Lo Zen E Larte Di Giocare A Rugby

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Lo Zen e l’arte di giocare a rugby.

Questo breve saggio non vuole essere né un trattato sullo Zen, né un trattato sul rugby.

Leggendolo, ne capirete il perché.

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Prefazione.

Quell’incedere rapido della squadra, con il pallone che passa di mano e che, seppur indietreggiando, avanza, non smetterà mai di affascinarmi. Mi fa pensare ad un’onda; a come si alza e poi comincia a ripiegare su se stessa, spostando gradualmente il punto di rottura sempre indietro e più a lato, richiudendosi per poi esplodere con tutta la sua forza. Proprio come l’ovale che passa a ritroso da un giocatore all’altro fino a che il più esterno fra loro non si va a frangere contro la linea avversaria o raggiunge la riva confondendosi con essa. E schiacciando in meta. Ne consegue che, la realizzazione, non sarà, mai, il solo di un virtuoso ma il risultato della spinta dell’intera massa d’acqua. La squadra. Cosi nella vita, le nostre azioni e le nostre scelte non saranno mai veramente, solo, nostre, ma il risultato di un insieme di eventi, relazioni con le quali, volenti o nolenti, ci troviamo ad interagire. Ed è cosi che nasce questo breve saggio, prodotto inconsapevole di passioni, amicizie, amori e dolori. Come un piccolo fiore sbocciato dal fango, improvviso ed inaspettato, in un piovoso mattino di autunno.

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L’inizio.

“Giocare a rugby è così bello che non ci sono cose brutte.

Nemmeno le sconfitte.” Alessandro Troncon

Non è l’abilità di un buon gioco alla mano, la precisione nel calciare un drop o la bruta forza nel placcare l’avversario. E’ dimenticare se stessi. E’ l’atto di coraggio ed altruismo di chi è disposto a metter da parte i propri pensieri ed a sacrificare il proprio corpo pur di condurre l’ovale oltre la linea di meta avversaria. Nel rugby, non si gioca per dar lustro al proprio ego, si gioca per la palla e per la squadra. Correre, passare, poi cadere, spingere e ancora correre, strappare e passare fino a che l’ovale non supera la linea di meta. Tutto avviene così rapidamente che diventa impossibile riflettere su cosa stia succedendo. Se si è in possesso della palla, non si può far altro che correre il più velocemente possibile, dritto avanti a sé, con lo schieramento avversario che farà del tutto per interrompere quella corsa e per impossessarsi dell’ovale. Se la palla è nelle mani del proprio compagno di squadra, bisognerà in ogni caso correre alle sue spalle ed offrirgli sostegno nel caso venga placcato e vada a terra

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con l’ovale o nel caso decida di passarlo e lasciare a chi sopraggiunge il compito di portare avanti il gioco. Se, infine, l’ovale è nelle mani degli avversari, bisognerà, ugualmente, correre nel tentativo di placcare il portatore di palla, limitare la sua avanzata sul campo e magari strappargli il pallone di mano. Il gioco è, chiaramente, sulla palla. Che è pur sempre nelle mani di un uomo. Ecco, quindi, che nel rugby il dualismo uomo-palla è completamente superato. Palla e giocatore sono una cosa sola. Esattamente come lo sono il giocatore e la squadra. Chi decide di tentare un’azione, assumendosene la responsabilità, si porta dietro tutta la squadra. Uomo, palla e squadra formano, cosi, un tutt’uno che muta e si reinventa incessantemente in relazione alle situazioni di gioco. Come nel Samsara, il continuo ciclo di nascita e morte buddista, durante una partita di rugby si nasce e si muore ogni qualvolta il gioco parte per poi fermarsi. In campo non si è mai gli stessi: ogni azione richiede una reazione diversa. Cosi come ogni palla caduta rimbalzerà in modo nuovo ed imprevedibile, altrettanto imprevedibile dovrà saper essere - il portatore di palla, in grado di scartare l’avversario – o il difensore, pronto ad intuire l’azione ed a prenderne attivamente parte. In partita, si nasce e si muore, per poi rinascere e

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morire ancora fino a liberarsi superando la linea di meta. Da spettatore lo pensavo, ora da appassionato praticante ne sono convinto: per segnare una meta non conta solo il gesto atletico, l’agilità nel superare l’avversario, la prontezza nel calciare un up and under o l'abilità nel ricevere un off-load dal compagno di squadra. Ogni cosa deve collocarsi in un perfetto schema che si realizza nell’attimo presente e la cui efficacia finisce nell’attimo passato. Il gioco è qui ed ora, né prima, né dopo. Basta una minima indecisione e tutto s’interrompe. A questo punto vi starete chiedendo cosa c’entri tutto ciò con lo Zen. Allora, la risposta è in due domande. Cosa fareste se foste al centro di un campo, palla in mano e di fronte a voi l’inferocita difesa avversaria che vi carica? Aspettate a rispondere, ascoltate l’altra domanda, un antico e noto koan1 zen che chiedeva: Qual è il suono di una mano sola? Bene, ora avete capito cosa c’entri il rugby con lo Zen. 1 Il Koan è un quesito la cui soluzione può esser trovata solo superando i processi razionali ed affidandosi all’intuito.

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Occasioni.

Semina un pensiero, raccogli un fatto, semina un fatto, raccogli un’abitudine,

semina un’abitudine, raccogli un carattere, semina un carattere, raccogli un destino.

La mia passione per il rugby è nata tardi, o comunque non in gioventù. In passato, almeno in un paio di occasioni, mi sono trovato nei paraggi dello Stadio Flaminio di Roma in coincidenza con le partite del Torneo delle Sei Nazioni. Lo scenario era sempre lo stesso: colorati e pacifici gruppi di tifosi che, pur esibendo maglie e bandiere dai colori opposti, tracannavano birra ridendo e scherzando insieme. Non sono mai stato un tifoso di calcio, ma non è necessario esserlo per sapere quanto odio e quanta violenza si sprigionino ogni domenica, prima e dopo le partite, fuori e dentro gli stadi. Come poteva accadere che nel rugby se le dessero di santa ragione in campo per poi brindare insieme a fine partita? Trovare una risposta, rappresentò per me un valido motivo per approfondire la conoscenza di questo sport. Da ragazzo ero stato un grande appassionato di football americano, iniziando a praticarlo sin dai

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primi anni ’80. Erano gli anni in cui si seguivano gli incontri la domenica mattina, con il commento di Guido Bagatta, e si aspettava con ansia che la sveglia suonasse alle 3 della notte per poter seguire in diretta il Super-Bowl. Gli appassionati del belpaese cominciavano ad organizzarsi ed a riunirsi mentre già prendeva piede l’idea di un campionato nazionale. Ricordo che, nel cercare una squadra con la quale allenarmi, contattai telefonicamente diverse società di rugby. Dopo molti “non so”, mi sentii, addirittura, rispondere “Noi pratichiamo il rugby. Il football americano per quel che ci riguarda neanche è uno sport.” Nonostante fossi poco più che dodicenne, ricordo che questa risposta non solo mi infastidì - la trovai poco cortese - ma soprattutto mi portò a pensare che il mondo del rugby fosse ottusamente chiuso su se stesso e presuntuosamente convinto di rappresentare oggettivamente il meglio che si potesse avere in fatto di sport di contatto. Lo spirito ribelle tipico della mia età e la relativa voglia di andare contro tutto quello che in qualche modo potesse rappresentare un radicato istituto, mi portò così, negli anni seguenti, a nutrire una certa dose di antipatia per quello sport, di fatto, a me sconosciuto. Oggi l’adolescente rivoluzionario ha lasciato il posto all’uomo pacato e concreto che cerca

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l’essenza vera delle cose e che ripensando a quelle parole, le quali sembravano voler screditare un’attività sportiva emergente e come tale possibile rivale, ha capito quanto le stesse manifestassero, in realtà, la profonda convinzione che il rugby – a differenza del football americano - non fosse solo uno sport. Ed è così. Il rugby, è un concentrato di vita. In ogni caso, poi andò che, non ricordo da chi e come, riuscii ad avere il numero di telefono di un tipo che aveva tirato su una squadra di football, i Gladiatori, e per un po’ mi allenai con loro. Forse dietro la solerzia e lo slancio con i quali approcciai, prima, la ricerca della squadra (allora Google neanche era un’idea, ed armato di solo elenco telefonico non vi dico quante telefonate feci!) e, poi, l’attività con essa (in squadra ero diventato la mascotte, essendo l’unico ragazzino), si poteva già intravedere un rugbista in erba. Ma gli eventi della vita si susseguono come i rimbalzi dell’ovale. Non puoi mai prevedere che direzione daranno alla palla. L’idillio con il football americano non durò molto e di lì a poco, misi via, per sempre, armatura, casco e parastinchi. Ma torniamo al rugby. Era l’inverno di qualche anno fa. Fui colto da una brutta influenza che mi costrinse a letto per una settimana. Non sapevo cosa fare di me e dei miei

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acciacchi. Volevo solo dormire e per farlo, in quei giorni, ricorrevo, spesso, ad un efficace rimedio: la televisione. Fu grazie ad essa che mi trovai di fronte al calcio d’inizio di Francia - Inghilterra (24-21). L’ultima giornata dell’edizione 2004 del Sei Nazioni. Iniziai a seguire la partita pur capendo poco o niente di quello che succedeva in campo. La forza, il coraggio e la determinazione di quegli uomini davano vita ad uno spettacolo cosi bello a vedersi che mi lasciai totalmente coinvolgere da esso. La partita fu combattutissima e gli ultimi minuti carichi di una tensione tale da farmi immaginare d’essere il sedicesimo uomo in campo. Dimenticai, così, la bronchite, il raffreddore e la voglia di dormire e rimasi ipnotizzato davanti le partite che seguirono, Irlanda - Scozia (37-16) e Galles - Italia (44-10). Non amo molto guardare la Tv, ma quel giorno l’avrei tenuta accesa fino a consumarne il tubo catodico. Il Torneo si concluse e la cosa sembro finir lì, fino a che un anno dopo non andai in fibrillazione appena iniziarono le vendite dei biglietti per le partite dell’Italia al Flaminio. Risultato: acquistai il prezioso tagliando e di lì a poco mi ritrovai felice a seguire il mio primo prestigioso match di rugby in uno stadio. L’Italia non fece una gran partita; la pesante sconfitta, inflittaci

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da una Francia in gran forma, non fu certo il miglior modo per festeggiare la mia prima volta, ma lo spettacolo fu, comunque, esaltante. Passò cosi anche un altro Sei Nazioni. Non il mio interesse per questo sport che, anzi, andava aumentando. Mi sentivo sempre più a mio agio in quel mondo, con le sue regole, i suoi modi di dire ed i suoi modi di essere. Qualcosa però non riuscivo ancora ad afferrare. O meglio, a sentire. Quella condizione da sedicesimo uomo in campo, per quanto comoda e sicura, cominciò, infatti, a starmi un po’ stretta. Non è possibile conoscere il rugby contemplando una partita. Bisogna giocarlo per apprezzarne le qualità ed il valore e per sapere realmente cosa esso sia. Avrei, quindi, ricominciato con le telefonate se la tecnologia attuale non mi avesse permesso con pochi click e qualche e-mail di ritrovarmi, di lì a qualche settimana, sui campi dell’Acqua Acetosa a correre dietro una palla ovale. Quel che conta è la pratica.

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La pratica.

“Come fai a vedere le cose tanto chiaramente?” chiese il monaco al proprio Maestro

“Chiudo gli occhi.” Quando diversi anni fa mi avvicinai al buddismo iniziai un percorso fatto di incontri, letture e sedute di meditazione. Furono dei ragazzi con i quali suonavo a parlarmi per la prima volta di filosofie orientali ed a propormi di seguirli in una delle riunioni settimanali del gruppo di meditazione da loro frequentato. Incuriosito, li seguii e l’atmosfera del luogo, unita alla cordialità degli altri praticanti mi affascinò profondamente. Presi, quindi, a partecipare io stesso, con assiduità e grande convinzione, a quegli incontri. Recitavamo l’odaimaku, il mantra del Sutra del Loto, pratica introdotta dal monaco giapponese Nichiren Daishonin intorno al 1200, avente lo scopo di condurre alla liberazione attraverso il raggiungimento della propria natura illuminata. Per indole non mi sono mai accontentato di ascoltare una sola voce, cosi, cominciai a documentarmi, autonomamente, scoprendo che il percorso di pratica e meditazione che avevo intrapreso, che io credevo fino ad allora essere il

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Buddismo, rappresentava, in realtà, solo una delle numerose forme e scuole, del Buddismo originale, che da esso si sono sviluppate nel tempo. Chino sui libri, scoprii una filosofia e religione antichissima, che nel corso dei secoli, pur rimanendo fedele ai suoi principi fondamentali, aveva mutato la propria pelle adattandola alle culture dei diversi popoli che via via si avvicinavano alla dottrina. Fu cosi che conobbi lo Zen e la sua complessa semplicità mi spiazzò. “Un sacerdote incontrò un giorno un maestro Zen e, volendo metterlo in imbarazzo, gli domandò: ”Senza parole e senza silenzio, sai dirmi che cosa è la realtà? Il maestro gli diede un pugno in faccia.” Questo breve racconto dà subito l’idea di quale sia la sostanza dello Zen. Dhyana, in sanscrito, lo spirito dell’insegnamento del Buddha - professato dal monaco indiano Bodhidharma - giunse in Cina intorno al VI secolo e qui si diffuse ampiamente col nome di Chan. Da lì raggiunse il Giappone e la pronuncia nipponica ne mutò il nome in Zen. Si divise, poi, nelle due scuole Soto e Rinzai. La filosofia che ne è alla base è molto complessa, ma nello stesso tempo il Satori, il Nirvana o Risveglio - ricercato attraverso la meditazione, nella Scuola Soto - ed attraverso lo studio dei

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koan, nella scuola Rinzai - può giungere inaspettato ed improvviso. Grazie all’intuizione. Abbandonai, quindi, i miei compagni di pratica - lasciando loro l’illusoria convinzione di credere che il dito che indica la luna fosse la luna - e cominciai a frequentare un’associazione Zen Soto, che aveva sede nel cuore di Roma. Praticavamo lo zazen, la meditazione seduta, ed il kin-hin, la meditazione camminata. Tre gli incontri settimanali: due serali ed uno mattutino, all’alba. Insomma, un impegno non indifferente, pari a quello richiesto, anni dopo, dagli allenamenti con la squadra di rugby. Anche qui tre gli incontri. Esclusivamente serali, dopo una noiosa e pesante giornata di lavoro, con il freddo, o il caldo, la pioggia ed il fango a fare da cornice. La sala, il dojo, molto semplice, i tappeti e gli zafu (i cuscini su cui sedersi per meditare) disposti ordinatamente di fronte al muro. Fin dalla prima volta in cui presi parte ad una seduta di zazen, mi resi conto di quanto, oltre all’impegno contemplativo, fosse richiesto uno sforzo fisico non indifferente. Rimanere fermi immobili, per un tempo indefinito, seduti in una posizione non propriamente comoda, richiede, infatti, una gran determinazione e forza fisica. Non a caso si parla di pratica, riferendosi alla meditazione, anche se, di fatto, essa consiste nel

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rimanere seduti immobili con le gambe incrociate e respirare. Nel praticare profondamente e con impegno un’attività, ci si concede ad essa, divenendo un tutt’uno con essa. Fissando con fiducia la mente sull’attività che si sta svolgendo, la qualità dello stato mentale è l’attività stessa. E’ quel che accade sul campo da rugby: chiunque è in campo, non solo è chiamato a svolgere il proprio ruolo, ma deve darsi totalmente, con generosità e coraggio, al gioco. Non è possibile fare altrimenti. Sia nel dojo, durante una sessione di pratica, che in campo, durante una partita, coraggio e generosità vanno, però, adeguatamente sostenuti da una rigorosa disciplina. Un novizio, appena entrato nel monastero, domando al Maestro: “Ti prego, spiegami che cosa devo fare per raggiungere l’illuminazione”. “Hai mangiato la zuppa?” “Si”rispose il novizio. “Allora lava la ciotola!”. L’impegno nella meditazione, la perseveranza nella pratica, l’osservanza delle leggi rappresentano le basi del cammino verso la consapevolezza, cosi come nel campo da rugby la concentrazione, la buona forma fisica e il rispetto delle regole spianano la strada verso la meta. Le sessioni di meditazione, le sesshin, iniziano ben prima di sedersi sullo zafu; si comincia con il dare

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un valore ed una consapevolezza maggiore ad ogni proprio gesto e parola, prima ancora di fare l’ingresso nel dojo. Spogliarsi, indossare la veste (il kesa) ed avviarsi verso il dojo, rappresentano una fase di riscaldamento, di preparazione e raccoglimento in vista dell’impegno che si sta per affrontare, proprio come accade negli spogliatoi o in campo, prima della partita. L’entrata nel dojo, che avviene secondo modalità stabilite, rappresenta un vero e proprio rituale fatto di movimenti rapidi e leggeri. Le calzature vengono lasciate sulla soglia: si entra nel dojo con il piede sinistro, e si esce con il destro. Si raggiunge lo zafu e rivolgendosi al muro si saluta. Si compie, quindi, un mezzo giro su se stessi, verso destra, e si salutano gli altri praticanti. Ci si siede sul cuscino e si incrociano le gambe. Ogni movimento è fatto quietamente, silenziosamente e con profonda concentrazione. Mi chiedevo perchè, nella ricerca della liberazione, si dovessero sprecare cosi tante energie nel fare attenzione a che piede portare avanti, a quando fare l’inchino ed a come sedersi. Mi sembrava paradossale, proprio come può sembrar paradossale la regola di far avanzare un pallone spingendolo continuamente all’indietro. Poi capii che la perfetta libertà non si realizza senza regole. Finché abbiamo regole abbiamo la possibilità di essere liberi.

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I praticanti seduti, uno di fianco all’altro, faccia al muro, si limitano a controllare costantemente la correttezza della propria postura e la regolarità del proprio respiro, che deve essere calmo e profondo. I pensieri devono esser lasciati liberi di fluire, senza cercare in alcun modo di controllarli o di arrestarli. Cosi facendo si giungerà ad un silenzio mentale, ku - la vacuità, il vuoto - nel quale il risveglio e la consapevolezza dell’attimo presente arriveranno come un’improvvisa folata di vento, silenziosa ed invisibile, che attraversa ogni cosa. Anche il più pesante e cattivo pacchetto di mischia. Raggiungere il ku, il vuoto mentale, vivendo solo nell’attimo presente, il qui ed ora, equivale a liberarsi di quelle costruzioni mentali inutili, in una vita e in un gioco che di prevedibile non hanno molto. L’esempio è quello del giocatore che di fronte ai rimbalzi dell’ovale, cerca razionalmente, di calcolare, in un infinitesimo di secondo, la direzione che la palla avrà al successivo rimbalzo. Altrettanto fa il praticante di zazen cercando di afferrare i propri pensieri. Più ci si accanisce, più i pensieri aumentano, amplificando il senso di frustrazione e disagio. Il buon giocatore di rugby, come il buon buddista, non pensa. Agisce. E’ al di là della ragione. Ed in campo non cerca di capire. Ma intuisce. Per farlo deve, però, aver assimilato, con

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disciplina, le regole, le tattiche e tutti quegli elementi necessari ad un buon gioco. Fatto questo avrà la velocità del lampo capace di annientare ogni cosa. E quella cosa sarà già a terra quando arriverà il tuono a spiegargli cosa è successo. Sedere in zazen è anche un ottimo modo per imparare a restare. Si medita senza avere la cognizione del tempo che passa. Si potrebbe esser lì da tre minuti o da tre quarti d’ora. Gli unici segnali del tempo che sta passando sono fisici - le gambe che si addormentano, gli occhi che lacrimano - e mentali, i pensieri che diventano via via più radi e lenti. Succede allora che, sopraffatti da pensieri ossessivi o esasperati da insopportabili formicolii, possa venir voglia di mollar tutto e di alzarsi. Ma restare è l’unico modo per affrontare il disagio, fisico e mentale, e trovare il modo per risolverlo. La soluzione, paradossalmente, arriverà quando, serenamente, si smetterà di cercarla. Subire un placcaggio e restare in una ruck, schiacciati nel fango sotto quintali di muscoli, richiede una grande serenità e pazienza. Non ci si può muovere. Qualsiasi tentativo si faccia per uscire da quel groviglio umano può peggiorare le cose. Non resta altro che respirare. Ed esser pronti a riprendere a correre quando l’ovale verrà fuori ed il mediano di mischia riaprirà il gioco. Restare, è anche la tenacia e la determinazione con

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le quali la squadra, sotto di 20 punti a due minuti dalla fine, continua ad attaccare ed a placcare. Apparentemente senza scopo. Essere nel qui ed ora, giocare e vivere ogni istante come fosse unico, senza pensare né al prima né al dopo. Né, tanto meno, al risultato. Il vuoto mentale diventa nello Zen la capacità di liberare la propria mente da pensieri passati e futuri e lasciare cosi spazio alla totalità del presente. La mente vuota è, paradossalmente, in grado di accogliere tutto ciò che esiste nella realtà dell’istante in corso. Nan-In ricevette la visita di un professore universitario che era andato da lui per interrogarlo sullo Zen. Nan-In servì il tè. Colmò la tazza del suo ospite, e poi continuò a versare. Il professore guardò traboccare il tè, poi non riuscì più a contenersi. “E’ ricolma! Non ce n’entra più!” “Come questa tazza” disse Nan-In, ” tu sei ricolmo delle tue opinioni e congetture. Come potrai capire lo Zen, se prima non vuoti la tua tazza?” Il concetto di vuoto non va inteso, quindi, nell’accezione negativa di mancanza o privazione ma come qualcosa di estremamente dinamico, stato germinale di tutte le cose, condizione d’ogni possibilità, contenitore del Tutto. Vuotare se stessi per poter essere in grado di accogliere il resto ed essere una sola cosa con esso. Non più un’entità separata ma interconnessa, un’entità la

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cui sostanza ed essenza vive e si modifica, incessantemente, in relazione al Tutto. Senza l’adeguato sostegno è difficile guadagnare metri e mantenere il possesso della palla. In una maul, come in una mischia ordinata l’energia generata è sprigionata da un giocatore che spinge e protegge l’ovale o da più giocatori legati insieme che si muovono e spingono in perfetto equilibrio e sintonia? La verità, la meta, può essere raggiunta solo attraverso il superamento dell’individualità.

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Le leggi.

Se comprendiamo la realtà, per noi non esiste più, né l’uomo né la legge.

Shakia Muni – il Buddha – insegnò che il cammino verso la verità ha inizio dalla conoscenza delle Quattro Nobili Verità, ossia:

1. La vita è sofferenza. 2. La causa della sofferenza è il desiderio,

l’attaccamento. 3. Si può estirpare la sofferenza liberandosi

dall’attaccamento. 4. Il mezzo mediante cui raggiungere la

liberazione: l’Ottuplice Sentiero.

L’Ottuplice Sentiero è un percorso che si realizza con: 1. Retta Comprensione, 2. Retto Motivo, 3. Retta Parola, 4. Retta Azione 5. Retto Sostentamento, 6. Retto Sforzo 7. Retta Consapevolezza 8. Retta Meditazione

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1. Comprendere profondamente la dottrina. 2. Porre il giusto impegno ed atteggiamento

al fine di liberarsi dall’attaccamento. 3. Utilizzare la parola in modo meditato e

responsabile. 4. Agire senza fini egoistici, quindi,

sostenersi senza arrecare danno o sofferenza al prossimo.

5. Perseverare con un corretto ed equilibrato impegno nel cammino verso la liberazione.

6. Mantenere la mente priva di confusione e non influenzata dall’attaccamento.

7. Assumere il corretto atteggiamento che porta alla totale padronanza di se stessi.

8. Praticare con assiduità e consapevolezza. Altro pilastro della filosofia buddista è il concetto di Karma: ogni effetto ha una causa e la vita di un uomo è il risultato finale dei suoi precedenti atti e pensieri. Ogni uomo è, quindi, l’autore delle cause le cui conseguenze attualmente subisce. Quando nel 1823 sul campo della scuola della cittadina di Rugby in Inghilterra, William Webb Ellis, prese la palla e cominciò a correre, non si preoccupò minimamente delle leggi. Anzi, il suo gesto, se consapevole, aveva chiari intenti

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sovversivi. La sua fu, di certo, una corsa libera, senza regole. Liberatoria. Ma cercare di ottenere la libertà senza esser consapevoli delle regole non ha alcun significato. Cosi le regole arrivarono. E furono molte. Tanto che ancora oggi diversi giocatori di levatura mondiale sostengono di non conoscere l’intero regolamento. Ma, a differenza delle regole, le leggi sono poche. Proverò a trasporre i precetti buddisti applicandoli al mondo del rugby.

1. In partita si soffre. 2. La causa della sofferenza sono la fatica

fisica e la frustrazione. 3. La fatica e la frustrazione si possono

superare. 4. Il mezzo attraverso cui liberarsi: la giusta

pratica. La giusta pratica si realizza seguendo questi concetti fondamentali: 1. Retta Comprensione 2. Retto Motivo 3. Retta Parola 4. Retta Azione 5. Retto Sostegno 6. Retta Sforzo 7. Retta Consapevolezza 8. Retta Preparazione

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1. Comprendere il gioco e rispettare sempre l’avversario.

2. Partecipare ad ogni azione del gioco libero da ogni desiderio egoistico.

3. Utilizzare la parola in modo meditato e responsabile. Mai contestare l’arbitro o l’operato di un compagno di squadra.

4. Non puntare alla meta, senza porre attenzione a ciò che separa da essa.

5. Sostenere sempre l’azione dei propri compagni di squadra.

6. Mantenere la mente priva di confusione, quindi non influenzata dall’attaccamento egoistico all’ovale.

7. Essere costantemente presenti nel gioco, fisicamente e mentalmente.

8. Preparare il proprio fisico con costanza e dedizione.

Il Karma: ogni effetto ha una causa e l’azione di un giocatore è il risultato finale dei suoi precedenti atti e pensieri. Non giocando per se stesso ma per la squadra, il giocatore è, e deve essere, ancor più responsabile del proprio gioco.

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L’avversario.

Se tentate di mandar via l’illusione, essa resisterà ancora di più.

Sedere in zazen è stato definito un “duello mortale”: solo pensando ad esso come ad un’ultima sfida, si potrà coglierne il giusto spirito, ossia, la consapevolezza del momento presente. E’ lo stesso atteggiamento del giocatore di rugby: quando entra in campo non può partecipare ad un’azione conclusa e non può esser certo di prendere parte alla prossima azione che verrà. Tutto è in movimento ed il movimento è cosi veloce da impedire qualsiasi attività che non sia reale. Qui ed ora. Come zazen rappresenta un percorso progressivo verso il Risveglio - per quanto abbiamo detto che il Satori, è frutto dell’intuizione, e come tale può arrivare improvvisamente - cosi in una partita di rugby, le squadre praticano il gioco, costruendo progressivamente, azione per azione, il cammino verso la meta. Che come l’illuminazione, può, comunque, arrivare improvvisa, grazie all’intuizione. Quando un tre-quarti sfonda la linea di difesa, trovando un varco e correndo per 50 metri come il vento, sfido chiunque a dire che il

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tre-quarti quel varco lo abbia visto. Lo ha intuito. Un attimo prima che la difesa avversaria si aprisse, lui sapeva già cosa sarebbe successo. E prendeva a correre, senza esitazione. La via non deve essere cercata ma praticata. Un monaco chiese al proprio maestro: “Maestro, come posso accorgermi che sto per raggiungere l’illuminazione?” "Ti è appena sfuggita, mentre eri intento a pormi questa domanda.”. Spesso riferendosi ai casi della vita, si sente dire: “…sì, quello ha avuto fortuna, era al posto giusto nel momento giusto…”. Sarà veramente così? Io non credo. Tutti noi siamo nel posto giusto al momento giusto (sarebbe meglio dire che non c’è un posto sbagliato, e non c’è un posto giusto). Ma non tutti lo sappiamo. Perché attaccati alle convinzioni, ai pensieri, ai pregiudizi ed alle paure. Le occasioni fuggono, come la felicità, come il Risveglio. E come l’ovale ti rimbalzano attorno in maniera imprevedibile. Nessuna esitazione, nessuna remora. Ogni pensiero, ogni tentativo di razionalizzare il presente significa perdere tempo. Ed il presente è divenuto passato, mentre il futuro è già presente. La difesa si è nuovamente organizzata ed il varco è chiuso. La consapevolezza diventa, quindi, la capacità di, non solo, essere profondamente liberi e capaci di vedere le cose per quello che realmente

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sono ma, soprattutto, la capacità di superare il dualismo ed il desiderio egoistico dell’affermazione dell’IO personale; quindi l’attaccamento nella sua forma peggiore. L’attaccamento al proprio ego. Un giovane andò da un Maestro e gli chiese: “Quanto tempo potrò impiegare per raggiungere l’illuminazione’?” Rispose il Maestro: “Dieci anni”. Il giovane era sbalordito. “Cosi tanto?” domandò incredulo. Replicò l’altro: “No, mi sono sbagliato, ci vorranno vent’anni.” Il giovane chiese: “ Perché hai raddoppiato la cifra?” Allora il Maestro spiegò: “Adesso che ci penso, nel tuo caso non ne basteranno trenta.”. In zazen, grande importanza è data al respiro. In particolare il controllo delle fasi di inspirazione ed espirazione. Immaginiamo il praticante come fosse una valvola che si apre e si chiude lasciando prima entrare l’aria e poi facendola fuoriuscire. L’operazione si ripete continuamente, senza sosta. Sempre uguale. Il respiro, però, varia il proprio ritmo in funzione dello stato psicologico e fisico del praticante. Avremo, cosi, un respiro corto e veloce, in ragione di uno stato di affaticamento, paura, ansia o un respiro più profondo e lento, segno di una diffusa calma e serenità. In entrambi i casi abbiamo un continuo fluire, un movimento incessante. Una cosa resta, però, ferma e non subisce alterazioni

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indipendentemente dallo stato mentale e/o fisico. E’ quell’infinitesimo istante che intercorre tra l’inspirazione e l’espirazione. In cui tutto è immobile. In cui si può avere la perfetta, chiara visione della realtà. E’ in questo preciso momento che Tutto diviene Uno, che gli opposti si ricongiungono. L’imprendibile frazione di tempo nella quale le due linee degli avanti vengono a contatto generando una forza ed un’energia impressionanti. Su quella che nel rugby è la linea del fuorigioco e nel buddismo è la Via di Mezzo, praticata e professata dal Buddha. Il bramino Dona vide il Buddha seduto sotto un albero e fu tanto colpito dall'aura consapevole e serena che emanava, nonché dallo splendore del suo aspetto, che gli chiese: ”Sei per caso un dio?” "No, non sono un dio.” ”Allora sei un angelo?” ”No dovvero.” ”Allora sei uno spirito? ”No, non sono uno spirito.” ”E allora, che cosa sei?” ”Io sono sveglio.” E’ percorrendo la Via di Mezzo che, inspirazione-espirazione, interno-esterno, bene-male, vittoria-sconfitta, tutte le divisioni crollano e la Verità diviene Una. Il buon giocatore deve, quindi, essere sempre in grado di giocare mettendo da parte il proprio ego-ismo. Se ha un buon gioco, è

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facile ne divenga orgoglioso. Al buon gioco, ha cosi aggiunto qualcosa in più. L’orgoglio. Diventerà presto, lento e pesante. Dovrà sbarazzarsi di ciò che è di troppo. Il desiderio di affermare l’IO, di vivere in esso, di attaccarsi ad esso, identificandosi in esso invece che nell’IO universale, la squadra, non conduce che a qualche scialba meta. Un giorno Chao-chou trovò un discepolo inchinato davanti ad una statua del Buddha e lo colpì con un bastone. Il monaco protestò: “Non è un atto meritorio adorare il Buddha?”. “Si,” rispose il Maestro “ma è ancora più meritorio lasciar perdere gli atti meritori.”

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Nella mischia.

Il fiore di loto sboccia nello stagno fangoso. Lo spettacolo di una mischia - in particolare della ruck - può apparire, agli occhi di chi non conosce il rugby, come l’esaltazione della violenza e dell’anarchia. Uomini ammassati l’uno sull’altro e l’uno contro l’altro, che si spingono e si urtano con rabbia e violenza, apparentemente a cercare una palla di cui non s’intravede neanche l’ombra. Se poi a questo aggiungiamo un campo fangoso, ecco che quegli uomini, non vengono neanche definiti tali. Diventano animali. Gli appassionati del gioco, e ancor di più chi il gioco lo pratica, sanno che le cose in realtà non stanno, propriamente, cosi. Una volta formatosi un raggruppamento a terra, la ruck, o un raggruppamento in piedi, la maul, i giocatori che ne prendono parte lo fanno legandosi secondo modalità ben collaudate. Il groviglio umano è quindi ben organizzato e per niente caotico. Gli avanti che accorrono a ripulire si legano, andando a coprire e a proteggere la palla messa a disposizione dal giocatore placcato, che appena a terra deve lasciare l’ovale.

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Liberarsi dal desiderio di possesso e lasciare la palla certi e fiduciosi del sostegno della propria squadra è un gesto importante. Richiede coraggio. E, soprattutto, consente di non sentirsi fischiare una punizione contro per palla trattenuta. Nella ruck non c’è, quindi, l’uomo contro uomo, ma due schieramenti che si oppongono. Piuttosto un muro contro muro, lungo una linea immaginaria - quella del fuorigioco – chi difende la palla contro chi difende il proprio terreno. Si può entrare in una ruck, ma solo da dietro al raggruppamento già formato, mai lateralmente, pena un calcio di punizione contro. In zazen il praticante siede frontalmente al muro. Anche qui è un muro contro muro, il praticante che cerca di difendere il proprio ego dallo spazio vuoto e privo di riferimenti del muro bianco che ha di fronte. Dimenticare il muro, dimenticare il limite che esso impone, liberarsi dai condizionamenti mentali e dall’errata paura del nulla, genera la consapevolezza e l’intuizione necessaria per attraversare il muro stesso. E condurre l’ovale in meta. Un monaco si lamentò con il suo maestro perché non riusciva a raggiungere il Satori."La colpa è tua" gli rispose il maestro. "In che cosa sbaglio? Che cosa mi manca?" domandò l'allievo. "Vieni con me, e te lo mostrerò."

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Il maestro chiamò un altro discepolo, che era cieco, e tutti e tre si recarono sulla montagna, in un punto in cui uno stretto tronco era stato gettato su un burrone. "Attraversa!" disse il maestro al primo monaco. Il poveretto guardò il fondo del burrone, il debole tronco e rispose: "Non posso: ho paura". Allora il maestro si rivolse al discepolo cieco e gli diede lo stesso ordine. Il monaco attraversò senza esitare il burrone. "Hai capito?" domandò il maestro al primo monaco. È sempre la paura il sentimento che si oppone al nostro risveglio: la paura di essere autonomi, la paura dell'ignoto, la paura di perdere il proprio ego, la paura della responsabilità. Eppure, per colmare il divario, per raggiungere l'altra riva, è necessario affrontare l'abisso; e questo non può essere fatto se non si eliminano i mille timori che ci accompagnano nell'attraversamento. Il coraggio è indispensabile sulla Via della liberazione, come, d'altronde, in tutte le imprese fondamentali della vita. Nella maul lo scenario da apocalisse della ruck si ripete, con la sola differenza che quella massa informe di muscoli e nervi tesi è in piedi sulle gambe. Ed avanza. E’ un lavoro di spinta. Richiede massa, quintali di forza fisica. Ma anche determinazione. Spingere, senza mai esitare con la mente vigile ed il corpo pronto ad approfittare d’ogni minimo

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cedimento dello schieramento avversario. Anche qui le tecniche, driving maul o rolling maul - muovere la palla o sostituire il portatore all’interno della maul stessa - implicano regole, la cui consapevole applicazione può far guadagnare o far perdere terreno. Ci sono poi le mischie ordinate. Ossia quelle nelle quali se le danno di santa ragione, ma in modo ordinato. Non è proprio cosi. O forse si. Le mischie sono ordinate dall’arbitro, che in determinate situazioni fa riprendere il gioco partendo appunto da una mischia. Il caso tipico è quello dell’in avanti. Ossia quando l’ovale non viene controllato dal giocatore e cade, appunto, in avanti o quando, più raramente, viene volutamente passato in avanti. Similmente alla maul, nella mischia ordinata la capacità di spinta e la forza del pack (il pacchetto di mischia - le tre linee degli avanti) assumono un ruolo fondamentale. Per citare sempre qualche regola, è importante – pena il fermo del gioco e/o la perdita della rimessa della palla – che la mischia non venga volontariamente fatta crollare o ruotare. Gli inglesi affermano che più che un esercizio di forza, la mischia ordinata rappresenta un esercizio mentale. Touch, crouch, pause, engage! L’ingaggio, un qui ed ora comandato. Un koan senza koan.

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Anche il fango - verso il quale non si ha certo una disinvolta predisposizione a rotolarcisi dentro, a meno di non essere bambini o, appunto, rugbisti - ed in particolare il rapporto con esso può offrire lo spunto per far proprio un importante insegnamento. Sembra ridicolo ma, almeno, la prima volta è così: si va a terra e si resta lì ad imprecare guardando i pantaloncini bianchi - oramai marroni - o la bellissima maglia a righe nuova - che non è più né a righe né nuova - mentre i tuoi compagni di squadra imprecano contro te che resti lì ad imprecare anziché correre. La seconda volta, ti sei fatto furbo, ed imprechi correndo. La terza, ti tuffi nel fango per schiacciare in meta. E neanche ti accorgi del fango. Superare la repulsione per il fango - significa andare oltre il dualismo pulito-sporco, bello-brutto, nuovo-vecchio. E’ quindi un modo, molto semplice, per mettere da parte il proprio ego, il proprio desiderio di apparire e vedere le cose per quello che realmente sono. Né pulite, né sporche. Proprio come le vede un bambino.

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Passaggi.

Interrompendo le parole, e interrompendo i pensieri,

non c’è luogo che non venga attraversato.

Il modo di passarsi la palla, nel rugby, è tra le cose che più lo rendono particolare e lo distinguono da altri sport. Anzitutto il passaggio con le mani può avvenire solo all’indietro. Inoltre la palla non è colpita o schiaffeggiata, tranne che in alcuni e quanto mai spettacolari casi che se ben riusciti risolvono l’azione. L’ovale passa saldamente di mano in mano con estrema velocità, con l’effetto di spostare rapidamente il gioco lungo il campo e favorire, quindi, l’avanzata della squadra che ha il possesso della palla. E’ un movimento nel movimento e richiede gran coordinazione fisica e mentale. La palla viene, nella maggioranza dei casi, passata mentre si è in corsa, eccezion fatta per il passaggio d’apertura fatto del mediano di mischia, quando l’ovale esce da un raggruppamento, o il lancio della touche da parte del tallonatore. Il giocatore è in corsa, leggermente indietreggiato rispetto al portatore di palla, e tende le braccia in direzione del compagno con le mani bene in vista. Appena

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ricevuto il pallone ed aumentato il proprio passo - o lo cede velocemente, compiendo sempre in corsa una parziale oscillazione delle spalle e delle braccia (come fossero un pendolo) cosi da lanciare a sua volta l’ovale al compagno che sopraggiunge - o tenta di sfondare la difesa avversaria andando dritto come un fuso. Se ha ceduto la palla è importante che riduca la velocità della sua corsa, riportandosi dietro la linea del fuorigioco ossia alle spalle dell’attuale portatore di palla, cosi da poter rientrare in gioco ed offrire sostegno al compagno. Oltre all’impegno fisico sono richieste un’ottima capacità spaziale ed una grande prontezza di riflessi: il portatore di palla lanciato contro la difesa avversaria, deve prestare attenzione ad essa, impegnare l’avversario che ha di fronte il più possibile fino quasi ad arrivare al contatto per poi con una finta scartarlo o - avendo ben presente la posizione di chi sopraggiunge a sostenerlo - passare il pallone al compagno di squadra. Un pellegrino si mise in cammino per incontrare un saggio Maestro. Durante il viaggio teneva lo sguardo fisso verso la cima del monte dove sperava di trovare la serenità spirituale. Per questo motivo non vedeva le pietre che si trovavano sul sentiero, e fini con l’inciampare su una di esse.

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La palla può essere passata facendola roteare - il cosiddetto spin pass - o con un passaggio più morbido dal basso verso l’alto - il pop pass. In entrambi i casi, il lancio deve essere teso e diretto verso le mani del compagno al quale si sta passando. Il passaggio è un gesto di generosità, coraggio e fiducia nei confronti dei compagni di squadra. L’ovale va passato per garantire continuità al gioco - dando vita ad un’azione che porti ad un vantaggio, sia esso terreno guadagnato o mantenimento del possesso - e mai per il timore di subire un placcaggio. Questa paura porterebbe all’esitazione e conseguentemente ad un passaggio errato o, addirittura, all’intercetto della palla stessa da parte dell’avversario. Il passaggio rappresenta un momento unico e fondamentale in un’azione corale: cosi inteso, permette, ad ogni giocatore, d'essere consapevole del proprio esser parte di una squadra e mettere via l’attaccamento al desiderio di realizzazione personale. La goccia d’acqua nell’oceano non raggiungerà mai nessuna riva se non sostenuta da altre gocce d’acqua.

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Rimbalzi.

Se camminate, ebbene camminate. Se sedete, ebbene sedete.

Ma non vacillate.

Un giovane giocatore alle prime armi spazientito per il suo scarso rendimento in campo esclamò: “Maledizione, perché giocare con questa dannata palla ovale. E’ impossibile da raccogliere…non riesci a prevederne mai la direzione!”. L’allenatore, che si trovava dietro di lui, lo apostrofò: “Perché, forse tu sei in grado di prevedere cosa ti accadrà domani?” Da allora il ragazzo smise di lamentarsi e le sue prestazioni in campo migliorarono rapidamente. Superò il problema - dei rimbalzi impossibili – non più opponendosi ad esso, ma accettandolo. Vivere e giocare con la consapevolezza delle cose, delle situazioni, per quello che sono realmente - né giuste né sbagliate - e non per quello che il nostro desiderio egoistico vorrebbe che fossero, ci consente di affrontarle con la gioia e la forza di un uomo libero. Accettare i rimbalzi della palla, della vita senza attaccamento è il modo migliore per fronteggiarli. Con l’intuito. Ciò non vuol dire vivere alla giornata, nell’accezione negativa che

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spesso diamo a questo concetto, ma significa liberarsi dalla sofferenza e dalla frustrazione che giungono nel momento in cui i nostri desideri, le nostre aspettative non si realizzano. Smetterla di essere schiavi di se stessi e delle proprie convinzioni. L’attaccamento ed il desiderio d’affermazione del nostro Io non fanno altro che allontanarci dalla verità e dalla condizione di esseri liberi. Due monaci camminavano, quando giunsero sulla riva di un fiume dove una giovane donna era in attesa, nella speranza che qualcuno l’aiutasse a traversarlo. Senza esitare, uno dei monaci la sollevò e la portò attraverso il fiume, deponendola sana e salva sull’altra riva. I due monaci ripresero il loro cammino, e dopo qualche tempo, il secondo non riuscì a trattenersi e disse al primo: “Sai che non ci è consentito toccare donna. Perché hai portato quella donna oltre il fiume?”Il primo monaco replicò: “Mettila giù. Io l’ho già fatto due ore fa.”

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Al piede.

Non puoi percorrere il sentiero prima di essere diventato il sentiero stesso.

La prima volta che calciai un drop rimasi quasi stupefatto. Il calcio fu perfetto, teso e, nonostante la distanza considerevole, andò dritto a centrare i pali. Ad esso seguirono una lunga serie di calci brutti, imprecisi. Insomma, sbagliati. Cosa mi succedeva? Avevo forse cominciato a pensare che la palla fosse ovale? Quindi difficile da controllare? A pensare che dovevo prestare attenzione a come farla rimbalzare sul terreno, alla forza che avrei dovuto darle nel lanciarla a terra. E poi, dovevo lanciarla o lasciarla cadere? Ed ancora, dovevo fare attenzione al movimento della gamba destra, a quando calciare; prima di lasciar cadere la palla - o lanciarla? - o nello stesso istante? E l’altra gamba? La sinistra? Alla fine, per quanto potessi darmi delle risposte e metterle in pratica correttamente, il risultato – ossia il calcio - non era mai quello giusto. Un buon drop, come un buon passaggio o una qualsiasi buona azione, deriva, sì, dalla perfetta padronanza della tecnica - quindi frutto di allenamenti specifici - ma dall’applicazione meccanica della stessa.

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Ripetere un drop, mille volte fino a consumare lo scarpino, consente l’attivarsi di un automatismo per il quale quel gesto viene eseguito senza l’ausilio di una qualsiasi funzione mentale. In partita, altre occasione per calciare sono date dalla trasformazione che segue alla meta o dall’assegnazione di un calcio di punizione. In entrambi i casi, a differenza del drop, il calcio piazzato risulta, almeno sulla carta, più semplice in quanto sia la palla che i giocatori in campo sono fermi. E’ curioso come ogni atleta abbia i suoi modi per trovare la giusta concentrazione necessaria a tirare il giusto calcio: chi fa tre passi indietro, descrivendo ogni volta sempre lo stesso angolo, chi tiene le mani giunte come se pregasse. Sono gesti meccanici, che non richiedono alcuna attività mentale e consentono al calciatore di disfarsi di ogni pensiero che andrebbe inevitabilmente a frapporsi tra la palla e i pali. Pensare non serve, solo calciare. Un monaco si rivolse così al proprio maestro: “Maestro, trovo una grande pace nella meditazione, ma la smarrisco quando ritorno ai miei doveri quotidiani”. “Devi far sì che ogni tuo gesto sia meditazione, tieni la mente concentrata sulle azioni che stai svolgendo e non permettere che altri pensieri ne distolgano l’attenzione”. “Grazie non ci avevo pensato, bisogna che mi ricordi di pensarci ogni volta che faccio qualcosa.”

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Confini.

Se hai paura di perdere,

non oserai vincere.

Come per il dojo, il campo di rugby deve essere sentito come un luogo speciale, al cui interno concentrazione e consapevolezza devono essere delle costanti. In quanto luogo, lo distinguiamo e lo separiamo da un resto per mezzo di confini. Le nostre potenzialità fisiche e mentali sono mediamente infinite, mentre le nostre capacità di agire, inevitabilmente, limitate dal mondo con il quale interagiamo. Il campo è il mondo. La partita è la vita. Siamo noi a deciderne l’esito, nei limiti che il mondo reale ci impone. Uscire dal campo equivale ad andare oltre ciò che è possibile. Ecco perché, quando l’ovale esce dal campo o il giocatore che ne è in possesso è con i piedi fuori dalla linea laterale, il gioco s’interrompe. La palla passa cosi alla squadra avversaria che la rimetterà in gioco con la touche, cercando di mantenerne il possesso. Penalizzare la squadra che ha fatto uscire l’ovale dal campo, significa riportarla ad una maggiore attenzione al campo ed alla partita che sono, come il mondo e la vita, profondamente e strettamente

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interconnesse. Oltrepassare i confini è segno di una visione dualistica errata, che le considera come entità separate. Questo accade quando si esita, quando, cioè, si ha paura. Durante zazen, può accadere che se il Maestro nota un praticante in difficoltà, stanco e fisicamente provato, gli assesti, con il kyosaku - bastone simile ad una mazza da cricket - un sonoro colpo sul trapezio, fra il collo e la spalla. Questo gesto, interpretabile come una punizione, è, invece, sempre ben accetto. A volte richiesto dallo stesso praticante. Consente di sciogliere ogni resistenza, attaccamento alla fatica e al dolore, per poter riprendere a meditare con maggior vigore. E’ il kyosaku a sollecitare una reazione e non il Maestro. E’ la rimessa in touche a generare una reazione non la squadra che la gioca. La bastonata e la touche a sfavore, pertanto, possono e devono rappresentare un vantaggio. Il vantaggio di riprendere la meditazione liberi dalle tensioni ed il vantaggio di riorganizzare le energie necessarie a riconquistare l’ovale ed a sferrare un nuovo attacco. Nel rugby vince chi domina il campo, chi è, in altre parole, in grado di guadagnare più terreno possibile. E’ un gioco di tattica e strategia - qualcuno sostiene che il rugby è come una partita di scacchi giocata in velocità - cosicché la posizione

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dell’uomo e dell’intera squadra deve essere consapevole in ogni momento e fase di gioco. Si gioca la touche anche quando la palla fuoriesce a seguito di un calcio. La rimessa avverrà nel punto in cui è uscita la palla, se il calcio è dato all’interno dell’area dei 22 mt. della squadra che calcia, o altrimenti, dal punto in cui si è calciato, a meno che prima di uscire il pallone non sia rimbalzato all’interno del campo; nel qual caso la rimessa avverrà sempre nel punto d’uscita. Solo spiegarlo è difficile. Del resto, in partita come nella vita nulla è facile ed il miglior risultato è quello raggiunto con impegno e fatica. Solo cosi il risultato non sarà più il fine ma il mezzo. Per essere uomini migliori. Ed il rugby insegna ad esserlo.

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Il Terzo Tempo.

La Via perfetta non conosce difficoltà, esclude solo ogni preferenza.

Ciò che distingue il Rugby rispetto ad altri sport di squadra, è il cosiddetto Terzo Tempo, ossia, quella fase del dopo partita nella quale le due squadre avversarie e le tifoserie opposte si ritrovano insieme a bere e a mangiare. Insomma, a festeggiare la conclusione delle ostilità in campo.

Il nome stesso con il quale si è voluta identificare tale fase, la dice lunga sullo spirito del rugby. Terzo tempo sottintende, infatti, un continuum con i due tempi precedenti, primo e secondo, nei quali le due squadre si affrontano, lealmente, ma senza esclusione di colpi, fino al fischio dell’arbitro che pone termine alla parentesi agonistica per dare inizio a quella festosa, dove vincitori e sconfitti, non più rivali, brindano alla pace ritrovata. Il Terzo Tempo va quindi inteso come parte integrante dell’evento-partita. Se non ci fosse il Terzo Tempo, il Rugby non sarebbe quello sport nobile, sincero e leale che noi tutti conosciamo. Le ferite della partita, non rimarginate da un buon boccale di birra condiviso

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con coloro contro i quali quelle ferite si sono aperte, finirebbero per non cicatrizzare, fare infezione e produrre cattiveria; quella cattiveria che porta alla paura e genera rancori e risentimenti. Senza quel bicchiere di birra, bevuto per sete e per puro piacere, ci troveremmo a fare i conti con la frustrazione di chi ha perso e l’atteggiamento da grandeur di chi ha vinto, entrambi espressioni di un’errata comprensione dello spirito del rugby. E della vita. Al contrario, riconoscere le qualità di chi - sconfitto, si è battuto fino alla fine, cosi come riconoscere i meriti di chi - vittorioso, ha dimostrato un miglior gioco, è segno di grande umiltà e generosità. E’ cosi che nel Terzo Tempo i pensieri dualistici perdono la loro efficacia e l’atto di condividere diviene mezzo con il quale abbandonare ogni divisione e lasciare spazio alla spontaneità di una sana risata. Ridere è un atto filosofico, un atteggiamento verso la vita. E’ il miglior modo per scardinare le convinzioni assolute verso sistemi e categorie e creare una coscienza diversa nel proprio rapporto con la vittoria e con la sconfitta. Come dicono alcuni Maestri, ridere è lo Zen.

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Postfazione. Un uomo si recò presso un famoso Maestro Zen: “Accoglimi, ti prego. Voglio diventare un buddista” “E perché vuoi fare questo?”chiese il Maestro “Per trovare me stesso!”rispose l’uomo. “Ed in che modo speri di riuscire?”incalzò il Maestro. “Seguendo le orme del Buddha” “Forse che il Buddha era un buddista?” Giocare a rugby non significa diventare un rugbista. Occorrono doti quali il coraggio, la lealtà, lo spirito di sacrificio e la generosità. Il coraggio di affrontare lo scontro, la lealtà nel contrapporsi al proprio avversario, il sacrificio di metter da parte ogni personale ambizione e la generosità di dare tutto per la squadra. Solo così facendo, colui che gioca, potrà intraprendere il cammino che lo condurrà, passo dopo passo, alla meta e alla libertà, consapevole che entrambe, sono qui ed ora. In ogni passo che compie.

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Indice

Pag. 5 Prefazione

7 L’inizio

11 Occasioni

17 La pratica

27 Le Leggi

32 L’avversario

38 Nella mischia

44 Passaggi

48 Rimbalzi

51 Al piede

54 Confini

58 Il Terzo Tempo

61 Postfazione

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Nota bibliografica. Citazioni ed informazioni sono state tratte dai seguenti libri: L. Arena, Antologia del buddhismo Ch’an, Oscar Mondadori, 1994; S. Suzuki, Mente Zen mente di principiante, Ubaldini Editore, 1976; C. Humpreys, Il Buddhismo, Ubaldini Editore, 1964; Y.Daishi, Il canto dell’immediato Satori, Oscar Mondadori, 1994; T. Deshimaru, Il vero Zen, Oscar Mondadori, 1994, T. Hoover, La cultura Zen, Oscar Mondadori, 1981.

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La mia riconoscenza: al Rugby ed a tutti coloro ne sono appassionati,

all’amico Gigi Careri, grande tifoso, alla Rugby Sacrofano,

alla Rugby Lazio Acqua Acetosa, al Centro Zen “L’Arco” di Roma,

allo Zen e a chi lo vive.

© Copyright 2008 Michele Mancaniello Responsabile della pubblicazione

Michele Mancaniello

Grafica ed impaginazione Michele Mancaniello

Foto di copertina: http://rugby-pioneers.blogs.com

Foto interne: http://www.sporting-heroes.net