NEUROSCIENZE E DIRITTO PENALE: LE QUESTIONI SUL TAPPETO
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Editore Luca Santa Maria | Direttore Responsabile Francesco Viganò 2010-2014 Diritto Penale Contemporaneo
NEUROSCIENZE E DIRITTO PENALE: LE QUESTIONI SUL TAPPETO
di Fabio Basile e Giuseppe Vallar
SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Che cosa sono le neuroscienze? – 3. Una “rifondazione” su basi
neuroscientifiche del diritto penale? – 4. Una “collaborazione” delle neuroscienze al diritto penale? – 4.1.
“Collaborazione” in sede di accertamento della in-imputabilità. – 4.2. “Collaborazione” in sede di
accertamento della immaturità psichica del minore ultraquattordicenne. – 4.3. “Collaborazione” in sede di
accertamento della pericolosità sociale. – 4.4. “Collaborazione” in sede di verifica della attendibilità delle
dichiarazioni rese nel processo. – 4.5. “Collaborazione” in sede di accertamento del dolo. – 5. Una strada
spianata o un percorso irto di ostacoli alla “collaborazione” tra diritto penale e neuroscienze? – 5.1. Gli
ostacoli frapposti dalla legge penale. – 5.2. Gli ostacoli frapposti dallo stesso dibattito neuroscientifico. – 6.
Considerazioni conclusive.
1. Introduzione.
Il tema delle interazioni tra neuroscienze, in particolare cognitive, e diritto
penale, è di interesse crescente, e coinvolge sia gli studiosi del diritto penale1, sia i neuro-
1 In argomento, anche per richiami a lavori di maggior respiro e approfondimento, C. GRANDI, Neuroscienze
e responsabilità penale. Nuove soluzioni per problemi antichi?, Torino, 2016, p. 3 ss.; O. DI GIOVINE, voce
“Neuroscienze (diritto penale)”, in Enc. dir., Annali, VII, Giuffré, 2014, p. 711 ss.
Abstract. Da qualche anno anche in Italia si sono affacciate sulla scena del diritto e del
processo penale le c.d. neuroscienze, vale a dire quel complesso di discipline che indaga sulle
connessioni neuronali dei comportamenti umani. A livello teorico, e de iure condendo, la
dottrina penalistica si è, quindi, interrogata sulla possibilità di una “rifondazione” del diritto
penale che faccia tesoro delle acquisizioni neuroscientifiche (per quanto riguarda, in primis,
il possibile superamento del dogma della volontà libera e non determinata). A livello pratico,
e de iure condito, si registrano, intanto, alcune applicazioni delle neuroscienze finalizzate a
fornire la prova di questo o quell’elemento del reato: questo secondo approccio, indubbiamente
più prolifico del primo, dopo aver riscosso un iniziale favore presso la giurisprudenza di
merito, sembra, tuttavia, ora scontrarsi con un profondo scetticismo da parte della
giurisprudenza di legittimità.
2
scienziati2, talora impegnati in un confronto reciproco3. Si tratta – vale subito la pena di
dirlo – di un tema controverso, che ha significative implicazioni, anche di carattere
filosofico ed epistemologico.
In via preliminare risulta, altresì, opportuno precisare che il tema “neuroscienze
e diritto penale” va tenuto distinto dall’indagine neuroscientifica sulle ipotetiche basi
neurali della “legge” o, più precisamente, dei comportamenti, quali decisioni con
caratteristiche “legali”4. Quest’ulteriore tipo di indagine non è diverso, dal punto di vista
dell’approccio metodologico neuroscientifico, da quello di un dominio affine, ma non
interamente sovrapponibile5, vale a dire quello delle basi neurali della “morale”6; più in
generale, esso non è diverso dall’indagine sui correlati neurali di ogni altro aspetto del
comportamento umano7.
Il presente lavoro, scritto da un penalista e da un neuropsicologo, dopo aver
fornito una breve definizione delle “neuroscienze”, si articolerà in tre parti, in cui si
discute la possibilità di: 1) una “rifondazione” su basi neuroscientifiche del diritto
penale, con particolare riferimento al diritto penale italiano; 2) una più limitata
“collaborazione” delle neuroscienze al diritto e al processo penale; 3) gli ostacoli che si
possono profilare a una tale collaborazione.
2. Che cosa sono le neuroscienze?
Come punto di partenza, possiamo prendere le mosse da una definizione di
neuroscienze fornita in una recente monografia penalistica: “con il termine neuroscienze
2 Sul punto, tra i molti, v. F. CARUANA (a cura di), Scienze cognitive e diritto, in Sistemi Intelligenti, 22(2), 2010,
pp. 179-374. 3 Di recente, ha dato avvio ad un ampio dibattito, l’articolo-bersaglio di G. SARTORI, A. ZANGROSSI,
Neuroscienze Forensi, in Giornale Italiano di Psicologia, 2016, n. 4, pp. 689-711. Per un commento a tale articolo,
sia consentito rinviare a G. VALLAR, F. BASILE, Diritto penale e neuroscienze, ivi, pp. 799–806. 4 Sul punto, v. J. W. BUCKHOLTZ, C. L. ASPLUND, P. E. DUX, D. H. ZALD, J. C. GORE, O. D. JONES, R. MAROIS, The
neural correlates of third-party punishment, in Neuron, 60(5), 2008, pp. 930–940; per un riepilogo del relativo
dibattito, v. pure L. Cominelli, Neuroprova e bias giudiziario, in R. Brighi, S. Zullo (a cura di), Filosofia del diritto
e nuove tecnologie. Prospettive di ricerca tra teoria e pratica, Ariccia, Aracne editrice, 2015, p. 183 ss. 5 In argomento, v. H. L. A. HART, Positivism and the separation of law and morals, in Harvard Law Review, 71(4),
1958, pp. 593–629; R. A. POSNER, The problematics of moral and legal theory, in Harvard Law Review, 111(7), 1998,
pp. 1637–1717; A. BARATTA, Antinomie giuridiche e conflitti di coscienza: contributo alla filosofia e alla critica del
diritto penale, Milano, Giuffré, 1963, p. 7 ss. Sulla questione dei rapporti tra diritto penale e morale, sia
consentito rinviare, anche per ulteriori riferimenti bibliografici, a F. BASILE, Immigrazione e reati culturalmente
motivati. Il diritto penale nelle società multiculturali, Milano, Giuffré, 2010, p. 89 ss. 6 Sul punto, v. J. MOLL, R. DE OLIVEIRA-SOUZA, P. J. ESLINGER, I. E. BRAMATI, J. MOURÃO-MIRANDA, P. A.
ANDREIUOLO, L. PESSOA, The neural correlates of moral sensitivity: A functional magnetic resonance imaging
Investigation of basic and moral emotions, in The Journal of Neuroscience, 22(7), 2002, pp. 2730–2736. 7 In tema di neuroscienze cognitive, con ampi rinvii alla letteratura specialistica, v. M. S. GAZZANIGA (a cura
di), The cognitive neurosciences, 4° ed., Boston, Mass, MIT Press, 2014. Con specifico riferimento alla
neuropsicologia – disciplina che indaga le alterazioni cognitive ed emotivo-motivazionali causate da lesioni
o disfunzioni cerebrali – sia consentito rinviare a G. VALLAR - C. PAPAGNO, Manuale di neuropsicologia, 2° ed.,
Bologna, Il Mulino, 2011. Sul punto, si vedano anche i volumi di F. BOLLER, J. GRAFMAN (a cura di), Handbook
of neuropsychology, Amsterdam, Elsevier.
3
si indica un gruppo eterogeneo di discipline scientifiche, accomunate dall’obiettivo di spiegare
come le connessioni neuronali sovrintendano lo svolgimento di tutte le attività umane, non solo
quelle estrinsecantesi in semplici movimenti corporei, ma anche quelle più complesse (la volizione,
le emozioni, persino la formulazione dei giudizi morali), tradizionalmente attribuite al dominio
della mente e considerate inaccessibili all’indagine sperimentale”8.
Le neuroscienze hanno, in effetti, come scopo l’analisi e la comprensione ad ogni
livello (molecolare, genetico, biochimico, neurofisiologico) del funzionamento del
sistema nervoso centrale (cervello) e periferico. Conviene, tuttavia, distinguere,
all’interno delle neuroscienze, diversi livelli di analisi. La neuroscienza molecolare indaga
la biologia del sistema nervoso: le molecole, e le loro funzioni e interazioni, che
sottendono lo sviluppo, la struttura, l’architettura e le funzioni del sistema nervoso. La
neuroscienza cellulare studia le cellule del sistema nervoso, i neuroni: la morfologia
cellulare, la sintesi e il trasporto di proteine, la comunicazione neuroni-cellule gliali9, gli
aspetti biofisici e biochimici dell’attivazione dei recettori, la funzione dei canali ionici, la
generazione del potenziale di azione e la trasmissione sinaptica, infine le proprietà
funzionali delle sinapsi e la loro plasticità10.
Le neuroscienze molecolare e cellulare sono la base per il successivo livello della
neuroscienza dei sistemi, che ha come oggetto di indagine l’architettura strutturale e
funzionale, l’elaborazione, l’immagazzinamento e il richiamo di informazioni ad opera
di circuiti cerebrali, coinvolti nelle attività sensoriali, percettive e motorie
(programmazione e esecuzione del movimento), e in processi di più elevato livello
(memoria e apprendimento, attenzione, emozioni, meccanismi di ricompensa,
rappresentazione dello spazio e del corpo, linguaggio, processi decisionali,
ragionamento e funzioni esecutive).
In particolare, la neuroscienza comportamentale ha come oggetto di indagine i
meccanismi cerebrali, a tutti i livelli precedentemente menzionati, riguardati nella
8 C. GRANDI, Neuroscienze e responsabilità penale. Nuove soluzioni per problemi antichi?, cit., p. XI. Per una
puntuale definizione di neuroscienze v. anche L. ALGERI, Neuroscienze e testimonianza della persona offesa, in
Riv. It. Med. Leg., 33(3), 2012, p. 904: “le neuroscienze hanno ad oggetto lo studio del cervello e del sistema nervoso
degli organismi viventi a livello molecolare, biochimico e genetico. Lo scopo delle neuroscienze è quello di analizzare la
base biologica delle espressioni mentali e comportamentali dell’animale e dell’uomo a partire dallo studio delle singole
cellule nervose, i neuroni”. 9 Le cellule neurogliali – cui ci si riferisce solitamente come cellule gliali o glia – sono diverse dalle cellule
nervose. La differenza maggiore è che esse non partecipano direttamente alle interazioni sinaptiche e alla
trasmissione di segnali elettrici, sebbene abbiano funzioni di supporto nei confronti dei neuroni, di cui sono
circa tre volte più numerose. La glia mantiene l’appropriato ambiente ionico delle cellule nervose, modula
l’azione sinaptica, la propagazione del segnale nervoso, nonché taluni aspetti dello sviluppo neurale; ha
inoltre funzioni protettive e può partecipare al recupero dopo lesioni neuronali. Il termine “glia” (da una
parola greca che significa “colla”) riflette l’idea ottocentesca, poi non confermata, che tali cellule “tenessero
assieme” il sistema nervoso. Sul tema, diffusamente, D. PURVES, G. J. AUGUSTINE, D. FITZPATRICK, W. C. HALL,
A.-S. LAMANTIA, J. O. MCNAMARA, S. M. WILLIAMS, Neuroscience, 3° ed., Sinauer Associates, Inc., Sunderland,
Massachusetts U.S.A., 2004. 10 La plasticità sinaptica è il processo biologico per cui specifici pattern delle attività di connessione tra le cellule
nervose – per l’appunto sinapsi – determinano cambiamenti della forza della connessione, contribuendo alla
memoria e all’apprendimento. Meccanismi sia “pre-” che “post-” sinaptici possono contribuire
all’espressione della plasticità sinaptica, in tal senso v. questa pagina web.
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specifica prospettiva del comportamento, nelle sue manifestazioni sensorimotorie,
cognitive e emotive. La neuroscienza cognitiva – che in parte si sovrappone con quella
comportamentale – riguarda, invece, le basi neurali, a tutti i livelli sopraccitati, dei
processi cosiddetti “mentali”, “di elevato livello” (percezione, azione, linguaggio,
ragionamento e funzioni esecutive, memoria): è una disciplina di confine tra
neuroscienze e psicologia (fisiologica e cognitiva) e raccoglie contributi dalla
modellistica computazionale delle attività cerebrali e del comportamento. La
neuroscienza integrativa, infine, si occupa dei meccanismi che supportano l’interazione tra
i diversi livelli sopra sommariamente descritti, nel determinare un comportamento
complesso, basato sul coordinamento dell’attività di sistemi sensoriali, percettivi,
cognitivi (ad esempio, memoria, processi decisionali) ed emozionali, a partire dalle loro
basi cellulari e molecolari.
I livelli di indagine cui si è fatto cenno riguardano il cervello e il comportamento
“normali”, in via di sviluppo e nell’età adulta e anziana. Tuttavia, una ulteriore ed
importante fonte di informazioni circa le funzioni e la struttura del sistema nervoso
viene anche dallo studio delle malattie che possono colpire il cervello – campo di studio
della neurologia11 – la quale costituisce una disciplina medica che si occupa dei
meccanismi, della diagnosi e del trattamento delle malattie del sistema nervoso.
Una specialità della neurologia, in particolare, è la neurologia comportamentale, la
quale studia gli aspetti clinici e patologici dei processi nervosi associati all’attività
mentale, e caratterizza la fenomenologia e la fisiopatologia dei disturbi
comportamentali. I dominî di interesse di tale branca della neurologia comprendono i
deficit di processi percettivi di alto livello, le attività motorie complesse, l’attenzione, la
memoria, il linguaggio e le funzioni cognitive “frontali” o “esecutive” (risoluzione di
problemi, concettualizzazione astratta, processi decisionali, capacità di introspezione,
pianificazione dell’azione nelle sue fasi successive, nell’ordine più appropriato allo
scopo). La neurologia comportamentale include tre tipi generali di sindromi cliniche: 1)
malattie diffuse e multifocali, che alterano il comportamento e i processi mentali (ad
esempio, delirio e demenza); 2) sindromi associate a lesioni cerebrali focali (ad esempio,
afasia, negligenza spaziale unilaterale, amnesia globale e deficit specifici di memoria,
aprassia, agnosia); 3) manifestazioni neuropsichiatriche di malattie neurologiche (ad
esempio, depressione, ansietà, mania, psicosi, cambiamenti della personalità, disordini
ossessivo-compulsivi, che possono accompagnarsi a malattie come l’epilessia, le malattie
cerebrovascolari, le lesioni cerebrali traumatiche o la sclerosi multipla). Queste categorie
sindromiche possono essere suddivise, rispetto all’eziologia, in primarie (ad esempio,
malattie neurodegenerative) e secondarie (ad esempio, disordini tossico-metabolici
sistemici), o, sulla base della modalità con cui si verificano, in disordini ereditari o
acquisiti12.
11 In argomento, v. A. V. ROPPER, M. A. SAMUELS, J. P. KLEIN, Adams and Victor’s principles of neurology, 10° ed.,
New York, McGraw-Hill Global Education Holdings, 2014. 12 Per un’approfondita indagine in tema di neurologia comportamentale, v. American Academy of Neurology
Behavioral Neurology Fellowship Core Curriculum, revisione del 24 maggio 2000: in questa pagina web.; D. B.
ARCINIEGAS, C. A. ANDERSON, C. M. FILLEY, Behavioral Neurology & Neuropsychiatry, Cambridge, UK,
Cambridge University Press, 2013.
5
Va, infine, menzionata la neuropsicologia, disciplina la quale studia le relazioni tra
il cervello e il comportamento, e i processi cognitivi ed emotivo-motivazionali che lo
determinano. La neuropsicologia indaga le alterazioni del comportamento in pazienti
affetti da malattie neurologiche (si veda sopra quanto già detto in relazione alla
neurologia comportamentale, con le cui tematiche la neuropsicologia si sovrappone
largamente, sebbene con una relativa maggior focalizzazione sugli aspetti
comportamentali e psicologici, rispetto a quelli neurologico-clinici), con finalità
diagnostiche e riabilitative dei deficit comportamentali e cognitivi sopramenzionati
(neuropsicologia clinica). La neuropsicologia indaga inoltre i correlati cerebrali degli
aspetti più elevati (cognitivi ed emotivo-motivazionali) del comportamento in
partecipanti senza lesioni o disfunzioni cerebrali13.
3. Una “rifondazione” su basi neuroscientifiche del diritto penale?
Secondo alcuni studiosi, le neuroscienze – quindi, il complesso di discipline sopra
richiamate – sarebbero ormai prossime a fornire la definitiva dimostrazione empirica che
ogni comportamento umano è solo l’esito meccanicistico di un processo cerebrale14: non
esisterebbe, insomma, una volontà libera, consapevole, ma solo una serie di connessioni
neuronali governate dalle leggi causali della fisica. Da qui il passo è breve alla
formulazione del seguente, inquietante interrogativo: se ogni comportamento umano è
causalmente pre-determinato, è forse giunta l’ora di congedarsi da alcune categorie
basilari del diritto penale come i concetti di “libero arbitrio”, di “coscienza e volontà”, di
“responsabilità personale intesa come capacità di agire altrimenti”?15
C’è chi dice sì. C’è chi già propone una radicale rifondazione del diritto penale
su nuove basi deterministiche, cui segua coerentemente una completa rimodulazione
delle sanzioni, sganciate da qualsiasi nucleo retribuzionistico e proiettate esclusivamente
in funzione di cura e di controllo (se del caso, anche ante delictum) del soggetto
predisposto – stando ai suoi neuroni – al crimine16.
13 In argomento, v. F. DENES, L. PIZZAMIGLIO (a cura di), Handbook of clinical and experimental neuropsychology,
1° ed., Psychology Press, Howe, East Sussex, UK, 1999; C. A. UMILTÀ (a cura di), Neuropsicologia sperimentale.
Milano, Franco Angeli, 1982; inoltre, volendo, G. VALLAR, C. PAPAGNO (a cura di), Manuale di neuropsicologia.
Clinica ed elementi di riabilitazione, 2° ed., Bologna, Il Mulino, 2011. 14 Sia pur con sfumature e prospettive differenti, v. in tal senso, tra i molti, A. LAVAZZA, L. SAMMICHELI, Il
delitto del cervello. La mente tra scienza e diritto, Torino, Codice Edizioni, 2012; D. M. WEGNER, The illusion of
conscious will, Cambridge, Mass, MIT Press, Bradford Books, 2002. In particolare, Wegner argomenta che,
essendo l’azione in primo luogo determinata da meccanismi cerebrali e psicologici, la volontà consapevole
è solo un’illusione, che sta tuttavia alla base del nostro apprezzamento e del ricordo di noi stessi come autori
delle nostre azioni e dello sviluppo del senso di responsabilità e della moralità. 15 Per una consapevole prospettazione di tali interrogativi, v., nella letteratura penalistica, C. GRANDI,
Neuroscienze e responsabilità penale, cit., p. 31 ss.; nella letteratura medico-psicologica, G. SARTORI, A.
ZANGROSSI, Neuroscienze Forensi, cit., p. 692 s. 16 Il punto più estremo, e provocatorio, della prospettata rifondazione del diritto penale sulla base delle
(presunte) evidenze deterministiche fornite dalle neuroscienze, è forse toccato dagli scritti di G. MERKEL, G.
ROTH, Freiheitsgefühl, Schuld und Strafe, in K. J. GRÜN, M. FRIEDMAN, G. ROTH (a cura di), Entmoralisierung des
Rechts. Maßstäbe der Hirnforschung für das Strafrecht, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 2008, pp. 54-95;
6
Si tratta, tuttavia, di conclusioni che suscitano forti perplessità17, sintetizzabili nei
tre ordini di considerazioni critiche di seguito esposte.
1) In primo luogo, si ha l’impressione di trovarsi di fronte solo all’ultimo tentativo,
in ordine cronologico, di fornire una spiegazione unicausale della criminalità. In passato, la
“causa” della criminalità è stata individuata in questo o in quel fattore sociologico o
medico-biologico: nella povertà, nella razza, nel ceto sociale, nella cultura, nel
capitalismo e nelle sue contraddizioni, nel corredo genetico, nelle anomalie
cromosomiche, nella conformazione del cranio, nelle esperienze subite nell’infanzia,
etc.18; adesso, la “causa” della criminalità si pretende di individuarla nella
conformazione cerebrale e nelle interconnessioni neuronali dell’individuo.
Ma nei confronti di questa teoria – come già nei confronti di tutte le teorie
unicausali del passato – risulta ancora valida la critica formulata dalla migliore
letteratura criminologica: “molti approcci, sia sociologici che medico-biologici, si sono proposti
come teorie unicausali [della criminalità], nel senso che polarizzano il loro interesse su di un solo
fattore, ritenuto necessario e sufficiente a render conto di per sé solo delle cause del
comportamento criminale. È questo un atteggiamento che appare opportuno rifiutare,
potendo apparire pericoloso per la eccessiva unilateralità delle premesse e delle
conseguenze; le teorie unicausali debbono intendersi come contributi particolari da collocarsi
nell’ambito di una più ampia visione, che contemporaneamente tenga conto di tutta la
costellazione dei fattori, parimenti ritenuti causali, messi in evidenza dalle altre singole teorie.
Inevitabilmente una teoria criminologica unicausale finisce per trascurare quegli aspetti che non
risultano cruciali dal punto di vista di quella teoria, enfatizzando invece una sola condizione”19.
Le teorie unicausali della criminalità – teoria neuroscientifica compresa –
insomma, oscurano altri possibili fattori, di natura personale (che spaziano dall’indole
all’educazione) e/o ambientale (che a loro volta variano dalla cultura alla società, alla
famiglia, alla scuola, etc.), i quali esercitano indubbiamente un ruolo importante, per lo
meno in funzione di creazione dell’occasione o di innesco del comportamento criminale:
ammesso, quindi, che le neuroscienze riescano davvero a mappare una predisposizione
neuronale al crimine, non disponiamo ancora di alcun elemento per affermare se e
quando tale predisposizione si trasformerà effettivamente in realizzazione concreta.
2) In secondo luogo, è stato giustamente sottolineato come la pretesa di una
rifondazione del diritto penale sulla base delle (presunte) evidenze deterministiche
fornite dalle neuroscienze incorre in una sorta di errore categoriale, vale a dire nella
W. SINGER, Ein neues Menschenbild? Gespräche über Hirnforschung, Frankfurt am Main, 2003, p. 51 ss.; F. J.
RUBIA, El fantasma de la libertad. Datos de la revolución neurocientífica, Barcellona, Crítica, 2009, p. 148 ss.; infine,
H. J. MARKOWITSCH, W. SIEFER, Tatort Gehirn. Auf der Suche nach dem Ursprung des Verbrechens, Frankfurt-New
York, 2007, p. 227 ss. 17 Per un’illustrazione critica delle opinioni formulate in proposito, v. C. GRANDI, Neuroscienze e responsabilità
penale. Nuove soluzioni per problemi antichi?, cit., p. 64 ss.; nella letteratura penalistica tedesca, v. K. LÜDERSSEN,
Wer determiniert die Hirnforscher?, in Frankfurter Rundschau online, 18.7.2010. 18 G. L. PONTI, Compendio di criminologia, Milano, Raffaello Cortina, 1980, p 233. 19 G. L. PONTI, Compendio di criminologia, cit., p. 234 s.; più di recente, per alcune annotazioni di sintesi, v. R.
BIANCHETTI, Criminologia postmoderna e vittimologia umanistica: autori e vittime di reato. Un’introduzione al
convegno, in R. BIANCHETTI, L. LUPÀRIA, E. MARIANI (a cura di), Autori e vittime di reato. Gli obblighi dello Stato
alla luce del diritto internazionale, Milano, Maggioli, 2017, p. 7 ss.
7
violazione del principio epistemologico secondo cui “ciascuna scienza è in grado di
comprendere solamente l'oggetto di studio al quale i propri strumenti le consentono di accedere”20.
A causa di un siffatto errore, infatti, i sostenitori di queste proposte rischiano, per
un verso, di sopravvalutare o di mal valutare l’effettivo ruolo che le categorie concettuali
sotto accusa svolgono nel diritto penale: si è mai vista, ad esempio, una sentenza penale
che argomenti una condanna o un’assoluzione ricorrendo al concetto di “libero
arbitrio”? Del resto, di tale concetto non v’è traccia non solo nel codice penale, ma
nemmeno in molti dei più autorevoli manuali contemporanei di diritto penale.
Per altro verso, tale errore categoriale potrebbe condurre ad un ulteriore grave
fraintendimento: la (erronea) convinzione che la disciplina penalistica della imputabilità,
della colpevolezza, della pena retributiva ricalchi pedissequamente le acquisizioni
fornite dalle scienze c.d. dure in tema di libero arbitrio. Ma ciò non corrisponde affatto
alla realtà normativa: la disciplina positiva di tali istituti, infatti, a ben vedere costituisce
l’esito di una autonoma ri-elaborazione, da parte della scienza penalistica, del concetto di
libero arbitrio21. La scienza penalistica, del resto, persegue fini completamente diversi
dalla dimostrazione empirico-scientifica dell’esistenza, o meno, del libero arbitrio,
mirando, invece, a costruire categorie – quali, appunto, l’imputabilità, la colpevolezza,
la pena retributiva – che possano fungere, nel pieno rispetto della dignità umana, da
efficaci regolatori del vivere sociale22.
È confortante riscontrare una sostanziale convergenza su tale conclusione da
parte sia di un autorevole neuroscienziato che di un grande penalista:
20 W. HASSEMER, Neurociencias y culpabilidad en derecho penal, in InDret, Revista para el Análisis del Derecho, n. 2,
2011, in questa pagina web, p. 6. Sul punto v. anche ID., Perché punire è necessario (2009), trad. it., Bologna, il
Mulino, 2012, p. 195 e ss.; in termini simili, I. MERZAGORA BETSOS, Colpevoli si nasce? Criminologia,
determinismo, neuroscienze, Milano, Raffaello Cortina, 2012, p. 107 ss. 21 La scienza penale procede, del resto, spesso a rielaborare in via autonoma – con i propri strumenti e in vista
delle proprie finalità – concetti provenienti dalle scienze “dure”: si pensi solo alle concezioni “penalmente
rilevanti” di causa, pericolo, malattia, le quali non coincidono specularmente con quelle predisposte dalla
fisica, dalla chimica, dalla biologia, etc. Sulla autonoma rielaborazione, in sede penale, del concetto di
“causalità”, v. F. STELLA, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, ristampa, Milano, Giuffré,
1990, p. 71 ss., nonché L. MASERA, Accertamento alternativo ed evidenza epidemiologica nel diritto penale. Gestione
del dubbio e profili causali, Milano, Giuffré, 2007; sulla autonoma rielaborazione, in sede penale, del concetto
di “pericolo”, v. F. ANGIONI, Il pericolo concreto come elemento della fattispecie penale. La struttura oggettiva,
Milano, Giuffré, 1994; infine, sulla autonoma rielaborazione, in sede penale, del concetto di malattia, sia
consentito rinviare a F. BASILE, I delitti contro la vita e l’incolumità individuale, Tomo III, Padova, Cedam, 2015,
p. 28 e, con specifico riferimento all’infermità mentale, M. BERTOLINO, L’imputabilità e il vizio di mente nel
sistema penale, Milano, Giuffré, 1990. 22 Sul punto, K. LÜDERSSEN, Wer determiniert die Hirnforscher?, cit. In una prospettiva più generale, v. P.
GROSSI, Prima lezione di diritto, Roma-Bari, 2003, p. 14: “il diritto organizza il sociale, mette ordine nella rissa
incomposta che ribolle in seno alla società, è innanzi tutto ordinamento”. Risulta interessante, sul punto, anche
una riflessione sviluppata di recente dalla Cassazione, impegnata a tratteggiare la linea di confine tra dolo
eventuale e colpa cosciente: “Noi non sappiamo esattamente cosa sia la volontà: la psicologia e le neuroscienze hanno
fino ad ora fornito informazioni e valutazioni incerte, discusse, allusive. Tuttavia, la comune esperienza interiore ci
indica in modo sicuro che nella nostra vita quotidiana sviluppiamo continuamente processi decisionali, spesso essenziali
per la soluzione di cruciali contingenze esistenziali: il pensiero elaborante, motivato da un obiettivo, che si risolve in
intenzione, volontà”, Cass., Sez. Unite, 24 aprile 2014 (dep. 18 settembre 2014), n. 38343, par. 50 della
“motivazione in diritto” (si tratta della sentenza relativa al tragico incendio nello stabilimento di Torino
della ThyssenKrupp).
8
- secondo Gazzaniga, infatti, “we are all part of a deterministic system that some day, in theory,
we will completely understand. Yet the idea of responsibility, a social construct that exists in the
rules of a society, does not exist in the neuronal structures of the brain”23;
- sulla sponda “penalistica” gli fa eco Zaffaroni, secondo cui “non è possibile rifiutare il
concetto di colpevolezza per l’atto commesso, argomentando che l’autodeterminazione non è
verificabile. A parte il fatto che neppure il determinismo lo è, è sicuro che noi interagiamo
socialmente come se fossimo autodeterminati”24.
Insomma: anche se fosse vero, come è stato da taluno sostenuto, che il concetto
di “libero arbitrio”, nelle scienze dure, possiede la stessa plausibilità empirica del concetto
di “unicorno”25, nelle scienze sociali – scienza penale in primis – ciò non ha impedito a tale
concetto di stimolare la costruzione di regole sociali, valide e utili ... allo stesso modo in
cui il concetto di “unicorno” – smentito dalle scienze dure – è stato ciò nondimeno capace
di ispirare, in ogni forma artistica, un’ampia e pregevole produzione.
3) In terzo luogo, e infine, a rinforzo delle critiche appena formulate, occorre
considerare che, almeno al momento attuale, le acquisizioni dei neuroscienziati non
giustificano alcun cambiamento nella legge penale26, obbiettivo che peraltro, a nostro
avviso, la comunità neuroscientifica nemmeno si pone, puntando invece essa solo a
mettere a disposizione del diritto penale metodi e tecniche atti a meglio valutare aspetti
come l’imputabilità, la pericolosità sociale, la eventuale falsità delle dichiarazioni
processuali27.
Si pensi proprio alla (presunta) dimostrazione neuroscientifica dell’inesistenza
del libero arbitrio: si pretende di desumere tale dimostrazione da esperimenti e test, che
in realtà riguardano solo singoli atti motori estremamente elementari, come schiacciare
un tasto, mentre i comportamenti penalmente rilevanti sono di solito ben più complessi
23 Sul punto, v. M. S. GAZZANIGA, The ethical brain, New York/Washington DC, Dana Press, 2005; in
particolare, sul ruolo del cervello nelle relazioni sociali, v. l’articolo-bersaglio di F. EMILIANI, B. M. MAZZARA,
Dalla naturalizzazione delle scienze umane alla naturalità dell’ovvio. Le ragioni sociali per le quali la mente non è il
cervello, in Giornale Italiano di Psicologia, 2015, vol. 42, nn. 1-2, pp. 31–56, e il relativo commento di G.
BERLUCCHI, S. M. AGLIOTI, Le ragioni per le quali non c’è mente sociale senza cervello sociale, ivi, pp. 77-82.
24 E. R. ZAFFARONI, Colpevolezza e vulnerabilità, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2003, p. 347. 25 W. PRINZ, Kritik des freien Willens: Bemerkungen über eine soziale Institution, in Psychologische Rundschau, 2004,
vol. 55, n. 4, p. 198 ss. 26 K. LÜDERSSEN, Wer determiniert die Hirnforscher?, cit. Sul punto, v. altresì C. GRANDI, Neuroscienze e
responsabilità penale. Nuove soluzioni per problemi antichi?, cit., p. 76, il quale, all’esito di un’accurata analisi del
dibattito in corso nella dottrina penalistica europea così conclude: “posto che secondo tutte le tesi ora illustrate
le recenti investigazioni scientifiche sul cervello non sono in grado di fornire una prova inconfutabile sull'origine
deterministica delle azioni umane, la presunzione penalistica secondo cui ogni persona sana di mente è dotata della
capacità di autodeterminarsi responsabilmente per ora non risulta smentita; al contrario, secoli di investigazione della
scienza psicologica e delle scienze sociali, quali l’antropologia e la sociologia, dimostrerebbero l’esatto contrario,
confermando la peculiarità dell’agire umano rispetto ai fenomeni naturali e ai comportamenti animali. In definitiva,
non sussistono ragioni sufficienti per stravolgere gli istituti della colpevolezza e della imputabilità così come vengono
costruiti a livello sociale, ancor prima che giuridico, nell’epoca contemporanea”. 27 Cfr. S. J. MORSE, The Neuroscientific Challenges to Criminal Responsibility, in A. SANTOSUOSSO (a cura di), Le
neuroscienze e il diritto, Pavia, Ibis, 2009, p. 93 ss., nonché, volendo, tra i contributi scritti a quattro mani da
neuroscienziati e penalisti, G. VALLAR, F. BASILE, Diritto penale e neuroscienze, cit., pp. 799–806.
9
ed elaborati, e la differenza – in termini di correlati neurali – tra azioni elementari e azioni
complesse, è grande e per nulla trascurabile28.
In conclusione, per tutti i motivi suddetti, pare senz’altro condivisibile l’opinione
di quanti ritengono non necessaria, e nemmeno auspicabile, una rifondazione del diritto
penale su basi neuroscientifiche29.
4. Una “collaborazione” delle neuroscienze al diritto penale?
Se, per come argomentato nel precedente paragrafo, le attuali acquisizioni
neuroscientifiche non comportano, almeno per ora, né la necessità, né l’opportunità di
modificare i capisaldi del diritto penale, ciò non significa che si debba escludere a priori
qualsiasi possibilità di dialogo e di collaborazione tra neuroscienze, da una parte, e
diritto e processo penale, dall’altra. Spostandoci da una prospettiva teorica ad una più
pragmatica ed operativa, resta, infatti, ancora da verificare se le neuroscienze possano
fornire un qualche contributo in fase di accertamento di alcuni elementi del reato o,
comunque, di alcuni presupposti processuali.
In proposito, secondo quanto di recente rilevato da Sartori e Zangrossi, “con
l’avvento delle moderne neuroscienze forensi esistono i presupposti per una innovazione vera del
processo, non attraverso una sostituzione, ma mediante un arricchimento della tradizionale
valutazione psichiatrico-forense, allo scopo di aumentarne oggettività e accuratezza. Il dato
neuroscientifico, infatti, consente di aggiungere informazioni essenziali per la comprensione del
caso, non disponibili con l’approccio tradizionale”30.
Si tratta di un’affermazione che anche chi scrive condivide, sia pur con qualche
cautela e con una necessaria precisazione preliminare: quando Sartori e Zangrossi
parlano di “tradizionale valutazione psichiatrico-forense”, si riferiscono, in realtà, alla
valutazione basata sul colloquio clinico, che è caratterizzato da un elevato tasso di
soggettività, e su test proiettivi come il Rorschach31. Ma questo è un approccio che la
neuropsicologia, che indaga gli effetti comportamentali di lesioni o disfunzioni cerebrali
e li correla con esse, ha messo da parte ormai da decenni. Vale la pena di ricordare qui
28 Sul punto, con ampi rinvii alla letteratura specialistica, v. G. SARTORI, A. ZANGROSSI, Neuroscienze Forensi,
cit., p. 702; F. PAGLIERI, La struttura temporale dell’azione intenzionale: illusione della volontà o illusione delle
neuroscienze?, in Sistemi Intelligenti, 2010, p. 347–356. Si sofferma sulla cronometria della consapevolezza
della pianificazione dell’azione e della sua esecuzione, F. CARUANA, Due problemi sull’utilizzo delle
neuroscienze in giurisprudenza, in Sistemi Intelligenti, 22(2), 2010, pp. 337–346. 29 Oltre agli Autori citati nelle note precedenti, v. B. J. FEIJOO SÁNCHEZ, Derecho Penal y Neurociencias. ¿Una
relación tormentosa?, in InDret, Revista para el Análisis del Derecho, n. 2, 2011, p. 48; C. JÄGER, Libre determinación
de la voluta, causalidad y determinación a la luz de la moderna investigación del cerebro, in E. DEMETRIO CRESPO, M.
MAROTO CALATAYUD (a cura di), Neurociencias y derecho penal, Buenos Aires, 2013, p. 61 ss.; T. HILLENKAMP,
Strafrecht ohne Willensfreiheit? Eine Antwort auf die Hirnforschung, in Juristen Zeitung, 2005, p. 313 ss.; M.
BERTOLINO, L'imputabilità penale tra cervello e mente, in Riv. It. Med. Leg., 2012, p. 925 ss., nonché, dal fronte
delle scienze dure, S. J. MORSE, The neuroscientific Challenges to Criminal Responsibility, cit., p. 93 ss. Infine,
volendo, G. VALLAR - F. BASILE, Diritto penale e neuroscienze, cit., p. 804 ss. 30 G. SARTORI, A. ZANGROSSI, Neuroscienze Forensi, cit., p. 707. 31 Sul test di Rorschach, v. S. DI NUOVO, M. CUFFARO, Il Rorschach in pratica: strumenti per la psicologia clinica e
l’ambito giuridico, Milano, Franco Angeli, 2004.
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che lo stesso Ennio De Renzi, il fondatore della neuropsicologia in Italia, iniziò le sue
ricerche proprio con il test di Rorschach, subito abbandonandolo in quanto fonte di dati
poco attendibili e scarsamente riproducibili32.
Non si tratta, quindi, di creare una “neurogiurisprudenza” o una
“neurocriminologia”33, aggiungendole al catalogo delle “neuro-manie”34, ma di
utilizzare al meglio, anche nell’ambito del diritto e del processo penale, le nuove
conoscenze offerte dalle neuroscienze cliniche35.
4.1. “Collaborazione” in sede di accertamento della in-imputabilità.
Ebbene, le neuroscienze potrebbero fornire prima di tutto un contributo al diritto
e al processo penale in sede di elaborazione di perizie e consulenze in tema di in-
imputabilità o ridotta imputabilità per infermità di mente (art. 88 e 89 cod. pen.): le
neuroscienze, e le neuroscienze cliniche in particolare, infatti – grazie alla loro capacità
di evidenziare comportamenti o prestazioni classificati come “patologici”, associati a
lesioni o disfunzioni cerebrali36 – potrebbero senz’altro consentire al giudice un più
preciso apprezzamento della capacità di intendere e di volere dell’imputato37.
Come, infatti, rilevato anche dal Comitato Nazionale di Bioetica in un parere del
2010, “considerando la scoperta di aree cerebrali correlate con lo sviluppo di condotte impulsive
e violente, va riconosciuto che le neuroscienze possono aiutare a scoprire disfunzioni cerebrali che
ostacolano l’adempimento di certe funzioni o che favoriscono esiti disturbati”38: ebbene, la
32 In argomento, v. F. BOLLER, G. GAINOTTI, D. GROSSI, G. VALLAR, History of Italian neuropsychology, in W. B.
BARR, L. A. BIELAUSKAS (a cura di), The Oxford handbook of the history of clinical neuropsychology, Oxford, Oxford
University Press, 2016, pp. 1-59; inoltre, v. E. DE RENZI, Ennio de Renzi, in L. R. SQUIRE (a cura di), The history
of neuroscience in autobiography, pp. 227–269, Amsterdam, Elsevier Academic Press, 2006. 33 Sul punto, v. A. FORZA, La psicologia nel processo penale: pratica forense e strategie, Milano, Giuffré, 2010, p. 3
ss. 34 Per una prima discussione critica dell’approccio “neuro-eccetera”, v. P. LEGRENZI, C. UMILTÀ, Neuro-mania.
Il cervello non spiega chi siamo, Bologna, il Mulino, 2009. 35 Col termine “neuroscienze cliniche” ci riferiamo qui alla neuropsicologia, alla neurologia
comportamentale, alla neurologia clinica, alla neuroradiologia, alla neurofisiologia clinica, alla
neurogenetica, ovverosia a tutte quelle discipline “neuro-”, che consentono di stabilire la presenza di una
lesione o disfunzione cerebrale, la sua causa e gli eventuali deficit (sensorimotori e comportamentali)
associati. In argomento, volendo, anche per ulteriori riferimenti, v. G. VALLAR, C. PAPAGNO, Manuale di
neuropsicologia. Clinica ed elementi di riabilitazione, cit. 36 Le alterazioni comportamentali o prestazionali sono classificate come “patologiche” – con un rischio di
errore statisticamente definito con procedure appropriate, sulle quali non entriamo qui nel dettaglio – con
riferimento ai comportamenti e alle prestazioni, misurati quantitativamente mediante test, scale e colloqui
strutturati di un numero adeguato di soggetti sani, paragonabili per le variabili socio-demografiche (ad
esempio, età, sesso, scolarità) al soggetto in esame; sul punto, v. E. CAPITANI, M. LAIACONA, The evaluation of
experimental data in neuropsychology, in G. DENES, L. PIZZAMIGLIO (a cura di), Handbook of clinical and
experimental neuropsychology, Hove, Sussex, Psychology Press, 1999, pp. 57-68. 37 Sottolinea questo aspetto C. GRANDI, Sui rapporti tra neuroscienze e diritto penale, in Riv. It. Dir. Proc. Pen.,
2014, p. 1289. 38 Neuroscienze ed esperimenti sull’uomo: osservazioni bioetiche, parere del Comitato Nazionale di Bioetica, 17
dicembre 2010, pag. 9.
11
scoperta di tali disfunzioni, se in sede medica potrebbe suggerire l’adozione di
determinate terapie, in sede processual-penale potrebbe fondare una valutazione di
assenza di imputabilità o di sua riduzione39.
Occorre, tuttavia, subito rimarcare che, in sede processual-penalistica, il dato
rilevato dall’indagine neuroscientifica non può di per sé condurre, in via diretta e
automatica, al riconoscimento della non imputabilità o di una sua riduzione. Tale dato
va, invece, interpretato, prima dal neuro-specialista (ad esempio, dal neurologo
comportamentale o dal neuropsicologo clinico) e poi dal giudice40, che ne deve
apprezzare, anche sulla scorta del confronto con le altre risultanze processuali, il nesso
eziologico con il fatto di reato commesso, nel senso che il giudice deve verificare se
l’infermità (in ipotesi, rilevata solo grazie alle innovative tecniche neuroscientifiche)
abbia svolto un ruolo a tal punto determinante rispetto alla commissione del reato che
questo si manifesti come prodotto, come effetto immediato dell’infermità41.
A livello di giurisprudenza di merito sono note e discusse nella letteratura
penalistica almeno due sentenze in cui il ricorso al sapere neuroscientifico ha contribuito
– sia pur non in via esclusiva, bensì in funzione di completamento di indagini peritali
condotte con le tecniche classiche – al riconoscimento di una ridotta imputabilità ai sensi
dell’art. 89 cod. pen.
1) Il primo caso riguarda un omicidio commesso ad Udine da un cittadino
algerino42, che già in passato – a causa di un’importante patologia di stampo psicotico,
aggravata dallo straniamento provocato dal contrasto tra la sua fede islamica integralista
e la sua cultura tradizionale, da un lato, e il modello comportamentale occidentale con
cui si era dovuto rapportare in una città di provincia Italiana, dall’altro – era stato in
terapia con farmaci neurolettici (terapia da lui unilateralmente interrotta alcuni mesi
39 In questa sede può essere interessante menzionare un recente studio condotto su sessantasei ex-
combattenti di un gruppo terrorista paramilitare, all’esito del quale sarebbe emersa una somiglianza tra i
deficit nel giudizio morale dei pazienti affetti da demenza fronto-temporale e il pattern osservato nei
terroristi, in S. BAEZ, E. HERRERA, A. M. GARCÍA, F. MANES, L. YOUNG, A. IBÁÑEZ, Outcome-oriented moral
evaluation in terrorists, in Nature Human Behaviour 1, 1-8, 2017. Su tale studio v. altresì il commento
giornalistico: I terroristi sono dei dementi?, in Pagina 99, 23-29 giugno 2017, p. 25 (consultabile online in questa
pagina web). 40 Evidenziano tale profilo, U. FORNARI, A. PENNATI, Il metodo scientifico in psichiatria e psicologia forensi (parte
1), in Brainfactor Cervello e Neuroscienze, 19 aprile 2011: “La neuropsicologia può offrire un valido aiuto alla ricerca
di risposte e alla costruzione di inquadramenti clinici e di procedure valutative più ricche, più articolate e maggiormente
fondate sull’obiettività e quindi sull’evidenza dei dati, ma la clinica ancora una volta rimane sovrana
nell’interpretazione e nella valutazione degli stessi”. 41 Fondamentale sul punto, M. BERTOLINO, Prove neuro-psicologiche di verità penale, in questa Rivista, 8 gennaio
2013, p. 17, la quale valorizza in proposito le indicazioni scaturenti dalla celebre sentenza Cass., Sez. Unite,
25 gennaio 2005, Raso. Come si legge anche nella sentenza del G.i.p. di Como, su cui ci si soffermerà tra
breve (v. infra, nota 50), “una volta ottenuto l’ausilio della scienza psichiatrica che individua i requisiti bio-psicologici
di una eventuale anomalia mentale, resta al giudice il compito di valutare la rilevanza giuridica dei dati forniti dalla
scienza ai fini della rimproverabilità dei fatti commessi al suo autore, sulla base del complesso delle risultanze
processuali e della valutazione logica e coordinata di tutte le emergenze”. 42 Corte d’Assise di appello di Trieste, 1 ottobre 2009, Bayout, in Riv. Pen., 2010, p. 70 ss., con nota di A.
FORZA, Le neuroscienze entrano nel processo penale; per ulteriori considerazioni, in parte critiche, su tale
sentenza, v. M. BERTOLINO, Prove neuro-psicologiche, cit., p. 20.
12
prima dei fatti in causa). Costui, dopo aver subito un’aggressione da alcuni cittadini
sudamericani ed essere stato dagli stessi deriso (lo avevano, tra l’altro, chiamato “frocio”
a causa del trucco che portava, per motivi presumibilmente religiosi, sugli occhi), era
tornato a casa, si era cambiato d’abito e, armatosi di un coltello, si era nuovamente recato
nel luogo dell’aggressione e qui aveva accoltellato alle spalle un cittadino colombiano,
erroneamente scambiato per uno dei suoi aggressori.
In primo grado, la perizia e le consulenze psichiatriche sulla sua capacità di
intendere e di volere avevano fornito esiti in parte divergenti; il giudice aveva infine
riconosciuto una parziale incapacità di intendere e di volere, ma non aveva diminuito la
pena nella misura massima consentita dall’art. 89 cod. pen. Il giudice d’appello decide,
pertanto, di affidare un nuovo incarico peritale, rivolgendosi ad un esperto di
neuroscienze molecolari e ad un esperto di neuropsicologia clinica43. Nell’espletamento
di tale perizia l’imputato viene, tra l’altro, sottoposto a risonanza magnetica
dell’encefalo, la quale, di per sé non rileva segni significativi d’alterazione strutturale.
L’imputato viene altresì sottoposto al Test di Stroop44, all’esito del quale emerge la sua
tendenza (23 casi su 60) a rispondere prima del segnale stabilito nel test “stop signal”45;
e tale tendenza viene ritenuta dai periti “indicativa di una riduzione dell’inibizione al
controllo della risposta motoria”46.
Ancor più significative risultano poi le indagini genetiche effettuate dai periti
“alla ricerca di polimorfismi genetici significativi per modulare le reazioni a variabili ambientali,
fra i quali in particolare per quello che interessa nel caso di specie l’esposizione ad eventi stressanti
ed a reagire agli stessi con comportamenti di tipo impulsivo”47. Tali indagini avrebbero, infatti,
43 Sul punto, v. A. FORZA, Le neuroscienze, cit., p. 75. 44 Nello Stroop Color and Word Test si richiede al partecipante di leggere parole (nomi di colori) stampate
in colore diverso dal nome scritto (ad esempio, la parola “rosso” stampata in “verde”), oppure di
denominare il colore. Rispetto a una situazione di controllo, in cui i nomi dei colori sono stampati in nero, o
vi è corrispondenza tra il nome del colore e il colore della stampa, i tempi di lettura sono più lunghi. Il
fenomeno riflette il fatto che il paradigma contiene due dimensioni, una rilevante (la parola è stampata in
“verde”), e una irrilevante (la parola è “rosso”), rispetto al compito, ad esempio, di denominare il colore; la
dimensione irrilevante suscita una risposta automatica, che deve essere inibita; questo comporta un costo
per il sistema cognitivo, che si manifesta come aumento dei tempi di risposta; in J. R. STROOP, Studies of
interference in serial verbal reactions, in Journal of Experimental Psychology, 18(6), 1935, pp. 643–662. In
argomento, con ampi rinvii alla letteratura specialistica, v. C. M. MACLEOD, Half a century of research on the
Stroop effect: an integrative review, in Psychological Bulletin, 109(2), 1991, pp. 163–203. Sull’utilizzo dei test di
Stroop, nelle loro diverse varianti, nell’ambito della neuropsicologia clinica per valutare le funzioni
esecutive o “frontali”, v. E. GOLDBERG, D. BOUGAKOV, Neuropsychologic assessment of frontal lobe dysfunction,
in Psychiatric Clinics of North America, 28(3), 2005, pp. 567–580. Date queste caratteristiche del test di Stroop,
suscita talune perplessità la pretesa di trarre (come si è tentato di fare nel caso di specie) dai risultati del test
medesimo conclusioni in ordine ad aspetti più generali del controllo del comportamento. 45 Qui il riferimento è alla teoria dell’inibizione del pensiero e dell’azione di G. D. LOGAN, W. B. COWAN, On
the ability to inhibit thought and action: a theory of an act of control, in Psychological Review, 91(3), 1984, pp. 295–
327. 46 Corte d’Assise d’appello di Trieste, 1 ottobre 2009, Bayout, cit. Va, peraltro, criticamente rilevato che –
considerate le caratteristiche del test di Stroop (v. supra, nota 44) – la pretesa di desumere dai risultati del
test medesimo valutazioni più generali in ordine alle capacità (del soggetto sottoposto a test) di controllo
del comportamento, come è avvenuto nel caso che si sta discutendo, rischia di rivelarsi azzardata. 47 Ibidem.
13
consentito di accertare che “l’imputato risulta possedere, per ciascuno dei polimorfismi
esaminati, almeno uno se non tutti e due gli alleli che, in base a numerosi studi internazionali
riportati sinora in letteratura, sono stati riscontrati conferire un significativo aumento del rischio
di sviluppo di un comportamento aggressivo, impulsivo (socialmente inaccettabile). In
particolare, l’essere portatore dell’allele a bassa attività per il gene MAOA (MAOA-L) potrebbe
rendere il soggetto maggiormente incline a manifestare aggressività se provocato o escluso
socialmente”48.
Sulla scorta di tali risultanze peritali, il giudice d’appello conferma la valutazione
di parziale incapacità di intendere e di volere, applicando, però, nella misura massima
la diminuzione di pena consentita dall’art. 89 cod. pen. A tal proposito nella motivazione
della sentenza si legge che “proprio la circostanza emersa nel corso dell’ultima perizia
psichiatrica – vale a dire, che determinati geni presenti nel patrimonio cromosomico dell’imputato
lo renderebbero particolarmente reattivo in termini di aggressività, e conseguentemente,
vulnerabile in presenza di situazioni di stress – induce la corte a rivalutare la decisione [di primo
grado, n.d.r.] di non applicare nel massimo la riduzione di pena possibile per il difetto parziale
di imputabilità”49.
2) Il secondo caso riguarda una vicenda molto più complessa50: una donna aveva
sequestrato e segregato in una abitazione secondaria della famiglia la propria sorella
maggiore, l’aveva costretta ad assumere psicofarmaci – che l’avevano indotta in uno
stato di confusione mentale e di incapacità reattiva –, e l’aveva quindi uccisa,
bruciandone poi il cadavere. La stessa donna, in precedenza, aveva tentato di uccidere i
propri genitori, cercando di far esplodere la loro auto, aveva somministrato medicinali
al padre che ne avevano provocato l’intossicazione con conseguente necessità di ricovero
ospedaliero e, successivamente all’omicidio della sorella, aveva tentato di strangolare la
madre con una cintura: il tutto per perseguire le proprie mire economiche sul patrimonio
familiare.
All’esito del giudizio di primo grado, la donna è stata condannata per i delitti a
lei ascritti, previo riconoscimento, tuttavia, a suo favore, di una ridotta imputabilità a
causa di un vizio parziale di mente. La decisione è stata fondata, oltre che su
accertamenti psichiatrici tradizionali (colloqui clinici, test psicodiagnostici, esami
neuropsicologici), anche su indagini legate alle neuroscienze cognitive e alla genetica
comportamentale, effettuate dai consulenti tecnici della difesa. In particolare, l’imputata
era stata sottoposta ad un esame della struttura cerebrale ad alta risoluzione (con tecnica
Voxel-Based Morphometry51) al fine di analizzare la morfologia e il volume della
48 Ibidem. 49 Ibidem. 50 G.i.p. di Como, 20 maggio 2011, Albertani, est. Lo Gatto, in questa Rivista, 15 febbraio 2012, con nota di M.
T. COLLICA, Il riconoscimento del ruolo delle neuroscienze nel giudizio di imputabilità. Si tratta di un caso che ha
súbito suscitato l’attenzione della dottrina penalistica. In argomento, si vedano altresì le osservazioni di A.
CORDA, Riflessioni sul rapporto tra neuroscienze e imputabilità nel prisma della dimensione processuale, in
Criminalia, 2012, p. 509 ss.; D. TERRACINA, Neuroscienze: lo studio della morfologia del cervello determinante nello
stabilire il vizio parziale di mente, in Guida al diritto, n. 5, 2012, p. 63 ss. 51 J. ASHBURNER, K. J. FRISTON, Voxel-Based Morphometry—The Methods, in NeuroImage, 11(6), 2000, pp. 805–
821.
14
corteccia cerebrale, all’esito del quale sarebbero emerse “alterazioni nella densità della
sostanza grigia, in alcune zone chiave del cervello, in particolare nel cingolo anteriore”, vale a
dire “un’area del cervello che ha la funzione di inibire il comportamento automatico e sostituirlo
con un altro comportamento e che è coinvolta anche nei processi che regolano la menzogna, oltre
che nei processi di suggestionabilità ed autosuggestionabilità e nella regolazione delle azioni
aggressive”52. L’imputata venne altresì sottoposta ad accertamenti genetici, dai quali
sarebbe emerso che la stessa “possiede tre alleli sfavorevoli, ovvero alleli che conferiscono un
significativo aumento del rischio di sviluppo di comportamento aggressivo, impulsivo”53.
A differenza dei due casi appena riferiti, in altri due casi, il ricorso a
perizie/consulenze neuroscientifiche non consentiva, invece, al giudicante di giungere a
conclusioni diverse da quelle già raggiunte sulla scorta di perizie/consulenze sullo stato
mentale dell’imputato, svolte con le tecniche tradizionali.
3) Uno di questi due ulteriori casi è giunto anche all’attenzione della Corte di
Cassazione, ed anzi ne abbiamo notizia solo dalla lettura della relativa sentenza di
legittimità54. Nella specie, si trattava dell’omicidio commesso da una giovane donna, che
versava in uno stato di depressione post partum, ai danni della propria figlioletta di sei
mesi, fatta precipitare dal balcone. Nel procedimento, l’unica questione veramente
dibattuta atteneva al tema della capacità di intendere e di volere, che aveva formato
oggetto di una perizia d’ufficio, eseguita con tecniche tradizionali, che aveva concluso
per “un restringimento del campo della coscienza che ha ridotto le capacità di controllo
degli impulsi aggressivi”. Tali conclusioni – benché contrastate dal consulente della
difesa che, invece, riteneva la donna totalmente incapace – erano state accolte nella
sentenza di primo grado, che condannava la donna, previo riconoscimento di una sua
ridotta imputabilità (art. 89 cod.pen.).
In appello la difesa aveva, pertanto, prodotto una nuova consulenza, relativa alla
valutazione della memoria autobiografica dell'imputata riguardo all'antefatto del gesto
omicida e alla dinamica del delitto, eseguita tramite somministrazione dei test aIAT e
TARA.
L’autobiographical Implicit Association Test (aIAT) è una variante
dell’Implicit Association Test55 e consiste essenzialmente in un programma di
categorizzazione computerizzato, attraverso il quale si calcolano i tempi di
reazione (ad esempio, il tempo occorrente per schiacciare un tasto) a frasi-
stimolo, proposte in un blocco combinato56. Sulla base dell’analisi dei tempi di
52 G.i.p. di Como, 20 maggio 2011, Albertani, cit. 53 Ibidem. 54 Cass., Sez. I, 13 novembre 2013 (dep. 8 settembre 2014), n. 37244, A.D., in Leggi d’Italia. 55 Sul punto, v. A. G. GREENWALD, D. E. MCGHEE, J. L. K. SCHWARTZ, Measuring individual differences in implicit
cognition: the implicit association test, in Journal of Personality and Social Psychology, 74(6), 1998, pp. 1464-1480. 56 Lo aIAT comprende stimoli appartenenti a quattro categorie: due sono categorie logiche, rappresentate da
frasi sempre vere (ad esempio, “Sono di fronte al computer”) o sempre false (ad esempio, “Sto scalando una
montagna”) per il rispondente; le altre due categorie sono versioni alternative di un evento autobiografico
(ad esempio, “Per Natale sono andato a Parigi” o “Per Natale sono andato a New York”), una sola delle
15
reazione si mira, infatti, a verificare l’esistenza di una determinata informazione
(implicita-inconscia, da cui il nome del test) nel soggetto esaminato:
informazione, che può essere di carattere “mnestico” (quando il test viene
utilizzato per sondare l’esistenza di una traccia mnestica) o di carattere
“disposizionale” (quando il test è utilizzato per sondare atteggiamenti e
disposizioni soggettive)57.
Il TARA (Timed Antagonistic Response Alethiometer) è un test di
classificazione “vero/falso” computerizzato. Il test crea una situazione in cui i
rispondenti “onesti” sono in grado di completare una serie di classificazioni
compatibili, mentre i rispondenti “disonesti” sono obbligati a completare
classificazioni incompatibili (il che costituisce un compito più difficile, che
richiede quindi più tempo)58.
Ebbene, secondo la Corte d’Appello la nuova consulenza della difesa, elaborata
servendosi dei tesi aIAT e TARA, poggiava su assunti non pacifici nella comunità
scientifica, e i test utilizzati non potevano essere ritenuti più affidabili rispetto alle
metodiche tradizionali Rorschach e MMP, che rimanevano in ogni caso come uno dei
criteri di valutazione da integrare con i colloqui con l'interessato e i terzi, con l'esame
della documentazione sanitaria e con la valutazione del materiale probatorio. Ad ogni
quali è vera per il rispondente. L’evento autobiografico vero viene identificato in quanto, in un blocco di
risposte combinato, dà luogo a tempi di risposta più veloci, laddove le risposte vengono espresse attraverso
un atto motorio, ad esempio schiacciare il tasto di sinistra. Nella versione atta a valutare le intenzioni le frasi
sono, ad esempio: “Ho in programma di dormire a Padova” vs. “Ho in programma di dormire a Milano”
(pianificazione nel breve periodo), e “Ho in programma di diventare un neuropsicologo” vs. “Ho in
programma di diventare un avvocato” (pianificazione della carriera nel lungo periodo). Per ciascuna coppia,
una frase rispecchia intenzioni vere: ad esempio, il partecipante ha in programma di dormire a Padova e
non a Milano e di diventare un neuropsicologo e non un avvocato: anche per ulteriori riferimenti, v. S.
AGOSTA, G. SARTORI, The autobiographical IAT: A review, in Frontiers in Psychology, 2013, p. 519 ss. (online in
questa pagina web). 57 Così L. Sammicheli., G. Sartori, Accertamenti tecnici, cit., p. 11 s. In letteratura, tuttavia, è stato evidenziato
che i soggetti sottoposti al test – se opportunamente istruiti – possono alterare strategicamente la propria
prestazione: B. VERSCHUERE, V. PRATI, J. DE HOUWER, Cheating the lie detector: Faking in the autobiographical
implicit association test: Research Report, in Psychological Science, 20(4), 2009, pp. 410–413. Sul grado di
affidabilità del test, con varietà di posizioni, v. X. HU, J. P. ROSENFELD, G. V. BODENHAUSEN, Combating
automatic autobiographical associations: The effect of instruction and training in strategically concealing information
in the autobiographical Implicit Association Test, in Psychological Science, 23(10), 2012, pp. 1079–1085. S. AGOSTA,
V. GHIRARDI, C. ZOGMAISTER, U. CASTIELLO, G. SARTORI, Detecting fakers of the autobiographical IAT, in Applied
Cognitive Psychology, 25, 2011, pp. 299–306; S. AGOSTA, G. SARTORI, The autobiographical IAT: A review, cit., p.
524. 58 Gli stimoli del TARA sono affermazioni di due tipi: di “controllo”, su temi irrilevanti; di “bersaglio” sul
rispondente stesso, che le deve classificare come vere o false, con due chiavi di risposta (destra e sinistra). In
blocchi diversi, il rispondente classifica, secondo le istruzioni, stimoli di controllo (blocco #1), bersaglio
(blocco #2), bersaglio e di controllo (blocco #3; nei blocchi #1-3- risposta “onesta”: sinistra falso/destra vero),
bersaglio (blocco #4-risposta “disonesta”: sinistra vero/destra falso); il blocco #5 combina i blocchi #1 e #4,
richiedendo di utilizzare la chiave destra per stimoli di controllo veri e bersaglio falsi e la chiave di sinistra
per stimoli di controllo falsi e bersaglio veri. Quindi nel blocco #5 il partecipante classificherà “onestamente”
stimoli di controllo e “disonestamente” stimoli bersaglio, con un aumento dei tempi di reazione. In
argomento, v. A. P. GREGG, When vying reveals lying: the timed antagonistic response Maz, in Applied Cognitive
Psychology, 21(5), 2007, pp. 621–647.
16
modo, poi, gli esiti dei test aIAT e TARA non differivano da quanto osservato dal perito
d’ufficio, all'esito della valutazione di test, verbali di interrogatorio e colloqui con la
perizianda e con il suo compagno, “poiché, per detto perito e per i consulenti della difesa, il
vuoto di memoria dell'imputata aveva riguardato solo gli attimi relativi all'azione omicida,
mentre i risultati dei test riproponevano la questione di fondo afferente alla configurabilità dello
stato mentale come totale o parziale infermità di mente, che, tuttavia, già il consulente di parte
aveva qualificato in termini di mancanza di piena consapevolezza, che, supponendo una certa
consapevolezza non piena, era equivalente, sul piano tecnico-giuridico, alla seminfermità
mentale”.
I test IAT e TARA, quindi, ad avviso della Corte d’Appello, “non aggiungevano
specifici elementi di conoscenza a quanto evidenziato dal primo giudice, che anzi convalidavano,
poiché la grave destabilizzazione della capacità di volere in dipendenza del quadro di grave
disturbo dell'umore, incidente sulla «tenuta dei fisiologici meccanismi di regolazione - controllo
- evitamento delle scariche impulsivo-aggressive», indicata dal consulente di parte, corrispondeva
a quanto rilevato dal perito circa la «perdita dei meccanismi di controllo dell'io». Tale perdita,
tuttavia, era stata parziale e non espressiva di una situazione dissociativa o psicotica, avuto
riguardo alla non emergenza nel vissuto precedente dell'imputata, pur sottoposta a protocolli
terapeutici, di episodi psicotici, di alterazioni dell'esame della realtà, o di altri sintomi evocativi
di tali disturbi, e alla specifica analisi del racconto della stessa e della condotta tenuta nei momenti
successivi e nella sera del fatto”59.
4) In un quarto caso60, infine, il ricorso alle tecniche neuroscientifiche, di cui si
erano avvalsi i consulenti della difesa, non faceva emergere, ad avviso del giudicante,
elementi sui quali fondare una valutazione di carente o ridotta capacità di intendere e di
volere. Nella specie, il pediatra in servizio presso l’ambulatorio di un asilo per bambini,
veniva condannato per violenza sessuale aggravata (artt. 609 bis co. 1 e 609 ter co. 1 n. 1
e co. 2, cod. pen.) e produzione di materiale pedopornografico (art. 600 ter cod. pen.), in
quanto risultava accertato che durante plurime visite alle bambine dell’asilo commetteva
abusi sessuali sulle stesse, riprendendo, con la sua macchina fotografica digitale, le
relative scene.
Durante il procedimento, i consulenti della difesa sottoponevano l’imputato a
risonanza magnetica cerebrale, la quale evidenziava la presenza di una grave patologia
tumorale (cordoma clivus), successivamente asportata in via chirurgica, la quale – sempre
a parere dei consulenti – avrebbe esercitato una pressione sul lobo frontale, in tal modo
determinando causalmente l’orientamento pedofilo dell’imputato. Sempre dai
consulenti della difesa, inoltre, l’imputato era sottoposto all’esame del ricordo
autobiografico (aIAT)61, all’esito del quale sarebbe risultato che l’insorgenza
nell’imputato del desiderio sessuale verso i minori sarebbe coincisa, dal punto di vista
cronologico, con il periodo in cui il tumore aveva esercitato la sua massima pressione sul
lobo frontale. Sulla scorta, tuttavia, della perizia d’ufficio, il giudice esclude la rilevanza
59 Cass., Sez. I, 13 novembre 2013, cit. 60 Trib. Venezia, ud. 24 gennaio 2013 (dep. 9 aprile 2013), Mattiello, in Riv. It. Med. Leg., 2013, p. 1905 ss., con
nota di L. ALGERI, Accertamenti neuroscientifici, infermità mentale e credibilità delle dichiarazioni. 61 V. supra, note 55-57 e testo corrispondente.
17
di tali emergenze, nonché la stessa affidabilità del test aIAT, ai fini della valutazione
della capacità di intendere e di volere dell’imputato62.
4.2. “Collaborazione” in sede di accertamento della immaturità psichica del minore
ultraquattordicenne.
Quanto sopra detto vale in larga parte anche a proposito di perizie e consulenze
rivolte ad accertare la maturità del minore di età compresa fra i 14 e i 18 anni (art. 98 cod.
pen.): le neuroscienze cliniche potrebbero, infatti, evidenziare immaturità o alterazioni
dello sviluppo cerebrale del minore, e condurre quindi – previa “interpretazione”, da
parte del giudice, del dato neurologico nei termini innanzi illustrati – ad escludere la
imputabilità del minore ultraquattordicenne, per l’appunto per insufficiente maturità63.
L’utilizzo di tecniche neuroscientifiche potrebbe servire anche a dimostrare, in
relazione a singoli casi di specie, che il cervello di quel minore, paragonato con quello di
soggetti simili per età e variabili socioculturali – mediante adeguate procedure di analisi
statistica –, presenta una particolare alterazione o ritardo nella sua evoluzione, e che,
quindi, quel soggetto, che ha avuto uno sviluppo ridotto o comunque divergente da
quello normale, è “immaturo”, e lo era, altresì, al momento della commissione del fatto
di reato64.
A livello giurisprudenziale, tuttavia, a chi scrive non sono note sentenze in cui
perizie o consulenze, fondate (anche) su analisi neuroscientifiche, abbiamo finora
effettivamente contribuito ad una valutazione dell’im-maturità del minore imputato65.
62 Trib. Venezia, ud. 24 gennaio 2013, Mattiello, cit. La sentenza d’appello ha in large parte confermato il
giudizio di primo grado; Corte d’Appello di Venezia, ud. 16 dicembre 2013 (dep. 3 marzo 2014), n. 1944,
Mattiello, inedita, in C. GRANDI, Neuroscienze e responsabilità penale, cit., p. 224, cui si rinvia per ulteriori
dettagli su tale vicenda giudiziaria. 63 Per un approfondimento sul concetto di immaturità, cfr., ex plurimis, G. PONTI, P. GALLINA FIORENTINI,
voce “Immaturità”, in Dig. disc. pen., VI, 1992, p. 146 ss.; U. FORNARI, Trattato di psichiatria forense, Torino, Utet
Giuridica, 2008, pp. 618-631; per la possibilità di un accertamento della immaturità attraverso l’ausilio delle
tecniche neuroscientifiche, v. G. GULOTTA, G. ZARA, La neuropsicologia criminale e dell'imputabilità minorile, in
A. BIANCHI, G. GULOTTA, G. SARTORI (a cura di), Manuale di neuroscienze forensi, cit., p. 109 ss. 64 M. BERTOLINO, Prove neuro-psicologiche, cit., p. 30. Incidentalmente, segnaliamo che la Corte Suprema degli
Stati Uniti almeno in due sentenze ha compiuto scelte “storiche” inerenti il trattamento penale dei minori
basandosi anche sulle acquisizioni neuroscientifiche circa l’evoluzione cerebrale dei minori stessi:
a) Roper v. Simmons del 2005, con cui viene dichiarata illegittima la pena capitale per tutti i delitti commessi
dai minori di anni diciotto (su tale sentenza, e sul riferimento solo indiretto alle neuroscienze ivi contenuto,
v. J. ROSEN, The Brain on the stand, in NYT magazine, 11 marzo 2007, consultabile in questa pagina web);
b) Miller v. Alabama del 2012, con cui viene dichiarata illegittima la reclusione a vita senza possibilità di parole
per i minori di anni diciotto (su tale sentenza e sul rilievo esplicito in essa conferito alle neuroscienze, v. N.
GERTNER, Miller v. Alabama: What It Is, What It May Be, and What It Is Not, in Missouri Law Review, 78(4), pp.
1-12, 2013, consultabile online anche in questa pagina web). 65 In questa sede può, tuttavia, essere interessante riferire di una recente meta-analisi, che ha evidenziato
come giovani (infra-quattordicenni e tra i quattordici e i diciotto anni) con problemi di condotta
(comportamenti aggressivi, antisociali, oppositivi e di rifiuto orgoglioso di obbedire all’autorità) presentino
riduzioni della sostanza grigia cerebrale della corteccia dell’insula, delle cortecce frontali e temporali e
nell’amigdala (l’amigdala e l’insula partecipano alla regolazione dei processi emotivi). In argomento, v. J. C.
18
4.3. “Collaborazione” in sede di accertamento della pericolosità sociale.
Un terzo ambito di possibile proficua collaborazione tra diritto penale e
neuroscienze potrebbe essere costituito dall’accertamento della pericolosità sociale (vale a
dire, ai sensi dell’art. 203 cod. pen., la probabilità che l’autore di un fatto di reato
commetta in futuro nuovi reati) ai fini dell’applicazione di misure di sicurezza, se è vero
che, “grazie alle tecniche offerte dalle neuroscienze, si riuscirebbe probabilmente a fornire al
magistrato un’analisi del rischio di recidiva basato su strumenti specifici in grado di ampliare e
integrare il giudizio clinico, fondati scientificamente”66. Se si ammette, infatti, che le tecniche
neuroscientifiche sono davvero in grado di misurare la capacità di autocontrollo o di dar
vita a reazioni aggressive, allora esse “dovrebbero avere una certa utilità anche in relazione
alla valutazione della pericolosità sociale del soggetto”67.
A livello di applicazioni giurisprudenziali, segnaliamo che le già ricordate
sentenze di Trieste68 e di Como69 – dopo aver riconosciuto una diminuita capacità di
intendere e di volere dei due rispettivi imputati in forza, tra l’altro, delle risultanze
fornite dalle indagini neuroscientifiche espletate – basandosi ancora una volta su tali
risultanze hanno, altresì, fondato la valutazione di pericolosità sociale degli imputati.
4.4. “Collaborazione” in sede di verifica della attendibilità delle dichiarazioni rese nel processo.
Ancora: ammesso che le neuroscienze davvero dispongano, o siano in grado di
apprestare in un prossimo futuro, strumenti per acquisire elementi oggettivi di riscontro
alle dichiarazioni rese dalle persone a vario titolo coinvolte nel processo (in veste di
imputato, di persona offesa, di testimone), l’accertamento processuale ne potrebbe trarre
indubbiamente grandi benefici.
Le neuroscienze potrebbero infatti mettere a disposizione, in tale ambito, le
seguenti tecniche:
- tecniche di lie detection, finalizzate a valutare la veridicità della dichiarazione di
un soggetto, cioè la corrispondenza tra quanto dichiarato e ciò che è conosciuto dal
medesimo (per sapere, insomma, se egli sta dicendo la verità o una menzogna): sono tali,
ad esempio, le tecniche del “Test della domanda di controllo” (CQT: Control Question
ROGERS, S. A. DE BRITO, Cortical and subcortical gray matter volume in youths with conduct problems: a meta-
analysis, in JAMA Psychiatry, 73(1), 2016, pp. 64-72. 66 M. T. COLLICA, La crisi del concetto di autore non imputabile “pericoloso”, in questa Rivista, 19 novembre 2012,
p. 18. 67 Ancora M. T. COLLICA, La crisi del concetto di autore non imputabile “pericoloso”, cit., p. 20. Sulla prospettiva
di un più ampio utilizzo delle analisi neuroscientifiche a sostegno della valutazione della pericolosità
sociale, v. I. ROSSETTO, A. CALOGERO., E. AGUGLIA, Neuroscienze e pericolosità sociale psichiatrica, poster
presentato a Padova per il convegno "Neuroetica", 3-7 giugno 2010, in questa pagina web. 68 V. supra, nota 42. 69 V. supra, nota 50.
19
Test)70, del “Test dell’informazione nascosta” (CIT: Concealed Information Test)71, associati
a registrazioni poligrafiche72 e, più recentemente, a risonanza magnetica funzionale
(fMRI)73;
- tecniche di memory detection, finalizzate invece a individuare la sussistenza nel
soggetto di tracce di memoria: sono tali, ad esempio, le metodologie del “Test della
70 Nel CQT vengono paragonate risposte a domande “rilevanti” (ad esempio, “Hai sparato a tua moglie?”)
e risposte a domande “di controllo”, volte a controllare la caratteristica minacciosa delle domande rilevanti,
che riguardano pensieri o azioni riprovevoli, riferite al passato della persona esaminata (ad esempio, “Hai
mai tradito la fiducia di qualcuno che si fidava di te?”). La persona innocente teme maggiormente le
domande “di controllo”, in quanto mettono in discussione la sua passata affidabilità e onorabilità, mentre
le domande “rilevanti” si riferiscono a un crimine che sa di non aver commesso. La registrazione poligrafica
di variabili fisiologiche (frequenza cardiaca e respiratoria, pressione arteriosa, conduttanza cutanea)
dovrebbe riflettere tale differenza, con un aumento di questi parametri in concomitanza delle risposte alle
domande “di controllo”. La persona colpevole teme, invece, maggiormente le domande “rilevanti”, e questo
si dovrebbe riflettere nelle variabili fisiologiche, i cui parametri aumentano in risposta ad esse. L’assenza di
differenze nelle variazioni fisiologiche ai due tipi di domande fa considerare i risultati del test non
conclusivi. Considerano poco attendibile tale tecnica, R. BULL, H. BARON, G. GUDJONSSON, S. HAMPSON, G.
RIPPON, A. VRIJ, A review of the current scientific status and fields of application of Polygraphic Deception Detection.
Final report (6 October 2004) from the BPS Working Party, British Psychological Society, 2005; oltreché
American Psychological Association, in questa pagina web. 71 Nel CIT, che è molto simile al GKT (v. infra, nota 74), vi è una domanda collegata al crimine (item “critico”)
e diverse domande di controllo (item “non critici”), scelte in modo tale che un partecipante innocente non
sia in grado di distinguere la domanda “critica” da quelle “non critiche”. Le variabili fisiologiche menzionate
supra, nota 70, vengono registrate anche durante il CIT. In argomento, v. I. MATSUDA, A. HIROTA, T. OGAWA,
N. TAKASAWA, K. SHIGEMASU, A new discrimination method for the Concealed Information Test using pretest data
and within-individual comparisons, in Biological Psychology, 73(2), 2006, pp. 157–164. 72 Per i metodi di registrazione poligrafica di parametri fisiologici, v. D. T. LYKKEN, The GSR in the detection
of guilt, in Journal of Applied Psychology, 43(6), 1959, p. 385; G. BEN-SHAKHAR, J. J. FUREDY, Theories and
applications in the detection of deception: A psychophysiological and international perspective, New York, Springer
Science & Business Media, 1990. 73 D. D. LANGLEBEN, J. G. HAKUN, D. SEELIG, A. L. WANG, K. RUPAREL, W. B. BILKER, R. C. GUR, Polygraphy and
functional magnetic resonance imaging in lie detection: a controlled blind comparison using the concealed information
test, in Journal of Clinical Psychiatry, 77(10), 2016, pp. 1372–1380. In questo studio gli esperti di fMRI hanno
maggior successo degli esperti di poligrafia a discriminare un pattern compatibile con una menzogna nel
paradigma CIT.
20
conoscenza colpevole” (GKT- Guilty Knowledge Test)74, anche con l’aggiunta dell’onda
P30075, e del test a-IAT.
Ebbene, tali tecniche potrebbero, in primo luogo, contribuire alla verifica della
attendibilità delle dichiarazioni rese nel processo, soprattutto allorquando la prova
dichiarativa assuma il ruolo di “prova-regina”, come accade in alcuni procedimenti per
il delitto di violenza sessuale, dove talora i principali elementi disponibili ai fini della
ricostruzione dei fatti sono le due versioni – ovviamente antitetiche – della presunta
vittima e dell’imputato; oppure nei procedimenti per il reato di associazione di tipo
mafioso, dove spesso una prova fondamentale è fornita dai c.d. “collaboratori di
giustizia”.
74 Nel GKT vi sono domande a scelta multipla, alcune delle quali riguardano una conoscenza che solo un
colpevole può avere: ad esempio, per un soggetto sospettato di aver commesso un furto, vi sono domande
come: “Sono stati rubati € 500, €1000 o €10.000?”. Proprio per tale motivo un limite del GKT risiede nel fatto
che esso può essere utilizzato solo quando gli investigatori hanno informazioni di tal tipo. Inoltre, un
risultato indicativo del fatto che la persona non mente (id est, mancato incremento dei parametri fisiologici)
potrebbe invece indicare semplicemente che la persona non possiede l’informazione (id est, quanto ha
rubato), pur essendo colpevole del furto. Infine, distorsioni della memoria possono limitare l’accuratezza di
queste procedure e falsi riconoscimenti possono essere indotti mediante il paradigma Deese-Roediger-
McDermott (DRM), in cui uno stimolo fortemente associato agli stimoli di una lista appresa, viene
falsamente riconosciuto come presentato in precedenza (ad es., dopo aver appreso una lista di parole quali:
iniezione, siringa, cucire, occhio, appuntito, spillo, il partecipante riconosce falsamente come appartenente alla
lista ago). Anche la tecnica GKT è quindi considerata poco attendibile. In argomento, v. D. A GALLO, False
memories and fantastic beliefs: 15 years of the DRM illusion, in Memory & Cognition, 38(7), 2010, pp. 833–848, che
considera la GKT poco attendibile (v. supra nota 70 quanto detto a proposito del CQT). 75 Circa l’associazione di GKT e P300, v. V. ABOOTALEBI, M. H. MORADI, M. A. KHALILZADEH, A comparison of
methods for ERP assessment in a P300-based GKT, in International Journal of Psychophysiology, 62(2), 2006, pp.
309–320; ID, A new approach for EEG feature extraction in P300-based lie detection, in Computer Methods and
Programs in Biomedicine, 94(1), 2009, pp. 48–57. In questi esperimenti, il partecipante sceglie il ruolo
(“colpevole” o “innocente”): se “colpevole”, apre una scatola, vede un gioiello, ne memorizza i dettagli e
immagina di averlo rubato; l’”innocente” non apre la scatola e non conosce quindi i dettagli del gioiello. In
associazione alle domande che riguardano il gioiello – informazioni che il partecipante “colpevole” è stato
istruito a cercare di nascondere, immaginando di essere “innocente” – è stata registrata una P300 più ampia
rispetto a quando il partecipante è “innocente”. I risultati indicherebbero che l’associazione GKT e P300
discriminerebbe tra “colpevoli” e “innocenti” con un’accuratezza di oltre l’80%. Per uno studio sperimentale
elettrofisiologico mediante tomografia elettromagnetica (sLORETA), con utilizzo di frasi coreane, che
suggerisce un maggior coinvolgimento della corteccia fronto-parietale durante le risposte ingannevoli da
parte dei “colpevoli” rispetto agli “innocenti”, a domande che riguardano il crimine, v. E. K. JUNG, K. Y.
KANG, Y. Y. KIM, Frontoparietal activity during deceptive responses in the P300-based guilty knowledge test: an
sLORETA study, in NeuroImage, 78, 2013, pp. 305–315. Le situazioni sperimentali appaiono tuttavia molto
artificiali e ogni estrapolazione a contesti reali non risulta immediata. Sottolineano tali profili problematici,
K. E. SIP, A. ROEPSTORFF, W. MCGREGOR, C. D. FRITH, Detecting deception: the scope and limits, in Trends in
Cognitive Sciences, 12(2), 2008, pp. 48–53. Tra i profili critici sono stati evidenziati: a) il fare inferenze sugli
stati mentali sulla base di dati fisiologici; b) il fare inferenze su individui sulla base di studi di gruppo
(particolarmente per i dati fisiologici); c) l’utilizzare dati, provenienti da una situazione sperimentale di
laboratorio (in cui, ad esempio, il partecipante è istruito a mentire e non lo fa spontaneamente), nella pratica
forense; d) il tener conto delle attitudini del partecipante (un caso estremo è quello degli psicopatici che
potrebbero non dimostrare variazioni fisiologiche nel mentire, in quanto non hanno empatia riguardo alla
sofferenza potenziale che le loro azioni causano). Su tale ultimo profilo, v. R. JAMES, R. BLAIR, L. JONES, F.
CLARK, M. SMITH, The psychopathic individual: a lack of responsiveness to distress cues?, in Psychophysiology, 34(2),
1997, pp. 192–198.
21
A livello di applicazione giurisprudenziale possiamo a questo proposito segnalare
un caso in cui all’imputato veniva contestato il reato di violenza sessuale (quale caso di
minore gravità ai sensi dell’art. 609-bis co. 3 cod. pen.) per avere costretto una ragazza
minorenne a subire alcuni toccamenti lascivi76. I fatti erano avvenuti nello studio
professionale dell’imputato (presso il quale la ragazza stava svolgendo un tirocinio
scuola-lavoro), in assenza di qualsiasi altra persona. Il racconto della ragazza, che subito
aveva riferito sconvolta l’episodio ad una amica, risultava, anche in occasione delle
successive deposizioni, congruo, lineare ed immune da sbavature; anche le
testimonianze raccolte, seppur fornite da soggetti che non avevano assistito ai fatti,
risultavano coerenti e congrue, anche nei dettagli, al racconto della persona offesa. La
delicatezza del caso e alcune contro-argomentazioni della difesa dell’imputato
inducevano il giudice, ciò nondimeno, ad acquisire una perizia quale indagine
integrativa, per verificare, tra l’altro, se la ragazza avesse effettivamente dentro di sé il
ricordo genuino di quanto aveva ripetutamente narrato. La perizia veniva affidata ad un
esperto in neuropsicologia clinica, il quale si avvaleva, tra l’altro, anche dei test aIAT77 e
TARA78, vale a dire due procedure che, sulla base dei tempi di reazione, mirano a
verificare l'esistenza all'interno del soggetto di un ricordo – una traccia mnestica – di un
evento autobiografico.
Ebbene, in conclusione secondo il giudice, “premesso che né lo aIAT, né il TARA,
ovviamente, hanno finalità accusatorie ma sono strumenti neutri, i risultati della perizia, letti nel
contesto generale del processo, hanno offerto un esito di conferma delle dichiarazioni della persona
offesa”; di conseguenza, l’imputato veniva condannato per i fatti contestatigli79.
In questa sede può essere infine interessante riferire gli esiti di recenti studi
finalizzati alla ricerca di possibili correlati neuronali della “capacità di mentire”. Questa
“capacità” pare, in effetti, avere dei correlati neurali specifici, che coinvolgono in primo
luogo la corteccia prefrontale (dorsolaterale e ventrolaterale), e poi altre strutture
cerebrali, quali il giro cingolato anteriore80. È, pertanto, non-irragionevole ipotizzare che
76 Trib. Cremona, 19 luglio 2011, S.M., in DeJure. 77 V. supra, nota 55-57 e testo corrispondente. 78 V. supra, nota 58 e testo corrispondente. 79 La condanna è stata ribadita anche da Cass., Sez. III, 13 marzo 2014, n. 15178, S.M., in DeJure, con una
sentenza che conferma l’attendibilità del racconto della minore, attendibilità tuttavia desumibile
“essenzialmente dall’analitica ricostruzione del suo comportamento, prescindendo da riferimenti ai test
somministrati dall’ausiliare”. Su tale vicenda giudiziaria, e sul rilievo in essa assunto dalle metodologie
neuroscientifiche, v. L. ALGERI, Neuroscienze e testimonianza della persona offesa, cit., p. 904 ss.; M. BERTOLINO,
Prove neuro-psicologiche, cit., p. 23; nonché, sia pur con taglio giornalistico, L. FERRARELLA, Ecco il test della
verità sui ricordi che fa condannare l'imputato, in Corriere della Sera, 24 febbraio 2012, consultabile online in
questa pagina web. 80 In letteratura, tra i molti, v. F. MAMELI, C. SCARPAZZA, E. TOMASINI, R. FERRUCCI, F. RUGGIERO, G. SARTORI,
A. PRIORI, The guilty brain: the utility of neuroimaging and neurostimulation studies in forensic field, in Reviews in
the Neurosciences, 28(2), 2017, pp. 161–172; N. ABE, The neurobiology of deception: evidence from neuroimaging and
loss-of-function studies, in Current Opinion in Neurology, 22(6), 2009, pp. 594–600; D. D. LANGLEBEN, L.
SCHROEDER, J. A. MALDJIAN, R. C. GUR, S. MCDONALD, J. D. RAGLAND, C.P. O'BRIENN, A. R. CHILDRESS, Brain
activity during simulated deception: an event-related functional magnetic resonance study, in NeuroImage, 15(3),
2002, pp. 727–732. In particolare, i correlati della menzogna esaminata mediante il GKT comprendono la
22
i soggetti inclini a mentire possano presentare particolari pattern di funzionamento di
queste aree, divergenti da quelli dei “non mentitori”.
Se e quando questi studi neuroscientifici raggiungeranno approcci più consolidati,
essi potrebbero fornire la base per elaborare, da parte della scienza penalistica, regole di
acquisizione della prova dichiarativa differenziate, appositamente studiate per i soggetti
che presentano le strutture cerebrali tipiche dei “mentitori”; ovviamente, però, ciò dovrà
avvenire salvaguardando il pieno rispetto della dignità e libertà morale di questi
soggetti.
4.5. “Collaborazione” in sede di accertamento del dolo.
Secondo taluni studi, gli strumenti sopra descritti o altri ancora (ad esempio,
risonanza magnetica funzionale abbinata a software esperti) potrebbero essere utilizzati
anche in funzione di mind detection, vale a dire al fine di ricostruire la tipologia di
intenzione espressa con l’atto dal suo autore81.
Se davvero strumenti siffatti fossero disponibili, potremmo constatare che
finalmente il giudice disporrebbe di tecniche di “doloscopia”82, vale a dire di tecniche
per accertare il dolo dall’interno della mente dell’imputato, anziché solo – come finora
avviene – dall’esterno (inferendo il dolo dalle circostanze esterne).
Ovviamente, tali strumenti potrebbero risultare particolarmente idonei a provare
il dolo di terminati reati, come ad esempio il dolo del reato di falsa testimonianza (le
neuroscienze possono aiutare il giudice a capire se l’imputato, che pur dice una cosa
oggettivamente falsa, è soggettivamente – e genuinamente – convinto di dire il vero?), o
del reato di calunnia (le neuroscienze possono aiutare il giudice a capire se l’imputato,
nel momento in cui ha sporto denuncia, era consapevole dell’innocenza del soggetto
incolpato?).
A livello di applicazione giurisprudenziale, segnaliamo che:
1) nel c.d. processo Cogne-bis83, relativo al delitto di calunnia commesso da
Annamaria Franzoni a carico del proprio vicino di casa (falsamente incolpato di essere
l’autore dell’uccisione del piccolo Samuele), la difesa aveva introdotto nell’istruttoria
una consulenza, espletata, tra l’altro, sottoponendo l’imputata al test a-IAT, al fine di
dimostrare che la stessa fosse genuinamente convinta di non essere stata lei ad uccidere
il figlio.
Il giudice, tuttavia, ha ritenuto gli esiti di tale test “ininfluenti” ai fini della
valutazione dei fatti in causa, e ciò per due motivi: perché il test, somministrato nel 2009,
corteccia pre-frontale, pre-motoria, frontale motoria e parietale anteriore, e la parte anteriore del giro del
cingolo. 81 L. SAMMICHELI, G. SARTORI, Accertamenti tecnici ed elemento soggettivo del reato, in Dir. pen. cont. – Riv. trim.,
2015, n. 2, p. 273 ss. 82 L’icastica espressione “doloscopia” è di recente proposta da F. M. IACOVIELLO, Processo di parti e prova del
dolo, in Criminalia, 2010, p. 464. 83 Trib. Torino, ud. 19 aprile 2011 (dep. 26 settembre 2011), Franzoni, est. Arata, in questa Rivista.
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non poteva certo fotografare lo stato mentale della Franzoni nel 2004, allorché la
medesima presentò denuncia; e perché, anche qualora la Franzoni fosse stata convinta
della propria innocenza (rispetto all’uccisione del figlio), ciò non sarebbe bastato ad
escludere, in capo alla stessa, la consapevolezza dell’innocenza del vicino di casa e,
quindi, il dolo di calunnia: dolo di calunnia, il quale, invece, nel caso di specie risultò
provato in quanto il contenuto della denuncia fu il risultato di “una predisposizione
maliziosa di dati, elementi e circostanze di fatto oggettivamente falsi, abilmente combinati con la
valorizzazione di elementi inconsistenti e di per sé insignificanti ma funzionali al progetto
calunnioso complessivo, finalizzato a far iniziare un’indagine sul vicino di casa, così da introdurre
indirettamente nei giudici, chiamati a trattare in grado di appello il processo a carico della
Franzoni, elementi di incertezza sulla sua responsabilità per l’omicidio del figlio”84;
2) in un recente processo per omicidio85, la difesa aveva cercato di ottenere la
derubricazione dell’imputazione – da omicidio volontario con dolo eventuale a omicidio
colposo – facendo leva su una consulenza la quale si era, tra l’altro, avvalsa del test a-
IAT. Nella specie, si trattava di un giovane, all’epoca dei fatti minorenne (17 anni e 8
mesi), il quale, alla guida di un grosso SUV, dopo aver provocato un primo sinistro
stradale all’interno del parcheggio di un centro commerciale, per sfuggire ad un agente
di polizia locale che gli aveva intimato l’ALT, cercava di guadagnare velocemente
l’uscita del parcheggio, ma così facendo investiva mortalmente il predetto agente. La
difesa mirava a provare che il giovane, al momento dell’impatto, non avesse visto
l’agente, in quanto questi si sarebbe parata dinnanzi a lui in modo improvviso all’altezza
dell’uscita del parcheggio. Per confortare tale ricostruzione dei fatti, l’imputato si era
sottoposto al test a-IAT, il cui esito avrebbe confermato che, nella mente dell'imputato,
non c’era il ricordo della presenza della vittima all’altezza dell’uscita del parcheggio.
I giudici di primo e secondo grado, tuttavia, non conferiscono valore a tale
consulenza e il giovane viene condannato per omicidio volontario. La Corte di
Cassazione, a sua volta, ritiene adeguata la motivazione, fornita in sentenza, circa
l'inattendibilità del test a-IAT “nel caso di specie e anche in generale", giacché la Corte
d’Appello ha “valutato il test con criteri scientifici, sottolineando che si tratta di metodo assai
recente (...), contestato da alcune parti e che non aveva trovato diretta applicazione nei
procedimenti davanti all'autorità giudiziaria italiana (il ricorrente sostiene che, al contrario, in
un procedimento davanti al G.I.P. di Como, ciò sarebbe avvenuto: dato certamente non decisivo);
ma, soprattutto, la Corte territoriale evidenzia alcune criticità nell'applicazione del test al caso
concreto, sottolineando che le dichiarazioni rese dall’imputato al consulente tecnico erano
differenti da quelle rese nel procedimento; che - attesa la scarsa capacità di lettura dell'imputato -
la complessità delle domande potevano influenzare i tempi di risposta; che, infine, poiché il test
era stato somministrato oltre un anno dopo il fatto, il ricordo dell'imputato poteva essere
differente da quello iniziale, in quanto influenzato da meccanismi inconsci di rimozione”. La
condanna per omicidio volontario viene quindi confermata86.
84 Ibidem, p. 200. 85 Di tale processo abbiamo notizia grazie alla sentenza di Cassazione che ha deciso in via definitiva il caso:
Cass., sez. I, 10 aprile 2015 (dep. 13 luglio 2015), N., n. 30096, in DeJure. 86 Ibidem.
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5. Una strada spianata o un percorso irto di ostacoli alla “collaborazione” tra diritto
penale e neuroscienze?
L’aver individuato alcuni ambiti all’interno dei quali potrebbe svolgersi una
proficua collaborazione tra diritto penale e neuroscienze non significa, tuttavia, che
queste si trovino davanti una strada spianata che le conduca trionfalmente all’interno
delle aule giudiziarie: tutt’altro!
Il percorso appare, al momento, irto di ostacoli, frapposti non solo dalla legge
penale, ma scaturenti dallo stesso fronte neuroscientifico.
5.1. Gli ostacoli frapposti dalla legge penale.
Quanto agli ostacoli di ordine “penalistico”, occorre ricordare – oltre al divieto di
perizie dirette ad accertare il carattere e la personalità dell'imputato e, in genere, le
qualità psichiche indipendenti da cause patologiche (art. 220 co. 2 cod. proc. pen.)87 – gli
ulteriori divieti posti dagli artt. 64, 188 e 189 cod. proc. pen. a tutela della libertà morale
del dichiarante. Questi divieti, in passato, hanno già sbarrato l’accesso nel processo
penale a metodi e strumenti di prova quali il poligrafo (un’apparecchiatura in grado di
registrare e amplificare la variazione di alcuni parametri fisiologici del dichiarante: la
pressione arteriosa, il ritmo respiratorio, il battito cardiaco e la sudorazione palmare), la
narcoanalisi (eseguibile con somministrazione per via endovenosa lenta di barbiturici
uniti a psicostimolanti del tipo anfetaminico) e l’ipnosi88.
Ammesso che detti divieti risultino non pertinenti o comunque superabili89, la
prova neuroscientifica dovrebbe poi sottostare ai limiti e alle condizioni entro cui viene
ritenuta ammissibile la c.d. “prova scientifica” alla luce della più recente giurisprudenza
di legittimità, la quale, come noto, ha sostanzialmente recepito i criteri del celebre “test
87 Secondo L. SAMMICHELI, G. SARTORI, Accertamenti tecnici, cit., p. 6, la perizia (o consulenza) che si avvalga
di tecniche neuroscientifiche non potrebbe essere esclusa dal processo in forza dell’art. 220 cod. proc. pen.
nella misura in cui essa sia rivolta non già ad accertare la personalità o il carattere dell’imputato – vale a dire
le caratteristiche psichiche e le modalità di comportamento tendenzialmente fisse e irriducibili
dell’individuo – bensì la sua disposizione psicologica o comportamentale temporanea, e cioè il modo,
storicamente circoscritto, con cui il soggetto si pone in relazione al suo comportamento. 88 In argomento, tra i molti, v. S. MAFFEI, Ipnosi, poligrafo, narcoanalisi, risonanza magnetica: sincerità e verità nel
processo penale, in Ind. Pen., 2006, p. 717 ss.; O. MAZZA, I protagonisti del processo, in AA.VV., Procedura penale,
Torino, 2010, p. 109; G. UBERTIS, Sistema di procedura penale, Torino, Utet Giuridica, 2004, p. 83; per una
letteratura più risalente in argomento, v. altresì G. SABATINI, Poligrafo e libertà morale, in Giust. Pen., I, 1962,
p. 1 ss.; G. VASSALLI, I metodi di ricerca della verità e la loro incidenza sulla integrità della persona umana, in Riv.
Pen., 1972, p. 393 ss. 89 Un (fugace) cenno circa la ritenuta compatibilità della consulenza esperita tramite test a-IAT col disposto
dell’art. 220 cod. proc. pen. compare nella sentenza Cass., sez. I, 10 aprile 2015, cit. (supra, nota 85) relativa
all’omicidio dell’agente di polizia: ivi la Cassazione riferisce, infatti, che “la Corte [d’appello] non
condivideva la valutazione del Tribunale di contrasto del test con il disposto dell'art. 220 cod. proc. pen.,
atteso che esso era diretto ad accertare le tracce mnestiche di un fatto”.
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Daubert” (sottoposizione della teoria a test empirici, e in particolare a tentativi
sperimentali di smentita; sottoposizione della teoria a peer review e quindi pubblicazione
della stessa su riviste specializzate; conoscibilità del relativo tasso di errore, accertato o
potenziale; infine, riscossione di un consenso generale da parte della comunità scientifica
di riferimento)90. Anche in relazione alle neuroscienze si riproporrebbero, pertanto, tutte
le controversie e tutti i dubbi circa le modalità e i limiti di introduzione, nel processo
penale, di un sapere extragiuridico capace di consentire al giudice di superare la sua
“legittima ignoranza” in ambito scientifico91.
Circa la affidabilità delle nuove tecniche neuroscientifiche a fornire elementi di
prova utilizzabili nel processo penale possiamo segnalare, a livello di giurisprudenza di
legittimità, quattro sentenze. A dire il vero nessuna di esse prende una posizione netta
in proposito; ciò nondimeno tutte e quattro forniscono interessanti indicazioni – tra
l’altro, non convergenti tra di loro – a conferma dell’unico dato certo: la controversia
sulla utilizzabilità degli esiti delle indagini neuroscientifiche nel processo penale è
ancora lontana dall’aver trovato una soluzione.
1) La prima, in ordine cronologico, di queste quattro sentenze riguardava il triplice
omicidio certamente commesso dall’imputato ai danni del fratello e della di lui
famiglia92; nel procedimento di merito l’unico profilo dubbio atteneva alla sua capacità
di intendere e di volere, oggetto di consulenze e perizie divergenti. Il giudice di primo
grado – accogliendo la valutazione del perito, che aveva formulato una diagnosi di
disturbo borderline di personalità, con una condizione depressivo-ansiosa e reattiva ad
esso sovrapposta – concludeva per un vizio solo parziale di mente. In appello, la difesa
chiedeva una rivalutazione della capacità di intendere e di volere, anche sulla scorta di
una consulenza che utilizzasse tecniche neuroscientifiche (in particolare ricorso al neuro-
imaging ed alla genetica comportamentale) per spiegare le ricadute del trauma subito
dall'imputato in età adolescenziale sulla sua capacità di intendere e volere. Tale richiesta
veniva, tuttavia, respinta dal giudice d’appello con argomenti che anche la Cassazione
alla fine conferma, giacché le neuroscienze “possono vantare isolate applicazioni nel campo
giudiziario (si contano pochissimi precedenti), sintomo questo di una inadeguata verifica da parte
della comunità scientifica nel settore cui si ha riguardo”93, tanto più che “oltre ad una scarsa
affidabilità del parametro scientifico proposto (che è nei fatti per la scarsa applicazione e quindi
per la mancanza di un vero e proprio test di affidabilità), la Corte [d’appello] non ha mancato di
90 In questa sede è impossibile ripercorrere l’ampio dibattito sviluppatosi nella giurisprudenza e nella
dottrina italiane in ordine al ruolo del giudice nella valutazione della qualità della scienza, di volta in volta
invocata in sede processuale. In argomento, anche per i doverosi riferimenti di dottrina e giurisprudenza,
sia consentito rinviare a F. BASILE, L’utilizzo nel processo penale di conoscenze scientifiche, tra junk science e
legittima ignoranza del giudice, in Studium Juris 2018 (in corso di pubblicazione); per quanto riguarda, invece,
specificamente l’affidabilità della prova “neuro-scientifica”, v., ex plurimis, M. BERTOLINO, Prove neuro-
psicologiche, cit., p. 2 ss.; L. DE CATALDO NEUBURGER, Neuroscienze e diritto penale. La scienza come, quando e
perché, in A. SANTOSUOSSO (a cura di), Le neuroscienze e il diritto, Pavia 2009, p. 148 ss. 91 Le parole virgolettate – che ribaltano l’anacronistico paradigma del iudex peritus peritorum – sono tratte da
Cass., Sez. V, 27 marzo 2015, n. 36080, Knox. 92 Cass., Sez. I, 2 ottobre 2012 (dep. 7 novembre 2012), Panuccio, n. 43021, in Leggi d’Italia. 93 Ibidem.
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rilevare come detto tipo di indagine avrebbe potuto avere un esito se solo fossero state riscontrate
in capo all’imputato anomalie di tipo genetico, od organico”94.
2) Solo qualche settimana più tardi, tuttavia, la stessa Sezione (la Prima) della Corte
di Cassazione apre qualche spiraglio all’utilizzabilità delle tecniche neuroscientifiche nel
processo penale95. Infatti, nella seconda sentenza in esame – sentenza che annulla con
rinvio una condanna in appello a carico di un “serial killer” (già condannato per plurimi
omicidi, tutti realizzati con modalità analoghe a quelle contestatogli nel presente
giudizio) – la Cassazione rileva che la corte territoriale aveva motivato solo in punto di
capacità di intendere e non anche in punto di capacità di volere dell’imputato, essendo
rimasta, invece, la capacità di volere “nell’ombra, e ciò pure a fronte di specifiche deduzioni
difensive circa l'assenza della capacità di volere, che bene avrebbero imposto una più approfondita
motivazione su tale profilo”96. E le deduzioni difensive erano, tra l’altro, basate proprio
sull'esame dell'encefalo dell'imputato con risonanza magnetica nucleare, da cui sarebbe
emersa una patologia, definita “disturbo esplosivo intermittente”, anche nota come
“sindrome del serial killer”, che – stando a quanto riferito dalla difesa – eliminerebbe la
capacità di volere per cause organiche, e che sarebbe stata rilevata già in quattro casi di
assassini seriali italiani.
3) Con una successiva sentenza, la Cassazione lascia, invece, fondamentalmente
impregiudicata la questione circa il riconoscimento della affidabilità delle tecniche
neuroscientifiche e della loro utilizzabilità in sede processual-penale97. Nella specie,
ricorrente era un soggetto, tale V., già condannato con sentenza irrevocabile per omicidio
doloso; tale condanna si era basata principalmente sulla testimonianza oculare di una
giovane donna, la quale, pur essendo affetta da ritardo mentale, iper-emotività ansiosa
e fragilità psichica, era stata comunque ritenuta capace di rendere testimonianza. Dopo
il processo, tuttavia, a favore della giovane donna era stato disposto assegno di invalidità
con sentenza del locale tribunale civile.
Proprio facendo leva su tale nuova circostanza, la difesa di V. presentava quindi
istanza di revisione del processo, istanza la quale si avvaleva, altresì, di una consulenza
tecnica fornita da un noto accademico, esperto di neuroscienze, il quale, utilizzando
nuove metodologie di indagine, valutava la capacità mnemonica della giovane donna
compromessa al punto da renderla, in realtà, non idonea a testimoniare. Il consulente
aveva, peraltro, somministrato anche al V. due test – anch'essi fondati su nuova
metodologia (aIAT e TARA98) – volti a indagare la memoria autobiografica del
condannato e ad analizzare l'eventuale traccia, nella sua memoria, del fatto di sangue.
La Corte d’appello competente, tuttavia, dichiarava inammissibile siffatta richiesta di
revisione, motivo per cui V. ricorreva in cassazione; e la Corte di Cassazione, con la
sentenza oggetto d’esame, annulla con rinvio sulla scorta di un’interessante motivazione
94 Ibidem. 95 Cass., Sez. I, 25 ottobre 2012 (dep. 21 novembre 2012), S., n. 45559, in Leggi d’Italia. 96 Ibidem. 97 Cass., Sez. V, 22 gennaio 2013 (dep. 26 marzo 2013), V., n. 14255, in DeJure. 98 Su tali due test, v. supra, rispettivamente note 55-57 e 58, e testo corrispondente.
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il cui passaggio principale, ai presenti fini, è il seguente: “possono costituire prove nuove,
ai fini della valutazione di ammissibilità dell'art. 630, co. 1, lett. c), cod. proc. pen. [casi di
revisione del processo], le prove che, pur incidendo su un tema già divenuto oggetto di indagine
nel corso della cognizione ordinaria, siano fondate su tecniche diverse e innovative, tali da
fornire risultati non raggiungibili con le metodiche in precedenza disponibili. Ciò ovviamente
quando non manchi la affidabilità tecnica delle nuove metodiche scientifiche, difettando,
altrimenti, la stessa natura di «prova nuova». Orbene, al proposito, la corte calabrese si è limitata
a osservare che «... non è dato desumere alcun elemento concreto dal quale poter ricavare sia la
scientificità, che la novità ... del metodo di analisi utilizzato; ... manca in definitiva una sufficiente
indicazione circa il grado di consenso che il sistema descritto nell'istanza di revisione riscuote
nell'ambito della comunità scientifica e il livello di condivisione raggiunto dallo stesso». In tal
modo, tuttavia, il giudicante ha addossato al consulente tecnico l'onere di certificare la validità
delle nuove tecniche di indagine psicologica, cui lo stesso ha fatto ricorso, quasi che non fosse,
viceversa, compito, innanzitutto, del giudice (documentarsi e) pronunziarsi sulla correttezza dei
nuovi criteri metodologici sottoposti alla sua attenzione (in relazione alle tecniche aIAT e TARA,
esiste ormai letteratura, anche in ambito giuridico)”99: la Cassazione, insomma, con queste
parole non afferma, né nega l’affidabilità delle tecniche neuroscientifiche, investendo
invece il giudice di merito del compito di compiere, caso per caso, uno scrutinio in
proposito.
4) Infine, l’ultima sentenza di legittimità in ordine di tempo qui rilevante100,
riguardava un soggetto condannato per omicidio doloso, il quale censurava, davanti alla
Cassazione, la mancata concessione delle attenuanti generiche (art. 62-bis cod. pen.), che
a suo avviso avrebbero dovuto essergli riconosciute, tra l’altro, in quanto egli sarebbe
stato portatore di disfunzioni genetiche determinanti i suoi comportamenti aggressivi e
impulsivi. Tali disfunzioni genetiche sarebbero emerse grazie ad una consulenza di parte
sul suo genoma individuale, effettuata, con tecniche neuroscientifiche, da un professore
universitario di psicologia clinica e da un professore universitario di biochimica clinica
e biologia molecolare.
La Cassazione, tuttavia, respinge tale motivo di ricorso, facendo proprie alcune
osservazioni già formulate dai giudici di merito, i quali avevano correttamente “dato
conto delle opinioni espresse dai periti e dai consulenti di parte escludendo la correlazione tra il
profilo genomico individuale ed il quadro di personalità dell’imputato. In particolare, il primo
giudice ha evidenziato che gli studi condotti per stabilire un nesso causale tra assetto genetico,
comportamento violento/impulsivo e capacità di intendere e di volere, avevano riguardato
campioni di popolazione relativamente piccoli ed avevano incluso soprattutto soggetti con tratti
psicopatici e/o con disturbo antisociale di personalità, caratteristiche queste non presenti
nell'imputato”101.
La Cassazione conclude, quindi, rilevando che i giudici di merito “hanno
correttamente escluso ogni incidenza tra il genoma dell’imputato e il reato commesso, dal
99 Cass., Sez. V, 22 gennaio 2013, cit. 100 Cass., sez. I, 10 giugno 2015 (dep. 13 novembre 2015), n. 45351, G.D., in Leggi d’Italia. 101 Ibidem.
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momento che – a tacere delle implicazioni sui temi più generali del libero arbitrio, del principio di
responsabilità individuale e della mancata considerazione dell'interazione dei fattori ereditari e
ambientali nello sviluppo della personalità – nel rispetto delle regole proprie del processo penale,
al suo interno può essere introdotta solo una prova «idonea ad assicurare l'accertamento dei fatti»
(art. 189 cod. proc. pen.) e la c.d. verità scientifica è tale solo se la conoscenza è scientifica.
Nell'esperienza della Corte Suprema nordamericana, la sentenza Daubert individua come criteri
per l'apprezzamento della scienza valida (ossia rilevante e affidabile) la possibilità di verificare e
falsificare il principio scientifico da impiegare; che esso sia stato oggetto di una revisione paritaria
da parte dei componenti della comunità scientifica; che i risultati delle ricerche siano stati
pubblicati in riviste specialistiche; che sia considerata la percentuale di errore, nota o potenziale,
della teoria scientifica; che siano rispettati gli standard di corretta esecuzione delle operazioni
applicative inerenti quel determinato principio scientifico; che vi sia stata accettazione della teoria
nella comunità scientifica”102: almeno in relazione al caso oggetto di tale giudizio, pertanto,
la consulenza neuroscientifica di parte sembra non aver superato il “test Daubert”103 e,
di conseguenza, non è stata ritenuta frutto dell’utilizzo di una “scienza valida”.
5.2. Gli ostacoli frapposti dallo stesso dibattito neuroscientifico.
A ben vedere, ostacoli all’introduzione nel processo penale di risultanze
neuroscientifiche provengono non solo dalle “regole” del processo penale, ma emergono
altresì anche in una prospettiva più strettamente tecnica104.
Si pensi, ad esempio, alle perplessità relative:
- al rischio di attivazione di strategie di aggiramento da parte del soggetto
sottoposto ad esame con le tecniche neuroscientifiche;
- all’originaria predisposizione di talune delle tecniche qui in parola per rilevare
differenze tra gruppi (ad esempio, analisi di pregiudizi), e non per analizzare lo stato del
singolo;
- infine, alla non adeguata maturità di altre tecniche ancora.
Ad alcune di queste perplessità è possibile ovviare paragonando i dati raccolti dal
soggetto sottoposto ad esame con quelli di un adeguato numero di soggetti di controllo
(almeno 100 soggetti)105 – cosa del resto che già da tempo avviene nel caso dei dati
comportamentali, quali la prestazione a test neuropsicologici –; più difficile, invece,
risulta una siffatta comparazione nell’ambito delle evidenze da neuroimmagine, giacché
dati provenienti da partecipanti sani “di controllo” sono in larga misura assenti, anche
in considerazione del costo elevato di tali accertamenti.
102 Ibidem. 103 Su tale test, v. già supra, nota 90, e testo corrispondente. 104 In generale, sul metodo delle neuroscienze, sulle sue potenzialità e sui suoi limiti tecnici, v. E. R. KANDEL,
J. H. SCHWARTZ, T. M. JESSELL, S. A. SIEGELBAUM, A. J. HUDSPETH, Eds., Principles of neural science, 5th ed., New
York, Mc Graw-Hill, 2012. 105 Sul punto, v. ad esempio E. CAPITANI, M. LAIACONA, The evaluation of experimental data in neuropsychology,
in G. DENES, L. PIZZAMIGLIO (a cura di), Handbook of clinical and experimental neuropsychology, Hove, Sussex,
Psychology Press, 1999, pp. 57–68.
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Vi è poi il problema, da tempo segnalato dalla letteratura statunitense106, della
sproporzionata capacità persuasiva che le immagini cerebrali – tanto spettacolari quanto
di apparentemente semplice lettura – e le spiegazioni di comportamenti basate su dati
neuroscientifici potrebbero avere su giudici e giurati.
A ciò potrebbe farsi fronte attraverso una adeguata considerazione del complesso
delle evidenze disponibili, ispirandosi alla cosiddetta “metodologia delle operazioni
convergenti”107, secondo la quale evidenze da dominî disciplinari diversi, che
convergono verso una stessa conclusione, la avvalorano maggiormente di ciascuna
evidenza, considerata singolarmente.
Ma all’orizzonte si profilano anche altri ostacoli di natura tecnica, tra i quali appare
di particolare rilievo il fatto che l’indagine neuropsicologica, tipicamente, avviene in
condizioni che poco o nulla hanno a che fare con quelle “naturali” in cui si è verificato il
reato108.
Infine, le perizie neuroscientifiche cliniche presentano il medesimo limite di cui
soffrono tutte le indagini sulle capacità mentali dell’imputato: tipicamente, esse possono
fornirci un’analisi del comportamento e del cervello dell’imputato nel momento attuale,
ma non nel momento (che potrebbe risalire a mesi, se non anni addietro) in cui avrebbe
commesso il fatto di reato109. Questo problema non può che essere affrontato caso per
caso, valutando il complesso dei dati clinici disponibili, per concludere, in via del tutto
probabilistica, se il funzionamento neurologico e neuropsicologico attuale (vale a dire,
al momento dell’accertamento) dell’imputato possa essere considerato simile a quello
(non esaminato) del momento in cui il reato è stato commesso.
Come è stato efficacemente rilevato, infatti, “il cervello cambia. Il nostro cervello non
è quello di ieri. Non è praticamente realizzabile una continua misurazione del funzionamento
cerebrale così che sia possibile ricollegare l’attività cerebrale registrata in un momento specifico
ad un momento successivo. Quindi, può essere difficile sapere, nel momento attuale, come lo stesso
cervello funzionava sei mesi fa, nel momento in cui è accaduto l’evento giuridicamente
rilevante”110.
106 In argomento, anche per le doverose indicazioni bibliografiche, C. GRANDI, Sui rapporti tra neuroscienze e
diritto penale, cit., p. 1255; M. BERTOLINO, Prove neuro-psicologiche, cit., p. 18; e, nella letteratura
neuroscientifica, G. SARTORI, A. ZANGROSSI, Neuroscienze Forensi, cit., p. 702. 107 W. R. GARNER, H. W. HAKE, C. W. ERIKSEN, Operationism and the concept of perception, in Psycholological
Review, 63(3), 1956, pp. 149–159. 108 Lo evidenziano, tra gli altri, U. FORNARI, A. PENNATI, Il metodo scientifico in psichiatria e psicologia forensi,
cit., p. 3. 109 S. J. MORSE, Brain Overclaim Syndrome and Criminal Responsibility: A Diagnostic Note, in Ohio State Journal of
Criminal Law, 3, 2006, p. 400. 110 Memorandum Patavino, 9 ottobre 2015, p. 15, consultabile in questa Rivista. Si veda, a tal proposito, anche
un significativo passaggio della sentenza di Torino nel procedimento per calunnia a carico della Franzoni
(cit. supra, nota 83): “i consulenti non hanno effettuato il test IAT nel 2004, cioè al momento della presentazione della
denuncia, e non possono, quindi, sapere se la situazione registrata nel 2009 fosse presente anche nel 2004, essendo
astrattamente possibile che il meccanismo di rimozione del «ricordo colpevole» e la sua sostituzione con un «ricordo
innocente» sia intervenuta successivamente”.
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6. Considerazioni conclusive.
Al momento attuale, considerato lo “stato dell’arte” delle neuroscienze, una
radicale rifondazione del diritto penale su nuove basi – basi costituite dalle asserite
evidenze fornite, per l’appunto, dalle neuroscienze – per i motivi sopra illustrati non
pare possibile, né auspicabile.
Una prospettiva concretamente (e attualmente) percorribile è quella, invece, di una
collaborazione tra diritto e processo penale e neuroscienze, collaborazione che si può
sviluppare lungo plurime direttrici, ognuna delle quali, tuttavia, presenta proprie
peculiarità e proprie difficoltà, anche in considerazione dello “strumento” (test, colloqui,
registrazioni poligrafiche, esami di imaging, esami genetici e altro ancora) di volta in
volta utilizzato da periti e consulenti per fornire elementi che possano contribuire alla
formazione della decisione del giudice.