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Adamantius Rivista del Gruppo Italiano di Ricerca su

“Origene e la tradizione alessandrina”

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Journal of the Italian Research Group on “Origen and the Alexandrian Tradition”

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La visione di Isaia nella controversia origenista: ote sull’In Habacuc di Gerolamo

di Sincero Mantelli

A meglio intendere l’atteggiamento di Gerolamo in quel momento di riaccese passioni nei confronti della teologia di Origene che si è soliti indicare come ‘controversia origenista’ (di fatto, solo una delle molte diatribe intorno al suo pensiero), non sembra privo di interesse rivolgere l’attenzione al commento di Gerolamo al profeta Abacuc. Per sua stessa ammissione, Gerolamo si riferì ampiamente al perduto commentario origeniano sui profeti minori e proprio nell’interpretazione di Ab 3,2 riprese l’esegesi origeniana di uno dei punti più controversi di quella avveniristica speculazione teologica – l’interpretazione trinitaria della visione di Isaia, una lettura che Giustiniano non esiterà a citare come qualificante dell’errore di Origene1. Vorremmo quindi presentare un’analisi puntuale del passo in questione, grazie anche alla scoperta di una lezione genuina che permette di gettare nuova luce sull’origine di tale interpretazione scritturistica e di mostrare come, su questo punto, l’esegesi di Gerolamo dipenda da quella del maestro alessandrino, che si è rifatto a sua volta alla tradizione giudaica, attraverso passaggi intuibili per via naturalmente ipotetica, con tutte le insidie del caso. Daremo conto dell’atteggiamento di Gerolamo nei confronti di questa particolarissima interpretazione scritturistica durante la sua lunga carriera di commentatore biblico e, in particolare, durante la controversia, che lo vide partigiano di Epifanio di Salamina, improvvisamente e inaspettatamente nemico giurato del suo venerato maestro.

1. In Habacuc

Nel secondo libro del commento all’ottavo profeta minore Gerolamo si sofferma come di consueto, dopo aver spiegato la sua traduzione del testo , a interpretare, con inclinazione perlopiù allegorica, la traduzione da lui stesso condotta a partire dai Settanta. Venendo all’analisi della versione greca di Ab 3,2a così chiosa (il testo che segue è tratto dalla nostra edizione in corso di stampa )2:

1 Iustinian. , Mansi, IX, 528; ACO III 210, ll. 7-14. 2 «Secondo i Settanta, invece, il senso è molto diverso e dobbiamo dare anche una spiegazione dell’edizione ‘vulgata’. “Signore, ho udito” nelle Scritture “la tua parola” e mentre tu mi davi l’orecchio, secondo quello che dice Isaia: “Mi ha dato un orecchio per ascoltare”; così ho udito, come tu vuoi sia ascoltata la tua parola. E ho contemplato assai attentamente le opere del Signore, perché non mi si dicesse: non guardano le opere del Signore e non considerano le opere delle sue mani; partendo dalle creature ho conosciuto il Creatore e a motivo delle singole cose che hai fatto e che ogni giorno fai nel mondo, sono stato totalmente preso da stupore e, abbandonato il buon senso umano, mi sono volto a una santa follia. Ovvero, scosso per l’ammirazione, ti lodo trepidante dicendo: “In mezzo a due animali sarai riconosciuto”. Molti ritengono che questo si debba comprendere in riferimento al Figlio e allo Spirito santo, poiché il Padre è conosciuto attraverso il Figlio e lo Spirito. Questi stessi animali gli scribi li interpretano come i due Serafini in Isaia e i due Cherubini nell’Esodo, che si guardano l’un l’altro e in mezzo hanno il propiziatorio, e in Isaia, che, coprendo il capo e i piedi di Dio, soltanto in questo mondo volano, e gridano l’uno all’altro il mistero della Trinità e uno dei Serafini, che significa ‘ardente’, è inviato e viene sulla terra e purifica le labbra del profeta e dice: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra e come vorrei che ardesse”». Avvertiamo che, per Gerolamo, la è la versione dei LXX preesaplare, cioè non rivista da Origene e da Eusebio di Cesarea e, di conseguenza, il termine indica anche le , da essa derivate. Dall’VIII al XIII secolo la

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L’interpretazione del testo di Abacuc, che secondo i Settanta così suona: «Signore, ho ascoltato la tua lezione e ho avuto timore; Signore, ho considerato le tue opere e mi sono meravigliato: in mezzo a due animali sarai riconosciuto», assume nel commento geronimiano un carattere trinitario: i ‘due animali’ sarebbero il Figlio e lo Spirito Santo, in quanto solo attraverso di essi si può arrivare a una conoscenza del Padre, che non è immediatamente attingibile dall’uomo. Così facendo Gerolamo si ricollega a una precedente interpretazione relativa ai due ‘esseri viventi’, riferita – secondo il carattere dossografico tipico dei commentari biblici – da commentatori anonimi, genericamente indicati con il termine . In realtà, come vedremo in seguito, questi predecessori non nominati dal monaco di Betlemme si possono chiaramente identificare in una sola persona, dalla quale egli aveva attinto quasi letteralmente questa esegesi biblica. E non si limita a riferire, seppur genericamente, chi fosse la sua fonte, ma riporta la menzione di coloro che avevano suggerito l’interpretazione del passo in questione e che spiegavano in modo identico altri due brani dal tenore molto simile. Questi esegeti, che potremmo definire ‘fonte della fonte’ di Gerolamo, vengono qualificati con il termine . Proprio su questa parola occorre a questo punto proporre una breve digressione assai utile alla spiegazione del testo. Nell’edizione del commentario al profeta Abacuc di Gerolamo curata da M. Adriaen troviamo un’espressione diversa da quella che abbiamo citato in apertura, dal senso non del tutto convincente3:

«».

In vista di una nuova edizione critica dell’opera, ora in corso di pubblicazione, abbiamo collazionato undici codici, tre dei quali, che ci hanno permesso di ricostruire uno dei rami della tradizione testuale, ci testimoniano una lezione differente: al posto di abbiamo . La lezione , tràdita da A Z T4 (= a), fornisce non solo una frase più sensata5, ma ci restituisce la fonte di questa lettura trinitario-subordinazionista della visione di Isaia, cioè i cristiani di origine bibbia di Gerolamo si impone su queste ultime, diventando a sua volta la Vulgata. Cf. E. SUTCLIFFE,

, Bib. 29 (1948) 345-352. 3

M. ADRIAEN, Turnholti 1969 (CChr.SL 76 A), 2, 3, 2, ll. 98-100. 4 Si tratta rispettivamente dei codici: Karlsruhe, Badische Landesbibliothek, CCXII (sec. IXin.); Zürich, Zentralbibliothek, C 41 (278) (sec. IXin.); Troyes, Bibliothèque Municipale, 126 (sec. IX-X). Per una ricostruzione ampia e puntuale della tradizione testuale del commento ad Abacuc rimandiamo all’edizione critica sopra citata. 5 Riguardo alla lezione testimoniata dagli altri manoscritti (Köln, Dombibliothek, 55 [ 2050] [sec. VIII-IXin.]; Laon, Bibliothèque municipale, 38 [sec. IX]; Bern, Bürgerbibliothek, 102 [sec. IXmed.]; Ivrea,

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giudaica6, come Origene stesso, da cui Gerolamo quasi sicuramente trae questa esegesi, aveva riconosciuto7. Ritornando all’interpretazione che gli scribi davano dei ‘due animali’ di Ab 3,2, dobbiamo anzitutto rilevare che essi legavano a questo passo due brani affini, che avevano lo stesso significato: si tratta di Is 6,2 ed Es 25,19. Questi testi vengono accostati e interpretati insieme dalla fonte di Gerolamo seguendo i dettami dell’ermeneutica alessandrina, che, applicando all’intera scrittura il metodo di ‘chiarire Omero con Omero’, poteva permettersi di partire da alcuni elementi comuni, anche minimi e accessori, per creare legami di significato fra testi tra loro del tutto estranei. Ciò che permette di legare insieme in un’unica e identica interpretazione questi tre passaggi biblici è il modo con cui Dio si manifesta, posto al centro e attorniato da due figure che si collocano ai lati. Esistono, a dire il vero, altri passi scritturistici che, dando una descrizione analoga della teofania divina a quella offerta da questi brani, potrebbero essere a loro volta accostati a questi tre. Il testo di Ez 1,5-27 mostra, ad esempio, caratteristiche affini ai brani citati, come pure l’apparizione ad Abramo dei tre uomini alle Querce di Mamre8, ma non sono ricordati nel passo geronimiano a commento di Ab 3,2. L’accostamento di questi tre testi e non di altri ci mette sulle tracce di una fonte che li abbia accomunati dandone una lettura comune.Ritornando ai nostri tre brani, vogliamo sottolineare che ciò che li accomuna è la disposizione di tre entità: il primo, diverso dagli altri due, al centro e gli altri due, uguali fra loro, ai lati di quello centrale. Questa figurazione ternaria con un elemento dominante si prestava molto bene a una lettura trinitaria, in cui il Padre era rappresentato dall’elemento centrale, mentre il Figlio e lo Spirito Santo, in posizione subordinata, diventavano l’elemento di mediazione tra gli uomini e il mistero ineffabile di Dio9. Nell’ampia riflessione trinitaria di Origene troviamo per l’appunto due schemi, uno triangolare, di origine giudeocristiana, con lo Spirito Santo e il Figlio appaiati in

Biblioteca Capitolare, 51 [XCVII] [sec. X]; Monte Cassino, Biblioteca della Abbazia, 93 FF [sec. XIex.]; Roma, Biblioteca Vallicelliana, B.2.2 [sec. XIex.]; Città del Vaticano, Bibliotheca Apostolica Vaticana,

173 [sec. XI]; CAMBRIDGE, Trinity College, B.3.5, [sec. XII]: = b), si possono fare due ipotesi: o che sia il nominativo plurale di o che sia l’infinito presente passivo di . Nel secondo caso la frase, sebbene un po’ bizzarra, assumerebbe un significato ‘addomesticato’ alle orecchie del copista, che avrà sicuramente trovato difficoltà a concepire una discussione sulla Trinità all’interno del commento ‘giudaico’. La prima ipotesi, più verisimile, che renderebbe questo errore trascurabile, dovrebbe essere suffragata dall’attestazione di questa parola, ma ciò si verifica solo in un papiro greco del VI secolo, che reca come : ( 1106, 10 = 237). 6 Di questa interpretazione, seguita dalla maggior parte degli studiosi, discuteremo diffusamente in seguito. 7 Ad esempio in Origenes, , ed. P. KOETSCHAU, Leipzig 1913 (GCS 5), 1, 3, 4 [= ]. 8 Gen 18,1-2. 9 Questa concezione, che si lega alla cosiddetta ‘cristologia angelica’, ha lasciato poche tracce. Sembrano accenni polemici, che avversano tale cristologia, quelli contenuti nella (1,4ss.) e nell’ (19,10). Le trattazioni più cospicue si trovano nel ( 8,3,3: identificazioni di stampo giudeocristiano del Cristo preesistente con l’arcangelo Michele) e nell’ (9,27-30), testi della prima metà del II secolo, testimoni di una riflessione più antica. Tale cristologia, già esaurita verso la metà del II secolo e che sopravviverà solo nel titolo di Is 9,5 interpretato, però, al di fuori di questa lettura, aveva avuto la finalità di preservare l’unicità di Dio e di sottolineare al contempo il carattere sovrumano di Gesù. Ad essa si accompagna anche una pneumatologia angelica, attestata in un passo dell’ , cronologicamente posteriore, alla cui interpretazione angelica di Cristo abbiamo sopra accennato: in 11,32 il Diletto e lo Spirito Santo in figura angelica si collocano ai lati di Dio, in posizione di subordine, evidenziando una presentazione che per comodità definiamo ‘triangolare’ della divinità. Cf. M. SIMONETTI in E. PRINZIVALLI – M. SIMONETTI,

, Brescia 2012, 35-36, 41. M. SIMONETTI, , Roma 1975, 4, n. 3; 12, n. 33.

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subordine rispetto al Padre, e uno verticale, che egli predilige rispetto al precedente, in cui il Figlio è subordinato al Padre e lo Spirito Santo al Figlio10. Il modello trinitario proposto dai corrisponde pertanto a quello triangolare di Origene. Dobbiamo a questo punto indagare due cose: chi sia la fonte di questa lettura riportata da Gerolamo, cioè chi siano questi , se, cioè, l’attribuzione di questa esegesi a Origene sia chiaramente dimostrabile, e chi siano gli che hanno ispirato questi interpreti e hanno dato dei tre testi in esame una lettura concorde di tipo trinitario.

2. 2 1 Multi putant de Filio intellegi et de Spiritu sancto

Da un confronto piuttosto ampio fra l’ geronimiano e le pagine esegetiche di Origene abbiamo tratto non solo la fondata impressione di una generale e naturale dipendenza dell’uno dall’altro, ma veri e propri saggi in cui si vede una derivazione quasi letterale del discepolo dal maestro. Tale indagine si è fondata su un principio metodologico che cerchiamo di sintetizzare. La ricerca delle fonti utilizzate da Gerolamo nel commentare i dodici profeti minori poggia sul postulato, da lui stesso più volte ammesso, che egli si sia riferito in modo costante e preponderante a un modello origeniano. Ritenendo che Origene abbia ripetuto in altri luoghi della sua opera le interpretazioni contenute nei venticinque libri dedicati ai profeti minori e che i suoi ‘ammiratori’ si siano serviti di quest’opera esegetica, possiamo arguire che i passi in cui il commento geronimiano combacia con pagine esegetiche origeniane o della scuola alessandrina siano riconducibili al perduto commentario di Origene. Ciò risulta molto chiaro anche per l’interpretazione dei ‘due animali’ di Abacuc11. Effettivamente l’Alessandrino afferma chiaramente nel 12:

«Diceva un dotto Ebreo che i due Serafini che in Isaia son descritti con sei ali che gridano l’uno all’altro e dicono: “Santo santo santo il Signore Sabaoth” (Is 6,3) sono il Figlio unigenito e lo Spirito Santo. Noi poi crediamo che anche quel passo del cantico di Habacuc in cui è detto: “In mezzo a due animali ti farai conoscere” vada riferito a Cristo e allo Spirito Santo».

E ancora13:

«Un maestro Ebreo insegnava così: poiché nessuno può scorgere il principio e la fine di tutte le cose se non il Signore Gesù Cristo e lo Spirito Santo, per questo Isaia ha detto nella visione che erano solo due Serafini

10 SIMONETTI in PRINZIVALLI – SIMONETTI, cit., 111. 11 Anche Y.-M. DUVAL, consequentia.

In Habacuc, in , XXVIII Incontro di studiosi dell’antichità cristiana. Roma, 6-8 maggio 1999, Roma 2000, II, 431, afferma – senza portare argomenti – che Origene sia la fonte dell’interpretazione trinitaria dei Serafini (« «). Cf. A. FÜRST, , REAug 53 (2007) 199-233: in questo studio, assai ampio e approfondito, lo spunto che il commento ad Abacuc offre per questa interpretazione origeniana viene liquidato come un semplice accenno, dal momento che solo grazie al rinvenimento della lezione genuina è possibile considerare il riferimento di questo commentario geronimiano come testimonianza esegetica da non trascurare. 12 I,3,4. Nel testo greco si dice semplicemente che questa interpretazione è stata riferita da un ebreo («! "#$%&'(»). Iustinian. , Mansi, IX,528; ACO III,210, ll. 7-14 (traduzione: ORIGENE,

, ed. M. SIMONETTI, Torino 1968, 169). 13 IV,3,14 (trad. Simonetti).

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quelli che “con due ali coprono il volto” di Dio, “con due i piedi e con due volano acclamando e dicendo l’uno all’altro: Santo santo santo il Signore Sabaoth, tutta la terra è piena della tua gloria”».

Nel primo testo vengono associati sotto un’unica lettura il testo di Isaia e quello di Abacuc; in entrambi i passi, poi, i Serafini sono interpretati come il Figlio e lo Spirito Santo e tutte e due le volte si parla di un ebreo come fonte di questa esegesi. Altrove, sebbene in un luogo di pur controversa tradizione testuale, Origene ritiene che i due animali di cui parla Abacuc siano – in accordo con quanto riferisce Gerolamo – i Cherubini e i Serafini, legando così insieme i tre testi citati e commentati insieme nel commento ad Abacuc14:

I tuoi animali abiteranno in essa. Ristori il misero con la tua dolcezza”, etc. (Ps 66 LXX). Animali, cioè i Cherubini e i Serafini, abitano nell’eredità di Dio, in riferimento ai quali ritengo che sia stato detto: “Tra due animali sarai riconosciuto” (Hab 3,2)».

Anche nel commento alla lettera ai Romani il maestro alessandrino presenta l’esplicito rimando, ripreso da Gerolamo, fra il testo di Abacuc e il passo dell’Esodo, in cui si parla dei Cherubini e dei Serafini, interpretandoli come il Figlio e lo Spirito Santo (cf. Es 25,18 e 37,6)15. Nelle Origene riprende per due volte l’interpretazione trinitaria dei Serafini e la giustifica16. Nell’omelia quarta offre una lettura dei Serafini identica a quella contenuta nel commento ad Abacuc, dove dice che uno dei due è Cristo venuto sulla terra per portarvi il fuoco (Lc 12,49)17. Nel Origene contrappone alla II lettera di Platone, che Celso citava come abbozzo di una sorta di dottrina trinitaria18, i testi dei profeti, che a suo avviso avrebbero, a questo soggetto, qualcosa in più da dire rispetto alle dottrine filosofiche, nel caso specifico proprio «i passi sui “Serafini”, così chiamati dagli ebrei, che si leggono in Isaia: i Serafini che velano “il volto” ed “i piedi “di Dio; ed i passi su quelli chiamati “Cherubini”, che si trovano in Ezechiele [...]»19. Ciò significa che per Origene la dottrina trinitaria è già abbozzata e prefigurata nel Vecchio Testamento e pertanto non è impossibile che un ebreo o dotti ebrei abbiano formulato un’interpretazione scritturistica riguardante in qualche modo le tre persone divine. Da questa sintetica carrellata appare evidente come l’interpretazione dei Serafini / Cherubini / Animali quali prolessi della Trinità provenga a Gerolamo da Origene, che l’aveva ribadita in numerosi punti della sua vasta opera. Il testo del commento ad Abacuc di Gerolamo, poi, mostra chiaramente – se si vuole escludere il brano citato sopra dai – che per Origene i tre testi potevano essere

14 67, 11, PG 12, 1508 (trad. nostra).

15 III,7-11, PG 14, 949A-D (SC 539, III, 5, 10, 136-137): «

». 16 I,2.3.4 (edd. A. FÜRST - CH. HENGSTERMANN, Berlin 2009, I, 2.3.4, 198ss.). 17 IV, 1.4, 228ss. 18 «Attorno al re del tutto stanno tutte le cose, ed in grazia di lui sono tutte, ed è lui la causa di tutte le cose belle, le cose seconde stanno intorno al secondo; le terze intorno al terzo. Or dunque l’anima umana aspira a conoscere come esse sono, e guarda alle cose che le sono affini, ma di queste nessuna è bastevole. Per quanto riguarda il re e le cose di cui ho detto, nulla vi è di simile». Plato, 2, 312E-313A, citato in VI,18 (SC 147); traduzione: ORIGENE, , ed. A. COLONNA, Torino 1971. 19 VI,18 (trad. COLONNA).

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commentati allo stesso modo e illuminarsi a vicenda, secondo il criterio ermeneutico alessandrino sopra ricordato, e che tale esegesi aveva una comune fonte giudaica.

2.2.

Acclarata la dipendenza di Gerolamo da Origene, rimane il problema che più interessa e che cercheremo di chiarire offrendo una soluzione meramente ipotetica, vista la mancanza di prove sicure. Questa interpretazione scritturistica, che il maestro alessandrino riferisce a un ebreo, un dotto o un maestro – secondo la traduzione di Rufino – e che Gerolamo afferma, verosimilmente riportando le parole della sua stessa fonte, trattarsi di una speculazione degli scribi, cioè dei maestri giudei, proviene effettivamente dal mondo giudaico in senso stretto oppure, trattandosi di un’interpretazione trinitaria, quindi specificamente cristiana, è stata elaborata da un ambiente che siamo soliti chiamare giudeocristiano? Pur tenendo presente che Origene si volse anche a tradizioni ermeneutiche sorte fuori della chiesa, quella ebraica, sia rabbinica che filoniana20, e quella gnostica, Jean Daniélou ritiene che l’interpretazione della visione di Isaia, da Origene riferita a un ebreo, provenga in realtà da un ambiente giudeocristiano21. Ciò nonostante prende in considerazione il fatto che non sia del tutto peregrino ipotizzare che la lettura riportata da Origene arrivi direttamente da un giudeo e che sia stata riplasmata in senso chiaramente cristiano da lui o da un suo predecessore, e a favore di questa ipotesi propone il confronto con Filone, «il quale nel , dopo aver citato 6, continua dicendo che il nome dei Serafini “conviene direttamente alle potenze ()*+,µ-.()”»22. Orbene, il contesto mostra che queste potenze sono «la potenza creatrice a cui si attribuisce a buon diritto l’appellativo di Dio, e l’altra – l’egemonica o la reale – quella del Signore»23. Sebbene l’ipotesi che fa di Filone la fonte origeniana sia suggestiva24, vi sono forti dubbi circa questa identificazione. Anzitutto Origene non designa mai l’esegeta alessandrino, che utilizza sovente, con il termine ‘ebreo’; inoltre, a ben vedere, l’interpretazione filoniana e quella origeniana differiscono radicalmente, perché in Filone le due potenze, rappresentate in Isaia dai Serafini, circondano il Logos Monogeno, mentre in Origene sono il Logos e lo Spirito Santo a identificarsi con le due creature angeliche e a porsi ai lati di Dio Padre. Per questo Daniélou ritiene che la fonte sia un giudeocristiano, che ha utilizzato le speculazioni giudaiche note anche a Filone, ma indipendentemente da lui.

20 Riguardo all’esegesi rabbinica, sappiamo che essa era presente nell’ambiente alessandrino e in questo contesto si situa anche l’opera di Filone, che tanta influenza ebbe su Origene, e proprio per merito della testimonianza origeniana ci restano molti testi poi confluiti nella . Anche riguardo all’ambito specifico che stiamo indagando ci sono indizi che mostrano come l’angelologia rabbinica abbia avuto grande influenza sulla teologia di Origene. Cf. J. DANIÉLOU, , Roma 1991, 213ss. 21 All’interno di un ampio capitolo dedicato al tema «Trinità e angelologia», J. DANIÉLOU,

, Bologna 1998, 236-244, si sofferma ad analizzare un carattere della teologia arcaica, cioè l’uso di categorie angelologiche per designare il Verbo e lo Spirito Santo, sottolineando il fatto che il nome di ‘angelo’ designa Cristo fino al IV secolo, quando viene abbandonato per l’assonanza ariana che presenta, anche se fin dal II secolo il suo uso era stato limitato essendo la marca della cristologia giudeocristiana. In tale contesto Daniélou sviluppa la sua teoria delle fonti riguardo all’interpretazione trinitaria dei Cherubini e dei Serafini, di cui diamo conto di seguito. 22 Philo, 9, ed. AUCHER, VII, 413, citato in DANIÉLOU, , cit., 238. 23 Philo, 9, ed. AUCHER, VI, 412, citato 24 Cf. J. BARBEL, , Bonn 1941, 273.

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Un altro testo in cui Daniélou pone lo stesso problema è quello relativo ai due Cherubini del tabernacolo nel libro dell’Esodo25. Origene, nel commento alla lettera ai Romani26, assimila i due Cherubini al Figlio e allo Spirito Santo, dal momento che nell’anima di Gesù, rappresentata dal propiziatorio, abitano il Verbo e lo Spirito Santo, come pienezza della scienza divina: questa esegesi ha, secondo Daniélou, la sua fonte in Filone, il quale ha ampiamente commentato il tabernacolo e i Cherubini – mentre sembra che non si sia dedicato ai Serafini – e in diverse opere li interpreta come la potenza creatrice e quella regale27. Dal momento che nell’interpretazione dei Cherubini numerosi sono i punti di contatto fra Origene e Filone, Daniélou non esita ad affermare28:

«Perciò Origene qui dipende sicuramente da Filone, ma in Filone le ‘potenze’ non sono ‘il Logos’ e lo Spirito. Siamo dunque in presenza della trasposizione di una allegoria filoniana in una prospettiva trinitaria: il caso è perciò diverso dal precedente. In quest’ultimo Origene si riferiva ad un ebreo che interpretava in modo trinitario i due Serafini; qui Origene non indica alcuna fonte di questo genere. Il fatto è che, in realtà, egli utilizza l’allegoria di Filone, come spesso gli accade di fare, ma la trasposizione trinitaria è sua. E vi è stato senza dubbio condotto dal precedente giudeo-cristiano del simbolismo trinitario dei due Serafini».

Sembra quindi che si debba separare il caso dei Serafini da quello dei Cherubini nella loro esegesi trinitaria: i Serafini intesi come il Figlio e lo Spirito Santo secondo una lettura giudeocristiana celata sotto l’attribuzione a un maestro ebreo; i Cherubini, invece, effettivamente interpretati in senso trinitario cristiano partendo da una allegoria ‘ternaria’ che arriverebbe direttamente da Filone e sarebbe stata poi ridisegnata in senso trinitario direttamente da Origene, forse suggestionato dalla trasposizione precedente: prova ne sarebbe che in questo caso il maestro alessandrino non attribuisce questa lettura a nessun ebreo. Daniélou, poi, suffraga ulteriormente la sua idea – che cioè questi testi non vadano considerati insieme quanto a origine – mediante altri passi, in cui Origene vede in schemi ternari non la riproposizione del tema filoniano menzionato sopra, bensì, riprendendo Giustino, il Verbo circondato da due angeli, come nell’esegesi dei tre personaggi che visitano Abramo29. Daniélou propone infine, alla luce delle considerazioni che è andato sviluppando, di interpretare in modo corretto un testo di Ireneo, tratto dalla

, che, seguendo la traduzione di Smith, suonerebbe così30:

«Questo Dio è glorificato dal suo Verbo, che è il suo eterno Figlio, e dallo Spirito Santo, che è la Sapienza e il Padre di tutti. E le loro potenze [lett.: la loro potenza], quella del Verbo e della Sapienza, che sono chiamate Cherubini e Serafini, con voce incessante glorificano Dio».

E. Lanne commenta così questa traduzione, che preferisce a quella di Barthoulot: «Occorre intendere necessariamente che il Verbo e la Sapienza, che sono le potenze del Padre, chiamate pure Cherubim e Serafim, rendono gloria a Dio con voce incessante»31. Vedendo i Cherubini e i Serafini associati nella medesima interpretazione trinitaria, Daniélou conclude che, anche in considerazione degli sviluppi successivi della mistica giudaica, Filone e Ireneo potrebbero aver avuto delle fonti comuni, come si era detto per i Serafini di Origene, e si rende ben conto che lo schema di Filone e quello di Ireneo differiscono in quanto nel primo il Logos sovrasta Serafini e Cherubini, nel 25 Es 25,18. 26 Or. III,8 (PG 14, 948A-B). 27 Philo, II,62.68; 27-30; , 4-9, citato in DANIÉLOU, , cit., 240. 28 DANIÉLOU, , cit., 241. 29 Gen 18,1-2. 30 10, edd. J. BARTHOULOT – J. TIXERONT, PO 12,761, citato in DANIÉLOU, , cit., 241. La lezione )/+%µ.( (‘potenza’), per )*+,µ-.( (‘potenze’), deriva da banale scambio itacistico ei/i. 31 Tutta l’argomentazione sul testo di Ireneo è ripresa da DANIÉLOU, , cit., 241-242.

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secondo Logos e Spirito Santo si identificano con essi. Finalmente l’analisi condotta da Daniélou porta a ritenere che l’esegesi dei Cherubini, a differenza di quella sui Serafini, venga direttamente da Filone. Partendo da questa ricostruzione della vicenda, ci sembra che quanto abbiamo messo in luce a proposito del passo ‘origeniano’ del commento ad Abacuc di Gerolamo consenta di rivedere la questione precisando alcuni aspetti, anzitutto che i tre testi associati insieme nel passo geronimiano sui ‘due animali’ di Abacuc devono essere considerati nella loro esegesi trinitaria come debitori di una fonte comune. Si tratta, infatti, di una lettura che associa inscindibilmente i tre passi, così come Gerolamo ce la riporta: «Questi stessi animali gli scribi li interpretano come i due Serafini in Isaia e i due Cherubini nell’Esodo». Ancora una volta: Abacuc, Isaia ed Esodo presentano una stessa immagine ternaria che deve essere interpretata allo stesso modo e che ha alla base una fonte comune: non possiamo pertanto essere pienamente d’accordo con quanto affermato da Daniélou, che distingue quanto a origine la lettura del passo di Isaia rispetto a quello dell’Esodo. Questo, a ben vedere, è confermato anche dal brano di Ireneo, che abbiamo considerato sopra, in cui si dice che Cherubini e Serafini devono essere identificati allo stesso modo con il Figlio e lo Spirito Santo. Questa considerazione ci costringe a riprendere gli studi che si sono soffermati ad analizzare il rapporto intrattenuto da Origene con il mondo giudaico, che non fu segnato solo dallo scontro ma anche da un’interazione positiva assai profonda32. Sappiamo che egli ebbe rapporti già ad Alessandria con i giudei, che risiedevano lì da secoli e avevano dato forma a una cultura giudeoellenistica, non solo con singole persone, ma forse anche con la sinagoga. Sebbene le fonti non ci dicano molto sui giudei della capitale dell’Egitto nel III secolo, a tal punto che qualche studioso avanza forti dubbi sulla consistenza del giudaismo alessandrino all’epoca di Origene, siamo confortati dalla sua testimonianza che essi vivevano e operavano nella sua città e sui contatti intrattenuti con loro. Anche Cesarea di Palestina, dove si trasferirà Origene, rappresenta uno dei centri giudaici più importanti nel III e IV secolo: proprio per questo motivo gli studiosi si sono concentrati su questa città e hanno cercato di indagare l’esegesi rabbinica per ritrovare tradizioni giudaiche giunte a noi tramite il maestro alessandrino33. Origene si rivolse ai giudei, sicuramente a persone singole ma verisimilmente anche a gruppi, forse alla sinagoga, a giudei convertiti ma anche a personaggi ancora legati alla loro fede, dai quali cercava lumi non solo per questioni linguistiche o erudite concernenti il testo sacro, ma anche riguardo a passaggi esegetici, dal momento che riteneva gli appartenenti al popolo che aveva composto la scrittura veterotestamentaria depositari di notizie utili alla comprensione del contesto e, conseguentemente, del senso di alcuni testi. Per quanto concerne l’ebreo citato da Origene in riferimento all’interpretazione dei Serafini, la maggioranza degli studiosi ritiene, a motivo del tipo di esegesi addotta, che si tratti di un giudeocristiano, anche se non manca chi ipotizza (de Lange) potersi trattare di un autentico

32 Per la ricostruzione del rapporto di Origene con i giudei, che trattiamo in seguito, siamo principalmente debitori delle ottime sintesi di G. SGHERRI, , Milano 1982, 42-47, e di G. BARDY, , RBI 34 (1925) 217-252, il quale riporta un elenco completo dei passi in cui il maestro alessandrino afferma di essersi riferito ai giudei per interpretare il testo sacro. 33 Cf. G. STEMBERGER,

, 95-104 e G. DORIVAL – R. NAIWELD, , 121-138, in O. ANDREI (ed.),

, Brescia 2013.

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giudeo34. A fronte di tutte queste argomentazioni, che l’ sia un convertito rimane un’ipotesi che non trova conferme né nell’opera di Origene – che peraltro in altri luoghi ha parlato esplicitamente di giudei convertiti35 – né da testimonianze esterne. Anzi, tutte le volte che secondo Bardy troviamo citato questo dottore ebreo, che Origene interrogava con interesse, siamo in presenza di spiegazioni del testo sacro che non sembrano avere nulla di specificamente cristiano36. Un’indicazione più promettente e che si accompagna bene con l’argomentazione che svilupperemo sotto riguarda la menzione di un giudeo di cui Origene ricorda anche il nome37:

«01 230-$'+ )4 5+%6.+'/µ-+'( 7-$8 0.+9+ :';89+ <-'= >'/::? 0@ 7%0$.,$AB, 6%8 0.+. 0C+ A$Dµ%0.EF+09+ 7%$G >'*)%8'.( 3'HC+ 56I6'% J0....»

Origene, reso inquieto a motivo di alcuni oracoli divini, si rivolge a Iullo, cui è attribuito il titolo di patriarca, e a un altro anonimo, considerato tra i più saggi dei giudei: senza affrettare alcuna conclusione, possiamo notare che questa notizia ci fa scoprire quanto ampia fosse la frequentazione giudaica del maestro alessandrino, il quale si spingeva a interrogare autorità del mondo della sinagoga – il titolo di patriarca attribuito a Iullo lo rivela38 –, e ci informa del fatto che interrogava i maestri giudei potendo valutare il valore di ciascuno, essendo introdotto, direttamente o indirettamente non sappiamo, presso i sapienti della sinagoga. Gerolamo ci conferma la frequentazione di Iullo, che anch’egli chiama patriarca e che dice contemporaneo dell’Alessandrino, proprio in relazione al commento a Isaia, nella stesura del quale Origene avrebbe approfittato della sapienza di questo illustre giudeo durante il suo soggiorno a Cesarea39. Due elementi, questi, da tenere ben presenti in relazione a quanto andremo a dire: Origene frequentò in Palestina un gruppo chiaramente giudaico, costituito da dotti legati alla sinagoga, e li interrogò proprio a proposito del profeta Isaia. 34 Non privo di interesse, anche se non pienamente convincente, è quanto riferito da Junod, il quale riporta la tesi di P. Nautin – una tesi da lui espressa solo oralmente durante un corso – secondo cui l’ebreo, che Origene cita soprattutto nelle opere del periodo alessandrino, essendo definito , non sarebbe necessariamente , termini che non sarebbero sinonimi dal momento che giudeo potrebbe anche designare un uomo originario della Palestina, senza per questo essere un praticante della religione del popolo eletto. L’ebreo sarebbe allora un giudeo convertito che avrebbe introdotto Origene a un’esegesi giudeocristiana spiritualista. Cf. É. JUNOD, 21 27 (SC 226bis), Paris 1976, 292 n. 2. 35 Cf. BARDY, , cit., 221 n. 4 e 222 n. 1. 36 , 222-223. Ci sembrerebbe logico, inoltre, che Origene, sentendo di dire qualcosa di contrario al senso comune, si premurasse di avvertire che il giudeo che parlava della Trinità era un convertito. Ci pare, invece, che egli, avvertendo come cosa naturale che nell’Antico Testamento siano contenute delle prefigurazioni della Trinità, non badi a questa stranezza, che portò il copista ad addomesticare il testo e gli studiosi contemporanei a propendere per una soluzione pacifica, che vedesse nel giudeo un ebreo convertito. Esistono tre percezioni differenti del fenomeno che si intersecano e possono condurre a degli equivoci: quella origeniana, che considera naturale la presenza di elementi trinitari nell’Antico Testamento e di conseguenza nel commento giudaico alla Scrittura che sia veritiero; quella del mondo cristiano in un regime di netta separazione con i giudei, per cui le questioni trinitarie riguardano esclusivamente la riflessione dei seguaci di Gesù; infine quella degli studiosi contemporanei, che si dividono in due categorie, quelli che ritengono possibile la presenza di dottrine precristiane nel giudaismo prerabbinico e quelli che vedono nel cosiddetto giudeocristianesimo una fase di transizione con una sua identità e creatività. 37 Origenes, , PG 12,1056B, citato in BARDY, , cit., 223. 38 Sono stati fatti dei tentativi di identificazione di questo personaggio, ma si tratta di ipotesi non conclusive. Cf. BARDY, , cit., 223-224. 39 HIER. 1,13, PL 23,408, citato in BARDY, , cit., 223.

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Veniamo, dunque, a riconsiderare l’origine di questa lettura ‘trinitaria’. Se prima conoscevamo solo l’identificazione della fonte di Origene con l’ebreo/dotto ebreo, ora abbiamo a disposizione anche il termine ‘scribi’, parola tecnica che indica gli interpreti della scrittura nel mondo giudaico40. A ben vedere, nessuno dei due termini ci suggerisce che si tratti di giudeocristiani, ma semplicemente di giudei versati nel commento scritturistico veterotestamentario41. Nel commento al Vangelo di Matteo Origene, concludendo la sua esegesi sulle parabole del Regno, si sofferma a spiegare chi sia «lo scriba divenuto discepolo del regno di Dio» e ci offre indicazioni preziose su che cosa intenda con il termine ;$%µµ%0-/(: si tratta anzitutto di chi «è istruito nell’insegnamento letterale della legge»42, in contrapposizione con chi si eleva al senso spirituale della scrittura, per cui «uno scriba diventa discepolo del regno dei cieli nel senso più semplice quando dal giudaismo passa a ricevere l’insegnamento ecclesiale di Gesù Cristo, mentre, nel senso più profondo, lo diventa quando, dopo aver appreso le nozioni introduttive mediante la lettura delle scritture, ascende a quelle realtà spirituali che si chiamano “regno dei cieli”»43. Si capisce con chiarezza che il termine è – nel vocabolario di Origene – riferito ai maestri giudei versati nel commento veterotestamentario e che già l’espressione evangelica sfrutta questo significato per affermare che lo scriba diventa discepolo del regno di Dio quando da un commento solo letterale si volge, attraverso la rivelazione neotestamentaria, a una comprensione spirituale di tutta quanta la pagina biblica. Da questa spiegazione dobbiamo ritenere che il maestro alessandrino non attribuisse abitualmente alla parola ‘scriba’ un significato di interprete giudeocristiano, ma semplicemente di dottore ebreo – come dice l’altro termine attestato a proposito del passo biblico che stiamo analizzando – versato nel commento della legge44. In altri luoghi dell’opera origeniana abbiamo riscontrato che il termine scriba / scribi si riferisce ai personaggi, di appartenenza inequivocabilmente giudaica, che Gesù incontra nei Vangeli.

40 Forcellini conferma il significato tecnico di questa parola: « ;$%µµ%0-/(

». 41 Non ignoriamo che Gerolamo, se generalmente usa il termine per riferirsi a persone appartenti al mondo giudaico, non manca tuttavia di riferirlo talora anche ai cristiani, come ad esempio nella prefazione alla traduzione del di Didimo di Alessandria, in cui, ricordando i problemi avuti a Roma alla morte di papa Damaso, paragona l'animosità dei suoi avversari a quella che scribi e farisei indirizzarono all'insegnamento di Cristo: «Allora tutto il senato dei farisei elevò alte grida. E nessuno, scriba o ritenuto tale, ma tutta la fazione dell'ignoranza, riunitasi quasi per una guerra di dottrina, ordì una congiura contro di me». PL 23,103A (traduzione: Didimo il Cieco, , ed. C. NOCE, Roma 1998, 55). 42 10, 14,197 (SC 162), (traduzione: Origene, 1, 10, 14, 194-203 [trad. R. SCOGNAMIGLIO, Roma 1998, 117]). 43 10,14,198 (trad. SCOGNAMIGLIO, 118). 44 Sempre nel commentario al primo Vangelo troviamo un passaggio interessante in cui si usa il termine ‘scribi’ in senso traslato. Commentando il passo evangelico in cui si dice che «i sommi sacerdoti e gli scribi cercavano di farlo perire», Origene afferma: «Ma anche gli scribi di ogni genere, versati in qualunque scienza, e per questo chiamati “scribi” (;$%µµ%0-&() in senso figurato, vorrebbero sopprimere Gesù tra gli uomini, ma a questo scopo non trovano niente per realizzare la loro intenzione. Ed anche tutti gli anziani, i letterati greci e barbari, estranei all’insegnamento di Gesù, vorrebbero farlo perire, ma non ci riescono, perché sopraffati da tutto il popolo che pende dal Maestro nell’ascoltarlo e nell’avere comune comprensione del suo insegnamento» ( 17,14; trad. M.I. DANIELI). , ed. E. KLOSTERMANN (GCS 40), Leipzig-Berlin 1935, 627-628 (traduzione: Origene, 3, 17,14, trad. R. SCOGNAMIGLIO, Roma 2001, 180-181). Appare evidente anche da questo testo che il significato proprio del termine ‘scribi’ è quello che si trova nei Vangeli, cioè esperti della Legge e della sua interpretazione.

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Se ipotizziamo che la fonte indicata da Origene sia effettivamente giudaica, non possiamo esimerci dalla domanda relativa al contesto ebraico da cui questa lettura, che sembrerebbe minare il

del monoteismo di Israele, possa essere sorta. Ora, un’interessante critica al concetto riduttivo di giudeocristianesimo come eccezione rispetto a due gruppi religiosi ben definiti e distinti fin dall’inizio45 si deve, fra gli altri, al rabbino americano D. Boyarin, alla luce di una visione del mondo giudaico precedente a Gesù di Nazaret come realtà segnata invece da una sorta di pluralismo religioso e teologico interno, tramontata progressivamente al costituirsi del giudaismo rabbinico, che avrebbe abbandonato e considerato eretiche alcune concezioni teologiche facilmente assimilabili a quelle cristiane allorché il cristianesimo veniva assumendo una precisa identità proprio a partire dalla riflessione trinitaria46. Analizzando soprattutto la visione del Figlio dell’uomo nel libro di Daniele, Boyarin suggerisce che l’abbozzo di una visione binitaria, comunque non ‘solitaria’ di Dio, era già acclimatata nel mondo giudaico e veniva custodita da alcuni e stigmatizzata da altri all’interno del variegato mondo ebraico contemporaneo47. Per cogliere la plausibilità di una lettura trinitaria di Dio all’interno del mondo giudaico dobbiamo pensare, dunque, a un ebraismo fatto di tanti rivoli in cui anche il cristianesimo poteva inserirsi non come ‘un fulmine a ciel sereno’, ma come una realtà preparata e pienamente inserita in questo contesto. Tale riflessione non viene assolutamente ad annullare la novità apportata dalla persona di Gesù di Nazaret, ma vuole appoggiarsi sull’ebraicità del cristianesimo, per mostrare gli elementi di continuità rispetto al suo . In altre parole dobbiamo ritenere che una visione ‘trinitaria’ di Dio, già presente nel mondo giudaico, abbia fatto da punto di appoggio per lo 45 M. Pesce, offrendo uno degli studi sul giudeocristianesimo, che ebbero grande impulso per merito di Daniélou e che hanno messo in luce la radice giudaica del cristianesimo e dato importanza a testi e gruppi perlopiù non presi in considerazione dagli scritti neotestamentari, afferma che tali ricerche sono state ampiamente ignorate anche nel recente passato. Considerando, poi, queste fonti all’interno del complessivo ripensamento delle origini cristiane, occorrerebbe dare una definizione più chiara del concetto di giudeocristianesimo e precisare con cura il fenomeno e il gruppo religioso che si intende studiare. Il concetto di giudeocristianesimo, come del resto tutti i concetti storiografici, può assumere diversi connotati a seconda di come si delimiti l’idea di ‘giudaico’: basta un generico riferimento culturale oppure servono precise caratteristiche religiose o etniche per definire un testo di matrice giudaica? Dati questi presupposti, occorre rilevare che il concetto di giudeocristianesimo si basa su un equivoco di fondo: considerare che fin dall’inizio con Gesù il cristianesimo sia non-giudaico e che i gruppi giudei (connotati dall’osservanza della Legge) siano da ritenere marginali. La realtà è del tutto diversa: agli inizi i giudei sono dominanti e i non-giudei del tutto marginali. L’uso che in genere si fa del concetto di giudeocristianesimo serve a isolare quei testi del primo secolo, che alla luce della teologia successiva sono da considerare non pienamente riconducibili al cristianesimo. Cf. M. PESCE, , Brescia 2011, 189-197. 46 D. BOYARIN, , Roma 2012, 54 e 60-61, non prende in considerazione il nostro testo, ma si concentra principalmente sulla visione di Daniele, in cui nota che l’autore di quest’opera apocalittica «volle sopprimere l’antica testimonianza di un Dio più-che-singolare, e lo fece tramite l’allegoria. In tal senso, la controversia che crediamo separi ebrei e cristiani era già una controversia tra ebrei molto prima della venuta di Gesù». In questo senso Daniele sarebbe la profezia di quanto troverà compimento nei Vangeli a proposito dell’esistenza di un Dio anziano e di uno giovane, una sorta di anticipazione di una concezione binitaria di Dio. 47 Colpisce a questo proposito che Agostino ( , 2, 18, 33), volendo mostrare ai giudei che anche nell’Antico Testamento erano presenti teofanie in cui il Padre si mostrava corporalmente, interpreti la visione di Dn 7,9-10 dove si parla dell’Antico dei giorni come manifestazione divina, in cui il Padre consegna il regno al Figlio, impersonato quest’ultimo dal Figlio dell’uomo. Il vescovo di Ippona fa notare una prefigurazione della teologia trinitaria insita nelle Scritture ebraiche, che probabilmente lo stesso autore del libro profetico aveva voluto suggerire, ma con implicazioni ben diverse rispetto a quelle proposte dall’autore del .

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sviluppo cristiano di tale visione trinitaria, che sappiamo aver avuto una lunga gestazione nel versante terminologico e speculativo, e che fu tralasciata nello sviluppo dottrinale giudaico dopo la fine del tempio. Queste primitive riflessioni cristiane risultanti dalla rielaborazione di dottrine giudaiche sarebbero state a loro volta superate e dimenticate anche dai cristiani, perché inadeguate a reggere la riflessione sulla sostanza divina innescata durante la crisi ariana. Anche l’ipotesi che fa di Filone la fonte di Origene, sebbene sia da escludere per i motivi già esposti, ci conferma nel fatto che all’interno del mondo giudaico fossero presenti concezioni di monoteismo non così rigide e univoche come quelle impostesi in modo progressivo a partire dal I secolo d.C. all’interno dell’ambiente giudaico, ma che era accettabile una visione del Dio unico insieme a ‘potenze’ che ne esprimevano la presenza e la vicinanza nella creazione. Accanto e a sostegno delle argomentazione che abbiamo portato a quella che – come abbiamo più volte sottolineato – è solamente una ricostruzione ipotetica dell’origine dell’esegesi dei due animali di Abacuc nel commentario geronimiano, vogliamo porre una notizia riportata da Didimo di Alessandria nel suo commento al profeta Zaccaria. Al momento di spiegare Zc 14,5, in cui il profeta paragona la fuga del popolo a quella che coinvolse la città in occasione del terremoto avvenuto al tempo del re Ozia, Didimo richiama alla memoria un’interpretazione scritturistica che identifica il momento in cui il Signore apparve al profeta Isaia, avvenuto precisamente al tempo del re Ozia, con il terremoto di cui parla Zaccaria48. Tale interpretazione che sovrappone i due avvenimenti sarebbe giunta a Didimo proprio da una tradizione giudaica ancora in circolazione (6%0G 7-$.H-$'µK+D+ 7%$,)'3.+ L'*)%M6I+)49: non si tratta solamente di una notizia di carattere storico, una memoria del popolo di Israele, ma di una vera e propria tradizione esegetica, che vuole dimostrare la causalità divina alla base del movimento tellurico narrato da Zaccaria servendosi del passo del profeta Isaia, in cui l’operato divino è evidente, legame reso possibile dalla plausibile contemporaneità dei due eventi avvenuti al tempo di Ozia. Didimo ci dice con certezza che vi era una lettura della visione di Isaia, che risaliva alla tradizione interpretativa trasmessa dagli ebrei e che era ancora in circolazione al tempo in cui scriveva il suo commento a Zaccaria. Questa interpretazione di stampo rabbinico potrebbe essere giunta a Didimo direttamente dai giudei oppure essere stata mediata da Origene. Se questa notizia di Didimo non ci dice nulla in merito all’interpretazione trinitaria dei Serafini, ci informa tuttavia della conoscenza in ambito cristiano di un commento tipicamente ebraico alla visione di Isaia, probabilmente mediato da Origene. Questo particolare non doveva passare inosservato nemmeno a Gerolamo, il quale utilizzerà il commentario didimiano omettendo questa informazione50, che all’epoca in cui commenterà Zaccaria sarebbe risultata assai fuori luogo a motivo della trascorsa controversia origenista. Abbiamo, infatti, una datazione abbastanza sicura del commento di Didimo, che fu composto probabilmente nel 387, dal momento che quando Gerolamo passò ad Alessandria e commissionò questo testo era il 386 e nel 393 lo stesso monaco di Betlemme lo menziona, già concluso, nel capitolo 109 del 48 Didyme l’Aveugle, , ed. L. DOUTRELEAU (SC 83), t. 3, Paris 1962, V, 60-66, 1002-1007. Si tratta di un passaggio, che per la sua lunghezza non citiamo, in cui vengono riportati in modo ampio i dati che Gerolamo compendierà nel suo commentario. 49 , V, 64, 1004. 50 , , , 3,15,5, 881: «

”. ».

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. Sappiamo che Gerolamo utilizzò molto da vicino quest’opera di Didimo per comporre il suo commentario a Zaccaria nell’autunno del 406 e, dunque, se trascurò di riferire l’origine giudaica di questa lettura, diversamente da quanto era avvenuto per l’interpretazione dei ‘due animali’ di Abacuc, non doveva aver agito senza una precisa intenzione51. Il termine , in conclusione, e l’interpretazione del profeta Isaia che avrebbe portato Origene a leggere in senso trinitario i due animali di Abacuc, ci riconducono a un pensiero condiviso nel mondo giudaico, che arriva all’Alessandrino tramite un giudeo o un giudeocristiano – a questo punto poco importa – e che lo mette in contatto con una riflessione giudaica precristiana, sopravvissuta in rivoli ‘eretici’ di un giudaismo divenuto più compatto52 e di cui finora conosciamo poco o nulla, reinterpretata, infine, da lui o da qualcuno prima di lui in senso cristiano.

3.

Prima di giungere ad analizzare la posizione generale di Gerolamo nei confronti dell’esegesi origeniana dei Serafini/Cherubini/Animali in senso trinitario, ci sembra utile mettere in luce le fasi di progressivo distacco e, infine, di rifiuto di tale interpretazione, resa sostanzialmente inaccettabile per il suo carattere subordinazionista in aperto conflitto con la posizione nicena che si andava via via affermando nel corso del IV secolo. Già Panfilo, nell’ per Origene, si era sentito in dovere di riportare e spiegare l’interpretazione di Isaia data dall’ , segno evidente che questa dottrina di Origene era già parsa problematica nell’ambiente palestinese53. Eusebio di Cesarea54, riferendosi ad Ab 3,2, legge «fra due vite» e non «fra due animali» – ritiene questa lettura erronea, perché il termine in questione è il perispomeno (da ) e non il parossitono (da ) – e interpreta le due vite come la duplice esistenza di Cristo in quanto uomo e Dio. Eusebio, dunque, si discosta dall’esegesi di Origene, evitando la lettura trinitaria offerta da quest’ultimo. Proseguendo nel testo, infatti, Eusebio fa una notazione che verisimilmente vuole giustificare il suo dissenso rispetto a Origene, precisando che si tratta solo di una discrepanza puntuale55:

«Per la qual cosa, l’espressione dei Settanta: “Si manifestò tra due vite”, noi non l’abbiamo accettata secondo l’interpretazione di coloro che ci hanno preceduto, ma sosteniamo che il termine indica le due vite, quella divina e quella umana, di colui al quale si riferisce la profezia».

51 L. DOUTRELEAU, , in , cit., 23-25. 52 Anche L. Perrone nell’ offerto al convegno su Codex Monacensis Graecus 314, tenutosi a Bologna il 15 febbraio 2013, analizzando le fonti di Origene ipotizza che un passo sia stato suggerito al maestro alessandrino, fra gli altri, anche dai maestri ebrei residenti a Cesarea: «egli sembrerebbe dipendere dal maestro giudeocristiano, più volte menzionato da Origene nei suoi scritti col nome dell’ “Ebreo”, oppure da persone dello stesso ambiente ebraico-cristiano (o forse anche del contesto rabbinico di Cesarea)». L. PERRONE,

314, 7 (in corso di stampa). 53 Pamphil. , PG 17, 570-572. Cf. P. NAUTIN, , Paris 1977, 132-133. 54 Eusebius Caesariensis, (GCS 23), ed. I.A. HEIKEL, Leipzig 1913 [= Eus. ], 6, 15. 55 Eus. 6, 15, 6 (traduzione Eusebio di Cesarea, 2, ed. F. MIGLIORE, Roma 2008, 173-174). Gregorio di Nissa ( 12, 6, 351, 5-8) ritiene che il versetto in questione abbia sì valenza cristologica, ma si riferisca alla condizione in cui il Signore si venne a trovare con l’incarnazione, cioè in mezzo alla vita incorruttibile di Dio e a quella, corrotta dal peccato, tipica del genere umano.

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Eusebio ci fa intuire in questo passaggio l’esistenza di letture di questo testo scritturistico a lui precedenti, che non gli sembrava bene accogliere: con molto pudore e riverenza sembra inaugurare il distacco progressivo che si aprirà successivamente rispetto alla lettura origeniana. Andando oltre, non sembra privo di interesse volgere lo sguardo alla letteratura in lingua siriaca, in particolare a un passo in cui Efrem Siro interpreta la visione di Isaia. Sappiamo bene, infatti, che «solo nella metà del secolo IV, proprio con Efrem, la chiesa di Siria appare aggiornata in materia di riflessione trinitaria e cristologica, mentre prima di lui, nella Siria compresa nell’impero persiano, Afraate appare ancora attardato in una cristologia arcaica dai tratti evidentemente giudaizzanti»56. Efrem, poi, appare particolarmente significativo, perché si presenta aggiornato dottrinalmente in posizione avversa agli ariani, per più aspetti tributario della teologia basiliana57. Alla luce di queste considerazioni prende rilievo la seguente esegesi poetica dei Serafini di Isaia, in cui si contrappone la ‘teologia’ apofatica degli esseri celesti alla speculazione, con riferimento antiariano, degli scribi58:

«Beato colui che apprese, mio Signore, / che il Serafino proclama “Santo” [Is 6,2-3] e ammutolisce; // gli scribi, invece, indagarono per indagare. / Lascia [l’arte] degli scribi e scegli [quella] dei Serafini!».

Anche in un inno sulla natività troviamo la contrapposizione dell’atteggiamento degli scribi a quello dei Serafini di Isaia nei confronti del Figlio, sebbene questa non collimi sicuramente con quella trinitaria di Origene, in cui al centro c’è il Padre, mentre in questo testo la considerazione è chiaramente cristologica, riferita alla natività come compimento della visione del profeta Isaia59:

«Colui che ha servito in piedi i servi / sarà adorato seduto in [trono]. // A colui che gli scribi deridevano / i Serafini gridavano ‘santo’ davanti a lui».

Senza dubbio, nel contesto degli inni sulla fede, che approfondiscono il carattere apofatico della teologia di Efrem, gli scribi devono essere identificati con gli avversari ariani, di cui nella sua opera condanna l’eccesso di razionalismo60. Degno di nota è, pertanto, il fatto che Efrem accosti gli scribi al testo della visione di Isaia e identifichi il pensiero giudaico con quello degli ariani. Forse questo accostamento gli veniva dalla reminiscenza di una cristologia angelica di derivazione giudaica ancora strisciante nel suo ambiente di lingua aramaica: tale visione trinitaria era diventata del tutto inaccettabile alla luce della controversia ariana e pertanto andava chiaramente esclusa dall’orizzonte teologico a lui contemporaneo. Anche Teofilo di Alessandria avrebbe confutato questa interpretazione nel

, scritto attorno al 400 e in seguito tradotto da Gerolamo61. Passando, poi, con un salto oltre Gerolamo62, vediamo la posizione netta del vescovo Cirillo di Alessandria63, che nel suo commento ad Abacuc, diversamente dal monaco di Betlemme che, in

56 SIMONETTI in PRINZIVALLI – SIMONETTI, , cit., 172. 57 , 173. 58 , 3, 11, citato in E. VERGANI, 6

, Annali di scienze religiose 4 (1999) 297. 59 Efrem il Siro, , ed. I. DE FRANCESCO, Milano 2003, XXI, 15, 351. 60 VERGANI, 6, cit , 297, n. 56. 61 L’attribuzione di Amelli, che ascriveva a Gerolamo questo scritto, è erronea; infatti il monaco di Betlemme ne è solo il traduttore. Cf. L. CHAVOUTIER, , VigChr 14 (1960) 9-14. Cf. anche A. FÜRST, , in

, edd. A. CAIN – J. LÖSSL, Aldershot 2009, 149-152. 62 Per le considerazioni generali circa il rapporto fra Cirillo e Gerolamo ci si può riferire a F.M. ABEL,

, VivPen (1941) 94-119; 212-230;

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conformità con le regole dossografiche del commentario, si astiene dal dare un giudizio apertamente negativo, condanna con forza l’interpretazione di alcuni (0.3.), in realtà di Origene, secondo cui i due animali sono il Figlio e lo Spirito Santo attraverso i quali si conosce il Padre. Questa lettura è ritenuta scorretta dal vescovo di Alessandria proprio perché il Figlio e lo Spirito sono ‘vite’ e non ‘viventi (animali)’ – come aveva detto Eusebio – e perché le tre persone sono consustanziali e coeterne, cosa che viene messa in ombra dalla disposizione subordinante data dalla lettura trinitaria origeniana.

4.

Prima di entrare nella valutazione della posizione di Gerolamo riguardo all’interpretazione origeniana della visione di Isaia, cerchiamo di collocare con precisione la composizione del commento ad Abacuc. Per quanto concerne la cronologia64 di questo commentario un’informazione fondamentale ci viene dal 65:

«Composi inoltre due libri di Spiegazioni su Michea, uno su Naum, due su Abacuc, uno su Sofonia, uno su Aggeo, e molte altre opere sugli scritti dei profeti che ho per le mani e non sono state ancora terminate».

Questa notizia, che risale probabilmente alla primavera del 393, sicuramente a quell’anno66, ci offre la conferma che i commentari citati fossero in quella data già pubblicati. Ulteriore appoggio a questo dato ci viene dalla prefazione al commento a Giona, composto nel 396, cioè tre anni dopo i primi cinque commentari, come dice lo stesso Gerolamo67:

«Sono passati circa tre anni da quando ho commentato cinque profeti – Michea, Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo – e, occupato da un altro lavoro, non ho potuto portare a compimento quello intrapreso».

Convinto, come tutta la tradizione ebraica e cristiana dei primi secoli, del carattere unitario dei profeti minori, percepiva i primi cinque commenti, composti entro il 393, come parte di un .

A. KERRIGAN, , Roma 1952, 435ss.; M. SIMONETTI,

, VetChr 14 (1977) 301-330. Circa il rapporto intercorso fra Gerolamo e Cirillo d’Alessandria, sappiamo anzitutto che lo zio di quest’ultimo, Teofilo, aveva trovato nel primo il traduttore dei suoi scritti contro l’origenismo. È, quindi, verisimile pensare che copie dell’opera del solitario di Betlemme fossero giunte ad Alessandria. Cirillo pertanto, che secondo la congettura di Tillemont poteva conoscere il latino, avrebbe avuto a disposizione queste opere quando nel 412 divenne patriarca. 63 , II, ed. P.E. PUSEY, Oxonii 1868, Bruxelles 1965, 120-122 (PG 71, 897-900). 64 Rimane fondamentale per la ricostruzione della scansione temporale dell’intero geronimiano e particolarmente del commento ai profeti minori il contributo di P. NAUTIN,

393 397 , REAug 18 (1972) 209-218; 19 (1973) 69-96, 213-239; 20 (1974) 251-284, 269-273. 65 Hier. 135, 6. 66 A. CERESA-GASTALDO, , in ed. A. CERESA-GASTALDO (Biblioteca Patristica 12), Firenze 1988, 20. 67 Hier. , , ll. 1-4. Occorre, a questo punto, correggere un errore veicolato dalla Patrologia del Migne, che ha condotto molti a ingannarsi sull’ordine con cui Gerolamo ha commentato i primi cinque profeti minori: la recente edizione del di Ceresa-Gastaldo ci restituisce un ordine identico a quello del commento a Giona, che è lo stesso del canone ebraico (Michea, Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo). Cf. DUVAL, , cit., 415-438, 15.

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Acclarato, dunque, che la lettura origeniana dei Serafini / Cherubini / Animali è stata riferita da Gerolamo nel commento ad Abacuc poco prima dello scoppio della origenista, iniziata proprio nello stesso 39368, veniamo a valutare la sua posizione nel tempo. Sebbene Gerolamo rifiuti generalmente la lettura origeniana come concessione al subordinazionismo69, non possiamo tuttavia non notare con sorpresa che nel nostro commentario tale interpretazione non solo non sia stata scartata, ma venga riferita per prima. Sono poi riportate altre tre interpretazioni: la prima, ritenuta semplice e popolare, vede nei due animali i ladroni crocifissi a destra e a sinistra del Salvatore; la seconda li ritiene i due popoli, cioè gli ebrei e i gentili, che hanno creduto nel Signore Gesù; la terza vi vede i due Testamenti, vecchio e nuovo, attraverso i quali si può riconoscere il Signore. Duval70, interrogandosi sull’origine di quest’ultima esegesi, afferma: «Enfin, quelqu’un, qui pourrait bien être Victorin de Poetovio, reconnaît en ces deux ‘êtres animés’ ou animants, les deux Testaments, qui donnent vraiment la vie, sont vivifiants, insufflent ‹la vie›, et au milieu desquels le Seigneur est connu». Gerolamo non aggiunge altro, non fa menzione della lettura di Tertulliano71, che vedeva nei due animali Mosè ed Elia, né accenna alle due bestie della mangiatoia, sebbene si trovi a Betlemme. Gerolamo aveva già rifiutato anni prima, precisamente nel 380, l’interpretazione di Origene nell’epistola 18A, 472 indirizzata a Damaso, in cui diceva di non approvare la lettura della visione di Isaia secondo alcuni suoi predecessori sia greci che latini73, che, sebbene eruditissimi, riferivano un’esegesi inaccettabile e in contrasto con il Vangelo di Giovanni74, che indicava in colui che siede sul trono circondato dai Serafini non il Padre, bensì il Cristo. Nel 396, però, solo tre anni dopo la composizione del commento ad Abacuc, Gerolamo prende una posizione netta contro Origene e afferma che il suo più grave errore si trova nell’interpretazione trinitaria della visione di Isaia75:

«Only in 396, it appears, did Jerome begin to comprehend that he must take a public stand on Origen’s teaching. In late 395 or early 396, writing to Vigilantius, Jerome posits that four errors mar the works of Origen: his teachings on the resurrection body, on the condition of souls, on the repentance of the devil, and on the identification of the seraphim of Isaiah 6:2 with the Son and the Holy Spirit. It is astonishing that Jerome here deems the error regarding the Seraphim the most significant of the four».

68 Nel 393 Epifanio iniziò a cercare in Palestina aderenti alla sua campagna contro Origene. M. SIMONETTI,

, Aug. 26 (1986) 15. 69 Penna (A. PENNA, , Torino 1949), riferendosi alla più antica opera esegetica di Gerolamo in nostro possesso, cioè il commento alla visione di Isaia, ritiene che il rifiuto dell’interpretazione origeniana dei due Serafini, in quanto di sapore subordinazionista, evidenzi che la generale dipendenza dello Stridonense dal maestro alessandrino non è assoluta. Dello stesso parere anche Hartmann (L.N. HARTMANN,

, in , by F.X. MURPHY, New York 1952), che nota l’importanza di questa presa di posizione giovanile nei confronti dell’Alessandrino, quando, alcuni anni più tardi, verrà accusato di esserne un cieco discepolo. 70 DUVAL, , cit., 431. 71 Tert. 4, 22, 12. 72 Questo testo deve essere datato al 380. Cf. P. NAUTIN,

, in 9 7 1988 , ed. M. WISSEMANN, Frankfurt 1988, 277. Cf.

anche A. FÜRST, , 141-152. 73 Secondo Nautin, l’autore latino a cui pensa Gerolamo è Vittorino di Petovio, che egli riteneva sotto molti aspetti discepolo di Origene. Cf. NAUTIN, , cit., 270-271. 74 Gv 12,39-41. 75 E.A. CLARK, , Princeton 1992, 127.

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Gerolamo, dunque, che aveva già accennato al suo disaccordo con l’interpretazione dei Serafini di Origene76, arriva ad affermare senza mezzi termini, scrivendo a Vigilanzio, che questo è l’errore più grande a motivo del quale si può ascrivere il maestro alessandrino fra gli eretici77. Anche la menzione della sua traduzione delle omelie di Origene, condotta nel 380-381, diventa per lui problematica e la passa sotto silenzio proprio per evitare di essere tacciato di eresia78. Nella lettera 8479, del 399, dice di aver dichiarato la sua estraneità alle dottrine origeniane tempo addietro, rigettando la lettura trinitaria dei due Serafini, sostituendovi l’interpretazione dei due testamenti80: il fatto che sia costretto a ribadire con forza quanto aveva già detto significa che il suo allontanamento dal maestro alessandrino non era sembrato così evidente allora e doveva essere affermato con grande determinazione e trasparenza nel momento in cui la sua stretta frequentazione di Origene era divenuta assai ambigua. Sappiamo, tuttavia, che, anche dopo la controversia, Gerolamo continuerà a riferirsi a Origene per puntuali interpretazioni dell’Antico Testamento, mentre combatterà con forza ogni eresia che derivi dall’origenismo. Infine, nel commento a Isaia del 408-409 prende con tono indignato le distanze dalla lettura origeniana dei Serafini come Figlio e Spirito santo81: «Qualcuno interpreta in modo iniquo i due Serafini mediante il Figlio e lo Spirito Santo»82.

Queste note non lasciano dubbi sul fatto che Gerolamo, conoscendo bene il pericolo insito in questa lettura della visione di Isaia, accetti di correre il rischio di inserirla in un suo commentario poco prima del sorgere della controversia origenista. L’attenuante del carattere dossografico dei commentari non mette Gerolamo del tutto al riparo dal sospetto: sebbene egli avesse condannato altrove la lettura origeniana dei Serafini, da un così duro avversario di Origene – come ci apparirà durante la controversia – ci si aspetterebbe almeno una presa di distanza più decisa rispetto a una dottrina così manifestamente pericolosa del maestro alessandrino. Questa considerazione ci porta a rafforzarci nella

76 Nella lettera 55,3 (5) Gerolamo aveva già trattato il tema del subordinazionismo: , ed. I. HILBERG (CSEL 54), Vindobonae 1910, 488-489. Nell’edizione Saint Jérôme, , III, ed. J. LABOURT, Paris 1953, 41 n. 1, si sostiene che la datazione è incerta, ma compresa fra il 393 e il 397, quindi proprio a ridosso dell’inizio o durante la fase acuta della controversia origenista. 77 «

». 61,2 (CSEL 54, 577). Cf. FÜRST, , cit., 151. 78 FÜRST, , cit., 141-152, ricostruisce l’intera vicenda mostrando in modo convincente che «considering this theological context, I propose that Jerome suppressed his translation of Origen’s homilies on Isaiah in order to evade allegations against himself of unorthodoxy» (151). 79 «

». 84,3 (CSEL 55, 122-125). CLARK, , cit., 138, n. 415. 80 A riprova di questo sta anche l’accusa di Rufino rivolta a Gerolamo di aver modificato l’interpretazione della visione di Isaia nella sua traduzione della prima omelia di Origene su Isaia con l’aggiunta di una frase, che doveva rendere l’esegesi di questo passaggio accettabile per la teologia post-nicena. Cf. Ruf.

2,31 (CCSL 20, 106-107), citato in FÜRST, , 148-149. 81 CLARK, , cit., 147, nn. 498-499. 82 III, 6, 2; PL 24, 94.

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considerazione espressa da Simonetti, secondo cui le cause dell’adesione entusiastica di Gerolamo al partito di Epifanio di Salamina siano di natura non teologica, bensì squisitamente politica83. Anche il copista, che, non capendo più il dibattito sotteso alla strana attribuzione di una dottrina trinitaria al mondo giudaico, aveva alterato il testo geronimiano con un cambiamento solo apparentemente di scarso valore, aveva reso l’esegesi dell’Alessandrino riportata da Gerolamo alle soglie della controversia origenista meno problematica di quanto non si sia rivelata allo studio della tradizione manoscritta.

Sincero Mantelli Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna

via Cardinal Ferrari 1 I-43121 Parma

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The study of the manuscript tradition of Jerome’s commentary on the prophet Habakkuk reveals a genuine variant reading concerning the exegesis of Hab 3:2. While commenting on this passage which says that the Lord «will be recognized between two animals», Jerome reports the interpretation given by some ‘scribes’ ( , according to the found). These allegedly explained that the two animals are the Son and the Holy Spirit, exactly like the Seraphim of Isaiah’s vision and the Cherubim placed upon the Ark of the Alliance. Only through them can the Father be known. This interpretation comes to Jerome directly from Origen, who, by his own admission, received it in turn from a Jewish teacher. It is a matter of dispute whether this Jew or these are to be considered Jewish Christians. In all likelihood a Jewish origin of this ‘ternary vision’ of God can be sustained, which was later reinterpreted with a Christian meaning. Such a hypothesis can be corroborated by taking into consideration Jerome’s position concerning this interpretation as expressed in one of his commentaries prior to the Origenist controversy. Afterwards, this kind of Biblical exegesis became unacceptable under the influence of the Arian controversy and led to the sharpest criticism of Origen’s ideas. Once again it is apparent that Jerome joined the party against Origen for political reasons and not out of doctrinal convictions.

83 Cf. SIMONETTI, , cit., 16: «Ma quando veniamo a precisare il senso di tali accuse, avvertiamo come, dalla paranoia di Epifanio agli isterismi di Gerolamo e ai furori, sapientemente orchestrati, di Teofilo, molto, per non dire tutto, suoni falso in questo episodio della controversia origeniana, nel senso che il antiorigeniano dei vari protagonisti vi ha tutta l’aria di essere stato solo un falso scopo o comunque di affondare le radici in tutt’altro che in un apprezzamento anche solo un poco equilibrato e sereno degli ‘errori’ di Origene».