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Per una cultura piuttosto che nuova, migliore (più viva di quellad’élite, più autentica e duratura di quella di massa ) con la strategia

della guerriglia intellettuale.

Se si volge uno sguardo al panorama culturale ciapparirà il solito caos multiforme di prodotti,personaggi, eventi, immagini, avvolto in una fittanebbiolina che pare essere stata creata artificialmenteper far risaltare le luci al neon delle pubblicità, perstordirci e frustrare ogni nostro tentativo di capire cheposizione prendere, per farci credere che siaimpossibile orientarsi e tracciare un appunto, unmodello, una mappa che ci aiuti a muoverci conconsapevolezza. È l’oceano della cultura di massa.

Chi si mette alla ricerca di qualche punto diriferimento in questa lavatrice d’informazioni, finisceper brancolare, annaspa abbagliato fino a che nonraggiunge qualche nicchia, qualche grotta, qualcheinsenatura, nella quale una piccola tribù di intellettualisi dedica alle opere dell’ingegno umano, condedizione, passione, cura e umiltà, come artigiani dialtri tempi, come, più che creatori, restauratoriantiquari. Sono le caverne della cultura d’élite.Purtroppo queste nicchie sono in ombra e cominciano,nonostante l’accurata pulizia, a odorare di muffa.

E’ in luce ciò che è ben pubblicizzato, benpubblicizzato ciò che spende per essere pubblicizzatoe dunque ciò che in qualche modo è riuscito a tagliarein qualità, serietà, bellezza, accuratezza.

Un intellettuale, via via che la sua fama aumenta èpressato (e pochi riescono a non cedere totalmente atale pressione) a scrivere, creare, partecipare,mostrarsi, mettere la sua firma, collaborare, in unaparola – produrre – sempre di più. Più produce, più siestende la sua notorietà, più la sua notorietà si estende,più il valore sul mercato dei suoi prodotti sale e dunqueaumenta la spinta a lavorare di più anche se peggio,ad esempio a scrivere un pezzo male e controvogliaper cogliere al volo l’ultimo evento. Ciò si oppone aquella che è ed è stata invece la tendenza naturale diogni autore (dall’artigiano al filosofo): dedicarsi adopere sempre migliori, tendendo negli anni allaperfezione e alla grandezza. Quindi più il valorecommerciale di un’opera sale (maggiore è la richiestasul mercato) più tende a scendere il valore estetico,intellettuale, scientifico, o artistico dei prodotti.

Quella sopra descritta è una dinamica che si puòriscontrare nella società, non una legge scientifica. Cisono molte eccezioni e molte altre dinamiche, magarimeno influenti, che si oppongono a questomeccanismo. La cosa da sottolineare, (e che dopotuttoè sotto gli occhi di tutti), è che si può individuare unaspecie di forza che tende innanzitutto acommercializzare (e sottoporre a tutte le modificheformali che questo comporta) quegli oggetti immaterialiche sono i prodotti delle menti umane. Allo stessotempo questa forza tende a staccarli dai loro contestivitali, frammentarli, annacquarli, svilirli e a legarliall’attualità che prima gli regala un bagliore di

popolarità, poi se li trascina a fondo nel dimenticatoio,discarica di canzoni nate per durare una stagione, dimode, di libri scritti in fretta, di quadri che hanno coltouna tendenza durata un mese, abisso in cui è assaicomodo imprigionare e nascondere le rare creazioniscomodamente innovative.

La forza a cui si è accennato è assente nelmicrocosmo della cultura d’élite un universo fatto dialcuni docenti universitari coltissimi, ma inattivi e paghidella loro posizione, scrittori che tirano avantivendendo 1000 copie a 1000 estimatori, critici cheanalizzano opere sconosciute ai più, brillanti professoriche non trovano stimoli e che si riducono a ripeterelezioni sempre uguali, riviste specialistiche che, creatoun loro piccolo circuito di diffusione, si accontentanodi farlo sopravvivere, programmini radiofonici, circoliculturali e minuscole case editrici dai raffinatipresupposti estetici e intellettuali.

Per non soggiacere al meccanismo pervertitore cheho indicato, alcuni autori scelgono di tenersi allalontana dall’oceano tempestoso dei riflettori televisivi,dalle grandi, medie e magari anche piccole testategiornalistiche e case editrici, dalla pubblicità, dallanotorietà, per finire a nuotare esclusivamente neipiccoli laghi della cultura d’élite. Qui nessuno li spingea produrre di più, godono di una gran calma e di unacerta libertà e finiscono presto per disprezzareeccessivamente ciò che è fuori da queste dolci acque,si accontentano della piccola cerchia di interessati cheil loro lavoro raccoglie, senza più pensare di allargarla.“Fuori dai piccoli laghi la perdizione è sicura, nelgrande oceano niente di buono rimane a galla”,pensano e si chiudono in difesa del loro piccolomondo. La dinamica da cui si è pressati qui è: critica– disprezzo – allontanamento - critica meno informata- disprezzo maggiore - chiusura totale - credenza chel’unica cultura degna sia quella dei pochi.Un altro problema di questa scelta (che restacomunque più difficile e apprezzabile rispettoall’inserimento nella catena di produzione del mercatodalla cultura di massa) è che si fanno sempre più avarii fiumi che dovrebbero portare energie vive a queideliziosi laghetti dalle acque pure dove navigano leélite dei puri addetti alla Cultura. La quantità di acqueaffluente diminuisce, le correnti perdono vigore, e ilaghetti tendono a trasformarsi in stagni: i giovani piùdotati di talento quantificano la loro realizzazione e illoro stesso valore sempre più col metro del denaro“Se qualcuno mi paga per fare una cosa significa chela faccio bene, se mi paga X vorrà dire che vale X”pensano le nuove menti e si tuffano nell’oceano, sifanno prezzare sul mercato: in questo si risolve laricerca di un ap-prezzamento. Purtroppo allo stessotempo anche gli emissari, le onde di influenza che inostri piccoli, freschi specchi d’acqua propagano sulla

EDITORIALE INATTUALE

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società, si fanno più deboli: all’oceano caotico delleproduzioni artistiche e intellettuali commercializzatearriva solo qualche voce sommessa, che viene ignoratadai più e dai pochi è presto dimenticata.I due mondi di cui ho abbozzato una descrizione sonotutt’altro che separati: la cultura d’élite influenzadirettamente o attraverso la divulgazione la cultura dimassa ed nascono continuamente fenomeni dallacultura di massa che superano le barriere critiche degliintellettuali d’élite e vanno ad incidere sul loro circuito,inoltre esistono innumerevoli soggetti intermedi chenon è facile comprimere in questi due concetti. Si trattadi due generalizzazioni, sono utili a far luce su alcuniaspetti macroscopici della società, ma non possonoaiutare a distinguere i particolari, insomma vannotrattate per quel che sono – generalizzazioni.Io per me credo sia bene stare alla foce dei fiumi pulitidove giungono i delicati stimoli degli intellettuali d’élite,risalire a volte la corrente fino ai laghi, a volteallontanarsi verso il largo dell’oceano per capirlo, permettersi alla prova, per capirsi, per poterlo migliorare.Chi ha in mente e desidera una cultura nonframmentata, che duri più a lungo nel tempo, cheproduca opere di effettivo valore, che sia capace diaiutarci nella ricerca di un senso per il mondo e perl’esistenza, chi vuole lottare per una cultura migliorequesto, secondo chi collabora a questa rivista, puòfare: più è forte e maturo più spesso potrà arrischiarsitra i mostri commerciali dell’oceano, più è debole esoggetto alle influenze esterne e più dovrà rifugiarsinei laghetti protetti.

Questo non è un invito alla ricerca individuale diun giusto mezzo in cui mettere radici, maun’esortazione a muoversi per sforzarsi dicomprendere i processi che spingono e influenzanol’universo delle idee degli uomini e delle loroproduzioni, a non cedere all’idea tentatrice “migliorarele cose è impossibile”, e, per tutti coloro checondividono questo accenno di critica è un appello anon sottovalutare la forza di un testo, di un’immagine,dell’organizzazione di un evento, insomma la forza

che l’impegno attivo può sprigionare, anche se ci portaa venire a contatto con orribili mostri più potenti dinoi e sempre tesi a fagocitarci, sminuzzarci e digerirciper piegarci ai loro fini. Quando si muove un passonell’oceano della cultura di massa lo si deve fare noistessi come mostri, e piuttosto che cibarci dei piccolipesci, sarà bene tentare di azzannare un pezzo di codaad un gigantesco nemico, per digerirlo in acque piùtranquille. Ci vuole stomaco, certo, e coraggio. Maquesta guerriglia ci pare l’unica strada promettente.

Dal nostro iniziale infantile terrorismo metaforico(vedi Mostro n°2), che ci guardiamo bene dal rinnegare(anzi è stato fondamentale per la nostra inizialesopravvivenza) siamo dunque pronti alla guerrigliaintellettuale: con rapidi assalti e minimi contatti ciapproprieremo di mezzi, di canali, di megafoni, dirisorse umane, di ferraglia, di risme di carta, dicatarifrangenti, di tipografie, microfoni e quant’altro,per smontarle e rimontarle, al sicuro, lontano daltumulto della pubblicità, dell’attualità e dei riflettori.

Ci sono due modi di impostare il lavoro intellettualeche la redazione di questa rivista ritiene assolutamentedannosi e che cercherà sempre di evitare: credersitroppo forti e perdersi, farsi fagocitare, vendersi nelmercato oceanico; credersi troppo deboli e rifugiarsi,schizzinosi dal naso arricciato, nelle nicchie culturali,senza più tentare una sortita, circondati da pochiestimatori, (di certo molto eruditi e di buon gusto),farsi cullare dalle leggere onde lacustri che si fannosempre più deboli, mentre il sonno si fa più profondo,si dimentica l’infinita complessità del mondo, e il nostroamato lago, ormai unico orizzonte, comincia aristagnare.

Dario Honnorat(sulla base di idee discusse e condivise nelle riunioni

settimanali in più di un anno con Francesco D’Isa,Gregorio Magini, Matteo Salimbeni, Giamo del Fiore,

Elio Vittorini e Friederich Nietzsche )

CERCHIAMO COLLABORATORI

Mostro è cresciuto e si sente più forte, stiamo dedicandoci attivamente alla ricerca dicollaboratori che condividano un impegno non motivato dal denaro per un’attivitàintellettuale che ci renda migliori e più maturi. Cerchiamo creature che abbiano qualcheesperienza e qualche idea a proposito di vari settori del mondo culturale, che sappianoo siano interessati a capire come funzionano i meccanismi di produzione e diffusionedelle opere, di promozione e organizzazione di eventi culturali, che scrivano bene.Mostro vorrebbe raccogliere competenze che gli permettano di occuparsi diinformazione e critica: nel campo del cinema, nel campo delle arti ed eventi artistici,nel campo del teatro, nel campo dell’editoria, della saggistica, della letteratura, dellapoesia. Inoltre come sempre siamo felici di ricevere materiale pubblicabile comeracconti, disegni, saggi brevi, recensioni, foto ecc… che, come sempre, quando nontroveranno spazio nella rivista lo troveranno nel sito internet.

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di Gregorio Magini

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Allucinazioni Invisibilidi Dario Honnorat

Il giovane Italo, verso i vent’anni di età, fu vittimadi una sciagura che può essere compresa solo dalui stesso e forse da qualcuno che riuscisse, cosaimpossibile, a calarsi così a fondo nei suoi pannida vedere quello che lui vide, sentire ciò che sentì,provare tutte le sensazioni che provò.

Stava finendo la primavera del 1911 quando iprimi segni si manifestarono. La natura particolaredella disgrazia rende impossibile distinguere trasintomi e malattia, tra effetto e causa, tra superficiee profondità, tra cosa in sé e apparenza, ed è inquesto che consiste la sua specifica drammaticità.

Potremmo raggiungerlo con l’immaginazionequella domenica mattina in cui con un gruppettod’amici scendeva a salutare il mare, potremmosorprenderli, non visti, mentre si calano dallascaletta arrugginita stretta e lunga che porta aduna delle spiaggette più amene e menofrequentate di Trieste. Il percorso faticoso ha resola meta più dolce, veloci gettano a terra i vestitisudati, alcuni, soprattutto le ragazze, si sdraianoa raccogliere quei raggi quasi maturi, Italo ed altrisfidano l’acqua dell’Adriatico ancora nontemperata dall’estate e si tuffano.

Il sole è alto e abbaglia cominciando adeclinare, si formando riflessi argentei che simuovono scomposti col movimento leggero eimprevedibile del mare, colpiscono gli occhi efanno risvegliare sensazioni ancora intorpiditedall’inverno. Tutto è luce e i giovani s’agitano comedelfini tra gli schizzi d’acqua splendente. Italo è lìin mezzo e lotta a buttar sotto un suo compagno.Da molto tempo attendeva questo risveglio divitalità, senza saperlo. Ma proprio mentre unaparte di lui sembrava dire – ecco, c’era anchequesto di buono nel mondo, c’è la salute, c’è lagioia vitale del corpo…- spuntò fuori, del tuttoinattesa, un’altra sensazione opposta e altrettantoprimordiale. Un punto di stanchezza, di dolore,di malessere. Venne tirato a fondo dal suo amicoavversario, l’acqua salata gli riempì i polmoni e sitrovò a uscire tossendo, curvo, con le spalle airagazzi tremando di freddo strascicandosi versola costa. Una ragazza disse qualcosa come“Guardate il primo già si arrende”, Italo nonreplicò, restò serio, concentrato sul suo corpo, nonriuscì ad alleggerirsi la ritirata.

Battendo i denti si stese sui sassi arrotondatiun po’ in disparte, si sentì particolarmentescomodo quasi le pietre gli stessero entrando nellaschiena fra le vertebre o nei talloni o tra le costole,cercò di farsi passare questo freddo che penetravanelle ossa come fosse nudo sulla neve e si rigiròcercando una posizione che non gli desse dolore.Non riuscì più di tanto a partecipare agli scherzie ai discorsi, la sua attenzione si rivolgevasoprattutto alle sue stesse sensazioni, restò in unangolo fino a che con l’approssimarsi del tramonto,il gruppo non cominciò a prepararsi a rientrare.In quell’attesa aveva pensato più volte adandarsene da solo, ma l’idea gli metteva una granstanchezza addosso, come fosse un compitotroppo pesante per lui solo, non voleva sottolineareche qualcosa non andava agli occhi di se stesso edegli altri, non bisognava farne una gran tragedia.Quando si accennò ad andar via fu il primo amettersi in piedi e nel farlo sentì la sensazione diun leggero svenimento, come se il sangue non gliarrivasse alla testa: se solo si fosse visto dall’esternoavrebbe constatato di non essere affatto pallido,se gli avessero misurato la pressione l’avrebberotrovata normale. Mentre alcuni tardavano adabbandonare quell’atmosfera piacevole e altriproponevano di restare fino al tramonto luiattendeva impalato, senza rivolgere a nessuno laparola, con un’espressione ambigua tra il disagiofisico e l’imbarazzo. Un paio di persone si eranointeressate al suo stato, quasi portavoce dei vari“cos’è successo a Italo?” che aleggiavano nell’aria:di fronte alla vaghezza delle sue risposte se neallontanavano delusi, addirittura infastiditi dal nonriuscire ad inquadrare il problema.

Nel ritornare a casa, nell’arrampicarsi perrisalire la scaletta e i piccoli sentieri, Italo si sentivapesante, stanco per un nulla, e per quanto il fiatonon fosse particolarmente accelerato e il suo corponon stesse sudando, mentre altri sudavano, ipolmoni gli erano pesanti e faticava a tenere ilpasso.

Finalmente giunto al bivio per casa sua, salutòa bassa voce gli amici che si allontanavanochiassosi e pochi si accorsero che li stavaabbandonando. Arrivò esausto all’appartamentoe si buttò sul letto deciso a dormire di filato fino al

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mattino. E certo l’avrebbe fatto se non si fossericordato che aveva fissato un appuntamento conLivia, una ragazza che aveva preso a frequentareda un mesetto e di cui poteva dirsi innamorato.Le aveva promesso di andare a prenderla inbicicletta, una gentilezza a cui si era abituata, perportarla, per una volta, a cena fuori.

Facendo un piccolo salto temporale possiamospiarlo mentre pedala, portando in canna laragazza, ma ci riuscirà assai difficile immaginarelo sforzo a cui si deve sottoporre, soprattuttoquando si imbatte in una leggera salita. E ancorapiù difficile è per lei, Livia, riuscire ad immaginarele sensazioni che Italo fa di tutto per nasconderle,lo trova più silenzioso, meno scherzoso ed èpreoccupata che le stia tacendo qualchetradimento o cattivo pensiero. La cena a lungoattesa si consumò con ampi silenzi, fallivano itentativi, da parte di lei, di ravvivarlo, di farlosorridere e anche gli sforzi per capire cosa ci fossedi diverso dal solito: Italo si dichiaravasemplicemente un po’ stanco. Un’altra cosasospetta fu la reazione ad uno scherzo che gli fece.Dicendogli che il cibo era più loquace di lui si misea fingere una conversazione con quello che avevanel piatto e allungò la forchetta come peraccennare a tagliargli un pezzo di mano emangiarlo. Appena posò, con attenta leggerezza,la forchetta sulla pelle di Italo lo vide contrarsicome per un enorme dolore, come se gli avessetrafitto il palmo da parte a parte. Si scusò incredulae quando Italo smise di massaggiarlo, notò che ildorso della mano non portava alcun segno. Luiprovò a fingere che l’eccessiva reazione fosse unoscherzo, ma era stata una scena troppoconvincente e troppo falso suonava ora il tentativodi farla sembrare diversa.

Con grandi sforzi e preoccupazioni perentrambi terminò quella giornata: dopo l’ultimafatica in bicicletta ognuno si ritrovò solo a casasua. Livia, pensierosa e quasi offesa, tardava aprender sonno; Italo scopriva un dolore su tuttala pelle, come se il sole lo avesse ustionato, e sirigirava nel letto come su una griglia rovente,maledicendo quel giorno sfortunato.

Dal mattino seguente cominciò a prendereappuntamenti con medici di ogni genere, e diedeinizio ad una lunga serie di visite scoraggianti.Niente di strano nel funzionamento del suo corpo,perfetta salute, perfetta mobilità, nessuna

infezione, nessun sintomo visibile se non le suedichiarazioni. Lamentava stanchezza a dispettodi un corpo atletico che non dava segni dicedimento neanche dopo grandi sforzi, lamentavadolori di ogni genere, ematomi, scottature,abrasioni, e mai una prova, un livido o una feritaprofonda. Alla leggera pressione di un dito sullatempia, accusava un forte mal di testa, una grattatasulla pelle lo faceva sentire come se l’avesseroscorticato. Insomma: tutte le impressioni fisichespiacevoli erano aumentate d’intensità. L’idea deldolore che avrebbe provato se si fosseeffettivamente ferito lo terrorizzava.

Decise di spiegare la situazione a tutti tranneche a Livia. I primi tempi gli amici si dimostraronoattenti e curiosi di ascoltare le descrizioni dellesensazioni che Italo sosteneva di provare,facevano esperimenti “e se faccio così cosa senti?”,consigliavano possibili rimedi, ma crescevavelocemente nei loro animi l’idea che fosse tuttauna messinscena, più o meno cosciente, più omeno velata di pazzia autodistruttiva. Descriverei sintomi era un sollievo per Italo, se li potevastaccare di dosso per un attimo e trattarli come senon fossero suoi, per questo spesso non riuscivaa frenare i lunghi discorsi che scaturivanospontaneamente, anche quando notava chel’ascoltatore stava perdendo interesse. Solo conLivia non ne fece parola fin dall’inizio e fu in gradodi mantenere questo proposito prendendo tuttele precauzioni possibili perché non se neaccorgesse. E infatti non se ne accorse, maavvertiva che qualcosa era cambiato e andavaconvincendosi che il ragazzo si stessedisaffezionando e che presto l’avrebbe lasciata.Gli sforzi di Italo si concentrarono nelle uscite conLivia che si accorgeva di amare immensamenteanche nei suoi piccoli difetti. Si mise a frequentaresempre meno gli amici che si dimostravano semprepiù distanti, sempre più scostanti e infastiditi, laloro vita voleva continuare nella solita direzione enon aveva intenzione di fermarsi ad aspettarlo.

Andiamo adesso a dare un’occhiata in una casaprivata dove, su una terrazza assolata affacciatasul mare, si festeggia una ricorrenza: scrutandoda lontano con un binocolo vedremo un gruppodi una ventina di giovani attorno ad un tavolo, livedremo sorridere, ogni tanto scoppiare in muterisate, ogni tanto farsi seri di fronte ai rariargomenti che lo richiedono, e se facessimo

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abbastanza attenzione noteremmo, senza bisognodi sentire suoni e parole, come il comportamentodi Italo risulti puntualmente stonato, di poco, mairrimediabilmente. Per capire meglio avviciniamocifino a poter ascoltare cosa si dicono.

La conversazione tocca, leggera, una serie dipiccoli eventi, ammicca a fidanzamenti escappatelle, sfiora piccole invidie e piccoli successinel lavoro di questo o di quell’altro, punzecchial’orgoglio di alcuni e la vanità di altri, scivola suifatti più recenti delle vite dei presenti. Nonessendo al corrente di tutti i retroscena, Italo ècostretto a fare domande a cui spesso non seguealcuna risposta, a volte perché costringerebberoad esplicitare cose che non è bene esplicitare, inaltri casi perché il discorso deve muoversi e nonpuò continuamente attendere chi non lo segue,ognuno è teso ad un suo scopo: sedurre, divertire,apparire intelligente o profondo, informare ecogliere informazioni… e non si può perdere divista il filo troppo spesso. L’unica alternativa aquesto patetico domandare senza risposta è il noncapire, è il restare sempre un attimo indietroall’emozione generale: tutti ridono e lui è costrettoa restare serio o a ridere in ritardo e in modo falsoo a tentare un sorriso che vorrebbe significare“partecipo dell’allegria generale, ma non so da chederivi e non voglio fingere di saperlo” ottenendoinvece un effetto completamente incomprensibile.

Tutto ciò si ripercosse sul suo umore, gli restòsempre più difficile rimanere allegro. Sperò cheun po’ di vino potesse aiutarlo a tirarsi su e allungòla mano verso una bottiglia, che in quel momentofu afferrata dal Taldini. Rimasero un attimo fermi,uno con la mano tesa, l’altro con la mano sullabottiglia, poi il Taldini sorridendo si versòlentamente un bicchiere pieno fino all’orlo e lapoggiò più lontano. La mano di Italo era rimasta amezz’aria, innaturale e impacciata. L’attenzionedi molti cominciava a spostarsi sulla scena. Conla faccia di chi vuol mostrare di fare uno sforzo dipazienza Italo si alzò pian piano, per poterraggiungere il vino, intanto il Taldini bevevasogghignando con gli occhi. La bottiglia era vuota.Il pubblico rise.

Senza mascherare il disappunto che in altresituazioni sarebbe riuscito facilmente a non farnotare, senza sdrammatizzare un momento chein altri casi avrebbe facilmente alleggerito,restando in piedi, curvo verso il centro del tavolo

si tese ad afferrare un’altra bottiglia. Prima che lasua mano potesse raggiungerla il Taldini gli diedeuna piccola pacca sul dorso. La reazione di Italofu sproporzionata. Urlò per il dolore improvviso esi lanciò a pugni chiusi contro il rivale. Lo colpì unpaio di volte prima che potesse alzarsi, ma queipugni fecero più male a lui che all’avversario. Orail Taldini era in piedi e con un paio di colpi e unaspinta atterrò Italo che finì a contorcersi piangendodi dolore sul pavimento.

Nessuno fece in tempo a prendere le suedifese, anzi un paio di persone, mosse da unastrana specie di avversione, quasi indignati di averdovuto assistere ad una scena così patetica, quasiche il fatto di essere in difficoltà rappresentasseuna colpa, esplicitarono con qualche breve frasequello che era il pensiero a cui molti erano tentatidi credere: era tutta una farsa e non si poteva piùsopportare di vederlo lamentarsi per nulla.

Quando le forze gli consentirono di alzarsi, congli occhi rossi e la testa alta si guardò lentamenteintorno colmo di audacia sfacciata, di follecoraggio. I suoi amici più intimi, quelli cheavrebbero potuto difenderlo avevano approfittatodel tempo che era rimasto a terra per allontanarsi,oppure abbassavano lo sguardo ripetendosimentalmente che non c’era niente da fare, che sel’era voluta. Cercavano di trasformare i sentimentidi dispiacere e solidarietà che premevano dentrodi loro prima in una sdegnosa pietà, infine in undisgusto indignato, accordandosi al sentimentogenerale. Così Italo incontrò solo i pochi sguardidi chi era più deciso a disprezzarlo e più chiusonella propria incomprensione. Non gli restava cheandarsene e fece bene a farlo in silenzio.

Ritornava a casa dolorante e avvilito. Di colpoerano crollate le ultime illusioni, non c’era più daaspettarsi nulla da nessuno. Tranne da Livia, forse.Sì ora vedeva quella ragazza come un esseresovrannaturale, come la fonte di ogni suo bene,lei lo capiva per quanto poteva, rispettava i suoisilenzi e i suoi dolori senza interrogarlo, soffrivase lui soffriva, diventava raggiante se lui accennavaun sorriso. Gli altri potevano starsene protetti dallaloro meschinità, non erano uomini, non eranoneanche la metà di quello che avrebbe dovutoessere un uomo.

Qualche ora dopo il suo ritorno, inaspettata,giunse una visita. Era Fano, aveva assistito allascena con il Taldini, era rimasto fino alla fine dei

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festeggiamenti e poi aveva sentito il bisogno dipassare da lui. Veniva a dirgli che non erad’accordo con gli altri, che secondo lui si eranocomportati malissimo, senza scuse, che lui stessoera stato un vigliacco. I groppi che Italo si portavadentro, a quelle parole sembravano sciogliersi, larabbia che si stava cristallizzando si liquefaceva escolava via, le tensioni nervose si allentavano.Continuava a scusarsi e a dimostrargli amicizia,Fano, e non c’era da prendersela se da i consigliche dava trapelava l’idea che qualcosa nella testadi Italo non andasse, che il problema non fossesoltanto fisico ma psicologico, che Italo avessequalche responsabilità e non fosse soltanto unavittima. Si salutarono sereni, entrambi liberi da unpeso.

Subito dopo, sull’onda del buon umore e dellaleggerezza che lo aveva invaso, si ricordò cheerano un po’ di giorni che non vedeva Livia edecise di andare a trovarla. La trovò diversa, seria,lei che fino a quel momento gli aveva portatoallegria e serenità. Per reazione Italo sentì ilbisogno di essere lui quello gaio e scherzoso, manon funzionava: sembrava che la ragazza fosserisoluta a mantenere un atmosfera seria, in cui lepoche parole risuonassero in tutto il loro senso.Finalmente cominciò a tirar fuori ciò cheevidentemente stava rimuginando da tempo, e cheItalo ormai stava presentendo.

Gli disse che i primi tempi stavano tanto bene,ma ultimamente, anzi già da molto qualcosa eracambiato. Fece una pausa cercando le parole chetante volte si era ripetuta in mente e ora uscivanodiverse. Ripartì con un certo sforzo, sosteneva chele cose non andavano, che di certo se ne rendevaconto anche lui, (Italo non la guardava, ora erasicuro di sapere dove sarebbe arrivata) cheall’inizio aveva pensato che fossero fatti per stareinsieme, che era stata veramente entusiasta esincera che non c’era nulla di cui si pentisse, mase ciò che li legava si era già ridotto così significavache non era stato un sentimento molto forte.Aggiunse che sperava che lui fosse d’accordo, cheavesse cominciato a pensare le stesse cose. Adocchi bassi, con un tono per nulla persuaso Italorispose che sì, certo, lo pensava anche lui, soloche… ecco… non aveva trovato il coraggio, leparole… Livia s’illuminò per un attimo,completamente soddisfatta.

Da quella sera le giornate, ormai estive, sifacevano sempre più lunghe e vuote. Eraimpossibile non notare che la sensibilità ai dolorifisici continuava ad aumentare col tempo.Qualsiasi pressione adesso lo faceva patire: sestava seduto soffriva all’osso sacro, sdraiato allaschiena o alla pancia, in piedi ai talloni. Certe voltesentiva il desiderio di tornare dal gruppo di amici,ma temeva di non avere spirito sufficiente allasituazione, se solo lo avessero invitato avrebbeforse trovato il coraggio di ritentare, di andare acontrollare se c’era qualcuno ancora su cui fareaffidamento, ma presentarsi da un momentoall’altro al bar dove il gruppo si ritrovava era troppoper le sue forze. Così passava intere giornate incasa, qualche volta faceva una breve passeggiata,leggeva per passare il tempo.

Tornò a trovarlo Fano. Italo credeva chesarebbe ripassato prima e già da parecchi giornilo aspettava guardando ogni tanto dalla finestrase stesse arrivando, lo aveva persino sognatoassieme a Livia. Quando finalmente arrivò lo colseun entusiasmo ansioso, una smania sproporzionatae nel tentativo di controllarla assunse uncomportamento che passava improvvisamente dauna calma ostentata ad una strana irrequietezza.Lo tempestò di chiacchiere e di domande a cuil’amico rispondeva in modo evasivo, in evidenteimbarazzo. Quando Italo aprì la bottiglia che avevatenuto da parte per l’occasione le cosepeggioravano: Fano beveva poco, giusto per nonrifiutare, lui si riempiva nervosamente un bicchieredopo l’altro e non riusciva a fermare le parole.Ogni pensiero che esprimeva gli faceva venire inmente molte altre cose di cui avrebbe volutoparlare, l’altro invece, intimidito da quelcomportamento insolito, non riusciva a trovareniente da dire e si chiedeva cosa ci fosse andato afare lì. Ma ormai Italo gli stava spalancando leporte dei suoi pensieri più intimi e non c’era versodi fermarlo, raccontava di Livia e di come l’avevalasciato, lo incalzava, gli chiedeva cosa pensasserogli altri della sua malattia, cosa ne pensasse lui ecosa avrebbe fatto al posto suo.

L’amico fu costretto a rispondere, gli spiegòche secondo lui non era una vera e propriamalattia, che non c’era un problema reale, cheavrebbe dovuto tentare di riprendere una vitanormale e le sue impressioni di dolore sarebberopresto diminuite, che l’unica cosa che non andava

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era il suo modo di comportarsi e se avesse fattouno sforzo per controllarsi tutto sarebbe andato aposto… insomma in certi momenti nasce un istintoa tormentare se stessi che, anche se non ce neaccorgiamo, è spinto dal desiderio di torturare inqualche modo chi si ha vicino e così si crea sulnulla un brutto circolo vizioso, disse. Questarisposta tolse a Italo ogni traccia dell’allegria chelo aveva invaso. Si sentiva come se, nel tentativodi spiccare il volo, si fosse schiantato a terraaccorgendosi solo in quel momento che stavaprecipitando da ore, sbattendo inutilmente lebraccia.

Esaurito l’entusiasmo che manteneva viva laconversazione si formò un grande silenzio. Sipoteva sentire il meccanismo dell’orologio dall’altrastanza. Fano ne approfittò per congedarsi e Italonon aveva più energie per trattenerlo. L’amico nontornerà più a fargli visita fino al giorno del suofunerale.

Passò più di un mese e ormai non c’era più nullaal mondo a cui Italo potesse allacciare un filo disperanza, di passione. Trascorreva il temposdraiato sul letto senza pensare a nulla, mangiavapochissimo, dormiva molto. Sentiva che sarebbepotuto morire di dolore da un momento all’altrose si fosse ferito appena più che leggermente.Teneva chiuse le finestre e viveva nella penombra,non accendeva luci, non si accorgeva del giornoe della notte, non si accorgeva che l’estate stavafinendo.

A volte nella vita, verso la fine di un periododifficile si comincia a provare il desiderio di aprirsinuovamente al mondo, si comincia a presentirespiragli di luce, i segni di un nuovo inizio di felicità.Italo non poteva vedere niente nel futuro. I pochipensieri dolci che lo visitavano erano di un passatoche pareva perso nel tempo: i ricordi delle primeradiose giornate con Livia. Tanto più ladisperazione lo strozzava alla gola quandoguardava avanti, tanto più nel voltarsi indietro glisi scioglieva in lacrime il peso che portava nelpetto.

Ormai siamo entrati troppo nella vita del nostroprotagonista per distinguere se quello che vedevafosse vero o fosse falso. Non è possibile pensareche un dolore non esista nel momento in cui siprova. E non potremo più distinguere se quelloche vide, sentì e provò fu sogno o realtà, attraversoi suoi occhi non c’è differenza.

Nella stanza entrò Livia, col vestito leggero e ilsorriso malizioso del loro primo appuntamento, esopra questo volto portava un altro viso, di dolce,infinita comprensione. Era evidente che avevacapito tutto, che da quel momento gli sarebbe statasempre vicina. Lo carezzava dolcemente e luisorrideva beato, sentendosi sbranare la pelle, glipassava le mani tra i capelli e lui piangevacommosso sentendoseli strappare, lo baciò conpassione mentre la stanza già svaniva.

E la morte arrivò, fu uno squillo di luce.

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‘Maledizione’ di Dario Pisconti

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Sogni di Mortedi Gregorio Magini

Sono morto nella città dove le ferite non sirimarginano. Rimediai un taglio sul labbro inferioredurante una violentissima colluttazione. Mi risposecon un violento buffetto da sotto in su, al mento,così forte che si poté udire lo schiocco: “pif!”nonostante la mia barba lo attutisse. I miei incisivisuperiori, per quanto ben smussati, dovetteropenetrare per lo spazio di alcuni decimi dimillimetro all’interno della tenera mucosa del miolabbro, lacerandola, segnando così la miacondanna a morte.Tutti intorno nel locale mormorarono di orrorequando videro una punta di liquido rosso segnarmile dita che m’ero portato alla bocca. Indietreggiaidi alcuni passi, allargando le braccia, smarrito. Ilmio rivale si diede alla fuga quasi di corsa, congran pericolo della sua vita.

«Ragazzo, rilassati adesso,» mise le mani avantiun vecchio, facendo scricchiolare le babbuccesulla moquette. L’osservai, guardai gli altri, atterriti:«Sto per morire,» vociai: «Sto per morire!»

«Ma no, ragazzo, da’ qua, fa’ vedere…» Ma tuttiavevano visto il sangue. Alcuni già siallontanavano, chi per disinteresse, chi per timoredi una mia disperata reazione. Mi voltai, mi giraiattorno in cerca di uno sguardo amico.

Urlai di nuovo agitando un po’ le braccia,stillando sangue intorno. La folla si aprì versol’uscita del locale e, in pratica, mi ci sospinse. Nonsentivo dolore. Ma sarebbe venuta la spossatezza.Già il mio rivale guadagnava distanza. Gli gridaicon quanto fiato avevo: «Spero che tua figliainghiotta una lama fuoriuscita dal seno punzutodi quell’arrotina di tua moglie!» Non rispose, nonsi voltò, non mi dette alcuna soddisfazione erapidissimamente svoltò una curva.

Ritoccai la mia ferita con la punta della lingua eportai a coscienza che quello era il sapore delsangue. Ricordai l’indovinello: «cos’è quella cosache hanno tutti ma chi mostra muore?»

Una volta, da bambino, per spirito spigoloso,avevo esclamato: «la pietà!» I grandi mi avevanoguardato inorriditi e mio padre mi aveva punitoduramente osservandomi con riprovazione per oreintere.

Mi sedetti sul marciapiede gommoso e mi presila testa tra le mani. Restai lì a lungo prima di

assopirmi nell’ultimo sonno. Guardai ogni gocciadel mio liquido vitale colar giù sulla via, impotentedi fronte alla condanna della natura che subitodivenne quella dei miei simili: avevano fattochiamare il carro da morto e questosilenziosamente era giunto con le sue ruotefelpate.

Quattro becchini in nero avevano posato le astecilindriche e si erano messi a loro volta a sederesul bordo del marciapiede. Si tennero a unadistanza rispettosa ma vidi col mio sguardo giàoffuscato che si scambiavano scommesse sulla miapermanenza; passavano anche dei figuri e cifurono furtivi passaggi di mano e io sperai chepuntassero su una lunga agonia.Eppure agii in modo contraddittorio, perchéricordo (come ricordo bene tutti quegli istantiestremi di attesa) che decisi di non inghiottire ilsangue che mi fuoriusciva: avrei presto o tardirigettato tutto, sapevo, aggiungendo disgusto atragedia, recando scompostezza alla mia fine purdi guadagnare ancora istanti, ancora attimi di vitama soprattutto di coscienza.E così permisi al tartan sotto i piedi miei di bereavidamente il mio fluido, lasciai macchiarsi imocassini miei di schizzi purpurei,concentrandomi piuttosto nel sostenere l’animamia nel non prendere commiato; nell’aiutare lamente mia a struggersi per poter filtrare dal sangueai polmoni e da là affrancarsi nell’atmosfera;nell’autorizzare le mani mie a percorrere lasuperficie della pelle sotto i vestiti finché non chiusigli occhi e smisi ogni movimento. Pensai che avreivoluto vivere ancora, anche sanguinando, anchesognando, anche così, ma i miei addetti già sialzavano e già si consultavano, e già con prudenzasi accingevano a portarmi all’obitorio.

***

Sto morendo per l’eternità nella città dei mortiviventi. Deve essere un incubo questo, perché mipare di ricordare un tempo in cui ciò che oraaccade accadeva solo negli incubi di alcunepersone stranamente impressionabili.

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Mi trascino in questi sottosuoli, fogne,metropolitane, perché l’oscurità qua sottonasconde gli orrori che mi circondano. Il liquidoorganico in cui sono costantemente immerso finoalla cintola è meno spaventoso di quanti ancorabrancolano per la superficie devastata, anche seso, se non posso dimenticare un istante che essoè in qualche modo vivo e ha coscienza, nonessendo che un ulteriore più avanzato stadio delnostro universale disfacimento.

Infatti la mia sofferenza si acutizza terribilmentequando mi imbatto in qualcuno che come meriesce ancora a camminare. Le prime volteresistevo e urlando e piangendo massacravo quegliesseri senza assaggiarli, continuando a battere conla mia spranga e con i pugni finché tutte le loroossa erano spappolate e la mandibola una poltigliafinalmente innocua. Ma col tempo mi sono arresoai miei istinti come tutti e la mia rabbia e il mioorrore non si placano finché non ho mangiatocompletamente il mio simile. Mi pare ormai unacosa naturale e non potrei farne a meno.

Ricordo sempre peggio il tempo in cui mangiareun essere umano sarebbe stato per meimpensabile. Ho solo una vaga nozione delladisperazione che mi abbatté quando mi resi contoche mangiarci era l’unico pietoso metodo peraiutarci tra di noi.

Comunque preferisco tuttora la solitudine. Miporto dietro delle ossa che rosicchio per sedare imiei istinti, timoroso che potrei finire col mangiarmida solo. Nonostante tutto non voglio morire.

Cannibalismo… Lo chiamavamo cannibalismo.Posso ancora richiamare alla coscienza il giornoin cui seppi che le persone avevano smesso dimorire. La società nei primi mesi si rifiutò anchesolo di pensare alla realtà della cosa, e così nonaccadde nulla, nello stesso modo in cui un veicoloche viaggia molto velocemente, precipitando daun viadotto, nei primi istanti della sua parabolaprocede praticamente senza cadere. Ma quandole persone presero d’un tratto a mangiarsi tra diloro tutto crollò in poche settimane. Ci furonoeroici tentativi di gestire la nostra inaspettataimmortalità, ma l’anarchia e la violenza prevalseroin un’orgia di sangue. Tanto più efferata quantopiù diveniva chiaro che le nostre coscienze sirifiutavano di spengersi anche alla completadistruzione del corpo.

Non che se ne possa essere certi, però losappiamo: questo liquido organico, risultato delmacello di milioni di esseri umani, continua adospitarne le anime. Esse pensano.

Ormai siamo pochi ad aver mantenuto unaspetto umanoide. Io sono stato forte in questisecoli, e molto fortunato. E come vedo daglisguardi delle mie vittime prima di mangiarne gliocchi, siamo tutti attaccati al nostro corpo comealla cosa più preziosa.

Non saranno infatti che pochi decenni cheriportai la mia prima ferita mortale, un morso chemi strappò metà parte del collo. In precedenza,avevo rimediato solo un brutto taglio al labbro, dacui però era uscito tantissimo sangue. Fu duranteil crollo del mondo: mi ero svegliato al rumoredegli elicotteri. Sollevandomi di soprassaltoaccanto a mia moglie, mi morsi il labbro inferiore,da cui iniziò a uscire tanto di quel sangue daspaventarmi. L’esercito dava fuoco ai quartieri checonsiderava persi. Scoprii in quell’istante di abitarein uno di questi. Non feci in tempo ad arrivare albagno per tamponare la ferita che il palazzo crollò.Vidi per un attimo il corpo straziato di mia mogliecontorcersi e il suo volto amato implorarmi lamorte. Accadde mentre precipitavamo. Poi fu tuttooscurità e polvere nei polmoni e non la vidi più.

A volte apro i palmi delle mani e immergendolein questo brodo provo a mettermi in contatto conlei. So che è qua sotto da qualche parte. Ma ormaicerco un essere senza immagine, perché la miamemoria si confonde sempre di più… E forseperché tutto sta perdendo aspetto. Le cose stannosvanendo, e i loro nomi si mantengono solo nellenostre menti, disperate di dover ricordare persempre, speranzose di poter un giorno dimenticaredi aver posseduto un corpo…

Nel frattempo mi chiedo come sia potutoaccadere tutto questo. E dire che avevamo sempredesiderato l’eternità… Purtroppo non avevamotenuto conto dei nostri istinti – del nostro amore,insomma…

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Nel Marzo 2003 è stato aperto a Firenze un cantiere destinato alla costruzione di un’enormestatua alta sette metri: la Venere biomeccanica.Il 25 aprile Firenze sarà invasa da saltimbanchi, da vari ambulanti del suono, da nuovi illusionistid’immagini e vecchie, redivive osterie.La Venere sfilerà raccogliendoli di vicolo in piazza, d’antro in sobborgo e le decine di dozzine dipersone che l’hanno costruita, progettata o semplicemente pensata come emblema attraversocui rinnovare i propri “mestieri”, la propria esperienza, andranno a confluire nel grande parcodelle Cascine in un allegro tripudio che durerà per i due giorni successivi restituendo agli antichifasti l’Anfiteatro ed ogni angolo d’intorno.Questo Dossier è il passaggio dalla messa in scena alla messa in discussione di un simbolo,dall’apoteosi alla critica; la potenza visiva di Afrodite, le sue innate capacità evocative sarannoapprofondite, a queste verrà dato il senso profondo ed articolato di una nuova, proteiforme,temporanea mitologia.Non abbiamo inteso ricamare di fantasia intorno alla Venere Biomeccanica bensì, attraversotrasfigurazioni narrative e l’uso strumentale della storia, abbiamo dato vita al Racconto di quelmovimento di cui la Venere è la manifestazione iniziale. Abbiamo sentito il bisogno, per proiettarcinel futuro, di riprendere alcuni significativi elementi del passato.Attraverso la linea cronologica le quattro parti che compongono il Dossier (Grecità, L’Opre e gliIngegni, Manifesto Antifuturista e Profezia di Afrodite) sono divenute quattro punti di vista sulcorpo e sullo spirito già multiformi della Venere.Ognuno di questi, con le sue peculiarità ed il suo linguaggio, servirà ad illuminare un frangente, achiarire la scelta che ci ha portato a fare nostro questo Simbolo.Nella speranza che questo Dossier venga sfogliato con attenzione lasciamo, adesso, spazio allalettura.

La Redazione di Mostro

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Un Vecchio di Barbadi Giamo del Fiore

CapodannoCapodannoCapodannoCapodannoCapodanno

Un vecchio di barba ammira distesoOv’è nulla neve sfiora il suo pesoPiange ridente autunno che vaE lascia a sé dietro filari di ma.È ancora mattina e il vecchio rivedeSperanza di vita il nulla precedePuò ancor toccare qualcosa ch’è frescoMentre la barba parla: - Io cresco! –L’ occhio ch’è triste al pensiero è la pesteSente, rimembra le vecchie tempesteE cento ora sono e mille sarannoIn questo giorno di capodanno.

FFFFFebbraioebbraioebbraioebbraioebbraio

La neve si scioglie l’acqua ora cadeEi son Saraceni trafitti da spade…Il sangue zampilla al ricordo di terreChe vivono ancora ai pensieri di guerre.Il vecchio non piange sapendo davantiMilioni di gocce son stelle cadentiResta disteso immobile boccaAperta all’entrata di vita che tocca…Prende profitto dal cielo che mutaNuvole sole sposate : - Chi sputa? -Alcun dice dio “l’Onnipotente”Che offre i suoi doni da bravo serpente…È il vecchio che pensa la barba rigonfiaE intanto lassù c’è qualcun che ci stronfiaViolento il suo freddo notte invernaleFerita di un vecchio saggio morale.

PPPPPrimaverarimaverarimaverarimaverarimavera

È ormai primavera il vecchio sorrideA vita che nasce al clima più miteSi alza dal manto verde coloreE mangia dal suolo un volo peyote.

La mente diffonde lo spazio incoscienteSente le cose mai viste speranze……sgranchisce le gambe barcolla ubriacoe torna il dolore ricordo passato.Il sole or asciuga le lacrime morteCresciute nel bimbo vecchiaia lo mordeEi crede di essere forse un po’ stancodella sua vita o d’avere il suo manto.Or cala la notte le stelle son molteNon più neve fredda or rime sognanteEppur c’è qualcosa che ancor non capisce:- Perché voglio credere d’esser celeste? -

AgostoAgostoAgostoAgostoAgosto

il sole combatte e bagna rugiadae l’albero grosso che funge da preda,il vecchio sorride l’attesa è di lunaè solo un soldato che sconta la pena.La barba ora è ferma povera incoltaRimpiange la chioma dolce raccoltaE c’è un lieve vento volante cielatoChe sfiora il suo volto secco sciupato.È il tempo che passa distrugge i compagniLontano dagli occhi distante dai sogniChe eran purezza un dì nel pensieroNel vecchio passato che or dice : - Ero! -Intanto lo sguardo s’è assorto nel sonnoE gioia farfalla svolazza nel giornoSi posa sul grigio naso che vivoTrae’l respiro da ciò che io scrivo.

AAAAAutunnoutunnoutunnoutunnoutunno

La foglia ingiallita svolazza sul suoloIl sole è sparito nascosto dal cieloE il vecchio ingiallito è già giù in ginocchioAttende di chiudere il suo primo occhio.Rossa è la luce che il fuoco riscaldaE in terra già appare una buca rotonda,

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chissà chi sarà fortuna o sfortunale vite già perse son là sulla luna.Il vecchio sorride sapendo che nientePuò esser più niente del mondo ch’è nienteE il cielo che nero coperto da séFa nascer domanda del vecchio: - Perché?-Risposta non c’è parla l’alma sfinitaMa presto saprai quando perdi la vita,paura lo assale la sente vicinae il cuore già piange sangue di spina.

InvernoInvernoInvernoInvernoInverno

Ritorna di nuovo il bianco biancoreChe dette alla vita purezza in colore,

il tempo ora appare e un po’ già si sfumaricordi di ieri leggeri di piuma.Il corpo appoggiato si vede di fiancoSparir la sua ombra di un vecchio ormaistancoRimpiange e non piange purtroppo distesoÈ stato un istante guidato dal caso.Dolore, dolore, dolor che la fonteNon dona più acqua le luci son spente,qualcosa si muove va via dalla facciaè l’anima, guarda e saluta la gabbia.Piano nel lento salendo la scalaSi volta ogni tanto volando a candela,davanti ora ha tutto ciò che non sapevae in mano ha una carta: “La vita viveva,il vecchio di barba ha lasciato il suo portoor’è nave sola pel mar cielo aperto”.

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di Manuel Olivares, 2001

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Verrà un brigante e avrà i tuoi occhidi Matteo Salimbeni

“Certo un rapimento di quandoin quando può far piacere,

ma stasera sono di teatro...”Intrigo Internazionale.

Una notte settembrina in cui si insinua ilgermoglio d’un rapimento deve avere treprecetti a cui s’attiene:

si ponga come regola sovrana la pioggia,prego;

pioggia costante e leggera, ma sottile,percettibile solo alle sagome discinte.

Si aggiunga, doveroso tributo alla logica,una vittima ed un brigante: che la prima, gliobblighi dei grammatici a definirne il genere,sia femmina di bel portamento, poche efelidia umettarne le gote, nessun gingillo (salvo unneo sull’alveo sinistro del naso) a impegnarleil volto, che il secondo sia creatura di vetro dicarta di latte, di tutti quegli elementi nati perperire senz’avviso o annunciare fatalitàinaspettate.

Infine, completamento ideale d’ogni benguarnita fricassea d’intenti, d’ogni tisana delmalfatto, si aggiustino tre scaltri affilati coltellinella tasca del boia: uno per rubarla ailusinghieri inviti della ressa che la scuote e lasvirgola in più direzioni, uno per tenerla strettastretta nella mano (perché se l’amore è fragileazzardo, la fuga non ancora corrisposta lo èdi più), il terzo una scorciatoia sull’iride percustodirne il cammino.

In bilico perpetuo fra l’indistinto mare delterriccio e la pioggia che, dall’alto, cadeva lentastava, a ben guardare, la città.

Da lunghi, uggiosi mesi di tormento senzaposa un recapito celeste distillava, malizioso,gocce lievi, ostili e molli sulle (divenute)spiagge di quei borghi miserevoli.

Senza senno, senza ossequio.Producendo morte e orrore nei quartieri,

nei dintorni.

Sembrava che ogni rifugio della città, cheogni cortina o paravento per famiglia, che ognisipario drappeggiato ad intimo dovesse pagargabella alla pioggia sovrana, esserne viziato,perlomeno sfiorato, entrarvi in licenzioso,malaugurato contatto.

E chi vi camminava aveva la tristeimpressione di non poter guadagnare nessunconsueto loco perché bassa, densa e grevecome una minaccia era la foschia e vaticinante,nulla più, diveniva lo sguardo che osavaattraversarla e silenziose ed incerte, vaghe,irreali, aliene s’annunciavano le sembianzedella notte.

Il viandante che in quelle ore ebbe aintraprendere la via del ritorno fu costretto alloscomodo sentore di non saper ripetere,bambino, la strada di casa poiché dovunquegli appariva la curva sbilenca della carastaccionata o dell’adorato covo, ma quelle nonerano, poiché dovunque credeva vera lasagoma del granaio, ma solo, e solitario,giocava i suoi pensieri nella nebbia.

Vinto da quell’antica sindrome egizia cheponeva nel sacro aedo il terzo occhio o il“doppio incanto dell’alligatore” (la palpebracioè frenata sotto il velo trasparente d’un’altrapalpebra che avverte l’assalto adiposodell’ippopotamo) il viandante si convinse, lapalpebra che nella nebbia trovava seconda,ingannevole palpebra ,di avere, bambino,smarrito la strada di casa o di rinnovareeternamente il proprio approdo.

E mentre la pioggia continuava a dilettarsistingendo dai tetti, dai recinti degli ovili, daisagrati aperti a preghiera sulle corti la memoriadelle antiche mattinate in cui i monelli, la pallae la pietra nella mano, gridavano al mondo unvetro per esistere, un eco disumano di fraschespezzate e di tremanti frane muoveva,delirante, il suo disordinato canto pe’ boschi ela città: fendendo la bruma coi colpi muti deisuoi passi un’ombra poderosa entrò a far parte

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della notte ed invase, febbricitante ospite, itiepidi singulti di tregua che lambivano il sonnodei paesani.

Accadde, allora, qualcosa che era giàtrascorsa innumerevoli volte, ma tanta ful’intensità con la quale gli incubi accorsero aigiacigli e vi versarono gli antefatti della mentee tanto lo sconcerto degli elementi che idormienti si fecero sudore e le rocce brinaronoin argilla ed un cedro, si dice, gemmòl’innaturale di chicchi di mimosa, d’aculei (sultronco e per i fianchi) odor di rosa ed i corsid’acqua presero a sputar rane, anguille, fiered’ogni fatta e gli stessi artifizi divini, colti allasprovvista, basiti dal non profetato chiasso,arrostirono di vergogna le granitiche Veneri incui avevano oziosa dimora.

Non s’abbia a dire che l’ombra in questionefosse falsa avvisaglia o polpa eterea di concettoperché, lo sussurrarono le ninfe anguicrinite,ne furono testimoni i sommi sacerdoti:

“…tutto questo fu vero \ e cupa fuquell’ombra \ che senza volto o corpo \baluginò corvina sulle magioni afflitte da moltedipartite, \ sui corpi freddi inerti dei piccolisepolti \ su madri disperate \ (che dondolano)\ che dondolano al fuoco d’un

camino \ la grazia ormai bugiarda didiventare nonna”

Gli autoctoni, col tempo e l’alluvione,avevano preso a consuetudine l’unguentoamaro delle lacrime e, come mucca (nellapoppa) fa col latte, avevano fatto fagotto delpenoso fato iniziando, con docilerassegnazione, a portarlo appresso.

Smettendo la sofferenza, i suoi vanagloriosighiribizzi, la città diventò bianca ancella dellamorte, ma quella notte conobbe l’angustia elo squasso; sui suoi abitanti calò il terrore.

Terrore d’esser presi e rivoltati, d’essercondotti schiavi di paura, terrore di coniugarsial dubbio o d’avere desinenze incalcolabili,terrore d’esser proclamati a giorni sconosciuti..

L’ombra che venne era il dubbio che liassaliva.

Avrebbero preferito altro messo o forseavrebbero preferito, ancora, le nubi pesticciatedelle proprie stalle, le aurighe da sbronzareper meritarsi la tempra austera di un usualeaccidenti.

Ma venne l’ombra che non era buona nécattiva, ma neo.

Ne furono contriti.Il fiacco guastafeste camminava, nel

frattempo, per la boscaglia, ombra ingenua esconsolata, fino a giungere alla piazza dovebevve alla fontana moli ingenti d’acqua fresca.

“Che bontà, signori!” ebbe a pensare.Poi ribevve.“Frescolina -la pensò- cosa son venuto a

fare?- ci pensò e poi soggiunse-Io diventerò il carnefice, il suo boia, la sua

manna, lei sarà il caso strano, il mio amorestralunato.

Sì…lei vittima, io brigante.”Poi ribevve ripetendo molte volte di

continuo fino a sembrar demente: “Lei lavittima e poi, dopo: io brigante.”

Poi ribevve, fu ubriaco, caddeaddormentato.

Sognò un giorno in cui era intento a tagliarela foresta di platani, sognò un giorno simile amolti altri poiché molto spesso si recava allafoce dei platani per far dei platani (nei plataniera solito rinchiudere i propri figli) ampiemadie dove rinchiudere la numerosa prole neigiorni di festa.

Quello stesso delirio, quello stesso sognovenne a trovarlo un nemico.

L’ascia batteva l’aria nello scendere sul suomartire di legno e proprio quando la lamas’accingeva, con violento impatto, a decollarei tendini secolari dell’albero una strana essenzagli si fece incontro.

Era tinta a carnevale e sprigionava vaporiindefiniti, parlava caldo a scarabocchi,

ad arzigogoli e quando gli si avvicinò lui sisentì svanire d’un prurito che vanifica,

di un gusto e di un piacere estraneo. Nefu disossato.

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“Che gusto estraneo. Quanto a incupirmim’incupisce, ma pure me ne sentoinvaghito…” disse a fatica.

Lei provò ad avvolgerlo, lui la respinse etanto facile gli sembrò quell’allontanamentoche avvertì quanto poco senso avesse oramailo sbuffo coraggioso del rifiuto.

Fu lui, allora, affascinato, ad avvicinarla:“Andiamo…aspetta…lascia il

passo…lasciami almeno ildesidero…aspetta…già mi guidi? “ provò convoce e voce non ne nacque…

Ma il sogno, bastarono pochi minuti, sispezzò d’improvviso: la fontana, fresca e lieta,era ancora al suo fianco, ma sull’altrocampeggiava un margine sconosciuto,obliterato qua e là da minuscoli mancamentidi spessore, una glauca silhouette che parlavaa denti stretti attendendo il suo destarsi.

Fece finta di niente, s’avviò per la boscagliaquand’a un tratto, repentina e cedevole,un ’impronta sulla spalla lo chiamò adascoltarlo.

“Tu il brigante, io la vittima.”“Inspiegabile!”“Ma tu conosci il gioco! Forse è l’acqua

che ti offusca la memoria?”“Ho ottima memoria” e ribevve.“Allora?”“Allora cosa?”“Io la vittima e tu il brigante.”“Lo so già, cosa ripeti?”“E perché scappavi furioso verso la

boscaglia?”“Io sono brigante”“Appunto.”“Acciocchè io sia brigante devo in fretta

scantonare nella macchia.”“E la preda tua? Senza preda non c’è fuga.”“Sei tu?”“Cosa credi ch’io sia: la fuga o la preda?”“ - ““Titubi forse?”“Rammento! La preda.”“Giusto. Lo avevi dimenticato?”

“Ho ottima memoria ed in tutta sinceritàgià da bambino tendevo a non scordareniente.”

“Dunque?”“Dunque proprio tu? Tu la vittima?”“S씓Allora taci e vieni alla boscaglia”La prese forte e stretta e con lei varcò il

confino.Riflettendo sul da farsi dirimpetto ad un

ruscello la montò sulle sue spalle (non avessea lamentarsi, non avesse un pò a bagnarsi econ lui dimenticare): le calosce fatte fradicela condusse ai silvestri giacimenti, alle nubiverde scuro della giungla suburbana e là, leila vittima, lui brigante, la poggiò leggera alsuolo.

La città, a ben scrutare, si era persaall’orizzonte e languiva sotto i tocchi ed irimbotti circospetti della pioggia: sibilavano ipilastri e coi fregi s’incrinavano nella slitta dellefalde, acute stridevano le guaine ed i cantonidel cardo e del decumano, tutto aveva, fosseaiuola, fosse casa dolce casa, il suo brevecedimento, la sua brava crepa al muro.

La città era un’orma sulla retina che lapioggia un giorno avrebbe, con baldanzascriteriata, cancellato dal terreno.

Se vista da lontano: il vano anchilosato diun bassorilievo contratto su se stesso.

I tuguri dei più umili scomparivano dietrofosche correnti lattiginose, le guglie seghettatedelle cattedrali, lo sfarzo travertino deimonasteri ed ogni altra altezza d’architettoerano circondate da un nugolo d’esalazionifantomatiche che ne attutiva i contorni, chene incassava, con imbrunita cipria di tempesta,l’aspetto.

Ed era cosa ardua, da lontano,nell’arabesco folle di spire polverose, nelmulinare inquieto di venti turbinanti,ghermirne un’impressione, un ultimo profiloper darle il triste addio.

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“Sai tu la strada.” irruppe nell’incanto lavoce del brigante.

“Io vittima?”“Tu sola, per natali ed alto rango, la

conosci.”“E tu?”“Io, per amnesia infinita e basso grado, non

debbo ricordarla.”“Sarò io a condurti.”“Ed io, brigante, ti seguirò. Ti custodirò.”“Che bel sentire.”“Cos’ hai sentito?!”“Ciò che hai detto. Esso mi è di

conforto…lo hai già dimenticato?”Ed insieme s’avviarono laddove la foresta

rifioriva le sue profondità in cupe tenebresenza fondo (o di fondo assai distante).

Al loro folle ardire i ciclamini drizzaronole petulanti ali carpendo forte al calice i piedigonfi e tondi dell’ombra farabutta e dagl’intonsibordi della foresta sfilarono a branchi le setolesfrangiate delle malvagie liane serrando avegetale assedio ogni fuggiasca leva.

Un platano anziano e dissenziente futaciuto: i muti bracci secchi (suoi adultiintendimenti) con cui orlava l’arco dell’aria glifurono mozzati dall’arrogante tonfo d’un tuonoimpostore.

Caddero come i rami spenti d’uncandelabro.

Plastici sulle nigritelle, sui nidi merlati deglistagni, senza far rumore.

Sfinita dalla lotta con le foglie furibonde lavittima disse al brigante:

“E’ adesso che potresti liberarmi.”“Ho sete, non riesco a abbeverarmi, come

potrei salvarti?” rispose il brigante.“Eppure hai giusto nel mantello un fido

coltellino”Ed il brigante incise sconfortato, con calma

brutale ed inviolabile, le braccia degli arbusti,poi lei costrinse lui a trarre dalla tasca un’altrafredda lama e la sua mano pose in quellacelestiale del suo compagno intrepido.

Così, per qualche miglio e mano nellamano innamorati, guadarono il fango ed i

fossati, le gobbe acquitrinose di lontre un po’sornione, aggrediti aggredirono torme dimoscondori in volo, alla digestione dellemelme mobili si salvarono saltabeccandod’orchidea in orchidea;

con strepiti dolcissimi di battaglia ridusseroal silenzio le gracidanti spade dei coleotteri,con l’arte del mendace convinsero lo scorpionea battere ed affondare lo scorpione, lambitidai dardi oscuri di ortiche velenose usaronoanelli di trifogli come maglie a fior di pelle;

con cieco impeto di clava infierirono sullecreature meno avvezze alla lotta, sulle piùconfuse, sulle poche scampate, per provvisoriaventura, al massacro: caddero i becchi degliornitorinchi, i baffi delle timide foche, glizoccoli palmati delle anitre;

ci pensò il brigante a snidare la talpa ferocedal facile rosico di pelle, a ingannarla ericondurla al cunicolo la vittima, assieme, confoga ultraterrena, uccisero l’insetto grande, lalarva informe, il pesce azzurro e multiforme.

E d’improvviso si avvertì vicina unacreatura mai intuita: salutava, si sbracciava dauna piccola finestrella, posava avanzi erimanenze, fatture indecifrabili su di unagradinata che di piolo in marmo s’andava asquagliare ai piedi dei due amanti improvvisati.

Succo acido, congestione del respiro eprurito per la gola, afflato pittoresco, irridentecanzonatura sull’assetto dei composti, caldocesello a modellare una meraviglia innominata,a parlare a scarabocchi a labbra schiuse avampe e a doppi incastri, a contrasti allitteratie litografie dell’anima.

Una striscia senza parole che raccontava,posando granelli di cristalli sul sesto nero delpaesaggio, l’ansa capovolta dell’eclissi, l’altrasponda ignara degli oggetti.

La vittima l’accolse ad ampie braccia,caddero ustionate,.

La avvicinò, salì sulle sue spalle, ne fudisidratata e così leggermente trascinata.

Uscendo da un oblò piccolo quanto unmignolo si ritrovò all’esterno.

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E quell’esterno, molto simile al suo mondo,era di capanne, matti, staggi e cinghialotti.

Vi passò una donna, dove stesse andandochissà.

A descriverla si farebbe confusione: iltartaglio batterebbe le parole;

dunque vi passò una donna che era bellacome la donna che attende di diventare ladonna più bella del mondo.

Aveva dei buchi marci sulle guance, lei lidivorò, li cancellò, li ricompose nel candidotessuto della cute pesando e trattenendo sulproprio volto le ombre anomale di quel visodi bella donna.

Insomma: esse s’attrassero, l’una s’ invaghìdell’altra e viceversa, reciprocamentesentirono d’esser proprie, per sempre siseguirono.

E da quel momento la vittima scordò ilbrigante e scordò di aver seguito un’ombrache lei volle guidare, scordò la città alluvionale,scordò le giostre che, piccina, l’avevanocullata, scordò la voce che stridula si muta incomposta (scordò d’esser cresciuta), scordò ilpromesso sposo e chi lo uccise (indi scordòsuo padre), scordò d’esser stata tradita ed ilconato amaro della vendetta, dell’ipnosi, dellacella a cui fu consegnata, scordò d’esserfuggita e d’esser pure principessa, destinata(lo scordò) a sepolture regali, scordò anche ilsuo nome che era Erica od Erasma o forseCinzia.

E non vide il fiume di bersaglieri cheululando si riversò alle sue spalle.

Non vide il risveglio della sua città quandotutti, non trovandola, si misero, segugi eccitati,a tallonare il suo profumo.

Molti morirono sgusciando buffi sullaborracina e così fracassandosi la testa, altris’ebbero a scontrare col brigante che, per suamano lesta e per timor di luce, cavato avevagli occhi e giocava a mosca cieca sferrandocalci e pugni a destra, a manca, a caso per lopiù.

Quando un milite, la durlindana assisa sulsuo stomaco pronta a uccidere, gli domandò

chi fosse, cosa facesse, perché quella condottail brigante accennò svampito:

“Dimmi prima chi sei tu…poi, dopo…”Il rosso raccolto della spada fu l’unica

risposta.Altri segugi volarono oltre l’oblò.Non più la storia della principessa Elia,

Eride o Cinzia, neanche ricordavano il suonome, continuarono a braccare, non più ilgiorno che consegnò ad un letargo eterno ilprincipe infelice, ad un veglia isterica e aderrabondo sonno l’afflitta Emma, Erissa oCinzia. (non più il giorno che diede inizio allapioggia)

Là, oltre l’oblò, ognuno trovò di checonciliarsi.

I loquaci, unendosi ai retori, duplicaronosulle arene circolari i loro soliloqui,

i borsaioli s’unirono a chi, per colpa delgiorno rischiarato, non aveva ancora trovatomalignità impunite, gli innamorati dovetterotrovare pari coppie innamorate in cui defletteremagicamente i propri baci.

Non ci riuscirono.I saggi trovarono coi saggi una menzogna

da restituire alla leggenda così che i figli diquell’ incestuosa unione potessero crescere

sani, certi di un passato neutro ed asessuato,senza il dubbio d’esser stati generati perbizzarria o passione di principessa.

Un mondo nuovo non può nascere da unconflitto così grande.

Da una ripicca così infantile e antica.Dopo lunghi secoli d’artificiose indagini, di

losche goffe speculazioni sul bene, sul male,sul cosa da fare, di consumata cera e ceneredi stoppini su algebriche ripe, su cartapecored’astrolabi ne uscì questa pergamena, questolivido stralcio storico (poi gli studioli dei saggisi chiusero, mai più uno spiffero li spettinò).

Ma purtroppo, ripetuta nelle righe, perquanto celata ripetuta, continua a suonarvil’infermità d’amore che diede capo a questastoria, neppure i saggi, in tutta barba ecalamaio, seppero dirimere quell’alchimiamusiva e sempiterna che ne fu origine…

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“…eppure in tutta sincerità la pioggiacadeva lenta da non poter sembrar minacciae batteva tocchi muti sulle rocce e plasticisingulti posava sui tetti e giocava le gocce, lefrane, le gracidanti rane a snidare ogni ombradal proprio rifugio.

Ululando branchi di fradice tenebreaccorsero al mondo (scampate a un’alluvione

divennero esse stesse sipario alluvionale): dibruma in bruma furono invase le corti dimimosa, i recinti dei matti, le giostre regali efurono oscuri afflati e furono cupe nubitremanti a modellare nelle menti avvezze allapovertà la curva sbilenca degli stoppini, inquelle dei ricchi signori lo sfarzo delcandelabro;

e fu così, un po’ per fuga e un po’ perpaura, che sull’uomo calò la prima notte…”

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