Origini della questione palestinese e prima guerra arabo...

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Questione palestinese: origini e prima guerra arabo-israeliana (1800 – 1949) Il conflitto arabo-israeliano abbraccia circa un secolo di tensioni politiche e di ostilità 1 . Esso riguarda la creazione del movimento sionista e la successiva creazione del moderno Stato di Israele nel territorio considerato dal movimento panarabo come appartenente ai palestinesi, e che il popolo ebraico considera la sua patria storica. Da qui il fatto che la cosiddetta “questione” palestinese ha costituito e costituisce tuttora una delle questioni più delicate e complesse del nostro tempo. Uno sguardo all’antica Palestina E’ raro che nel narrare le vicende di un fatto storico, quantunque complesso, dell’ultimo secolo si debbano richiamare eventi tanto lontani nel tempo, ma nel caso della Palestina e della storia che la riguarda può essere utile far memoria di quanto accadde tra il 70 e il 135 d. C. proprio in quella regione. A quell’epoca i dominatori dell’area erano i romani (la Palestina era – dal I sec. a.C. - una provincia romana retta da un procuratore che risiedeva a Cesarèa Marittima 2 ) e quello ebraico era uno dei tanti popoli che abitavano il Medio Oriente. Gli ebrei, però, non avevano mai accettato la dominazione romana e non si erano mai assimilati alla loro cultura. L’opposizione che covava da decenni sfociò tra il 67 e il 70 nella prima guerra giudaica, che si concluse con la distruzione del Tempio 3 di Gerusalemme da parte di Tito, figlio di Vespasiano (imperatore dal 69 al 79) e futuro imperatore egli stesso (79-81); quel che ne rimase costituisce l’attuale Muro del pianto. Questa prima guerra fu profondamente distruttiva: le fonti parlano di 600.000 morti e di decine di migliaia di ebrei venduti come schiavi. Tra il 132 e il 135 si combatté poi una 1 Convenzionalmente, ed è anche il punto di vista degli Arabi palestinesi, la cosiddetta “questione palestinese” si fa iniziare a partire dal 1917 ovvero dalla Dichiarazione Balfour, che (dal nome del ministro degli Esteri Arthur James Balfour) impegnava il governo inglese a creare in terra di Palestina una «sede nazionale» per il popolo ebraico. Con essa la presenza ebraica in Palestina veniva ad ottenere un riconoscimento ufficiale e si legittimava, in qualche modo, l’immigrazione degli ebrei verso quella regione; immigrazione che diede luogo già negli Anni 1920-21 ai primi violenti scontri fra coloni ebrei e residenti arabi, insofferenti della minaccia portata ai loro diritti sulla Palestina. Erano i primi segnali di un conflitto che avrebbe insanguinato la regione nei decenni successivi. 2 Situata sulla costa israeliana tra le città di Haifa, a nord, e di Tel Aviv, a sud, Cesarèa Marittima (così chiamata in onore di Cesare Augusto) era un importante porto del Mediterraneo, base commerciale già all’epoca dei Fenici (IV sec. a.C.). Divenuta, nel 13 a.C., capitale politica e militare della Giudea vi pose la propria sede il proconsole romano. 3 Quello distrutto nel 70 d.C. era il secondo Tempio di Gerusalemme. Il primo Tempio, edificato verso la metà del X secolo a.C. al tempo del re Salomone, venne distrutto dai babilonesi nell’anno 586 a.C. Muro del pianto (Gerusalemme). E’ il muro di cinta occidentale del Tempio, distrutto da Tito nel 70. Nelle fessure del muro gli ebrei infilano dei foglietti con sopra scritte delle preghiere, ritenendo che quel luogo sia il più sacro della Terra.

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Questione palestinese: origini e prima guerra arabo-israeliana (1800 – 1949)

Il conflitto arabo-israeliano abbraccia circa un secolo di tensioni politiche e di ostilità1. Esso

riguarda la creazione del movimento sionista e la successiva creazione del moderno Stato di

Israele nel territorio considerato dal movimento panarabo come appartenente ai palestinesi, e che

il popolo ebraico considera la sua patria storica. Da qui il fatto che la cosiddetta “questione”

palestinese ha costituito e costituisce tuttora una delle questioni più delicate e complesse del

nostro tempo.

Uno sguardo all’antica Palestina

E’ raro che nel narrare le vicende di un fatto storico, quantunque complesso, dell’ultimo secolo si

debbano richiamare eventi tanto lontani nel tempo, ma nel caso della Palestina e della storia che

la riguarda può essere utile far memoria di quanto accadde tra il 70 e il 135 d. C. proprio in quella

regione.

A quell’epoca i dominatori dell’area erano i romani (la Palestina era – dal I sec. a.C. - una

provincia romana retta da un procuratore che risiedeva a Cesarèa Marittima2) e quello ebraico era

uno dei tanti popoli che abitavano il Medio

Oriente. Gli ebrei, però, non avevano mai

accettato la dominazione romana e non si

erano mai assimilati alla loro cultura.

L’opposizione che covava da decenni

sfociò tra il 67 e il 70 nella prima guerra

giudaica, che si concluse con la

distruzione del Tempio3 di Gerusalemme

da parte di Tito, figlio di Vespasiano

(imperatore dal 69 al 79) e futuro

imperatore egli stesso (79-81); quel che ne

rimase costituisce l’attuale Muro del

pianto.

Questa prima guerra fu profondamente

distruttiva: le fonti parlano di 600.000

morti e di decine di migliaia di ebrei venduti come schiavi. Tra il 132 e il 135 si combatté poi una

                                                             1 Convenzionalmente, ed è anche il punto di vista degli Arabi palestinesi, la cosiddetta “questione palestinese” si fa iniziare a partire dal 1917 ovvero dalla Dichiarazione Balfour, che (dal nome del ministro degli Esteri Arthur James Balfour) impegnava il governo inglese a creare in terra di Palestina una «sede nazionale» per il popolo ebraico. Con essa la presenza ebraica in Palestina veniva ad ottenere un riconoscimento ufficiale e si legittimava, in qualche modo, l’immigrazione degli ebrei verso quella regione; immigrazione che diede luogo già negli Anni 1920-21 ai primi violenti scontri fra coloni ebrei e residenti arabi, insofferenti della minaccia portata ai loro diritti sulla Palestina. Erano i primi segnali di un conflitto che avrebbe insanguinato la regione nei decenni successivi. 2 Situata sulla costa israeliana tra le città di Haifa, a nord, e di Tel Aviv, a sud, Cesarèa Marittima (così chiamata in onore di Cesare Augusto) era un importante porto del Mediterraneo, base commerciale già all’epoca dei Fenici (IV sec. a.C.). Divenuta, nel 13 a.C., capitale politica e militare della Giudea vi pose la propria sede il proconsole romano. 3 Quello distrutto nel 70 d.C. era il secondo Tempio di Gerusalemme. Il primo Tempio, edificato verso la metà del X secolo a.C. al tempo del re Salomone, venne distrutto dai babilonesi nell’anno 586 a.C.

Muro del pianto (Gerusalemme). E’ il muro di cinta occidentale del Tempio, distrutto da Tito nel 70. Nelle fessure del muro gli ebrei infilano dei foglietti con sopra scritte delle preghiere, ritenendo che quel luogo sia il più sacro della Terra.

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seconda guerra giudaica al termine della quale i romani (sotto l’imperatore Adriano) presero una

misura estremamente drastica: dispersero gli ebrei al di fuori della Palestina [la diaspora]4 al fine

di infrangere una volta per tutte la loro resistenza politica.

Da questo momento in poi gli ebrei non ebbero più una loro terra: comunità ebraiche sorsero

in moltissime parti dell’Impero romano, sia nelle zone europee sia nell’Africa del Nord e in

oriente, penisola arabica compresa. La decisione dei romani era stata dettata da ragioni politiche5,

non religiose, ma per gli ebrei si pose da allora il problema del mantenimento della loro identità

culturale e religiosa nelle nuove condizioni di dispersione.

Le origini Per provare a capire qualcosa di quella che è probabilmente la “questione” più intricata della storia

contemporanea bisogna tornare indietro, al 1800. Dai tempi della rivoluzione francese, la

maggioranza dei paesi europei aveva soppresso le incapacità giuridiche e le ingiustizie sociali di

cui le comunità israelitiche avevano sofferto fin dal Medioevo6. In altri termini, gli ebrei erano

ormai giuridicamente sullo stesso piano degli altri cittadini, in quanto avevano lo stesso diritto di

votare, di presentarsi candidati alle elezioni, di muoversi liberamente, di esercitare qualunque

professione7.

In Russia, invece, quasi tutti gli ebrei erano costretti a vivere in tante aree, e incontravano

non minori ma crescenti difficoltà amministrative e giuridiche in questioni come il diritto di

scegliersi un mestiere. La politica zarista di matrice antiebraica conobbe una rinnovata

recrudescenza quando, dopo l’assassinio di Alessandro II nel 1881, una serie di violenti pogrom

(dal russo “devastazione” , il termine indica le sommosse popolari antisemite, fomentate dalle

                                                             4 Quella legata alle due guerre giudaiche è, propriamente, la seconda diaspora degli ebrei, la prima si era avuta tra il 722 e il 568 a. C., cioè quando dopo una permanenza in Palestina durata più o meno mezzo millennio i due regni di Israele (a Nord) e di Giuda (a Sud) erano stati conquistati dagli Assiri, prima, e dai Babilonesi poi e gli ebrei si erano andati insediando sull’Eufrate, poi sul Tigri, in Ninive, quindi a Babilonia (esilio o cattività babilonese, tra il VII e il VI sec.). 5 Animatori delle ribellioni contro il dominio romano furono gli zeloti, un movimento politico-religioso che – oltre ad essere difensore dell’ortodossia e dell’integralismo ebraici (il nome deriva dal fatto di prendere a norma di vita lo «zelo» per la Legge) - intendeva difendere anche a mano armata l’indipendenza politica del regno ebraico. Considerati dai Romani alla stregua di terroristi e criminali comuni poiché si ribellavano con le armi alla presenza romana in Palestina, nonostante godessero di libertà religiosa e di esenzione dal culto imperiale sia in Palestina sia in tutto il territorio dell’impero, lo scontro era inevitabile. 6 «Prima dell’Ottocento – scrive Claudio Vercelli – le comunità ebraiche europee, sia ad Oriente che ad Occidente, pur essendo parti costitutive del tessuto sociale avevano vissuto in una condizione di minorità. Il peso del pregiudizio religioso di matrice cristiana, risalente al tardo Impero romano e poi diffusosi nel Medioevo, ne aveva condizionato gli sviluppi. Un sistema articolato di interdizioni aveva impedito che alle minoranze ebraiche fossero garantite condizioni di uguaglianza rispetto alla popolazione cristiana». (Claudio Vercelli, Storia del conflitto israelo-palestinese, Editori Laterza, 2010, p. 13). Unica “isola felice” per gli ebrei fu la Spagna durante la dominazione musulmana (secc. VIII-XV): gli arabi non facevano molte distinzioni fra cristiani ed ebrei, anzi si sentivano più vicini ai secondi per la rigida concezione monoteistica e per la comunanza di alcune pratiche, come la circoncisione o i divieti alimentari. Ciò fece sì che tra X e XIII secolo la cultura ebraica – filosofia, medicina, scienza – conoscesse nella penisola iberica una straordinaria fioritura. Nei secoli successivi alla cacciata dalla Spagna e da tutti i suoi possedimenti europei, la storia delle comunità ebraiche divenne storia di isolamento nei ghetti e di violenze subite. Poi la lenta integrazione a partire dall’epoca illuministica. 7 «Se nella Francia della monarchia borghese di Luigi Filippo d’Orleans – leggiamo in Vercelli – l’emancipazione fu riconfermata nel 1831, così come in Belgio e Olanda; in Svizzera ciò avvenne tra il 1866 e il 1874, in Austria nel 1867, in Inghilterra nel 1871, lo stesso anno della Germania, unificata sotto Guglielmo I. anche in Italia si dovette attendere l’unificazione per uniformare il trattamento. Dopo il decreto emancipatorio del 1848, che interessò gli ebrei del Regno di Sardegna, si pervenne alla totale completa parificazione nel 1870, con la definitiva caduta dello Stato pontificio» (Claudio Vercelli, cit. p. 16). In quest’ultimo, il ghetto di Roma rimase infatti operante sino alla liberazione, settembre 1870, della città.

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autorità politiche e religiose, durante le quali si consumavano massacri e saccheggi)

attraversarono tutta la Russia occidentale. «L’inasprimento delle norme antigiudaiche giunse fino

al punto di impedire lo svolgimento delle attività artigianali, di accedere alle libere professioni,

di commerciare le bevande alcoliche, di lavorare nelle

campagne. Di fatto centinaia di migliaia di famiglie furono

costrette alla mendicità, entrando a far parte di un vasto

sottoproletariato urbano»8. Ciò provocò un processo

migratorio di ampie dimensioni che portò tantissimi ebrei a

lasciare la madrepatria per recarsi in paesi più ospitali9, tra

cui la Palestina, regione che allora, nel XIX secolo,

comprendeva l'intero territorio di Israele, Cisgiordania e

Striscia di Gaza e costituiva una società prevalentemente

musulmana (86%), ma anche cristiana (10%) ed ebrea

(4%).

Ai pogrom e alle persecuzioni verso gli ebrei in Russia,

nel 1894 si aggiunge il famoso episodio del “caso Dreyfus”,

in Francia. Di fronte a questa manifestazione di

antisemitismo e ad altre che si diffondevano in altri paesi

europei, Theodor Herzl fu spinto a concepire l’idea di una

soluzione nazionale alla questione ebraica. Risultato di

questa «conversione» fu un piccolo libro, un pamphlet, dal

titolo Lo Stato Ebraico (Der Judenstaat), che Herzl

pubblicò a Vienna nel 1896; in esso propugnava, appunto,

il progetto della riunificazione pacifica degli ebrei della

diaspora in una propria entità nazionale ispirata agli ideali

democratici dei movimenti patriottici europeio del primo

Ottocento.

Quale sede naturale dello stato ebraico Herzl pensava

alla Palestina10, ma inizialmente prese in esame altre ipotesi

quale l’Argentina del Sud (nei territori della Patagonia,

disabitati a causa del clima), ma anche l’Uganda,

protettorato britannico dal settembre 1894. Nel 1897 (29

agosto) riuscì ad organizzare a Basilea il primo congresso

sionistico internazionale che, rifiutando la possibilità offerta dall’Argentina e dall’Uganda,

                                                             8 Claudio Vercelli, cit. p. 19. 9 Tra il 1881 e il 1914 «circa 2 milioni si recarono negli Stati Uniti, che all’epoca erano alla ricerca di manodopera da impiegare nella colonizzazione dei territori. Non meno di 350 mila andarono invece a risiedere nell’Europa occidentale. Una quota di molto minore, invece, ossia circa 70 mila ebrei, si recò nella Palestina ottomana» (Vercelli, cit. p. 20). 10 «La Palestina - scrive Herzl in Lo Stato ebraico - è la nostra patria storica, che ci resterà sempre nel cuore. Questo nome da solo sarebbe un segnale di adunata straordinariamente toccante per il nostro popolo. Se Sua Maestà il Sultano ci concedesse la Palestina , ci potremmo impegnare, per sdebitarci, a risistemare le finanze della Turchia. In favore dell’europa costruiremmo là una parte del vallo per difenderci dall’Asia, costituendo così un avamposto della cultura contro la barbarie. Come Stato neutrale resteremmo in rapporto con tutta l’Europa, che dovrebbe garantire la nostra esistenza».

Theodor Herzl. Nato nel 1860 a Budapest da famiglia ebraica, esercitava la propria attività di giornalista a Vienna (dove si era trasferito per studiare diritto, ma poiché processi e codici lo annoiavano mortalmente preferì appunto il giornalismo) quando nel 1894 esplose il caso Dreyfus, la sua «via di Damasco». Herzl, che paradossalmente era stato sostenitore dell’ideale dell’assimilazione, si convinse infatti che gli ebrei avrebbero potuto salvaguardare la loro identità nazionale solo all’interno di un proprio stato. Sta in questo la sua innovazione rispetto ad altri precusori dell’idea sionistica: egli fu infatti il fondatore del sionismo politico, perché in lui l’aspirazione al ritorno in Palestina, nella terra d’Israele, perdeva il carattere mistico e religioso, nonché sociale, per diventare un progetto politico e laico. Morto il 3 luglio 1904, ad appena 44 anni, fu sepolto a Döbling, Vienna, accanto al padre. Nel 1950, in adempienza alle sue volontà testamentarie, le sue ceneri vennero traslate in Israele, a Gerusalemme.  

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definì il programma tendente alla creazione dello Stato ebraico in Palestina11. E negli stessi anni

iniziava l’immigrazione verso le terre palestinesi.

Finché i numeri dell'immigrazione restarono contenuti, la popolazione araba non reagì, le

cose cambiarono quando i sionisti iniziarono l'acquisto e l’occupazione di terre, che non potevano

più essere acquistate dalla popolazione araba. Nei primi dieci anni del 1900 nascono i primi

movimenti nazionalisti arabo-palestinesi con l'obiettivo di respingere quella che ormai sta

prendendo le forme di un'invasione.

La storia del sionismo (da «Sion», nome con cui si indicava la collina di Gerusalemme dove

sorgevano il Tempio e la parte più antica della città; successivamente venne a indicare

estensivamente la città stessa) e quella della stessa Palestina, ebbero un cambiamento radicale

connesso alla definitiva crisi del dominio ottomano (dominio durato per quattro secoli: la regione

era passata sotto il dominio ottomano nel 1517, anno in cui fu sottratta ai mamelucchi)12 e quindi

agli eventi della prima guerra mondiale, quando l’Inghilterra e la Francia impostarono con la

Palestina un triplice gioco politico. Le due potenze, infatti, dapprima negoziarono con lo sceriffo

(da sharif “nobile”) della Mecca, Hussein, la neutralità araba - poi trasformata in cobelligeranza

- con la promessa (ottobre 1915) di creare un “Grande regno arabo” indipendente, che avrebbe

abbracciato il territorio fra Egitto e Persia (quindi Arabia, Irak, Siria e Palestina); successivamente

si impegnarono con la dichiarazione Balfur (2 novembre 1917) a riconoscere il diritto degli ebrei

a costituire un focolare nazionale13 (national home) in Palestina (promettendo così

contemporaneamente questa regione sia agli arabi sia agli ebrei); nel frattempo, però, stipulavano

segretamente gli accordi Sykes-Picot (1916), con l’obiettivo di spartirsi in zone d’influenza l’area

mediorientale dopo la fine del periodo ottomano. Cosa che avvenne, sostanzialmente, al termine

della prima guerra mondiale, quando con il trattato di Sevres (1920) la Società delle nazioni pone

sotto “mandato” della Francia Siria e Libano e sotto quello della Gran Bretagna i territori

palestinesi.

È in questa fase che la situazione si complica ulteriormente: qual è stato davvero il ruolo della

Gran Bretagna? Lo scopo doveva essere quello di aiutare la popolazione locale alla “democrazia

liberale”, ovvero a formare le proprie istituzioni, al fine di preparare gli arabi di Palestina

all’indipendenza. Di fatto continuò a favorire l’immigrazione ebraica: negli anni '20 gli ebrei

sono ormai il 10% (84 mila) del totale, alla fine degli anni '30 gli ebrei sono oltre 400 mila.

                                                             11 Durante il Congresso di Basilea fu creata l’Organizzazione internazionale sionista, dalla quale nel 1901 ebbero vita due particolari istituzioni - la Banca coloniale ebraica, una banca nazionale con centinaia di migliaia di azionisti, e il Fondo nazionale ebraico, nato dall’abnegazione del popolo – finalizzate a finanziare l’acquisto di terreni collettivi in Palestina e permettere in tal modo il ritorno degli ebrei in questa regione. 12 Dall’arabo mamluk, “schiavo”, il termine m. indicava una singolare casta militare originatasi nel corso del XII secolo, quando i sovrani siriani ed egiziani per fronteggiare la minaccia dei mongoli e dei crociati allevarono giovanissimi schiavi, per lo più turchi, e li addestrarono come soldati di professione. Successivamente i mamelucchi, consci della propria forza, divennero una dinastia militare, che finì per spodestare gli antichi padroni: intorno al 1250, infatti, dopo essersi impossessati di Siria ed Egitto, cacciarono i crociati dalla Palestina, diedero inizio a una massiccia opera urbanistica, consolidando la presenza dell’islam nel Vicino Oriente con un gran numero di moschee, scuole coraniche (madrasa), ospizi per pellegrini e monasteri. Tra il 1515 e il 1517 gli ottomani conquistarono prima l’Egitto e la Siria, quindi la Palestina. 13 Il termine "focolare nazionale", impiegato al posto di un più esplicito "Stato" o "Nazione", era tuttavia ambiguo e la dichiarazione specificava anche che non dovevano essere danneggiati "i diritti civili e religiosi delle comunità non-ebraiche della Palestina". L'interpretazione della Dichiarazione Balfour sarà pertanto, fin dall'inizio, causa di attriti tra la popolazione islamica preesistente (che temeva la costituzione di uno Stato ebraico) e i sionisti, che la interpretavano invece come un appoggio, da parte del governo britannico, al loro progetto.

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Il tutto mentre il Territorio Palestinese è sempre sotto la guida britannica. La situazione non fa

che complicarsi con il passare del tempo, con scontri sempre più accesi tra i gruppi paramilitari

dell'una o dell'altra fazione (il punto critico si raggiunse con i moti palestinesi del 1929, quando

alcune centinaia di sionisti marciarono sul Muro del pianto rivendicando il controllo di

Gerusalemme, e scatenando così la risposta da parte araba).

Nel 1936 ha inizio la prima rivolta palestinese contro il dominio britannico e le continue

immigrazioni ebraiche. L’anno successivo arriva una svolta nella politica britannica: nel

rapporto redatto da una Commissione reale presieduta da Lord Robert Peel (pubblicato il 7 luglio)

si dichiarava che i doppi impegni presi con ebrei ed arabi erano inconciliabili e che il conflitto fra

arabi ed ebrei è ormai “insopprimibile”, pertanto si avanzava la proposta di dividere la Palestina

in due, uno Stato ebraico al nord e uno Stato arabo al sud. Ma il rapporto Peel viene respinto sia

dall’Alto Comitato, che guida il movimento palestinese, sia dal XX Congresso sionista (Zurigo 3-

17 agosto 1937) . E subito dopo riesplode la rivolta14: gli anni 1936-39 sono quelli della “grande

rivolta araba” in tutta la Palestina, in risposta all’appoggio inglese all’immigrazione ebraica;

rivolta che l’esercito inglese, sostenuto dall’Haganah e dall’Irgun, reprime duramente.

Nel 1939, però, alla risposta militare gli inglesi fanno seguire anche quella politica: al fine di

ovviare alla crescente anglofobia araba cambiano atteggiamento: la politica inglese in Palestina

si fa in buona misura filo-araba: nel loro nuovo Libro Bianco, infatti, provano a porre un freno

all'immigrazione, ponendo ancora cinque anni di tempo per gli ebrei che volessero raggiungere

la Palestina e in un massimo di 75 mila; inoltre limitano drasticamente il diritto degli ebrei di

acquistarvi terre15. Ciò fece sì, ovviamente, che gli ebrei già presenti in Palestina vedessero ora

come nemici non soltanto gli arabi, ma anche le autorità britanniche. Intanto, però, erano gli anni

di Hitler e delle persecuzioni antisemite in Europa: gli ebrei ignorano il Libro bianco16 e grazie

                                                             14 Se fino ad allora durante le rivolte arabe i coloni ebrei in genere non avevano dato luogo a rappresaglie in nome della teoria dell’Havlaga (moderazione), nel novembre del ’37 all’ organizzazione clandestina paramilitare ebraica creata nel giugno 1920, l’ Haganah (“difesa”: difesa degli immigrati ebrei in territorio palestinese), si aggiunse una milizia della destra sionista, l’Irgun, che cominciò un’opera di sistematico terrorismo con lancio di bombe nei mercati, fucilate contro gli autobus ecc. A proposito di questo gruppo paramilitare (la cui denominazione completa era Irgun Zwai Leumi, “Organizzazione militare nazionale”, detto anche Bet Haganah, “Haganah non ufficiale” o Haganah Leumit, “Difesa nazionale”), ricordiamo che nasce nel 1931 ad opera di Avram Tehomi in polemica con la politica troppo moderata dell’Haganah e le sue propensioni socialiste. Programma della nuova organizzazione era la lotta armata per costituire lo Stato del Grande Israele (Erez Israel) in Palestina. In occasione dello scoppio della “grande rivolta palestinese” del ’36 nel gruppo dell’Irgun si ebbe - aprile ’37 - una spaccatura tra quanti (lo stesso Tehomi, seguito da ca. la metà dei 3 mila combattenti) ritenevano di unirsi all’Haganah e di collaborare con le autorità britanniche per far fronte comune dinnanzi agli attacchi arabi, e quanti invece, su posizioni radicali, rimasero nel vecchio gruppo, che conservò il nome Irgun, impegnato a combattere sia gli arabi che gli inglesi. Una nuova spaccatura nell’Irgun si ebbe nel giugno 1940 tra chi, ritenendo Hitler nemico numero uno del popolo ebraico, sosteneva la necessità di collaborare con gli inglesi, e chi, ritenendo invece gli inglesi principale nemico (opinione rafforzata dalla pubblicazione del libro bianco nel maggio ’39), si opponeva a tale scelta. A capo della prima posizione, maggioritaria, era David Raziel, alla cui morte, il 20 maggio ’41, capo dell’Irgun divenne Menachem Begin (primo ministro di Israele dal 1977 al 1983 e premio Nobel nel 1978); l’ala minoritaria, guidata da Avraham Stern, diede vita al “gruppo Stern” (v. nota 22), che concentrò i suoi attacchi esclusivamente contro obiettivi britannici. 15 Nel Libro bianco, detto il “Libro bianco di MacDonald”, pubblicato il 17 maggio del ’39 «si affermava che l’Inghilterra non voleva né creare uno stato ebreo, né uno stato arabo della Palestina e prevedeva la fine del mandato per il 1949. In quell’anno si sarebbe accordata l’indipendenza alla Palestina con un governo diviso tra Palestinesi ed Ebrei. L’immigrazione sarebbe terminata con l’immissione di 75.000 nuovi Ebrei nei successivi cinque anni e il governo avrebbe regolamentato severamente il trasferimento delle terre» (Renata Ameruso, “La questione palestinese”, in Percorsi di Storia, Editrice La Scuola, Brescia 2001, p.157). 16 Da segnalare che il XXI Congresso del sionismo, svoltosi a Ginevra nell’agosto 1939, rifiutò il Libro bianco inglese, che limitava l’immigrazione ebraica in un momento drammatico.

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all'appoggio degli Stati Uniti raggiungono in massa la futura Israele. Alla fine della seconda

guerra mondiale, gli ebrei sono il 30% del totale della popolazione (560.000 ebrei e 1.250.000

arabi).

La “questione” rimessa all’Onu Nel febbraio 1947 la Gran Bretagna, provata dalla guerra mondiale e da una serie di attentati17,

decise di “internazionalizzare” il problema rimettendo il mandato palestinese nelle mani

delle Nazioni Unite, cui venne affidato il compito di risolvere l'intricata situazione. L'Onu dovette

quindi affrontare la situazione che dopo trent'anni di controllo britannico era diventata pressoché

ingestibile, visto che oramai la popolazione ebraica costituiva un terzo dei residenti in Palestina

(608 mila ebrei su una popolazione totale di 1.850.000), anche se possedeva solo una minima

parte (il 12%) del territorio.

Allo scopo di trovare una soluzione alla questione della Palestina fu creata l'UNSCOP (United

Nations Special Committee on Palestine), una Commissione incaricata dall’Assemblea generale

dell’Onu ad indagare sulle cause del conflitto in Palestina e

trovarne, spprattutto, una possibile soluzione. Essa

comprendeva 11 nazioni (Canada, Cecoslovacchia,

Guatemala, Olanda, Perù, Svezia, Uruguay, India, Iran,

Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, Australia) da

cui erano escluse le nazioni "maggiori", per permettere una

maggiore neutralità.

Sette di queste nazioni (Canada, Cecoslovacchia,

Guatemala, Olanda, Perù, Svezia, Uruguay) votarono a

favore di una soluzione con due Stati divisi e Gerusalemme

sotto controllo internazionale, tre per un unico stato

federale (India, Iran, Repubblica Socialista Federale di

Jugoslavia), e una si astenne (Australia).

Nella sua relazione l'UNSCOP si pose il problema di

come accontentare entrambe le fazioni, giungendo alla

conclusione che era "manifestamente impossibile", ma che

era anche "indifendibile" accettare di appoggiare solo una

delle due posizioni. L'UNSCOP raccomandò anche che la

Gran Bretagna cessasse il prima possibile il suo controllo

sulla zona, sia per cercare di ridurre gli scontri tra la

popolazione di entrambe le etnie, sia per cercare di porre

fine agli attriti presenti tra le comunità ebraiche e il governo mandatario.

                                                             17 La Gran Bretagna «aveva più soldati in Palestina che nel subcontinente indiano ed era stata coinvolta, costantemente, in scontri diretti con entrambe le leadership. […] Non fu comunque – scrive Ilan Pappe – il terrore a cacciare i britannici. L’inverno particolarmente rigido del 1946-1947 e l’atteggiamento rigoroso degli americani nei confronti del debito britannico innescarono una crisi economica che spinse la Gran Bretagna ad avviare un limitato processo di decolonizzazione, prevalentemente in India e in Palestina» (Ilan Pappe, Storia della Palestina moderna. Una terra, due popoli. Einaudi, Torino 2005, p.148).

Spartizione della palestina. Nella risoluzione 181 al futuro Stato ebraico viene assegnata una porzione di territorio di 14 mila km² di ampiezza, comprendente una popolazione di 558 mila ebrei e 405 mila arabi. Allo Stato arabo, imvece, erano attribuiti 11.500 km², con 804 mila arabi e 10 mila ebrei. Oltre che più esteso di quello previsto per lo Stato arabo, lo Stato ebraico disponeva delle terre migliori. 

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La creazione dello Stato d’Israele La definitiva risposta da parte dell’Assemblea delle Nazioni Unite alla questione palestinese

fu data il 25 novembre 1947, giorno in cui fu messa ai voti la proposta della divisione della

palestina; proposta che ottenne la maggioranza. E così dopo aver discusso come operare questa

divisione il 29 novembre 1947 fu approvata – sulla base del piano di maggioranza UNSCOP - la

risoluzione 181 (che ottenne 33 voti a favore, 13 contrari e 10 astenuti)18 con la quale si

raccomandò la spartizione del territorio conteso tra uno Stato arabo-palestinese, uno ebraico e una

terza zona, che comprendeva Gerusalemme, amministrata direttamente dall'Onu. 

Nel decidere su come spartire il territorio - va detto - l'UNSCOP considerò, per evitare

possibili rappresaglie da parte della popolazione araba, la necessità di radunare tutte le zone dove

i coloni ebraici erano presenti in numero significativo nel futuro territorio ebraico, a cui venivano

aggiunte diverse zone disabitate (per la maggior parte desertiche) in previsione di una massiccia

immigrazione dall'Europa, per un totale del 56% del territorio. Le reazioni alla risoluzione

dell'Onu furono diversificate: la maggior parte dei gruppi ebraici l'accettò, pur lamentando la non

continuità territoriale tra le varie aree assegnate allo stato ebraico. Gruppi più estremisti la

rifiutarono, essendo contrari alla presenza di uno Stato arabo in quella che era considerata

"la Grande Israele" e al controllo internazionale di Gerusalemme. Tra i gruppi arabi la proposta

fu rifiutata, ma con diverse motivazioni: alcuni negavano totalmente la possibilità della creazione

di uno stato ebraico, altri criticavano la spartizione del territorio che ritenevano avrebbe chiuso i

territori assegnati alla popolazione araba (oltre al fatto che lo Stato arabo non avrebbe avuto

sbocchi sul Mar Rosso e sul Mar di Galilea, quest'ultimo la principale risorsa idrica della zona),

altri ancora erano contrari per via del fatto che a quella

che per ora era una minoranza ebraica fosse assegnata

la maggioranza del territorio.

Le nazioni arabe fecero ricorso alla Corte

Internazionale di Giustizia19, sostenendo la non

competenza dell'Assemblea delle Nazioni Unite nel

decidere la ripartizione di un territorio andando contro

la volontà della maggioranza dei suoi residenti, ma il

ricorso fu respinto. La decisione delle Nazioni Unite

fu seguita da un'ondata di violenze senza precedenti

da parte dei gruppi militari e paramilitari, sionisti e

arabi, che fece precipitare nel caos la Palestina nel

1948. Nel medesimo anno Londra ritirò le proprie

truppe, lasciando così il Paese in balia del caos e dei

gruppi paramilitari. Le organizzazioni combattenti israeliane (che miravano a conquistare il

                                                             18 Fra le 33 nazioni che diedero l’assenso alla risoluzione 181 vi erano Usa e Urss, mentre tra quanti si astennero nella votazione ci fu (oltre a Cina e Jugoslavia, tra gli altri) anche la Gran Bretagna, la quale riteneva che il piano di divisione si sarebbe rivelato inaccettabile per entrambe le parti e annunciò che avrebbe terminato il proprio mandato il 14 maggio 1948. 19 La Corte Internazionale di Giustizia (da non confondere con la Corte di giustizia, organo dell’Unione europea creato nel 1952) è il principale organo giudiziario delle Nazioni Unite. Fondata nel 1945, con sede nel Palazzo della pace all’Aia (Paesi Bassi), la sua principale funzione è quella di dirimere le dispute fra Stati membri delle Nazioni Unite.

David Ben Gurion (1886-1973) a Tel Aviv, città fondata dagli ebrei nel 1909, alla presenza dei delegati del Consiglio nazionale ebraico proclama la costituzione dello Stato d’Israele. Nella proclamazione di indipendenza sottolinea, tra l’altro, il legame storico tra gli Ebrei e la Palestina: «La terra di Israele fu la culla del popolo ebraico. Qui fu formata la sua entità spirituale, religiosa e nazionale».

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maggior territorio possibile per il proprio Stato, inducendo alla fuga ed espellendo i residenti

arabi) e le forze arabe (che miravano a conquistare la totalità del territorio assegnato all'etnia

ebraica, di fatto espellendola e bloccando ogni futura immigrazione) si scontrarono così col

massimo della violenza e dell'odio reciproco, il tutto ai danni dell'indifesa popolazione rurale e

urbana palestinese di entrambe le etnie20.

La prima guerra arabo-israeliana Il 14 maggio ’48, ultimo giorno del mandato britannico, David Ben Gurion, presidente

dell’Agenzia Ebraica (l’organizzazione sionista creata negli anni Venti per facilitare

l’immigrazione degli ebrei in Palestina e che nel corso del tempo divenne una specie di “governo

ombra” della comunità ebraica in Palestina sotto il mandato britannico), proclamò la nascita dello

“Stato ebraico in terra di Israele” e gli Stati arabi, che non volevano riconoscere la presenza

dell’«intruso», reagirono subito attaccandolo militarmente.

Egitto, Transgiordania, Iraq, Libano e Siria (paesi membri della

Lega araba, fondata al Cairo il 22 marzo nel 1945 allo scopo di

rinsaldare la solidarietà panaraba) riunirono i propri eserciti

sotto un unico comando e invasero Israele. Cominciava così la

prima delle molteplici guerre arabo-israeliane. Il segretario della

lega araba, Rahman Azzab (Pascià), dichiara: “Sarà una guerra

di sterminio” e “Non importa quanti sono gli ebrei. Li

ributteremo a mare”. Dopo gli effimeri successi iniziali delle

truppe arabe, «la prima guerra arabo-israeliana (maggio ’48-

gennaio ’49) si risolse però con la sconfitta delle forze arabe mal

equipagiate e mal coordinate fra loro, e segnò la definitiva

affermazione del nuovo Stato ebraico. […]

Con la guerra del ’48, lo Stato ebraico si ingrandì rispetto al

piano di spartizione dell’Onu, occupando anche la parte

occidentale di Gerusalemme. La Transgiordania – che mutò il

suo nome in quello di Giordania – incamerò i territori occupati

dalle sue truppe durante il conflitto, sottraendoli all’ipotizzato

Stato arabo di Palestina. Quest’ultimo non vide la luce. Un

milione di profughi arabi abbandonarono i territori occupati da

Israele e ripararono nei paesi vicini, per lo più la Giordania.

Cominciò così il dramma palestinese, sul quale si sarebbe concentrato da allora il conflitto arabo-

israeliano»21.  

                                                             20 Fra il 30 novembre 1947 e il 1° febbraio 1948 furono uccisi 427 arabi, 381 ebrei e 46 britannici, mentre il numero dei feriti ammontò a oltre 1000 arabi, 725 ebrei e 135 britannici. Il 19 marzo 1948, in seguito all’ampiezza dei disordini e per evitare un bagno di sangue, il delegato americano chiese al Consiglio di sicurezza dell’Onu di sospendere la spartizione e il 1° aprile il consiglio di sicurezza votò all’unanimità una tregua e decise di convocare per il 16 aprile una sessione speciale dell’Assemblea generale sulla questione palestinese, ma il 4 aprile forze miste delle organizzazioni terroristiche paramilitari sioniste Irgun e Stern passarono all'attacco (è del successivo 9 aprile la distruzione del villaggio arabo di Deir Yassin, nei pressi di Gerusalemme, con un numero di morti che secondo le fonti varia da 100 a 250. Al di là del numero di morti , si trattò di uno degli episodi di terrorismo finalizzati a seminare panico tra gli arabi palestinesi e a farli fuggire “finché si era in tempo”. Certo è che dopo Deir Yassin il numero di profughi palestinesi passò da 60.000 a 350.000 in un solo mese). 21 A.Giardina – G. Sabbatucci – V. Vidotto, Nuovi profili storici, Vol. 3, tomo due, Ed. Laterza, 2012, pp. 612-613.

Folke Bernadotte. Uomo politico e diplomatico svedese, il 20 maggio 1948 (sei giorni dopo la dichiarazione di indipendenza di Israele), prese l'incarico di mediatore delle Nazioni Unite in Palestina. Il suo mandato era di “promuovere un pacifico aggiustamento della futura situazione in Palestina” e permettere un negoziato oltre i termini del Piano di Spartizione. Riuscì ad imporre un paio di tregue, ma nulla di più. Il 17 settembre, dopo aver fermato il suo convoglio – composto di tre auto – ad un blocco stradale a Gerusalemme Ovest, controllato dagli ebrei, un gruppo di estremisti sionisti della banda Stern, ostili ad ogni sua proposta di rinegoziazione, lo uccise insieme ad un ufficiale francese seduto al suo fianco.

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Un episodio avvenuto a pochi mesi dall’inizio della guerra che merita di essere ricordato è

l’uccisione dell’inviato dell’Onu in Palestina come mediatore, Folke Bernadotte (1895-1948),

conte di Wisborg. Inviato nella regione il 29 maggio ’48, Bernadotte era intento ad approntare

un nuovo piano di spartizione della Palestina che venisse accettato da entrambe le parti e che

prevedeva una qualche riduzione della parte di territorio che era stato assegnato a Israele. Ma

nessuna sua proposta viene accettata. In particolare Israele non ammetteva di discutere la

limitazione delle immigrazioni ebraiche e il rientro dei rifugiati palestinesi che in settembre

Bernadotte impose a Israele con l’obbligo di ricostruire le loro abitazioni. Pochi gioni dopo (il 17

settembre) Bernadotte viene ucciso a Gerusalemme assieme al suo assistente da terroristi ebrei

del gruppo Stern22.

L’assassinio di Bernadotte oltre che «la caduta di prestigio internazionale di Israele […] comportò

i primi urti con le Nazioni Unite sino

ad allora apertamente filosioniste»23. 

Gli accordi armistiziali firmati a Rodi

Rodi separatamente, pur non costituendo

costituendo trattati di pace (poiché i paesi, garantivano il

Paesi arabi continuavano a considerarsicessate il

considerarsi in guerra con gli ebrei), gara

garantivano il cessate il fuoco tra i contendenti. Il primo di

contendenti. Il primo di essi fu

stipulato con l’Egitto (24 febbraio

1949), quindi si sucedettero quelli

firmati con il Libano (23 marzo), con

la Transgiordania (3 aprile) e, infine, il

20 luglio quello firmato con la Siria24. Nel corso dei combattimenti Israele aveva perso 6.373

persone (circa 4 mila militari, la parte millitari, la parte restante civili). I morti in campo arabo

                                                             22 Il gruppo Stern (o «Stern Gang», come preferivano chiamarla gli inglesi per sottolinearne la metodologia terroristica) era una formazione paramilitare sionista che seminò il terrore prima tra i britannici, poi tra la popolazione palestinese. Prese il nome da Avraham Stern che dopo aver militato nell'Irgun ne uscì, nel 1940, con un gruppo di seguaci contrari alla collaborazione con la Gran Bretagna (considerata da Stern il principale nemico degli ebrei, specialmente dopo la pubblicazione, nel maggio ’39, del libro bianco) durante la Seconda guerra mondiale; collaborazione decisa dai sionisti e accettata dalla stessa Irgun oltre che dalla Haganah. Diversamente da queste ultime, finanziate dall'Agenzia ebraica e da ebrei ricchi della Palestina e degli Usa, il gruppo Stern, privo di risorse, ricorreva alle rapine per procurarsi fondi; braccato da britannici e sionisti, lo stesso fondatore venne ucciso nel 1942 dalla polizia inglese. I suoi seguaci si riorganizzarono e continuarono le operazioni antibritanniche, arrivando a uccidere in un attentato al Cairo (6 novembre 1944) il responsabile di Londra per il vicino Oriente, lord Moyne. Dopo aver compiuto altre clamorose imprese antibritanniche, nel 1946 (22 luglio) la banda Stern (assieme all’Irgun) attuò l’attentato dinamitardo alla sede del comando britannico nel King David Hotel di Gerusalemme, provocando 91 morti. Da ultimo, col nuovo nome di Lehi (acronimo di “Combattenti per la libertà d’Israele”) si rese protagonista del massacro (9 aprile ’48) di un intero villaggio palestinese: Deir Yassin. Tra le vittime - un numero imprecisato tra 120 e 250 persone - si contano un grande numero di anziani, donne e bambini. Il crimine venne condannato dall’Haganah, la principale forza paramilitare ebraica. Dopo la nascita dello Stato di Israele la maggior parte dei suoi uomini, come pure quelli dell’Irgun, entrarono nella Haganah, o meglio nelle Forze armate israeliane, note con l’acronimo IDF (“Forze di Difesa Israeliane”). 23 Ilan Pappe, cit., pp. 165-166. 24 Frattanto lo Stato di Israele era stato riconosciuto sia da tutti gli Stati occidentali, sia dall’Unione Sovietica, e l’11 maggio 1949 esso fu riconosciuto dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite e accolto come stato membro. Viceversa il previsto Stato arabo non vide mai la luce.

I confini tracciati da Israele alla fine del primo conflitto comprendevano il 78% del territorio della Palestina mandataria, ovvero il 50% in più di quanto le concedeva il piano di spartizione dell’Onu. La striscia di Gaza e la Cisgiordania furono occupate rispettivamente da Egitto e Transgiordania; Gerusalemme divisa tra giordani e israeliani: la zona assegnata agli arabi palestinesi non esiste più.

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non sono mai stati contati ma le stime variano da un minimo di 5 mila a un massimo di 15 mila

vittime.

 Profughi arabi: di chi la responsabilità?

L’esodo dei palestinesi, alla fine della prima guerra, verso i Paesi arabi che li ospitarono fu causato

da Israele che, cacciandoli da casa loro, ne fece dei profughi o piuttosto fu voluto e incentivato

dai più importanti capi politici e religiosi arabi? Più brevemente: espulsione o fuga volontaria

istigata dai leader arabi? Su tale annosa questione esistono, ovviamente, due versioni, quella

israeliana e quella araba. A esemplificazione

della prima riportiamo il parere di Indro

Montanelli, storico e giornalista che non ha

mai nascosto la sua linea filoebraica. «Il primo

esodo degli arabi palestinesi avvenne nel 1947

quando l’Onu riconobbe lo stato di Israele. Ma

a provocarlo – scrive il grande giornalista25 -

non furono gli israeliani. Furono gli stati arabi

circonvicini che, coalizzati per schiacciare

Israele sul nascere, alluvionarono i confratelli

palestinesi di messaggi radiofonici, invitandoli

a raggiungere il loro esercito che li avrebbe ricondotti in patria da vincitori e vendicatori. I

palestinesi ci credettero, partirono in massa, e dopo la disfatta rimasero fuori di casa. Da allora

sono trascorsi venticinque anni. Che cosa hanno fatto, gli Stati arabi, di questa povera gente, dopo

averla adescata ad abbandonare il loro focolare?

E’ un problema – continua Indro Montanelli - su cui mi sento di pronunciare un giudizio

obbiettivo e di prima mano perché l’ho studiato sul posto, facendo a più riprese il giro dei campi

di concentramento in cui i governi egiziano, giordano siriano e libanese avevano ammassato gli

sciagurati profughi. E’ vero: erano, anzi sono ghetti, nei quali non può incubare la disperazione.

Perfino il visitatore ne veniva contagiato. Ricordo che al termine della mia prima visita, andai

indignato a parlare coi rappresentanti delle Nazioni Unite per chiedere come mai queste non

facevano nulla per alleviare le condizioni di quei disgraziati. «Nulla?» mi risposero. E mi

mostrarono l’elenco degli aiuti, in materiali e in denaro, distribuiti fino allora. Non ne ho qui sotto

mano i dati. Ma chiunque voglia non farà fatica a recuperarli. E si tratta di cifre che avrebbero

consentito un’esistenza più che decente a una popolazuione anche doppia. A un patto si capisce:

che quegli aiuti arrivassero a destinazione. E questo era l’inghippo che non mi fu difficile

appurare, un po’ perché era abbastanza scoperto, un po’ perché nei Paesi arabi una mancia ha il

potere di sciogliere qualsiasi lingua.

Le Nazioni Unite, è ovvio, non potevano distribuire direttamente gli aiuti a i profughi.

Dovevano passare attraverso i governi degli Stati che li ospitavano e che si guardavano bene dallo

smistarli ai destinatari. Tutta la borsa nera di generi alimentari, vestiario, medicinali ecc., che

                                                             25 Indro Montanelli, “Quel no di Israele”, in Domenica del corriere del 26 settembre 1972. 

Profughi palestinesi abbandonano la loro terra

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fioriva (e come fioriva!) al Cairo, ad

Amman, a Damasco, a Beirut, era

alimentata da questi soccorsi. E quanto al

denaro, quello che non scompariva in tasca

ai funzionari locali, finiva in armamenti

per la grande rivincita, che poi si è

conclusa come sapete.

Tutto questo avveniva non soltanto per

la disorganizzazione e la corruzione, che

non sono (noi ne sappiamo qualcosa)

un’esclusiva dei Paesi arabi, ma che nei

Paesi arabi trovano la loro sublimazione;

ma anche perché questi paesi si volevano

di proposito, lasciando i profughi nella

loro miseria, alimentare il potenziale di

odio che essi poi contavano di rovesciare

contro Israele»26.

Quella di Montanelli è - per così dire

- la “versione filoisraeliana” della

questione dei profughi palestinesi. A fronte

di essa sta, ovviamente, quella degli storici

palestinesi e arabi, per i quali si trattò di

una espulsione bella e buona. Secondo

loro, la maggioranza dei rifugiati (valutati

fra i settecentomila e i novecentomila) fu

costretta a partire nel corso degli scontri fra

israeliani e palestinesi e poi della guerra

arabo-israeliana, nel quadro di un piano

politico-militare d’espulsione contrassegnato dai massacri.

La versione dei “nuovi storici” israeliani

Ma quel che merita qui di essere registrato è il fatto che già negli anni ’50, e soprattutto dopo la

seconda metà degli anni ’80, alcune stesse personalità israeliane, in particolare i due giornalisti e

ricercatori Ilan Pappe e Benny Morris (definiti i “nuovi storici”), hanno contestato la versione

                                                             26 A Montanelli, in questa sua lettura dei fatti, fa eco Sergio Romano secondo il quale è vero che «i vincitori [della prima guerra palestinese] incoraggiarono e talora provocarono l’esodo arabo»; ma è altresì vero che «i Paesi “fratelli” che li ospitarono non fecero quasi nulla per integrarli nella loro società. Due di essi, in particolare, Siria e Giordania, aspiravano al possesso della Palestina e avevano interesse a coltivare nei rifugiati la rabbia per la terra perduta e la speranza del ritorno» (Sergio Romano, Come e quando nacque la nazionalità palestinese, Corriere della sera, 7 marzo 2006).

Indro Montanelli. «Che i profughi palestinesi siano delle povere vittime, non c’è dubbio. Ma lo sono degli Stati Arabi, non d’Israele. Quanto ai loro diritti sulla casa dei padri, non ne hanno nessuno perché i loro padri erano dei senzatetto. Il tetto apparteneva solo a una piccola categoria di sceicchi, che se lo vendettero allegramente e di loro propria scelta. Oggi, ubriacato da una propaganda di stampo razzista e nazionalsocialista, lo sciagurato fedain scarica su Israele l’odio che dovrebbe rivolgere contro coloro che lo mandarono allo sbaraglio. E il suo pietoso caso, in un modo o nell’altro, bisognerà pure risolverlo. Ma non ci si venga a dire che i responsabili di questa sua miseranda condizione sono gli «usurpatori» ebrei. Questo è storicamente, politicamente e giuridicamente falso» (Indro Montanelli, Corriere della Sera, 16 settembre 1972).

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fornita dalla storiografia israeliana “ufficiale” o, se si

preferisce, tradizionale, rivisitando in chiave non-sionista la

storia di Israele.

Della nuova “versione” dei fatti storici relativi all’esodo

palestinese prodotta dai due citati autori israeliani,

riportiamo una sintesi della ricostruzione fattane dallo

storico francese Dominique Vidal nel suo libro, pubblicato

nel 1998, Il peccato originale d’Israele.

«Pur con opinioni e metodi diversi - scrive Vidal - ciò

che unisce questi intellettuali è l’obiettivo di rivedere il mito

della storia d’Israele, per ristabilire la verità sull’esodo dei

palestinesi. Il che, ovviamente, è abbastanza per attirare l’ira

degli storici tradizionali. Ciò che stimola queste ricerche è

l’apertura degli archivi israeliani pubblici e privati. Per

contro, i ricercatori sembrano ignorare interamente gli

archivi degli Stati arabi così come la memoria orale dei

palestinesi che altri intanto hanno cominciato a raccogliere.

Ma ciò è sufficiente per contraddire la tesi tradizionale

che descrive una debole comunità ebrea di Palestina male

armata, minacciata di sterminio da un mondo arabo unito e

superarmato: Davide di fronte a Golia. Al contrario i “nuovi

storici” sono d’accordo nel porre in rilievo la

decomposizione della società palestinese, le divisioni del

mondo arabo e l’inferiorità delle sue forze armate, il vantaggio strategico rappresentato per Israele

dall’accordo con l’emiro Abdallah di Transgiordania, l’appoggio della Gran Bretagna e il

sostegno degli Stati Uniti e dell’’Unione

Sovietica, la simpatia dell’opinione pubblica

mondiale ecc.

Se durante le prime settimane che

seguirono l’adozione del piano di spartizione

della Palestina il carattere volontario della fuga

di migliaia di Palestinesi agiati è fuor di

dubbio, che cosa avvenne in seguito? Nelle

prime pagine di The Birth of the Palestinian

Refugee Problem, Benny Morris scrive: “Non

esiste una prova che attesti che gli Stati arabi e

l’Alto Comando Arabo desiderassero un esodo

di massa o che essi avessero pubblicato una

direttiva generale o appelli che invitavano i

Palestinesi a fuggire. Anche se, in certe zone,

gli abitanti di villaggi specifici ricevettero dagli

Benny Morris. Nato l’8 dicembre 1948, è uno dei più influenti rappresentanti dei Nuovi Storici post-sionisti, un gruppo di ricercatori universitari che ha rimesso in discussione alcune visioni dei conflitti arabo-israeliani. Relativamente all’esodo palestinese Morris, a differenza di Ilan Pappe, propone un sistema più articolato di cause: esso appare come dovuto alla contemporanea congiunzione di una pluralità di cause (dallo storico analizzate puntualmente).

Ilan Pappe. Nato ad Haifa nel 1954, è un intellettuale e storico di sinistra, antisionista, uno dei più noti rappresentanti della “Nuova storiografia israeliana”. A proposito dell’esodo palestinese del 1948 sostiene, dissentendo dalle tesi più caute di Benny Morris, che si è trattato di un’operazione di “pulizia etnica”, conseguenza di una politica pianificata da Ben Gurion e messa in opera dai suoi consiglieri; politica applicata fin dal dicembre del 1947, ben prima quindi della proclamazione dello Stato d'Israele. Più specificamente, condivide l'opinione degli storici palestinesi, in particolare quella di Walid Khalidi, secondo cui il Piano Daleth sarebbe stato "un progetto di distruzione della società palestinese”.

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arabi l’ordine di partire essenzialmente per ragioni strategiche”. Al contrario, i fuggiaschi erano

minacciati di punizioni severe.quanto alle famose esortazioni alla fuga diffuse dalle radio arabe,

l’ascolto dei loro programmi registrati dalla BBC, dimostra che furono semplicemente inventate

per fini di propaganda. Benny Morris analizza in dettaglio la prima fase dell’esodo grazie al

rapporto redatto dai Servizi d'informazione dell’esercito israeliano del 30 giugno 1948. Questo

documento stima 391.000 Palestinesi che avevano

lasciato i territori e valuta le ragioni della loro

partenza: il 73% dei casi è provocato direttamente

dagli Israeliani e solo il 5% dei casi è dovuto agli

appelli arabi alla fuga. La conclusione di Morris è che

gli ebrei condussrero in modo premeditato e

sistematico una campagna che mirava all’espulsione

completa della popolazione palestinese autoctona27.

Il governo israeliano sviluppò per giunta una

politica inflessibile per impedire ad “ogni costo” -

termine usato dallo stesso Ben Gurion - il ritorno dei

rifugiati, cosa che l’Assemblea delle Nazioni Unite

esigeva dall’11 dicembre 194928. I villaggi furono

distrutti o occupati da emigranti ebrei, le terre divise

tra nomadi Kibboutzim. La legge sulla proprietà

abbandonate legalizzò questa confisca generalizzata.

Circa 400 borgate arabe furono cancellate dalla carta o

ebreizzate come la maggior parte dei quartieri arabi delle città miste.

Secondo un bilancio del 1952, Israele mise le mani su 73.000 stanze nelle case abbandonate,

7.800 negozi, botteghe e magazzini, 5 milioni di libri palestinesi, conti in banca e soprattutto su

300.000 ettari di terra. L’allora direttore del dipartimento fondiario del Fondo Nazionale Ebraico,

Yosef Weitz, ebbe un ruolo fondamentale in questa situazione. Nel 1948 orchestrò l’espulsione

dei palestinesi con la costituzione di un comitato che doveva supervisionare la distruzione dei

villaggi abbandonati o il ripopolamento con nuovi immigrati ebrei, e infine impedire il ritorno dei

rifugiati.

                                                             27 A sostegno della tesi secondo la quale l’espulsione dei palestinesi fu premeditata, si cita il cosiddetto piano Dalet (“Piano D”), di cui è ritenuto padre il Primo ministro israeliano David Ben Gurion. Il piano, che rappresenterebbe una strategia d’espulsione degli arabi dalla Palestina, non sarebbe stato concepito all’improvviso: l’espulsione era considerata uno dei tanti mezzi di rappresaglia dopo gli attacchi arabi contro i convogli e gli insediamenti ebrei. Il testo stesso del Piano D non lascia nessun dubbio sulle intenzioni di Ben Gurion e dei suoi amici. Esso prevede «delle operazioni contro i centri della popolazione nemica situati nel seno del nostro sistema di difesa o in prossimità, al fine di impedire che siano utilizzati come basi di una forza armata attiva. Queste operazioni possono essere condotte nei modi seguenti: distruggendo i villaggi (appiccando fuoco o la dinamite e deponendo le mine nei resti) oppure conducendo operazioni di rastrellamento secondo le linee direttive seguenti: accerchiamento del villaggio e indagine all’interno. In caso di resistenza, la forza armata deve essere annientata e la popolazione espulsa subito dalle frontiere dello stato». Il piano Dalet pare sia stato messo in atto, tra il dicembre 1947 e il maggio ’48, dalle due organizzazioni paramilitari ebraiche, la Banda Stern e l’Irgun, che non accettarono (a differenza dell’autorevole Agenzia Ebraica, che accettò in pieno la risoluzione 181) né l’idea di uno Stato arabo limitrofo ad Israele, né la rinuncia a Gerusalemme. 28 Si tratta certamente di un refuso tipografico; il riferimento è infatti alla risoluzione 194 dell’Assemblea generale dell’Onu dell’11 dicembre 1948 che stabiliva, appunto, il «ritorno dei profughi nelle loro case alla prima data possibile» ed eventuale indennizzo «per le proprietà di coloro che scelgono di non tornare»; ma l’esortazione era destinata a rimanere lettera morta.

Dominique Vidal. Saggista francese (è nato a Parigi nel 1950) di origine ebraica, è animatore in Francia e altrove del dibattito sulle vicende ebraico-europee e sul conflitto israelo-palestinese. Il testo riportato sulle posizioni dei “nuovi storici” israeliani è parte di una relazione tenuta da Vidal a Parigi nel 2003.

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Questa è la conclusione a cui pervengono i “nuovi storici” israeliani. Bisogna dunque

sottolineare il coraggio di cui hanno dato prova. Perché questa non è una pagina di storia come le

altre. Ciò che è stato messo a nudo è il “peccato originale” d’Israele. Il diritto dei sopravvissuti al

genocidio hitleriano a vivere sicuri in uno Stato doveva escludere quello delle figlie e dei figli

della Palestina a vivere, anch’essi, in pace nel loro Stato?»29.

Bibliografia Claudio Vercelli, Storia del conflitto israelo-palestinese, Editori Laterza, 2010

Ilan Pappe, Storia della Palestina moderna. Una terra, due popoli. Einaudi, Torino 2005.

Renata Ameruso, “La questione palestinese”, in Percorsi di Storia, Editrice La Scuola,

Brescia 2001.

A. Giardina – G. Sabbatucci – V. Vidotto, Nuovi profili storici, Vol. 3, tomo due, Editori Laterza,

Roma-Bari 2012.

M. Palazzo – M. Bergese, “I palestinesi se ne andarono o vennero espulsi?”, in Clio

Magazine, Vol. 3B, Editrice La Scuola, Brescia 2003.

                                                             29 Il lungo testo qui riportato, relativo alla “versione dei nuovi storici israeliani”, nella ricostruzione fatta da Vidal, è tratto da: M. Palazzo – M. Bergese, Clio Magazine, Vol. 3B, Edistrice La Scuola, Brescia 2003, pp. 122-123.