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Nicoletta Scotti Muth Nicoletta Scotti Muth Si può essere felici senza virtù? La risposta di Aristotele (guardando a Platone) The moral sensibility of the Greeks distinguished among three main ends of hu- man action: kalon (the beautiful), agaton (the good) end hedu (the pleasant). Plato first indicated that human live as a unity has a single end, which rejoins these three distinct characters. Aristotle developed this focal intuition in his idea of eudaimonia as complete end (telos teleion) of human life. This essay put to question the coinci- dence between eudaimonia and particular ends and asks about the role played by virtue as an ingredient of eudaimonia. The analysis develops considering central pas- sages in Plato’s Republic and Philebus, and the three ethic treatises of Aristotle. La conoscenza veramente allargante è quella che indugia presso il singolo fenomeno finché, sotto l’insistenza, il suo isolamento si spezza.. Th.W. Adorno * * Sul propileo del tempio di Latona a Delo stava scritto: «La cosa più bella è quella più giusta, quella migliore è la salute; quella per natura più piacevole che la sorte esaudisca i nostri desideri». Aristotele 1 si serve di questa massima perché essa esprime lapidariamente un modo di sentire diffuso e radicato nella tradizione nella quale egli viveva. E la usa provocatoriamente, in apertura dell’Etica Eudemia, per far capire da subito che, se essa fosse vera, l’uomo vivrebbe invano, perché non riuscirebbe mai a essere felice. Il sentire comune dei greci avvertiva una discrepanza fra il bello (kalon), il buo- no (agaton) e il piacevole (hedu). Bello è ciò che desta ammirazione e per la sua nobiltà è degno di essere onorato, nella fattispecie la giustizia 2 ; buono è ciò che fa * “Nur dort vermag Erkenntmis zu erweitern, wo sie beim Einzelnen so verharrt, dass über der Insistenz seine Isoliertheit zerfällt”, Minima moralia. 46. 1 EE I 1 1214a5-6; EN I 8 1099a27-28 Aristotele cita a memoria, il che giustifica la lieve discrepanza fra le due versioni. 2 In Italiano, dire che la giustizia è “bella” risulta deviante rispetto al significato greco del termine, in quanto per noi la pregnanza semantica del termine “bello” si è tutta contratta nella sua risonanza estetica. La giustizia, invece, come tutte le virtù, non si percepisce con i sensi e non è propria del corpo: «La massa ritiene che la felicità sia qualcosa di visibile e di ap- pariscente, come piacere, ricchezza o onore» (EN I 4 1095a23-24), mentre invece essa è un bene

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Nicoletta Scotti MuthNicoletta Scotti MuthSi può essere felici senza virtù?La risposta di Aristotele (guardando a Platone)

The moral sensibility of the Greeks distinguished among three main ends of hu-man action: kalon (the beautiful), agaton (the good) end hedu (the pleasant). Plato fi rst indicated that human live as a unity has a single end, which rejoins these three distinct characters. Aristotle developed this focal intuition in his idea of eudaimonia as complete end (telos teleion) of human life. This essay put to question the coinci-dence between eudaimonia and particular ends and asks about the role played by virtue as an ingredient of eudaimonia. The analysis develops considering central pas-sages in Plato’s Republic and Philebus, and the three ethic treatises of Aristotle.

La conoscenza veramente allargante è quella cheindugia presso il singolo fenomeno fi nché,

sotto l’insistenza, il suo isolamento si spezza..Th.W. Adorno*

*

Sul propileo del tempio di Latona a Delo stava scritto: «La cosa più bella è quella più giusta, quella migliore è la salute; quella per natura più piacevole che la sorte esaudisca i nostri desideri». Aristotele1 si serve di questa massima perché essa esprime lapidariamente un modo di sentire diffuso e radicato nella tradizione nella quale egli viveva. E la usa provocatoriamente, in apertura dell’Etica Eudemia, per far capire da subito che, se essa fosse vera, l’uomo vivrebbe invano, perché non riuscirebbe mai a essere felice.

Il sentire comune dei greci avvertiva una discrepanza fra il bello (kalon), il buo-no (agaton) e il piacevole (hedu). Bello è ciò che desta ammirazione e per la sua nobiltà è degno di essere onorato, nella fattispecie la giustizia2; buono è ciò che fa

* “Nur dort vermag Erkenntmis zu erweitern, wo sie beim Einzelnen so verharrt, dass über der Insistenz seine Isoliertheit zerfällt”, Minima moralia. 46.

1 EE I 1 1214a5-6; EN I 8 1099a27-28 Aristotele cita a memoria, il che giustifi ca la lieve discrepanza fra le due versioni.

2 In Italiano, dire che la giustizia è “bella” risulta deviante rispetto al signifi cato greco del termine, in quanto per noi la pregnanza semantica del termine “bello” si è tutta contratta nella sua risonanza estetica. La giustizia, invece, come tutte le virtù, non si percepisce con i sensi e non è propria del corpo: «La massa ritiene che la felicità sia qualcosa di visibile e di ap-pariscente, come piacere, ricchezza o onore» (EN I 4 1095a23-24), mentre invece essa è un bene

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bene, che è utile e vantaggioso, come la salute; dolce e piacevole ciò che soddisfa il desiderio, meglio se inaspettatamente e senza merito o sforzo. Nessun oggetto cui l’uomo aspiri sembrerebbe in grado di esibire tutti e tre questi caratteri uniti. Tanto Aristotele nei capitoli introduttivi delle due etiche principali3 dedicati alla di-scussione su quale sia «il più alto di tutti i fi ni raggiungibili mediante l’azione»4, che già Platone nella Repubblica, rilevano che questa discrepanza contraddice alcuni dati fondamentali dell’esperienza e quindi anche del modo di usare il linguaggio. A livello esigenziale, indice probabilmente di uno strato più profondo della realtà, che chiede di essere indagato, i tre aggettivi dovrebbero poter avere un medesimo referente. La ricerca del modo vero del darsi delle cose, per raggiungere il quale è necessario prima traforare la crosta indurita dell’apparenza, implica dunque pre-viamente l’affronto e la soluzione di aporie5 di diffi cile soluzione. Ma si tratta di un compito non procrastinabile: «Vedi che i nostri ragionamenti riguardano una que-stione a paragone della quale nessun’altra dovrebbe essere presa più seriamente, anche da parte di un uomo di poca intelligenza. Si tratta della questione del modo in cui si debba vivere»6.

Con queste parole Platone vuol dirci che la vita umana si pone, di per sé stessa, come il problema che come nessun altro merita di essere risolto, pena il condan-narsi a vivere nella confusione. Anche Aristotele si fa carico e, contrariamente a quanto si pensi, la soluzione da lui prospettata contrasta da quella platonica non tanto su punti sostanziali quanto su una serie di questioni derivate e di sviluppi in esse impliciti. Mettendo a frutto la sua proverbiale maestria analitica, egli è riu-scito a mettere a fuoco innanzitutto la complessità dei problemi. Cercando poi di

dell’anima (ibi, I 8, 1098b 19-20). Kalon si dovrebbe pertanto tradurre piuttosto con “nobile”, anche se la corrispondenza fra i due termini non è soddisfacente come quella che può vantare il corrispettivo tedesco edel. Non meraviglia che proprio la giustizia, fra tutte le qualità morali, venga presa ad esempio del supremo kalon, se già due esponenti della lirica del VI sec. a.C., Focilide e Teognide, avevano formulato con piena consapevolezza l’idea secondo cui la giusti-zia sarebbe la virtù sintetica, e in quanto tale suprema: «nella giustizia è compresa ogni virtù» (Theogn., 147); «In una parola: tutta la virtù è nella giustizia» (Phokyl., 10).

3 Si tratta dell’Etica Eudemia (EE) e dell’Etica Nicomachea (EN). Di un terzo trattato di etica, intitolato Grande Etica (MM), si verrà a parlare successivamente. Mentre non sussistono dubbi circa la paternità aristotelica dei primi due trattati, Magna Moralia è stato a lungo ritenuto spurio, e attribuito alla cerchia di Teofrasto. A cambiare idea al riguardo fu F. Dierlmeier: mentre in un suo primo studio (Die Zeit der Grossen Ethik, «Rheinisches Museum», 88 [1939], pp. 214-243) egli riteneva di dover far slittare la datazione al II sec. a.C., in seguito a un accurato lavoro di traduzione e commento concluse che MM potesse addirittura costituire il primo trattato etico redatto da Aristotele. Al riguardo si veda Zur Chronologie der Grossen Ethik des Aristoteles, «Sit-zungsberichte der Heid. Akad. Der Wiss., Phil.-hist. Kl.», 1970, 1. Mi sono attenuta, con lievi modifi che, alle traduzioni di Armando Plebe per EE e MM (Bari 1988) e di Claudio Mazzarelli per EN (Milano 1993). La più recente traduzione italiana delle tre Etiche, proposte in un unico volume con testo a fronte, è a cura di Arianna Firmani (Milano 2010).

4 EN I 4 1095a16-17. 5 EE I 1 1214a10.6 Questa domanda posta nel Gorgia (550B) riecheggia più tardi nella Repubblica (344E):

«O credi che sia un affare da poco il defi nire la linea di condotta di tutta una vita, seguendo la quale ciascuno di noi potrebbe vivere la sua vita nella maniera più vantaggiosa?».

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scomporli nei loro elementi costitutivi, è pervenuto a conclusioni che divergeva-no sensibilmente da quelle dei colleghi che avevano poi ereditato la conduzione dell’Accademia. Ma il suo accordo con Platone, specialmente riguardo al tentativo di risoluzione del problema della vita umana o perlomeno all’individuazione degli indizi che potrebbero metterci sulla buona strada in tal senso, emerge con par-ticolare nitore dal disaccordo di fondo che entrambi ribadiscono rispetto a vari temi nei confronti dei “Socratici” minori, quella pletora di seguaci di Socrate che, pur non avendo fondato scuole paragonabili all’Accademia e al Liceo, si erano tuttavia fatti promotori di movimenti fi losofi ci assai infl uenti, le cellule da cui suc-cessivamente trassero linfa e autorevolezza le tre grandi scuole di pensiero dell’età ellenistica: stoicismo, epicureismo e scetticismo. Nell’Atene del tempo, la “con-correnza” per Platone e poi successivamente per Aristotele era costituita da cinici, cirenaici e megarici.

Cercare di guadagnare almeno le linee direttrici delle soluzioni che Aristotele ricava impiegando il metodo che gli è proprio, ci offrirà l’opportunità di verifi care la tenuta dell’affermazione preliminare del suo accordo di fondo con Platone, non-ché di contrastare l’opinione assai diffusa, a livello sia specialistico sia divulgativo, secondo cui fra l’allievo e il maestro della storia della fi losofi a sussisterebbe un insanabile disaccordo7. Sul tema che ci riguarda (individuare il nesso fra la virtù e il fi ne ultimo della vita umana) questo disaccordo sarebbe formulabile all’incirca così: mentre Platone porrebbe un fi ne aristocratico e perseguibile con la sola intel-ligenza8, l’assimilazione all’Uno-Bene, raggiunta mediante un esercizio dialettico che consente di ascendere alla contemplazione di idee via via più universali ovvero includenti altre idee, Aristotele opterebbe per una soluzione molto più pragmatica, scomponendo il fi ne ultimo in una pluralità di fi ni umani, e dunque particolari, legati all’azione, e non suscettibili di essere irreggimentati in base a regole di carat-tere generale9. In entrambi i casi il nesso virtù-felicità non godrebbe di particolare risalto.

7 È nell’età rinascimentale che il volto di Aristotele «muta notevolmente rispetto all’età medievale […] si afferma in questa età il mito dell’opposizione radicale fra i due fi losofi […] gli amanti delle lettere e gli spiriti religiosi troveranno in Platone (neoplatonicamente inteso) il loro cibo spirituale, mentre gli amanti delle scienze, gli spiriti laici e amanti dell’empiria troveranno il loro cibo in Aristotele». Cfr. G. Reale, Introduzione a Aristotele, Bari 1974, p. 183. Contesta effi cacemente questa contrapposizione, nei suoi risvolti sia metafi sici che etico-politici A. Ma-cIntyre, Whose Justice? Which Rationality?, Notre Dame, Indiana 1988, pp. 88-102 (cap. VI: Aristotle as Plato’s Heir).

8 Sul carattere elitario dell’antropologia platonica insiste J. M. Rist, Eros e Psyche. Studi sulla fi losofi a di Platone, Plotino e Origene, trad. di E. Peroli, prefazione di W. Beierwaltes, Vita e Pensiero, Milano 1995, p. 35.

9 Indicativo per questa posizione D. Wiggins, Incommensurability. Four proposals, in R. Chang (ed.), Incommensurability, Incomparability, and Practical Reason, Cambridge MA 1997, pp. 52-66. Per una discussione recente di alcuni aspetti legati a questo punto cfr. Christoph Horn, Epieikeia: the Competence of the Perfectly Just Person in Aristotle, in AA.VV., The Virtu-ous Life in Greek Ethics, ed. by B. Reis, Cambridge-New York 2006, pp. 142-166. Un classico dell’etica della situazione è il denso volume di Onora O’Neill, Toward Justice and Virtue. A Constructive Account of Practical Reasoning, Cambridge Univ. Press, Cambridge 1996.

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Non è superfl uo avvertire preliminarmente che ciascuno dei problemi che toc-cheremo nella letteratura critica è stato fatto oggetto di svariate trattazioni distinte, e che la tendenza oggi prevalente è quella di mettere a fuoco questioni di dettaglio. Il tentativo che cercheremo di realizzare – l’affronto sintetico di una tematica ne-vralgica – potrebbe apparire pretenzioso o superato. Ma a volte può valer la pena di seguire la massima che «in ciascun campo giudica adeguatamente chi ha una preparazione specifi ca, ma è buon giudice in generale chi ha una preparazione globale»10. E questo vale tanto più se si vogliono approfondire i criteri dell’agire umano, dato che viene ritenuto saggio colui che è «capace di ben deliberare su ciò che è buono e generalmente vantaggioso per lui, non da un punto di vista parziale, come, per esempio, per la salute, o per la forza, ma su ciò che è buono e utile per una vita felice in senso globale» (pros to eu zen holos)11.

I. La ricerca del bene nella I. La ricerca del bene nella RepubblicaRepubblica

Il dialogo in cui Platone si spinge a parlare più esplicitamente dei principi me-tafi sici, e in particolare del Bene in sé, inteso sia come principio trascendente l’es-sere (epekeina tes ousias) che, in consonanza col Simposio, come punto d’arrivo dell’ascesa erotico-dialettica, è la Repubblica. Essa è però anche il dialogo in cui egli pone nel modo più perentorio e comprensivo possibile la questione del fi ne della vita umana, connettendolo al possesso di quattro virtù fondamentali, legate in un rapporto di reciproca subordinazione: temperanza (sophrosyne), coraggio (andreia), sapienza (sophia) e giustizia (dikaiosyne)12. Il ruolo architettonico spetta alla giustizia, e in effetti essa costituisce il tema autenticamente unitario del dialo-go13. Come spesso avviene nei dialoghi platonici, anche qui si fa in modo di arrivare subito a toccare il tema centrale, ma quasi per caso, sicché il lettore disattento potrebbe benissimo non accorgersene. In genere Platone si serve del prologo di un dialogo per fornire al lettore il maggior numero di elementi necessari alla soluzione del problema su cui verterà la discussione successiva. Il prologo della Repubblica è insolitamente lungo, in quanto coincide con l’intero primo libro.

Socrate, disceso14 al Pireo per osservare lo svolgimento di festività introdotte solo di recente nel calendario ateniese su iniziativa di quella classe di parvenus che ha eletto il grande porto a sua dimora, a seguito degli ambiziosi lavori di amplia-

10 EN I 2 1095a1-2.11 EN VI 5 1140a28.12 Per l’esposizione delle quattro virtù che sole rendono possibile il conservarsi della

polis, cfr. Resp. IV 428A-434D.13 Nel raggruppamento dei dialoghi platonici in nove tetralogie dovuto a Trasillo (primo

secolo), ciascun dialogo porta un sottotitolo. Quello della Politeia è appunto Sulla giustizia.14 Sul senso metaforico di questo “discese” (kateben, Resp. I 327 A1) si veda l’acuta let-

tura di E. Voegelin, Plato and Aristotle. Order and History III, edited with an Introduction by D. Germino, Columbia-London 2000, pp. 106-108. Sulla scelta non casuale della compagnia con cui viene svolta la discussione sulla giustizia cfr. anche lo studio sempre assai valido di J. Moreau, Le sens du Platonisme, Les Belles Lettres, Paris 1967, pp. 20-32.

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mento realizzativi da Pericle, viene “catturato” da un gruppo di giovani avidi di discorsi e condotto a casa del ricco Cefalo. Ivi giunto, inizia un’amabile conversa-zione con l’ormai anziano armatore sul tema della vecchiaia, che offrirà lo spirito per parlare della giustizia. Cefalo spiega quale sia a suo avviso il nesso sussistente fra vecchiaia, ricchezza e giustizia: l’unico sollievo che l’ingente ricchezza di cui dispone conferisce al peso della vecchiaia consiste nel fatto che gli permette di non essere ingiusto, il che riveste grande importanza nell’età in cui ci si approssima al momento di dover rendere conto della propria vita al cospetto degli dèi. Per Cefa-lo osservare la giustizia si riassume nel non mentire e nel restituire i prestiti15, non solo agli uomini, ma anche e soprattutto agli dèi, che si compiacciono per i sacrifi ci riparatori tanto più quanto più essi sono onerosi. Senza l’utilità della ricchezza dunque, risulterebbe pressoché impossibile essere giusti. Socrate subito interviene e come al solito non tarda, con le sue domande, a gettare i presenti nella confu-sione. Prontamente reagisce Trasimaco – il trabocchetto “sofi sta” – che, facendosi interprete dell’irritazione generale, contesta questo modo di fare socratico con un intervento rabbioso, nel quale si dimostra incapace di governare l’ira che lo assale impedendogli di svolgere la discussione con la pacatezza che la diffi coltà del tema esigerebbe.

Il primo punto sul quale Socrate ha iniziato a minare la sicurezza degli astanti è se il signifi cato di “azione giusta” possa esaurirsi in una defi nizione formale delle giustizia come “dire le cose come stanno e restituire quello che si è preso”. Un atto esteriormente e formalmente giusto potrebbe infatti rivelarsi ingiusto per una serie di ragioni, ad esempio: si deve restituire il debito a un creditore divenuto pazzo? Dal che emerge che questa concezione di giustizia risulta troppo vaga e generica. Può ben darsi una defi nizione bensì corretta ma vuota, in quanto non suscettibile di interpretazione univoca.

Per inciso, va notato che questa defi nizione di giustizia, portato di una lunga tra-dizione precedente, non è errata, e anzi verrà riguadagnata al termine del dialogo. Essa è rimasta determinante per l’intera tradizione morale e giuridica occidentale, che le ha dato incisiva formulazione nella massima suum cuique16. Questa a sua volta mantiene il proprio valore solo se funge da simbolo compatto17 di una perce-zione individuale molto complessa, che non può per forza di cose trovare spazio

15 Resp. I 331B (trad. Radice, Milano 2009). Ciò sembrerebbe costituire per lui una sorta di imperativo universale e categorico. È interessante constatare come ancora Hume e Kant, pur dissentendo fra loro sui criteri di giustifi cazione delle regole morali, sul piano semantico intende-vano la giustizia in modo pressoché identico. Al riguardo cfr. A. MacIntyre, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, Feltrinelli, Milano 1981, pp. 66 s.

16 Fu soprattutto Cicerone a consacrare la formula in svariati passi della sua opera, quali De offi ciis I, 5: «…in hominum societate tuenda tribuendoque suum cuique». Al riguardo si veda J. Pieper, Das Viergespann, Klugheit, Gerechtigkeit, Tapferkeit, Mass, München 1964, pp. 68 s.

17 La lettura delle formule giuridiche come simboli è stata progressivamente sviluppata da Eric Voegelin nell’intero corso della sua opera. Voegelin (1901-1985) costituzionalista e fi lo-sofo della politica americano di origine tedesca, è uno dei più acuti valorizzatori contemporanei del pensiero politico di Platone e di Aristotele. Ho cercato di illuminare alcuni aspetti della sua accezione (platonica!) di simbolo in un saggio dedicato al primo volume dell’opera Ordine e

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in una formulazione sintetica. Qualora si perdesse la sensibilità del portato del simbolo, la massima potrebbe risultare disorientante e addirittura nociva. Quando Trasimaco interviene violentemente per contraddire la defi nizione, sostenendo che alla prova dei fatti la giustizia non è altro che ciò che viene imposto – possibilmente mediante la legge – dal più forte, in quanto a costui conveniente, l’inasprimento della sua invettiva lo porta a formulare una richiesta paradossale: che, contravve-nendo il linguaggio ordinario, si inverta il signifi cato dei termini, e si chiami giusto l’ingiusto. Questa conclusione apparirebbe obbligata, una volta che gli astanti con-vengano che è meglio lasciar perdere la giustizia ideale, dato che quella effettiva consiste nell’utile del più forte18.

Socrate ha buon gioco a contraddirlo, con una serie di argomenti che si possono classifi care secondo due tipologie. Preliminarmente assicura che nemmeno lui, So-crate, intende affatto allontanarsi dall’ambito dell’utile. Non dimentichiamo che, in base a quanto detto in precedenza, per il greco l’utile e il buono semanticamente coincidono. Si tratta solo di intendersi su che cosa signifi chi “utile”. Socrate mette in campo a questo punto l’argomento che potremmo defi nire “delle arti”. In quan-to diretta a un fi ne specifi co, ogni arte svilupperà un metodo che le consentirà di conseguire i mezzi idonei per raggiungerlo. L’utilità dell’arte dipende strettamente dal fatto di saper conseguire il proprio fi ne. In caso contrario, l’arte, svolta con metodo inadatto, risulterà inutile. È facile immaginare che cosa ciò signifi chi ri-guardo alle arti più umili, come la pastorizia e l’arte del calzolaio, fi no a quelle più elevate, come l’edilizia. Non c’è differenza, per l’artigiano che conosce la sua arte, fra una pecora e una “buona” pecora, fra una scarpa e una “buona” scarpa, fra una casa e una “buona” casa: il fatto di essere buona nulla aggiunge all’essere della pecora. Aristotele formalizzerà questa fondamentale intuizione dicendo che “pe-cora buona” e “pecora” hanno lo stesso signifi cato, proprio come “pecora una” e “pecora”19. Questa chiarifi cazione troverà adeguata formulazione nella tradizione fi losofi ca successiva nella famosa legge delle proprietà trascendentali dell’essere: esse, unum, bonum (verum) convertuntur.

Neppure Trasimaco mette in discussione il fatto che le tecniche – dalla pastori-zia, alla calzoleria, all’edilizia – siano utili e che la loro utilità sia una conseguenza della conoscenza del rispettivo oggetto. Nessuno come il costruttore di case sa che cosa sia una casa, nessuno come il pastore conosce le pecore, nessuno come il calzolaio sa che cosa sia una calzatura. Ecco perché costruire una casa signifi ca implicitamente costruire una “buona” casa, e analogamente per le altre arti. Nella

Storia. Cfr. N. Scotti Muth, Scoprire Israele. Parte prima: lo sfondo da cui emerge la storia, «Rivista di fi losofi a neoscolastica» 103 (2011), pp. 1-38.

18 In effetti, questo era proprio ciò che in quel tempo accadeva ad Atene, come racconta Tucidide: «Cambiarono a piacimento il signifi cato consueto delle parole in rapporto ai fatti. L’audacia sconsiderata fu ritenuta coraggiosa lealtà verso i compagni, il prudente indugio viltà sotto una bella apparenza, la moderazione schermo della codardia, e l’intelligenza di fronte alla complessità del reale inerzia di fronte a ogni stimolo» (La guerra del Peloponneso, III, 82 4 trad. Canfora, Torino 1996).

19 Metaph. IV 2 2003b21-34.

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techne buono e utile sono intrinsecamente connessi, e dipendono direttamente dal conoscere il che cos’è, il ti esti del rispettivo oggetto. Ecco perché l’“utile” inteso da Trasimaco, se porta alla distruzione del proprio oggetto, in questo caso della polis, si dimostra tutt’altro che tale20. Si arriva pertanto a una prima formulazione implicita del darsi di una techne politike.

Ma Trasimaco non demorde, e insiste nel proporre la trasmutazione dei termini del linguaggio in questione, ovvero di chiamare “giustizia” l’utile che soggettiva-mente viene perseguito e “ingiustizia” dare all’altro ciò che gli spetta21. Socrate acconsente, fi no a un certo punto, all’esperimento di invertire con l’arbitrio il re-ferente di termini come questi, il cui signifi cato viene intuitivamente compreso e condiviso da tutti. Ma ben presto si vedrà che il procedimento è inattuabile, perché il linguaggio oppone una resistenza tale che nemmeno Trasimaco può far fi nta che non si dia. Questa inversione, infatti, implica tutta una serie di inversioni collaterali (giustizia-ingiustizia, virtù-vizio, ingenuità-malizia) e c’è un punto giunti al quale non si può procedere22. Con questo espediente Platone è riuscito a far vedere che 1. il linguaggio si deve usare in un certo modo, perché i termini, per quanto fone-ticamente arbitrari, denotano un signifi cato non manipolabile, e 2. si continua a sapere bene che cosa voglia dire “giusto”, anche concedendo che nella prassi tutti cerchino di apparirlo senza esserlo. Il fatto stesso che si “cerchi” di sembrarlo è prova del darsi di un contenuto di esperienza che è altamente stimato. Sembra rimanere aperta la domanda se, per assurdo, si continuerebbe ancora a sapere che cosa voglia dire “giusto” qualora non rimanesse più nessuno che in qualche modo lo sia veramente.

Forte della prima confutazione, riuscita mediante il ricorso condiviso all’argo-mento della techne, Socrate, avanzando sempre elenchicamente, sottopone Trasi-maco a un fuoco di fi la di confutazioni, e il suo modo di procedere è alfi ne coro-nato da successo: egli può ritenersi il vincitore dell’agone dialettico. Il primo libro della Repubblica termina con la riduzione al silenzio di un Trasimaco inebetito dalla vergogna, ma anche con un Socrate ultimamente insoddisfatto della vittoria riportata. Si tratta di un passaggio importante perché, mentre nella maggior parte dei dialoghi platonici ritenuti (a ragione?) giovanili, i cosiddetti “dialoghi socrati-ci”, le discussioni intavolate fi nivano qui, con la semplice confutazione dell’avver-sario, ma anche con l’imbarazzante incapacità di offrire una soluzione del relativo problema da parte di Socrate, nella Repubblica la discussione procede23.

20 Questo punto è stato ripreso anche nella discussione etica contemporanea, cfr. A. Mac-Intyre, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, Feltrinelli, Milano 1981, pp. 76-78.

21 Resp. I 348C.22 Ibi, 348E: «ciò che mi lascia sbalordito è che tu voglia equiparare l’ingiustizia alla virtù,

e la giustizia ai loro rispettivi opposti… ora pare che tu all’ingiustizia attribuisci forza e bellezza, nonché tutti gli altri pregi che noi riserviamo alla giustizia, proprio perché non ti è mancata l’audacia di metterla in conto alla virtù e alla sapienza».

23 Come noto, Platone ci ha lasciato un’ampia messe di dialoghi brevi nei quali Socrate affronta, nell’agora o sulle pubbliche vie di Atene, personaggi noti e meno noti ma comunque ben noti all’opinione pubblica. Con le armi della sua dialettica elenchica, li fa cadere in contrad-dizione rispetto a ciò che ritenevano di sapere sull’oggetto che maggiormente li riguarda: em-

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II. L’opinione pubblica sulla giustiziaII. L’opinione pubblica sulla giustizia

Potrebbe sembrare che, al termine del duello elenchico, l’anima di Trasimaco abbia evacuato la conoscenza errata e sia fi nalmente pronta a fare emergere da sé la conoscenza vera. Ma le cose non stanno così semplicemente, e Socrate ne è ben consapevole. Da un lato egli sa che confutare una conoscenza errata sulla giustizia non signifi ca per ciò stesso sapere che cosa essa sia, e dunque l’esito della discus-sione potrebbe ancora una volta rimanere aporetico. Dall’altro, egli sa che la tesi di Trasimaco mantiene una forza tremenda, ed è stata debellata solo prima facie. La sua forza risiede non tanto nella versione hard di Trasimaco, che urta il modo di sentire comune e dunque trova pochi sostenitori, quanto nella versione soft, che coincide appunto con quel rilievo generico per cui “la cosa migliore (più buona) è la salute” in quanto quella che più “giova”. Quella stessa concezione che abbia-mo trovata espressa sul propileo del tempio di Latona, e che emerge dall’arringa appassionata dei due giovani che prendono il posto di Trasimaco come partner dialogici di Socrate: si tratta, come è noto, di Glaucone e Adimanto, fratelli mag-giori di Platone e rampolli della migliore aristocrazia ateniese. Il loro problema consiste nel cercare di mettere insieme il fatto che il buono è l’utile e che la giustizia è bella (kale) in quanto degna di onore (time). Ne consegue forse che la giustizia non sia buona? Se non si tiene conto della profonda revisione alla quale, a partire da questo rilievo, Platone sottopone il termine “buono” (agaton) diffi cilmente si riuscirà a capire la valenza che egli attribuisce al Bene in sé (tagathon), una valenza recuperata in pieno da Aristotele, e non compromessa dalla sua critica, condotta sul piano logico, al bene inteso come idea, problema questo che forse riguarda i platonici, più che Platone.

Se nei dialoghi socratici Platone si contentava di mostrare che quanti venivano ritenuti più virtuosi per ciascuna virtù in realtà non sapevano di che cosa si trattas-se, dato che non erano in grado di dirne il ti esti (il “che cos’è”), dalla stessa posi-zione socratica seguiva che, una volta guadagnato questo, ciò sarebbe bastato per diventare giusti. Ma Platone ne mostra qui l’insuffi cienza egli fa vedere che i mali eclatanti della polis godono di tale diffusione a livello di opinione pubblica proprio perché hanno radici antiche e apparentemente inestirpabili. Le anime “giovani” di Glaucone e Adimanto non provano vergogna a far vedere che le convinzioni di Trasimaco sono anche le loro, quasi malgrado loro stessi, dal momento che in esse

blematico è l’esempio del Lachete, nel quale Nicia – lo stratego su cui ricadde maggiormente l’onta della disfatta ateniese contro Siracusa del 415 – viene svergognato perché non sa che cosa sia il coraggio (al riguardo si veda C. H. Kahn, Platone e il dialogo socratico trad. di L. Palpacelli, intr. di M. Migliori, Milano 2008, pp. 150-171 e A. MacIntyre, Whose Justice…, pp. 63-68). Sembrerebbe che i loro insuccessi nella prassi, che sono davanti agli occhi di tutti, risultino uni-camente dal fatto che essi non sappiano che cosa siano veramente la giustizia, ecc. L’unico prob-lema consisterebbe, allora, nel suscitare maieuticamente in loro queste conoscenze, ottenendo le quali diventerebbero per ciò stesso giusti. Vedremo come Aristotele criticherà a ragion veduta questa concezione, proprio grazie a lui defi nita dell’“intellettualismo etico”, secondo cui condiz-ione necessaria e suffi ciente dell’azione virtuosa sarebbe la conoscenza della virtù in questione.

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sono stati allevati. E dunque Socrate è triste perché, dopo aver confutato Trasi-maco, si rende conto che ci vuol altro per far cambiare idea alla gente. È a questo punto che, quasi con un colpo di genio, egli traccia la possente analogia fra l’anima umana nella quale in qualche modo albergano le virtù e la polis, che approderà alla famosa distinzione delle tre parti dell’anima, due delle quali costitutivamente impermeabili ai discorsi dialettici: si tratta dell’anima bramosa e di quella volitiva, che si contendono due diversi tipi di oggetti del desiderio, fi sici e morali. Con questo affresco dell’anima Platone ricomprende e riarticola concezioni tradizio-nali sulla psyche come sede delle emozioni (thymos), coniugandole effi cacemente col guadagno socratico fondamentale: la psyche come sede dell’io intelligente e consapevole24.

Glaucone e Adimanto sono stati nutriti del dissidio fra kalon e agaton fi n da bambini, e il loro discorso illustrativo della gravità della situazione, assai più pacato di quello di Trasimaco e infarcito di citazioni dei poeti, è ben più pericoloso del suo25. D’altro canto essi sono disposti a fi darsi di Socrate, perché avvertono una consonanza interiore con la sua contestazione della tradizione, pur non sentendosi in grado di darne le ragioni. Per questo, la loro difesa della tradizione e dei poeti ha lo scopo di fornire all’argomento dell’avversario la maggior forza probante possibi-le, perché solo se ci si dimostrerà capaci di affrontare un avversario all’apice della sua forza la confutazione potrà dirsi effi cace. È stato facile confutare l’estremismo di Trasimaco, ma il succo della sua convinzione rimane in sostanza inalterato: è im-portante apparire giusti, perché chi è reputato giusto è degno di onore, ma l’esserlo veramente implicherebbe un disinteresse per il proprio utile, una sorta di gratuità assoluta26 che non risulta affatto redditizia, neppure nei confronti degli dèi, perché si può ammansirli solo con sacrifi ci riparatori. Costernato dal peso di queste argo-mentazioni e perfettamente conscio della potenza che esse esercitano sull’anima dei concittadini, Socrate propone a questo punto, come detto, di abbandonare provvi-soriamente il problema della giustizia del singolo e dei suoi atti, per rivolgersi a un oggetto che può venire inteso come un’anima ingrandita: la polis nel primo momen-to del suo formarsi e nelle fasi decisive del suo costituirsi, ovvero la polis ideale, la polis e ciò che la fa essere tale. Ma prima di fare questo egli smentisce drasticamente il portato teologico del politeismo di stato, secondo il quale dei mali degli uomini sarebbero responsabili gli dei. Invece: «Nella realtà dio è buono, e così va raffi gu-rato […] dal bene non deriva ogni cosa, bensì esso è causa solo di effetti positivi, e

24 A tale riguardo cfr. G. Reale, Corpo, anima e salute. Il concetto di uomo da Omero a Platone, Raffaello Cortina, Milano 1999, p. 58. Testi classici e di recente riediti al riguardo sono: M. Pohlenz, L’uomo greco, traduzione di B. Propo, Milano 2006; B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, tr. it. di V. degli Alberti e A. Marietti Solmi, Torino 2005 e R. Dodds, I Greci e l’Irrazionale, tr. it. di V. Vacca de Bosis, Milano 2009.

25 Il discorso tenuto da Glaucone sarà molto lungo, Cfr. Resp. II, 358E-367D.26 Ibi, 359D-360C. Glaucone narra la leggenda del pastore lido Gige il quale, entrato in

possesso di un anello magico che lo rendeva invisibile, se ne servì per compiere i peggiori crimini rimanendo impunito: «Orbene – conclude con tono di sfi da Glaucone rivolgendosi a Socrate – se di questi anelli ne esistessero due, e l’uno lo infi lasse il giusto, l’altro l’ingiusto, sta’ pur certo che nessuno sarebbe a tal punto integro da restar saldo nella giustizia» (360 B).

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di quelli negativi non è causa […] della maggior parte delle vicende umane [dio] è incolpevole […] non si deve lasciar dire al poeta che è infelice chi paga il fi o delle proprie colpe»27.

Rifugiandosi nell’analogia della polis come anima ingrandita Platone implici-tamente denuncia l’estrema complessità dell’anima e la diffi coltà di parlare diret-tamente di un oggetto che noi siamo. Aristotele cercherà di addentrarsi in questo plesso, tanto più inafferrabile e sfuggente perché sempre in movimento, e indivi-duare gli aspetti fondamentali che a suo avviso vanno distinti. A questo punto, pos-siamo interrompere la considerazione della Repubblica per volgerci ad Aristotele. Avremo varie occasioni per tornare – se pur brevemente – su questo dialogo, per-ché nel testo aristotelico non sono rari i rimandi a esso. Ciò che va tenuto presente è soprattutto che all’identifi cazione della natura e della funzione delle quattro virtù cardinali è strettamente connesso il disvelarsi di una nuova concezione del bene (thagaton), come ciò che fa nascere e che conserva28.

Tutte e tre le etiche di Aristotele iniziano con una contestazione sul bene che po-trebbe riassumersi così: Platone ha confuso la trattazione della virtù con quella del bene, che appartiene a un’altra scienza. Ciò che Aristotele ha di mira non è tan-to l’identifi cazione del bene come Uno, ma del bene come idea. Occuparci con-cisamente di questo problema ci permetterà di mettere in chiaro come Aristotele, nell’accezione da lui poi preferita del bene come fi ne, non solo smentisce la lettura generica secondo cui fra virtù e bene non sussisterebbe relazione alcuna, ma di fatto non fa che promuovere una concezione del bene prettamente platonica, anche se bi-sogna ammettere che nel discorso platonico venivano tenuti uniti livelli di signifi cato differenti che egli riesce invece abilmente a distinguere.

III. Il bene come ideaIII. Il bene come idea

Aristotele accoglie e sviluppa le rifl essioni platoniche sul bene come fi ne, emer-so dalla considerazione delle arti, e respinge invece la concezione del bene come idea. Vediamo perché.

L’argomento mediante il quale si respinge il darsi del bene come idea è il mede-simo per cui viene respinto il darsi di tutte le idee: l’idea del bene non è altro che l’elemento comune che si trova in tutte le cose buone29. Non si può fare dell’es-senza una sostanza: trovandosi in tutte le cose, l’elemento comune non può essere separato, e quindi non può essere idea, perché ciò che è separato è in sé e non può essere in tutte le cose. L’elemento comune è quello che si ricava per defi nizione o per induzione. Lo scopo della defi nizione è stabilire l’essenza di ciascuna cosa. Nel nostro caso, la defi nizione stabilisce che buona in generale è qualsiasi cosa sia

27 Ibi, 379B-380B.28 Per la nuova concezione del bene cfr. Resp. VI 504B ss. e la metafora del sole, 507A ss.

Illuminanti chiarifi cazioni al riguardo in G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone alla luce delle “Dottrine non scritte”, Vita e Pensiero, Milano 2010, pp. 336-344.

29 MM I 1 1182b10 ss.

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degna di essere scelta di per sé. L’affermazione che segue è assai eloquente: parlare di questo è argomento di un’altra scienza e non delle singole scienze30. In quanto hanno un oggetto, per ciascuna scienza il proprio oggetto è buono, e ciò è qualcosa di scontato, che non è compito della singola scienza tematizzare, per cui «non è compito [nemmeno] della politica il parlare intorno al bene comune corrispon-dente alla defi nizione»31. D’altra parte, se “non è compito di una data scienza né di un’arte il considerare la questione del bene in generale”, è invece compito di cia-scun artigiano sapere “il bene che lo concerne”, perché e quindi “il bene si ritrova in tutte le categorie”32 e ciascuna scienza, nella considerazione del proprio oggetto, deve tenerne conto33.

È questa la ragione per cui le arti costituiscono l’esempio per eccellenza del bene inteso come utile, nel senso di ciò che incrementa e accresce, ma si tratta di un utilitarismo essenziale: come si è visto, non c’è differenza fra essere pastore e “buon” pastore: il pastore sa e fa il bene delle pecore, ciò di cui hanno bisogno per mantenere ed esplicare pienamente la loro natura di pecore, una natura che va, per così dire, continuamente “salvata”, perché le pecore sono enti soggetti a mutamen-to. Dunque l’uomo che esercita la sua arte su enti divenienti (come il medico) non è soltanto creatore, ma salvatore della natura data34.

Resta da chiedersi se, negando il darsi del bene come idea, e di tutte le virtù come idee, Aristotele abbia trascurato di prestare suffi ciente attenzione alla di-mensione fondamentale che Platone attribuiva alle idee. La giustizia in quanto idea non è solo un “che cos’è” (defi nizione) ma una perfezione e dunque un essere ideale verso il quale tendere. Preso dal dibattito infraaccademico sulle conseguen-ze logiche dell’ammissione delle idee, Aristotele sembra essersi fatto scappare il punto fondamentale dell’idea. Tuttavia, come vedremo, egli ricomprenderà a tutti gli effetti nella sua trattazione l’intuizione platonica dell’importanza di educare il desiderio verso un termine che non si possiede “naturalmente”, ma al quale si può orientare la scelta solo dopo un faticoso lavoro di ascesi. Lo stesso dicasi per la fondamentale comprensione platonica del darsi di una gerarchia dei desideri35,

30 Aristotele allude, probabilmente, alla prote philosophia, e l’indicazione è preziosa, dal momento che nella Metafi sica non si trova alcuna trattazione specifi ca del bene “comune”, e nep-pure può ritenersi tale l’allusione al Primo Motore Immobile come bene contenuta nel libro XII («Dio è vivente, eterno e ottimo», 1072b29). In Metaph. IV 2 si trova la famosa equiparazione fra “essere uomo” e “essere un uomo” cui già si è fatto cenno. Eppure, proprio dalle conclusioni che in MM e in EN vengono tratte a partire dall’argomento delle arti e delle scienze, è non solo legittimo ma vincolante affermare che “buono”, così come “uno” nulla aggiunge all’essenza determinata di ciascuna cosa.

31 MM I 1 1182b30 ss .32 Se si trattasse, invece, di stabilire che cosa il senso primario di “bene” Aristotele direb-

be che è secondo la sostanza, e infatti vi fa cenno: Dio e il Nous.33 MM 1183a15. Ad es., l’arte della navigazione, ecc.34 A tale riguardo cfr. R. Spaemann, Che cosa signifi ca: “L’arte imita la natura”, «Rivista di

fi losofi a neoscolastica», 102 (2010), pp. 633-653. 35 L’ordo amoris del Simposio. Cfr. G. Krüger, Ragione e passione. L’essenza del pensiero

platonico, a cura di Giovanni Reale, Milano 1995, pp. 168-245.

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basti pensare alla fondamentale distinzione che Aristotele pone fra beni dell’anima e beni del corpo36.

È nell’Etica Eudemia che le sue parole suonano più esplicite e al tempo stesso più equilibrate nella critica al bene come idea: «per quanto esistano le idee e l’idea del bene, esse non saranno mai utili al vivere bene e alle azioni»37: nella scienza che si occupa dell’agire umano, non ci basta conoscere che cos’è la virtù per essere virtuosi, dobbiamo sapere anche come ci sia possibile diventarlo concretamente38. E quindi, dopo aver lanciato la solita frecciatina nei confronti dei colleghi platonici pitagoreggianti39, egli afferma che non si deve partire dai numeri, ma «dalle cose su cui tutti sono d’accordo che siano un bene»40. E siccome «il bene ha molti sensi»41, dobbiamo individuare quello che a noi interessa e stabilire che «pratico è il bene in vista del quale si agisce e non si capisce quale bene vi sia nelle cose immobili»42. Resti dunque stabilito questo: solo in quanto fi ne (delle azioni) un bene è bene per l’uomo ed è acquisibile.

IV. Secondo l’oggetto, il metodoIV. Secondo l’oggetto, il metodo

Nella considerazione di qualsiasi oggetto «bisogna assumere i principi propri dell’argomento»43 e «non bisogna ricercare la medesima precisione in tutte le opere di pensiero»44. Quando si considerano le azioni, dice Aristotele, bisogna attenersi ai fatti (al to hoti). Quindi occorre, a questo punto, congedarsi momen-taneamente dall’analogia fra arte e azione sviluppata da Platone, o meglio, occorre comprendere che si tratta appunto di un’analogia (similitudine di rapporto, non in senso geometrico45) e non di un’uguaglianza in senso stretto, perché fi ne dell’ar-te sono le opere (erga), mentre fi ne dell’azione sono le attività (energheiai)46, il

36 MM I 3 1184b1-6. EE I 5 1215b30-35; EN X 5 1175a26-28.37 EE I 8 1217b24 s.38 Cfr. anche EN I 6 1096b32-43: «sull’idea del bene: se pure infatti il bene predicato in

comune fosse una realtà unica o qualcosa che esiste separatamente di per sé, è chiaro che l’uomo non potrebbe né realizzarlo nell’azione (prakton) né acquistarselo come possesso (kteton)».

39 «È una dimostrazione vacillante quella che dice che l’Uno è il bene in sé» (EE 1218a22-25). Non bisogna sostenere irrazionalmente cose che non sarebbe facile credere, neppure col ragionamento. Inoltre: ciascun essere desidera il suo bene proprio. Sul fatto che i suoi colleghi “pitagoreggiassero” Aristotele è esplicito: cfr. Metaph. XII 7 1072b31.

40 EE 1218a22.41 Affermazione di capitale importanza, che viene ribadita in tutti e tre i trattati: cfr. EN

I 5 1096a23-24; e EE1218b5 e MM 1182b7-8. 42 EE1218b4-6.43 MM 1183b1.44 EN I 2 1094b12-13.45 Cfr. EN V 3 1131a29 ss., ove Aristotele spiega che «la proporzionalità è una proprietà

non solo del numero in astratto ma anche del numero in generale».46 Determinante per defi nire l’azione è che essa viene compiuta in base a una scelta

(proairesis). In quanto tale si tratta di un movimento caratteristico unicamente dell’uomo. Per un’ulteriore fondamentale distinzione all’interno delle azioni, quella fra “movimenti” (kinesis) e

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cui carattere primario consiste nel poter essere altrimenti47. Dunque, mentre nelle scienze (epistemai) e nelle arti (technai) bisogna tendere da subito a oltrepassare la singolarità dell’esperienza per attingere alla causa immobile in quanto non sogget-ta a divenire (to dioti)48, nella considerazione delle azioni umane bisogna attenersi ai fatti concreti (al to hoti), e non aspirare a una precisione che sarebbe del tutto fuori luogo in questioni di questo tipo49. Bisogna insomma partire prestando parti-colare attenzione ai dati di fatto e a quanto attesta l’esperienza50.

Il che non signifi ca che si debba rinunciare a una conoscenza certa, poiché i dati dell’esperienza vanno assunti come principi e non come conclusioni. Il metodo completo da seguire sarà dunque il seguente: «dobbiamo sforzarci di cercare intor-no a tutti questi argomenti la verità attraverso i ragionamenti, servendoci dei fatti come testimonianze ed esempi»51, nutrendo fi ducia nel fatto che ciascuno possie-de una propria tendenza alla verità52, in virtù della quale è lecito sperare «che tutti gli uomini siano d’accordo con le cose che diremo»53. Preoccupiamoci dunque di partire dai principi, e da questi cercheremo poi di svolgere le dimostrazioni: «Se infatti si parte da cose dette veracemente, anche se non chiaramente, ne risulterà poi anche la chiarezza, traendo sempre le idee più chiare da quelle che si sogliono esporre confusamente»54.

“attività” (energheia), cfr. Metaph. IX 6 1048b18-34. Solo le seconde sono movimenti che hanno in sé il proprio fi ne (vedere, conoscere, pensare). Le altre sono azioni che hanno un “termine di arresto” (peras), al cui raggiungimento esse tendono: per esempio il dimagrire ha come fi ne il dimagrimento, l’imparare tende all’aver imparato, ecc. Azioni perfette (telaia) sono solo le prime, e per anticipare un tema che ci apprestiamo a considerare, azioni per eccellenza sono il vivere bene (eu ze) e l’essere felici (eudaimonei): «uno che vive bene, a un tempo ha anche ben vissuto, e uno che è felice, a un tempo è stato anche felice».

47 Ta endechomena allĿs sono le cose che possono essere, ma che possono anche non es-sere. Il termine è chiarissimo, a dispetto di quanti sostengono che in Aristotele non ci sarebbe l’equivalente di “contingente”.

48 Il chiaro riferimento allo stato di cose contrapposto è a Metaph I 1 981a29-30, in cui si afferma che il to dioti è ciò che ricercano la techne e l’episteme. Il to hoti è invece proprio di chi ha solo l’esperienza.

49 «La trattazione sarà adeguata se avrà tutta la chiarezza compatibile con la materia che ne è l’oggetto […] il moralmente bello e il giusto (ta kala kai ta dikaia) presentano tante differ-enze e fl uttuazioni che è diffusa l’opinione che essi esistano solo per convenzione (nomo monon) e non per natura (physei de me) […] è proprio dell’uomo colto richiedere in ciascun tipo [di argomentazione] tanta precisione quanta ne permette la natura dell’oggetto, giacché è manifesto che sarebbe pressappoco la stessa cosa accettare che un matematico faccia dei ragionamenti solo probabili e richiedere dimostrazioni a un oratore… ma per coloro che confi gurano razional-mente i propri desideri (kata logo ta orexeis) e le proprie azioni, la conoscenza di queste cose potrà essere di grande utilità» EN I 3 passim.

50 EN I 4 1095b6: «il punto di partenza è il dato di fatto (to hoti) e, se questo è messo in luce con suffi ciente chiarezza, non ci sarà alcun bisogno del perché (to dioti)».

51 EE 1216b26ss. e EN I 8 1098b11-12: «tutti i fatti sono in armonia con la verità e la verità mostra presto la sua discordanza col falso».

52 Argomento sviluppato anche in Metaph. II 1 993a32-993b1: «è impossibile cogliere in modo adeguato la verità, ma è altrettanto impossibile non coglierla del tutto».

53 EE 1216b27 ss.54 Ibi, 1216b37 ss.

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Il principio-dato di fatto da cui partire è duplice: che ogni azione si propone un fi ne (telos) ed è compiuta in base a una scelta (proairesis)55. Il che vuol dire che non si può intendere un’azione umana alla stregua della caduta di un sasso. Il punto di partenza consisterà nel cercar di classifi care i fi ni concreti che gli uomini di fatto perseguono nelle loro azioni. Secondariamente, in conformità con il metodo fi losofi co, si dovrà cercare la causa dei fatti perché anche l’indagine etica, e quella politica di cui essa è parte, se condotte fi losofi camente, non intendono approdare ad altro56. Ciò che Aristotele ha in mente di fornire è dunque una trattazione fi lo-sofi ca dell’esperienza (empeiria) intesa nel senso di azione.

Qual è, dunque, il dato di fatto dell’esperienza, che si pone come punto di par-tenza obbligato (arche) da cui prende avvio una forma di conoscenza che «non ten-de solo a conoscere la cosa, ma anche a possederla e ad applicarla alle azioni»?57. «Che chiunque sia in grado di vivere esercitando il proprio proponimento si pone un certo fi ne mirando al quale imposterà tutta la propria condotta»58.

V. Perché l’utile non può essere il beneV. Perché l’utile non può essere il bene

Dunque ogni azione, in quanto derivante da una scelta (proairesis), persegue un fi ne. Possiamo anche dire che questo fi ne sia di per sé anche un bene? La risposta complessa che Aristotele delinea a questa domanda è imperniata su due punti es-senziali che egli riprende da Platone.

1. Abbiamo visto il darsi di un’equivalenza, a livello di defi nizione, fra bene e fi ne. A noi spetta ora la considerazione dei fi ni umani, che si danno nell’azione, quindi occorrerà esaminare i vari tipi di azione e classifi carli. In virtù della sim-metria sussistente fra fi ni e beni, ciò sarà possibile a partire da una considerazione dei beni umani. Riprendendo la scansione di Resp. II 357B-D, si deve distinguere fra: a). “un bene che sia desiderabile non per gli effetti che ha, ma perché è di per sé desiderabile”, b). “i beni che amiamo per se stessi e per le loro conseguenze” e infi ne c). i beni “che non gradiremmo avere per quel che sono, ma solo in virtù di quel che rendono e per le conseguenze che ne derivano”.

Si danno dunque svariati beni particolari ma, all’interno di essi, una gerarchia di beni. Se ciò è vero, l’utile (ophelimos) è un bene solo secondario, dal che consegue che l’identifi cazione del bene con ciò che “fa bene”, che è utile e vantaggioso è a dir poco imprecisa, e che la notissima affermazione con cui si apre l’Etica Nicoma-chea: «bene è ciò cui ogni cosa tende»59 necessita di interpretazione.

55 EN I 11094 a s.56 EE1216b37 ss.: «Perciò anche negli argomenti politici non bisogna ritenere superfl ua

una tale ricerca, attraverso cui s’indaghi non solo che cosa sia il fatto, ma anche quale ne sia la causa: questo metodo, in ogni materia, è quello fi losofi co».

57 Ibi, I 1, 1214a10-11.58 Ibi, 1214b8-9.59 EN I 1 1094a2.

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Procedendo in effetti su questa linea, Aristotele mette a fuoco la specifi cità del fi ne delle azioni, distinguendo innanzitutto fra produzioni e azioni nel vero senso della parola: mentre, come si è detto, nelle produzioni il fi ne è sempre esterno a chi produce (è un’opera, ergon), le azioni perseguono un fi ne che può essere sia ester-no che interno a chi agisce: piaceri, virtù, conoscenze, e possessi. Stanno questi fi ni tutti sullo stesso piano? Il criterio per stabilirlo è il seguente: Proprio in quanto fi ne dell’azione, questo fi ne deve essere mio, nel senso che devo poterlo possedere ed esercitare nell’azione. In quanto si interessa del bene realizzabile nell’azione (prakton), la scienza etica si occupa in primis di un bene inalienabile, acquisibile e mantenibile come possesso (kteton)60. Resti pertanto stabilito che solo in quanto fi ne (delle azioni) un bene è bene per l’uomo ed è acquisibile.

2. Nel Filebo61 si afferma: «Ciò in vista di cui si genera sempre ciò che si genera in vista di qualcosa si trova nel campo del bene; ciò, invece, che si genera in vista di qualcosa va posto, mio caro, in un altro campo»62.

In piena conformità con questo punto suonano due importanti affermazioni contenute nella Retorica, considerata in modo pressoché unanime opera giovanile di Aristotele, o perlomeno contenente in prevalenza materiale risalente al periodo in cui egli era docente di retorica presso l’Accademia63: «Defi niamo bene ciò che viene scelto (aireton) per se stesso, e per il quale scegliamo qualcos’altro, e che tutti gli esseri bramano (ephietai), perlomeno tutti quelli che hanno sensazione (ai-sthesis) e ragione (nous)»64, e «dal momento che diciamo bene ciò che viene scelto (aireton) per se stesso e non in vista di qualcosa d’altro, ciò che ogni cosa e soprat-tutto le cose provviste di nous e di phronesis bramano, ciò che crea (poietikon) e ciò che conserva e preserva (phylattikon) […] e poiché il ‘ciò per cui’ è il fi ne e il fi ne è ciò per cui tutto il resto è e poiché per ogni individuo il bene è ciò che presenta queste condizioni per lui…»65.

Dall’osservazione dei fi ni che gli uomini di fatto perseguono nelle loro azioni emerge un importante dato di rilievo, in conformità con il quale è da escludersi un livello paritetico dei fi ni: la reciproca subordinazione dei fi ni delle azioni umane.

60 Ibi, 1096b32-43.61 Come noto, è un dialogo tardo, scritto da Platone con ampia probabilità quando Ari-

stotele era allievo dell’Accademia già da alcuni anni Sulla datazione di dialoghi dialettici di Pla-tone e il loro nesso col pensiero di Aristotele cfr. J. M. Rist, The Mind of Aristotle. A Study in philosophical Growth, University of Toronto Press, Toronto-Buffalo-London 1989, pp. 136 (sulla Retorica come opera giovanile), 170-173 e 186-188 (cronologia della composizione di EE e EN). Sempre sul Filebo si veda: M. Migliori, L’uomo fra piacere, intelligenza e Bene. Commento storico-fi losofi co al ‘Filebo’ di Platone, Vita e Pensiero, Milano 1993; AA.VV., Plato’s ‘Philebus’. Selected Papers from the eightth Symposium Platonicum, ed. by J. Dillon and L. Brisson, Academia Verlag, Berlin 2009.

62 Phil.. 54C10 (trad. Migliori, Milano 2000). 63 Cfr. quanto affermano E. Berti, Profi lo di Aristotele, Studium, Padova 2009, pp. 24-26

e C. Rapp in Aristoteles, Rhetorik, übersetzt u. erläutert von Ch. Rapp, Akademie Verlag, Berlin 2002, vol. 1.

64 Rhet. I 6 2.65 Rhet. I 7 2.

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Ciò conferma pienamente la legge formulata da Platone nel Filebo: migliore sarà quel fi ne che vogliamo per se stesso e non in vista di altro e in vista del quale vo-gliamo tutto il resto. Nel nostro contesto, quindi, «il bene è ciò in vista del quale si agisce ed è la causa dei beni a esso inferiori ed è il primo di tutti, perciò si può dire che questo bene in sé è lo scopo delle azioni dell’uomo […] il fi ne è la causa delle azioni a esso soggette»66. Stabilito ed eletto un fi ne completo (teleion), tutto ciò che a esso concorre è un bene. E questo – precisa Aristotele – è un principio e in quanto tale non può essere oggetto di dimostrazione, se non da parte di un sofi sta (i sofi sti infatti cavillano con ragionamenti estranei all’argomento)67.

VI. Quale ! ne delle azioni è vero bene?VI. Quale ! ne delle azioni è vero bene?

Il darsi di un bene compiuto o completo, al quale spetti la regia di tutti i fi ni umani particolari, viene ben individuato da Aristotele, a livello sia logico che con-creto. A livello logico, dato il rapporto di subordinazione che di fatto sussiste non solo fra i fi ni dell’azione ma anche fra quelli della produzione e delle scienze68, proprio la funzionalità di molti beni è una conferma del dover esserci di qualcosa che non è in vista di altro: se non ci fosse un fi ne ultimo e tutti i fi ni fossero mezzi, il concetto di fi ne risulterebbe privo di signifi cato. A livello concreto perché tutti gli uomini, se interrogati sul motivo ultimo del loro agire risponderebbero: agisco in questo modo per essere felice. Quindi la felicità (eúdaimonia) costituisce proprio quel principio-dato di fatto del quale eravamo in cerca, e da cui far dipendere i ragionamenti concernenti l’agire umano. Ma a questo punto sorge una diffi coltà: gli uomini si eleggono effettivamente un fi ne che svolga funzione architettonica ri-spetto a tutti gli altri, ma alla prova dei fatti si tratta sempre di un fi ne particolare, e dunque il carattere di fi ne completo sembrerebbe rimanere puntualmente disatte-so. Di qui il darsi di un’aporia, che Aristotele si sforza di risolvere in un modo che forse non può accampare pretese di successo defi nitivo, ma che tuttavia ci fornisce elementi dai quali non sarà più possibile prescindere, anche ammesso che si riesca a fornire una soluzione più soddisfacente della sua al fi ne teleion.

Egli mette in atto vari tentativi per guadagnare la vetta, affrontando la scalata da pareti differenti. La via più diretta sembra quella di procedere da una classifi ca-zione gerarchica dei fi ni dell’azione. I fi ni più elevati saranno i migliori candidati a svolgere il ruolo di fi ne completo. Come detto, gli uomini di fatto lasciano svolgere il ruolo di fi ne-bene compiuto a dei fi ni particolari (possesso, piacere, virtù, cono-scenza). Quale di essi potrebbe esibire le carte in regola per svolgerlo davvero?

I fi ni esteriori, e quindi il possesso delle ricchezze, vengono subito eliminati. E questo per due motivi: la loro natura di beni si esaurisce nell’essere mezzi (per de-

66 EE1218b17.67 Ibi, 1218b24.68 Analogamente avviene nel caso delle scienze: i fi ni (beni) di alcune sono perseguiti in

vista dei fi ni (beni) di altre, ad esempio la fabbricazione delle briglie è, ultimamente, fi nalizzata alla strategia.

142142 NICOLETTA SCOTTI MUTHNICOLETTA SCOTTI MUTH Philosophical News Philosophical News

fi nizione “utili”69), inoltre risultano connessi ad azioni il cui fi ne non è immanente, il che contravviene al signifi cato di azione in senso proprio.

In base a ciò, piacere, virtù e conoscenza, in quanto fi ni interiori, vengono ri-tenuti migliori perché inalienabili e quindi atti a far meno dipendere l’agente da cause esterne70. Si rende a questo punto necessario esaminarli distintamente.

La vita vissuta invece per il piacere è quella dei più, sia ricchi che poveri, anzi piuttosto dei ricchi, in quanto fortemente dipendente dal possesso di beni esterni. Il criterio a cui Aristotele sottopone la valutazione dei beni legati al piacere co-munemente inteso è il seguente: si vorrebbe prolungare indefi nitivamente la vita se essa consistesse esclusivamente nel provare tali piaceri?71 Differenziando due diverse e irriducibili tipologie di piacere – i piaceri del corpo e quelli dell’ani-ma72 – egli sottoscrive pienamente i risultati cui Platone era giunto nel Filebo73. Il complesso discorso riguardante i piaceri fi sici perviene alla conclusione che essi possono senz’altro costituire condizioni necessarie al conseguimento della felicità, ma che, in quanto sempre caratterizzati dal toglimento di dolore, non possono cer-to costituire un vertice del piacere: che cosa signifi ca infatti vivere piacevolmente «e non solo in modo privo di dolore»?74 È allora sui piaceri del secondo gruppo che occorre soffermarsi, e Aristotele distingue accuratamente, al loro interno, fra il piacere estetico, suscitato dal bello percepibile all’aisthesis, e il chairein, il godi-mento avvertito in senso proprio dall’anima allorché compie azioni belle e conosce oggetti veri.

Il godimento riveste importanza fondamentale, in quanto in sua assenza non si dà vera conoscenza né azione effettivamente virtuosa, giacché il godimento in-

69 Cfr. supra, e punto c di Repubblica. L’argomento dell’utile è tutt’altro che banale, anzi risulta decisivo in quanto rende particolarmente evidente la necessità logica sopra ricordata del darsi di un fi ne ultimo. Infatti, è proprio il darsi dell’utile (bene-in-vista-di-altro) che implica il darsi di qualcosa che non è in vista di altro, ma che è bene per sé. Se questo non conseguisse, l’utile stesso sarebbe invano.

70 Proprio su questo si appuntano le critiche di M. Nussbaum all’ideale etico di Platone e di Aristotele. Cfr. M. Nussbaum, La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nella fi losofi a greca, tr. it. di M. Scattola, Introduzione di G. Zanetti, Il Mulino, Bologna 1986. Si veda in particolare il primo capitolo (pp. 45-79) in cui Nussbaum discute la propria dipendenza da Bernard Williams, Sorte morale (Milano 1987).

71 EE I 5 1215b26-30. Che cosa va preferito nella vita, che cosa va scelto? Se la vita con-sistesse tutta nel fare o nel subire una serie di cose, nessuno «se si prolungasse indefi nitamente il tempo della vita per via di queste cose preferirebbe vivere piuttosto che non vivere». Altrove (EN X 6 1176b28-33) si fa presente che nessuno sceglierebbe di vivere per il solo divertimento: «La felicità, dunque, non sta nel divertimento: e, in effetti, sarebbe strano che il fi ne dell’uomo fosse il divertimento, e che ci si affaticasse e si soffrisse per tutta la vita al solo scopo di divertirsi. Tutto noi scegliamo, per così dire, in vista di altro, tranne che la felicità: questa infatti è fi ne in sé. Darsi da fare e affaticarsi per il divertimento è manifestamente stupido e troppo infantile».

72 «Il godere è proprio dell’anima, e per ciascuno è piacevole ciò di cui si dice che è amante» (EN I 8 1099a8-9).

73 Il problema viene posto in Phil. 13D e affrontato in 34C ss.74 EE 1216a36s.

Philosophical News Philosophical News SI PUÒ ESSERE FELICI SENZA VIRTÙ? LA RISPOSTA DI ARISTOTELE (GUARDANDO A PLATONE)SI PUÒ ESSERE FELICI SENZA VIRTÙ? LA RISPOSTA DI ARISTOTELE (GUARDANDO A PLATONE) 143 143

crementa la conoscenza75 e costituisce la discriminante essenziale per stabilire se un’azione sia o no virtuosa: l’azione all’aspetto virtuosa, incapace però di suscitare nell’agente l’eco immediato della gioia, non può dirsi effettivamente tale. E pensa-re che il volgo divide buono, bello e piacevole e questa opinione errata viene ad-dirittura attribuita al dio! In ogni caso il godimento, genere più elevato di piacere, dà prova di non essere un fi ne, ma una conseguenza: se perseguito per se stesso evapora come una fata Morgana76.

Vediamo ora se si possa attribuire alla virtù l’epiteto di “fi ne compiuto”. In ge-nere si ritiene che siano i politici coloro che ripongono la felicità nel perseguimento della virtù77, ma a questo riguardo è necessaria una precisazione: ciò è vero di di-ritto ma non di fatto. Lo sarebbe in entrambi i sensi se le loro azioni mirassero alla virtù anche senza la fama, mentre la maggior parte dei politici non merita questo appellativo, perché le compie esclusivamente in vista di quella78. Dunque in realtà i politici perseguono per lo più una virtù apparente, perché l’apparenza della virtù è suffi ciente a procurare fama e successo (onore). Se sono questi i veri fi ni ai quali essi mirano, si tratta di fi ni illusori, in quanto dipendenti in massimo grado da cause esterne (da chi attribuisce l’onore). Invece, come si è visto, un bene perse-guito può dirsi tanto più perfetto quanto più inalienabile. Inoltre, sempre in base a quanto detto precedentemente, un’azione virtuosa perseguita in vista del successo diverrebbe un mezzo e quindi non potrebbe più dirsi buona in senso proprio: l’azione che è in vista di altro non ha più il proprio fi ne in sé (non è più gratuita!). Ciò non toglie che l’azione virtuosa, pur essendo disinteressata, per essere auten-ticamente virtuosa debba anche essere effi cace – le buone intenzioni non bastano! –, cioè debba essere compiuta in modo tale da realizzarsi, ovvero con accortezza79. A conti fatti, il fi ne perseguito dal politico autentico sembrerebbe esibire buone credenziali per essere ritenuto migliore e più completo degli altri. Esso riceve un ulteriore supporto dal fatto che, se il fi ne di tutti i fi ni presenta la capacità di orga-nizzare tutti gli altri80, realizzarlo non può competere che alla politica (di cui l’etica è parte) in quanto scienza più architettonica.

75 EN X 5 1175a30-31. Che il piacere perfezioni l’attività viene ripetuto per ben quattro volte in Metaph. X 4: 1174 b 23; 32 s.; 1175 a 15 s. e 21.

76 EN X 4 1174b32-33: «Il piacere perfeziona l’attività […] come un completamento che vi si aggiunge», e ivi, 1174a4-8: «Di molte cose noi ci daremmo cura anche se non apportassero alcun piacere: per esempio, di vedere, ricordare, sapere, possedere la virtù. Se poi a queste cose conseguono necessariamente dei piaceri, non ha importanza; le sceglieremmo, infatti, anche se non ne derivasse piacere».

77 EE 1216a26: «l’uomo politico dovrebbe scegliere le belle azioni in virtù di se stesse».78 Aristotele invita a rifl ettere sul fi ne che si propongono quanti perseguono il tipo di vita

politica, che sono le persone predisposte all’azione. Essi «aspirano all’onore per poter credere di essere stati buoni» (EN 1095b27). Dunque l’onore viene tributato in grazia della virtù! Se poi il bene fosse l’onore non sarebbe proprio e inalienabile (oikeion ti kai dusafaireton, 1095b26), ma ci farebbe dipendere da chi ci onora.

79 Cfr. EN VI 12 1144a28 s.80 MM I 1 1182b1 s.

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Stabilendo l’etica come parte della politica, Aristotele concorda pienamente con Platone: la distribuzione dei compiti fra i cittadini spetta a questa scienza: «poiché è essa che si serve di tutte le altre e che stabilisce, inoltre, per legge, che cosa si deve fare, e da quali azioni ci si deve astenere, il suo fi ne abbraccerà i fi ni delle altre, cosicché sarà questo il bene per l’uomo»81, che non è pienamente se stesso se viene considerato come solitario: «più bello e più divino è il bene di un popolo»82. La politica verte dunque sul bello, perché l’onore è desiderato non in se stesso, ma come riconoscimento della virtù. Quindi il bello morale è un fi ne in se stesso per eccellenza. Questi rilievi, pur così importanti, trovano però altrove delle limitazio-ni, sostanzialmente due: 1). neppure la giustizia (virtù politica per eccellenza) esau-risce la felicità; 2). il criterio per determinare il fi ne compiuto non è semplicemente che si tratti di un fi ne in grado di funzionalizzare gli altri. Ne vanno aggiunti altri due, altrettanto fondamentali: a). ciò conseguito il quale non si desideri più altro; b). ciò per possedere il quale si vorrebbe prolungare all’infi nito di vivere. Sembre-rebbe pertanto che la felicità vada ricercata in un bene individuale e inalienabile, il cui conseguimento sia favorito piuttosto dalla politica. Essa favorisce per tutto un popolo la realizzazione di fi ni individuali e inalienabili, ma non per questo autar-chici. Ecco il senso autentico in cui essa è architettonica: essa non deve mai perdere di vista ciò che è il massimo bene per noi: «la politica è la facoltà superiore, perciò il suo fi ne deve essere il bene supremo»83. Ecco come sarebbe possibile spiegare in che senso la politica tende al più alto dei fi ni raggiungibili mediante l’azione, che è la felicità.

VII. L’aporia della felicitàVII. L’aporia della felicità

Prima di approfondire il contenuto di questa affermazione, sia concesso trarre alcune conclusioni sui caratteri dell’eudaimonia, il maggiore e il migliore dei beni umani – né di animali, né di dèi – in quanto fi ne compiuto. Come si è visto, per la gran parte tali caratteri vengono ricavati ex negativo, ossia con procedimento elen-chico consistente nella messa in rilievo dell’insuffi cienza delle posizioni avversarie. Molti interpreti di Aristotele considerano “dialettiche” questo tipo di dimostra-zioni, ovvero non ultimamente vere e vincolanti in quanto non scientifi che. Senza addentrarci nella discussione di questo punto basti rimandare alle affermazioni esplicite riportate sopra, nelle quali Aristotele avverte che non si deve pretendere da questa scienza l’acribia e la precisione delle scienze apodittiche, tuttavia essa rimane scienza perché ultimamente fondata sul nous84. Il nous è quella facoltà dalla

81 EN 1094b4-7.82 Ivi, r. 10.83 MM 1182b1-2.84 Su questo punto EN VI 11 1143a35-1143b5: «Anche l’intelletto riguarda gli oggetti ul-

timi in entrambi i sensi: è infatti l’intelletto che ha come oggetto sia i termini primi sia gli ultimi, e non il ragionamento (logos), ed è l’intelletto che, da una parte, coglie i termini immutabili e primi nell’ordine delle dimostrazione, dall’altra, nelle questioni pratiche, coglie il termine ultimo

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quale dipendono sia le forme di sapere dimostrative che quelle induttive (come l’etica), in quanto il nous è capacità di cogliere i principi, e anche le dimostrazioni devono partire da principi, perché non si può dimostrare all’infi nito. L’eudaimonia implica l’esercizio di determinate attività e ne presuppone altre, ma non si può farla coincidere con nessuna di esse: né i singoli beni intellettuali né le singole virtù (nemmeno la giustizia) si rivelano in grado di soddisfare tutti criteri posti per la determinazione del fi ne compiuto. Oggi la maggioranza degli interpreti ne conclude che la felicità, secondo Aristotele, implicherebbe una somma equilibrata del maggior numero possibile di questi beni85. Se questo fosse il punto di arrivo avremmo tutte le ragioni di sentirci delusi. In effetti, le lunghe discussioni su quali siano gli ingredienti da calibrare nella “vita buona”, per la quale oggi va di moda il nome di “vita fl orida” (fl ourishing life), sembrano essere senza fi ne. Una loro strana caratteristica è che nella “pozione” manca quasi sempre la virtù e di conseguenza si genera confl itto86.

Bisogna rimarcare piuttosto che, trattando del nesso uomo-felicità, Aristotele rileva il darsi di qualcosa che non sa ancora defi nire esattamente, per questo ci si avvicina gradualmente cercando di cogliere l’essenziale mirando al bersaglio: «E non è forse vero che anche per la vita la conoscenza del bene ha un grande peso, e che se noi, come arcieri, abbiamo un bersaglio, siamo meglio in grado di rag-giungere ciò che dobbiamo?»87, parole la cui eco risuona nei noti versi danteschi: «Ciascun confusamente un bene apprende nel qual si queti l’animo, e disira; per che di giugner lui ciascun contende»88.

E, in effetti, lo Stagirita segnala di essere ben consapevole dell’aporia, in quan-to riconosce che «il miglior bene non rientra nell’ordine degli altri beni, tuttavia

e contingente, cioè la premessa minore. Infatti, i principi da cui si ricava il fi ne sono questi: è dai particolari che si ricavano gli universali. Di questi fatti particolari bisogna avere apprensione immediata, e questa apprensione immediata è l’intelletto». Sulla concezione aristotelica del nous cfr. H. Seidl, Der Begriff des Intellekts (nous) bei Aristoteles im philosophischen Zusammenhang seiner Hauptschriften, Meisenheim am Glan 1971.

85 Pionieristici in questo senso gli scritti di Amartya Sen (ad es. Commodities and Capa-bilities, Amsterdam 1985) supportati dalle analisi aristoteliche di Martha Nussbaum (cfr. Aristo-telian Social Democracy, in R.B. Douglass, G. Mara and H. Richardson [eds.] Liberalism and the Good, New York 1990, pp. 203-252 e Aristotle on Human Nature and the Foundations of Ethics, in J.E.G. Altham and R. Harrison [eds.], World, Mind and Ethics: Essays on the Philosophy of Bernard Williams, Cambridge 1995). I due autori insieme hanno curato il volume miscellaneo The Quality of Life, Oxford 1993.

86 Sul confl itto dei beni, al quale approda l’etica contemporanea, Aristotele aveva avu-to parole premonitrici: «Per la massa degli uomini le cose belle sono in confl itto perché non sono tali per natura, mentre per gli amanti del bello sono piacevoli le cose che per natura sono piacevoli» (EN I 8 1099a12-13). Nussbaum si ferma al livello delle preferenze non giudicate dal nous. Oggetto del desiderio sarebbero sempre e solo oggetti esterni (sottratti al mio controllo) e particolari: all’oggetto d’amore erotico spetterebbe il rango più elevato. A suo avviso non si dà comunque bene se non come somma dei beni. La vita fl orida consiste nell’attuazione di tutte le potenzialità – fi siche e intellettuali – di cui l’uomo dispone, e che una buona educazione deve provvedere a risvegliare.

87 EN I 2 1094a22-24.88 Dante, Purgatorio XVII, 127-129.

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nemmeno si può dire che gli altri beni siano separati da esso. La felicità è compo-sta da certi beni, ma neppure si può paragonare la felicità con altri beni, perché essa è un qualcosa di semplice»89. Non è da un confronto fra i singoli beni che si ricava il bene completo. Anche riguardo a questo punto egli conferma pienamente Platone90: nemmeno la saggezza (phronesis), da sola, è un bene completo, perché non è il fi ne ultimo in vista del quale esistono le altre cose91. La felicità non è il sommo bene, ma il fi ne completo (telos teleion), conseguito il quale non desideria-mo più altro92. Se manca o non si acquista questa coscienza del fi ne complessivo il resto non basta, e non si può essere felici. Quid animo satis? – sembra chiedersi Aristotele.

Egli non retrocede rispetto al fenomeno umano che si è imposto alla sua osser-vazione – la felicità è legata al conseguimento del fi ne complessivo – e addirittura rincara la dose, affermando che il darsi di questa esigenza esige che il suo conse-guimento sia sottratto alla necessità e alla fortuna.

VIII. Virtù e felicitàVIII. Virtù e felicità

Questo ragionamento viene sviluppato nel primo capitolo dell’Etica Eudemia93. Ancora una volta Aristotele riparte da capo: secondo la communis opinio felice è colui che vive bene. Occorre come prima cosa rilevare che il viver bene non coin-cide con le condizioni necessarie al vivere tout court (l’esempio più illuminante è quello della salute). Aristotele si domanda se queste condizioni necessarie siano parti della felicità94. Diffi cile rispondere direttamente. Avanzeremo un po’ nella nebbia confutando le soluzioni insuffi cienti. Importante è capire quali siano le fonti (ek tinon) della vita buona, per non dire beata (makarion, 1215a11). Che cosa è in grado di soddisfare la speranza che caratterizza gli uomini onesti? Se tutti nutrono questa speranza ci deve pur essere qualcosa per cui essa non sia invano. Non resta allora che considerare come si diventa felici. Le possibilità risultano ben defi nite e per ciò stesso limitate: per natura, per invasamento religioso, oppure per caso (tyche), come ritengono i più? Se così fosse, la felicità verrebbe sottratta alla speranza dei più95. Ma siccome tutti (i più) sperano di conseguire la felicità,

89 MM I 2 1184a35.90 Phil. 66B ss. Quanto Aristotele dipenda da Platone nella classifi cazione dei beni

potrebbe emergere da un attento confronto col Filebo. In esso Platone pone al primo posto la misura, principio da cu Aristotele fa dipendere la virtù, al secondo il kalon – inteso come ordo e proportio – e solo al terzo l’intelligenza e il pensiero.

91 MM I 2 1184a37ss.92 L’unico completamento in questo senso sarebbe che “siccome siamo esseri in divenire”

questo fi ne completo non lo possediamo una volta per tutte, ma dobbiamo sempre riguadagnar-celo nuovamente.

93 EE I 1 1214a, passim.94 Ibi, 1214b27.95 Posto che: «chiunque possa vivere secondo il proprio proponimento si pone un certo

fi ne del vivere bene» (ibi, 1214b6 ss.), se la felicità viene riposta «fra le cose che dipendono dal

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il suo raggiungimento non può essere riservato a pochi. E così avverrebbe se la vita buona risultasse dalla necessità o dalla fortuna96. Invece ottenerla deve in qualche modo trovarsi in nostro potere. E infatti restano altre due possibilità: in virtù di una scienza che si apprende per insegnamento (episteme), oppure ancora median-te un impegno personale (aiskesis). Ed è proprio questa seconda possibilità che maggiormente soddisfa le esigenze poste e che introduce direttamente al nesso fra felicità e virtù.

Si tratta infatti di un rilievo che si accorda con quello secondo cui l’anima è prin-cipio di vita, dunque la sua perfezione (virtù) consisterà in una perfezione dell’azio-ne, che è vita dell’anima. La felicità, pertanto, non può essere fatta consistere nelle attività dell’anima vegetativa e sensitiva (che avranno anch’esse indubbiamente le loro “virtù”, che corrispondono al loro retto funzionamento, dato che, come sap-piamo “virtù si dice in molti modi”) ma nell’esercizio migliore dell’attività che la contraddistingue, e queste sono, appunto, le virtù. Anche a questo riguardo vanno fatte ulteriori precisazioni. Le stesse virtù particolari possono intendersi in senso duplice: sia come disposizioni dell’anima – e in questo senso esse non bastano a ren-dere felici97 – che come esercizio. Solo in questo secondo senso esse contribuiscono in misura determinante alla felicità, in quanto la virtù consiste nella disposizione migliore, ma solo se viene esercitata e nel momento in cui viene esercitata è bene autentico. La rifl essione intorno all’esperienza del darsi di un bene umano porta a concludere che deve trattarsi di un bene mio, il che vuol dire, da un lato, come già sappiamo, che è inalienabile, dall’altro che non può essere posseduto una volta per tutte, perché ciò che mi caratterizza in quanto uomo è il fatto di agire: l’azione è il “movimento” umano, attuabile non dal singolo individualmente preso ma inserito in un consorzio umano98.

IX. Vita buona e virtùIX. Vita buona e virtù

Per concludere, ci resta un ultimo passo da compiere, vale a dire cogliere un po’ più precisamente la natura della virtù, rimandando invece la considerazione più dettagliata delle singole virtù a un’altra occasione.

caso o dalla natura, viene sottratta alla speranza dei più: infatti allora l’ottenerla non dipende più dalla solerzia degli uomini, e non si trova più in loro potere e nella loro attività. Se invece essa risiede nelle qualità dell’individuo e nelle sue azioni, diviene un bene più comune e più divino: più comune perché è possibile che i più lo ottengano, più divino perché sarà connesso all’acquisto di tali qualità e al fatto di compiere tali azioni» (ibi 1215a10 ss.).

96 In tedesco, come noto, Glück signifi ca sia felicità che fortuna.97 La virtù, da sola, è ancora troppo imperfetta (ateles), in quanto non è ancora azione:

chi possiede la virtù potrebbe anche non esercitarla.98 Sullo studio delle conseguenze derivanti la questo punto ha sviluppato la sua opera

Maurice Blondel (1861-1949, cfr. soprattutto L’azione. Saggio d’una critica della vita e d’una scienza della pratica, 1893). Del suo pensiero si è ampiamente nutrito Henri de Lubac (cfr. H. U. von Balthasar, Il padre Henri de Lubac. La tradizione fonte di rinnovamento, Jaca Book, Milano 1977, p. 15 s).

148148 NICOLETTA SCOTTI MUTHNICOLETTA SCOTTI MUTH Philosophical News Philosophical News

Nella Grande Etica Aristotele affronta senza preliminari il tema centrale che si è proposto: la determinazione del carattere etico99. Ciò equivale per lui alla «[mi-gliore] disposizione interiore preposta all’azione» e, anticipando il risultato dei ra-gionamenti successivi, essa viene fatta consistere nell’esercizio delle virtù. Secondo una prassi che gli è consueta, egli dà avvio alla trattazione con una breve carrellata delle posizioni dei suoi predecessori in merito. È qui che si fa gioco dei pitagorici e conseguentemente dei suoi colleghi di un tempo, che seguono più Pitagora di Pla-tone100, che critica Socrate101 e che non lesina parole di apprezzamento per Platone. Esse sono dovute alla tripartizione dell’anima fi ssata nella Repubblica e ripresa nel Fedro, che qui viene in sostanza confermata, anche se con diversa scansione. Al posto dell’anima concupiscibile-irascibile-razionale, Aristotele propone in primo luogo una ripartizione in anima non avente e avente logos. Nella prima sono ricom-prese le due parti alogiche dell’anima platonica. Complessivamente essa è sede del desiderio (orexis) – secondo le sue varie tipologie, corrispondenti alla varietà di oggetti e di states of affairs presenti nella realtà – e dunque delle virtù etiche che, per dirla in modo didascalico, sono preposte alla sua “messa a fuoco”. La parte dell’anima dotata di logos è invece sede delle virtù dianoetiche: sapienza e saggez-za (sophia e phronesis). Mentre Platone aveva individuato una virtù responsabile dell’ordine in ciascuna parte dell’anima – sophrosyne per l’anima concupiscibile, andreia per l’irascibile, sophia per la razionale – e una aggiuntiva (dikaiosyne) pre-posta a mantenere l’ordine dell’anima tutta intera, Aristotele stila un elenco molto più dettagliato di virtù etiche, in cui assimila sophrosyne, andreia e dikaiosyne pri-vandole così in qualche modo del rango privilegiato di virtù cardinali. Un confron-to con le stesse virtù nella Repubblica meriterebbe un esame specifi co.

Per tutti coloro che ritengono che l’autentica concezione aristotelica dell’anima sia quella fi siologica delineata nel De anima, questi passi, e i corrispettivi in EE e in EN, costituiscono un’incongruenza che viene non di rado risolta con l’espediente della diversa datazione tanto dei trattati esoterici che delle stratifi cazioni che li costituiscono. Nel primo quarto del Novecento questa chiave di lettura è stata consacrata in modo autorevole da Werner Jaeger: egli ha applicato all’ermeneutica aristotelica il metodo storico-critico, che vantava già una lunga sperimentazione nel campo dell’esegesi biblica102.

99 Su questo tema cfr. G. Anagnostopoulos, Aristotle on the Goals and Exactness of Ethics, Berkeley-Los Angeles-London 1994.

100 In Resp. VIIIB-C si parla, in termini evidentemente ironici, di un complesso numero geometrico (numero nuziale) in base al quale i custodi potrebbero stabilire le condizioni di pro-creazione di fi gli perfetti.

101 Per il suo intellettualismo: «se uno conosce l’essenza della giustizia non per questo è automaticamente giusto» (MM I 1, 1183b15), mentre questo vale per le scienze: «non appena uno conosce geneticamente l’essenza di una scienza viene ad essere scienziato» (12). Ne con-segue che «le virtù non sono scienze» (17), perché il carattere etico ha a che fare con le passioni, che risiedono nella parte alogica dell’anima, atta a “farsi persuadere”.

102 Secondo la felice formulazione di Reale, il metodo consacrato da Jaeger sarebbe fon-dato “sull’ipotesi storico-genetica”. Su questo punto mi permetto di rimandare al mio studio, di prossima pubblicazione, Limiti del metodo storico-critico: i principi dell’ermeneutica di Reale e

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Ma è Aristotele stesso ad avvertire che il discorso svolto nel De anima prende sì in considerazione lo stesso oggetto, però secondo una prospettiva differente103: l’anima come principio vitale nel De anima e l’anima come direttrice del compor-tamento umano nelle Etiche. Si tratta di due piani di realtà, e dunque di discorso e di conoscenza, differenti. Ecco perché non solo non c’è confl itto fra la triparti-zione del De anima in anima vegetativa-sensitiva-razionale e la sua bipartizione in non-avente-logos e avente-logos prospettata nelle tre Etiche sul modello platonico, ma addirittura è evidente che le due prospettive si integrano, pur senza interferire reciprocamente104. Il piano dell’azione, che implica ragione e volontà, è distinto da quello fi siologico. Le funzioni vegetative, in particolare, non riguardano l’agire eti-co. Esse sono massimamente attive nel sonno, ma: «se uno dorme per tutta la vita è simile a una pianta»105. La ripetuta menzione dell’anima vegetativa negli scritti etici106 e la giustifi cazione del fatto di tralasciarla, in quanto essa risulta esente sia dell’aspetto volitivo che di quello razionale, centrali invece nel discorso etico, de-notano comunque che Aristotele non pone i due discorsi in alternativa, e che essi non possono essere fatti risalire tout court a epoche distinte della sua produzione scientifi ca, che sarebbero segnate non solo da un cambiamento di prospettiva ma addirittura da un cambiamento di idea. In secondo luogo, la dimensione fi siologica esposta nel De anima risulta implicitamente sullo sfondo fi n nella descrizione delle passioni dell’anima sviluppata nella Retorica e ripresa nelle Etiche, e segnatamente in quel carattere distintivo delle articolazioni del desiderio – le passioni – che con-siste nella loro risonanza immediata di piacere/dolore, la quale ovviamente presu-me un loro legame con la dimensione fi sica.

l’“Aristoteles” di Jaeger, in Glauco Tiengo e Pier Davide Accendere (a cura di), Studi in onore di Giovanni Reale.

103 MM I 5: si dice che per defi nire la virtù bisogna parlare dell’anima, in cui essa risiede, ma “non già dire che cos’è l’anima”, il parlare di ciò, infatti, costituisce un altro argomento.

104 Le opere esoteriche di Aristotele sono in genere contrassegnate da grande coerenza nell’uso della terminologia. Una lunga tradizione ha potuto erigere Aristotele a sistema perché Aristotele, in ciascuna delle sua opere, mostra di tenere sempre in vista sullo sfondo l’impianto complessivo, in quanto si propone di indagare organicamente tutti i piani della realtà. Il fatto che si tratti di un progetto unitario e coerente – a dispetto di quanto ha affermato per decenni la gran parte degli interpreti contemporanei – potrebbe trovare la sua giustifi cazione più sem-plice nel fatto che, se si riesce a trapassare l’apparenza, la realtà risulta poco contraddittoria. Le oscillazioni semantiche non rare nei trattati di scuola sono dovute alla complessità del tentativo di distinguere tutti gli aspetti della cosa indagata, piuttosto che al mutare di opinione da parte di Aristotele. Aristotele non mira alla precisione assoluta, perché non sta scrivendo trattati di geometria. Anche nella Retorica, ad esempio, ammesso che si tratti di un’opera giovanile, la ter-minologia risulta già fi ssata e anche l’impianto concettuale tiene conto delle opere successive. I raccordi all’interno delle esoteriche furono progettati dall’autore. La ragione di questo fatto non può essere, evidentemente, che fi n dall’inizio Aristotele fosse a conoscenza di ciò che cercava. Anche se fatto valere per dire quasi il contrario, valga il rilievo di C. Rapp: «Die Texte [der aristotelischen Schriften] sind mehrfach überarbeitet, ergänzt oder umgestellt worden». Cfr. C. Rapp, Aristoteles. Zur Einführung, Hamburg 2001, p. 11.

105 MM 1185a20-25.106 Cfr., ad es. MM I 4 e 5.

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La bipartizione dell’anima fra irrazionale/razionale costituisce dunque il terzo fondamentale nodo problematico su cui Aristotele – per quanto riguarda il grande tema del fi ne del vivere – concorda con Platone. Come si ricorderà, gli altri due erano l’insuffi cienza di una defi nizione formale dell’atto virtuoso e, infi ne ma so-prattutto, il tentativo di mostrare, contro l’evidenza prima facie, la consonanza fra bello-buono-piacevole come aspirazione autenticamente consona alla vita umana.

Procedendo sempre sulla linea sintetica tracciata nella Grande Etica, cerchia-mo a questo punto di cogliere i caratteri essenziali della virtù secondo Aristotele, tenendo innanzitutto presente che anche rispetto ai termini etici bisogna dire che sono pollachos legomenoi (polivoci): in genere la defi nizione costituisce il signifi -cato più debole, proprio in quanto più universale e comune, poi si dà un senso forte del termine, che è il signifi cato proprio al quale tutti gli altri in qualche modo si riferiscono. Ecco perché “virtù”, come abbiamo visto, signifi ca retto funziona-mento in conformità al fi ne insito nell’essenza di ciascuna cosa, sia animata sia inanimata107. Nell’uomo, ogni facoltà ha le sue eccellenze, ma in più si dà una virtù dell’uomo in quanto tale, nella sua piena unità. Questa virtù tipicamente umana è l’eudaimonia: la felicità è energheia delle virtù108, ovvero non soltanto possesso, ma uso ed esercizio109 migliore delle migliori disposizioni dell’anima. Ma al tempo stesso essa è bene completo, a sua volta fi ne di tutti i fi ni, che sono, come sappia-mo, saggezza, virtù (etiche) e godimento110. È giunto il momento di concentrarci brevemente sulle virtù etiche, senza aver colto le quali non si comprende neppure in che cosa consista la saggezza (phronesis).

Abbiamo detto che esse risiedono nella parte alogica dell’anima razionale; inol-tre vengono generalmente defi nite come “buone disposizioni del carattere (ethos)”. Vediamo che cosa ciò signifi chi. Anche qui si parte dal dato di fatto: le virtù sono oggetto di lode (MM I 4), mentre il loro opposto, che sono i vizi, vengono puniti dalla legge (1187a17). Lode e biasimo, punizione e premio sono un dato, un segno di qualcosa di reale che va compreso. Complessivamente essi sono segno del fatto che compiere o meno azioni virtuose dipende da noi: lode e biasimo non vengono conferiti per azioni involontarie111; e se il legislatore vieta di compiere azioni cattive

107 Una cosa è buona se assolve il fi ne che le è proprio. Nel suo stesso concetto è insito il fi ne: una casa è una casa in vista della sua funzione. Ciò vale anche per l’anima, che è il principio che ci permette di vivere. Essere anima equivale a essere buona anima. L’anima buona (virtuosa) è quella che mette in atto al meglio le sue disposizioni. Fondamentale risulta l’equivalenza: essere virtuoso=essere buono=essere pienamente se stesso.

108 MM 1185a33.109 Perché l’uso è il fi ne del possesso o disposizione (hexis).110 Tralasciamo per il momento la sapienza (sophia), che è la virtù della parte teoretica

dell’anima razionale.111 Involontario è ciò che è compiuto o per necessità o per costrizione (MM I 16) e ciò che

non avviene mediante dianoia (consapevolezza). Terminologia e prassi giuridica dell’occidente sono intrisi di questi concetti.

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e stabilisce una pena per chi lo fa, signifi ca che ciò dipende da noi, che si tratta di azioni in nostro potere112.

In effetti, abbiamo visto sopra come il dato di fatto che tutti gli uomini vogliano essere felici impone che anche possano diventarlo, e che ciò sia sottratto alla neces-sità e al caso, ma dipenda in qualche modo da loro. Il che è condizione necessaria per essere lodati. Non sarebbe così se essere virtuoso consistesse in una semplice questione di intelligenza. Abbiamo visto sopra come ciò non sia il caso e qui ricevia-mo un’ulteriore conferma in questo senso: secondo Socrate, nessuno sceglierebbe il vizio volontariamente, per cui, se lo sceglie, signifi ca che lo fa per ignoranza. A questo celeberrimo argomento Aristotele oppone che, se le cose stessero così, nep-pure si sarebbe virtuosi volontariamente, perché volontario è solo ciò che potreb-be essere altrimenti, pertanto si deve concludere che è in nostro potere compiere azioni buone o cattive113. Dunque l’essere felici non può avvenire nostro malgrado, occorre qualcosa che preventivamente potremmo defi nire “scatto della libertà”.

X. Desiderio e passioniX. Desiderio e passioni

Il fatto che per agire virtuosamente non basti conoscere esige di introdurre nell’anima la famosa divisione fra parte alogica e parte logica di platonica memoria. Infatti, per agire virtuosamente bisogna essere in grado di governare le passioni114, dal che consegue che l’anima alogica – che in Platone era duplice, mentre Aristotele, unifi candola, non fa distinzione fra epithymia e thymos – è passibile di essere “per-suasa”. E ciò è fondamentale, visto che nell’anima alogica si trova ciò che ci stimola all’azione: l’inclinazione o appetizione, articolabile in tre forme: desiderio (orexis), impetuosità e volontà (bulesis)115. La predilezione di Aristotele per le distinzioni chi-rurgiche non si ferma qui e rischia a questo punto di metterci a dura prova, ma vale la pena seguirlo anche su questi impervi sentieri, perché ci permettono di conseguire una comprensione più chiara della complessità del nostro io. Utile è anche tenere a

112 Cfr. MM I 10 e 11 L’uomo genera azioni. Solo dell’uomo diciamo che agisce, è creatore delle sue azioni (1187a7). Ogni azione ha un principio. Questi sono il proponimento e la volontà, se le nostre azioni mutano è perché mutano i suoi principi. Proponimento e volontà sono ciò che “dipende da noi”, per gli animali non si può affermare ciò.

113 Cfr. MM I 12: volontario è ciò che è sia biasimevole che lodabile. Volontario in gene-rale è ciò che facciamo senza essere costretti.

114 Ecco perché il giovane, sottoposto al vento impetuoso delle passioni, ascolta invano una trattazione politica: «per gli uomini che vivono assecondando la passione e lasciandosi tra-scinare da qualsiasi tipo di attrazione» la conoscenza risulta inutile, qualsiasi età abbiano, cfr. EN I 3, 1095a7-10. Ma uno può avere un ethos giovane anche se è vecchio, se esso non è stato a suo tempo educato.

115 Importantissima la differenza fra volontà (bulesis) – che vuole i fi ni, anche quelli im-possibili; ad es., vogliamo essere sani anche se sappiamo di essere inguaribilmente malati – e pro-ponimento o rifl essione, che coincide in sostanza con la proairesis, preposta al decision-making in vista del meglio che si è scelto relativamente alla circostanza particolare in cui ci si trova. Proponimento e deliberazione sono funzioni della phronesis (cfr. EN VI 5), mentre la bulesis è una forma dell’inclinazione, che è il tratto caratteristico dell’anima alogica.

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mente che, contrariamente a come noi oggi siamo portati a valutare, per lui si trat-ta sempre di strati consci. L’ulteriore distinzione che viene introdotta – essenziale per comprendere il nesso fra passioni e virtù (MM I 7) – è quella dei tre elementi dell’anima alogica: passioni, facoltà e disposizioni. Solo queste ultime possono esse-re buone o cattive, e infatti è al loro livello che trovano posto virtù e vizio.

In precedenza abbiamo provvisoriamente defi nito le passioni (pathe) come de-clinazioni del desiderio (orexis). Il che signifi ca che il loro numero è pressoché fi sso, almeno nelle tipologie principali, infatti le passioni hanno un aspetto di og-gettività, se pure manipolabile mediante infl ussi esterni di vario tipo che possono arrivare non solo a suscitarle ad hoc, ma addirittura a “spegnerle” quasi del tutto116. Esse sono reazioni apprensive a un oggetto o a uno stato di cose, e sono naturali sotto vari riguardi: innanzitutto sono involontarie, e quindi connesse in qualche modo anche con la sfera fi siologica. Tendono di per sé all’indeterminato (eccesso o difetto), e ciascuna di loro dipende da una specifi ca facoltà. Il che equivale a dire che sono “date”, anche se educabili in base a principi stabiliti a un livello superiore dell’anima. Rispetto al nostro modo abbastanza confuso di usare il vocabolario delle realtà comprese in questa sfera, va sottolineata l’importanza di non confon-dere le passioni coi sentimenti, ai quali presteranno invece specifi ca attenzione gli stoici. Mentre i feelings consistono in un’appercezione di se stessi, e dunque sono diffusi, sono modi di sentire, le passioni sono determinate in base all’oggetto, sono modi di essere affetti da – e subito di rispondere a – cause esterne. In ogni passione è compreso un momento intenzionale in cui l’oggetto viene colto come avente a che fare con me, e non in se stesso, distaccatamente. L’oggetto mi riguarda, riguar-da il mio mondo e provoca una risposta. Quindi ogni passione è anche una forma di conoscenza (affettiva), in quanto relativa a un oggetto specifi co, conosciuto me-diante il desiderio.

L’analisi più dettagliata delle diverse passioni viene svolta nella Retorica e, si-gnifi cativamente, non ripetuta nelle Etiche. Il motivo di ciò consiste nella grande importanza che esse rivestono per l’oratore, in quanto eccellente strumento per suscitare in chi ascolta il pregiudizio. La passione impedisce l’imparzialità del giu-dizio. E l’oratore suscita nel suo auditorio pathe, cioè dolori e piaceri connessi col riconoscimento sociale e con l’immagine di sé117.

116 A ogni passione corrisponde una precisa dynamis: ad es., davanti a una situazione tale per cui sia stata rivolta «una palese offesa alla nostra persona o a qualcuno a noi legato, e l’offesa non sia meritata» (Rhet. II a 1378 a32-33) in quanto uomo è normale provare ira, ma una certa educazione potrebbe in via ipotetica portare a una percezione talmente affi evolita di sé, da spegnere la facoltà di provare ira. Illuminante l’esempio delle donne indiane portato da Nussbaum in Terapia del desiderio. Teoria e pratica nell’etica ellenistica, trad. di N. Scotti Muth, presentazione di G. Reale, Vita e Pensiero, Milano 1998, pp. 27 s.

117 Rhet. I 1 1354b10: «Come spesso sono infl uenzati da amicizia, odio, interesse, sicché non possono più vedere il vero in modo adeguato, ma il loro giudizio è oscurato dal piacere e dal dolore personale». Cfr. inoltre Rhet. II 1 1377b31: «In quanto le cose non sembrano uguali per chi prova sentimenti di amicizia e di odio, per chi è incollerito e tranquillo. Come arrivare a un’azione ragionata a queste condizioni? Le passioni interferirebbero di continuo: le emozioni

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Le passioni tendono al difetto e all’eccesso118, ed è a questo punto che interviene la disposizione (hexis), che rende stabile o una certa inclinazione naturale al difetto o all’eccesso, oppure la capacità stabile di mirare «a una medietà fra le passioni»119. Questa “buona disposizione” nel rapporto con le passioni è la virtù, che è di dif-fi cile attuazione, in quanto «è facile adirarsi e altrettanto facile l’opposto di ciò, mentre invece tenere il giusto mezzo è diffi cile». Ecco perché chi è virtuoso desta ammirazione: kalepa ta kala120. Il loro sviluppo presuppone esercizio, educazione e retta ragione. Questa a sua volta è resa possibile dal legame con la phronesis, che è la virtù propria della parte calcolante dell’anima dotata di logos.

Tutte queste tematiche richiedono sviluppi propri che esulano dal tema specifi -co delle nostre considerazioni121. Qui ci premeva capire meglio in che senso le virtù siano non solo belle – perché gratuite e diffi cili da realizzare (frutto di ascesi) – ma anche buone, cioè convenienti – perché corrispondono al retto funzionamento delle disposizioni umane – e infi ne piacevoli – perché il loro esercizio ha in sé la propria ricompensa di godimento122. In questo senso esse costituiscono l’ingre-diente primario dell’eudaimonia, che è detta virtù suprema in quanto esercizio ottimo del principio in base al quale l’uomo vive: l’anima. Ma questo risultato, per quanto cospicuo e ammirevole123, urge al di là di se stesso: il puzzle della felicità non è ricomposto e non sembra ricomponibile in base agli elementi che siamo stati in grado di distinguere124. Comunque una cosa è certa: la virtù per Aristotele non è riducibile a metriopatheia, e, pur non avendo come fi ne l’autarchia, può fare anche a meno dei beni di fortuna. Inoltre, non si può essere autenticamente virtuosi se

sono i fattori in base ai quali gli uomini, mutando opinione, differiscono in rapporto ai giudizi» Rhet. II 1 1378a19-21).

118 Al grande e al piccolo, nel quale si coglie l’eco del principio platonico dell’illimitato. Cfr. Phil., 23 A ss.

119 MM 1186 a 33.120 Ciò che è bello è diffi cile, nota massima enunciata da Platone in Resp., 497D.121 Al riguardo cfr. K. Corcilius u. C. Rapp (hrsg.), Beiträge zur Aristotelischen Handlung-

stheorie, Steiner, Stuttgart 2008.122 L’occasione per rifl ettere su questo tema mi è stata offerta da un dibattito pubbli-

co al quale ho partecipato nell’ottobre 2011 a Monaco e il cui titolo suonava provocatorio: “Tugend=Glück=Tugend. Oder ist der Gute doch wieder der Dumme?”.

123 Queste scoperte aristoteliche hanno a suo tempo suscitato interesse e ammirazione da parte di tre tradizioni diverse: ebraico-cristiana, giudaica, e islamica, anche se con intensità, durata e accenti differenti. Si tratta comunque di un sostrato comune sempre riattivabile.

124 Al riguardo cfr. i saggi inclusi nel volume miscellaneo: A. Oksenberg Rorty (ed.), Es-says on Eristotle’s Ethics, Berkeley-Los Angeles-London 1980, e particolarmente T. Nagel, Ar-istotle on Eudaimonia, pp. 7-14 (contrappone due concezioni differenti di eudaimonia nell’EN: una comprensiva, che include l’intero spettro delle eccellenze morali e della ragion pratica e una intellettualistica, che comprende solo l’attività dell’intelletto teoretico) e J.L. Ackrill, Aristotle on Eudaimonia, pp. 15-33: «Most of the Ethics implies that good action is – or is a major element in – man’s best life, but eventually in book 10 purely contemplative activity is said to be perfect eudaimonia; and Aristotle does not tell us how to combine or relate these two ideas», (p. 15). Sull’eudaimonia: cfr inoltre. le voci eudaimonia e eu zên in O. Höffe (Hrsg.), Aristoteles-Lexikon, Stuttgart 2005, e l’opera ormai classica di A. Kenny, Aristotle on the Perfect Life, Princeton 1989.

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non possedendo tutte le virtù, e l’apprendimento della virtù è inserito in un circolo virtuoso, per cui non c’è un punto zero da cui partire: elegge la virtù chi già la com-prende e quindi la desidera, ciò è possibile solo in un contesto sociale virtuoso e mediante educazione previa. Platone nel libro VI della Repubblica, dopo aver trac-ciato il ritratto dell’uomo perfettamente virtuoso, che ha eletto la verità a propria guida, riconosce realisticamente che una tale natura è estremamente rara, ma che se anche si desse per natura non avrebbe mai la forza di contrastare l’ingiustizia nella quale immersa: «infatti non c’è né c’è mai stato né ci sarà mai un carattere orientato a virtù che sappia contrastare l’educazione di costoro (dei sofi sti). Dico un carattere umano, caro amico, perché, come vuole il proverbio, quel che è divino per noi esula dal discorso» (492E).

Alla nostra condizione spirituale e sociale attuale particolarmente signifi cativo suona il richiamo aristotelico che l’azione umana dipende dalla libertà: la praxis è azione ragionata in vista di un bene riconosciuto come degno di scelta e dunque re-sponsabilmente voluto: «C’è una certa disposizione per fare ciascun tipo di azioni in modo tale da essere buoni, intendo dire, cioè, per compierle in base a una scelta e avendo come scopo ciò stesso che si fa»125. Tutte le volte che l’azione soccombe alla manipolazione o avviene meccanicamente, come un sasso che cade, non merita più questo nome. Proprio qui si apre la possibilità di un male banale, ma non per questo meno devastante126. Rileggere Aristotele può aiutarci non poco a favorire un recupero della libertà, della volontà, della consapevolezza delle proprie azioni, tanto più degne di questo nome se “belle”, cioè volute perché valgono la pena e non sempre in vista di altro. Ma per vivere un tipo di vita così ci vuole coraggio. Come dice Platone, «il coraggio è una certa capacità di conservazione del criterio, generato in noi dall’educazione, delle cose che si devono temere, della loro natura e del loro carattere. E ribadisco: ‘conservazione di questo criterio in ogni condizio-ne’ in quanto lo si deve tener saldo sia quando si è nei dolori, sia quando si è nei piaceri o in preda alla paura, né va mai rigettato»127.

Nicoletta Scotti MuthUniversità Cattolica del Sacro Cuore

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125 EN VI 12 1144a18-20.126 Hannah Arendt vede ne La banalità del male, l’importanza del concetto di praxis come

azione ragionata. Se il ragionamento manca non può esserci azione buona, quindi il male è banale, perché è conseguenza diretta dell’agire senza pensare. Cfr. H. Arendt, Vom Leben des Geistes. Das Denken, das Wollen, Hrsg. von M. McCarthy, aus dem Amerikanischen von H. Vetter, Piper, Munchen-Zurich1998, p. 14: «Dieses Fehlen des Denkens […] rief mein Interesse wach».

127 Resp. 429 C: il coraggio di una polis dipende da una parte di essa, se in quella parte ri-esce a serbare la giusta opinione delle cose da temere. Per una defi nizione dell’andreia cfr. anche ibi, 442 C.

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Nicoletta Scotti Muth è ricercatore di Storia della fi losofi a antica e insegna Storia della metafi sica antica presso l’Università Cattolica di Milano. La sua formazione – incentrata sullo sviluppo teorico del pensiero antico e su tematiche a esso correlate nel pensiero fi losofi co contemporaneo – si è svolta presso la UCSC, l’International Academy of Philosophy (Dallas) e la LMU di Monaco di Baviera (Humboldt-Sti-pendium). Ha svolto studi sulla storia della tradizione platonica (Proclo), sul lega-me fra empirismo e fenomenologia in ambito gnoseologico (R.M. Chisholm), sulla storia dell’interpretazione della Metafi sica di Aristotele, sul legame fra tradizione greca e culture dell’oriente antico. Fa parte del comitato scientifi co dell’edizione italiana di Ordine e Storia di Eric Voegelin. Ha recentemente curato un volume miscellaneo di imminente pubblicazione, Prima della fi losofi a, che si propone come companion a Israele e la rivelazione (I vol. di OS). Ha tradotto in italiano impor-tanti opere di Robert Spaemann, Martha Nussbaum, Werner Beierwaltes, Thomas Szlezák, e il commentario di Frede-Patzig al libro Z della Metafi sica di Aristote-le. Collabora con il Voegelin-Zentrum für Politik, Philosophie und Religion della LMU (Geschwister-Scholl-Institut).