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L’impresa n°4/2006 101 Supplemento a L’impresa N°4 aprile 2010 MAGAZINE DI CULTURA MANAGERIALE SUI PARADOSSI DEL NOSTRO TEMPO L’Impresa estesa: a cura di GIanfranco rebora, con la collaborazione di eLIana MIneLLI, cHIara MoreLLI, DanIeLa MaZZara Bimestrale a cura di AIDP - Associazione Italiana per la Direzione del Personale - www.aidp.it 39° CONGRESSO NAZIONALE AIDP ROMA 4-5 GIUGNO 2010 Soluzione o problema?

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L’impresa n°4/2006 101

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M A G A Z I N E D I C U L T U R A M A N A G E R I A L E S U I P A R A D O S S I D E L N O S T R O T E M P O

L’Impresa estesa:

a cura di GIanfranco rebora, con la collaborazione di eLIana MIneLLI, cHIara MoreLLI, DanIeLa MaZZara

Bimestra le a cura d i A IDP - Assoc iaz ione I ta l iana per la D i rez ione de l Persona le - www.a idp. i t

39° CONGRESSO NAZIONALE AIDPROMA 4-5 GIUGNO 2010

Soluzione o problema?

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È stupefacente l’impatto che la crisi della finanza globale, con le sue ricadute sull’eco-nomia reale, ha generato ne-

gli ambienti intellettuali che gravita-no intorno al mondo del business. Le scuole e gli studiosi di management, ad esempio, sembrano presi da una furia di radicale ripensamento non solo della prassi e dei contenuti for-mativi ma del modo stesso di vedere l’impresa.Dai confronti di idee su scala inter-nazionale emerge una serie ampia di temi critici per il rinnovamento del management e della sua cultura. Co-sì, qualcuno afferma il superamento di una concezione d’impresa nella quale è centrale lo shareholder value e i risultati sono valutati a breve su pochi e fondamentali parametri quantitativi. Altri rivalutano soggetti-vità e ruolo delle persone in azienda, non solo nelle figure che emergono per talento individuale e/o capacità di gestire il potere e il denaro, ma in chiave più diffusa e di normalità, con riferimento anche alle funzioni più tradizionali come quelle legate alle operations. Altri ancora profilano un approccio diverso alla leadership, più riflessivo, più aperto culturalmente, più attento alla sfera delle emozioni e più disponibile a comportamenti di collaborazione, sia all’interno che all’esterno dell’azienda.In parallelo a queste tendenze emer-

Ormai l’impresa è estesa.Ma qualcuno l’ha detto a chi comanda?

ge il paradigma dell’impresa estesa, che sarà al centro del prossimo con-gresso di Aidp e che Enzo Rullani (v. intervista nelle pagine seguenti) ha così ben sintetizzato: “L’impresa che in precedenza era monolitica e piramidale ha cambiato forma e modello di business: è diventata una ‘impresa estesa’. Questa ruota intorno all’intelligenza fluida delle persone che coltivano le proprie passioni, tessono reti e accettano la reciproca interdipendenza, usando-la per generare dal basso significati e regole condivise”.Quello che colpisce di più l’osser-vatore, però, è il formidabile scarto

che si coglie tra queste prospettive di apertura al futuro e i comportamenti effettivi delle imprese e dei decisori al loro interno. Qui le risposte reat-tive alla crisi e la continuità con le impostazioni del passato sembrano dominare il panorama. Raramente si è assistito a uno iato così forte tra teoria e prassi, tra le buone intenzio-ni espresse da chi vorrebbe “fare cul-tura” e la dura realtà che condiziona le scelte dei decisori reali.Verrebbe quindi da chiedersi, inge-

nuamente: sì, il mondo è cambiato ed è finita l’era del command & control, ma qualcuno l’ha detto ai proprietari delle aziende e a quelli che detengo-no il potere al loro interno? C’è forse anche un risvolto più crudo e oscuro dell’impresa estesa, che per ora la narrativa e il cinema riescono a illuminare meglio di quanto facciano gli studi. Si pensi a un tema che tocca da vicino proprio le funzioni del per-sonale e che è al centro del film Tra le nuvole (v. “L’Impresa” n.3-2010, pagina 111). Qui infatti l’apertura ad apporti esterni non serve ad at-tivare nuove prospettive di sviluppo ma solo a gestire le criticità proprie dei licenziamenti di personale, se-gnatamente di knowledge workers, quelle figure che rischiano di paga-re seriamente la disillusione rispet-to alle prospettive della knowledge economy. La crisi finanziaria sembra così generare nuove professioni, pro-prio in ottica d’impresa estesa, come è per il personaggio interpretato da George Clooney, specializzato nel licenziare con una tecnica sperimen-tata e un approccio personalizzato tutto il “capitale umano” diventato superfluo per le sue aziende clienti. Per i professionisti delle risorse uma-ne, la notizia buona è che lo sviluppo della vicenda evidenzia il fallimento dell’ipotesi razionalistica di affidare alle tecnologie queste funzioni, dota-te di così forte intensità relazionale. Ma resta, naturalmente, anche quella cattiva, che getta un’ombra di am-biguità sull’aprirsi dell’impresa a un più vasto ambito di relazioni “fuori dai confini”. n

Gianfranco ReboraUniversità Cattaneo - Liuc

Hamlet n°4/2010

C’è un formidabile scarto tra l’idea di impresa estesa e i comportamenti effettivi dei leader aziendali

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Hamlet n°4/2010 III

P rofessor Rullani, lei è il coordinatore scientifico del 39° Congresso Nazionale Aip che affronta il tema: “Il

professionista HR: generare valore nell’impresa estesa”. Cosa si intende per azienda estesa?Azienda estesa indica una forma or-ganizzativa della produzione che so-stituisce al principio del comando centralizzato quello della collabora-zione tra apporti differenziati e auto-nomi allo stesso workflow produttivo. In un certo senso, adottare il punto di vista dell’azienda estesa, invece dell’azienda-cittadella, rigidamente definita nei suoi confini proprietari, dà forma organizzata e consapevole ai rapporti fornitore-cliente che han-no rilevanza strategica per le imprese coinvolte, rendendo visibile la logica della co-produzione di valore che è tipica delle filiere, dei distretti indu-striali e delle reti di impresa.Le 4.000 medie imprese italiane, che sono l’ossatura del nostro capitalismo nazionale, fanno fare fuori – al merca-to o alle reti di fornitura con cui sono in contatto – l’80% circa di quello che vendono. Esse curano solo alcune funzioni strategiche della filiera, e decentrano alle imprese più piccole le lavorazioni e le competenze che eccedono il loro core business. Sono in altre parole imprese estese che mobili-tano, con le loro decisioni, un sistema che è cinque volte più grande di loro.

L’mpresa rete.L’opinione di Enzo Rullani

Chiara Morelli

Qual è la vera fabbrica, in un sistema del genere? Il concetto tradizionale di azienda non ce lo fa capire.

Perché oggi è importante “fare rete”?Il passaggio dal capitalismo delle pi-ramidi a quello delle reti implica lo sviluppo di una diversa economia del-la conoscenza. E di una diversa, con-seguente, professionalità del lavoro.La conoscenza dell’impresa fordista si accumula all’interno dei confini proprietari e, per rendere, deve poter contare su grandi volumi di opera-zioni e prodotti replicativi, affidati a lavoratori dipendenti che hanno compiti esecutivi, rigidamente pro-grammati dall’alto.La produzione in rete, invece, parte da un altro presupposto: la neces-sità di utilizzare l’intelligenza fluida delle persone come forza produttiva essenziale, assolutamente necessaria per governare la complessità (varie-tà, variabilità e indeterminazione) che l’azienda incontra nell’ambiente esterno. Tocca alle persone – non alle macchine o al software − intercettare e imbrigliare la complessità, usando la loro autonomia, la loro intelligen-za, e la loro capacità di decidere in condizioni di ambiguità, assumendo i rischi relativi. Per farlo, non possono lavorare iso-latamente l’una dall’altra, ma devo-no comunicare, integrare le diverse competenze, generare forme orga-nizzative appropriate, e, in defini-tiva, mettersi “in rete” tra loro. In qualche caso questa rete si sviluppa all’interno di una stessa impresa, se il vertice è abbastanza aperto da utilizzare l’intelligenza autonoma

dei suoi manager, ricercatori, tecni-ci, operai, commerciali ecc. In altri casi, la rete mette insieme imprese diverse giuridicamente indipendenti: fornitori, committenti, distributori, service providers, operatori logistici, professionisti, consulenti, centri di ricerca. Tante teste che non dipen-dono da uno stesso centro, ma auto-producono autonomamente la trama della loro relazione. In ambedue i casi, nella rete (interna ed esterna) ci si specializza reciproca-mente, imparando a dipendere l’uno dall’altro. In questa costruzione con-tinua del rapporto e delle sue ragioni, che lo rendono durevole, deve essere messa in opera una professionalità relazionale da non trascurare. Biso-gna infatti gestire un rapporto ricco di sfumature e di decisioni difficili, che non può essere semplificato e standardizzato ricorrendo a regole di relazione astratta o al comando.

La rete può essere una scelta stra-tegicamente vincente per uscire dal-l’attuale crisi economica?Per venire fuori dalla crisi, la rete

Enzo Rullani, presidente del centro

Tedis-Venice International University

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Hamlet n°4/2010IV

ha una funzione immediata: quella di rendere flessibile e robusta la trama delle relazioni costruite nella filiera produttiva, nel rapporto con le banche e col territorio. Questa funzione oggi non è organizzata se-condo un disegno preventivo, ma è frutto delle soluzioni “emergenziali” dei clienti che non vogliono perdere i fornitori (e viceversa), dei datori di lavoro che non vogliono allontanare dall’impresa i propri dipendenti (e viceversa), delle banche che non vo-gliono mettere con le spalle al muro i clienti migliori (e viceversa). Si inventano modi accettabili, consen-suali, di ridurre gli orari di lavoro, distribuire gli ordini di lavorazione, dilazionare i pagamenti, riattivare gli affidamenti ecc. Costruire consapevolmente rapporti di rete significa dunque organizzare

ex ante queste forme di interdipen-denza governata, capaci di resistere alle fluttuazioni economiche che ci attendono senza troppe tensioni. La seconda funzione delle reti, in prospettiva, è quella di consentire un passo decisivo nella strategia di riposizionamento competitivo del-le imprese: aumentare il valore del prodotto fornito al cliente, arric-chendolo di prestazioni, significati, esperienze, servizi che ne aumenti-no l’apprezzamento. Ma questo ar-ricchimento richiede competenze e capacità che eccedono – e spesso di molto – quelle del tipico produttore manifatturiero che ha imparato il suo mestiere nella fabbrica e nelle lavorazioni materiali. Dove trovarle? La rete permette di avere accesso a queste capacità, che esistono pres-so altre imprese manifatturiere o di

servizi, o presso università e centri di ricerca del territorio. La rete consen-te inoltre, una volta che emerge una buona idea, di ampliarne il bacino di applicazione e di ri-uso, mettendo in campo capacità e competenze di altri operatori.

Secondo Lei, oggi le imprese italiane sono pronte a “mettersi in rete”? Quali problemi/resistenze potreb-bero incontrare?La maggiore resistenza è di tipo culturale. Le nostre piccole imprese sono soprattutto di tipo mono-per-sonale. Devono diventare imprese pluri-personali, capaci di mobilitare verso lo stesso obiettivo più intelli-genze personali, al proprio interno e nella rete esterna. La governance delle reti è complessa, perché deve mettere a lavorare e decidere insieme

tante teste diverse. Ma, se ci pensia-mo, tutta la nostra società funziona con questo principio: forse sono le situazioni in cui c’è un solo uomo al comando (la grande impresa for-dista ma anche la piccola impresa padronale) a essere l’eccezione. Per il resto, nella vita ci si fida sempre di qualcuno nei cui confronti si prendo-no impegni e si assumono responsa-bilità, aspettandosi un trattamento di reciprocità. L’importante è scegliere bene e rigenerare, strada facendo, le ragioni dello stare insieme.

Quanto sono importanti le nuove tecnologie per affrontare la rete?Le tecnologie Ict sono dei facili-tatori che allargano la scala della rete, superando barriere geografiche e merceologiche, e consentendo un arricchimento dell’interazione anche

a distanza. Ma non sono decisive per creare una situazione collaborativa di gestione dell’interdipendenza. È solo quando si è deciso di dipendere da altri e di collaborare con essi che ci si domanda se esistono tecnologie ca-paci di “oliare” il rapporto, nella sua operatività quotidiana. L’idea che le Ict “creino” le reti è non solo illuso-ria, ma dannosa: da un lato spiega il fallimento di molte applicazioni Ict che promettono e chiedono trop-po alle piccole imprese e dall’altro spiega le difficoltà di far evolvere le reti di divisione del lavoro in forma tecnologica.

Dal distretto alla rete: quale cambia-mento?Il distretto è una rete locale che, sfruttando le economie di prossimi-tà, consente alle imprese di specia-lizzarsi e gestire la reciproca interdi-pendenza in modo informale, senza bisogno di investimenti comunicati-vi, logistici e di garanzia elevati. Ma il distretto è ancorato a un circuito di prossimità che oggi è diventato – per molte funzioni – insufficiente. Le stesse imprese che continuano a lavorare in un distretto sempre più spesso vanno alla ricerca di fornitori esterni per certe competenze o certe lavorazioni, cosicché il distretto si estende attraverso le tante reti che lo proiettano a scala nazionale o globa-le, sia a monte (forniture) sia a valle (mercati di sbocco). Tra distretti e reti, dunque, non c’è contraddizio-ne ma complementarità: semmai è diversa la logica che ne manda avan-ti l’evoluzione. Il distretto, avendo il collante della prossimità, nasce spontaneamente, senza che nessuno lo disegni o investa risorse nella sua organizzazione e nel suo progresso cognitivo. La rete che va oltre il lo-cale richiede investimenti in capitale relazionale e intellettuale. E dunque richiede scelte consapevoli, impegni reciproci, assunzione di rischi e re-sponsabilità che ne fanno un sogget-to collettivo. n

Il passaggio dal capitalismo delle piramidi a quello delle reti implica lo sviluppo di una diversa economia della conoscenza

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Hamlet n°4/2010 V

sono alterate e rallentate, quindi impossibilitata a trovarsi una nuova occupazione in tempi brevi. Cercare il lavoro attraverso l’outpla-cement è come riacquistare il peso forma andando in palestra. Quan-do si decide di iniziare una cura di “ridimensionamento fisico” per proprio conto, come primo passo si acquista una cyclette, ma nel giro di qualche settimana l’attrezzo finisce in cantina e la cura di dimagri-mento si ripropone come progetto del lunedì successivo. Per avviare un programma di attività fisica con metodicità ci sono le palestre che funzionano e coinvolgono più della

cyclette. Questo perché le persone, in situazioni di disagio, di cambiamen-to, di rivisitazione di se stesse, hanno bisogno di pressioni sociali, di spinte e controspinte emotive, che vengono maggiormente percepite quando c’è qualcuno che controlla, quando c’è un coach che dà la tabella di marcia, consigliando esercizi adeguati alla nostra struttura fisica.Il problema è che persone formatesi in una “monocultura” che escono da un’azienda – l’unica nella quale hanno lavorato magari per vent’an-ni – spesso non sanno più qual è la

D ottoressa Rossi, come in-terpreta l’outplacement? Serve a risolvere crisi aziendali o può avere una

valenza più ampia?L’outplacement può essere definito come ammortizzatore sociale priva-to pagato dalle aziende a favore dei lavoratori. Lo si può considerare tale perché è realmente un servizio che l’azienda offre a sostegno dei lavoratori in eccedenza che scatu-riscono dai piani di riassetto orga-nizzativo. L’obiettivo del servizio è quello di permettere a colui o a co-loro che ne beneficiano di trovare rapidamente una nuova collocazio-ne conforme al proprio potenziale e, dunque, alle proprie legittime aspirazioni, al di fuori delle strut-ture dell’impresa di origine.Si può presentare quindi come un “servizio” informativo, logistico e psicologico, che l’azienda datrice di lavoro offre a un dipendente – il candidato – dal quale ha deci-so di separarsi (out), attraverso la consulenza di esperti specializzati, gli outplacer, per facilitarlo lungo il percorso di ricerca di un’altra congrua sistemazione professionale (placement).Quando si interviene su una persona in transizione nel mercato del lavo-ro, non si interviene su un soggetto privo di capacità, ma su una persona le cui abilità per vicissitudini varie

Outplacement come una palestraL’opinione di Cinzia Rossi*

conformazione del mercato del la-voro e in vent’anni avvengono molti cambiamenti!

Come si può pensare che le persone riescano a ricostruire la mappa del territorio del mercato del lavoro, autonomamente e in breve tempo?Prima di cercare lavoro dovran-no sicuramente passare attraverso un processo, benché accelerato, di “aggiornamento” per avere una co-noscenza del contesto in cui si do-vranno muovere; ma già qui il tem-po passa e la depressione aumenta (ricordiamoci che la perdita di la-voro è statisticamente assimilabile al trauma procurato dalla perdita di persone care), perché la perdita del lavoro scombina le abitudini quoti-diane, i ritmi di vita, il rapporto con il tempo, il rapporto con gli altri, il rapporto con la famiglia, il rapporto con se stessi. Dunque più il tempo passa e più lo stato di disoccupazio-ne trasforma la persona in un emar-ginato, in un escluso dalla società e in particolare dal mondo del lavoro.

Quali sono le condizioni perché un intervento di outplacement dispie-ghi tutte le sue potenzialità?L’outplacement diminuisce i tempi di permanenza dei lavoratori nella condizione di disoccupati. È dunque un acceleratore del processo di tran-sizione, e agisce come regolatore dei bisogni insiti tanto nella domanda quanto nell’offerta, nel flusso inar-restabile del mercato del lavoro. Non è quindi uno strumento “poli-tico” del mercato del lavoro, bensì di gestione dello stesso.

Daniela Mazzara

Cercare il lavoro attraverso l’outplacement è come riacquistare il peso “forma”

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Hamlet n°4/2010VI

Se in Italia si triplicassero le società di outplacement, questo fenomeno non comporterebbe assolutamen-te un miglioramento del problema occupazionale (impegno, invece, di chi governa il mercato del lavoro); mentre, se regolamentato, l’outpla-cement aumenterebbe il livello di consapevolezza sociale della can-giante fisionomia del mercato del lavoro e dei flussi che lo carat-terizzano (tanto di quelli che lo paralizzano quanto di quelli che lo vivacizzano).Anziché mirare dunque a una sua normazione, persiste ancora oggi l’ingenua tendenza a definire l’out-placement come un nuovo strumen-to in fase di sperimentazione nel mercato del lavoro, mentre l’Italia ne fa ricorso dal 1986!È stato introdotto negli accordi sin-dacali, negli integrativi aziendali, nei verbali di intesa tra aziende e organizzazioni sindacali o enti a vario titolo interessati allo stru-mento, è stata emanata una legge regionale (Abruzzo), e nell’ambito del Pacchetto Treu è stata data una definizione al servizio, ma nessuna commissione di studio si è data l’im-pegno di regolamentare istituzio-nalmente l’applicazione di questo strumento. Eppure è uno dei pochi strumenti efficaci, nell’ambito delle politiche attive del mercato del lavo-ro, a sostegno dell’occupazione.

Come funziona?L’outplacement agisce sui model-li culturali delle persone. Per ac-compagnare adeguatamente questo cambiamento è fondamentale una sinergia forte, reale, concreta tra il settore pubblico e quello privato, perché in questa sinergia, in questa costruzione, vi è una condivisione

sociale e civile dei problemi di una persona che va ricostruendo e ri-definendo modelli di riferimento e nuove mappe valoriali per formare il proprio progetto lavorativo, alli-neandolo alle rinnovate richieste del mercato del lavoro. I progetti pro-fessionali delle persone che passano attraverso società di outplacement sono in realtà molto mirati, costrui-ti partendo dalle reali motivazioni della persona, analizzando minu-ziosamente le loro capacità e le loro esperienze precedenti (facendo il cosiddetto bilancio delle competen-ze), per cui sono spendibili per nic-chie di mercato e per cicli temporali coerenti con le esigenze sia della persona sia delle aziende che richie-dono professionalità specifiche.Costruire un progetto professionale spendibile, individuando anche il ciclo di tempo all’interno del quale è sostenibile, non è un obiettivo facile sul quale concentrarsi e, so-prattutto, rappresenta uno sforzo di proiezione considerevole. Basti immaginare che i dati statistici ci dicono che gli italiani oggi cambia-no molto più velocemente moglie o marito anziché lavoro. Da questo si capisce bene anche il portato valo-riale di tale cambiamento!

Quali competenze devono avere gli operatori del settore?L’outplacer è l’orientatore esperto dei cambiamenti professionali, un attento attivatore di volontà assopi-te per lo più da un lento declinare di motivazioni personali e un abile ristrutturatore di fiducia tra i lavo-ratori e le organizzazioni aziendali.Egli imposta l’approccio culturale del lavoratore del domani, abitua le persone a confrontarsi con una struttura a rete, a ragionare in ter-

mini progettuali, propositivi, pro-attivi: le responsabilizza.Ormai quasi tutte le nostre espe-rienze di vita, tra cui quelle lavora-tive, sembrano configurarsi sempre più come continue transizioni, ov-vero come un percorso con molti cambiamenti. La prospettiva della complessità, mettendo in evidenza la molteplicità delle interpretazioni possibili della realtà, propone espe-rienze di lettura sempre più artico-late, intrecciate, polifoniche, che vanno affrontate con un adeguato orientamento.I momenti critici del rapporto tra “soggetto e realtà” si manifesta-no anche nella crisi aziendale, la quale non indica la semplice com-plicazione nell’organismo sociale, ma l’aspetto cardine del suo stesso metabolismo, espressione di mo-bilità e di cambiamento. Quindi, l’individuo deve acquisire la capa-cità di articolare punti di vista e approcci diversi, anche nella crisi, che tuttavia attiva le sinapsi e fa produrre idee, diventando spesso il tramite del cambiamento. Questo va dunque affrontato rimettendo in discussione i nostri saperi, i nostri valori, le nostre sicurezze, con una nuova cultura di negoziazione, fles-sibilità e differenziazione.L’outplacer, partendo dalla cultu-ra in cui viviamo e agiamo, dovrà istruire e motivare le persone a saper affrontare le situazioni nuove: dovrà avviarle a operare scelte, a far prendere loro decisioni e a far compiere loro attività congruenti con i vincoli ambientali senza per questo far trascurare i loro interessi e le loro attitudini. n

*Cinzia Rossi, sociologa, è ammini-stratore della Cross srl, società spe-cializzata in outplacement e cultura locale del lavoro, con 11 sedi diffuse nei territori. È consigliere nazionale Assores e presidente nazionale della “Filiera Servizi di Orientamento” As-soknowledge Confindustria

L’outplacement diminuisce i tempi di permanenza dei lavoratori nella condizione di disoccupati

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Hamlet n°4/2010 VII

Eliana Minelli

do anglosassone o fanno riferimento significativo al modello sperimentato da quest’ultimo.

La classe dirigente italiana si diffe-renzia da quella di altri Paesi, quin-di? In che modo?Bisogna ricordare che la nostra è una classe dirigente che si rivolge a un Paese fortemente orientato al-l’economia reale, in cui svolgono un ruolo fondamentale le imprese e le famiglie. Entrambe hanno dimostra-to una capacità di “compensazione” rilevante nei confronti della crisi fi-nanziaria in corso e della successiva crisi economica, grazie a un meccani-smo di profondo “radicamento nelle cose” e di profondo “radicamento nella propria identità”: le imprese col loro riferimento al territorio e all’imprenditore e la famiglia con riferimento al suo patrimonio mate-riale e relazionale (con riferimento ai propri membri).L’insieme delle due componenti menzionate ha svolto perciò una fun-zione di riequilibrio rispetto al peso – che pure abbiamo – sul fronte del nostro debito pubblico (fatto questo che ci è stato largamente riconosciu-to in ambito internazionale). Davanti a questa situazione la scelta della classe dirigente politica è stata quella di “operare al minimo”, un po’ per necessità (stante la dimensione del suddetto debito pubblico) e stante la minore esposizione del nostro siste-ma bancario e finanziario rispetto a quello di altri Paesi.Quello che è certo è che la reattività limitata rispetto alla fase di emergen-za, dal punto di vista dell’intervento

D ott. Delai, quali sono le reazioni più diffuse della classe dirigente di fron-te alle grandi turbolenze,

economiche, finanziarie, sociali, di questo periodo? Ci sono tre tipi di reazione, tutti e tre caratterizzati da una certa difficoltà a reagire in modo efficace. La prima è una difficoltà di interpre-tazione, nel senso che c’è disorienta-mento diffuso, legato alla rottura di un modello che si riteneva forte, in continuo sviluppo e senza particolari problemi (si può dire che si scon-ta oggi la vittoria di un “pensiero unico” che ha sempre avuto poca dimensione critica al suo interno).La seconda è una difficoltà di pen-sare al gioco successivo, nel senso che sotto sotto c’è una tentazione forte nel ripetere quello che già si conosce, riponendo nuovamente fiducia più nella finanza che nel-l’economia reale.La terza è una palese difficoltà nel pensare il dopo-crisi, nel senso che l’emergenza fa aggio su tutto il resto e ragionare sul medio periodo crea qualche ambiguità, timore, incertez-za, mentre servirebbe riposizionare il pensiero proprio sul medio periodo, in modo da immaginare un ciclo di sviluppo rinnovato. Va da sé che le osservazioni suddette sono parti-colarmente valide per quelle classi dirigenti che sono radicate nel mon-

Per una nuova classe dirigente.L’opinione di Nadio Delai*

pubblico, dovrebbe intraprendere oggi una promozione più convinta sul fronte del dopo-crisi e quindi dello sviluppo futuro.

Negli ultimi periodi si sente spesso parlare di impresa estesa, impresa oltre i confini aziendali, di una ne-cessità di fare sistema e di partner-ship. Ci sono riscontri nella realtà o è solo una suggestione?Non è da oggi che si discute sulle implicazioni più ampie del fare im-presa, al di là dei confini stretti della medesima. Bisogna uscire dai cancel-li – si è detto in molte occasioni – per misurarsi con i problemi più ampi del territorio e per intrecciarsi util-mente con l’azione di altre imprese.Qualcosa si sta muovendo, e non certo da oggi, grazie all’aumentato livello di competizione che ha spin-to e spinge verso una visione più ampia del modo di fare azienda. E certamente il periodo 2002-2005 e i relativi processi di riposizionamento, ristrutturazione e innovazione hanno dato un primo aiuto a spostare l’ot-tica. Oggi ci si chiede se la crisi in

Nadio Delai, presidente di Ermeneia

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Hamlet n°4/2010

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corso non possa fornire un ulteriore alimento nelle direzioni qui menzio-nate (di impresa estesa e di forme di possibile partnership).Quello che è certo è che stiamo vivendo un passaggio delicato che è iniziato da tempo e che non si con-cluderà in breve tempo: quello che impone alle aziende di uscire da una logica di un’Economia dei Soggetti e di entrare in una logica di un’Econo-mia delle Relazioni, senza per questo perdere motivazione, vigore e capa-cità di ottenere buoni risultati.

Quindi i manager dovranno attrez-zarsi per acquisire nuove competen-ze? Di che tipo?Certamente il management costitui-sce un protagonista molto impor-tante nella trasformazione appena ricordata, anche perché a differenza dell’imprenditore risulta emotiva-mente meno “ipotecato” dall’impre-sa (nel senso che il legame è più fun-zionale che emozionale): e passare all’Economia delle Relazioni richiede maggiore freddezza, più calcolo, più trasparenza, più capacità di gestire una partita a soggetti molteplici.La conseguenza è che, sul piano delle competenze, arrivano ai primi posti in assoluto (come è stato a suo tempo ben evidenziato da un’indagine da me condotta per conto di Federmanager) le seguenti abilità: le competenze in-terpretative, al fine di poter meglio comprendere ciò che avviene all’ester-no come pure all’interno dell’azienda; le competenze strategiche più che gestionali, per poter gestire meglio l’evoluzione del business, il posizio-namento competitivo dell’impresa, e per trasferire tutto questo sul piano dell’organizzazione aziendale; e infine le competenze relazionali, interne ed

esterne, che aiutano a gestire la fase di partnership molteplice che risulta e risulterà sempre più necessaria.

Quali sono i rischi principali che la classe dirigente italiana dovrà af-frontare nel prossimo futuro?Ne vedo almeno tre. Il primo ha a che fare col rientro nell’economia reale in un Paese fortemente orien-tato all’economia reale. Non sembri un’affermazione puramente tauto-logica, perché quello che ci aspetta richiede uno sforzo rilevante d’inter-pretazione e di accompagnamento di tutto rispetto sia per attraversare la fase di crisi attuale sia, soprattutto, per progettare il “dopo”. A titolo di esempio basti ricordare tre temi-chiave da affrontare: – il processo di differenziazione se-

vera delle imprese (alimentato dalla crisi), che finirà col generare una quota non banale di aziende “in uscita” oltre che una quota maggioritaria di aziende da ripo-sizionare significativamente;

– la ristrutturazione profonda del terziario privato che è cresciuto in questi ultimi vent’anni come camera di compensazione rispetto all’industria, ma anche rispetto al-la generazione di occupazione co-munque e qualunque essa fosse; e ancora, la più impegnativa ristrut-turazione del terziario pubblico che non può certo ridursi solo alla dismissione di personale, bensì deve mirare a una qualificazione di quest’ultimo e a una valutazio-ne stabile dei risultati raggiunti (con un necessario ed efficace sistema di “premi e punizioni”).

Il secondo rischio è quello di essere tentati, esplicitamente o implicitamen-te, di cadere nel meccanismo della pu-

ra e semplice “replica” di modello, nel senso che la flessibilità e l’adattamento sono stati fattori preziosi del nostro sviluppo attraverso gli ultimi decenni, ma certo non bastano per affrontare la profonda mutazione che abbiamo co-minciato a intravedere (in primo luogo delle imprese, ma a seguire di tutti gli altri soggetti privati e pubblici).Il terzo rischio è quello di non saper dare sfogo adeguato alla rappresen-tanza degli interessi reali così come oggi stanno riemergendo a seguito della crisi, tenendo conto che si torna inevitabilmente ai “fondamentali” del-l’economia come pure della rappre-sentanza. Di conseguenza non basta certo recitare delle opinioni e delle formule, ma al contrario è necessario individuare la trama di quello che può condurre a un dopo-crisi in posizione di maggior forza e con una proiezione in avanti. E tutto ciò a partire dal-l’enorme frammentazione in corso de-gli interessi e delle rappresentanze che hanno bisogno a loro volta di giocarsi la partita sul piano di una “rappresen-tanza estesa” e di una “rappresentanza di partnership”, se si vuole richiamare quanto discusso sopra, nei confronti specifici dell’impresa, ma che ha bi-sogno di essere declinato anche sul piano della rappresentanza. n

*Nadio Delai, presidente di Ermeneia, è il coordinatore scientifico del rapporto “Classe Dirigente” promosso dall’Asso-ciazione Management Club e giunto quest’anno alla quarta edizione.

Passare all’Economia delle Relazioni richiede maggiore freddezza, più calcolo, più trasparenza, più capacità di gestire una partita a soggettualità molteplici

“HAMLET Bimestrale sulla gestione delle persone nelle organizzazioni”Supplemento al n° 4/2010 de “L’Impresa”

Anno 15°, n. 2, Aprile 2010

Proprietario: Aidp (Associazione italiana per la direzione del personale), via Cornalia 26, 20124 Milano, tel. 02 6709558, fax 02 66716588, sito Web: www.aidp.it

Editore: Il Sole 24 Ore, via Monte Rosa 91, 20149 Milano tel. 02 30221, www.ilsole24ore.com

Redazione: Antonella Florio, Eliana Minelli, Chiara [email protected] responsabile: Gianfranco Reborawww.gianfrancorebora.org

Registr. Tribunale Milano 15/2/1997, n° 69

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Hamlet n°4/2010 IX

L a Stanford University nel 2008 ha dedicato il case stu-dy “The power to change the workplace” alla vita e

all’azione della professoressa Nuria Chinchilla, una studiosa spagnola (Iese – Università di Navarra), che ha saputo influenzare le pratiche sociali nella materia di cui si è occupata: la conciliazione tra lavoro e famiglia.Il prossimo Congresso di Aidp dedi-cherà attenzione al modello dell’im-presa familiarmente responsabile (Efr) proposto da Chinchilla negli scorsi anni con una serie di pubblicazioni, fra cui il libro Female Ambition del 2005, e l’elaborazione dell’indice Ifrei (IESE Family Responsible Company Index). Questo strumento offre un assessment organizzativo della conci-liazione tra vita lavorativa, familiare e personale, considerando le politiche aziendali, la cultura organizzativa e la presenza di facilitatori.La visione “estesa” dell’impresa non può fare a meno di considerare la prima e fondamentale “estensione” che riguarda tutti gli operatori azien-dali: le relazioni con le rispettive fa-miglie. Ciò rimanda a un tema molto concreto di responsabilità sociale: come riconoscono ormai tanti docu-menti ufficiali dell’Unione Europea la compatibilità tra il tempo di lavoro e il tempo dedicato alla vita privata, alla famiglia in particolare, non co-stituisce una semplice istanza di pro-gresso sociale; identifica invece una strada che è necessario percorrere se si vuole affrontare sia il problema dell’invecchiamento della società sia quello dell’occupazione e della com-petitività economica.

MANAGEMENT RESEARCH PILLS. Pillole dalle riviste scientifiche internazionali

L’impresa socialmente responsabile

L’approccio proposto da Nuria Chinchilla è significativo perché va al cuore del problema e investe gli stessi modelli organizzativi, interpre-tando la flessibilità in una maniera diversa da quella sinora prevalente. Invece di caricare i lavoratori di nuo-vi oneri, subordinandoli strumental-mente ad astratte logiche economi-che, si sostiene l’idea di lavorare sulle motivazioni delle persone: se queste non sono gravate dall’organizzazio-ne, ma sono sostenute e favorite nel conseguire una maggiore armonia

nelle varie componenti della loro vita, si adattano più facilmente ai cambiamenti richiesti per aumentare la produttività. Ciò è possibile gra-zie a un livello di motivazione più profondo (motivazione contributiva) rispetto a quella estrinseca (benefici economici) e intrinseca (status e svi-luppo professionale). La Ifm si basa su una nuova cultura organizzativa guidata da obiettivi e finalità invece che dai numeri di ore passate in fabbrica o in ufficio. Le analisi condotte in molti Paesi evidenziano infatti che giorni di la-voro interminabili non favoriscono la produttività ma generano ulteriori problemi che si potrebbero definire di inquinamento sociale: assuefazio-ne, burnout, assenteismo fisico ed

emotivo e una più generale man-canza di impegno. Questi fenomeni sono addirittura peggiori dell’inqui-namento ambientale perché passano quasi inosservati mentre minano e colpiscono la persona, il fondamento primo dell’equilibrio e del progresso nell’intero ecosistema.Il modello di Impresa Familiarmente Responsabile propone un piano inte-grale di conciliazione, di armonizza-zione tra lavoro, famiglia e vita per-sonale, che genera i seguenti benefici organizzativi:

– un tipo di flessibilità che ride-finisce le coordinate di spazio e di tempo del lavoro, valorizza la creatività, la diversità e il contri-buto individuale all’innovazione;

– la rispondenza alla generazione più giovane (la Y generation), cresciuta in una logica di commu-nity e più portata a relativizzare l’importanza del lavoro rispetto ad altri interessi;

– la miglior gestione delle ricadute organizzative dei naturali eventi della vita come maternità o pater-nità, invecchiamento, malattia. n

Chinchilla N., Leon C. (2005), Fe-male Ambition. How to Reconcile Work and Family, Palgrave Mac-millan, New York, 2005

L’ Impresa Familiarmente Responsabile si basa su una cultura organizzativa guidata da obiettivi e finalità invece che dai numeri di ore passate al lavoro

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Hamlet n°4/2010

L’ intervista di Cinzia Rossi sul significato dei servizi di outplacement mostra come le contraddizioni che af-

fliggono lo specialista di licenziamenti interpretato da George Clooney nel film Tra le nuvole siano risolvibili com-binando professionalità e comporta-mento etico. In un mondo complesso come quello attuale, del resto, quasi tutte le funzioni sociali possono essere interpretate in modo serio, competen-te, riflessivo, dialogante, oppure, al contrario, con piglio furbesco, logica manipolatoria, stile opportunista. Il problema è che, non di rado, il suc-cesso arride ancora, almeno nel breve periodo, a quanti scelgono la strada più facile, quella che porta a “barare al gioco” e che poi conduce a esiti socialmente distruttivi. Ma feedback e anticorpi contro l’opportunismo dei comportamenti sono ancora deboli, non funzionano automaticamente e richiedono lo sviluppo di forme di intelligenza sociale che per ora sono a uno stadio embrionale.L’estendersi dell’impresa verso una di-mensione di rete si trova così esposta al rischio di interpretazioni distorte che accompagnano e affiancano quelle corrette. La stessa espressione “capita-lismo di relazioni”, entrata nell’uso comune a significare la prevalenza delle logiche di potere su competenza e professionalità, proietta una luce ambigua su quelle stesse capacità rela-

Fare rete: il problema è politico

zionali dei manager e quell’“economia delle relazioni” che Nadio Delai evoca con ben diverso significato.I professionisti del personale, che Aidp riunisce a Congresso a Roma, sono profondamente coinvolti da questa tematica. Coltivare la metafora della rete in questo campo e quindi “gene-rare valore nell’impresa estesa” rap-presenta una linea di impegno sugge-stiva e intrinsecamente motivante. L’immagine della rete riconosce l’or-ganizzazione come un’entità senza confini, che si estende nell’ambien-

te, stabilendo connessioni tra una molteplicità di centri decisionali (i “nodi”) che intrattengono scambi di risorse di vario genere, in primis di informazioni e conoscenze. Oggi la metafora della rete è spesso presentata con un’enfasi sulla tec-nologia, nell’idea che la razionalità di sistema sia in grado di orientare le decisioni secondo un finalismo condiviso, anche se non automatico; oppure viene accolta come espres-sione di una logica di mercato che massimizza vantaggi e convenienze per tutti i soggetti.Una più realistica riflessione ricono-sce invece che lo sguardo che spazia “oltre i confini” deve fronteggiare il

pluralismo dei fini e la riluttanza dei soggetti ad accettare modalità auto-matiche di composizione di aspetta-tive divergenti. Come si diceva una volta: “il proble-ma è politico”. Nella rete, fuori dai confini, non si è più protetti dalle “mura” dell’azienda. Si è esposti al-la pluralità di scopi, degli interessi, delle attese fatti propri dai diversi soggetti. Quando esistono tanti fatto-ri che sfuggono al controllo diretto, c’è il rischio che anche strumenti di azione già ben definiti e codificati e nei quali si è abituati a confidare non funzionino come si vorrebbe. Sino a oggi un pensiero strategico d’impresa ancora molto debole si è limitato a proporre in quest’area più vasta strumenti che portano ancora il segno dei modelli piramidali più che della rete. Non sono altro che questo infatti i rapporti della responsabilità sociale, i vari codici di comportamen-to, le certificazioni ambientali e di qualità sociale. Tutti espedienti che riflettono certo un’apertura a que-sta dimensione ma esprimono una prevalente logica di comunicazione orientata dall’alto e che poco incide sulla sostanza dei problemi che si de-vono affrontare in campo aperto. Di fronte alla complessità politica del-l’impresa rete, la cultura d’impresa è molto debole. Lo è anche quella delle Hr, ma possiamo avanzare l’ipotesi che le donne e gli uomini formati in quest’area, così aperta alla multi-disciplinarità, siano più attrezzati di altri soggetti e professionisti aziendali ad aprire la strada alle imprese nel-l’affascinante dimensione delle reti sociali ed economiche. n

Gianfranco Reborawww.gianfrancorebora.org

Interpretazioni distorte dell’impresa rete accompagnano e affiancano quelle corrette

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