incendio, furti, grandine, ecc.) o l’intero patrimonio (R.C. nelle diverse configurazioni) contro il rischio della perdita o della dimi-nuzione fino all’azzeramento e addirittura al saldo negativo, come avviene nel caso di debiti ingenti da risarcimento per colpa.Pensando a ciò, ma si possono fare altre e più ampie conside-razioni che invero verranno fatte in seguito, ci si rende conto ictu oculi della portata del “capolavoro” del Doge genovese Gabriele Adorno, alla cui illuminata opera si deve la più antica legge assicurativa conosciuta, pubblicata per l’appunto il 22 ottobre 1369 per dare idoneo riconoscimento al contratto di assicurazione e, quindi, forza all’attività imprenditoriale assicurativa già da tempo praticata, ma con ostacoli di grande peso costituiti da opposizioni ed eccezioni “contra allegan-tes quod cambia et assecuramenta, facta quoviscumque cum sciptura vel sine, sint illecita et vel usuraria”.Insomma, prima del 1369, il contratto di assicurazione, in quanto privo di una sua configurazione autonoma e dotata di valida base giuridica, assumeva le sembianze di altri contratti e dava luogo ad ogni sorta di abusi finalmente scongiurati mediante le definizioni e le sanzioni contenute nel decreto del Doge Adorno, decreto risultato essere, dopo il ritrova-mento suo e di altri preziosi documenti, avvenuto negli anni ‘70 del 1800 nell’archivio di San Giorgio in Genova, il fonda-mento delle legislazioni evolutesi in materia in quello scorcio del trecento e nel quattrocento nella stessa Genova, a Vene-zia, a Firenze ed anche a Barcellona (1435) ed altrove. Anche allora, insomma, la comparazione giuridica era il miglior veicolo a disposizione di studiosi e legislatori per esportare e far circolare in tutto il mondo le soluzioni tecnico-giuridiche ritenute più felici ed idonee. Basti pensare all’assegno ban-

cario inglese, alla sospensione condizionale della pena belga, alla codificazione napoleonica e, prima ancora, al corpus juris di Giustiniano.

2 Una buona soluzione produce, quando entra “in cir-colo”, i suoi effetti. Ed il riconoscimento juris et de jure del contratto di assicurazione ne ha prodotti di particolarmente rilevanti, ove non si vogliano usare termini più roboanti: grandiosi, assimilabili alla rivoluzione copernicana e così via. Infatti, grazie a quel riconoscimento, l’assicurazione ha potuto evolversi e diventare quello che è, ossia qualcosa di molto più complesso e significativo di uno dei tanti “servizi” che la fanno sbrigativamente ascrivere al termine “terziario” sia pure con l’aggiunta, com’è ormai uso generalizzato, dell’ulte-riore qualificazione insita nell’aggettivo “avanzato”. Chi presta (o “produce”, secondo la terminologia usata dal legislatore nell’art. 2082 Cod. Civ.) servizi, in realtà non esegue alcuna trasformazione, ma si limita a combinare fra loro risorse materiali ed umane - per eseguire la presta-zione offerta, che può risolversi in un rapporto con l’utente temporalmente definito ed unico (es.: l’inizio e la fine di un percorso ferroviario) o diluito in più riprese e in più tempi (es.: il servizio bancario: conti correnti; cassette di sicurezze, ecc.) - con prevalenza delle prime (es. la lavanderia automa-tica senza addetti fissi) o delle seconde (es. il salone di bel-lezza dove ogni cliente è accudita da uno o addirittura da più addetti: parrucchiere, manicure, visagista, ecc.). In ogni caso la prestazione di servizi si manifesta essenzial-mente sul piano organizzativo, senza richiedere, a monte, una particolare attività di creazione o, meglio, di trasforma-zione. Questo significa, non solo maggiore semplicità, ma anche potenzialità limitata alle risorse materiali ed umane “organizzate”. Pertanto, quando tali risorse sono totalmente impegnate nell’erogazione del servizio offerto, all’aspirante utente non resta che attendere il proprio turno o rivolgersi altrove. Relativamente ai servizi, insomma, c’è un problema di adeguamento dell’offerta alla domanda che non si risolve nell’immediato, ma solo in tempi piuttosto lunghi, per cui il rischio di cambiamenti nella domanda stessa induce alla pru-denza e determina una certa vischiosità all’interno dei pro-cessi di potenziamento organizzativo. Tutto questo dipende soprattutto dalle caratteristiche dei bisogni da soddisfare, bisogni che sono di norma più semplici di quelli da soddi-sfare mediante la produzione di beni, ma anche più urgenti. I bisogni che si soddisfano attraverso beni precedentemente prodotti sono, al contrario, meno urgenti, il che consente di programmare meglio sia il consumo che la produzione e, pure, di procedere ad adattamenti che consentono di far

Compie 640 anni, ma non li dimostra: 22 ottobre 1369 - 22 ottobre 2009

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aderire le due programmazioni. Il problema dell’adattamento dell’offerta alla domanda, perciò, risulta, entro certi limiti, di più facile soluzione. Questo è, in definitiva, il “premio” rico-nosciuto all’industria per il fatto che essa non si basa solo su di un’attività organizzativa limitata al momento dell’immis-sione del prodotto sul mercato ed eventualmente a quello che immediatamente lo precede (magazzinaggio, confeziona-mento, ecc.), ma che richiede, in precedenza, un grosso sforzo di predisposizione e di utilizzo di ben altri mezzi finalizzati alla trasformazione ed alla produzione.Chi si è attrezzato per produrre, generalmente, può produrre molto di più del suo “standard” normale e può aumentare la produzione in tempi molto brevi, sfruttando la potenzialità non utilizzata, attivando macchinari tenuti fermi o aggiunti ad hoc, ricorrendo al lavoro straordinario, a doppi turni o all’impiego di manodopera aggiuntiva stabile o stagionale. Al massimo, chi attende un prodotto, lo aspetterà una settimana di più. Ciò che invece non vale per chi ha bisogno di un servi-zio - per esempio, di organizzare un pranzo di nozze per quel determinato giorno - cosichè in caso di difficoltà non gli resta che cercare un altro ristorante. Un’industria idroelettrica, che ha sbarrato valli costruendo dighe e allestito centrali, può incrementare notevolmente la produzione e, mentre arriva a sfruttare al massimo i suoi impianti, ha tutto il tempo di crearne altri, continuando così a soddisfare - teoricamente all’infinito - gli aumentati bisogni energetici di una certa zona. Lo stesso, mutatis mutandis, vale per tutti i tipi di industria. Non vale, invece, o vale entro limiti molto più ristretti, per i servizi.

3 Sulla scorta delle considerazioni che precedono, dunque, bisogna convenire che l’assicurazione è assimilabile all’indu-stria e non all’erogazione di un servizio.Come l’industria, essa immette sul mercato un “prodotto” che è il frutto di un’attività (addirittura molto più complessa di quella propriamente industriale) di trasformazione. Una duplice trasformazione: dati numerici grezzi che diventano “certezza” statistica; mezzi finanziari raccolti che diventano “sicurezza” economica. Come l’industria, essa può soddisfare agevolmente la crescente domanda dei suoi “prodotti”. Anzi, quello che è solo tendenziale per l’industria, nell’ assicura-zione è vero praticamente in assoluto, dato che l’attività assicurativa è per sua natura protesa a soddisfare all’infinito l’accesso di nuovi assicurati. L’assimilabilità dell’assicurazione all’industria, invero, non sfuggì al legislatore quando, nel 1923, pose mano al primo fondamentale riordino in materia assicurativa. Il R.D.L 29 aprile 1923, n.° 966, infatti, fa espressamente e sistematica-mente riferimento alle imprese che esercitano “l’industria delle assicurazioni” e “l’industria delle riassicurazioni”. Una simile scelta terminologica legislativa risente proprio dei concetti di “trasformazione” (economica, ovviamente, e non fisica o chimica) in funzione dei “bisogni dell’uomo”. Infatti, se esaminiamo un testo all’incirca contemporaneo - l’Enciclopedia Italiana, che inizia la pubblicazione dei suoi volumi nel 1929 - vi troviamo scritto, ad opera di un econo-

mista della Confederazione generale dell’industria (Francesco Coppola D’Anna), che: “Allo stato delle cose, e senza entrare in disquisizioni necessariamente molto sottili, può dirsi che la dottrina economica designa in via di massima col nome di industria l’esercizio di ogni attività che ha per iscopo la produzione di beni economici conglobando insieme tutte le specie di attività produttive, escluso sempre l’esercizio delle professioni liberali. Ma, come abbiamo detto sopra, un’ac-cezione così lata non risponde alle necessità pratiche e alla sempre maggiore specificazione dell’attività economica. Nel comune linguaggio si intende oggi, innanzitutto, per industria quella particolare branca dell’attività produttiva che consiste nella trasformazione, fisica o chimica, dei prodotti naturali: sono pertanto comprese nel comune appellativo di industria, da un lato le lavorazioni che adattano i prodotti naturali ai bisogni dell’uomo mediante semplici modificazioni del loro stato fisico (industria manifatturiera), dall’altro quelle che li trasformano chimicamente dando luogo alla formazione di nuovi prodotti (industrie chimiche). Ne rimangono escluse l’agricoltura, il commercio e l’attività bancaria. Continuano, viceversa, in pratica, a essere qualificate come industrie, benché non comprese nel concetto sopra indicato, l’eserci-zio di miniere e cave, il taglio dei boschi, la pesca e, sebbene meno frequentemente, anche i trasporti.”Senonchè, per diversi decenni, l’accennata assimilabilità, pur intuita dal legislatore, non si è radicata tant’è che il medesimo, già nel 1959, mostra di voler abbandonare la locuzione “eser-cizio dell’industria assicurativa” per sostituirla con un’altra (“esercizio delle assicurazioni”). Infatti, nel testo unico appro-vato con D.P.R. 13 febbraio 1959, n° 449, la prima locuzione appare ancora nel corpo normativo là dove questo ripro-duce le disposizioni del 1923, ma risulta già sostituita con la seconda nell’intitolazione, essendo questa di nuovo conio. In realtà è proprio l’imprenditoria assicurativa a respingere l’equazione: assicurazione = industria. Tale imprenditoria infatti continua per lungo tempo ad usare una terminologia, che vuol essere peculiare, in cui “produzione” sta per “attività commerciale”, “organizzazione produttiva” sta per “rete di vendita”, “copertura assicurativa” sta per “prodotto” offerto al pubblico, ecc. L’abbandono definitivo della scelta terminologica del 1923 è sottolineato dalle leggi più recenti (990/69, 295/78, 742/86) e, curiosamente, avviene in concomitanza con l’accettazione della terminologia industriale da parte dell’imprenditoria assicurativa che, sulla spinta di un’accentuata presenza negli assetti azionari di quote appartenenti a società di estrazione industriale, ritiene opportuno avvicinarsi agli schemi dell’in-dustria, cominciando dal linguaggio, per cui i termini “vendita”, “venditore”, “prodotto” e perfino “succursale” e “area” (al posto di “Direzione di zona” e di “gerenza”) vengono accet-tate anche negli ambiti più tradizionalisti.

4 La peculiarità dell’attività assicurativa che traspare da tutto quanto si è qui annotato, dai profili di ordine tecnico ai dubbi di collocazione settoriale con i conseguenti dubbi terminologici, ha anche un altro aspetto: quello della funzione

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sociale, modernamente inteso, dell’assicurazione e dell’attri-buzione a questa di una precisa dignità costituzionale, pur in assenza di qualsiasi riferimento specifico nella Costituzione. Quest’ultima infatti accenna un po’ approssimativamente (art. 38) alle assicurazioni sociali, ma nulla dice, neppure di sfuggita, delle assicurazioni private. Tradizionalmente, si usa parlare di una funzione sociale dell’assicurazione privata intesa come funzione trascendente la mera utilità individuale dei contraenti: ricerca di sicurezza per l’assicurato; ricerca del profitto per l’assicuratore. Una funzione sociale ricollegata, di norma, al peso economico dell’attività assicurativa che consentendo la raccolta di ingenti mezzi finanziari diviene, attraverso l’investimento dei mede-simi, strumento di sviluppo dell’economia di un paese. Una funzione sociale che, più modernamente, può essere riallac-ciata a tre importanti filoni nell’alveo, unico, della difesa del benessere che caratterizza le società post industriali. Vale a dire che l’assicurazione può essere vista come:

integrazione della previdenza pubblica, affinché 1) quest’ultima ne risulti un decongestionamento delle istituzioni previdenziali statali;

surrogazione di possibili forme previdenziali pubbli-2) che, quando lo Stato, rendendo obbligatoria talune assicurazioni private - vedasi l’eclatante esempio della R.C. Auto e Natanti, ma ve ne sono molti altri - persegue fini di sicurezza sociale senza gravarsi dell’istituzione di appositi apparati di previdenza;

supporto all’attività produttiva, dimodochè, quando 3) il patrimonio aziendale è esposto alla diminuzione o al dissolvimento in conseguenza di un fatto mate-riale (es. incendio) o legale (es. obbligo risarcitorio in via di responsabilità), si eviti la paralisi dell’im-presa con il conseguente danno sociale in termini di posti di lavoro perduti e di famiglie poste nell’in-digenza.

Questi concetti, più o meno sviluppati o sviluppabili, non vanno però avulsi dalla ricerca di una vera e propria dignità costituzionale dell’assicurazione privata.Tale ricerca deve seguire almeno tre strade: quella generale e ordinaria, che compete a tutte le attività economiche in base all’ art. 41 della Costituzione, più altre due specifiche da porre in relazione con la tutela del diritto alla proprietà (art. 42 Cost.) e col principio di uguaglianza (art. 3 Cost.).Il predetto art. 41, come noto, stabilisce che l’iniziativa econo-mica privata è libera. Anche l’assicurazione privata dunque, in quanto frutto della citata iniziativa, beneficia di siffatta libertà che, tuttavia, non è e non può essere assoluta per due ordini di ragioni: per il limite di carattere generale imposta all’inizia-tiva economica dallo stesso art. 41 e per la particolare natura dell’attività assicurativa.In primis, infatti, va ricordato che il 2° comma dell’articolo in parola stabilisce che l’iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana.In secondo luogo, l’attività assicurativa, stanti le peculiarità derivantile dal ricordato fatto di basarsi su previsioni, poiché i ricavi vengono conseguiti prima dei costi, ha sempre richie-sto un particolare impegno legislativo (dal R.D.L. 29 aprile

1923, n° 966, alle leggi successive fino all’attuale Codice delle Assicurazioni nella disciplina dell’impresa assicuratrice per garantire il rispetto dei principi tecnici attraverso i quali si realizza quell’ equilibrio, fra massa di rischi e massa di premi, indispensabile perché il delicato meccanismo di cui si tratta possa funzionare e produrre risultati previdenziali voluti.Un impegno, questo che opera sul fronte del diritto pubblico, ma che ha precisi riscontri anche in campo privatistico, dato che la disciplina del contratto di assicurazione, benchè inse-rita nel codice civile in omaggio ai canoni della codificazione napoleonica, tende anch’essa a salvaguardare un equilibrio, fra singolo rischio e premio ad esso riferito, anziché fra massa di rischi e massa di premi, e quindi a garantire non solo il corretto rapporto tra i due contraenti, ma anche l’interesse di un terzo soggetto - la collettività degli assicurati - benché quest’ ultimo non appaia nel paradigma contrattuale.Sempre a norma del menzionato art. 41 e, precisamente, dell’ultimo comma del medesimo, la legge determina i pro-grammi e i controlli opportuni perché l’attività economica possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali. E l’attività assicurativa forma certamente oggetto di programmazione in base ad una precisa disposizione contenuta nella legge 576/1982 (art. 1), per cui il CIPE, su proposta del Ministro dell’Industria:

formula gli indirizzi della politica assicurativa, A) tenendo conto delle esigenze economiche e sociali del paese, nonché degli sviluppi del mercato assi-curativo internazionale, con particolare riferimento all’area della Comunità Economica Europea;

verifica lo stato di attuazione degli indirizzi come B) sopra formulati e indica le misure eventualmente occorrenti per darvi impulso;

esamina la relazione annuale sullo stato della politica C) assicurativa, predisposta dal Ministro predetto.

Anzi, sembra giusto osservare che con ogni probabilità, nell’elaborare il più volte ricordato art. 41 i costituenti pensa-vano proprio all’assicurazione, attività questa che, come rile-vato già nel 1937 dal Lucifredi, era destinataria, insieme con il credito, della più articolata e precisa fra le normative pub-blicistiche inerenti ad attività commerciali, per cui le accen-nate previsioni legislative del 1982 si pongono nell’alveo di una attenzione dei pubblici poteri, per tale attività, risalente a molto tempo addietro. Un rapido sguardo all’architettura costituzionale italiana è sufficiente per individuare il percorso logico seguito dal legislatore costituente che, fissati i principi fondamentali, si è occupato prima dei cittadini (dei quali ha fissato diritti e doveri) e poi dell’ordinamento della Repubblica per l’ovvia considerazione che questa è composta da tali cittadini. E, nell’ambito dei diritti e dei doveri suaccennati, ha preso in considerazione l’uomo: prima, come essere singolo in ordine ai suoi rapporti civili (libertà personale, inviolabilità del domi-cilio, libertà di movimento e di corrispondenza, diritto alla difesa, ecc.) e, successivamente, come essere sociale inserito cioè in una società in cui cresce dal punto di vista educativo, fisico e culturale come titolare di rapporti etico-sociali rela-tivi alla famiglia, alla salute e all’istruzione.Ciò posto, il legislatore costituente ha considerato che

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l’uomo - per vivere, crescere e realizzarsi - ha bisogno di mezzi di sostentamento e quindi si è occupato dei suoi rap-porti economici: tutela e dignità del lavoro, sicurezza sociale, libertà sindacale, iniziativa economica, diritto di proprietà, cooperazione e mutualità.Infine tale legislatore ha ragionato nel senso che, quando un uomo è garantito nei suoi rapporti civili (artt. 13-28 Cost.), viene messo in condizione di crescere socialmente (artt. 29-34) e dispone di mezzi economici per vivere dignitosa-mente (artt. 35-47), è pienamente soddisfatto nelle sue aspet-tative concernenti la vita privata, ma ha bisogno di parteci-pare alla vita pubblica del suo paese, influendo sulle decisioni politiche; da siffatte considerazioni discende la disciplina dei rapporti politici contenuta negli artt. 48 usque ad 54: diritti (di: elettorato attivo e passivo, adesione a partiti politici, petizione alle Camere); doveri (di: difesa della Patria, servi-zio militare, contribuzione alle spese pubbliche, fedeltà alla Repubblica).La nostra ricerca si indirizza quindi intuitivamente al settore dei rapporti economici dove il lavoro, esaltato già nell’art. 1 Cost. in quanto fondamento della Repubblica, viene contor-nato da tutta una serie di garanzie, tutele e provvidenze fino a diventare (art. 46) strumento di elevazione economica e sociale, attraverso una possibile partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende. Ma il lavoro viene anche messo in logica (benché tacita) con-nessione con l’acquisizione della proprietà. Esso infatti è indi-scutibilmente fonte di risparmio e il risparmio è incoraggiato e tutelato dall’articolo 47 che, inoltre, impegna la Repubblica a favorire l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto ed indiretto investimento azionario nei grandi complessi pro-duttivi del paese. La proprietà privata, già riconosciuta e garantita in linea gene-rale a norma dell’art. 42, riceve - quando è frutto di rinunce e di sacrifici, quando come si suol dire è sudata - un’ulteriore attestato di legittimità, di dignità, di (vorremmo dire) nobiltà democratica. E in tal modo conferisce, sia pure indirettamente, una peculiare dignità costituzionale all’assicurazione privata, dato che è questa a tutelare la proprietà, sia quella aziendale sia quella individuale e familiare. Come già accennato, infatti, la proprietà viene messa in pericolo da fatti materiali o legali che, però, possono essere opportunamente neutralizzati, sul piano economico, dall’assicurazione: contro l’incendio, contro il furto, sulla responsabilità civile e così via. Anche l’infortunio che pregiudica la capacità di guadagno, specie se non viene fronteggiato o se è fronteggiato solo in parte dalla previdenza pubblica, costituisce una minaccia per la proprietà e per il risparmio perché può portare all’azzeramento di entrambi e addirittura all’indebitamento dell’infortunato e della sua fami-glia: anche in questo caso, si può trovare nell’assicurazione un efficace rimedio. Rischiando di cadere in un gioco di parole si può dire che, tutelando la proprietà individuale e familiare (di quella aziendale abbiamo già detto), l’assicurazione tutela contemporaneamente anche il risparmio, sia il risparmio già formato e tradotto in proprietà, sia quello in formazione, stante il fatto del tutto evidente che la proprietà produce reddito e che questo, a sua volta, genera risparmio.

5 Particolarmente suggestivo può essere, come anticipato, porre in rapporto il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. con l’assicurazione privata, per evidenziare il correla-tivo riverbero su questa in fatto di dignità costituzionale. Il predetto art. 3, come noto, stabilisce - nel primo comma - che tutti i cittadini “hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Ora è indubbio che una grave disuguaglianza si veri-fica, in occasione di situazioni dannose, fra il cittadino - vit-tima incolpevole, che si trova di fronte un responsabile civile solvibile e del cittadino - vittima incolpevole, danneggiato da chi non abbia mezzi per soddisfare la sua obbligazione risarci-toria. Trattasi di un vero e proprio ostacolo, di ordine econo-mico, che limita l’eguaglianza dei cittadini e che può impedire il pieno sviluppo della persona umana: si pensi al portatore di grave invalidità, non solo impossibilitato a svolgere qualsiasi proficua attività, ma bisognoso di cure e di assistenza; in man-canza di un adeguato risarcimento, egli rischierebbe l’emar-ginazione, appena attenuata dalle prestazioni assistenziali di legge, nella vita familiare e sociale.Lo Stato, cui compete di rimuovere tale ostacolo traducen-tesi in un grave problema di sicurezza sociale, viene così a trovarsi di fronte al dilemma: o creare istituzioni atte a risol-vere siffatto problema (con costi di elevatezza facilmente immaginabile) o inventare un’altra soluzione. E tale altra soluzione è occasionata proprio dall’esistenza dell’assicura-zione privata. Rendendo obbligatorie determinate assicura-zioni della responsabilità civile si viene, infatti, a sostituire al debitore naturale (responsabile, che può essere insolvente) un debitore legale (l’assicuratore, ossia un soggetto solvi-bile). Abbiamo citato l’esempio della R. C. Auto e Natanti, ed abbiamo anche fatto cenno alle altre assicurazioni obbligato-rie o di interesse collettivo (secondo la locuzione recepita anche dalla legge 990/1969) presenti nell’ordinamento. Ma va detto che l’assicuratore, oltre ad essere un debitore legale, è anche un debitore “professionale” perché esercita “professio-nalmente” la sua attività. E questo contribuisce certamente a fare sì che i danneggiati vengano trattati allo stesso modo e che, perciò, l’uguaglianza di cui all’articolo 3 Cost. sia effet-tiva. Due responsabili, anche se entrambi solvibili, reagiscono diversamente di fronte alle richieste risarcitorie dei danneg-giati: c’è quello più taccagno e propenso alla lite e quello più magnanimo e conciliante; c’è quello più ostinato sul piano dei principi e quello più liberale se non altro per ragioni di quieto vivere. Le compagnie di assicurazioni, invece, sono imprese che applicano tutte gli stessi criteri di valutazione dell’an e del quantum, della responsabilità e dell’entità del danno, che non risentono - nel loro operare - dell’interpretazione soggettiva di fatti, della passionalità di chi li ha vissuti personalmente e così via. Può esservi la compagnia più corretta e quella meno corretta, questo è vero, ma è vero pure che, se lo Stato è in grado di fare rispettare le sue norme, tali differenze devono ridursi al minimo. Del resto, l’ISVAP è stato creato proprio per rendere più incisiva l’opera di vigilanza precedentemente affidata al Ministero dell’Industria.

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6 Il contratto di assicurazione, dunque, ha 640 anni e non li dimostra perché lì ha vissuti con grande intensità e vitalità seguendo un trend crescente, e non decrescente come è avvenuto per altri contratti che, fatto il loro tempo, sono oggi conosciuti –dall’ enfiteusi alla soccida o alla mez-zadria -come reliquati storici. Questo perché è l’assicura-zione a non avere davanti a sé un tempo limitato, stante il suo destino di “accompagnatrice” della società, sempre e con sempre maggior vigore, nel soddisfacimento del bisogno di sicurezza, posto dal sociologo americano Maslow ai primi posti (al secondo, per l’esattezza, subito dopo il bisogno di sussistenza) della sua famosa “scala” delle necessità avvertita dall’uomo. Il riconoscimento giuridico del contratto di assicu-razione, infatti, ha sortito un grande effetto di trascinamento in tema di codificazione di altre leggi, in materia assicura-tiva, da elencare per extenso, almeno nel caso di Genova, in ordine a quanto fece seguito al decreto del Doge Adorno. Trattasi delle seguenti normative:

De non assecurandis navigis in darsena; 1) De assecuramentis non faciendis ;2) Cassatio capituli de assecuramentis non faciendis. 3) Item quod Januenses possint assecurare et assecu-rare facere, et de assecuramentis tam per patronos quam per partecipes vasorum et alia omnia circa assecuramenta et naufragia quae sequerentur.

Peccato che, i correlativi testi siano andati quasi interamente perduti, ma è sicuro che siano esistiti grazie ad un indice, sti-lato nel cinquecento, venuto alla luce, dopo secoli di oblio, nel ricordato Archivio genovese di San Giorgio, grazie al quale è stato possibile rendere al contratto di assicurazione il pre-sente ricordo non solo quale omaggio ad esso dovuto, ma soprattutto come esortazione a chi “chiede” assicurazioni (gli utenti del servizio assicurativo, ma anche i loro patroni ed i giudici che decidono sulle istanze di quest’ultimi) a non compromettere il delicato meccanismo dell’assicurazione con abusi, esagerazioni ed estremizzazioni. Ed anche come stimolo a chi “offre” assicurazioni (imprenditoria assicurativa con il corollario di manager, collaboratori dipendenti ed inter-mediari) a lavorare, ancora, sempre e comunque con profes-sionalità adeguata, senza cercare scorciatoie più o meno pre-testuosamente motivate con spinte provenienti dalla libertà di concorrenza e di mercato, dalla globalizzazione e così via.Il contesto globalizzato, infatti, è solo la realtà da affrontare quotidianamente davanti alla quale si deve migliorare il livello professionale degli operatori, non giustificarne l’abbassa-mento, magari intenzionale, per miopi calcoli di lesina sulle spese di gestione dell’impresa assicuratrice. Il risparmio sta bene, ma non quando può produrre regresso, al posto di un progresso durato, nella fattispecie, per – come si è detto – per ben 640 anni ininterrotti.

Bibliografia essenzialeCesare Vivante, Il contratto di assicurazione, Milano 1) 1885-1890;Alberto Asquimi, Diritto Pubblico e Diritto Privato 2) nell’andamento delle assicurazioni, in Scritti giuri-dici, Vol I, Padova 1936;

Antigono Donati, Trattato di Diritto delle Assicura-3) zioni, Milano 1952-1954-1956 (Voll. I,II,III);Luciano Sonzin, Storia dell’assicurazione (parte A) 4) sui primordi e su alcuni sviluppi dell’assicurazione in Italia, in Quaderni 1-2-3 (Ristampa del 1953) dell’Isi-tuto Per Gli Studi Assicurativi di Trieste;Bruno Cardani, L’assicurazione privata nell’ordina-5) mento giuridico italiano, Padova 1992

ABSTRACTA compiere 640 anni è il contratto di assicurazione che, riconosciuto per la prima volta juris et de jure mediante un decreto dell’ illuminato Doge genovese Gabriele Adorno, eli-minò il sottobosco di ambiguità e di abusi che circondava l’as-sicurazione e la fece decollare con incalcolabili riflessi positivi in campo economico sociale.

Ciò anche con effetti di trascinamento, immediato e succes-sivo, in materia di codificazione di tutte le altre normative di carattere assicurativo, in una dimensione italiana ed interna-zionale.

In tutto questo sta il “segreto” dell’eterna giovinezza del con-tratto di assicurazione che, infatti, dopo quasi sei secoli e mezzo non da segni di stanchezza né di senilità.

Una riprova può essere cercata, come qui è stato fatto, nel correlare l’assicurazione e la sua peculiarità tecnica di indu-stria (che produce sicurezza) sommata al correlativo servi-zio di diffusione ed utilizzazione, con la Costituzione italiana: articoli 38,41,42 e 3. Sì anche con l’articolo 3, poiché biso-gna tener conto del fatto che l’assicurazione contribuisce a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale alla realizzazione del principio di uguaglianza ivi sancito.

L’augurio è che si prosegua così, per cui bisogna continuare a lavorare con professionalità adeguata, senza cercare scor-ciatoie più o meno pretestuosamente motivate con spinte provenienti dalla libertà di concorrenza e di mercato, dalla globalizzazione e così via.Il contesto globalizzato, infatti, è solo la realtà da affrontare quotidianamente davanti alla quale si deve migliorare il livello professionale degli operatori, non giustificarne l’abbassa-mento, magari intenzionale, per miopi calcoli di lesina sulle spese di gestione dell’impresa assicuratrice. Il risparmio sta bene, ma non quando può produrre regresso, al posto di un progresso durato, nella fattispecie, per – come si è detto – per ben 640 anni ininterrotti.

Lorenzo CardaniSusanna Cardani1

1 Dottoressa in Scienze Politiche e Consulente Assicurativa in Parma

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Come è noto quella che doveva essere la prima riforma istituzionale dell’attuale governo – l’emanazione di un codice del processo amministrativo i cui principi innovativi erano stati tracciati da una legge delega elaborata dalla stessa Presidenza del Consiglio - si è trasformata, cammin facendo, in un atto di retroguardia. Un anonimo sforbiciatore, che ha affermato di agire in nome del Ministro del Tesoro per contenere un possibile aumento della spesa pubblica, ha surrettiziamente mutilato il testo predisposto da una apposita commissione costituita in esecuzione della legge delega presso il Consiglio di Stato e ci ha aggiunto qualcosa di suo per trasformare, quel che doveva essere un processo paritario, in una sorta di giustizia domestica preunitaria. Insomma un qualcosa di più arretrato rispetto al discorso di inaugurazione della IV Sezione del Consiglio di Stato scritto da Silvio Spaventa verso la fine dell’Ottocento.

All’annuncio del “codice mutilato” a qualcuno sarà venuto in mente che uno “scherzo” del genere (quello di intervenire sul testo di una legge alla chetichella in violazione delle decisioni degli organi competenti) lo avevano fatto anche a Bismarck a proposito della c.d. legge sui Gesuiti.

Bismarck prima si arrabbiò ferocemente. Non si sa se fu in quell’occasione che pronunciò la famosa frase (quasi certamente inventata dagli storici): “questa notte non ho dormito, ho odiato”. Quel che è certo è che, dopo aver odiato, pensò di correre ai ripari rivolgendosi per le contromosse ad un brillante giurista di una università di frontiera (sapeva persino leggere l’italiano …), già noto per le sue propensioni filo imperiali, il quale, per soddisfare la richiesta di Bismarck, elaborò la nota, e dopo di lui ovvia, teoria che anche le leggi possono essere affette da vizi ….

Con un po’ di fantasia possiamo immaginare quali potrebbero essere le applicazioni delle elucubrazioni elaborate da Laband nel suo viaggio da Strasburgo a Berlino al nostro “scherzo”. Proviamo a farlo viaggiare da Strasburgo a Roma.

In primo luogo potrebbe osservare che manca il necessario parere del Consiglio di Stato. Nel caso si era ritenuto di pretermettere il parere del Consiglio di Stato perché l’elaborazione del disegno di legge era stato affidato dalla legge di delegazione allo stesso Consiglio di Stato. Ma se, dopo la sforbiciata e i ritocchi dell’anonimo, il disegno di legge ha profondamente cambiato le sue caratteristiche, il progetto di codice doveva essere sottoposto al parere del Consiglio di Stato, così come se fosse stato elaborato autonomamente dalla Presidenza del Consiglio o da qualche altra Commissione comunque costituita presso qualche organo governativo. Va da sé che un eventuale parere dell’Adunanza Generale del Consiglio di Stato difficilmente potrebbe andare di diverso avviso rispetto al progetto di codice redatto da una commissione presieduta dallo stesso Presidente del Consiglio di Stato.

Anche se l’anonimo sforbiciatore facesse parte, come è probabile, dell’Adunanza Generale difficilmente oserebbe venire allo scoperto … o risultare persuasivo nei confronti dell’intero Collegio ….

Ma al di là del vizio procedurale il nostro viaggiatore già prima di arrivare a Roma potrebbe arrivare alla conclusione che i tagli giustificati da presunti risparmi sulla spesa pubblica sono pretestuosi, se non addirittura controproducenti, proprio con riferimento ai presunti risparmi di spesa … sempre che Bismarck e i suoi amici diano retta alle sue controindicazioni ….

La legge delegata approvata dal Consiglio dei Ministri ha ridotto a 120 giorni il termine utile per chiedere al giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva, il risarcimento del danno nei confronti di pubbliche amministrazioni.

Il termine previsto, nell’intento di rendere le azioni di responsabilità nei confronti della Pubblica Amministrazione praticamente impossibili, è palesemente un termine di decadenza. Ma i diritti, e certamente il diritto al risarcimento del danno è un diritto garantito dalla Costituzione e dalla Convenzione sui diritti dell’uomo, sono sottoposti a termini di prescrizione. La prescrizione può essere ridotta, la c.d. praescriptio brevis, ma non eliminata a favore della decadenza. Ne segue che, al di là di quel che c’è scritto nel progetto di codice, qualunque danneggiato potrà sempre rivolgersi, entro il termine di prescrizione, al giudice ordinario per chiedere il risarcimento del danno. Ed è quello che immediatamente farebbero gli avvocati amici di Bismarck rivolgendosi alla Corte di Cassazione e, se non bastasse, alla Corte di giustizia per i diritti dell’uomo, che, come è noto, ha sede nella stazione di partenza del nostro immaginario viaggiatore. Col risultato che al posto della dicotomia oggi esistente che si vorrebbe evitare (giurisdizione del giudice amministrativo assieme all’annullamento dell’atto; giurisdizione generale aggiuntiva del giudice ordinario) avremmo una tricotomia (giurisdizione del giudice amministrativo in uno con l’annullamento; giurisdizione del giudice amministrativo entro 120 giorni dal fatto dannoso e giurisdizione del giudice ordinario entro il termine quinquennale di prescrizione). Con quale risparmio per la spesa pubblica è facile immaginare ….

L’anonimo ha anche sforbiciato le azioni di accertamento e di adempimento.

Per l’azione di accertamento poco male. La giurisprudenza ne ha riconosciuto la praticabilità. Basta camuffarla da azione di annullamento e si ottiene lo stesso risultato. Sempre che i giudici, come è più che probabile, continuino nello stesso indirizzo anche dopo l’emanazione di un eventuale codice ridotto a testo unico “striminzito”.

Per quanto riguarda l’azione di adempimento (cioè il soddisfacimento della pretesa del cittadino ad ottenere un determinato provvedimento amministrativo) l’anonimo potatore non si è accorto che esiste già, o forse lo sapeva

In vIaggIo con Laband …

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benissimo, ma ha evitato un ulteriore taglio per non toccare una corrente elettrica ad alta tensione, quella della Corte di Giustizia della Comunità europea.

L’azione di adempimento è prevista, sia pur con espressioni un po’ contorte, nel TUB (Testo Unico Bancario) in attuazione di una direttiva comunitaria a proposito delle autorizzazioni a presupposto vincolato, come sono ormai tutte le autorizzazioni disciplinate da direttive comunitarie. L’azione di adempimento è pertanto estensibile a casi similari in cui esistono tutti i presupposti per emanare un provvedimento che l’amministrazione non ha voluto emanare, non solo in base alla analogia con la previsione del TUB, ma in applicazione di un principio generale comunitario, un principio che, come tutti i principi generali comunitari, penetra obbligatoriamente nel nostro ordinamento in base all’art. 1 della legge sul procedimento amministrativo.

In altre parole basta fare un po’ di pressing sui giudici amministrativi, magari con l’ausilio della Corte di Giustizia Europea, e alla azione di adempimento ci si arriva lo stesso anche se l’emanando codice non ne parlasse.

Una sforbiciata dell’anonimo ha invece a che fare con la spesa pubblica, anche se l’effetto della sforbiciata potrebbe essere controproducente.

Sono state abolite le sezioni stralcio per l’eliminazione dell’arretrato ultraquinquennale che avrebbero comportato qualche modesta indennità a favore dei membri dei collegi straordinari.

Ma anche qui il nostro viaggiatore potrebbe avere l’antidoto. La mancanza di giustizia non è solo una manifestazione di inefficienza dello Stato, ma è anche, e direi soprattutto, una violazione di un diritto fondamentale del cittadino.

La sforbiciata dell’anonimo potrebbe determinare una reazione un po’ più costosa del risparmio indennitario sperato. Le associazioni di categoria degli avvocati potrebbero invitare i loro iscritti ad inondare la Corte di Giustizia per i diritti dell’uomo (sempre quella della stazione di partenza del viaggiatore) di ricorsi per la condanna dello Stato italiano per l’eccessiva durata dei ricorsi pendenti di fronte ai giudici amministrativi. Poiché la Corte infligge pene pecuniarie agli Stati, il costo delle sanzioni potrebbe essere alla fine superiore al risparmio sulle indennità.

Rimangono altre sforbiciate e qualche ritocco.L’eliminazione di alcuni principi fondamentali che

dovrebbero caratterizzare il processo come un processo paritario fra lo Stato e il cittadino è facilmente recuperabile dalla dottrina partendo dai principi comunitari e dal diritto vivente. Che il codice non parli di alcuni principi generali, fingendo di far credere che il processo amministrativo italiano sarebbe tornato ad essere un contenzioso amministrativo come quello del Regno delle Due Sicilie, potrebbe tutt’al più ingannare qualche ingenuo comparatista straniero.

Rimangono i ritocchi, una serie di previsioni vessatorie per gli avvocati, cioè per la difesa dei cittadini.

In gran parte sarebbero superabili, come è già accaduto finora con norme simili, attraverso l’accorto potere regolamentare dei singoli presidenti dei tribunali amministrativi.

Rimane naturalmente l’antidoto assoluto: che le Commissioni parlamentari alle quali sarà sottoposto il Codice

deliberato dal Consiglio dei Ministri suggeriscano al Governo di ripristinare, in tutto o in parte, il testo di codice elaborato dalla Commissione nominata presso il Consiglio di Stato.

Conforta sulla possibilità di questa soluzione l’esito del primo viaggio a Berlino: la legge sui gesuiti, dopo le censure di Laband, fu disapplicata ….

Fabio Merusi

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“Lei è un avvocato?”“Io sono un eccellente avvocato”“Cosa la rende eccellente avvocato?”“Amo il diritto”“Cosa le piace del diritto?”“Molte cose …. cosa mi piace più del diritto ?”“S씓Il fatto che ogni tanto, non sempre, ma a volte, diventi parte della giustizia. La giustizia applicata alla vita.” (sequenza finale del film “Philadelphia” di Jerom Demme, 1993)

La nuova trincea dell’Avv. GuerrieriLa scrittura è sempre asciutta e precisa, colta ed arguta; disvela la professionalità dello scrittore e del protagonista, nutrita da un substrato di mirate letture giovanili.La colonna sonora è ancora una volta rock, ma evocata, non martellante e in presa diretta, come nell’ “Almost Blue” di Lucarelli.Scorrono i titoli di film cult, gli attori e i registi, nei gioiosi giuochi intellettuali dell’autore e del suo protagonista. Si recita la sequenza finale del film “Philadelphia”, compare nel sottotitolo di questa rubrica.Ritroviamo le surreali conversazioni con Mister Sacco di boxe, su cui il primo attore scarica tensioni e pulsioni.La città è quella consueta e congeniale: una Bari mutata, un intreccio di affari, favori sessuali e politica. Ne avevamo sentito parlare.È una città in cui il protagonista si avventura in periferie semideserte e in locali ambigui, lì intrattiene lunghe notturne conversazioni con una ex sua assistita, già imputata per favoreggiamento della prostituzione e da lui fatta assolvere, una donna sensibile e fascinosa che ha cambiato vita.Istanti di provvisoria perfezione, di sospesa felicità!Se non si fosse capito, sto parlando dell’ultimo racconto di un Magistrato P.M., ora Senatore della Repubblica: Gianrico Carofiglio “Le perfezioni provvisorie” – Ed. Sellerio, 2009. Il protagonista, l’Avv. Guido Guerrieri, cambia trincea, assume le vesti del detective: deve indagare sulla scomparsa di una studentessa universitaria prima che il caso venga archiviato.Che vale ripercorrerne le tracce? Basterà dire che l’esito sarà un nuovo successo dell’Avv. Guerrieri, ma la scoperta sarà agghiacciante.Il racconto si dipana come uno smaliziato poliziesco psicologico, ove il detective non mancherà di usare i ferri del suo mestiere di avvocato penalista.

E come in molti “gialli” si insinua la tentazione femminile nelle forme di una ragazza procace e provocante … ma per secondi fini. Era successo anche a Montalbano.Se ricordate “Ragionevoli dubbi” l’avv. Guerrieri non è nuovo a tali avventure, ma quella era una storia importante, tuttavia “provvisoria”, proprio come le odierne “perfezioni”.Guerrieri la respingerà finché sarà possibile, controllando gli istinti naturali, come deve un serio avvocato, anche se propriamente non nell’esercizio della professione, bensì da investigatore privato.Chiave di lettura: se volete conservare segreti peccaminosi, usate due cellulari, uno ufficiale per la generalità degli interlocutori, l’altro, clandestino, solo per i complici. Ma fate attenzione. Che non abbia ad accadere che telefonate del tutto normali e scontate manchino sui tabulati del telefonino “innocente”. Significherà che certe notizie le avrete apprese o comunicate su un altro, e ne sarà scoperta l’esistenza. E pure il colpevole.

Cronache dal Foro Parmense primi anni 80: l’atto emulativo e il Monsignore.

Oggi la giurisprudenza è assai incline alla applicazione dei principi di correttezza e buona fede. Dal solidarismo, sancito dall’art. 2 Cost., agli artt. 1366, 1175, 1374 e 1375 sui criteri di interpretazione, integrazione ed esecuzione dei contratti e delle obbligazioni, di cui sono onerati anche i creditori, all’art. 833 c.c. che vieta espressamente ai proprietari atti che “non abbiano altro scopo che quello di nuocere o recare molestia ad altri”1.Due volte di questi principi ho avuto esperienza professionale, l’una nei primi anni ‘80, l’altra, recentissima, anno 2008. In entrambi i casi lo scrivente venne colto quasi di sorpresa, la prima con esito negativo, la seconda favorevole. Lo scenario del primo episodio processuale è quello di un’allora Pretura foranea, protagonisti ed avversari un noto Monsignore, mio cliente, ed una ex levatrice, conosciutissima per aver fatto nascere generazioni di bambini in un grosso centro appenninico. I due erano proprietari di fondi confinanti, e la vicinanza non era mai stata serena, Monsignore piuttosto attento agli affari di Curia e suoi propri, la levatrice una di quelle persone che si sveglia ogni mattina ponendosi un problema di legittimazione passiva: oggi con chi litigo? Quella volta lo spunto venne offerto da un alberello

1 Sul tema la recentissima Cass. 18.09.2009 n. 20106: “L’abuso del diritto non presuppone una violazione in senso for-male, ma si configura, al contrario, ogni qual volta il titolare di un diritto soggettivo, potendo esercitare le facoltà connesse a tale situazione giuridica secondo modalità non rigidamente predetermi-nate, scelga di esercitarlo in maniera alterata dallo schema formale ad esso riconducibile, ossia finalizzando il suo esercizio al conse-guimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli delineati dal legislatore”.

Segnali di fumo

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piuttosto brutto e ritorto (questa sarà la chiave di volta finale della controversia) che Monsignore non piantò di suo genio e volontà, ma nacque sul suo fondo per inseminazione anemofila.E poiché l’art. 894 c.c. parla di alberi “che sono piantati o nascono a distanze minori” a quella legale, ne segue che anche il rachitico alberello che si era insediato sul fondo di Monsignore era astrattamente estirpabile per ordine giudiziale.Ma l’ecclesiastico doveva stare tranquillo, l’albero intruso era al di là dei limiti di legge.Comparizione delle parti per tentativo di conciliazione. L’ostetrica in udienza non si tace un momento e al pacioso giovane pretore ostende un pacchetto di lettere inviatele dal degno sacerdote, che le minacciava le fiamme dell’inferno.Il buon Pretore era un cattolico doc, tutt’altro che chiesolante, di quelli sensibili al sociale. Come reagisce? Prevale in lui l’impulso dell’ortodossia e ammonisce il nostro cliente con il ditino appena levato: “Monsignore, queste cose non si fanno!” Si capì che l’aria era cambiata. Ne fu conferma la sentenza. L’albero è nato nel rispetto delle distanze di legge, ma poiché è brutto, informe, storto, al punto da rovinare il paesaggio, e il proprietario non ha nessun apprezzabile interesse a tenerlo, il suo comportamento non è dettato altro che da animosità e dispetto verso la sua vicina. Così da porre in essere un atto emulativo. Ne viene ordinata l’estirpazione, spese compensate.Il sacerdote non era nato ieri, comprese la lezione morale, non ci stà e va protestare dal Pretore: “Io sono una persona retta, un religioso, non può gettare ombre sul mio operato”. Poi viene convocato dal suo legale, che gli spiega il senso della pronuncia (non c’era bisogno) e lo invita ad abbattere al più presto quello sconcio perché finora le spese erano state compensate, poi quelle dell’esecuzione coattiva toccavano a lui. Monsignore tergiversa, prende tempo e poi incidentalmente butta lì che l’albero lo aveva abbattuto nottetempo, nel corso del giudizio. I montanari non amano apparire soccombenti, specie in queste liti di vicinato. I legali e il Giudice avevano lavorato a vuoto, quando era già cessata la materia del contendere. Non finì lì perché l’illustre ecclesiastico si rivolse con un esposto all’ “amico” Ministro della Giustizia Sen. Martinazzoli. L’istanza, ovviamente, si perse nel tempo.Amara conclusione: la definizione giudiziale del corretto e leale comportamento delle parti nonché dell’atto emulativo è cagione di esasperazione anziché di pacificazione degli animi. Come accadrà anche nel secondo episodio.Ma una cosa è il Monsignore imprigionato nel ferreo rigore del diritto canonico, che non legge con il dovuto sentimento le encicliche sociali, altra è la seconda esperienza professionale, che tuttavia non mi è dato di portare alla vostra conoscenza in quanto si tratta di un capitoletto che ho riservato in esclusiva (proprio così) ai miei colleghi marchigiani, che ne faranno oggetto di un “forum piceno” sulla volontaria giurisdizione. Si tratta di un testo più tecnico, ancorchè ravvivato dalla presenza di personaggi manzoniani …. in “abbondianza” .Se vi dovesse pungere vaghezza di curiosare potete cliccare sul sito

internet della rivista “ Diritto e lavoro nelle Marche” n° 3-4 del 2009 pag 77 e segg. consultabile su internet all’indirizzo www.csdn.it. Inteligenti pauca.

Princìpi e regole nello Stato Costituzionale

Con “Intorno alla legge” – sottotitolo “il diritto come dimensione del vivere comune “- Einaudi ed. 2009, Gustavo Zagrebelsky affida ad una molteplicità di saggi, tutti collegati da un filo comune, le sue riflessioni sulla giustizia e sullo Stato Costituzionale, che avevano visto la luce nella precedente opera “ Il diritto mite” – ed. Einaudi 1992, ed ora sono articolate e arricchite in una prospettiva più ampia e matura. L’interesse delle pagine dell’A. si nutre della prestigiosa cultura del costituzionalista, alla quale si congiunge, per vicinanza disciplinare, quella dello studioso della filosofia del diritto, secondo una linea di continuità della tradizione torinese, risalente a Norberto Bobbio.Trattasi di saggi che, nel buio politico che oggi incombe sulla nostra Costituzione, orientano gli smarriti cittadini al cospetto di tendenze che si dichiarano riformatrici, ma in realtà sono eversive, dettate da disegni asseritamente efficientistici, ed invece strumentali alla nostra trasformazione in una società di sudditi che credono di essere sovrani. Gli operatori del diritto sono i primi onerati a prenderne conoscenza anche in relazione alle loro esperienze professionali, e a curarne la diffusione, sollevando il capo dalle loro carte.Gli elementi fondanti di cui l’A. riprende la trattazione della prima opera sono la distinzione tra lo Stato di diritto e lo Stato Costituzionale, e la normazione per princìpi o per regole, tra iura e lex, la separazione dei diritti, costituzionalizzati, di libertà e di giustizia, dalla legge.Le scienza giuridica dell’Ottocento non era riuscita ad andare al di là della c.d. teoria dei “ diritti pubblici soggettivi”: solo lo Stato come Amministrazione pubblica era sottoposto alla legge al pari dei privati, lo Stato come legislatore era padrone della legge e non poteva perciò esserne oggetto. Pertanto i diritti non potevano che essere concepiti altro che come concessione.Dopo il secondo dopoguerra il compito delle Costituzioni contemporanee sta nella capitale distinzione tra la legge, come “regola” posta dal legislatore, da un lato, e i principi valoriali di libertà e giustizia come costituzionalizzati, dall’altro. Il legislatore non è più sovrano assoluto poiché, separati e al di sopra della lex, ci sono i princìpi, al cui vaglio la stessa lex è sottoposta dai Tribunali costituzionali. Il diritto per princìpi è espresso normalmente in norme costituzionali e per loro natura non prevedono fattispecie legali, diversamente le regole sono poste in norme legislative per dirimere situazioni paradigmatiche. Solo queste ultime sono cogenti, le prime vivono in uno stato di non programmato coordinamento.Tale assetto costituzionale è proprio delle società pluralistiche, come quelle odierne, ove ciascuna tendenza politica e culturale conferisce al dettato della Carta i propri principi

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valoriali (liberali, socialisti, cattolici, mazziniani etcc..). Tanto accade più facilmente all’indomani di un rivolgimento sociale e politico, quando le varie forze sono sullo stesso piano di attesa e di incertezza sugli equilibri futuri.Il compromesso tra princìpi si riflette nell’opera dei giudici costituzionali, che dovranno “bilanciarli” nell’applicazione al caso concreto, nella verifica della legittimità della lex scrutinata. Così l’A.: “Le regole esigono un’ applicazione integrale, i princìpi, invece, possono essere relativizzati, gli uni nei confronti degli altri, attraverso la loro ‘ponderazione’, il loro bilanciamento”. Ed ancora: “L’essenziale è appunto questo: che nelle costituzioni pluralistiche, di regola, sono inseriti princìpi universali, l’uno accanto all’altro, secondo le pretese avanzate dalle parti, ma mancano la discplina delle compatibilità, la soluzione delle “collisioni” e la fissazione dei punti di equilibrio”.Mancano le regolette secondo cui ad es. ‘lex specialis derogat generali’, valida per le norme di legge , manca una gerarchia prefissata. Nulla a che vedere con i criteri di interpretazione all’interno del sistema della legislazione ordinaria, dalla discrezionalità vincolata. Eppure qualche volta addirittura il diritto si espone, per così dire, senza difese, al suo intendimento conforme alle esigenze del caso. “Ciò avviene significativamente con le norme ‘elastiche’ o ‘aperte’, quelle cioè che utilizzano le c.d. ‘clausole generali’, croce di ogni concezione strettamente positivistica del diritto e della funzione giudiziaria, e delizia di ogni suo critico. Quando si esprime in questo modo (‘buon costume’, ‘buona fede’, ‘buon padre di famiglia’, ‘interesse pubblico’, ‘equi rapporti sociali’, etc.) è il legislatore stesso che dichiara la propria impotenza in vista di un‘applicazione preventivata e che autorizza espressamente i casi e le loro esigenze a farsi largo per ottenere il riconoscimento”.Diversamente che nella interpretazione della legge ordinaria, agisce il pendolo tra princìpi contrapposti collocati negli iura costituzionali, in specie quando si tratta di casi critici che implicano valutazioni che toccano argomenti come la vita (il concepimento, la gestazione, l’aborto etc.), la morte (l’eutanasia, ad es.) e la salute (i trapianti, l’ingegneria genetica), la bioetica in genere o lo stato delle persone (a cominciare dalle questioni legate alle adozioni e all’affidamento del figli minori etc.).Esempi di principi divergenti che i giudici costituzionali debbono conciliare: “ l’uguaglianza tra i coniugi e la garanzia dell’unità della famiglia; la certezza degli status personali e l’accertabilità della paternità e maternità naturali; la tutela della salute della donna e della vita del nascituro, nel caso di aborto; la libertà d’impresa e la tutela del consumatore; la proprietà privata e i diritti nei soggetti deboli, come i coltivatori della terra o i locatori di appartamenti; la libertà di organizzazione dell’impresa, le condizioni di sicurezza dei lavoratori e il diritto al lavoro di soggetti handicappati, di cui è obbligatoria l’assunzione in quote prestabilite; la garanzia della difesa nel processo e la funzionalità del processo stesso rispetto ai suoi fini, la libertà di cronaca e la dignità della persona; la tutela della privacy e delle intercettazioni di comunicazioni disposte per la prevenzione e la repressione dei reati; il pluralismo dei media e il diritto di impresa degli

investitori nel settore”. Sono questi alcuni dei princìpi costituzionali in tensione tra loro e già esistenti prima della Carta: sono gli iura un tempo non scritti, che nell’Atene del V secolo vedevano in contrasto il diritto di Antigone con la legge di Creonte, cui segui l’assoluta prevalenza della lex soprattutto con la Rivoluzione e la Restaurazione.Guai, però, avverte Zagrebelsky, se iura e lex cadono nelle mani dello stesso potere: “invece di operare in tensione l’uno con l’altro e fare così da contrappeso critico l’uno dell’altro, operano l’uno come sostegno e moltiplicatore dell’altro. Quando, ad es., vennero varate le leggi razziali in Germania ed in Italia, non si trattò affatto di un imposizione della forza ma di un’operazione a largo raggio che scavava nel profondo, toccando sentimenti, risentimenti, teorie pseudo scientifiche, storiche e sociali che i regimi totalitari alimentavano e mobilitavano a loro vantaggio, come ius del popolo tedesco”. Si può oggi chiosare che quando il populismo inquina la democrazia il rappresentante si specchia nel rappresentato, e non sai più quale sia l’originale.

Nella pendolare elezione del principio da applicare al caso contemplato dalla legge scrutinata i giudici costituzionali riconducono all’unità il diritto, ius e lex, e il loro sforzo si concentra “nel determinare ciò che c’è ‘intorno alla legge’, dove stanno concezioni e convinzioni circa le relazioni sociali in cui la legge stessa è collocata e da cui dipende, e questa determinazione non è lo scontro di volontà o arbìtri soggettivi, ma l’onesta ricerca comune di una sostanza che non è nella legge ma, ciò non di meno non dipende da opinioni soggettive e, quindi, non è il tentativo di prevaricazione della volontà degli uni su quella degli altri, necessariamente in nome della forza”. Il diritto mite nasce dalla composizione, non dal conflitto dei princípi.Le esperienze novennali dell’autore sul “come giudicano“ i giudici costituzionali, alla ricerca di un consenso unificante, sono esemplari dell’orientamento propugnato. Come pure è significativa l’avversione verso la eccessiva sostituzione della Corte rispetto ai poteri del legislatore attraverso sentenze manipolatrici, innovative o sostitutive, che attentano al principio della divisione dei poteri. In conclusione secondo l’autore “I grandi problemi del diritto non stanno mai nelle costituzioni, nei codici, nelle leggi, nelle decisioni dei giudici o in altri simili espressioni di diritto positivo con le quali i giuristi hanno a che fare né mai hanno trovato la loro soluzione, Occorre risalire a qualcosa che sta al di là e viene prima. Solo questo, che non sta nella legge, ma intorno o prima della legge, merita la nostra attenzione. Quello che sta nella legge, lo dobbiamo riconoscere come legulei ma, come giuristi, non esercita su di noi la stessa attrazione e non mette in gioco nella stessa misura la nostra responsabilità”. Come si colloca questo orientamento nell’eterna dialettica giusnaturalismo-positivismo giuridico? Secondo Zagrebelsky “I principi stabiliti dalla Costituzione non sono certo diritto naturale. Essi, al contrario, rappresentano il massimo atto di orgoglio del diritto positivo , in quanto

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costituiscono il tentativo di ‘positivizzare’ quel che, per secoli, si era considerato appannaggio del diritto naturale, appunto la determinazione della giustizia e dei diritti umani”.Infatti, la costituzione è una determinazione storico-politica, non il semplice rispecchiamento di un superiore ordine naturale, intangibile dalla volontà e dall’evolversi della coscienza umana.Come dire che, nel firmamento dei princìpi, assurti dal basso, dalle convivenze civili, questi brillano come tante stelle polari ad orientamento non univoco.

Per tutte queste ragioni lo ius costituzionale prevale sulla lex ordinaria perché il primo è il diritto della stabilità, e la stabiltà prevale sulla volatilità della manifestazioni occasionali di potere espresse con legge. Altra questione è quella della mobilità della giurisprudenza costituzionale nel giudizio sulle leggi, se essa può dirsi in qualche modo creativa, e in quale misura, e se il precedente abbia una valenza vincolante. La risposta, sotto quest’ultimo aspetto, è certamente negativa. Quante volte l’eccezione di incostituzionalità di una data legge è stata respinta e poi, inaspettatamente, è sortita una sentenza di accoglimento, magari sotto diversi profili di illegittimità? Oppure medesime pronunce su leggi di simile struttura hanno accolto eccezioni identiche sulla base di una motivazione diversa, più ampia o radicale (vedasi il lodo Alfano)? Zagrebelsky è ancora una volta molto prudente nell’ammettere tale creatività “La giurisprudenza costituzionale, nel giudizio sulle leggi, è garanzia del diritto nella sua interezza, ciò è dire della sua duplice natura di ius e lex. Se essa, così spesso, ci appare creativa di diritto, è solo perché il nostro punto di vista è, malgrado tutto, ancora un punto di vista parziale, ancorato all’identificazione del diritto con la legge. Una volta che la prospettiva cambi e si arrichisca, la creatività , sempre sospetta agli occhi del positivista legalista, cederebbe il passo alla più adeguata idea della costruzione del diritto come realtà complessa, un‘idea alla quale ancora molto occorre lavorare, affinchè entri a far parte dei presupposti del nostro essere giuristi, nel tempo dello Stato costituzionale”.

La prudente “mobilità” del diritto giurisprudenziale prodotto dal Giudice delle leggi richiama la recente riforma del processo civile per ricavarne segni di analogia e di difformità. Come è noto il legislatore, per contenere l’inflazione e la durata dei processi civili, ha introdotto l’art. 360 bis c.p.c (che viene a coniugarsi, per le stesse finalità, con l’art 375 comma 1 n. 5 c.p.c.) Per tale disposto la giurisprudenza vivente fa da sbarramento - affidato allo scrutinio della Sezione filtro - alle impugnazioni, salvo che non si adducano “ elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa” Si è detto che trattasi di un giudizio solo nominalmente di ammissibilità, in realtà è un giudizio di merito, sia pure “filtrato” da un percorso di disamina preventiva che può portare ad escludere l’udienza pubblica. Quando si è appuntata l’attenzione sui rapporti tra tale disposto e l’art. 111, 7° comma Cost. si pensò che esso limitasse l’impugnazione prevista per la violazione

di legge, riduttivamente circoscrivendola alla contrarietà alla consolidata giurisprudenza della Corte: con conseguente illegittimità costituzionale della norma.E tuttavia tali conseguenze sono evitate ove si prenda atto che “quando l’art. 111 comma 7 Cost. richiama la ‘legge’, ormai si riferisce a qualcosa di più articolato e complesso che non è soltanto il precetto normativo estrapolabile dal diritto positivo”2. Trattasi , come è chiaro, di un’ immissione di gocce di common low, intesa a rafforzare, attraverso il precedente, il diritto vivente . Ciò non toglie che “ l’interpretazione ‘esatta’ di una norma, nel diritto vivente, è quella che si consolida gradualmente nella giurisprudenza di legittimità, ma che al contempo si tratta, sempre e comunque, di una ‘esattezza relativa’ e migliorabile, perché se il contesto culturale, sociale, economico, etico…. muta (cioè mutano i valori di riferimento) le parti (i consociati) possono indurre la Suprema Corte (evidenziando i nuovi ‘elementi’ di cui parla l’art. 360 bis n. 1 c.p.c.) a mutare il proprio orientamento, cioè a scegliere di ‘ascrivere ‘ un diverso significato a quel medesimo enunciato normativo”.3 Ne segue che l’art. 360 bis, lungi dal ledere diritti costituzionali, valorizza a livello normativo il diritto giurisprudenziale che assurge a parametro su cui valutare la manifesta fondatezza o infondatezza delle censure di legittimità del provvedimento impugnato.Del resto, tornando al tema centrale, per assicurare la tendenziale dinamica uniformità della giurisprudenza, gli Stati costituzionali contemporanei non hanno saputo trovare soluzioni diverse da quella di concentrare avanti ad una unica Corte suprema il vertice del sistema delle impugnazioni. E il 7° comma dell’art. 111, poi, non può “essere considerato isolatamente, ma deve essere interpretato sistematicamente col principio di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, principio enunciato tra i principi fondamentali della nostra Costituzione al primo comma dell’art. 3. Invero, intanto ha senso che la nostra Costituzione abbia costituzionalizzato – unico tra tutti i mezzi di impugnazione – il ricorso per cassazione per violazione di legge, in quanto abbia ritenuto che il ricorso per cassazione fosse funzionale all’attuazione del principio di uguaglianza; e… il principio di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge può essere assicurato solo ove si introduca un idoneo filtro all’accesso in Cassazione”4.

Quanto detto a proposito della “discreta” mobilità della giurisprudenza civile non può però confondersi con i canoni della giurisprudenza costituzionale, nonostante apparenti segni di continuità.Infatti i giudici delle leggi e i giudici ordinari operano su piani diversi. I primi deliberano su leggi e principi, verificando la legittimità delle regole mediante un’equilibrata applicazione

2 Graziosi “Riflessioni in ordine sparso sulla riforma del giudizio in cassazione “ in Riv. Trim. dir. proc. civ. 2010 n° 1 pag. 44.

3 Graziosi, ibidem, pagg. 51-52.4 A. Proto Pisani “Principio d’eguaglianza e ricorso per cassa-zione” in Foro it. 2010 n. 3, 67.

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Avvocato - Tenuta albi - Delibera cancellazione dalle liste dei difensori di ufficio per incompatibilità - Ricorso al CNF - Inammissibilità L’impugnazione avanti il CNF, alla stregua delle previsioni di cui al R.D.L. n. 1578/33 e R.D. n. 37/34 così come interpretate dalla costante giurisprudenza sia di questo Consiglio Nazionale Forense che della Suprema Corte, è ammessa contro le deliberazioni degli ordini locali in materia di iscrizione all’albo o di cancellazione dall’albo, nonché in materia di procedimento disciplinare nei confronti degli iscritti, sicché il ricorso non è consentito in materia attinente ad attività meramente amministrativa, quale è evidentemente la tenuta dell’elenco dei difensori d’ufficio.(Dichiara inammissibile il ricorso avverso decisione C.d.O. di Como, 12 marzo 2006) Cons. Naz. Forense 09-06-2008, n. 56 Pres. PERFETTI - Rel. BASSU - P.M. MARTONE (conf.) - Avv. N.R.

Avvocato - Procedimento disciplinare - Sanzioni disciplinari - Esecutività - Dies a quo. La sanzione disciplinare, salvo che la Suprema Corte non ne disponga in pendenza dell’eventuale ricorso la sospensione dell’esecuzione, inizia a produrre i suoi effetti ex lege dalla data della notificazione della decisione del CNF al professionista, non essendo necessaria l’integrazione della decisione stessa con la determinazione della decorrenza del dies a quo della relativa operatività da parte del CdO che cura la tenuta dell’albo nel quale è iscritto l’incolpato. (Accoglie il ricorso avverso decisione C.d.O. Roma, 1 marzo 2007).Cons. Naz. Forense 22-12-2007, n. 227 Pres. f.f. VERMIGLIO - Rel. CARDONE - P.M. IANNELLI (conf.) - avv. N.S.

Avvocato - Norme deontologiche - Illecito disciplinare - Configurabilità - Dolo o colpa - Irrilevanza. Ai fini della configurabilità dell’illecito disciplinare non sono necessari il dolo o la colpa, ma è sufficiente la sola riferibilità della condotta all’agente, essendo indifferente l’errore o il ritenere che l’atto compiuto non sia professionalmente riprovevole, e risultando altresì irrilevante che il professionista non abbia voluto e nemmeno previsto l’effetto lesivo della propria condotta (nella specie, si trattava della violazione, da parte dell’incolpato, dell’art. 49 c.d.f., la cui portata, ad avviso del CNF, va colta in senso lato, considerando che il riferimento alla “posizione debitoria della controparte” trascende l’ambito caratteristico delle obbligazioni pecuniarie per comprendere ogni comportamento dovuto).

G iur i sprudenza disciplinare

dello ius da privilegiare tra gli iura costituzionali, con il risultato di ricompattare in un unum regole e principi. La prudente autodeterminazione è la guida delle loro decisioni, senza vincoli (filtri) di diritto positivo.I secondi creano anch’essi diritto vivente, ma mediante l’interpretazione ab intus del sistema legislativo, spingendosi, ove occorra, per il principio di conservazione, alla decisione costituzionalmente orientata, e lasciando il passo ai giudici delle leggi ove non si possa forzare l’involucro della legge da applicare secondo ius. Ne esce, complessivamente, un movimento circolare del sistema normativo e giurisprudenziale, che ha la sua fonte primigenia nella dialettica delle convenzioni e delle coscienze sociali, che lo presuppongono storicamente.E’ pur sempre da salvaguardare – secondo Zagrebelsky – il carattere di un organo che “dice” non “crea” il diritto. Il cambiamento deve essere prudente. Vero è che “guai se la giurisprudenza non fosse vivente, cristallizzata: ma lo sviluppo è graduale, per distinzioni ed aggiustamenti progressivi”. Il sistema è delicato e fragile per quanto perfetto sulla Carta, da tenere sotto osservazione a salvaguardia delle striscianti modificazioni della costituzione materiale.

Giacomo Voltattorni

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(Accoglie il ricorso avverso decisione C.d.O. Roma, 22 novembre 2005). Cons. Naz. Forense 22-12-2007, n. 241 Pres. f.f CRICRI’ - Rel. BIANCHI - P.M. IANNELLI (conf.) - avv. P.G.

Avvocato - Norme deontologiche - Testimonianza dell’avvocato. Avvocato - Norme deontologiche - Pluralità violazioni - Sanzione - Misura. Ai sensi dell’art. 58 del Codice Deontologico Forense, l’avvocato, qualora intenda deporre quale testimone, deve dimettere il mandato senza poi poterlo riassumere, al fine di impedire quella immedesimazione nella lite che inevitabilmente si configurerebbe laddove l’avvocato difensore fosse anche teste e poi riassumesse la qualità di difensore, così confondendo un ruolo soggettivo di difesa con una funzione oggettiva di testimonianza.

Il procedimento disciplinare comporta un giudizio complessivo sulla condotta dell’incolpato, al quale va irrogata una unica sanzione, la maggiore assorbendo la minore, ancorché vari siano gli addebiti; invero, la misura affittiva non costituisce la somma di altrettante pene singole sugli addebiti contestati, bensì la valutazione unitaria della condotta complessiva dell’incolpato. (Accoglie parzialmente il ricorso avverso decisione C.d.O. Taranto, 17 giugno 2004).Cons. Naz. Forense 28-12-2007, n. 263 Pres. ALPA - Rel. DEL PAGGIO - P.M. MARTONE (conf.) - avv. V.P.

Avvocato - Procedimento disciplinare - Sospensione cautelare - Presupposti.Avvocato - Procedimento disciplinare - Sospensione cautelare - Durata. Nel caso di procedimento penale a carico di avvocato, l’art. 43 co. 3 del R.D.L. n. 1578/1933, conferisce al C.d.O. il potere di disporre, in via cautelare, la sospensione dall’attività professionale sulla base di una valutazione d’incompatibilità dell’addebito con l’esercizio della professione, a prescindere da ogni indagine sulla consistenza dell’incolpazione, riservata al giudice penale.Ai sensi dell’art. 43 del R.D.L. n. 1578/1933, la durata della misura cautelare non soggiace al limite temporale della sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio della professione, atteso che la ratio che assiste la prima è intimamente connessa all’esigenza di tenere costantemente indenne la dignità e l’integrità morale della classe forense dal pregiudizio derivante dall’esercizio della professione da parte di soggetto cui venga attribuita, addirittura con sentenza seppure non definitiva di condanna, la commissione di gravi reati che esprimono insanabile contrasto con i doveri deontologici.(Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. di Palermo, 12 aprile 2007)Cons. Naz. Forense 25-03-2008, n. 6

Pres. ALPA - Rel. STEFENELLI - P.M. IANNELLI - Ric. avv. B.B.

Avvocato - Norme deontologiche - Illecito disciplinare - Elemento soggettivo Al fine di integrare l’illecito disciplinare sotto il profilo soggettivo è sufficiente l’elemento della suità della condotta, inteso come volontà consapevole dell’atto che si compie. Il dolo, invece, denotando una più intensa volontà di trasgressione del comando deontologico, rileva nella determinazione della misura della sanzione, ma non per questo la trasgressione può passare inosservata se si postula l’esistenza della colpa. Invero, anche la negligenza del comportamento è motivo di responsabilità, proprio perché essa dimostra che non si sono adottati tutti gli accorgimenti necessari e, in ogni caso, quelli richiesti nel caso concreto (nella specie, il CNF ha ritenuto che il ricorrente, nel ricevere il mandato dal cliente, non avesse verificato la preesistente nomina di un collega per mera disattenzione e colposa negligenza, così rimodulando nella più mite censura la sanzione della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale per la durata di mesi due irrogata dal CdO).(Accoglie parzialmente il ricorso avverso decisione C.d.O. di Torino, 25 maggio 2006). Cons. Naz. Forense 22-04-2008, n. 14 Pres. ALPA - Rel. PERFETTI - P.M. CIAMPOLI (non conf.) - avv. V.C.

Avvocato - Norme deontologiche - Rapporti con i colleghi - Espressioni sconvenienti ed offensive - Illecito deontologico - Sussistenza - Provocazione - Irrilevanza Avvocato - Norme deontologiche - Rapporti con la controparte - Esecuzione del mandato - Dovere di diligenza - Dovere di vigilanza sui collaboratori Avvocato - Norme deontologiche - Pluralità violazioni - Sanzione - Misura Secondo la consolidata giurisprudenza del CNF, pone in essere una condotta deontologicamente rilevante il professionista che usi espressioni offensive e sprezzanti nei confronti del collega di controparte. L’avvocato, infatti, deve elevarsi al di sopra del processo, al quale deve offrire un contributo tecnico per la soluzione in diritto, moderando la passione entro i limiti invalicabili dell’educazione e del rispetto della personalità del collega.Le espressioni sconvenienti ed offensive non si addicono al professionista forense e sono deontologicamente rilevanti anche quando sono la reazione ad un eventuale fatto illecito altrui, giacché l’eventuale provocazione o reciprocità delle offese non può costituire un esimente sul piano disciplinare, né giustificare e rendere neutra una reazione che travalichi i limiti della correttezza.Il professionista forense che riceva il mandato dal proprio cliente ha la responsabilità deontologica del corretto svolgimento della pratica anche nell’ipotesi in cui l’abbia affidata alle cure dei suoi collaboratori, dovendo egli stesso rispondere dell’attività dei suoi sostituti ed avendo inoltre il dovere di vigilanza.

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sconvenienti - Illecito deontologico. L’avvocato, in ogni attività che comporti l’esposizione personale al pubblico, deve improntare la propria condotta a dignità e decoro, sicché deve ritenersi palesemente contrario a tali principi l’inserimento, in un proprio sito web, di fotografie ritraenti una giovane donna (nella specie la moglie del professionista) in abbigliamento discinto. (Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. Bologna, 10 novembre 2005).Cons. Naz. Forense 10-12-2007, n. 211 Pres. ALPA - Rel. VERMIGLIO - P.M. MARTONE (conf.) - avv. M.C.

Avvocato - Norme deontologiche - Sito Web - Contenuto - Informazione professionale non veritiera - Pubblicità decettiva - Illecito deontologico - Sussistenza. Pone in essere un contegno disciplinarmente rilevante il professionista che, mediante il proprio sito web, prospetti fallacemente la possibilità di avvalersi di “particolari procedure” per “ottenere un divorzio consensuale in pochi mesi (6-7 mesi) anche senza che siano passati i tre anni dalla separazione e, perfino, senza una preventiva separazione e, quindi, arrivando subito al divorzio con un unico provvedimento”, senza specificare che tale possibilità consegue soltanto all’avvio di una procedura in un non meglio specificato paese estero, trattandosi di informazione professionale che non rispetta i limiti essenziali della veridicità e completezza ed assume anzi i caratteri della pubblicità decettiva, contraria come tale ai doveri di dignità e decoro che devono costantemente informare la condotta dell’avvocato. (Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. Modena, 10 ottobre 2005). Cons. Naz. Forense 22-12-2007, n. 219 Pres. f.f. TIRALE - Rel. STEFENELLI - P.M. CIAMPOLI (conf.) - avv. P.A.

Avvocato - Norme deontologiche - Principi generali - Mancata partecipazione alle udienze - Illecito deontologico - Sussistenza. La reiterata assenza del difensore alle udienze costituisce mancato compimento di atti inerenti al mandato difensivo e, pertanto, un comportamento deontologicamente rilevante ai sensi dell’art. 38 del Codice deontologico. (Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. Varese, 8 novembre 2005).Cons. Naz. Forense 22-12-2007, n. 223 Pres. f.f. PERFETTI - Rel. D’INNELLA - P.M. CIAMPOLI (non conf.) - avv. A.B.

Avvocato - Norme deontologiche - Rapporti con il collega domiciliatario - Dovere di correttezza. Integra violazione del dovere di correttezza di cui all’art. 22 c.d.f., il comportamento del professionista che, chiesta ed ottenuta dal Collega la collaborazione professionale quale mero domiciliatario in un giudizio civile, ed incaricato quest’ultimo di assolvere taluni adempimenti in relazione alla causa in corso, ometta di dare riscontro alle reiterate

Allorquando molteplici siano state le condotte disciplinarmente rilevanti poste in essere dall’incolpato, ciò che nel procedimento disciplinare deve formare oggetto di valutazione è il comportamento complessivo dell’incolpato, sia al fine di valutare la condotta in generale sia al fine di infliggere la sanzione più adeguata, che dovrà essere unica nell’ambito di uno stesso procedimento; tale sanzione, infatti, non sarà la somma di altrettante pene singole sui vari addebiti contestati, ma la valutazione della condotta complessiva dell’incolpato. (Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. di Rimini, 16 gennaio 2007).Cons. Naz. Forense 22-04-2008, n. 25 Pres. f.f. PERFETTI - Rel. BORSACCHI - P.M. MARTONE (conf.) - avv. C.P.

Avvocato - Procedimento disciplinare - Composizione collegio giudicante - Sostituzione relatore - Irrilevanza Avvocato - Norme deontologiche - Rapporti con i colleghi e con i magistrati - Espressioni sconvenienti ed offensive - Illecito deontologico La sostituzione della persona fisica del relatore è ininfluente sia che avvenga nella fase precedente a quella incardinata con la citazione per il giudizio disciplinare, attesa la sua autonomia rispetto alla seconda, sia che avvenga nella seconda fase, tenuto conto che, stante la natura amministrativa del procedimento innanzi al Consiglio territoriale, non trova applicazione il principio dell’immodificabilità dei membri del collegio giudicante.Deve ritenersi intrinsecamente offensiva la frase con cui il professionista, nei suoi scritti difensivi, adombri il sospetto di una condiscendenza del magistrato nei confronti del collega avversario in virtù della qualifica di quest’ultimo di membro del Consiglio dell’ordine cui appartiene anche il primo. Una siffatta espressione, oltre che offensiva e sconveniente, non è giustificabile in alcun modo ed è idonea a far dubitare non solo del decoro e dell’onore delle persone cui si riferiscono ma anche di quelli dell’intera classe forense, generando il dubbio nella collettività che in tribunale i provvedimenti giurisdizionali possano essere pronunciati per favorire taluno o danneggiare tal’altro.Va riformata la decisione con cui il CdO irroghi la sanzione della sospensione per mesi due senza tenere conto che le espressioni offensive disciplinarmente rilevanti, seppur contenute in atti diversi, sono state pronunciate nel medesimo contesto, come tale idonee ad essere valutate quale frutto di una reazione in continenti e non ex intervallo (nella specie, il CNF, riformando in parte qua l’impugnata decisione, ha irrogato a carico del ricorrente la sanzione della censura). (Accoglie parzialmente il ricorso avverso decisione C.d.O. di Chieti, 27 giugno 2006). Cons. Naz. Forense 22-04-2008, n. 28 Pres. f.f. VERMIGLIO - Rel. PERFETTI - P.M. FEDELI (non conf.) - avv. F.A.

Avvocato - Norme deontologiche - Dovere di dignità e decoro - Sito web personale - Pubblicazione foto

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richieste di istruzioni del domiciliatario, tenuto anche conto che queste apparivano indispensabili per lo svolgimento del mandato conferito dal cliente all’incolpato (il CNF, nella specie, tenuto conto delle circostanze nelle quali l’incarico è stato conferito, ha sostituito la sanzione della censura con quella più lieve dell’avvertimento). (Accoglie parzialmente il ricorso avverso decisione C.d.O. Taranto, 21 aprile 2005). Cons. Naz. Forense 22-12-2007, n. 235 Pres. f.f CRICRI’ - Rel. MARIANI MARINI - P.M. IANNELLI (conf.) - avv. C.C.

Avvocato - Tariffe forensi - Richiesta onorario eccessivo - Illecito disciplinare - Natura - Istantanea La richiesta di compensi eccessivi e spropositati costituisce un illecito disciplinare di carattere istantaneo e non continuato, nè in ragione del protrarsi della condotta né a causa del permanere degli effetti tipicamente lesivi. In particolare, il mantenimento dell’originaria richiesta da parte del legale convenuto nell’azione di accertamento del suo compenso non è idonea ad integrare la condotta del “richiedere” considerata lesiva dall’art. 43 c.d., costituendo semplice espressione dell’esercizio del proprio diritto, nè in senso conservativo significa confermare in modo continuo, quasi perpetuamente rinnovandola, la richiesta originaria, segnalando piuttosto un mancato adeguamento all’altrui pretesa, un rifiuto di ravvedimento che, di per sé, non può essere considerato illecito. Per altro verso, inoltre, non possono essere considerati permanenti gli effetti di siffatta condotta, in quanto l’offesa recata all’interesse protetto dalla norma (inerente al pregiudizio causato alla professione forense attraverso la lesione dello specifico rapporto clientelare) deve ritenersi già avvenuta e consumata al tempo della richiesta del compenso non dovuto. (Accoglie il ricorso avverso decisione C.d.O. Varese, 8 novembre 2005). Cons. Naz. Forense 22-12-2007, n. 236 Pres. f.f CRICRI’ - Rel. BIANCHI - P.M. IANNELLI (conf.) - avv. G.T.

Avvocato - Tariffe forensi - Richiesta onorari sproporzionati - Violazione dei doveri di probità, dignità e decoro - Sussistenza. Avvocato - Norme deontologiche - Violazione dei doveri di probità, dignità e decoro - Sussistenza. Avvocato - Norme deontologiche - Principi generali - Dovere di colleganza e correttezza. Integra violazione dell’art. 43 cod. deont., II canone, il comportamento del professionista che reiteratamente e sistematicamente esponga nelle note spese di varie cause compensi manifestamente sproporzionati rispetto all’attività svolta.Pone in essere un comportamento contrario ai doveri di decoro, di probità e dignità, che l’avvocato è sempre tenuto ad assolvere in considerazione della rilevanza sociale del ruolo del quale è investito con l’appartenenza all’Ordine, il professionista che recandosi presso una carrozzeria offra la

propria assistenza legale al proprietario di un auto sinistrata, ottenendo da quest’ultimo una firma di delega su foglio in bianco e documenti successivamente non restituiti dietro richiesta dell’interessato.Pone in essere un comportamento contrario ai doveri elementari che incombono sull’avvocato e che gli vietano comportamenti reticenti e sleali in ogni caso, ma soprattutto quando tratti un affare professionale con un collega, il professionista che definisca con la controparte una transazione per danni alle cose da incidente stradale, tacendo al collega di aver chiesto il giorno precedente la notifica di un atto di citazione per lo stesso sinistro contro la stessa parte assistita dal collega medesimo per danni alla persona. (Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. Torino, 16 giugno 2005). Cons. Naz. Forense 22-12-2007, n. 237 Pres. f.f CRICRI’ - Rel. MARIANI MARINI - P.M. IANNELLI (conf.) - avv. C.C.

Avvocato - Norme deontologiche - Dovere di lealtà - Dovere di difesa - Limiti. Deve escludersi la responsabilità disciplinare del professionista che, costituitosi in un giudizio d’appello, mantenga nel corso del procedimento l’eccezione di improcedibilità del gravame ancorché in seguito ne risulti evidente l’infondatezza in fatto. Invero, il rispetto del dovere di lealtà deve essere considerato congiuntamente a quello del dovere di difesa, il cui esercizio assume rilievo disciplinare solo qualora travalichi la normale dialettica processuale ed in particolare allorché l’eccesso di difesa ridondi in mala fede e sia percepibile una distorta, disonesta ed abusiva finalità. (Accoglie il ricorso avverso decisione C.d.O. Firenze, 24 settembre 2005). Cons. Naz. Forense 28-12-2007, n. 246 Pres. ALPA - Rel. BIANCHI - P.M. MARTONE (non conf.) - avv. G.M.

Avvocato - Norme deontologiche - Rapporti con la controparte - Minaccia di azioni sproporzionate - Illecito deontologico. L’art. 48 del codice deontologico è diretto a contemperare le esigenze di difesa dell’assistito con il necessario rispetto della libertà di determinazione della controparte, sicché, se è consentito al difensore di rivolgere alla controparte l’intimazione ad adempiere sotto comminatoria di azioni, istanze o denunce, tale condotta non può tuttavia assumere il carattere di minaccia di azioni o iniziative sproporzionate e vessatorie. Pone pertanto in essere un comportamento disciplinarmente rilevante l’avvocato il quale prospetti alla controparte, quale conseguenza del mancato ritiro di una denuncia sporta nei confronti del suo assistito, la possibilità di incorrere in un reato punibile con la reclusione da due a sei anni, costituendo siffatto contegno una minaccia del tutto sproporzionata e non rispettosa della libertà della controparte di esercitare il proprio diritto.(Accoglie parzialmente il ricorso avverso decisione C.d.O. Milano, 16 maggio 2005).

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Cons. Naz. Forense 31-12-2007, n. 269 Pres. f.f. VERMIGLIO - Rel. CARDONE - P.M. FEDELI (conf.) - avv. C.S.

Avvocato - Norme deontologiche - Principi generali - Dovere di adempimento previdenziale e fiscale - Illecito deontologico. L’inadempimento dell’obbligo di provvedere agli adempimenti previdenziali e fiscali in relazione al pagamento di somme per prestazioni professionali costituisce indubbia violazione degli artt. 5 e 15 c.d.f. Tuttavia, va inflitta la sanzione dell’avvertimento, in luogo della censura, qualora si tenga conto della non particolare gravità del fatto e della condotta collaborativa tenuta dall’incolpato al fine di far accertare la verità, nonché della mancanza di precedenti disciplinari a suo carico. (Accoglie il ricorso avverso decisione C.d.O. Bolzano, 5 dicembre 2005).Cons. Naz. Forense 31-12-2007, n. 271 Pres. f.f. VERMIGLIO - Rel. DE GIORGI - P.M. FEDELI (conf.) - avv. N.P.

Avvocato - Norme deontologiche - Principi generali - Diligenza professionale Non può essere imputato al professionista la scelta di una strategia processuale, limitata ad una difesa basata su eccezioni meramente processuali tendente ad ottenere un accordo transattivo, che ex post, ossia all’esito del giudizio, sia risultata non vincente. Invero, nella prospettazione ex ante, quale è quella nella quale si trovava il difensore all’epoca e dalla quale va compiuta la valutazione del Collegio giudicante, non è sempre agevole discernere con certezza quale possa essere il comportamento più idoneo ad ottenere il risultato sperato, sempre che non si sconfini nella mala fede o nella colpa grave sanzionate dall’art. 6 codice deontologico forense.Al di fuori del dolo o della colpa grave del difensore, non rientra fra i compiti del giudice disciplinare sindacare nel dettaglio il “modus procedendi” di un difensore nel condurre una trattativa stragiudiziale - trattandosi comunque di un’attività estremamente difficile in virtù dei numerosi elementi, anche di carattere psicologico, che entrano in gioco - salvo che, nel caso concreto, non siano ravvisabili elementi di fatto che consentano di affermare con certezza che la strategia adottata sia in contrasto con la volontà dell’assistito.Cons. Naz. Forense 25-03-2008, n. 3 Pres. ALPA - Rel. BULGARELLI - P.M. MARTONE - Ric. avv. A.R..

Avvocato - Norme deontologiche - Rapporti con la parte assistita - Ritardo nella restituzione di documenti - Illecito deontologico L’art. 42 c.d.f. fa obbligo all’avvocato di restituire senza ritardo alla parte assistita che gliene faccia richiesta tutta la documentazione che ha ricevuto per l’espletamento del mandato. Ai fini della sussistenza di tale obbligo, se è del tutto irrilevante che la documentazione sia costituita da originali o semplici fotocopie, è altresì evidente che il diritto del cliente non è condizionato all’indicazione delle ragioni della

Cons. Naz. Forense 28-12-2007, n. 259 Pres. ALPA - Rel. MARIANI MARINI - P.M. IANNELLI (conf.) - avv. S.M.

Avvocato - Norme deontologiche - Pubblicità attività professionale - Limiti. Avvocato - Norme deontologiche - Pubblicità attività professionale - Modalità. I superiori principi della dignità, del decoro e della lealtà, ai quali la professione legale deve ispirarsi anche nella comunicazione informativa lecita, costituiscono principi comportamentali che, nello specifico ambito della disciplina della concorrenza e della pubblicità, sono volti a garantire la tutela della collettività in un ambito caratterizzato dalle asimmetrie informative e nel quale risalta la primaria esigenza di contemperare l’interesse al libero dispiegamento delle dinamiche concorrenziali con l’interesse dalla protezione della fede pubblica e dei diritti fondamentali dei cittadini, quale è principalmente il diritto di difesa costituzionalmente riconosciuto e garantito e, prima ancora come suo postulato, l’acquisizione della conoscenza e coscienza dei diritti.Viola gli artt. 17 e 19 c.d.f. l’avvocato che, con una comunicazione circolare, offra la disponibilità ad intraprendere coi destinatari una collaborazione professionale futura e prossima, con iniziale provvisorietà (a titolo di prova), nonché ad operare al domicilio dei clienti, assicurando serietà, professionalità e disponibilità anche nei costi, dovendo ravvisarsi l’illiceità del contegno dell’incolpato non nel fatto di avere diffuso notizie circa il complesso delle attività riferibili all’organizzazione del proprio studio, ma nel modo in cui l’attenzione dei destinatari del messaggio è stata catturata, sollecitata con prospettazioni captatorie, ritenuto di per sé lesivo del decoro della professione forense. (Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. Monza, 3 dicembre 2001).Cons. Naz. Forense 31-12-2007, n. 268 Pres. f.f. VERMIGLIO - Rel. BIANCHI - P.M. FEDELI (conf.) - avv. A.L.V.

Avvocato - Norme deontologiche - Rapporti con i colleghi - Dovere di riservatezza - Produzione in giudizio di missiva inviata al collega di controparte e contenete proposta transattiva - Illecito deontologico. Viola gli artt. 17 e 19 c.d.f. l’avvocato che, con una comunicazione circolare, offra la disponibilità ad intraprendere coi destinatari una collaborazione professionale futura e prossima, con iniziale provvisorietà (a titolo di prova), nonché ad operare al domicilio dei clienti, assicurando serietà, professionalità e disponibilità anche nei costi, dovendo ravvisarsi l’illiceità del contegno dell’incolpato non nel fatto di avere diffuso notizie circa il complesso delle attività riferibili all’organizzazione del proprio studio, ma nel modo in cui l’attenzione dei destinatari del messaggio è stata catturata, sollecitata con prospettazioni captatorie, ritenuto di per sé lesivo del decoro della professione forense. (Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. Monza, 3 dicembre 2001).

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propria richiesta di restituzione, né circoscritto alla richiesta di pratiche in corso o recenti, potendo invece essere sempre esercitato nei limiti temporali in cui possa ragionevolmente ritenersi sussistente il dovere del professionista di conservare la documentazione relativa a pratiche ormai esaurite.Secondo un principio pacificamente affermato in giurisprudenza, la restituzione al cliente della documentazione ricevuta per l’espletamento del mandato non può essere subordinata al pagamento delle spettanze professionali, essendo estremamente disdicevole e lesivo della reputazione e dignità dell’ordine forense condizionare la restituzione di atti e documenti al pagamento di sia pur dovute spettanze professionali, in quanto l’ordinamento della professione forense non prevede un diritto di ritenzioneIl ritardo nella restituzione dei documenti richiesti dalla parte assistita non può essere giustificato dal professionista con la necessità di tali documenti ai fini della predisposizione delle proprie note. Per costante giurisprudenza, invero, deve ritenersi censurabile il comportamento dell’avvocato che ometta di restituire i fascicoli relativi a questioni da lui trattate condizionando tale restituzione al preventivo saldo delle proprie spettanze professionali, atteso che egli può estrarre copia di quanto a lui necessario per la predisposizione e documentazione delle notule e, in seguito, ove il cliente rimanga inadempiente, avvalersi di tutti mezzi previsti dalla legge e dall’ordinamento professionale per il soddisfacimento del proprio credito. (Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. di Lecco, 27 ottobre 2006). Cons. Naz. Forense 22-04-2008, n. 20 Pres. f.f. TIRALE - Rel. TIRALE - P.M. IANNELLI (conf.) - avv. G.S.

Avvocato - Norme deontologiche - Rapporti con la parte assistita - Richiesta di compenso in aggiunta alle spese di giudizio poste a carico del soccombente - Illecito disciplinare - Insussistenza.Avvocato - Norme deontologiche - Proposta di prestazione professionale indirizzata a terzi sconosciuti - Illecito - Sussistenza. La mera proposta di convenzione che contempli, per il caso di esito vittorioso della vertenza, un onorario non già in sostituzione bensì in aggiunta alle spese di causa poste a carico della parte soccombente non è idonea ad integrare l’ipotesi prevista dal terzo comma dell’art. 2233 c.c., quale vigente ante riforma c.d. “Bersani” (e, più precisamente, l’art.2, co. 2 bis, L. 248/2006), rientrando piuttosto in quella lecita forma di compenso di carattere straordinario dovuto “oltre” quello spettante al legale per le prestazioni giudiziali effettuate che va sotto il nome di “palmario”.La lettera indirizzata dal professionista con lo scopo esclusivo di provocare l’adesione di uno sconosciuto alla formulata proposta di mandato difensivo si risolve in una sollecitazione per il conferimento di un incarico professionale e, quindi, in una chiara offerta di prestazioni a terzi, come tale vietata a norma dei canoni III e IV dell’art. 19 del Codice Deontologico.(Accoglie parzialmente il ricorso avverso decisione C.d.O. di Firenze, 7 giugno 2006)

Cons. Naz. Forense 09-06-2008, n. 54 Pres. ALPA - Rel. BONZO - P.M. MARTONE (conf.) - Avv. F.D.P.

Avvocato - Norme deontologiche - Dovere di fedeltà - Rapporti con la parte assistita - Conflitto di interessi L’art. 37, canone II, c.d.f., nell’enunciare la regola per cui l’obbligo di astenersi dal prestare attività professionale sussiste anche se le parti in conflitto si rivolgano ad avvocati diversi che, pur non essendo partecipi di una stessa società di avvocati o associazione professionale, esercitino tuttavia negli stessi locali, obbedisce all’esigenza di conferire alla disposizione sul conflitto di interessi la funzione di proteggere il bene giuridico non solo dell’indipendenza effettiva dell’avvocato, ma anche dell’apparenza di essa.In caso di conflitto di interessi relativo a diritti disponibili, l’accettazione della parte non è idonea a scriminare il comportamento del professionista.(Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. di Vicenza, 11 ottobre 2006)Cons. Naz. Forense 09-06-2008, n. 59 Pres. ALPA - Rel. PERFETTI - P.M. IANNELLI (conf.) - Avv. D.A.

Avvocato - Norme deontologiche - Principi generali - Divieto di pubblicità - Intervista giornalistica - Illecito deontologico - Sussistenza Viola gli artt. 17 e 18, co. II, del codice deontologico forense, il professionista che, nel rilasciare un’intervista ad un settimanale locale con riguardo alla nota vicenda della vendita dei bond argentini, ne asserisca le presunte irregolarità, ne indichi i necessari rimedi (consistenti nell’agire nei confronti di banche e intermediari finanziari per ottenere l’annullamento dei contratti e la restituzione del denaro) e suggerisca a tale scopo di rivolgersi ad un’associazione di consumatori (Adusbef) della quale essi stessi ne siano rappresentanti, dovendosi ravvisare in una siffatta condotta sia il perseguimento di fini pubblicitari, sia l’offerta di servizi professionali.(Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. di Bergamo, 17 dicembre 2003)Cons. Naz. Forense 03-07-2008, n. 61 Pres. CRICRI’ - Rel. EQUIZZI - P.M. IANNELLI (conf.) - Avv. C.G.- C.V.

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(CONTRATTO PRELIMINARE): INOPPONIBILITÀ ALLA CONTROPARTE CONTRATTUALE DEGLI ACCORDI INTERNI AD UNA PARTE PLURISOGGETTIVA

Cassazione civile, sez. II - Sentenza del 28 luglio 2006, n. 17257 Pres. Corona - Rel. Scherillo - P.M. Patrone.

Nel caso di esecuzione in forma specifica di un contratto preliminare con cui venga pattuito il trasferimento di un immobile «indivisibilmente» a più persone, le quote di comproprietà dei singoli acquirenti, in mancanza di diversa specifica pattuizione, debbono presumersi uguali, non potendo rilevare, in contrario, la diversa entità della parte di prezzo da loro versata, la quale se non può esercitare effetto nei rapporti interni, non esplica alcuna efficacia nel rapporto tra le parti del contratto.

IL FATTOTizio (promettente venditore) stipula con Caio, Mevio e Sempronio (promittenti acquirenti) un preliminare di compravendita, a mezzo del quale il primo si obbliga a vendere ai secondi alcune unità immobiliari analiticamente descritte con il corredo dei dati catastali per il prezzo di £. 300.000.000, che veniva integralmente versato entro i termini previsti dal preliminare medesimo.Sarà bene precisare, al fine di avere un quadro completo della posizione, che il promissario acquirente Caio aveva versato al promittente venditore non già la somma di £.100.000.000, pari a un terzo del prezzo convenuto, come normalmente avrebbe dovuto essere in considerazione del fatto che il trasferimento del bene oggetto della stipula avveniva in capo ai promissari acquirenti indivisibilmente e senza indicazione di quote per l’anzi detto prezzo di £. 300.000.000. La somma versata da Caio era stata quella di £. 180.000.000.Sarà anche indispensabile precisare come il preliminare di compravendita comprendesse dure specifiche clausole: la prima relativa al pagamento del corrispettivo, comprendente anche l’importo di £. 50.000.000 ascrivibile al solo Caio (che già aveva versato all’atto della stipula del preliminare il prezzo di £. 180.000.000); la seconda relativa al fatto che i promissari acquirenti si sarebbero potuti avvalere entro la stipula della facoltà “se e come intendevano intestare in maniera divisa le unità immobiliari oggetto della promessa di vendita”.All’atto del rogito, il promissario acquirente Caio si rifiuta di concludere il contratto definitivo, in considerazione del fatto che egli aveva pagato una somma maggiore rispetto agli altri due compromissari acquirenti e, per l’effetto, pretendeva che la quota di sua spettanza del bene, oggetto del preliminare di compravendita, dovesse risultare maggiore a quelle spettanti agli altri due promissari acquirenti.A questo punto anche il promittente venditore, preso atto

della situazione che si era venuta a creare, si rifiuta di stipulare il rogito. Gli altri due promissari acquirenti Mevio e Sempronio, preso atto dell’inadempimento delle controparti, citano in giudizio sia il promittente venditore che il promittente acquirente Caio per sentire pronunciare sentenza sostitutiva del contratto non concluso (art.2932 c.c.).Si costituiscono in giudizio i convenuti. Il primo, il promittente venditore, dichiara di non opporsi al trasferimento della unità immobiliare oggetto del preliminare, purché ciò avvenga nei termini in cui lo stesso era stato stipulato. Il secondo, il promittente acquirente Caio, non si oppone anche lui al trasferimento dello immobile oggetto di compravendita, ma chiede che, in relazione alle maggiori somme versate al promittente venditore, fosse accertata la entità della sua quota di diritto sulla trasferenda proprietà dei beni, chiedendo di provare per testi l’accordo tra i promissari acquirenti rivolto ad acquistare per quote disuguali, proporzionali al prezzo effettivamente versato da ognuno, il bene oggetto del preliminare.La Corte Regolatrice, con una sentenza a dir poco sbrigativa e affrettata, respinge il ricorso per cassazione presentato dal promittente acquirente Caio, precisando, sulla falsa riga dei giudici del merito (Corte di appello in particolare), che: 1) l’esplicita pattuizione contenuta nel preliminare, secondo cui il promissario venditore si era impegnato ad alienare indivisibilmente ai promissari acquirenti il bene oggetto del preliminare, “non consentiva per il suo tenore di ritenere frazionabile la trasferenda proprietà degli immobili senza una specifica clausola derogativa”; 2) le clausole n.2 e n.3, contenute nel preliminare di vendita “non erano di tenore tale da far ritenere la diversa volontà dei promissari acquirenti di sperequare le quote medesime e, in particolare, di correlare le stesse al pagamento della frazione di prezzo”; 3) La prova orale richiesta non era ammissibile in quanto la prova stessa doveva essere data per iscritto.

L’INTERPRETAZIONE DEL CONTRATTOSarà subito il caso di evidenziare come appaia “ictu oculi” la circostanza secondo la quale la Suprema Corte abbia pronunciato la sentenza in commento rifacendosi all’antico brocardo “in claris non fit interpretatio” e cioè se una cosa è chiara non c’è bisogno delle norme di ermeneutica.Tale principio non trova più applicazione nel nostro ordinamento, che ha stabilito, quanto alla interpretazione del contratto, di non limitarsi al senso letterale delle parole e ha conferito ai giudici il potere-dovere di stabilire se la comune intenzione delle parti risulti in modo certo e immediato dalla dizione del contratto oppure se occorra accertarla mediante una ulteriore indagine prevista dagli artt.1372 e seguenti del nostro codice di diritto positivo.Secondo il costante indirizzo dottrinario e giurisprudenziale, le norme interpretative si distinguono in due gruppi: il

Giurisprudenza

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primo, che comprende gli artt. 1362-1365 c.c., regola l’interpretazione soggettiva del contratto, in quanto tende a porre in luce la concreta intenzione comune delle parti; il secondo, costituito dagli artt. 1366-1370 c.c., disciplina la interpretazione oggettiva, a mezzo della quale si intendono eliminare ambiguità e dubbi. Le norme di interpretazione soggettiva prevalgono su quelle di interpretazione oggettiva, nel senso che l’interprete può far ricorso alle seconde solo quando non sia in grado di determinare senza alcun dubbio la comune volontà delle parti. Una semplice lettura degli artt. 1367-1370 c.c. evidenzia che tali disposizioni hanno in comune un riferimento a un dubbio interpretativo. L’art.1367 c.c. si riferisce a “nel dubbio”. L’art.1368 c.c. parla di” clausole ambigue”. L’art.1369 c.c. si riferisce ad espressioni “con più sensi” e, ancora, alla parola “dubbio” (sul punto vedi Vincenzo Franceschelli in Introduzione al Diritto Privato). Si suol dire, quindi, che fra i due gruppi di norme esiste un rapporto di subordinazione logica, che da corpo al così detto “rapporto di gerarchia”.Se così stanno le cose e, per il vero, non v’è motivo perché stiano diversamente, non v’è chi non veda come le critiche mosse alla sentenza in questione, possono trovare un valido e corretto fondamento.

IL PRELIMINARE E IL SUO CONTENUTOLa Corte di Cassazione, innanzitutto, non ha fatto buon uso dei criteri relativi all’“interpretazione del contratto”, così come sopra esposti e, soprattutto, intesi dagli artt. 1362 e seguenti del vigente codice civile.Il primo evidente errore, nel quale sono incorsi i giudici del Supremo Collegio, è stato quello di non aver proceduto ad una valutazione unitaria del preliminare in questione, violando in particolare, il disposto di cui al prefato art. 1363 c.c. in tema di “interpretazione complessiva delle clausole contrattuali”. Nella interpretazione del contratto è necessario procedere al coordinamento delle varie clausole contrattuali, anche quando l’interpretazione possa essere compiuta sulla base del senso letterale delle parole senza residui di incertezze, perché - come spiega la Corte Regolatrice - “quando si parla di senso letterale si deve intendere tutta la formulazione delle dichiarazioni negoziali”, in ogni sua parte e in ogni sua parola che la compone e non già in una parte soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto da più clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato” (C.C. 31-3-2006 n.7597; C.C. 5-4-2004 n.6641; C.C.11-6-1999 n.5747).Ora, è ben vero che nel preliminare di compravendita in questione il promittente venditore e i promittenti acquirenti avevano convenuto, in primis, che la proprietà dell’unità immobiliare oggetto di alienazione sarebbe stata venduta indivisibilmente, ma è altrettanto vero che lo stesso preliminare conteneva una clausola secondo la quale i medesimi promissari acquirenti “indicheranno entro il termine della stipulazione se e come intendevano acquistare in maniera divisa l’immobile oggetto del preliminare”.Alla luce di detta clausola, nella quale trovano grande evidenza interpretativa le parole “se” e “come”, non v’è chi

non veda come il fatto dì alienare l’immobile indivisibilmente fosse accompagnato da una clausola derogativa espressa, contenuta nello stesso preliminare di vendita, che facoltizzava i promissari acquirenti ad acquistare il bene in questione in maniera divisa.Se per il giorno fissato per il rogito i promissari acquirenti si fossero presentati avanti il notaio rogante manifestando il loro intendimento di acquistare l’immobile in questione in maniera divisa, non sarebbero incorsi in alcuna violazione di legge, ma avrebbero esercitato un loro sacrosanto diritto, direttamente conferito dal preliminare. Gli stessi non avrebbero potuto essere considerati inadempienti ed il venditore non avrebbe potuto opporsi alle richieste così formulate, siccome inserite nel preliminare e non comportanti alcun elemento di novità. Il prezzo, oltretutto, era già stato versato per l’intero.Eppure, di fronte a tanta evidenza, La Corte di Cassazione ha ritenuto che la clausola contrattuale contenuta nel preliminare di vendita “non era di tenore tale da far ritenere la diversa volontà dei promissari acquirenti o di sperequare le quote di acquisto da parte dei singoli promissari”. L’errore nel quale è incorso il Supremo Collegio è tanto più censurabile sol che si consideri che l’opera di interpretazione del preliminare non poteva che essere “soggettiva”, atteso che la clausola esaminata non si prestava a delle incertezze e non necessitava, quindi, di una interpretazione oggettiva.

LA PROVA PER TESTIÈ noto che l’art.2722 c.c., vietando la prova per testimoni di patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento, mira ad impedire che i rapporti giuridici già regolati e voluti dalle parti in un negozio e, quindi, documentalmente provati, possono essere posti in discussione e, quindi, alterati da una prova per testi che, per costante insegnamento dottrinario e giurisprudenziale, non offra la garanzia di veridicità di quella documentale, con conseguente pericolo della sicurezza e stabilità dal dettato di cui al documento intervenuto fra le parti. “In tema di contratto preliminare di compravendita immobiliare, non possono essere provati per testi, in relazione all’oggetto del contratto e in considerazione del divieto della prova testimoniale di cui all’art.2722 c.c. (concernenti patti aggiunti e contrari al contenuto di un documento), accordi verbali anteriori o contemporanei che condizionano la realizzazione della funzione economica e sociale del contratto (C.C. 26-1-2006 n.1515).Nel caso di specie, le clausole del preliminare non solo non erano contrarie al contenuto dell’atto ma - come si è già detto - confermative della volontà e degli intendimenti delle parti contraenti. La facoltà di richiedere all’atto della stipula una compravendita dei beni oggetto del contratto in maniera divisa era previsto esplicitamente ed addirittura nel preliminare.

IL VALORE DELL’ACCORDOÈ stato ritenuto, infine, che se anche le risultanze delle prove fossero risultate favorevoli al richiedente, attestando una diversa pattuizione fra i promissari acquirenti, le stesse non

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sarebbero state opponibili al promittente venditore, che era tenuto a rispondere per quanto si era obbligato a fare in base al contratto preliminare. La tesi è destituita di fondamento. Il promissario venditore, infatti, quale parte sostanziale del preliminare, era ben a conoscenza della clausola che facoltizzava i promissari acquirenti di poter acquistare l’immobile in questione anche in “maniera divisa”. E tanto basta perchè lo stesso, che tra l’altro aveva già incassato il prezzo, non potesse sollevare eccezioni o questioni sul punto e neppure ritenere il fatto come una novità che avrebbero potuto comportargli disguidi di sorta.

CONCLUSIONIAlla luce delle argomentazioni sopra svolte si può concludere che la Corte Regolatrice, ad un attento e approfondito esame del contenuto del contratto preliminare in questione e delle clausole in esso contenute, ad una corretta applicazione delle norme dettate in tema di interpretazione del contratto e in tema di ammissione delle prove per testi, senza altro opponibili, quanto al risultato, a tutte le parti in causa avrebbe dovuto accogliere, con sentenza ampia e motivata, il ricorso per cassazione presentato dal ricorrente, dando tutte le disposizioni del caso e di legge.

Renzo BottiLorenzo Paolo Botti

Corte di Appello di Bologna, Sez. II° ordinanza del 16.06.2010, Est. Dott. PedrialiRapporti per la cooperazione penale fra Stati – Sistema di Shengen (Convenzione europea di estradizione) Mandato di arresto europeo (M.A.E.) – nozione di residenza - equiparazione del M.A.E. esecutivo al M.A.E. processuale.

E’ rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3, 27 com. 3 e 117 com. 1 Cost. la questione di legittimità costituzionale della legge 22 aprile 2005 n.69 art. 18 com 1 lett.r) nella parte in cui non prevede il rifiuto della consegna del residente non cittadino.

La Corte di Appello di Bologna, con l’emarginata ordinanza, prende finalmente posizione su un profilo di illegittimità della legge nazionale di recepimento della normativa europea in tema di mandato di arresto europeo e, nello specifico, di rifiuto alla consegna da parte dello Stato membro di esecuzione.Il caso riguarda una persona di nazionalità rumena che, per fatti commessi alcuni anni prima parzialmente in Romania e in Italia, è stata condannata con sentenza esecutiva dall’Autorità Giudiziaria rumena alla pena della reclusione di anni cinque per il reato di “reclutamento e tratta di donne da destinare alla prostituzione”.Posto in esecuzione detto titolo, l’Autorità procedente ha emesso mandato di arresto europeo che ha trovato applicazione a Parma, luogo ove l’interessata, sebbene non

anagraficamente residente, vive con la madre in regime di locazione e intrattiene regolare rapporto di lavoro subordinato a far tempo dal 2008.Sebbene il caso pratico presenti ulteriori rilevanti aspetti - legati alla sussistenza delle condizioni di cui alle lettere G) e P) dell’art. 18 L.69/2005 - dedotti dalla difesa della prevenuta per poter fondatamente giustificare il rifiuto alla consegna da parte della Corte di Appello, quest’ultima ha preliminarmente sospeso il procedimento accogliendo la questione di illegittimità costituzionale prospettata in relazione al disposto di cui alla lettera r) del citato art. 18.La richiamata norma, che in ipotesi di m.a.e. esecutivo consente alla Corte di Appello di rifiutare la consegna allo Stato membro emittente del solo cittadino italiano sempre che la pena venga eseguita in Italia conformemente al diritto interno, differisce dal successivo art. 19 che, in ipotesi di m.a.e. processuale, prevede la c.d. consegna condizionata non solo per il cittadino italiano ma anche per il non cittadino residente in Italia stabilendo che “ se la persona oggetto del m.a.e. ai fini di un’azione penale è cittadino o residente dello Stato italiano, la consegna è subordinata alla condizione che la persona, dopo essere stata ascoltata, sia rinviata nello stato membro di esecuzione per scontarvi la pena”.La giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di chiarire che ai fini dell’applicabilità della normativa in questione, la nozione di residenza non va intesa in senso formalistico ed anagrafico, ma occorre valutare se lo straniero abbia un radicamento reale e non estemporaneo con il territorio italiano, che dimostri che egli abbia ivi istituito con continuità temporale e sufficiente stabilità la sede principale dei propri interessi affettivi, professionali od economici.La limitazione al solo cittadino introdotta dalla normativa nazionale per l’ipotesi di m.a.e. esecutivo, appare, quindi ingiustamente sperequativa e priva di ragionevole giustificazione, poiché non vi è plausibile ragione per la diversità di trattamento del residente non cittadino nel caso di m.a.e. esecutivo e nel caso di m.a.e. processuale.A ben vedere, anzi, potrebbe avere una qualche giustificazione una disciplina inversa perché, nel caso di m.a.e. esecutivo, l’esecuzione della pena in Italia impedisce l’allontanamento della persona di cui è stata chiesta la consegna e quindi consente il mantenimento, per quanto è possibile, delle sue relazioni familiari e sociali, mentre nel caso di m.a.e. processuale la persona non può non essere consegnata allo stato di emissione e la restituzione all’Italia per scontarvi la pena è destinata ad avvenire quando tali rapporti hanno già subito un affievolimento.Non occorre dimenticare, infatti, la preminente funzione rieducativa della pena che è quella di consentire e garantire al condannato l’inserimento nel tessuto relazionale, sociale affettivo ma anche in quello economico ed abitativo: ciò che può avvenire solo se non si elidono i rapporti con l’ambiente ove il condannato ha radicato la propria vita con sufficienti requisiti di stabilità e legittimità. Nell’ipotesi in cui, come nel caso di specie, la richiesta di consegna riguarda cittadina di uno Stato membro della Unione europea, si pone inoltre la questione della non conformità dell’art. 18 let. r) L.69/2005 con le norme comunitarie ed

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in particolare con il principio di non discriminazione sancito dall’art. 12 CE. Ai sensi dell’art. 17, n.1 CE chiunque abbia la cittadinanza di uno stato membro è cittadino dell’unione e, ai sensi dell’art. 18, n.1 CE, ogni cittadino dell’Unione ha il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri.Ritornando, infine, alla fattispecie concreta è appena il caso di evidenziare che l’auspicabile declaratoria di illegittimità costituzionale consentirebbe alla prevenuta di scontare la pena in Italia secondo la normativa interna, potendo cioè usufruire - ricorrendone i presupposti oggettivi e soggettivi – del beneficio dell’indulto ed accedendo alle misure alternative alla detenzione. f.m.

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